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Genetica agraria 01/03 donatella.paffetti@unifi.

it esame: orale (una domanda per ogni sezione, 3


domande totali, e argomento a piacere)
Sezione 1: la cellula vegetale

Il termine cellula nasce in ambito vegetale, grazie al fisico inglese Rober Hooke, successivamente viene esteso a tutti gli altri
organismi. Esso osservando una sottile scheggia di sughero con un nuovo microscopio di sua invenzione, si accorse che essa
appariva composta da tante piccole celle affiancate, delimitate da una parete sottile e trasparente. Le cellule vegetali sono spesso
viste come “mattoncini” rigidi, per via della presenza della parete, questo però non è vero in quanto queste sono entità dinamiche,
così come le loro pareti, e rispondono a stimoli endogeni e ambientali, sia biotici che abiotici. Un altro preconcetto è quello
secondo il quale le piante sarebbero esseri inferiori o primitivi; le piante sono eucarioti autotrofi fotosintetici e abitano il nostro
pianeta e vi si evolvono da lungo tempo. Le piante superiori hanno semplicemente fatto delle scelte evolutive diverse da quelle dei
metazoi. Le cellule vegetali, a parte qualche eccezione, presentano un basso livello di mobilità. La migrazione cellulare attraverso i
tessuti è del tutto preclusa dal fatto che ogni cellula è imprigionata nel reticolo tridimensionale delle pareti cellulari e solo poche
cellule dette motrici hanno la capacità di espandersi e contrarsi. Tutti i processi di differenziamento e sviluppo delle piante, si
basano sul fatto che le cellule restino fisse nelle loro posizioni, a differenza di quanto avviene durante lo sviluppo degli animali. La
mancata capacità di movimento non si limita alle singole cellule, ma si estende all’intero organismo, le piante sono organismi
sessili (anche se vi sono parti della pianta che presentano movimento); una pianta non può sfuggire a stress di origine ambientale,
sia esso abiotico o biotico. Le piante nel corso dell’evoluzione hanno dovuto quindi sviluppare sofisticati meccanismi cellulari,
molecolari e sistemici per percepire e rispondere agli stimoli esterni. Questa capacità di percezione e reazione fanno risaltare la
maggiore complessità che caratterizza molti processi cellulari nei vegetali rispetto agli animali. Lo dimostra il numero di recettori,
chinasi e fosfatasi espresse dalle piante e responsabili proprio dei processi di percezione e trasduzione del segnale.

Dinamicità delle cellule vegetali: la cellula vegetale ha mediamente un diametro maggiore rispetto a quello di una cellula animale
(100micrometri e 10 micrometri), l’origine di questa differenza risale ai diversi modelli sviluppo e differenziamento che si ha nella
cellula. In un animale l’aumento di dimensioni di un organo si accompagna alla proliferazione cellulare, mentre in una pianta questo
fenomeno è associato all’accrescimento delle singole cellule che lo compongono. Questo comporta quindi una maggiore
complessità per quanto riguarda la trasmissione del segnale tra le cellule, ma anche tra i compartimenti di una stessa cellula.

Tutte le cellule vegetali sono circondate dalla parete cellulare, la forma che la parete assume durante il differenziamento cellulare
determina direttamente la forma della cellula. Tuttavia la cellula vegetale è una cellula plastica. La forma della cellula vegetale
matura dipende dall’equilibrio tra la plasticità della parete e la pressione di turgore esercitata dal vacuolo. La parete è una struttura
altamente dinamica, in cui composizione, caratteristiche meccaniche, chimiche e funzionali vengono regolate continuamente dalla
cellula.

Altra caratteristica essenziale delle cellule eucariotiche è la compartimentazione, il sistema di endomembrane nella cellula vegetale
è ancora più evidente e complesso che nella cellula animale. Le cellule vegetali, oltre a piccoli organelli semautonomi (mitocondri e
plastidi) dalla probabile origine endosimbiontica sono caratterizzate da numerosi compartimenti membranosi. Ogni compartimento
ha una sua individualità strutturale e funzionale pur restando strettamente connesso da un flusso continuo di membrana agli altri
compartimenti dando continuità al cosiddetto sistema di endomembrane. Il sistema di endomembrane racchiude anche il nucleo
fornendo la necessaria barriera tra i processi di trascrizione e traduzione che differenzia gli eucarioti dai procarioti. La maggiore
complessità, a parte la presenza dei plastidi e della parete cellulare, viene espressa dall’organizzazione del sistema di
endomembrane. Il reticolo endoplasmatico, il distretto membranoso che pervade tutta la cellula, entra in relazione con tutti gli
organelli e attraversa anche la parete in corrispondenza dei plasmodesmi, dove si connette a quello delle cellule adiacenti. Esso
viene plasmato dall’azione di proteine dette reticuloni, che vanno a costituire il sistema di endomembrane. Nel genoma delle
piante superiori (Arabidopsis thaliana) vi sono ben 21 geni che codificano reticuloni, 1 singolo gene è stato trovato in organismi
unicellulari come i lieviti e solo 4 geni in Homo Sapiens. Nelle briofite (nel muschio Physcomitrella patens), consideate le piante più
semplici, ne sono stati trovati ben 9 probabilmente perché a livello cellulare sono molto simili alle piante superiori.

Lezione 08/03 LA CELLULA VEGETALE


A differenza di quanto avviene nelle cellule animali, quando si osserva una cellula vegetale non è facile visualizzare il citoplasma.
Questo perché esso ha uno spessore piuttosto ridotto e si trova disperso su una superficie molto ampia, tra la membrana cellulare e
il tonoplasto. Questa disposizione è alla base dell’importanza, nei vegetali, delle correnti citoplasmatiche o dell’abbondanza di
endosomi di segnalazione. Il citoplasma ha comunque una composizione del tutto analoga a quella delle cellule animali. La
presenza dei plastidi è esclusiva delle cellule vegetali, ma anche i mitocondri presentano nelle piante alcuni aspetti metabolici e
funzionali caratteristici.

I MITOCONDRI:

Accanto al loro ruolo principale legato alla fosforilazione ossidativa (ne rappresentano la sede), i mitocondri sono coinvolti in
numerose vie metaboliche caratteristiche dei vegetali. Molte di esse sono associate a reazioni che avvengono nel citoplasma, altre
possono anche richiedere l’intervento di altri organelli. La fotorespirazione, ad esempio, è frutto di una cooperazione tra
mitocondri, perossisomi e cloroplasti. L’organizzazione interna di un mitocondrio consiste in una membrana esterna (a contatto con
il citoplasma) ed una interna ripiegata in numerose creste mitocondriali (dove avviene l’ossido-riduzione). Ogni cellula vegetale
contiene tipicamente diverse centinaia di mitocondri, la cui forma può variare da sub-sferica a tubulare e originare quindi una
popolazione molto eterogenea di organelli. Inoltre i genomi dei singoli mitocondri sono essi stessi molto eterogenei all’interno di
una stessa cellula, in cui continui eventi di fissione e fusione tra questi organelli portano allo scambio di porzioni di membrana,
proteine e materiale genetico. Secondo il modello del discontinuos whole (insieme discontinuo), il complesso dei mitocondri
andrebbe perciò considerato come un unico apparato, solo apparentemente distinto in più organelli separati. La dinamicità dei
mitocondri della cellula vegetale è evidente anche nella velocità con cui essi si spostano nel citoplasma, raggiungendo velocità pari
anche a 10 micrometri/s. I mitocondri dunque si muovono, cambiano forma, si fondono tra loro e si dividono continuamente.
L’effettiva funzione di questi cambiamenti morfologici è fondamentalmente ignota. Analogamente a quanto avviene nei plasmidi, il
processo di divisione dei mitocondri per fissione richiede la progressiva costrizione di entrambe le membrane (esterna ed interna)
e, sul versante citoplasmatico coinvolge proteine dinamine. Due di queste proteine (DPR3A e DRP3B) identificate in Arabidopsis, si
osservano in corrispondenza dei poli dei mitocondri e dei loro siti di costrizione. Analogamente alle dinamine, le DRP formano,
attorno alla membrana esterna del mitocondrio, dei complessi anulari che riducono progressivamente il proprio diametro
costringendo il mitocondrio fino al punto di separarlo in due organelli distinti. La mutazione di uno di questi geni è sufficiente a
causare una profonda alterazione della morfologia mitocondriale, correlabile a una riduzione della frequenza degli eventi divisione,
si osservano infatti mitocondri di dimensioni molto maggiori del normale, e che presentano numerosi siti di costrizione. Del
complesso di divisione del mitocondrio fanno parte anche le proteine BIGYIN1 e BIGYIN2, che si trovano associate anche a plastidi
e a perossisomi, suggerendo che abbiano un ruolo anche nella regolazione della morfologia di questi organelli. Un’altra proteina
NETWORKQ1, risulta essere presente esclusivamente nelle piante e avere un ruolo nel reclutamento delle DRP sulla membrana
esterna del mitocondrio. La sua mutazione origina mitocondri tubulari molto estesi e interconnessi in una sorta di reticolo
(network), un fenotipo riconducibile anche in questo caso all’alterazione dei processi di fissione. Nelle piante fin ora non è stata
identificata nessuna delle proteine che in altri organismi mediano la fusione tra mitocondri diversi, nonostante tali eventi siano ben
documentati nelle cellule vegetali. Uno degli esempi più evidente è la cosiddetta fusione di massa dei mitocondri, osservata in
colture tipo tra protoplasti immediatamente prima della divisione cellulare. Questo eventi di fusione, in cui tutti i mitocondri
confluiscono in un unico grande organello, e seguito da una nuova suddivisione in numerosi mitocondri che si distribuiscono nel
citoplasma. Si ritiene che questi eventi siano legati alla ricombinazione del genoma mitocondriale in vista della sua distribuzione tra
le cellule figlie al termine della mitosi. Come previsto dal modello dell’insieme discontinuo, i singoli mitocondri possiedono un
corredo genetico e proteico diverso, e soltanto eventi frequenti di fusione permettono la complementazione delle loro funzioni
nonché scambi di materiale genetico e proteine. Affinché questi “incontri” tra mitocondri possano realizzarsi è necessario che essi
si spostino nella cellula. il citoplasma delle cellule vegetali è ricco di piccoli organelli di forma sferoidale, delimitati da una sola
membrana lipidica, caratterizzati da funzioni enzimatiche e parzialmente differenziate e generalmente chiamati nel loro insieme
microcorpi. I microcorpi non possiedono DNA, ma possono proliferare nella cellula con un processo di accrescimento e fissione.
Prove sperimentali ne hanno dimostrato la derivazione dalle membrane del reticolo endoplasmatico. Parte delle proteine presenti
nella membrana dei perossisomi (PMP), tra cui numerose perossido, viene sintetizzata nel reticolo endoplasmatico e raggiunge i
perossisomi a partire da compartimenti specializzati del reticolo e da vescicole che da questo derivano.

Tali proteine avrebbero un ruolo nella stessa frammentazione della membrana che origina dalle vescicole. Altre PMP, tuttavia,
vengono sintetizzate nel citosol e da qui possono raggiungere direttamente i perossisomi oppure venire prima incorporate nella
membrana del reticolo endoplasmatico rientrando così nelle dinamiche di membrana. Secondo l’ipotesi corrente le vescicole
derivate dal reticolo endoplamatico (pre-perossisomi) si fonderebbero tra loro, originando perossisomi di grandi dimensioni, cui
fornirebbero diverse componenti proteiche di membrana e di matrice, questi grandi perossisomi andrebbero successivamente
incontro a fissione, dando origine ai perossisomi veri e propri di circa 0,3-0,4 micrometri. Le funzioni dei perossisomi nelle piante
sono legate prevalentemente all’ossidazione degli acidi grassi; tra le altre proteine abbondanti si trovano quelle legate al
metabolismo delle specie reattive dell’ossigeno e alla fotorespirazione. I perossisomi contengono tipicamente delle ossidoreduttasi
legate a flavine, che trasferiscono elettroni da molecole fortemente riducenti direttamente all’ossigeno molecolare, ottenendo
perossido di idrogeno; le catalasi, a loro volta, degradano il perossido di idrogeno liberando acqua e ossigeno; altri enzimi tipici dei
perossisomi sono legati alla beta-ossidazione degli acidi grassi. Accanto a questo corredo enzimatico di base, poi, diverse
popolazioni di perossisomi svolgono funzioni specializzate, ad esempio la fotorespirazione, caratteristica dei vegetali. I cosiddetti
gliossisomi sono uno dei sottogruppi di perossisomi specializzati, e devono la loro denominazione alla loro iniziale associazione al
ciclo metabolico del gliossilato. Durante lo sviluppo di una pianta superiore, a partire dalla germinazione del seme, il metabolismo
svolto dai perossisomi nei tessuti dei cotiledoni è inizialmente dominato dalla beta-ossidazione e da ciclo del gliossilato; con l’inizio
dell’attività fotosintetica si passa ad una fase in cui prevale la fotorespirazione legata alla fotosintesi; infine con la senescenza dei
cotiledoni questa funzione scompare e torna ad aumentare l’attività degli enzimi legati a beta-ossidazione e ciclo di gliossilato.
Questa plasticità funzionale legata alla progressiva alterazione del corredo enzimatico dei prossisomi esistenti e non alla sintesi di
nuovi perossisomi con funzioni differenziate, a conferma dell’ipotesi secondo la quale i perossisomi costituiscono un unico gruppo
di organelli. In effetti è stato dimostrato che peptidi segnale PTS1 e PTS2, presenti nella sequenza di una proteina, vengono
riconosciuti da recettori (detti perossido) sulla membrana dei perossisomi. Questo meccanismo permette la destinazione di diversi
enzimi in sottogruppo diversi di perossisomi, modulandone continuamente la funzione.

INVOLUCRO NUCLEARE:

La presenza dell’involucro nucleare è una caratteristica della cellula eucariotica e separa il nucleoplasma, che contiene la quasi
totalità del DNA della cellula, dal citoplasma. Allo stesso tempo, l’involucro nucleare deve consentire scambi controllati di
macromolecole tra i due compartimenti della cellula e fornire una componente di ancoraggio ed organizzazione al citoscheletro e
alla cromatina. L’involucro nucleare è un sistema di due membrane concentriche: la membrana nucleare interna e la membrana
nucleare esterna, quest’ultima in continuità con le membrane del reticolo endoplasmatico. La presenza di alcune proteine
specifiche del nucleo favorisce invece il legame tra la membrana nucleare interna e la lamina nucleare. Questa è costituita da una o
più proteine filamentose che interagiscono formando delle lamine che rivestono la superficie nucleare della membrana nucleare
interna, costituendo un reticolo fibroso che fornisce un supporto strutturale al nucleo. Sono state identificate numerose proteine
che interagiscono direttamente o indirettamente con la membrana mediante interazioni proteina-proteina. La loro funzione
principale è l’ancoraggio della cromatina alla superficie nucleare ella membrana nucleare interna; inoltre, sono coinvolte in
numerosi altri processi quali l’assemblaggio dell’involucro nucleare, la sintesi del DNA, la trascrizione e l’apoptosi. A differenza della
cellula animale, dove i centri di organizzazione del fuso mitotico sono costituiti dai centrosomi citoplasmatici, nella cellula vegetale
è l’involucro nucleare a rappresentare il sito principale di assemblaggio de microtubuli mediante la presenza di proteine associate ai
microtubuli (MAPS) che regolano la formazione dei microtubuli da parte dell’involucro nucleare. La continuità tra nucleo e
citoplasma è garantita dalla presenza sull’involucro nucleare dei pori nucleari la cui funzione è il trasporto attivo delle
macromolecole dal citoplasma al nucleo e viceversa. A differenza di quanto accade nelle cellule procariotiche, in cui la sintesi
dell’RNA (trascrizione) e quella delle proteine (traduzione) avvengono quasi contemporaneamente, nelle cellule eucariotiche la
trascrizione avviene nel nucleo e la traduzione avviene nel citoplasma. Ciò implica il trasferimento dell’mRNA dal nucleo al
citoplasma attraverso i pori nucleari. Nella cellula animale il trasporto dei pre-mRNA dal nucle al citoplasma avviene ad opera di
proteine dette esportine in cooperazione con proteine Ram-GTP- le proteine Ran esistono in due forme, Ran-GTP e Ran-GDP, che
sono trasformate l’una nell’altra mediante l’azione di proteine accessorie con attività GTP-asica. L’idrolisi del GTP della proteina Ran
fornisce direzionalità al trasporto dal nucleo al citoplasma. Le proteine Ran-GDP sono poi nuovamente fosforilate a Ran-GTP nel
nucleo e riutilizzate (ciclo Ran). Molti componenti del ciclo Ran sono stati identificati anche nelle piante. In Arabidopsis è stata
identificata la proteina HASTY (HSP), ortologa nelle cellule vegetali delle esportine animali. Essa coopera con AtRAN1 (proteina
ortologa di Ran-GTP) nel trasporto nucleo-citoplasmatico dei pre-mRNA. Recentemente è stato evidenziato che nei vegetali, a
differenza di quanto accade negli animali, il ciclo Ran è coinvolto anche nella divisione cellulare e nel controllo della risposta
all’auxina. A differenza di quanto accade negli altri compartimenti cellulari, questo segnale non viene rimosso dalla proteina una
volta importata nel nucleo, quindi tali proteine possono rientrare nel nucleo dopo la ricostruzione dell’involucro nucleare che si
dissolve durante la divisione cellulare. Anche le proteine che si movono dal nucleo al citoplasma son spesso caratterizzate da un
segnale di esportazione nucleare (NES).

Nei procarioti il genoma è costituito da un’unica molecola di DNA (cromosoma batterico) mentre nelle cellule eucaritiche sono
presenti più molecole di DNA, ciascuna organizzata in un cromosoma. Ogni cromosoma è costituito da un’unica molecola di DNA e
deve essere in grado di replicarsi, segregare le sue doppie copie nelle cellule figlie e poi conservarsi nella generazione cellulare
successiva. I geni rappresentano solo una piccola percentuale del DNA cromosomico, costituito per la maggior parte da elementi
trasponibili e sequenze ripetute che contribuiscono comunque all’integrità e alla funzionalità dei cromosomi andando sa costituire
le regione eterocromatiche, centromeri e telomeri. In particolare, un cromosoma presenta regioni che fungono da origine della
replicazione, estremità (telomeri) che permettono la replicazione completa del cromosoma lineare e un centromero che si lega al
fuso mitotico durante la divisione cellulare. Il centromero è la parte del cromosoma che organizza il cinetocore, una struttura di
natura proteica che, attraverso il legame con il fuso mitotico, dirige la corretta segregazione dei cromosomi omologhi nelle cellule
figlie durante la prima divisione meiotica e dei cromatidi fratelli durante la mitosi e durante la seconda meiotica. Nella maggior
parte degli organismi, inclusi i vegetali, il DNA della regione centromerica è organizzato in sequenze ripetute migliaia di volte in
tandem. Queste sequenze sono simili anche tra cromosomi non omologhi ma, a differenza delle sequenze telomeriche, quelle
centromeriche non sono molto conservate. Sequenze centromeriche ripetute sono state infatti identificate in numerose specie
vegetali e si sono rivelate spesso variabili anche tra specie affini, pur mantenendo la stessa organizzazione basale di unità ripetute
in tandem. La presenza di sequenze ripetute costituisce una caratteristica comune, ma non un prerequisito, per la formazione del
centromero. Ciò suggerisce che fattori epigenetici, come la struttura della cromatina hanno un ruolo importante nel determinare
l’identità centromerica. Una caratteristica funzionale di tutti i centromeri è la proteina CENH3, una variante dell’istone H3 che
prende il suo posto nel nucleosoma di tutti i centromeri funzionali e costituisce un marcatore della funzione centromerica. Oltre
alle regioni centromeriche e telomeriche, ampie aree del cromosoma sono costituite da eterocromatina, regioni di DNA ripetuto
permanentemente avvolte e inerti rispetto alle regioni eucromatiche, spesso despiralizzate e sedi di attività trascrizionale. Per
quanto riguarda l’eterocromatina, il tipo più diffuso è il DNA satellite. Un’altra classe molto comune di DNA ripetitivo è costituito da
piccole regioni sparse nel genoma gli elementi retrotrasponibili in grado di muoversi all’interno del genoma. Gli elementi genetici
trasponibili, o trasposoni, sono sequenze di DNA in grado di muoversi da un punto all’altro del genoma. Il movimento è la
conseguenza di una complessa serie di eventi che prevedono, tra l alte cose, l’appaiamento e la ricombinazione tra sequenze
specifiche del trasposone e sequenze genomiche bersaglio. La funzione dell’eterocromtina telomerica e centromerica è ben nota,
mentre il ruolo dell’eterocromatina interspersa lungo le braccia del cromosoma non è ancora compreso. È possibile che le
sequenze ripetute di DNA facilitano l’associazione con i nucleosomi, consentendo l’impacchettamento del DNA nel cromosoma.

Il compattamento del DNA assieme alle proteine istoniche e non istoniche in una struttura altamente organizzata, la cromatina, non
solo risolve il problema della limitazione dello spazio all’interno del nucleo, ma rappresenta anche un importante meccanismo per
la regolazione dell’attività genica. Gli istoni sono piccole proteine ricche di residui aminoacidi di lisina e arginina, con carica positiva,
in grado di favorire la formazione dii un legame con il DNA, carico negativamente. Essi hanno una funzione strutturale
nell’organizzazione del filamento di DNA nel cromosoma della cellula eucariotica. Durante la replicazione gli istoni si staccano solo
temporaneamente dal DNA, mente durante la trascrizione vi rimangono legati, rendendo possibile lo scorrimento lungo la molecola
del DNA degli enzimi coinvolti nella sintesi del filamento di RNA, grazie a modificazioni conformazionali e di posizione. I cinque tipi
di istoni possono esser suddivisi in due gruppi principali: gli istoniH2A,H2B, H3, H4 costituiscono il gruppo di proteine che formano
un nucleo attorno al quale si avvolge la doppia elica di DNA. La sequenza aminoacidica di questi istoni è molto conservata in tutti gli
eucarioti: l’istone H4di un mammifero e di una pianta differiscono per soli due amminoacidi. L’unità di base di impacchettamento
della cromatina è il nucleosoma, una struttura a disco costituita da due copie di ognuno dei quattro istoni (ottamero istonico). La
doppia elica di DNA si avvolge intorno all’ottamero istonico per una lunghezza di 146 coppie di nucleotidi (due giri). Tra due
nucleosomi successivi il DNA spaziatore lungo circa 60 coppie di nucleotidi si lega agli istoni H1, appartenenti al secondo gruppo,
più grande e con sequenza meno conservata rispetto agli altri. Quindi gli isotni H1 sono responsabili della compattazione dei
nucleosomi continui mediante la formazione del legame tra il DNA che avvolge i nucleosomi e il DNA spaziatore che li congiunge,
favorendo così la formazione di fibre di cromatina dello spessore di circa 30 nm. Queste fibre di cromatina, a loro volta, formano
delle anse intorno a un’impalcatura di proteine non istoniche. Il ripiegamento dell’avvolgimento delle anse, compattando
ulteriormente la cromatina determinano la formazione della struttura caratteristica osservabile durante la divisione cellulare: il
cromosoma metafasico. Le proteine istoniche non solo svolgono ruolo strutturale nell’avvolgimento del DNA, ma costituiscono
anche un importante meccanismo di regolazione dell’espressione genica. L’attivazione di un gene, infatti, è determinata on solo da
specifici fattori di regolazione, ma anche dalla struttura della cromatina nella quale si trova. La trascrizione è regolata dalla
conformazione della cromatina, solitamente distinta in eucromatina (trascrizionalmente attiva) ed eterocromatina (silente). Nelle
piante il silenziamento della cromatina è di solito associato all’ipermetilazione del DNA e a specifiche modifiche covalenti dell’istone
H3. Il meccanismo di regolazione dell’espressione genica denominato “imprinting genomico” consiste nell’espressione di una delle
due forme alleliche di un gene solo quella di origine paterna o solo quella di origine materna. L’imprinting genomico è stato
descritto esclusivamente nei mammiferi e nelle piante a fiore. La teoria maggiormente accettata è che tale meccanismo di
regolazione si sia evoluto indipendentemente in questi due gruppi di organismi, entrambi accomunati dall’esistenza di un conflitto
parentale riguardane l’acquisizione dei nutrienti. Infatti nelle piante a fiore e nei mammiferi lo sviluppo dell’embrione dipende
esclusivamente dalla madre. I geni sottoposti a imprinting sono coinvolti nello sviluppo degli annessi embrionali che consentono il
trasferimento dei nutrienti dalla madre all’embrione: la placenta nei mammiferi e l’endosperma delle piante.

Il ciclo cellulare:

le cellule si riproducono duplicando il loro contenuto e dividendosi in due cellule figlie. A differenza degli organismi unicellulari dove
la divisione della cellula coincide con la formazione di due nuovi organismi, negli organismi pluricellulari, una complessa
successione di divisioni cellulari determinalo lo sviluppo completo di un organismo. A differenza degli animali, lo sviluppo delle
piante è principalmente post embrionale: nuovi organi, come foglie, radici e fiori, si originano continuamente da divisioni cellulari
seguite da crescita cellulare e differenziamento che avvengono durante il ciclo vitale dell’organismo. Queste divisioni cellulari
avvengono principalmente nei tessuti meristematici costituiti da cellule totipotenti che non smettono mai di dividersi per tutta la
vita della pianta. Solitamente però la maggior parte delle cellule che costituiscono il corpo di una pianta vanno incontro a un
processo di differenziamento e non si dividono ulteriormente. La riproduzione di una cellula è un processo molto complesso e
l’insieme degli eventi connessi con tale funzione costituisce il ciclo cellulare: la serie di eventi che definiscono il corso della vita di
una cellula dal momento in cui si origina per divisone della cellula madre al momento in cui si divide a sua volta per generare due
cellule figlie. Il ciclo cellulare mitotico racchiude 4 fasi sequenziai nelle quali viene temporaneamente distinta la replicazione del
materiale genetico dalla segregazione dei cromosomi duplicati nelle due cellule figlie. Periodi di intervallo (fasi G) intercorrono tra
la replicazione del DNA (fase S) e la segregazione dei cromosomi (fase M). il primo intervallo, noto come fase G1, intercorre tra la
precedente mitosi (che ha generato la cellula) e la successiva fase S. il secondo intervallo, o fase G2, è invece interposto tra la fase S
e la successiva mitosi (fase M). quindi le cellule che si trovano in fase G2, sono distinguibili dalle cellule che si trovano in fase G1
perché contengono un contenuto doppio di DNA. Le fasi G1 e G2 non sono fasi di quiescenza. Durante queste fasi avvengono le
attività cellulari e la riaquisizione delle dimensioni di una cellula adulta (fase G1) e la sintesi delle tubuline del fuso mitotico e altre
proteine che interagiscono con i cromosomi durante la segregazione (fase G2). Ma soprattutto avvengono varie operazioni di
controllo che assicurano il completamento preciso e accurato della fase precedente (S o M). Non è un caso infatti che i principali
punti di regolazione del ciclo cellulare siano posizionati proprio interfacce delle fasi G1/S e delle fasi G2/M. Sono questi punti di
regolazione che stabiliscono infatti se determinate cellule non vadano incontro a successive divisioni o intraprendono un processo
di differenziamento.

Negli organismi eucarioti, un insieme di molecole attive all’interno della cellula , le proteine kinasi-ciclina dipendenti (CDK),
innescano e regolano la sequenza di eventi chiave del ciclo cellulare. Si tratta di una classe di kinasi che richiedono per l’attivazione
un legame con una proteina regolativa, la ciclina, e che riconosce come bersagli altre proteine con una serina o treonina seguite da
una proteina. Le CDK grazie anche all’attività di specifiche sub-unità proteiche, mediante la fosforilazione e la defosforilazione,
attivano e disattivano le proteine cellulari nei momenti di transizione della fase G1 alla fase S e da G2 a M, attivando
rispettivamente la duplicazione del DNA e la mitosi. Le piante posseggono un elevato numero di cicli funzionalmente simili a quelle
presenti nei mammiferi (cicli tipo A, B, C, B e H). L’alto numero di cicli riscontrato nelle piante potrebbe riflettere la maggiore
plasticità di sviluppo dei vegetali (organismi sessili) rispetto agli animali necessaria per rispondere a stimoli interni ed esterni. In uno
schema abbastanza generale, le cicline tipo-A appaiono all’inizio della fase S e sono coinvolte nella progressione per poi essere
degradate nella fase di transizione G2/M; le cicline di tipo-B appaiono durante la fase G2 e possiedono il controllo della fase G2/M e
l’inizio della mitosi per poi essere degradate durante l’anafase; le cicline di tipo-D svolgono un ruolo fondamentale nella transizione
G1/S e nel superamento del punto di restrizione.

La mitosi (divisone nucleo) e la citocinesi (divisione citoplasma) sono i due processi biologici che costituiscono la fase M di divisione
cellulare. Dopo la duplicazione del DNA durante la fase S, la mitosi assicura la corretta ripartizione del materiale genetico della
cellula madre tra le due cellule figlie. Gli eventi che caratterizzano le 4 sottofasi mitotiche (profase, metafase, anafase, telofase)
dipendono principalmente dall’attività del fuso mitotico. Sebbene i processi di base della mitosi siano essenzialmente gli stessi in
tutti gli eucarioti, alcune peculiarità sono caratteristiche dei vegetali. Nelle piante all’inizio i microtubuli corticali, solitamente
organizzati trasversalmente rispetto all’asse principale di crescita della cellula, si arrangiano per formare un anello corticale, la
banda preprofasica che delinea il futuro piano di divisione cellulare. La banda preprofasica scompare quando inizia ad organizzarsi il
fuso mitotico e i microtubuli si riorganizzano successivamente, alla fine della divisone mitotica, per formare il fragmoplasto che sarà
poi responsabile della formazione della pareti cellulari delle due cellule figlie. Durante la formazione del fuso mitotico, la cromatina
si condensa progressivamente fino a rendere i cromosomi visibili al microscopio ottico. In questa fase, ciascun cromosoma è
costituito da due cromatidi fratelli identici, appaiati e uniti nella regione del centromero. Alla fine della profase, in corrispondenza
del centromero si forma un cinetocore per ciascun cromatidio. Dopo la disaggregazione dell'involucro nucleare, durante la
metafase alcune fibre del fuso mitotico si agganciano ai cinetocori, determinando la disposizione dei cromosomi lungo la piastra
metafasica. Durante l'anafase i cromatidi fratelli migrano verso i poli opposti della cellula grazie all'accorciamento del microtubuli
del fuso. Infine, nel corso della telofase si forma un nuovo involucro nucleare intorno a ciascuno dei due gruppi di cromosomi per
costruire i nuclei delle cellule figlie Il fuso mitotico si dissolve e i cromosomi si despiralizzano. La mitosi determina quindi la
formazione di due nuclei figli geneticamente identici tra loro e al nucleo della cellula madre che li ha generati. La divisione cellulare
si completa con la divisione del citoplasma (citocinesi). La dissoluzione dell'involucro nucleare alla fine della profase non avviene in
tutti gli organismi. In alcuni casi (specialmente nei funghi e nelle alghe) l'involucro nucleare persiste durante la divisione cellulare e
solo dopo che i cromosomi figli sono migrati ai poli opposti del nucleo quest'ultimo si suddivide nei due nuclei figli (mitosi chiusa ).
Negli organismi con riproduzione sessuale, la produzione delle cellule spermatiche, delle cellule uovo delle spore (gameti) avviene
attraverso la meiosi, una variante della divisione cellulare. Anche la meiosi è preceduta dalla duplicazione del DNA (fase S) e molte
fasi della divisione cellulare meiotica sono simili a quelle della divisione mitotica. La differenza fondamentale tra i due processi
risiede nel fatto che la meiosi è una successione di due divisioni nucleari consecutive (meiosi I e II) il cui risultato è la produzione di
4 cellule figlie, ciascuna delle quali possiede la metà dei cromosomi della cellula madre. Una cellula diploide possiede due corredi
cromosomici, uno di origine paterna e l'altro di origine materna. Dopo la replicazione del DNA, durante la fase di leptotene, ciascun
cromosoma è costituito da due cromatidi fratelli strettamente legati nella regione del centromero. Durante la fase di zigotene,
avviene l'appaiamento dei cromosomi omologhi. L'appaiamento è molto preciso e avviene per tutta la lunghezza dei cromosomi
mediante la formazione di un complesso sinaptinemale. Le fasi iniziali dell'appaiamento avvengono probabilmente a livello dei
telomeri e sono mediate da complessi proteici che si associano con il complesso sinaptinemale e favoriscono il riconoscimento dei
cromosomi omologhi. Nella fase successiva, diplotene, i due cromosomi omologhi uniti tra loro formano i cosiddetti bivalenti, o
tetradi, essendo costituiti ciascuno da due cromatidi fratelli. Durante tale fase di appaiamento i cromatidi non fratelli dei
cromosomi omologhi si intersecano, formando i chiasmi, e scambiano tra loro pezzi di DNA. Tale fenomeno, noto come crossing
over o ricombinazione, determina la formazione dei cromosomi ricombinanti. I due cromatidi fratelli di un cromosoma quindi, dopo
un crossing over, non sono più identici tra loro. La regolazione del numero della distanza degli eventi di ricombinazione sembra sia
influenzata dal complesso sinaptinemale; inoltre, la distribuzione degli eventi di ricombinazione lungo il cromosoma non è casuale:
la presenza di un evento di ricombinazione sembra infatti inibire ulteriori ricombinazioni nelle sue immediate prossimità.
Nell'ultima sottofase, i cromosomi omologhi si separano, ma rimangono ancora associati dai chiasmi e risultanti dal crossing over.
Durante la diacinesi, i cromosomi si contraggono ulteriormente mediante un processo di spiralizzazione e all'inizio della metafase I
si forma il fuso mitotico. A differenza della mitosi durante la quale singoli cromosomi raggiungono il fuso nella metafase I della
meiosi i cromosomi omologhi appaiati ed eventualmente ricombinanti si dispongono in coppie lungo la piastra equatoriale tra i due
poli della cellula, attirati dai microtubuli del fuso a questo punto, nella successiva anafase I ciascun cromosoma di ogni coppia migra
verso uno dei due poli. La fine della prima divisione meiotica, ciascuna cellula figlia ha ereditato la metà dei cromosomi della cellula
madre. Quasi contemporaneamente alla fine della prima divisione meiotica ha inizio la divisione del citoplasma e la formazione di
due cellule figlie In generale, la prima divisione meiotica occupa la maggior parte del tempo dell'intero processo meiotico ed è
quella più complessa, mentre la seconda divisione meiotica è molto simile a una normale mitosi. I cromosomi, ciascuno ancora
formato da due cromatidi, si rispiralizzano durante la profase II e durante la metafase II si dispongono sulla piastra equatoriale.
Durante l’anafase II, la separazione dei cinetocori consente la migrazione dei singoli cromatidi verso i poli opposti della cellula. Con
la seconda citocinesi si formano, in totale, 4 cellule figlie, ciascuna contenente la metà del contenuto genetico della cellula madre.
Le quattro cellule figlie, equivalenti tra loro per il contenuto di DNA sono differenti per il riassortimento genetico dovuto al crossing
over e all'assortimento indipendente dei cromosomi paterni e materni durante l'anafase I. Questi due fenomeni e l'unione casuale
dei gameti maschili e femminili durante la fecondazione rendono praticamente infinite le possibili combinazioni genetiche della
riproduzione sessuale.

Lezione 11/03 e 15/03 IL GENOMA-IL SISTEMA DI ENDOMEMBRANE


A partire dalla scoperta della struttura del DNA (1953) la ricerca scientifica ha dedicato grandissimo impegno nel decifrare la
struttura, l'organizzazione e il significato del materiale genetico, oggi comunemente chiamato genoma di un organismo. Con il
termine genoma si intende l'intera sequenza nucleotidica ovvero l'insieme delle sequenze di DNA codificante e non codificanti di un
organismo. I progetti genoma hanno quindi la le potenzialità di far luce anche sugli aspetti più enigmatici della biologia di una
determinata specie. Risale al 1995 la notizia dell'identificazione della prima sequenza genomica completa di un organismo
procariote, Haemophilus influenzae; l'anno successivo, spetta al lievito Saccharomyces cerevisiae. L'introduzione di tecnologie
sempre più sofisticate ha permesso da allora di avviare e completare progetti genoma con tempi e costi via via inferiori per
numerose altre specie, ivi comprese specifici dettagli di interesse per la ricerca di base ma anche di interesse agroalimentare. In una
cellula vegetale il materiale genetico è presente in 3 compartimenti cellulari, nucleo, mitocondri e plastidi, per cui è corretto fare
riferimento a tre genomi: nucleare, mitocondriale e plastidiale.

IL GENOMA NUCLEARE:

Swift nel 1950 introdusse il concetto di valore C in riferimento alla quantità di DNA presente in un nucleo gametico (aploide) che, in
linea generale, può coincidere con la dimensione del genoma. Ciascun genoma è caratterizzato da una dimensione che può essere
definita in base alla massa (picogrammi-pg) o al numero di basi (b) o nucleotidi (dove 1 pg = 987 MB). Il confronto dei valori di
organismi anche distanti dal punto di vista filogenetico fece emergere una situazione a primo impatto curiosa che fu definito il
paradosso del valore C: non esiste una correlazione diretta tra contenuto di DNA e complessità biologica di un organismo. Tale
paradosso sembrava superato dalla scoperta che, in un genoma, la maggior parte di DNA risulta essere DNA non codificante che
quindi non contribuisce a fornire informazione. Fu chiaro pertanto che una maggiore quantità di DNA non dovesse necessariamente
riflettere la presenza di un maggior numero di geni. Tuttavia i dati che sono emersi più di recente dai progetti genoma indicano
inequivocabilmente che nemmeno il numero di geni contenuti in un genoma è direttamente proporzionale alla complessità
biologica; basti pensare che il genoma umano (3000 Mb) codifica per circa 25.000 geni mentre quello del riso (389 Mb) per circa
31.000 geni. Queste cifre hanno lasciato aperta la domanda: in che modo un numero così limitato di geni possono generare un
organismo strutturalmente complesso ed evolutivamente avanzato come l'uomo? L'ipotesi che si avanza oggi e che nell'uomo ci
sarebbero un maggior numero di fenomeni di splicing alternativo (eventi per cui da un singolo gene si generano trascritti diversi) e
di modificazione post-traduzionali. Tutto ciò arricchirebbe il repertorio delle proteine delle possibili interazioni tra proteine e altri
componenti cellulari che, in ultimo, sarebbero responsabili della complessità biologica. La dimensione del genoma resta comunque
una caratteristica molto importante ed informativa per lo studio di un organismo soprattutto nell'ambito di studi di genomica
comparativa non l'obiettivo di far luce sull'evoluzione e la diversificazione delle specie sulla base dell'analisi della struttura e
organizzazione dei genomi. I valori di un gran numero di specie vegetali appartenenti a diversi gruppi tassonomici sono raccolti
nella banca dati dei valori delle piante (http://data.kew.org/cvalues/) che conta oggi più di 5000 specie il vegetali. Considerati
diversi taxa, la dimensione del genoma varia molto all'interno del regno delle piante, e in particolare nelle angiosperme. Questo è
piuttosto sorprendente dato che il gruppo delle piante a fiore ha fatto la sua comparsa in tempi relativamente recenti (150-200
milioni di anni fa). Da allora si sono diffuse in modo molto rapido arrivando a costituire una delle forme di vita dominante sul
pianeta e in tempi rapidi hanno anche subito una considerevole diversificazione in specie (stimata tra le 250.000 e le 400.000). A
questo si accompagna anche una grande varietà nella dimensione del genoma (circa 2000 volte): ad oggi il record del genoma più
piccolo è detenuto dal da piante appartenenti alla famiglia delle Lentibulariaceae (es. Genlisea 64 Mb) mentre all'estremo opposto
troviamo il genere Fritillaria della famiglia delle Liliaceae, con 124000 Mb. La natura della relazione tra dimensione del genoma ed
evoluzione delle specie è ancora sconosciuta. La dimensione del genoma è in relazione a diversi aspetti della biologia di un
vegetale: specie con genomi grandi tendono ad avere cellule e talvolta semi di maggiori dimensioni, ma questo si accompagna
anche ad una ridotta capacità fotosintetica, una crescita più lenta, un minor successo di ambienti estremi. Esisterebbe anche un
costo evolutivo poiché taxa migranti tendono ad avere una minore diversità di specie.

Quali sono i fattori che hanno contribuito a modellare i genomi delle piante e a generare i genomi di grandi dimensioni? È ormai
noto che una delle componenti principali di qualsiasi genoma eucariotico. Sono le sequenze ripetute, in particolare gli elementi
trasponibili.
ELEMENTI TRASPONIBILI (3 pag):

Tutti gli organismi contengono sequenze mobili dette elementi genetici trasponibili o più semplicemente elementi trasponibili (TE).
Il movimento dei TE, detto trasposizione, prevede un particolare tipo di processo di ricombinazione genica. Il sito del genoma nel
quale il TE si sposta, il sito bersaglio non è omologo al TE. Perciò la trasposizione differisce dal processo di ricombinazione genica
che avviene nella coniugazione, nella trasformazione e nella trasduzione dei batteri e nella meiosi delle cellule eucariotiche, che
invece comporta un crossing-over tra sequenze omologhe. La trasposizione di un TE avviene a bassa frequenza. A seconda del TE, la
trasposizione avviene in uno dei due seguenti modi:

1. tramite un processo di taglia-e-incolla (trasposizione conservativa), nel quale l’elemento trasponibile lascia la sua posizione
originale e si trasferisce in un nuovo sito .

2. tramite un
processo di copia-e-incolla (trasposizione replicativa) nel quale una copia del TE si trasferisce in un nuovo sito, lasciando nel vecchio
sito il TE originale.

I TE contengono
geni che codificano proteine e possono essere suddivisi in:

• Automi che contengono i geni funzionali per la loro trasposizione

• Non automi che mancano di una o più attività necessaria al loro movimento

• Anche i trasposoni non automi possono essere comunque mobilizzati dall’azione in trans di proteine codificate da TE
automi della stessa tipologia in siti differenti

I TE sono importanti a causa dei cambiamenti genetici che provocano. Per es., producono mutazioni, inserendosi in geni e
inattivandone la funzione, e aumentano o diminuiscono l’espressione genica, trasponendosi all’interno delle sequenze regolatrici
dei geni. Pertanto, i TE sono una fonte importante di variabilità genetica. Le sequenze d’inserzione e i trasposoni sono i due tipi
principali di elementi trasponibili batterici. Gli elementi trasponibili batterici furono scoperti negli anni 1960. Essi possono muoversi
da un sito all’altro all’interno del cromosoma batterico e i plasmidi o tra plasmidi. Alcuni elementi trasponibili batterici si
inseriscono a caso in qualsiasi punto del DNA, mentre altri riconoscono sequenze specifiche come «puniti caldi» in cui si inseriscono
preferenzialmente. I due tipi principali di TE nei batteri sono: le sequenze d’inserzione (SI) e i trasposoni.

Le sequenze d’inserzione sono la forma più semplice di elemento trasponibile. Esse sono relativamente piccole e contengono solo i
geni necessari per la loro trasposizione, in particolare il gene per la trasposasi, un enzima che catalizza alcune delle reazioni che
inseriscono o rimuovono i TE. Alle due estremità di una SI si trova una una breve sequenza ripetuta invertita. Le sequenze ripetute
invertite permettono all’enzima trasposasi di identificare le estremità di un TE quando catalizza la trasposizione. Il secondo tipo di
TE batterico è detto trasposone presenta una sequenza ripetuta invertita a ciascuna estremità, a fiancheggiare una regione centrale
contenente uno o più geni. In alcuni trasposoni batterici le sequenze ripetute invertite sono sequenze d’inserzione, che forniscono
la trasposasi per lo spostamento dell’elemento. I trasposoni batterici senza SI alle estremità hanno al loro posto delle sequenze
brevi, ripetute e invertite, e un gene per la trasposasi nella regione centrale. Nella regione centrale generalmente vi sono anche
geni per la resistenza agli antibiotici, che originano dal cromosomico batterico o da plasmidi. Questi geni, non appartenenti a SI, se
inclusi nei trasposoni, sono portati in giro quando l’elemento trasponibile si muove da un posto all’altro all’interno della specie e tra
specie diverse. Gli elementi trasponibili furono inizialmente scoperti negli eucarioti. I TE furono inizialmente scoperti, negli anni
1940, nel mais, da Barbara McClintock. Osservò che alcune mutazioni che influenzano il colore della cariosside e della foglia di mais,
in certe condizioni, comparivano e scomparivano rapidamente. Il mappaggio degli alleli tramite studi di associazione produsse un
risultato sorprendente – la posizione di mappa cambiava frequentemente, indicando che gli alleli potevano muoversi da un punto
all’altro sui cromosomi di mais. Alcuni movimenti erano talmente frequenti che si potevano osservare cambiamenti nei loro effetti a
tempi diversi nello stesso chicco durante le fasi di sviluppo. La McClintock ricevette il premio Nobel per il suo lavoro nel 1983 ,
quando diverse scoperte confermarono le sue prime osservazioni. Gli elementi trasponibili sono probabilmente universalmente
distribuiti sia negli eucarioti che nei procarioti. La sintesi del pigmento che conferisce un intenso colore viola alla cariosside di mais
è regolata da numerosi geni. Mutazioni a carico di ciascuno di questi geni causano la formazione di una cariosside incolore. Nei suoi
esperimenti concentrò la sua attenzione su quelle cariossidi che esibiscono macchie colorate su una cariosside completamente
incolore. Era noto che questo fenotipo era il risultato di mutazioni instabili. Studi genetici e citologici la portarono a concludere che
il fenotipo a macchie non era dovuto all’effetto di una mutazione «convenzionale», ma all’azione di un trasposone. La spiegazione
per le cariossidi a macchie è la seguente: se una pianta possiede la copia del gene wild-type C, la cariosside è viola intenso. le
mutazioni che determinano il fenotipo mancanza di colore bloccano la produzione di pigmento e la cariosside è quindi incolore.
Durante lo sviluppo della cariosside si hanno dei processi di reversione della mutazione in alcune cellule, con conseguente sviluppo
di una macchia. La McClintock giunse alla conclusione che la mutazione, che determina un fenotipo incolore, era dovuta ad un
«elemento di controllo mobile» (trasposone) detto Ds (dissociatore), inseritosi nel gene C. Dimostrò anche che per la trasposizione
di Ds nel gene era indispensabile un altro elemento di controllo mobile, che chiamò Ac (attivatore). Ac può promuovere anche la
trasposizione di Ds fuori del gene C, originando un revertante con fenotipo selvatico, cioè una macchia colorata. La famiglia degli
elementi trasponibili Ac-Ds è stata studiata in dettaglio. Gli studi di mappaggio hanno dimostrato che Ac è l’elemento autonomo
della famiglia e causa mutazioni che sono instabili. Ds è l’elemento non autonomo e causa mutazioni instabili in presenza di Ac.
L’elemento Ac è lungo 4563 bp (paia di basi), con delle sequenze terminali ripetute ed invertite (IR) di 11 bp. Contiene un singolo
gene che codifica una trasposasi di 807 aminoacidi. Quando un elemento Ac è presente nel genoma, attiva Ds, che traspone in un
nuovo sito o provoca l’interruzione genica in cui si è localizzato. Gli elementi Ds sono eterogenei in lunghezza e sequenza
nucleotidica. Tutti hanno le stesse sequenze terminali IR degli elementi Ac e molti di essi derivano da Ac o per delezione o per
riarrangiamenti cromosomici più complessi che producono la perdita della capacità di trasporre. La trasposizione degli elementi
non richiede la replicazione dell’elemento, che quindi quando traspone, non lascia copie di sé stesso nella posizione occupata
originariamente (trasposizione conservativa). La trasposizione avviene esclusivamente quando avviene la replicazione del genoma.
Per la trasposizione degli elementi Ds le funzioni necessarie sono fornite da un elemento Ac integrato nel genoma. Gli elementi
trasponibili eucariotici sono classificati come trasposoni e retrotrasposoni. I TE delle cellule eucariotiche appartengono a due classi
principali: trasposoni e retrotrasposoni. Gli eucarioti non hanno SI. I trasposoni eucariotici sono simili a quelli batterici nella
struttura generale e nel modo in cui traspongono. Un gene per la trasposasi è localizzato nella regione centrale del trasposone e la
maggior parte di essi ha sequenze ripetute invertite alle estremità. A seconda del trasposone, la trasposizione avviene tramite un
meccanismo taglia-e-incolla o copia-e incolla. I membri dell’altra famiglia di TE eucariotici, i retrotrasposoni, traspongono attraverso
un meccanismo copia-e-incolla, ma la loro trasposizione avviene attraverso una forma intermedia, costituita da una copia di RNA
del TE. Il retrotrasposone, che è un elemento di DNA integrato nel cromosoma, è trascritto in una copia complementare di RNA.
Quindi una trascrittasi inversa, codificata da un gene del retrotrasposone, utilizza l’RNA come stampo per produrre una copia di
DNA del retrotrasposone. La copia di DNA viene quindi inserita in un nuovo sito, lasciando l’originale al suo posto. I geni possono
essere incorporati nella regione di un trasposone o di un retrotrasposone e muoversi con esso quando si trasferisce ad un nuovo
sito. I geni intrappolati possono diventare costitutivamente attivi a causa delle sequenze regolatrici presenti nel TE in prossimità di
un enhancer o di un promotore di un gene. Una volta che gli elementi trasponibili si sono inseriti nei cromosomi, possono diventare
dei «residenti» permanenti, e quindi essere duplicati e trasmessi durante la divisione cellulare. Gli elementi che si inseriscono nelle
cellule madri dei gameti possono essere ereditati e entrare a far parte del patrimonio genetico della specie. I retrovirus sono simili
ai retrotrasposoni. La trascrizione inversa da RNA in DNA è associata, oltre che con i retrotrasposoni, anche con alcuni virus. I
retrovirus sono virus con un genoma a RNA che si replica attraverso una forma intermedia a DNA. Quando un retrovirus infetta una
cellula ospite, una trascrittasi inversa contenuta nella particella virale viene rilasciata e copia il genoma a RNA a singolo filamento in
una copia di DNA a doppio filamento. Il DNA virale si inserisce quindi nel DNA dell’ospite, dove viene replicato e trasmesso alle
cellule discendenti durante la divisione cellulare. Alcuni retrovirus, come ad esempio il virus del sarcoma aviario, sono stati associati
al cancro (in questo caso dei polli). Molti di questi retrovirus che causano tumori hanno incorporato un gene proveniente dal
genoma dell’ospite che scatena la duplicazione del DNA e la proliferazione incontrollata delle cellule. In altre parole, il gene
dell’ospite portato dal virus è diventato un oncogene, un gene che promuove lo sviluppo del cancro stimolando la divisione
cellulare. In genere, il gene dell’ospite sostituisce uno o più geni retrovirali, rendendo il virus incapace di produrre particelle virali.
La stretta somiglianza tra retrotrasposoni e retrovirus ha suggerito l’ipotesi che i retrotrasposoni si siano evoluti da retrovirus o il
viceversa ci sono ipotesi e dimostrazioni contrastanti. Classificazione dei TE nelle piante. La classificazione dei trasposoni è
complessa e, utilizzando la modalità di classificazione riportata nel database dei TE del mais, possono essere suddivisi in classi,
sottoclassi, ordini, superfamiglie, famiglie e sottofamiglie. Al più alto livello di classificazione, i TE delle piante possono essere
suddivisi in due classi: TE di classe I (TE1) e TE di classe II (TE2). La distinzione si basa sull’intermedio di trasposizione. Nei TE1 la
trasposizione avviene tramite un intermedio a RNA prodotto per trascrizione del TE integrato nel genoma. L’RNA copia deve essere
retrotrascritto in DNA, da parte di una trascrittasi inversa, prima dell’integrazione nel nuovo sito. Questa modalità di trasposizione,
tipo «copia-incolla», può far sì che questi TE siano presenti in un numero estremamente elevato nel genoma. Infatti, nelle piante
costituiscono la frazione di sequenze ripetute più abbondanti nel genoma. Nei TE2 la trasposizione avviene direttamente via DNA e
la loro trasposizione può avvenire con modalità tipo «taglia-e-incolla» e «copia-incolla». Le due classi principali possono essere
suddivise in sottoclassi sulla base dei meccanismi di trasposizione e di integrazione nel genoma. I TE1 sono suddivisi in due ordini
retrotrasosoni tipo : LTR (Long Terminal Repeat) e non LTR. Nelle piante sono più numerosi gli LTR. Gli LTR presentano una
lunghezza molto variabile da poche centinaia a molte migliaia di basi. Sono caratterizzati dall’avere alle estremità due regioni di
lunghezza variabile, in genere poche centinaia di basi, ripetute e invertite (LTR). Le sequenze LTR di solito iniziano con i nucleotidi
5’-TG-3’ e terminano con 5’-CA-3’. La loro integrazione nel genoma avviene inducendo la duplicazione del sito bersaglio, per questo
motivo sono in genere circondati da due brevi ripetizioni dirette di lunghezza compresa tra 4 e 10 paia di basi (bp). Gli LTR portano i
geni gag e pol. Nei retrovirus, il gene gag codifica per la proteina del capside e il gene pol per proteasi (PR), integrasi (INT),
trascrittasi inversa (RT) e RNAsi H (RH) che sono proteine necessarie alla replicazione del genoma virale. La trasposizione degli LTR
assomiglia molto al ciclo di replicazione dei retrovirus, essendo anche accompagnata dalla formazione di strutture simili a particelle
virali nel citoplasma. Gli LTR sono suddivisi in superfamiglie, di cui le principali sono: LTR tipo copia e LTR tipo gypsy. Ogni
superfamiglia è suddivisa in famiglie. Ad es. gli LTR tipo copia sono presenti nel mais con 155 famiglie, mentre il tipo gypsy con 242
famiglie. Le famiglie sono suddivise in sottofamiglie. Le principali differenze tra copia e gypsy risiedono nell’ordine delle ORF (Open
Reading Frame) all’interno del gene pol. Ci sono: LTR autonomi e LTR non autonomi. Ad es., l’LTR BARE1 (Barley RetroElement1), un
LTR tipo copia molto abbondante nel genoma dell’orzo, è un elemento autonomo. L’LTR BARE2 è invece un elemento non
autonomo mancante del gene gag, comunque è in grado di trasporre utilizzando la proteina GAG di BARE2. I TE non LTR includono
gli ordini: DIRS (Dictyostelium Intermediate Repeat Sequence), PLE (Penelope-Like Element), LINE (Long Interspersed Element), SINE
(Short Interspersed Element). Sono elementi abbastanza comuni negli eucarioti, ma la presenza di alcuni di questi (DIRS e PLE) nelle
piante da fiore deve essere ancora evidenziata. Nel mais sono presenti TE LINE, 32 famiglie, e SINE, 6 famiglie. I LINE possono
raggiungere lunghezze anche di migliaia di basi e contengono i geni necessari per la loro trasposizione e spesso presentano una
sequenza di adenine o un SSR all’estremità 3’. La mobilitazione e l’integrazione dei SINE sono rese possibili dall’azione in trans delle
proteine codificate da elementi autonomi. La trasposizione dei TE1 non LTR è accompagnata dalla duplicazione del sito bersaglio.
TE2 sono suddivisi in due sottoclassi principali: quelli della sottoclasse 1 sono caratterizzati da una trasposizione conservativa; quelli
della sottoclasse 2 sono caratterizzati da una trasposizione replicativa. Nella sottoclasse 1, i trasposoni sono excisi come DNA a
doppio filamento che viene successivamente reintegrato in un altro punto del genoma. Presentano una struttura relativamente
semplice contenente una singola ORF codificante per l’enzima trasposasi. Questa ORF è fiancheggiata da due sequenze TIR
(Terminal Inverted Repeat) di solito di lunghezza inferiore a 5 kb. I TIR costituiscono l’ordine principale della sottoclasse 1. Nel mais
è presente solo questo ordine con 892 famiglie, a loro volta suddivise in sottofamiglie. È interessante notare come i differenti TE
presentino differenti specificità riguardo al loro sito di inserzione nel DNA genomico. I TE costituiscono la maggior proporzione dei
genomi vegetali. I genomi delle piante terrestri sono estremamente variabili come dimensioni, con variazioni superiori a 2000 volte,
andando dal genoma più piccolo della pianta carnivora Genlisea margaretae (63.4 Mbp) al più grande di Paris japonica (149 Gbp).
Notevoli variazioni possono esistere anche all’interno di unità tassonomiche minori; nella famiglia delle Poaceae, ad es. il riso ha un
genoma (circa 0.43 Gbp) 6 volte più di quello del mais (circa 2.5 Gbp), 12 volte più piccolo di quello dell’orzo (circa 5.1 Gbp) e 40
volte più piccolo di quello del frumento tenero (circa 17 Gbp). Grosse differenze possono comunque essere ritrovate anche
all’interno di uno stesso genoma. Il valore medio del genoma delle angiosperme è di circa 6 Gbp (mediana 2.4 Gbp) mentre è circa
18 Gbp nelle gimnosperme (mediana 17.5). Nelle angiosperme c’è una grossa differenza tra media e mediana e ciò suggerisce che
in queste piante sia evolutivamente privilegiato un genoma di piccole dimensioni. Cosa può aver determinato la comparsa di
genomi di dimensione così elevata? Numerose osservazioni hanno evidenziato che la grande variabilità nella dimensioni dei genomi
delle angiosperme è altamente correlata con il contenuto di TE. Per le specie vegetali con un genoma piccolo (Arabidopsis,
Brachypodium), il contenuto in DNA costituito da TE rappresenta il 20-30% del genoma. Specie con un genoma più grande (mais e
orzo) hanno una proporzione molto più grande di DNA rappresentato da TE. In mais più dell’85% del genoma è rappresentato da
TE. Parte della variazione in dimensione esistente tra i genomi è attribuibile a diversi livelli di poliploidia, ma sono meno importanti
del cambiamento del contenuto in TE. Tra i vari TE, un ruolo importante nella variazione dei genomi è svolto dai trasposoni del tipo
LTR. I genomi molto grandi delle angiosperme si sono originati in conseguenza di amplificazioni, avvenute in intervalli temporali
variabili, di un piccolo numero di famiglie LTR. Ad es. confrontando i genomi di riso e mais si evidenzia che è presente lo stesso
numero di famiglie di TE, ma nel genoma di mais, molto più grande, alcune famiglie di TE sono presenti in migliaia o decine di
migliaia di copie del genoma, mentre nel genoma di riso le stesse famiglie sono presenti in un numero di copie che non supera il
centinaio. La dimensione del genoma, oltre che dall’amplificazione, può essere influenzata da meccanismi di rimozione del DNA.
Infatti, anche se le piante possono tollerare grossi cambiamenti nella dimensione del genoma questo può avere conseguenze
negative sul genoma. Meccanismi particolarmente efficaci di rimozione del DNA sono stati trovati in piante appartenenti a gruppi
differenti. I principali meccanismi di rimozione sono: ricombinazione omologa ineguale, ricombinazione illegittima, e conversione
genica. Le inserzioni di TE all’interno dei geni e delle regioni regolatrici possono avere effetti negativi sul genoma. Come
conseguenza, oltre a possedere sistemi di rimozione del DNA in eccesso, gli organismi eucarioti mantengono silenziati i TE
regolandone negativamente l’espressione. Il più importante sistema utilizzato per tenere sotto controllo l’attività TE è di tipo
epigenetico. I meccanismi epigenetici che regolano l’espressione dei TE, senza modificare la sequenza di DNA, sono la metilazione
del DNA, il rimodellamento della cromatina e la presenza di siRNA (short interfering RNA).
Anche i genomi vegetali ne sono ricchi (85% in mais, 55% in orzo) e si pensa che la componente dei trasposoni apporti a genomi
delle piante un grado di variabilità più elevato di quanto si registri nei genomi animali. È interessante sottolineare che, negli animali,
la maggior parte del DNA non codificante è confinato nelle sequenze introniche mentre nelle piante è perlopiù nelle regioni
intergeniche. Almeno sulla base delle informazioni delle piante modello A. thaliana e Oryza sativa gli introni nelle piante sono
generalmente di dimensioni decisamente ridotte rispetto agli animali indicando quindi una diversità tra i due gruppi di organismi
anche a livello della struttura il gene. Un secondo fattore che spiega l’aumento della dimensione del genoma è la poliploidia. Il
termine aploide fa riferimento al numero di corredi cromosomi presenti nel nucleo di un cellula. Le cellule gametiche sono in
condizione aploide: esse possiedono quindi un solo corredo cromosomico di base che viene indicato con x mentre il numero di
cromosomi viene indicato con n. Le cellule somatiche (diploidi) possiedono due cromosomi. Per fare un es., una cellula somatica
della specie Pisum sativum (pisello) è in condizioni diploide (2x) con un numero di cromosomi pari a 2n=14. Nei poliploidi si verifica
di fatto un aumento del numero dei corredi cromosomi di base; questa mutazione ha forte impatto sul genoma dato che, con un
unico evento, si assiste ad un aumento considerevole della quantità di DNA contenuto nel nucleo. Si distinguono due tipi di
poliploidia: autopoliploidia e allopoliploidia. Nell'autopoliploidia si assiste ad una moltiplicazione di corredi cromosomi all'interno
della stessa specie. Le specie autopoliploidi conosciute sono perlopiù autotetraploidi (2n=4x): la cultivar di patata (Solanum
toberosum) oggi maggiormente utilizzata possiede un corredo cromosomico 2n=4x=48; la sua condizione tetraploide è supportata
dal fatto che la specie selvatica, da cui molto probabilmente essa ha avuto origine, possiede un corredo cromosomico dimezzato
(2n=2x=24). La poliploidia origina da un'ibridazione interspecifica (unione di due genomi diversi). L'ibrido generalmente è sterile per
difetti della meiosi dovuti alla mancanza di cromosomi omologhi: solo un raddoppio dell'intero pool di cromosomi può ristabilire la
fertilità. In questo senso è stato molto studiato il genere Brassica dove, ad es., Brassica napus (colza) è un allotetraploide
(2n=4x=38) generata dall'unione dei due genomi di Brassica oleracea (2n=2x=18) e Brassica campestris (2n=2x=20). La poliploidia
può insorgere per difetti nelle divisioni mitotiche o meiotiche. Nelle cellule somatiche difetti dell'anafase possono creare nuclei con
un numero di cromosomi doppi (poliploidizzazione somatica). Si parla invece di poliploidizzazione sessuale quando sono presenti
gameti non ridotti generati da eventi di non disgiunzione dei cromosomi. Nelle angiosperme nuovi allopoliploidi possono essere
particolarmente frequenti a causa dell'abbondanza di gameti non ridotti (0,56%) e anche a causa della generale mancanza di un
indirizzamento preciso (via vento o insetti) del polline verso l'organo ricettivo femminile. Le angiosperme presentano anche una
grande plasticità nel tollerare l'impatto della poliploidia ovvero l'accomodamento di due genomi diversi all'interno dello stesso
nucleo. Questa plasticità è resa evidente dagli svariati cambiamenti genetici ed epigenetici che interessano un nucleo poliploide.
Contrariamente a quanto si pensava in passato, un nucleo poliploidi è altamente dinamico: in breve tempo rispetto alla formazione
della condizione poliploidi esso subisce considerevoli modificazioni che includono stesse direzioni, riarrangiamenti di sequenza,
riattivazione di trasfusioni, eventi di silenziamento genico, cambiamenti nel livello di metilazione del DNA e rimodellamento della
cromatina. Studi su allopoliploidi di sintesi (ovvero che possono essere ottenuti in condizioni di laboratorio), di cui il genere Brassica
offre un sistema di eccellenza, sono stati e sono tuttora molto importanti nel fornire indicazioni sulla natura della plasticità dei
genomi poliploidi di recente formazione. Su tempi evolutivi lunghi un genoma poliploide subisce estesi riarrangiamenti, dove sono
molto frequenti le partite di geni, per cui è forte la tendenza ad assumere l'aspetto di un genoma diploide (processo di
diploidizzazione); basti pensare che sia Arabidopsis thaliana che Zea mais, considerati diploidi, risultano in realtà essere in origine
dei poloploidi (paleopoliploidi). E’ ormai accettato che eventi di poliploidia hanno contribuito a modellare i genomi delle piante
durante l'evoluzione sia a breve termine (nei neopoliploidi) che a lungo termine (nei paleopoliploidi). La prevalenza della poliploidia
nelle angiosperme suggerisce che essa abbia qualche significato adattativo. L'individuo poliploidi spesso presenta nuovi fenotipi e/o
caratteristiche di superiorità rispetto ai progenitori diploidi. Alcuni di questi tratti, quali la tolleranza allo stress idrico, la polizia
(formazione di semi fertili in assenza di fecondazione), la resistenza a stress bioptici, il tempo di fioritura, la biomassa e la
dimensione degli organi potrebbero anche rendere i poliploidi più adatti alla colonizzazione di nuove nicchie o aumentare la
possibilità di essere selezionati in agricoltura. Non stupisce quindi il fatto che la maggior parte delle specie di interesse agro-
alimentare portino le tracce di autopoliploidia (erba medica, patata) o di allopoliploidia (grano, cotone, caffè, avena, colza).

PROGETTI GENOMA:

I genomi delle piante sono stati studiati a livello citologico, genetico e molecolare e sono emerse grandi differenze nel numero di
cromosomi, la dimensione del genoma, il livello di ploidia nelle diverse specie. La prima pianta di cui fu il genoma completo è la di
cotiledone Arabidopsis thaliana; infatti essa soddisfa tutti i requisiti di una specie modello per analisi genetico-molecolari: un ciclo
vitale breve, una taglia piccola, una progenie abbondante, un genoma di piccole dimensioni e ampie collezioni di mutanti. Nel 2000
è stata pubblicata la prima versione del genoma completo (125 Mb) di A. thaliana dove vengono descritte le caratteristiche
molecolari localizzate lungo i 5 cromosomi, dalle sequenze codificanti proteine, agli elementi trasponibili, ai geni per gli RNA
transfer. Le informazioni più aggiornate sono oggi disponibili sul sito "The Arabidopsis Information Resources" (TAIR). I database
vengono infatti continuamente aggiornati e corretti soprattutto sulla base delle analisi delle sequenze espresse, che danno prova
dell'esistenza del trascritto corrispondente ad una determinata sequenza genomica. Il tratto più significativo e sorprendente
emerso dal progetto genoma è stata l'elevata ridondanza genica, ovvero la presenza di molte sequenze geniche simili che si riflette
nella grande abbondanza di famiglie geniche contenenti più di 4-5 membri. Ad un'analisi accurata emerso infatti che la maggior
parte del genoma (70%) è rappresentata da segmenti duplicati. Questo è stato interpretato come una chiara prova di eventi di
poliploidia. Nel 2002 è stato sequenziato il genoma della prima monocotiledone, Oryza sativa, una specie molto importante per
l'alimentazione umana a livello globale. Le informazioni sul genoma di riso (389 Mb) sono state utilizzate per studiare altri cereali
che possiedono genomi di dimensioni maggiori (basti pensare ai 2300 Mb di mais e ai 17.000 Mb di grano). Il progetto genoma su
Populus trichorcarpa (485 Mb; più di 45.000 geni), che si è concluso con una pubblicazione nel 2006, segna l'inizio dell'esplorazione
delle piante legnose; si guarda infatti con interesse alla comprensione di due processi tipici: la dormienza e la formazione del legno.
L'anno successivo un consorzio italofrancese descrive il genoma di vite (Vitis vinifera) (475 Mb; geni 30.434). La disponibilità di
sequenze genomiche complete per diverse piante ha permesso studi di genomica comparativa. I genomi eucariotici differiscono nel
grado in cui i geni rimangono sui cromosomi corrispondenti e nell'ordine corrispondente durante l’evoluzione. Il fenomeno per cui
il repertorio, ovvero il tipo, di geni risulta conservato tra genomi diversi viene definito sintenia. Una forma più specifica di sintenia,
detta colinearità, richiede inoltre che venga rispettato non solo il tipo ma anche l'ordine dei geni. E’ ragionevole pensare che più 2
taxa sono vicini dal punto di vista filogenetico e maggiore sarà il grado sintenia tra i loro genomi. L'organizzazione dei geni a livello
del genoma offre uno strumento più informativo e robusto per risolvere le relazioni di parentela (filogenetiche) tra taxa, rispetto
agli studi condotti sulle sequenze nucleotidiche. E’ noto infatti che alcune sequenze nucleotidiche presentano, nei diversi organismi,
un grado di evoluzione (o grado di sostituzione nucleotidica) molto diverso, e la loro analisi potrebbe quindi fornire relazioni di
parentela distorte. Nelle angiosperme il confronto tra genomi è complicato dalla presenza di fenomeni ricorrenti di poliploidia e dai
considerevoli riarrangiamenti che generalmente seguono questi eventi: l'analisi della sintenia e degli eventi di paleopoliploidia sono
pertanto strettamente collegati. Soltanto con studi di genomica comparativa è stato possibile ricostruire gli eventi di poliploidia che
hanno contribuito a modellare durante l’evoluzione i genomi delle angiosperme. L'analisi del genoma di vite ha messo in evidenza
che esso è costituito da tre genomi, per cui si presume un ancestrale esaploide (paleoesaploidizzazione); questa organizzazione
ancestrale sembra comune alla maggior parte delle dicotiledoni; tuttavia, non fu possibile evidenziarla nel genoma di Arabidopsis e
Populus per il fatto che duplicazioni genomiche successive e profondi riarrangiamenti l'avevano mascherata. È anche emerso che la
paleoesaploidizzazione non interessa la linea evolutiva delle angiosperme monocotiledoni. E’ oggi riconosciuto che il genoma di
Arabidopsis ha subito tre eventi di paleopoliploidia: una triplicazione (paleoesaploidia) più antica (detta gamma) e due duplicazioni
più recenti (dette alfa e beta). È chiaro che il genoma di Arabidopsis ha subito nel tempo un processo di forte riorganizzazione e
soprattutto di compattazione. Altre angiosperme dicotiledoni hanno un'architettura del genoma meno complessa di Arabidopsis. Il
genoma di pioppo presenta una sola duplicazione nella sua linea evolutiva (silicoide, detta p) e condivide con Arabidopsis la più
antica (triploide, gamma). I genomi di vite e papaya condividono solo la più antica (gamma) e non presentano segni di altri eventi di
poliploidia. L'alto grado di sintenia riscontrata conferma che queste dicotiledoni condividono un ancestrale esaploide. Progetti
genoma sono in corso per altre dicotiledoni di interesse agro-alimentare, quali le Solanaceae (pomodoro, patata, melanzana,
peperone) e le Leguminosae. Tra queste ultime, è già completo il genoma della soia (Glycine max) la cui importanza risiede nella
capacità di accumulare proteine e oli a livello dei semi e, in quanto legominose, nella capacità di stabilire simbiosi con batteri del
suolo che fissano l'azoto atmosferico (formazione di noduli). La lista dei genomi vegetali completamente sequenziati si sta
rapidamente allungando per le angiosperme monocotiledoni e grande attenzione è rivolta ai cereali per l’importanza
nell’alimentazione animale e umana e per le potenzialità nella produzione di biomassa a fini energetici. Successivamente al genoma
di riso (sottofamiglia delle Ehrhartoideae), sono stati sequenziati genomi di sorgo (Sorghum bicolor) e mais (Zea mais),
appartenente alla sottofamiglia delle Panicoideae, e, di recente, di Brachypodium distachyon (che rappresenta un sistema modello
anche per il grano). Il genoma Brachypodium contiene 25.532 geni codificanti proteine, un numero simile a quanto riscontrato in
riso e sorgo, nonostante le dimensioni dei rispettivi genomi siano molto diverse (272,389 e 750 Mb, rispettivamente). I motivi di
questa situazione si possono ascrivere alla moltiplicazione di elementi trasponibili, in particolare di retrotrasposoni. Anche il
genoma di mais, con una dimensione di circa 2300 Mb e stimati 32.000 geni, è molto ricco di retrotrasposoni, che si ritiene abbiano
contribuito a modellarne l'organizzazione e il contenuto. Nonostante il lungo periodo di evoluzione indipendente (50-70 milioni di
anni) i geni e i genomi dei cereali mostrano un certo grado di conservazione. Anche in questo caso studi di genomica comparativa
hanno mostrato estesi blocchi di sintenia. Si è avuta nuovamente conferma di una duplicazione dell'intero genoma, che era stata
già evidenziata con l'analisi del genoma di riso, precedente la diversificazione dei cereali (56-73 milioni di anni fa) è stato inoltre
possibile ricostruire l'evoluzione dei cromosomi nelle diverse specie di cereali. Il numero variabile di cromosomi deriverebbe da un
corredo ancestrale di 5 cromosomi che sarebbe stato sottoposto a duplicazioni e, successivamente, a inserzioni (quindi fusioni) di
interi cromosomi a livello delle regioni centromeriche di altri cromosomi. La condensazione di due o più cromosomi in un unico
cromosoma è un fenomeno ricorrente in molte linee evolutive, inclusi molti cereali. Quindi le novità molecolari nel genoma delle
angiosperme sono dovute a fenomeni di poliploidia (duplicazione di interi genomi o ibridazione interspecifica) e riarrangiamenti
rapidi dopo gli eventi di ploidizzazione con forte tendenza a ridurre le dimensioni del genoma. Si ritiene che questo abbia dato avvio
alla divergenza nella struttura delle sequenze duplicate che spesso si riflette in una divergenza nella funzione
(neofunzionalizzazione). Questi eventi potrebbero aver fornito la materia prima per sostenere l’evoluzione della complessità
morfologica e metabolica osservata nelle angiosperme.

IL DNA MITOCONDRIALE: ORIGINE ED EVOLUZIONE, ORGANIZZAZIONE E CONTENUTO

I mitocondri e i plastidi sono stati originati da eventi di endosimbiosi. I mitocondri sarebbero derivati da un evento di endosimbiosi
con un batterio ancestrale filogeneticamente correlato alla moderna classe degli alfa-proteobatteri.

Tuttavia alcune domande restano ancora aperte: quante volte i mitocondri sono comparsi nel corso dell'evoluzione, ovvero, i
mitocondri hanno un'origine mono- o polifiletica?Esistono nel dominio Eukarya delle linee evolutive che non hanno mai posseduto
mitocondri? Qual era il contenuto e l’organizzazione del genoma mitocondriale ancestrale e come questo si è modificato nel corso
dell’evoluzione? I dati più recenti indicano che i mitocondri abbiano un'origine monofiletica. L'esistenza di linee evolutive
eucariotiche prive di mitocondri è attualmente messo in discussione sulla base di alcune evidenze. In particolare, analisi
filogenetiche recenti mostrano che i Microsporidia, un gruppo di parassiti intracellulari considerati “amitocondriati”, sono una linea
evolutiva appartenente al Regno dei Funghi e altri protisti vengono raggruppati insieme ad organismi che possiedono mitocondri.
D'altra parte, osservazioni ultrastrutturali indicano che alcuni organismi considerati amitocondriati possiedono in realtà organelli
“criptici”, chiamati idrogenosomi o mitosomi a seconda che generino o meno idrogeno come prodotto metabolico finale, che sono
senza dubbio derivati dai mitocondri. Secondo Martin e Muller (1998) l'ipotesi più probabile è che l'origine del mitocondrio non sia
stata successiva all'origine della cellula eucariotica ma sia avvenuta contemporaneamente ad essa. A supporto dell'origine
monofiletica l'informazione genetica contenuta nel mtDNA è fondamentalmente la stessa in tutti gli eucarioti. Sono presenti un
certo numero di geni che codificano componenti della membrana interna coinvolti nella generazione di ATP attraverso la
fosforilazione ossidativa accoppiata al trasporto di elettroni e un numero variabile di geni codificanti componenti del sistema della
sintesi proteica (rRNA, tRNA e proteine ribosomali) responsabile della traduzione degli mRNA trascritta a partire dal mtDNA. Il
confronto dell'organizzazione e del contenuto genico di genomi mitocondriali completamente sequenziati, appartenenti ad
organismi distanti dal punto di vista filogenetico, suggerisce che in tempi brevi rispetto all'evento di endosimbiosi si sia verificata
una massiccia perdita di geni. Il genoma di Rickettsia prowazekii, l’alfaproteobatterio più vicino dal punto di vista filogenetico
all'ipotetico progenitore dei mitocondri, contiene infatti 832 geni codificanti proteine mentre il corredo genico dei mtDNA moderni
è di circa un ordine di grandezza inferiore. I genomi mitocondriali possono pertanto essere definiti “relitti” di genomi batterici. Il
DNA mitocondriale (mtDNA) nelle piante presenta peculiarità rispetto ai mtDNA di animali e funghi. Innanzitutto, il mtDNA delle
piante è di dimensioni molto variabili e, nelle piante terrestri, risulta molto più grande (200-2500 kb) rispetto a quanto riscontrato
nei sistemi animali (16-20 kb) e fungini (17-100kb). Si possono identificare tre tipi di organizzazione del mtDNA: ancestrale, ridotto
ed espanso. L’mtDNA ancestrale mantiene molte delle caratteristiche del genoma derivato minimo. Si tratta in genere di molecole
circolari tra le 42 e le 70 kb contenenti un numero relativamente alto (50-60) di geni. Alcune alghe verdi possiedono un mtDNA
ridotto (16-25 kb) che si presenta in forme circolari o lineari. Ad es. Chlamydomonas reinhardtii, il primo organismo fotosintetico ad
avere il mtDNA completamente sequenziato, possiede un mtDNA strutturato come molecole lineari di DNA a doppia elica di 15,8 kb
e contenente 8 geni codificanti proteine e 3 tRNA. Il mtDNA delle piante terrestri è invece caratterizzato da un tipo di
organizzazione che può essere definita espansa attestandosi anche a 2500 kb in alcune Cucurbitaceae; tuttavia, esso non codifica
per una quantità proporzionalmente maggiore di geni rispetto al mtDNA ancestrale tipico delle alghe verdi. La dimensione del
mtDNA non è infatti correlata alla quantità di informazione genetica ivi contenuta. La lista aggiornata dei genomi mitocondriali
completamente sequenziati è disponibile nel sito NCBI nella sezione dedicata agli organelli. A titolo comparativo in tabella vengono
riportate le caratteristiche dei mtDNA di 8 organismi vegetali: 1 alga, 3 briofite, 1 gimnosperma e 4 angiosperme. Dalla tabella si
evince che la dimensione del mtDNA aumenta considerevolmente nelle angiosperme. Passando da alghe verdi e briofite alle piante
a seme, si assiste ad una progressiva perdita di geni per proteine ribosomali e tRNA ed un parallelo imponente aumento delle
sequenze non codificanti (regioni interfoniche, introni e pseudogeni) che segue lo stesso gradiente tassonomico. Si ritiene che le
piante terrestri si siano evolute dalle alghe verdi e che l'aumento drastico delle sequenze non codificanti nelle briofite e ancor di più
nelle gimnosperme e nelle angiosperme sia l'espressione di questa evoluzione. Il mtDNA delle specie modello A. thaliana è stato
descritto nel 1999. Il dato sorprendente è stata l'identificazione di numerosi segmenti che hanno un'origine “aliena”: 16 frammenti
sono riconducibili a sequenze plastidiali, 41 a (retro)trasposti nucleari e 2 a sequenze di virus fungini. Le sequenze plastidiali sono
facilmente riconoscibili e sono state identificate in tutti i mtDNA delle angiosperme analizzate. La proporzione di DNA plastidiale
traslocata al mitocondrio sembra seguire un gradiente tassonomico: 0% nella mtDNA di Marchantia, 2,1% in Arabidopsis, 4,4% in
mais e 7% in riso. Dato che esiste una similarità bassa tra le sequenze plastidiali che sono state integrate nel mtDNA di diverse
specie, l'ipotesi più probabile è che tali sequenze trovino facilmente la strada verso l’mtDNA ma che raramente vi si integrino
probabilmente per l'assenza di sequenze omologhe. È altrettanto importante sottolineare che il 49% del mtDNA di Arabidopsis ha
un'origine e una funzione al momento sconosciuta non mostrando similarità evidenti con sequenze note. Una situazione simile si
riscontra in mais: fatta eccezione per i geni funzionali, le cui sequenze sono piuttosto conservate, nel suo complesso il mtDNA di
mais mostra una similarità bassa con altri mtDNA incluso quello del riso: anche in questo caso una grande frazione (circa 3/4) del
genoma ha un'origine è una funzione sconosciuta. Il mtDNA dell'angiosperme può pertanto essere definito un mosaico di sequenze
di origine eterogenea.

Ricombinazione ed eteroplasmia:

I mtDNA sono ricchi di sequenze ripetute (repeats): in generale repeats lunghi (> 1000 pb) sono più frequenti in mtDNA di grandi
dimensioni mentre repeats più brevi (tra 100 e 1000 pb) caratterizzano i mtDNA più piccoli. La presenza di molti repeats favorisce
fenomeni di ricombinazione, che possono portare ad un cambiamento nell'ordine dei geni come anche una ripartizione del genoma
in molecole subgenomiche più piccole, ciascuna contenente un subset di geni. Sebbene infatti una struttura circolare possa essere
ricostruita per tutti i mtDNA sequenziati nelle angiosperme, si ritiene che i mtDNA esistano in una struttura multiripartita generata
da processi di ricombinazione omologa a carico delle sequenze ripetute. La ricombinazione è una caratteristica dei mtDNA vegetali
che probabilmente gioca un ruolo nel determinare la struttura, l’organizzazione e l'evoluzione dei mtDNA. Si pensa che i repeats
lunghi ricombinino con frequenza e in modo reversibile mentre i repeats corti ricombinerebbero in modo sporadico ma
irreversibile. Questi ultimi potrebbero essere responsabili dell'evoluzione dei mtDNA. L'evidenza sperimentale più convincente che
avvalora la ricombinazione del mtDNA è stata la localizzazione a livello dei mitocondri di proteine associate al processo di
ricombinazione, come ad esempio proteine omologhe alla ben nota RecA di E. coli Come conseguenza di questi fenomeni, i
mitocondri delle piante presentano il fenomeno dell'eteroplasmia ovvero, la co-presenza di due o più varianti di molecole di
mtDNA. Le differenze consistono in riarrangiamenti derivati non solo dagli eventi di ricombinazione ma anche da
inserzioni/delezioni, trasferimenti di DNA tra organelli e trasposizioni di sequenze; generalmente però nessuna variante contiene
mutazioni deleterie. L’eteroplasmia, che è stata anche osservata nei mitocondri di altri eucarioti e anche nei plastidi, è stata
interpretata come una strategia evolutiva dei genomi mitocondriali per generare diversità genetica in mancanza di ricombinazione
sessuale. Essa sembrava associata a situazioni di stress conseguenti esclusivamente alla coltura in vitro. Attualmente, invece,
l’eteroplasmia dei mitocondri è considerata una normale condizione fisiologica nelle piante piuttosto comune anche nelle
popolazioni naturali. Nelle piante l’eteroplasmia è caratterizzata dalla trasmissibilità alle generazioni successive. I meccanismi alla
base del mantenimento della trasmissione delle popolazione eteroplasmiche di mtDNA sono ancora sconosciuti. Le cellule vegetali
contengono centinaia di mitocondri (circa 600 in una cellula del mesofillo di tabacco) che possono variare nel loro contenuto di
DNA (da 0 fino a 1,2 Mb). Nonostante l'organizzazione complicata del loro mtDNA, i mitocondri possono funzionare correttamente
ed ereditare il DNA poiché sono soggetti a frequenti fusioni e fissioni, eventi in cui possono verificarsi scambi di molecole di DNA. E’
stato infatti proposto il concetto del “discontinuous whole” (insieme discontinuo): il complesso dei mitocondri può essere
considerato come un unico apparato i cui singoli organelli vanno incontro a fenomeni di fusione. Durante queste fusione è
presumibile che avvengano processi di rimescolamento delle molecole eteroplasmiche e ricombinazioni che sono ritenuti
importanti per la trasmissione stabile del mtDNA.

IL DNA PLASTIDIALE: ORIGINE ED EVOLUZIONE, ORGANIZZAZIONE E CONTENUTO

Tutte le piante discendono da un ancestrale eucariotico che ha acquisito la capacità di svolgere fotosintesi dalla simbiosi con un
cianobatterio che, nel corso dell'evoluzione, è divenuto l'attuale plastidio. Questo processo, conosciuto come endosimbiosi
primaria, ha rivoluzionato la vita sulla terra spostando la produzione primaria da organismi procariotici a organismi eucariotici.
Questo evento ha dato origine a tre linee evolutive: le glaucofite, le alghe rosse e le alghe verdi ed i loro discendenti, ovvero le
piante. I plastidi dell'endosimbiosi primaria sono caratterizzati dall'avere due membrane che corrispondono alla membrana
plasmatica e alla membrana esterna del cianobatterio. Si ritiene infatti che la membrana di fagocitosi la cellula ospite sia scomparsa
senza lasciare traccia; ne sono la prova di galattolipidi a livello della membrana esterna e uno strato di peptidoglicani tra le due
membrane, caratteristiche presenti nei cianobatteri. Analisi filogenetiche suggeriscono che circa 550 milioni di anni fa c'è stata la
divergenza della linea evolutiva delle glaucofite e successivamente quella delle alghe rosse. Le piante si sono diversificate dalle
alghe verdi ancestrali circa 400-475 milioni di anni fa e successivamente hanno conquistato l'ambiente terrestre. In linea con questa
successione temporale, i plastidi delle glaucofite (talvolta chiamati cianelli) sono quelli più simili ai cianobatteri; mantengono infatti
lo strato di peptidoglicani tra la membrana interna e quella esterna e nello strato e nello stroma i ficobilisomi. I plastidi delle alghe
rosse usano anche essi ficobiline ma sono privi dello strato di peptidoglicani. Nelle alghe verdi e nelle piante i ficobilisomi sono stati
sostituiti da clorofilla b a livello delle membrane tilacoidali e una ricca gamma di pigmenti accessori sviluppati per catturare la luce e
proteggere l'apparato fotosintetico dalla luce terrestre. I plastidi primari hanno subito considerevoli modificazioni durante la
coevoluzione con l'ospite eucariotico. Il cambiamento più evidente è la forte riduzione del genoma. I genomi di molti cianobatteri
codificano per 5000-6000 geni. Al contrario, il genoma plastidiale più ricco di geni quello dell'alga rossa Porphyria purpurea,
contiene 251 geni. Questa perdita di geni ha reso l'organello un simbionte obbligato; tuttavia, è noto oggi che si è verificato un
massiccio trasferimento di geni verso il nucleo della cellula ospite. Questo è avvenuto presumibilmente prima della divergenza delle
tre linee evolutive. Infatti i plastidi di tutte condividono un corredo di geni molto simile. E’ importante citare che esistono anche
endosimbiosi cosiddette secondarie. In alcuni casi, le progenie di interazioni endosimbiontiche primarie sono diventate infatti a loro
volta endosimbionti di altri eucarioti eterotrofi come alcuni protisti. Talvolta anche organismi originati da queste endosimbiosi
secondarie sono diventati endosimbionti di altre cellule eucariotiche, dando origine a endosimbiosi terziarie. Questi eventi hanno
creato una varietà di organismi eucarioti, che presentano plasmidi con membrane multiple, a cui ci si riferisce comunemente con il
termine di meta-alghe. Spesso la riduzione del plastidio è talmente accentuata che viene persa la capacità di svolgere la fotosintesi,
e viene quindi nuovamente assunta una condizione di eterotrofia. Spesso la riduzione del plastidio è talmente accentuata che viene
persa la capacità di svolgere la fotosintesi, e viene quindi nuovamente assunta una condizione di eterotrofia. Questi plastidi non
fotosintetici apparentemente forniscono ancora dei servizi essenziali alla cellula ospite come è stato dimostrato per la sintesi di
acidi grassi e di isoprenoidi. Il DNA plastidiale (anche detto plastoma) viene comunemente descritto come molecola di DNA
circolare di circa 120-200 kb. Tuttavia, sulla base di analisi di microscopia elettronica, a fluorescenza e molecolari si ritiene che il
DNA plastidiale esista sotto forma di molecola circolare, ma anche lineare sia in forme monomeriche che multimeriche.
Generalmente, nell'unità base, una porzione della molecola (20-30 kb) e ripetuta con un orientamento invertito; queste due
regioni, dette ripetute invertite (IR), separano due regioni a singola copia che hanno dimensione diversa e sono chiamate regione a
singola copia piccola e regione a singola copia grande. Il DNA plastidiale esiste in due conformazioni equimolari che differiscono
nella posizione relativa delle regioni a singola copia: questi due isomeri strutturali risultano dalla ricombinazione intramolecolare
tra le regioni IR di molecole circolari o da eventi di ricombinazione durante la replicazione. Ci sono risultati contrastanti sulla
posizione delle forme circolari rispetto quelle lineari; al di là dei problemi associati al metodo di isolamento, si pensa che le
molecole lineari rappresentino intermedi di replicazione molto abbondanti in cellule che si dividono rapidamente. Molte molecole
di ti DNA plastidiale si raggruppano in complessi chiamati nucleoidi che sono costituiti da DNA, RNA e svariate proteine necessarie
per l'organizzazione e il mantenimento del nucleoide stesso, la replicazione e la trascrizione. I nucleoidi hanno un diametro di 0,2
µm e contengono circa 10 molecole di DNA plastidiale. A seconda della fase dello sviluppo i plastidi possono contenere da 10 a
centinaia di copie di genoma. Contrariamente a quanto accade nel genoma mitocondriale, l'organizzazione del genoma plastidiale è
piuttosto conservata a partire dalle briofite fino alle angiosperme. Le poche eccezioni dall'architettura generale e la lunghezza sono
a carico di contrazioni o espansioni delle regioni IR. Piccole divergenze si osservano anche nell'ordine dei geni. I geni sono
organizzati in operoni; i pochi riarrangiamenti riguardano le regioni che fiancheggiano i singoli speroni e probabilmente sono
originati da eventi di ricombinazione intramolecolare che interessano brevi sequenze ripetute e invertite. I genomi plastidiali sono il
bersaglio di sistemi di ricombinazione molto attivi e, in mancanza di una pressione selettiva, essi tendono a perdere le sequenze di
DNA. A differenza di quanto accade nel DNA nucleare e mitocondriale, i genomi plastidiali sembrano essere immuni
dall'introduzione stabile di sequenze esogene. Sono stati sequenziati 180 genomi plastidiali (la lista aggiornata è disponibile alla
sezione genomi organelli del sito del NCBI) di cui una gran parte appartengono a embriofite. Un set comune di circa 45 geni è
sempre presente in tutti i DNA plastidiali di piante e alghe. Essi codificano per alcuni, ma non tutti, i componenti del fotosistema I e
II, il complesso del citocromo b6/f, la ATP sintasi, la subunità grande del ribulosio bis-fosfato carbossilasi (rbcL), una RNA polimerasi
di tipo batterico, proteine per la subunità grande piccola di ribosomi, ed RNA strutturali quali RNA riposo male e RNA transfer.
Essenzialmente esso codifica per componenti della fase luminosa della fotosintesi e del macchinario deputato all'espressione
genica.

IL TRASFERIMENTO DI DNA DAGLI ORGANELLI AL NUCLEO:

Sia i mitocondri sia i plastidi hanno un’origine endosimbiotica ma contengono molti meno geni rispetto ai batteri corrispondenti
moderni. In seguito all'evento di endosimbiosi, e probabilmente in tempi molto rapidi, si è verificata una massiccia perdita di geni.
Molti dati testimoniano che il trasferimento di geni al nucleo è stato il processo che più ha contribuito a modellare i DNA
mitocondriali e plastidiali. Questi trasferimenti di geni hanno avuto come conseguenza la graduale perdita dell'autonomia degli
organelli e hanno richiesto una serie di eventi piuttosto complessi. La copia nucleare di un gene mitocondriale o plastidiale ha
dovuto infatti acquisire elementi genetici aggiuntivi (promotore e terminatore appropriati e sequenze di indirizzamento) per poter
rimanere funzionale nel nuovo contesto e ritornare a svolgere la propria funzione come prodotto genico nell'organello di origine.
Ma in che grado questi trasferimenti di DNA dagli organelli al nucleo hanno contribuito a modellare i genomi degli eucarioti e, in
particolare, delle piante? In media circa il 14% dei geni presenti nei genomi nucleari vegetali sono di origine cianobatterica. È
emerso inoltre che questi geni appartengono a svariate categorie funzionali e alcuni di essi sono stati reclutati dalla cellula periotica
durante l'evoluzione per svolgere funzioni non strettamente collegate alle funzioni del plastidio. Sono state avanzate ipotesi per
spiegare il trasferimento di geni al nucleo; i geni sarebbero stati trasferiti:

1) per evitare un ambiente dove vengono prodotte specie reattive all'ossigeno che possono danneggiare il DNA;

2) per poter realizzare una migliore integrazione della regolazione dell'espressione genica tra organelli e nucleo;

3) per poter far parte di un pool di geni che sono soggetti a ricombinazione sessuale mentre nell'organello la riproduzione di tipo
sessuale potrebbe portare ad un accumulo di mutazioni deleterie.

Ma, qualsiasi sia la spiegazione, un'altra domanda sorge spontanea: perché nel corso dell'evoluzione non è stata trasferita la
totalità dei geni? Un'ipotesi è che il processo di trasferimento non sia ancora stato completato. D'altra parte, i geni che esistono nei
genomi degli organelli hanno in comune il fatto di codificare proteine idrofobiche che sono coinvolte in processi che generano
energia. Una spiegazione potrebbe quindi essere collegata alla difficoltà delle proteine idrofobiche di essere importate
nell'organello e/o alla necessità dell'organello di mantenere il controllo diretto di geni per il trasporto di elettroni in modo da
evitare la produzione di specie reattive all’ossigeno. La conseguenza del massiccio trasferimento di geni dagli organelli al nucleo è
che alcuni processi metabolici della cellula eucariotica (quali la respirazione nei mitocondri e il processo fotosintetico nei plastidi)
risultano dei “mosaici” evolutivi: i complessi multiproteici cruciali sono infatti costituiti da proteine codificate in parte dal nucleo in
parte dall'organello. Un esempio classico è la ribulosio bis-fosfato carbossilasi, enzima chiave della fotosintesi, che è costituita da 8
subunità grandi codificate dal genoma plastidiale (gene rbcL) e 8 subunità piccole codificate dal genoma nucleare (gene rbcS).
Questo comporta la necessità di un coordinamento preciso dell'espressione genica nucleare e organellare per fornire i componenti
dei complessi proteici in quantità appropriata senza sprechi energetici. Si sono evoluti alcuni meccanismi per assicurare un
controllo dell'espressione genica degli organelli da parte dei geni nucleari (detto meccanismo di segnalazione anterogrado); questi
meccanismi a loro volta si basano su segnali che convogliano l'informazione dall'organello al nucleo (meccanismo di segnalazione
retrogrado). L'identità di questi segnali è al momento ancora sconosciuta; per un certo tempo la Mg-protoporfirina IX è stata
considerata la molecola in grado di segnalare al nucleo lo stato funzionale del plastidio. Tuttavia, alcuni dati recenti sembrano
smentire questo ruolo. Sempre di recente sono emersi nuovi dati che indicano un certo grado di conregolazione trascrizionale dei
geni nucleari con geni degli organelli. Per questi motivi la maggior parte delle proteine mitocondriali e plastidiali è codificata dal
genoma nucleare ed è pertanto sintetizzata sui ribosomi del citosol. Queste proteine possiedono all’N-terminale una sequenza che
è il segnale di indirizzamento che permette la loro traslocazione, attraverso complessi molti proteici, all'interno degli organelli. Nella
cellula vegetale, altri processi metabolici, oltre a respirazione fotosintesi, sono in realtà dei mosaici evolutivi. Ne sono un es. la
glicolisi nel citosol e il ciclo di Calvin nel plasmidi: entrambe utilizzano infatti enzimi che hanno origine evolutiva diversa. Anche
alcuni componenti del poro nucleare e del processo apoptotico (es. metacasparsi) sembrerebbero di origine endosimbiontica.
Risulta pertanto evidente che gli eventi di endosimbiosi abbiano avuto un forte impatto nel modellare il genoma e i processi
metabolici della cellula vegetale. I trasferimenti di geni degli organelli al nucleo sono avvenuti presumibilmente in un momento
molto precoce dopo l'evento di endosimbiosi. Tuttavia, il confronto tra genomi mitocondriali e plastidiali di piante appartenenti a
gruppi tassonomici diversi di angiosperme ha rilevato che il trasferimento di alcuni geni è un processo avvenuto con una certa
frequenza in tempi evolutivi piuttosto recenti. Si sono osservati 26 casi trasferimento del gene mitocondriale rps10 al nucleo, con
perdita concomitante del gene dell'organello, in 277 diverse angiosperme. Da un’analisi di 300 angiosperme anche il gene
plastidiale infA risulta essere stato trasferito in tempi recenti. In 4 specie vegetali con copie non funzionali di infA nel plastidio,
esistono copie funzionali del gene a livello del nucleo. Analisi filogenetiche suggeriscono che siano avvenuti 4 trasferimenti
indipendenti di questo gene nel corso dell'evoluzione delle angiosperme. Sebbene il trasferimento di geni funzionali interi dagli
organelli al nucleo sia oggi è un evento raro, ci sono evidenze di trasferimenti recenti di sequenze non codificanti sia in sistemi
animali sia vegetali. Il repertorio di sequenze di DNA mitocondriali o plastidiali non codificanti ritrovate nei genomi nucleari è molto
variabile in riferimento alla lunghezza degli inserti anche in specie vicine filogeneticamente, suggerendo che l'evoluzione di queste
sequenze sia un processo dinamico e continuo. I genomi nucleari di Arabidopsis e riso sono particolarmente ricchi di sequenze di
origine organellare. È interessante notare che una certa funzione di queste sequenze si localizzano a livello di sequenze geniche e ci
sono evidenze che in alcuni casi possano aver contribuito alla comparsa di nuovi esoni e nuove sequenze regolatrici. Quali sono i
meccanismi alla base del trasferimento delle sequenze dagli organelli al nucleo? Si è più propensi a considerare il DNA, e non tanto
l'RNA, la molecola intermedia perché migra dagli organelli verso il nucleo. La migrazione di sequenze di DNA al nucleo è stata
sperimentalmente provata in cellule di lievito e di tabacco. Perturbazioni a carico dell'integrità strutturale della membrana degli
organelli potrebbero fornire occasioni di fuga per il DNA dagli organelli. Data l'alta frequenza di loci nucleari che presentano sia
sequenze mitocondriali sia plastidiali si ritiene anche probabile il rilascio concomitante di DNA da entrambi gli organelli. Questo
potrebbe avvenire in situazioni particolari di stress o durante la degenerazione degli organelli associate al processo della
gametogenesi, fenomeno che interessa la maggior parte delle angiosperme. Analisi molecolari sul tabacco hanno evidenziato
sequenze di microomologia (2-5b) a livello dei siti di integrazione nel genoma nucleare suggerendo che il DNA plastidiale si integra
attraverso il meccanismo di ricombinazione legittima (unione di estremità non omologhe) dove esistono tagli alla doppia elica. In
conclusione, il trasferimento di DNA dagli organelli al nucleo sono stati senza dubbio una forza evolutiva che ha avuto importanza in
tempi antichi, quanto sono stati trasferiti in massa un gran numero di geni; la scoperta di geni chimerici con sequenze esoniche di
origine organellare e l'associazione di sequenze organellari con elementi regolatrici testimonia comunque il fatto che questi
trasferimenti continuano ad avere un impatto sull'evoluzione dei geni e dei genomi nucleari. Sono stati osservati anche altri tipi di
trasferimenti di DNA tra nucleo, mitocondri e plastidi. Il trasferimento di DNA in direzione opposta, dal nucleo agli organelli, è un
evento piuttosto raro. Nel genoma mitocondriale di Oenothera esiste una sequenza di 528 pb che mostra alta similarità con il gene
ribosomale 18S. Tuttavia, non esiste ad oggi nessun esempio della formazione di un gene mitocondriale funzionale (codificante una
proteina) originato dal trasferimento di una sequenza di DNA nucleare. Anche il trasferimento di geni dal nucleo o dal mitocondrio
ai plastidi è considerato un evento molto raro, tanto che si ritiene che esistano meccanismi di protezione dall'invasione da parte di
DNA esogeno. Ma esistono eccezioni: una è rappresentata dal DNA plastidiale dell'alga verde Oedogonium cardiacum che contiene
una sequenza per una ricombinasi è una sequenza per una DNA polimerasi riportabili rispettivamente a sequenze di DNA
mitocondriale di un'alga e di un fungo. Esistono inoltre alcune evidenze dell'acquisizione di sequenze introniche, in particolare
introni di gruppo II da un donatore cianobatterico al genoma plastidiale.

L’ESPRESSIONE GENICA NEGLI ORGANELLI:

L’espressione genica nei mitocondri e nei plastidi è piuttosto complessa: essa è infatti caratterizzata da una pluralità di RNA
polimerasi e da una serie di processamenti che sono atipici per un organismo procariote. La trascrizione dei geni mitocondriali e
plastidiali avviene a carico di RNA polimerasi di tipo fagico; nel genoma nucleare di Arabidopsis esistono tre geni: un prodotto
genico è indirizzato unicamente al plastidio, uno al mitocondrio e un terzo a entrambi gli organelli. Nei plastidi è inoltre attiva una
RNA polimerasi e di tipo procariotico le cui subunità sono codificate dal genoma plastidiale con l'eccezione della subunità
regolatrice sigma che è codificata dal nucleo. In analogia ai sistemi batterici, la trascrizione dà origine a trascritti policisronici. Molti
trascritti subiscono una serie di modificazioni post-traduzionali che, nel complesso, si pensa siano più importanti del controllo
dell'espressione a livello trascrizionale. Questi processamenti includono sia il taglio di trascritti policistronici in trascritti più piccoli,
talvolta monocistronici, sia modificazione all'estremità 5’ e 3’. Molti trascritti terminano al 3’ con strutture a forcina determinate da
regioni di complementarietà tra le basi che hanno la funzione di conferire stabilità al trascritto. Talvolta i trascritti che mancano
della struttura a forcina al 3’ vengono poliadelinati: si tratta dell'aggiunta di residui di A ma anche di un numero limitato di residui di
G, C e U. Questo, contrariamente a quanto accade agli mRNA eucariotici, è un segnale per la degradazione del trascritto. Nei
trascritti mitocondriali e plastidiali sono inoltre frequenti fenomeni di splicing per la rimozione delle sequenze introniche. Nei geni
mitocondriali sono stati descritti introni di gruppo I e introni di gruppo II che hanno attività autocatalitica (self-splicing) in vitro;
tuttavia, per lo splicing in vivo sono necessarie altre proteine che sono codificate dal genoma nucleare. Alcuni introni di gruppo II
sono in realtà introni spezzati ovvero, parti dell’introne e delle esone adiacente sono localizzati in diverse posizioni del genoma.
Alcuni introni di gruppo II sono in realtà introni spezzati ovvero, parti dell’introne e delle esone adiacente sono localizzati in diverse
posizioni del genoma. Questo è il caso di alcuni geni, detti discontinui, che sono stati descritti sia nell’mtDNA sia nel DNA plastidiale.
Un gene discontinuo è organizzato infatti in due o più loco separati del genoma: i diversi loco generano trascritti indipendenti che
subiscono un processo detto di “trans-splicing” in quanto prevede la partecipazione di due o più trascritti diversi. Ad es., nelle
angiosperme i tre geni mitocondriali nad1, nad2, e nad5, codificanti subunità della NADH deidrogenasi, sono geni discontinui con
introni di gruppo II; essi richiedono il fenomeno del trans-slicing per originare un mRNA funzionale. Un altro processo che
caratterizza i trascritti mitocondriali e plastidiale e l'RNA editing. Si tratta di un processo che modifica la sequenza di RNA rispetto a
quella codificata dal genoma. Il fenomeno è stato riscontrato in numerosi trascritti mitocondriali e plastidiali delle piante mentre
sono noti solo pochi esempi di editing nei mammiferi. Negli organismi vegetali i cambiamenti sono perlopiù con conversioni C-U e
con minore frequenza U-C. In Arabidopsis sono stati descritti 441 siti di editing, perlopiù mutazioni C-U, a livello di trascrittio
mitocondriali. E’ meno frequente nei trascritti plastidiali. Molti eventi di editing sono necessari per esprimere una proteina
funzionale o modificando la sequenza aminoacidica o generando un codone di inizio o di fine. I meccanismi molecolari alla base
dell'RNA editing sono ancora in parte sconosciuti e si ritiene sia coinvolto un enzima con l'attività di citidin deaminasi. Nei genomi
nucleari eucariotici è stata descritta di recente una famiglia di proteine che sembrano giocare un ruolo fondamentale nei fenomeni
di processamento dei trascritti degli organelli incluso l'RNA editing. Queste sono le proteine PPR (pentatricopeptide repeat);
curiosamente il numero delle proteine PPR è molto alto nel gruppo le piante terrestri: 450 in Arabidopsis e 650 il riso a fronte di 5
in lievito e 6 nell’uomo. Analisi predittive indicano per il 19% delle proteine PPR di Arabidopsis un indirizzamento ai plastidi e per il
54% ai mitocondri. Si ritiene che le proteine PPR funzionino come proteine che legano l'RNA in modo sito-specifico e che medino
l'interazione tra gli RNA gli enzimi che agiscono su questi RNA: le proteine PPR interverrebbero quindi nella regolazione di diversi
aspetti del metabolismo dell'RNA e quindi dell'espressione genica negli organelli. Nonostante siano in numero più esiguo, un
maggior numero di studi sono stati condotti nelle proteine PPR indirizzate ai plasmidi. Ad esempio, il gene CRR4 è richiesto per
l'editing del codone di inizio dell'mRNA di una subunità della NAD(P)H deidrogenasi plastidiale di Arabidopsis; lo stesso trascritto
subisce editing in un'altra posizione da parte del prodotto genico di CRR21. Ci sono evidenze che altre proteine PPR siano coinvolte
direttamente o indirettamente nello splicing e nell'efficienza di traduzione dei trascritti mitocondriali e plastidiali. Le proteine PPR
sembrano quindi rivestire un ruolo importante di coordinamento e controllo dell'espressione genica negli organelli mediato dal
nucleo.

Lezione 18/03 il sistema di endomembrane

Le cellule eucariotiche presentano una elevata compartimentazione dovuta ad un elaborato sistema di


endomembrane. Tale sistema di endomembrane nelle piante come negli altri eucarioti, si occupa della
sintesi, trasporto e accumulo di una vasta gamma di molecole quali proteine, polisaccaridi di parete ed altri
carboidrati, lipidi e metaboliti secondari tra cui glucosidi, alcaloidi, terpeni e tannini.

Le proteine localizzate negli organelli indipendenti dal sistema di secrezione (interno del nucleo,
perossisomi, mitocondri, e plastidi) sono state sintetizzate nel citoplasma e successivamente importate ma
non bisogna dimenticare che in mitocondri e plastidi sono presenti anche proteine sintetizzate
nell’organello stesso; le proteine traslocate co-traduzionalmente nel reticolo endoplasmatico (RE) vengono
smistate agli altri compartimenti del sistema di secrezione principalmente tramite vescicole. Uno scambio
di materiale, essenzialmente tramite contatto delle membrane, può avvenire anche tra RE e organelli
indipendenti.

RETICOLO ENDOPLASMATICO (RE):

Principali eventi del traffico di membrana:

1. I primi aminoacidi emergenti dal ribosoma durante la sintesi proteica iniziata nel citoplasma, se
appartenenti ad un segnale di traslocazione, vengono riconosciuti dalla particella SRP e utilizzati per guidare
ribosoma ed mRNA associato verso il complesso proteico del traslocone. Questo farà sì che il peptide
neosintetizzato emerga direttamente nel lume del RE e che il segnale sia subito rimosso.

2. Nel lume del RE le nuove proteine vengono legate da chaperonine come BiP, ripiegate per l’interazione
tra gruppi ossidrile, metile, carbossile e glicosilate. Specie a seguito della formazione di ponti disolfuro i
peptidi vengono stabilizzati ed assemblati mentre continua la maturazione dei glicani associati con la
rimozione di mannosio e l’aggiunta di glucosio.

3. Nel REL, oltre alla sintesi di nuova membrana, si accumulano i trigliceridi in corpi oleosi che prendono il
nome di oleosomi se sulla loro membrana monostrato compaiono le oleosine.

4. Domini specifici del RE stabiliscono un intenso rapporto di scambio di materiale con il Golgi. Il rapporto è
tabile ma questi domini detti ERES sono molto mobili, così come i dittiosomi del Golgi.

5. Un altro dominio specializzato del RE sono le strutture fusiformi in cui si possono accumulare proteine in
eccesso o mal formate che possono eventualmente essere retro-traslocate e d eliminate dal complesso del
proteasoma nel citoplasma.
6. Il Golgi vegetale è suddiviso in centinaia di dittiosomi, ognuno ripropone la classica organizzazione
polarizzata delle cisterne ed è indipendentemente mobile ed in continuo rapporto, oltre che con le ERES del
RE, anche con il TGN.

7. Il TGN coincide spesso con il compartimento della via endocitotica noto come EE e per questo riceve
materiale dalla MP. L’identità tra TGN ed EE nelle cellule vegetali è comunque da accertare.

8. Sicuramente il compartimento TGN/EE è il punto di contatto tra secrezione ed endocitosi, da queste


membrane transita il materiale destinato al LE.

9. Il LE sembra coincidere con il PVC nella via di trasporto ai vacuoli. Anche in questo caso l’identità tra i due
organelli è solo ipotizzata.

10. Infatti, se il materiale endocitato può ancora essere riportato sulla MP, il materiale che giunge al PVC è
ineluttabilmente destinato al vacuolo centrale.

11. Il vacuolo centrale, solitamente litico ed acido è quello volutricamente predominante; esistono però
cellule in cui sono visibili altri vacuoli specializzati. Quando diversi tipi vacuolari co-esistono essi
mantengono la loro identità di membrana attraverso meccanismi ancora non noti.

12. Nei vacuoli possono giungere proteine anche direttamente dal lume del RE quando queste hanno in
esso formato i così detti corpi proteici.

Queste strutture sono in parte diverse da quelle presenti in altre cellule eucariotiche ed in particolare nella
cellula animali; diverso è anche il rapporto dell'organello con il citoscheletro. Del tutto peculiare nelle
cellule vegetali è la comunicazione fra cellule attraverso la formazione di plasmodesmi attraversati appunto
da domini del RE

L’apparato del Golgi consiste nell’insieme di cisterne appiattite, disperse o strettamente associate ed
allineate in parallelo, formando una struttura impilata. La loro organizzazione può cambiare nei diversi
organismi.

Porcessi di formazione ed indirizzamento delle vescicole:

1. I recettori di transmembrana dopo il riconoscimento del loro ligando (gargo), reclutano le proteine del
loro mantello specifico (clatrina, COP1, COP”) tramite l’interazione con adaptine e l’idrolisi di GTP. Con
l’aiuto delle proteine del mantello ed altri fattori proteici la membrana si curva e la vescicola “gemma” dalla
membrana donatrice.

2. Una volta libera nel citosol la vescicola diassembla il suo mantello proteico in modo da esporre SNARE
(tipo R-SNARE) e RabA, ancorate alla sua membrana.

3. Quando la vescicola giunge in prossimità della membrana accettrice la proteina RabA riconosce la Qa-
SNARE specifica e la attiva trmite idrolisi di GTP liberandola dalla proteina regolatrice di tipo Sec1 che la
manteneva inattiva, si forma quindi un complesso SNARE in trans, ovvero con la R-SNARE sulla vescicola e 2
o 3 Q-SNARE sulla membrana accettrice.

4. Il complesso SNARE mantiene la vescicola a contatto della membrana facilita la fusione calcio-
dipendente. Il complesso SNARE si ritrova in cis e i recettori rilasciano il loro ligando in seguito alle mutate
caratteristiche dell’ambiente circostante.

Funzionamento delle proteine SNARE: esse assicurano che una vescicola formatasi su un compartimento
donatore, possa fonderisi esclusivamente con il compartimento di destinazione specifico. La specificità è
assicurata dall’iterazione tra la R-SNARE presente sulla vescicola (anche detta v-SNARE) e una Qa-SNARE
presente sulla membrana del compartimento di destinazione (anche detta t-SNARE). L’interazione è
permessa solo in seguito a idrolisi del GTP ad opera di una proteina Rab. All’interazione precipitano altre Q-
SNARE, precisamente Qb e Qc. Solo la presenza di 4 domini, R, Qa, Qb, Qc, permette il buon esito della
fusione. Il complesso SNARE che è venuto a formarsi verrà poi dissociato da alcuni fattori proteici attraverso
idrolisi di ATP. Nonostante la necessaria presenza dei 4 domini indicati, vi sono almeno 3 tipi possibili di
complesso SNARE. A tutti è comune la presenza di una R-SNARE e una Qa-SNARE che stabiliscono il contatto
tra vescicola e membrana di destinazione ma, in alcuni casi i domini Qb e Qc sono forniti da una unica
SNARE tipo-SNAP25 (ad esempio nel trasporto alla MP), in altri da due SNARE indipendenti ancorate alla
membrana di destinazione (ad esempio nel trasporto al RE e tra endosoma in lievito), in altri ancora da due
SNARE di cui solo una ancorata (ad esempio nel trasporto al vacuolo di lievito).

Lezione 22/03 il vacuolo


BIOGENESI DEI VACUOLI E ORGANIZZAZIONE DEL COMPLESSO VACUOLARE:

La parola “vacuolo”, dal latino vacuum (vuoto), fu coniata verso la metà dell'800 dal francese Dujardin per indicare le vescicole
trasparenti presenti in alcuni protozoi, successivamente identificò tutti gli apparentemente "vuoti" e privi di citoplasma,
particolarmente evidenti nelle cellule vegetali. I vacuoli e i comportamenti ad essi associati, denominati prevacuoli (PVC), hanno
nelle cellule vegetali una organizzazione complessa e caratteristiche peculiari. Essi sono organelli dinamici in continuità sia
strutturale che funzionale con il sistema di endomembrane o di secrezione e possono subire cambiamenti nella funzione e nella
morfologia per adattarsi alle necessità della cellula. Possono accumulare metaboliti secondari come alcaloidi, glucosidi, derivati del
glutatione, acidi organici e antocianidine, o accumulare proteine nei semi e in diversi tessuti, in tal caso funzionano come
compartimenti di riserva. La membrana che racchiude i compartimenti vacuolari è il tonoplasto. Sebbene, in passato si sia ritenuto
che un singolo vacuolo svolgesse contemporaneamente diverse funzioni, è ormai chiaro che vacuoli di riserva (PSV), contenenti
proteine di riserva tipiche del seme, ed il vacuolo litico (LV), caratterizzato dalla presenza di proteasi attive siano organelli separati.
Benché in una cellula differenziata si osservi generalmente un unico grande vacuolo, alcune cellule ed in particolari condizioni, è
possibile osservare più di un tipo di vacuolo. Per es. è possibile distinguere i diversi vacuoli nelle giovani cellule in via di
differenziamento, nelle cellule in cui si formano compartimenti dove alcuni componenti cellulari vengono intrappolati e idrolizzati
(autofagia) o in cellule specializzate come le cellule motrici del pulvino o le cellule del mesofillo In condizioni artificiali
(micropropagazione) è anche possibile osservare vacuoli distinti in cellule in forma di protoplasto. Gli studi sulla biogenesi dei
vacuoli sono stati ostacolati dalla natura stessa di questi compartimenti in quanto essi sono riconoscibili solo quando hanno
raggiunto un volume tale da differenziarli dagli altri componenti LV e PSV si rendono evidenti in modo sequenziale durante
l’embriogenesi. La prima divisione dello zigote porta alla formazione di due cellule asimmetriche, una cellula basale vacuolata ed
una apicale non vacuolata. Grandi LV si sviluppano prima nelle cellule discendenti dalla cellula basale e poi in quelle della cellula
apicale. Il LV potrebbe originarsi dalla fusione di vescicole preesistenti ma poiché può rigenerarsi anche in cellule, private
artificialmente del loro vacuolo preesistente, è probabilmente generato ex novo. Alcune proteine coinvolte nella biogenesi del
vacuolo sono state identificate, tra queste VCL1, implicata nella regolazione di SNARE essenziali per il traffico di membrana verso il
tonoplasto. In un embrione mutante difettivo per il gene VCL1, la biogenesi della LV si arresta a favore della comparsa di numerosi
autofagosomi. Osservazioni morfologiche hanno da tempo suggerito un legame tra l'autofagocitosi e il LV, che potrebbe generarsi
inizialmente proprio dalla fusione di autofagosomi. Nelle cellule meristematiche vi sono comunque numerosi piccoli vacuoli che
vengono distribuiti durante la divisione cellulare e sono quindi ereditati da ogni cellula figlia. Comunque il ruolo dell'autofagia è
collegato con l'aumento di volume delle cellule in via di differenziamento (crescita per distensione) piuttosto che con la biogenesi.
Nelle fasi tardive dell'embriogenesi si forma de novo il PSV. Si sviluppa come una struttura tubulare intorno al LV e può giungere ad
inglobarlo, tanto che nei semi di tabacco e pomodoro sopravvivono al suo interno compartimenti membranosi litici, detti globoidi,
probabilmente corrispondenti ad un residuo di LV.

IL SUCCO VACUOLARE:

Il vacuolo è circondato da una membrana il tonoplasto, costituita principalmente da fosfolipidi e ricca in proteine. La sua
permeabilità agli ioni è generalmente maggiore rispetto alla membrana plasmatica. La regolazione del contenuto e del volume dei
vacuoli dipende dalle attività coordinate di trasportatori e canali localizzati nel tonoplasto. All'interno dei vacuoli è presente una
soluzione acquosa chiamata genericamente succo vacuolare, poiché abbiamo visto che è opportuno considerare i vacuoli come un
complesso eterogeneo che eventualmente può coalescere in un unico compartimento, non deve sorprendere l'enorme varietà di
sostanze, di natura diversa, che possono esservi o disciolte, o presenti allo stato cristallino o variamente condensato. Anche il pH
del succo vacuolare varia, ha un valore medio compreso tra 5,0 e 5,5, ma l'intervallo di tale valore può estendersi da circa 2,5 (i
vacuoli del frutto di limone) a valori maggiori di 7,0 ne vacuoli di riserva per le proteine.

1. Sali di acidi inorganici ed organici - nel vacuolo vengono accumulati i cationi di K+, in concentrazioni elevate, ma anche Na+, Ca2+,
Mg2+ , anioni inorganici come Cl- , acidi organici come acido malico, acido citrico. L'acido ossalico in presenza di Ca2+ forma dei
precipitati cristallini di ossalato di calcio.
2. Carboidrati - gli zuccheri sono spesso componenti del succo vacuolare sottoforma di monosaccaridi, disaccaridi o polisaccaridi.

3. Aminoacidi, proteine - gli aminoacidi sono perlopiù presenti nel succo vacuolare dei semi, dove a volte si riscontrano anche
alcune proteine solubili, mentre altre proteine poco solubili possono essere presenti in forma colloidale. Inoltre, le proteine
presenti nel vacuolo possono svolgere funzioni enzimatiche. Durante il processo di maturazione dei semi ed in seguito alla
progressiva disidratazione dei vacuoli, le proteine diventano meno solubili e possono formare depositi denominati granuli di
aleurone, di composizione e grandezza variabili.

4. Lipidi - benché tali molecole non vengano accumulate preferenzialmente nei vacuoli, sono presenti nei vacuoli dei semi.

5. Inclusi solidi - gli inclusi minerali sono molto comuni nelle cellule vegetali. Si tratta, in genere, di depositi di natura cristallina
localizzata nei vacuoli, spesso di ossalato di calcio. Le cellule isolate (idioblasti cristallini) che producono questi cristalli si trovano
sparsi in tutta la pianta, più frequentemente nelle foglie e nelle radici. Tali idioblasti sono chiamati cellule ossalifere. A seconda del
tipo di tessuto, i precipitati di ossalato di calcio assumono differenti forme, caratterizzate da una diversa struttura dei cristalli in
relazione al loro modo di formazione, che viene influenzato ad es. dal pH, dalla presenza di mucillagini e dalla quantità di acqua
inglobata. I tipi più diffusi sono i rafidi (cristalli prismatici aghiformi disposti a fascetti), le druse (aggregati prismatici), gli stiloidi
(cristalli prismatici massicci). La quantità di ossalato di calcio, rinvenibile come cristalli, e a volte cospicua in molte Cactaceae e in
altre piante tipiche di ambienti aridi ricchi di calcio. La formazione di questi cristalli potrebbe essere legata a processi di
detossificazione, ad es. all'eccesso di calcio assorbito dalle radici e accumulato nell’apoplasto della parete. In condizioni di alcalinità
cellulare tali inclusi potrebbero servire ad eliminare l'eccesso di acido ossalico. Inoltre essi potrebbero svolgere funzioni difensive,
come deterrenti verso gli insetti fitofagi e di sostegno nelle foglie. Altre formazioni cristalline si possono trovare negli strati
epidermici fogliari di Ficus vi sono cellule specifiche, litocisti contenenti formazione di carbonato di calcio (CaCO3) Oltre ai cristalli di
ossalato di calcio ed ai granuli dell'aleurone, nei vacuoli si possono trovare altre sostanze solide come l'amido.

6. Metaboliti secondari e xenobiotici - i vacuoli svolgono un ruolo molto importante sia nei processi di detossificazione,
accumulando composti potenzialmente tossici, che di omeostasi cellulare. La presenza di elevate concentrazioni di metalli pesanti
induce l'accumulo nel vacuolo di fitochelatine, molecole in grado di chelare i metalli pesanti, che vengono rimossi dal citoplasma e
trasportati nel vacuolo dove formano il complesso metallofitochelatine. Oltre ai metalli, altre molecole, biotiche o abiotiche e
provenienti dall'ambiente e quindi estranee alla pianta (xenobiotiche), vengono accumulate e neutralizzate nei vacuoli. Anche gli
ioni devono essere accuratamente compartimentati poiché dalla loro omeostasi dipende gran parte della trasmissione dei segnali
cellulari. Le piante producono una grande varietà di sostanze potenzialmente tossiche, chiamate metaboliti secondari, che non
sono coinvolte direttamente nei processi vitali della cellula ma sono coinvolte nell'interazione della pianta con l’ambiente. I
metaboliti secondari possono essere secreti all'esterno della cellula o venire accumulati all'interno di essa. Nel primo caso essi
possono localizzarsi a livello delle pareti; nel secondo vengono segregati principalmente nel vacuolo in modo da evitare la loro
interazione con le altre componenti cellulari, in quanto alcuni metaboliti sono citotossici. I metaboliti secondari possono svolgere
importanti funzioni ecologiche, in quanto proteggono la pianta da organismi predatori, e sono coinvolti nei meccanismi di
resistenza a patogeni. Molti metaboliti secondari sono bioattivi, esercitano importanti effetti su diversi sistemi biologici e possono
essere utilizzati in medicina come farmaci

Meccanismi di accumulo dei flavonoidi nei vacuoli:

I flavonoidi sono caratterizzati da una struttura di base rappresentata da un anello benzopiranico sono presenti nella pianta sia
liberi, sia legati ad uno zucchero. Vengono classificati, secondo le sostituzioni sull'anello in calconi, flavoni, antocianine. Queste
ultime sono tra i più diffusi e conferiscono il colore alle cellule, variando in funzione del pH del succo vacuolare, dall'azzurro a pH
neutro, a rosso a pH acido. Queste molecole hanno funzioni fisiologiche legate alla protezione dagli UV ed alla regolazione del
trasporto dell'auxina e per questo motivo sono presenti in quasi tutti i compartimenti cellulari. La maggior parte delle forme
coniugate di flavonoidi come le antocianine, possono accumularsi principalmente nei vacuoli determinando la colorazione del fiore.
Alcuni derivati dei flavonoidi acquistano la loro struttura definitiva nel vacuolo stesso altri sembrano essere sintetizzati e modificati
nei plastidi e nel nucleo. La loro presenza in questi siti è giustificata dal loro ruolo protettivo. Alcune forme di flavonoidi coniugati
vengono secrete nell’apoplasto per rimanere nella parete o per essere disperse nell’ambiente. Nella radice delle leguminose essi
sembrano importanti per attrarre microrganismi come batteri fissatori dell'azoto, mentre nel polline potrebbero costituire un
mezzo di comunicazione cellulare. I meccanismi di trasporto degli antociani sono ancora oggetto di studio. Tra i modelli esistenti vi
è quello di trasporto mediato, in alcuni suoi passaggi da vescicole. L'ipotesi nasce dall'osservazione di piccoli compartimenti dispersi
nel citoplasma e carichi di antociani, gli antocianoplasti. Benché questi possono essere associati alla biosintesi di queste molecole,
essi nascono dalla fusione di vescicole e, essendo racchiusi da membrana, sono assimilabili a piccoli vacuoli o pre-vacuoli (PVC).

PROTEINE INTRINSECHE DEL TONOPLASTO:

Una famiglia di proteine intrinseche del tonoplasto dette TIP è stata particolarmente preziosa nello studio della biosintesi dei
vacuoli, Le TIP sono una sottofamiglia delle acquaporine esse costituiscono piccoli canali che facilitano il passaggio attraverso la
membrana di acqua e piccoli soluti privi di carica (glicerolo, urea, acido borico, acido salicilico, ossido di idrogeno) e gas (ammonio e
di ossido di carbonio).
ACIDIFICAZIONE DEI COMPARTIMENTI ENDOMEMBRANOSI:

L’acidità del lume dei compartimenti endomembranosi è determinata da H+ - ATPasi vacuoli (V-ATPasi). La differenza di pH tra il
citosol e il lume è cruciale non solo per le reazioni biochimiche ma anche per la funzionalità del trasporto attivo secondario. Le
piante posseggono anche delle H+-pirofosfatasi (V-PPasi) che insieme alle VATPasi arrivano a costituire il 30% delle proteine di
tonoplasto. Le V-ATPasi rappresentano una famiglia di pompe protoniche altamente conservata negli eucarioti ed è costituita da
molteplici subunità. Sono identificabili due sotto complessi: il complesso periferico V1 responsabile dell’idrolisi dell'ATP ed il
complesso integrale di membrana V0 responsabile della traslocazione dei protoni. I due complessi sono costituiti rispettivamente
da 8 e 6 subunità. Le V-PPasi sono enzimi molto più semplice delle ATPasi. Si tratta di omodimeri che utilizzano l'energia di legame
fosfoanidride del pirofosfato (Ppi).

CRESCITA PER DISTENSIONE, TURGORE E MOVIMENTO:

A differenza della cellula animale in cui per la crescita è necessaria la sintesi dell'intero protoplasma, nelle cellule vegetali la crescita
è dovuta soprattutto all'aumento del contenuto d'acqua nel vacuolo; tuttavia anche le cellule vegetali devono produrre nuove
proteine, membrane ed organelli, ma a parità di volume, in minore quantità rispetto alle cellule animali. La presenza del vacuolo
centrale fa sì che il citoplasma venga confinato in un sottile strato periferico. Negli organi vegetativi della pianta, i vacuoli svolgono
un ruolo fondamentale del mantenimento del turgore cellulare. L’ambiente extracellulare è, generalmente ipotonico (minor
concentrazione di soluti) rispetto al citoplasma e quest'ultimo è, a sua volta, ipotonico rispetto al succo vacuolare; ciò determina un
flusso d'acqua dall'ambiente esterno al citoplasma e da questo al vacuolo, causando un aumento del suo volume. La pressione
idrostatica esercitata dal vacuolo sulle pareti cellulari, denominata pressione di turgore, contribuisce alla rigidità strutturale della
cellula. La pressione di parete è, invece, la pressione meccanica esercitata dalla parete. La pressione di parete e quella di turgore si
equilibrano, avendo uguale intensità e direzione, ma verso opposto Il turgore è la normale condizione delle cellule vegetali, ed è il
responsabile della rigidità di tutte le parti non lignificate della pianta, come fusti erbacei e le foglie. L'appassimento degli organi
vegetali è causato dalla perdita di acqua dai vacuoli e dal citosol circostante. La genesi del turgore è determinata dall'accumulo
intracellulare di ioni. Per mantenere la pressione di turgore nelle cellule in continua espansione, i soluti devono essere attivamente
trasportati all'interno dei vacuoli in crescita per mantenere l’osmolarità. Questo è reso possibile grazie ad un gradiente
elettrochimico che, attraverso il tonoplasto, fornisce la forza trainante per l'assorbimento dei soluti. Il gradiente viene garantito
dalle pompe protoniche mentre il movimento dell'acqua attraverso il tonoplasto viene mediato dalle acquaporine. La parete
fornisce la rigidità strutturale che consente alla cellula vegetale, diversamente da quella animale, di sopportare ambienti esterni
ipotonici, senza che il protoplasto aumenti eccessivamente di volume sino a rompers. Un fenomeno opposto al turgore è la
plasmolisi che si verifica quando la cellula vegetale viene a contatto con una soluzione ipertonica (con concentrazione di soluti
maggiore rispetto al citoplasma), in questo caso l'acqua intercellulare, avendo potenziale maggiore, fuoriesce dalla cellula. Poiché la
maggior parte dell'acqua intracellulare è contenuta nel vacuolo, questo si contrae e di conseguenza il plasmalemma e il citoplasma
si staccano dalla parete. L’enorme variazione del volume resa possibile dal riempimento e svuotamento del vacuolo o di uno dei dei
vacuoli, può determinare movimenti macroscopici anche rapidi. Infatti il movimento in ambito vegetale non si limita all'apertura e
chiusura degli stomi o alla crescita orientata del fototropismo ma comprende anche movimenti rapidissimi come quelli delle foglie.

ACCUMULO E DEGRADAZIONE DELLE PROTEINE:

I vacuoli possono accumulare ed immagazzinare, oltre ai vari componenti del succo vacuolare grosse quantità di proteine.
Quest'ultima funzione caratterizza i vacuoli di riserva PSV e il cui tonoplasto è organizzato da acquaporine. I PSV sono
compartimenti in cui vengono immagazzinate le proteine di riserva: essi sono tipici dei semi (cotiledoni o endosperma), ma possono
essere abbondanti anche in altri tessuti organi, come corteccia, tuberi, foglie, quando è necessario accumulare sostanze di riserva
anche in forma transiente. Nei semi di alcuni cereali, le prolammine, proteine di riserva, formano degli aggregati densi ed insolubili
circondati da membrana, derivata direttamente dal RE, denominati corpi proteici “primari” dispersi nel citoplasma. Questi corpi
proteici possono confluire nei vacuoli specializzati per contenere riserve proteiche. I PSV sono possono svolgere funzioni difensive
contro i predatori quando contengono proteine tossiche, come ad esempio alcune lectine, che possono fungere da inibitori delle
proteasi o da inibitori dei ribosomi In alcuni tipi cellulari, le proteine sono conservate nel vacuolo per essere più tardi degradate e
rimobilizzate come fonte di carbonio ed azoto. Le proteasi coinvolte in questi processi possono essere a loro volta contenute in
specifici vacuoli per i quali è stato proposto il ruolo prevalente è prettamente litico LV. Come i lisosomi, nelle cellule animali, questi
vacuoli contengono idrolasi acide. Questi enzimi (proteasi, nucleasi, lipasi, che glicosidasi) sono importanti in quanto contribuiscono
al riciclo di quasi tutti i componenti cellulari. Questo riciclo si rende necessario non solo per il ricambio delle strutture cellulari, ma
anche per il recupero di nutrienti durante la morte cellulare programmata connessa con lo sviluppo e la senescenza. Un’elevata
concentrazione di proteasi ed altre idrolasi si osserva nei vacuoli dei tessuti caratterizzati da un'intensa attività litica collegata a
determinati stati di sviluppo, quali foglie senescenti, endosperma o cotiledoni di semi in germinazione. Le idrolasi vacuolari sono
responsabili delle attività autofagiche, che si manifestano ad esempio durante la biogenesi dei vacuoli nelle cellule meristematiche
che vanno incontro a differenziamento o durante la senescenza.
Compartimenti di accumulo osservati in diversi tipi cellulari: i compartimenti indicati coesistono solo in rare circostante. I vacuoli
osservabili corrispondono comunque a diverse vie di trasporto alternative che coesistono all’interno del sistema di endomembrane:
il vacuolo di riserva, dal pH neutro o poco acido, riceve proteine con il segnale ctVSD attraverso vescicole DV, esso è caratterizzato
dalla presenza di alfa- e delta- TIP, le proteine di riserva possono giungervi anche attraverso i cori proteici formatisi nel RE e i PAC.
Vacuoli con funzioni particolari come i SAV sono spesso associati a metaboliti secondari i cui siti di accumulo sono ancora poco
caratterizzati, per esempio nel caso delle antocianine i compartimenti noti come tapetosomi, antocianoplasti e AVI; questi
compartimenti vacuolari si distinguono comunque dal vacuolo litico contraddistinto dalla gamma-TIP. Il vacuolo vegetativo o litico,
contraddistinto dalla gamma-TIP riceve le proteine con ssVSD attraverso CCV. Golgi e TGN sono tappe comuni a quasi tutte le
proteine vacuolari, tranne quelle che s accumulano in forme poco solubili già nel RE (corpi proteici e PAC). Anche il PVC sembra una
tapa comune a tutte le proteine vacuolari. Tra i marcatori proteici che condraddistinguono la memrbana dei diversi compartimenti,
distinguiamo recettori (VSR, RMR), SNARE, pompe protoniche (V-ATPasi, V-PPasi) e trasportatori (ABC, MATE).

IL CITOSCHELETRO nel differenziamento cellulare:

Organizzazione dei microtubuli corticali durante l’accrescimento cellulare per distensione:

La disposizione dei microtubuli, che riflette quella delle fibrille di cellulosa in parete, passa da un orientamento trasversale, che
favorisce la distensione longitudinale della parete nella cellula giovane, ad uno obliquo nella cellula differenziata, in cui la parete
cessa di espandersi.

Organizzazione de citoscheletro durante lo sviluppo di alcuni tipi cellulari:

Nello sviluppo del pelo radicale in un tricoblasto la comparsa dell’abbozzo dell’apice è preceduta da un addensamento di brevi
filamenti di actina. Nel pelo in crescita apicale microtubuli e microfilamenti sono orientati longitudinalmente. La ramificazione di un
trico,a fogliare è invece associata alla comparsa di fasci anulari di microtubuli e procede per distensione progressiva della parete. In
fine, in una giovano cellula epidermica della foglia, si alternano lungo la parete anticlinale zone ricche di microtubuli oppure di
microfilamenti, che originano una diversa composizione della parete in corso di formazione. Come conseguenza, le aree in cui sono
più abbondanti i microfilamenti tenderanno ad estendersi più di quelle ricche in microtubuli, dando alla cellula la caratteristica
forma lobata.

Orhganizzazione dei microtubuli nelle diverse fasi del ciclo cellulare:

Durante l’interfase i microtubuli corticali sono associati in fasci paralleli disposti ad anelli lungo la membrana cellulare. La banda
preprofasica segna l’inizio della divisione cellulare. È costituita da un anello di densi fasci di micrutbulo disposto sul futuro piano di
divisione cellulare. Fasci di microtubuli ponte posizionano il nucleo esattamente al centro della banda preprofasica. Il fuso mitotico
comprende fasci di microtubuli che collegano i centromeri dei cromosomi ai poli e che con il procedere della mitosi si accorciano
trascinando con sé i cromatidi. Altri microtubuli invece mantengono la distanza tra i poli contrastando queste forze di trazione. La
divisione cellulare si compie grazie all’attività del fragmoplasto, in cui un sistema di microtubuli guida le vescicole secretorie verso
l’equatore della cellula, dove esse si fondono costituendo la piastra cellulare che separa le due cellule figlie.

Ruolo delle kinesine durante la mitosi:

Le kinesine associate ai cinetocori, correndo lungo i microtubuli, generano una spinta laterale sul cromosoma, favorendone il
posizionamento nella zona centrale durante la metafase.

Interazione tra le kinesine e i microtubuli polari antiparalleli al centro del fuso mitotico durante l’anafase: le code delle proteine
motrici sono associate ai complessi proteici legati all’estremità positva di un microtubulo, mentre le teste ATPasiche scorrono sul
microtubulo opposto. Il loro continuo scorrimento verso le estremità positive, associato alla polimerizzazione della tubulina, spinge
i microtubuli verso i poli opposti, favorendo la migrazione dei cromatidi.
appunti

Nella cellula riconosciamo almeno due tipi di vacuolo: il vacuolo di riserva (mantiene l’omeostasi cellulari) e il vacuolo litico
(contiene delle proteasi attive). Come biogenesi solitamente è riportata la formazione di uno dei due vacuoli, il secondo si forma
successivamente. Dopo lo zigote si ha una mitosi che forma due linee cellulari, una vacuolata (da cui si avrà l’origine del vacuolo
litico) e una non vacuolata.

Il succo vacuolare: all’interno dei vacuoli ho un’enorme variabilità, ovvero del succo vacuolare, in cui si ha un pH tra 5 e 5,5. Questo
è molto variabile, non solo a livello delle singole specie, ma anche a livello dei vari tessuti della pianta che sto considerando
(rappresentano una fonte di riserva nella fase di germinazione dei semi, la presenza di sostanze oleose è fondamentale per la
protezione del seme stesso). Nel vacuolo è presente anche il precipitato ossalacetato di calcio. Questi precipitati sono presenti
sotto forma di rafidi, e..

Si ha la presenza dei metaboliti secondari, in cui rientrano tutti quelle sostanze detto xenobiotiche, accumulano sostanze
inquinanti, in particolare metalli pesanti. Ad esempio il ferro, che all’interno della cellula viene veicolato dal glutammato verso il
vacuolo di riserva.

Flavonoidi sono molto importanti poiché possono essere ance sostanze che permettono id difendere la pianta dai raggi UV. Un altro
accumulo che possiamo avere è quello dei che possono ad esempio risultare repellenti verso alcuni insetti.

I vacuoli hanno anche il ruolo del mantenimento del turgore cellulare.

L’accumulo e degradazione delle proteine, viene nel vacuolo, è fondamentale nella germinazione del seme.

Il citoscheletro: differenze con quello della cellula animale, diverso accrescimento tra un organismo animale (per proliferazione
cellulare, tramite mitosi) e organismo vegetale (accrescimento dovuto non alla proliferazione, bensì all’estensione della cellula). Le
microfibrille acquistano geometrie molto diverse all’interno della cellula, proprio perché si ha un’estensione della cellula vegetale,
con conseguente accrescimento della pianta stessa. Un’altra differenza è relativa al fuso mitotico, ovvero che nella cellula vegetale
non si hanno i centrioli (nella cellula animale la formazione del fuso mitotico si ha a partire dai centioli), in questo caso ho
un’aggregazione di fasci dei microtubuli a livello della piastra equatoriale; si ha quindi minor controllo della formazione del fuso
mitotico e della migrazione dei cromosomi rispetto alla cellula animale.

COMUNICAZIONE CELLULARE: tutti quei meccanismi di risposta da parte della cellula a stimoli esterni. Essendo le piante organismi
sessili, hanno una particolare risposta. I recettori di membrana risentono di variazioni fisiche, quali radiazioni e temperatura, ma
soprattutto chimiche. Cambia quindi il recettore di membrana. Si hanno recettori e sensori spesso intramembranarie, che riescono
a percepire variazioni di radiazione; la cellula vegetale può rispondere tramite 3 vie diverse: sistema ROS (risposta di tipo ossidativo,
è una risposta che viene sempre attivata), fitormoni (variazione di opsina all’interno della cellula, stimola le calmoduline correlate
ad una variazione di calcio, va ad attivare la risposta). La calmodulina mi permette di avere una risposta di attivazione genica.
L’attivazione può essere più o meno veloce, spesso la reazione luminosa non scatena tutta la risposta, ma può scatenare
l’attivazione della trascrizione.

Nella risposta si ha anche l’attivazione delle protein-chinasi


Lezione 25/03 la parete cellulare
La necessaria rigidità dei tessuti vegetali è il risultato della sommatoria delle singole rigidità conferite a ciascuna cellula dal suo
compartimento extracitoplasmatico, la parete. La parete è il compartimento che consente alle piante superiori di resistere alla
forza di gravità e di contrastare le altre forze laterali. È costituita principalmente da cellulosa, da polisaccaridi non cellulosici e da
lignina in proporzioni che dipendono dallo specifico tipo cellulare, dallo stadio di sviluppo e dalla specie. Per molto tempo è stata
considerata un compartimento con la sola funzione di contenere e sostenere il protoplasto, mentre oggi si è consapevoli che la
parete è metabolicamente attiva, indispensabile nella conduzione di acqua e soluti, nelle comunicazioni cellula-cellula, nel
riconoscimento del self (cellule della stessa pianta) e del non self (ad es. cellule di patogeni), nel controllo della forma della cellula
(e quindi anche del tessuto, dell'organo e in ultima analisi della pianta) e, in alcuni casi, è anche usata come deposito di sostanze di
riserva. Cellule in differenziamento e, tra quelle differenziate, le parenchimatiche, sono caratterizzate da una parete sottile detta
primaria mentre alcuni tipi cellulari, quando hanno terminato i processi di espansione, depongono all'interno della parete primaria,
uno o più strati di parete secondaria, che conferiscono ulteriore resistenza meccanica. Rilevante è l'impatto ecologico ed
economico della parete e o dei componenti strutturali che la costituiscono. Da essa si ricavano infatti carta, fibre tessili e costituenti
di base per la produzione di biopolimeri, legno da industria e da ardere e, indirettamente combustibili fossili che sono per la
maggior parte riconducibili a pareti di piante preistoriche. Molto discussa in questi ultimi anni e oggetto di importanti progetti di
ricerca sia pubblici che privati e la possibilità di recuperare zuccheri fermentabili dai polimeri di parete per la produzione di
biocombustibili. Infine, essendo la più grande riserva di carbonio organico presente in natura, ha un ruolo ecologico direttamente
nel ciclo di questo elemento.

I POLIMERI DI PARETE:

CELLULOSA:

La componente fibrillare della parete è costituita da cellulosa, un polimero di glucosio. Le singole unità di glucosio formano catene
lunghe fino a qualche migliaio di residui dell'unità di base, il cellobiosio. Il cellobiosio è un dimero costituito da due molecole di
beta-D-glucosio unite da legami (1-4). La formazione di tale legame necessita di rotazione di circa 180° di un glucosio rispetto al
successivo. Tale struttura consente la costruzione di singole catene lineari capaci di formare legami idrogeno e interazioni
idrofobiche inter- e intra molecolari. L'allineamento parallelo di singole catene (da 25 a 36) consente la formazione di microfibrille.
La disposizione regolare delle catene di polimero porta alla formazione di zone cristalline nella microfibrilla, mentre le zone in cui la
disposizione delle molecole è più regolare si ha la formazione di zone amorfe. Le microfibrille di cellulosa sono molto resistenti alla
trazione. Nonostante la capacità della cellulosa di formare legami idrogeno e quindi di legare molecole di DNA, il polimero nella sua
forma cristallina è pressoché anidro e quindi insolubile.

EMICELLULOSE:

Nelle pareti primarie le microfibrille di cellulosa sono immerse in una matrice, ricca di acqua costituita da polisaccaridi appartenenti
ai gruppi delle emicellulose e delle pectine. Della matrice fanno parte anche alcune proteine strutturali, presenti però in piccola
quantità. I polisaccaridi matriciali sono costituiti da vari polimeri che possono variare a seconda del tipo cellulare, dello stadio di
sviluppo della cellula e della specie. Tradizionalmente le emicellulose sono definite come quel gruppo eterogeneo di polisaccaridi
che vengono estratti con trattamenti fortemente caustici (2-4 M NaOH) dalla parete già private delle pectine. L'analisi chimica ha
rivelato che nella parete primaria delle dicotiledoni l’emicellulosa più abbondante (fino al 25% del peso secco) è lo xiloglucano, un
polimero identico alla cellulosa per quel che riguarda la catena di base cioè (1-4) beta-D-glucano), il quale però porta delle catene
laterali. Gli xiloglucani sono costituiti da una struttura di base ripetuta, composta da una catena di 4 residui di glucosio dei quali solo
l'ultimo non è sostituito con un residuo di xilosio, il quale può portare un galattosio che, a sua volta, può legare un fucosio. Le
catene laterali impediscono la formazione di una microfibrilla cristallina, senza però annullare completamente la possibilità di
formare legami idrogeno con altri glicani. Tale possibilità consente ad una singola catena emicellulosica di legare più microfibrille di
cellulosa, e contribuire così a formare la rete di polimeri che dà alla parete la sua struttura portante. A seconda dello stadio di
sviluppo, del tipo cellulare, della specie o delle condizioni di crescita, possiamo trovare nella parete altre emicellulose. Gli xilani
sono un gruppo di polimeri in cui la catena di base è composta da residui del pentoso 1-4 beta-Dxilano, che può essere variamente
così sostituito, senza avere però una struttura ripetitiva di base. Questo pentoso può formare con l’acido ferulico facilitando la
formazione di legami crociati tra vari polimeri di parete. Abbondanti anche gli xilani sostituiti solo con arabinosio, mentre nelle
pareti secondarie di molte dicotiledoni sono abbondanti gli xilani sostituiti con acido glucuronico. I glucani a legame misto, o (1-3,1-
4 beta-D-glucani sono molto abbondanti nella parete delle monocotiledoni. In questo caso la catena di base non è sostituita ma la
struttura a zig zag imposta dalla presenza non regolare di un legame 1-3 ogni 2,3 o 4 legami 1-4 impedisce a questi polimeri la
formazione di strutture di tipo fibrillare, date dall'associazione spontanea in più molecole tra loro. Considerati esclusivi delle
Poaceae, ultimamente sono stati trovati anche in altre famiglie dell'ordine delle Poales e sorprendentemente anche in piante
inferiori come alcuni equiseti. La sua distribuzione tassonomica non monofiletica è molto discussa, e molti autori ritengono che la
loro presenza in gruppi filogeneticamente molto separati sia un caso di evoluzione convergente. Emicellulose a base di mannosio
sono molto diffuse nelle Carofiste. La catena di base può essere costituita solo da mannosio, come nei mannani e nei
galattomannani o da mannosio e glucosio, alternati in modo non ripetuto, come nei glucomannani e nei galattoglucomannani. I
mannani sono usati anche come polimeri di riserva, e per questo ne sono ricche le pareti dei semi di molte leguminose. Anche se
nelle pareti di molte angiosperme il loro contenuto non è elevato, la loro presenza è fondamentale, visto che sono letali le
mutazioni che eliminano i geni della loro biosintesi. Ricordiamo infine il callosio, un polimero del beta-Dglucano ma i cui residui
sono uniti con legame 1-3.

PECTINE:

Storicamente le pectine sono state identificate nella componente strutturale estratta dalla parete con acqua calda o chelanti dello
ione Ca2+. L'analisi chimica ha rilevato che le pectine sono i polisaccaridi con la struttura più complessa presenti in natura. Sono
caratterizzati per essere ricchi in acido galatturonico, che costituisce circa il 70% delle pectine, i cui residui sono uniti con legami di
tipo (1-4). Le pectine formano circa il 35% della parete primaria di dicotiledoni e monocotiledoni sono presenti anche in pareti
lignificate dove costituiscono fino al 5% della massa. All'interno della parete sono più abbondanti nelle zone di adesione tra una
cellula e l'altra cioè nella lamella mediana e le porzioni angolari. La carica di alcune di queste molecole e talune loro caratteristiche
chimiche fanno sì che le pectina siano in grado di formare gel sia nella parete che dopo essere state estratte, per questo sono molto
utilizzate nell’industria alimentare e cosmetica.

PROTEINE STRUTTURALI:

Le proteine strutturali presenti nella parete si dividono in 4 gruppi, 3 dei quali prendono il nome dai loro costituenti principali: le
glicoproteine ricche di idrossiprolina (HRGP), tra cui la più nota è l’estensina, le proteine ricche in prolina (PRP) le proteine ricche in
glicina (GRP) e le arabinogalattanoproteine (AGP). La loro distribuzione non è omogenea, ma dipende dalla specie, dalla tipologia
cellulare dallo stadio di sviluppo.vengono inoltre sintetizzate come risposta una ferita o in seguito all'attacco di patogeni. Il loro
ruolo primario strutturale è comunemente accettato ma non sono chiari i modi attraverso cui si esplica. Inoltre, si differenziano
dalle altre proteine strutturali per essere solubili. Oltre che nella parete, dove possono contribuire fino all'1% del peso secco si
trovano sulla faccia esterna della membrana plasmatica e la loro espressione è fortemente controllata in modo tessuto e cellula
specifico. Questo fa ipotizzare che, più che una funzione strutturale, possono avere il ruolo di molecola segnale nel processo di
sviluppo o, secondo alcuni autori, essere delle chaperones molecolari che coadiuvano la deposizione dei polimeri matriciali.

LIGNINA:

Presente quasi esclusivamente nella parete secondaria, la lignina è il polimero alla cui comparsa è legata la conquista delle terre
emerse da parte delle piante. La lignina è un polimero di natura fenolica idrofobico, rigido e poco comprimibile i suoi costituenti di
base, sintetizzati nel citoplasma e poi secreti in parete probabilmente sottoforma di monolignol-glucosidi, sono l’alcol coniferilico
(abbondante nelle Gimnosperme), l'alcol sinapilico (abbondante nelle Angiosperme) e l'alcol cumarilico. Collettivamente vengono
definiti lignoli. I tre monomeri di base danno origine a tre diversi tipi di lignina, denominati G, S e H e costituiti, rispettivamente da
alcol coniferilico, sinapilico e p-cumarilico, per dare, in pioppo, polimeri di lunghezza media di circa 13-20 unità. I rapporti dei tre
tipi di lignina variano a seconda della specie, del tipo cellulare, delle condizioni ambientali e perfino del singolo strato di parete. La
diversità che ne consegue influenza la durezza e le altre proprietà del legno, tra cui alcune caratteristiche tecnologiche, come la
digeribilità del foraggio e la facilità di estrazione della cellulosa per la produzione di carta. La lignina conferisce compattezza e
idrofobicità alla parete, rendendola impermeabile e resistente alla compressione. Quindi l'unione delle cellulosa è simile
all'accoppiata cemento-ferro del cemento armato, dove il primo conferisce resistenza alla compressione ed il secondo la tensione.
Dopo la cellulosa la lignina è il polimero più abbondante di una pianta (fino al 20-30% in peso) e quindi del nostro pianeta. La lignina
è molto resistente alla degradazione chimica ed enzimatica e, essendo legata covalentemente alla cellulosa e ad altri polimeri di
parete, è molto difficile, se non impossibile, estrarla integra. Tali difficoltà si riflettono anche nella produzione della carta, dove
l'estrazione di pasta di cellulosa dal legno richiede strumenti chimici molto forti.

ACQUA:

L'acqua, che può arrivare al 60% in peso in una parete primaria, anche una funzione strutturale, andando a formare gel con le
pectine e formando legami idrogeno con gli altri polimeri della parete.

LA BIOSINTESI DEI POLIMERI DI PARETE:

Biosintesi della cellulosa:

Il meccanismo generalmente accettato per la sintesi di polisaccaridi di parete prevedere utilizzo di enzimi che aggiungono a una
catena polimerica in allungamento un residuo glicosidico. Sono codificati da membri della superfamiglia della cellulosa sintetasi
(CESA) e della cellulosa sintetasi-like (CSL). La biosintesi della cellulosa avviene nel complesso della rosetta. E’ un complesso
multienzimatico intrinseco della membrana plasmatica che si estende su entrambe le sue facce, formato da sei subunità disposte in
modo circolare a formare una struttura che, al microscopio elettronico a scansione, ricorda quella di una rosetta. A sua volta,
ciascuna delle sei subunità della rosetta è formata da sei proteine, denominate cellulosa sintasi (CESA) che dal punto di vista
biochimico sono delle glucositransferasi. Il microfibrille di cellulosa non sono disposte in modo casuale tra la parete, bensì in modo
ordinato.
Biosintesi dei polimeri di matrice:

Sintesi dei polimeri di matrice, sia emicellulosici che peptidici, avviene nell'apparato di Golgi ad opera di specifiche
glicosiltransferasi, intrinseche o associate alla membrana. Oltre alle glicosiltransferasi, nell'apparato del Golgi sono presenti
metiltransferasi, acetiltransferasi e feruloiltransferasi, che metilano, acetilano e aggiungono un gruppo ferulico a diverse classi di
polimeri matriciali. Una volta pronti, i polimeri di matrice raggiungono la parete mediante trasporto vescicolare. La secrezione di
emicellulose nei pressi dei complessi a rosetta è importante nel determinare il rapporto tra zone cristalline e amorfe della fibrilla. La
sintesi delle proteine di parete, siano esse strutturali o enzimatiche inizia nel citosol.

Biosintesi della lignina e degli altri composti fenolici:

Alla fine del differenziamento e della crescita cellulare, in parete può essere deposta la lignina. Sono lignificate le parete secondaria
di cellule specializzate alla conduzione di acqua e al sostegno della pianta: trachea, tracheiti ed elementi dello sclerenchima.

Assemblaggio dei componenti della parete:

Poiché solo la cellulosa viene sintetizzata sul posto è necessario che gli altri componenti della parete, che giungono nello spazio
extracellulare con il trasporto vescicolare, siano correttamente assemblati.

LA STRUTTURA DELLA PARETE:

La parete non è omogenea dal punto di vista morfologico perché i suoi diversi costituenti sono localizzati a strati concentrici. In
tutte le cellule si possono distinguere la lamella mediana e la parete primaria, mentre la parete secondaria è presente solo in alcune
cellule specializzate.

Lamella mediana:

La lamella mediana è la porzione più esterna della parete e quindi della cellula. Origina dalla piastra cellulare ed è in comune tra
cellule contigue. E’ uno strato molto sottile, responsabile dell'adesione cellula cellula. E’ composta principalmente di pectine e
quindi sono queste le responsabili dell’adesione di cellule contigue. Nelle cellule con pareti secondarie la lamella mediana viene
incrostata da lignina e tende a scomparire.

Parete primaria:

Ciò che accomuna tutte le pareti primarie e di essere plastiche di contenere un protoplasto vivo. Nelle cellule meristematiche e
parenchimatiche la parete è solitamente sottile, formata da pochi impercettibili strati deposti durante la crescita della cellula. In
alcuni tipi cellulari la parete primaria può essere più spessa e costituita da più strati, come nel collenchima e nell'epidermide, dove
contiene anche molecole impermeabilizzanti idrofobiche.

Parete secondaria:

Alcuni tipi cellulari, quando la crescita è cessata, vengono deposti ulteriori strati di parete, internamente alla parete primaria. Tali
strati, spesso distinti in esterno, mediano ed interno indicati con S1, S2 S3, sono ricchi di cellulosa, privi di proteine, sia strutturali
che enzimatiche, e poveri di emicellulose e pectine. Spesso, anche se non sempre, contengono lignina. Il diverso orientamento delle
microfibrille nei vari strati conferisce alla parete secondaria una struttura lamellare, rendendola più resistente. A volte, la crescita
della parete può essere così cospicua da occludere quasi completamente il protoplasto, come in alcune fibre. Inoltre la frequente
lignificazione band rende lo scambio di soluti molto difficoltoso. Alcune cellule con pareti secondarie particolarmente elaborate
svolgono la loro funzione da morte, come avviene nelle tracheiti e nei vasi.

Ruolo della parete nella crescita e nel differenziamento cellulare:

L’espansione cellulare dipende dall’orientamento delle microfibrille di cellulosa più interne. Se la disposizione è casuale, la
resistenza all’espansione è omogenea in tutte e direzioni, per cui la forma che ne risulta è sferica. Quando la maggior pare delle
microfibrille di cellulosa ha una disposizione orientata, l’espansione cellulare avviene perpendicolarmente ad esse, perché in tale
direzione la resistenza è minore. La crescita per distensione avviene perpendicolarmente ai fasci di cellulosa appena disposti. Con il
passare del tempo nuovi strati di fibrille vengono deposti, sempre perpendicolari alla linea di distensione, mentre quelli più vecchi
ruotano leggermente, fornendo così la forza necessaria a contrastare una crescita eccessiva. La crescita in lunghezza della m<aggior
parte delle cellula vegetali a forma morto allungata è dovuta alla deposizione a spirale delle microfibrille di cellulosa. Tale
disposizione consente di resistere all’espansione perpendicolarmente alle fibrille di cellulosa, in modo simile a quanto avviene alle
singole spire di una molla quando si esercita una forza alle sue estremità.
La cuticola è lo stato protettivo che riconosce le cellule dell’epidermide di foglie e giovani fusti. Esternamente alla parete primaria,

un primo strato cuticolare comprende, oltre alla cutina, pectine, cellulosa e altri carboidrati. La cuticola vera e propria è costituita
da cutina e cere, che sono anche il costituente unico dello strato esterno.

Percorso dell’acqua dal suolo allo xilema della radice: per la via apoplastica l’acqua viaggia all’esterno delle cellule fino a livello
dell’endodermide, dove viene bloccata dalla presenza della banda del Caspary, una zona in cui la parete viene impermeabilizzata
dalla disposizione di polimeri idrofobi, di cui il più importante è la suberina. L’acqua deve quindi attraversare la membrana
plasmatica ed entrare nel simplasto. Da qui può raggiungere le cellule di conduzione dello xilema per via simplastica, oppure
riversare nell’apoplasto appena superata l’endodermide. Se invece l’acqua supera la membrana plasmatica a livello del pelo
radicale, viaggia per via simplastica, attraverso plasmodesmi che congiungono le cellule vicine, per passare nell’apoplasto a livello
delle cellule di conduzione dello xilema.

Lezione 29/03 i plastidi, la comunicazione cellulare

I PLASTIDI:

I plastidi sono organelli caratteristici della cellula vegetale; ne esistono diversi tipi che differiscono per forma, struttura e funzione in
base al colore, i plastidi sono classificati in cloroplasti, cromoplasti e leucoplasti. Essi hanno la capacità di interconvertirsi, entro
certi limiti, nei diversi tipi in risposta a segnali ambientali e molecolari. Molte delle attività metaboliche della cellula, come la
fotosintesi, la biosintesi degli acidi grassi, degli aminoacidi e dell'amido, avvengono all'interno di questi organuli. Tutti i tipi di
plastidi derivano dalla stessa forma embrionale: il proplastidio. L'involucro dei plastidi è costituito da due membrane unitarie, la
membrana esterna e la membrana interna; il compartimento tra le due membrane è detto spazio intermembranario.

I protoplastidi:

Tutti i plastidi derivano da un unico tipo di organello, chiamato proplastidio, che si trova nell'embrione nelle cellule meristematiche.
Questi organelli presentano dimensioni relativamente ridotte (0,5-1 micron), sono dotati di un sistema di membrane interne poco
sviluppato spesso sottoforma di vescicole, e sono incolori o di colore verde pallido. Il numero dei proplastidi per cellula è difficile da
valutare, tuttavia studi condotti su cellule meristematiche di apici vegetativi hanno evidenziato 10-20 proplastidi per cellula.
Durante le divisioni cellulari dell'embrione i proplastidi si moltiplicano per garantire che ogni cellula figlia possieda un numero
sufficiente di plastidi. Il differenziamento dei proplastidi nelle varie forme di plastidi maturi dipende sia da fattori ambientali, come
luce temperatura, che da meccanismi interni di regolazione, relative al programma di sviluppo dell’organo. Se una plantula viene
fatta crescere al buio, i proplastidi della foglia non diventano amiloplasti come accade nella radice, ma ezioplasti. Differentemente, i
proplastidi della radice, esposta ad illuminazione continua, si trasformano in cloroplasti. Il metabolismo dei plastidi e la trascrizione
del DNA sono limitati e l'inizio del processo di differenziamento è necessario per aumentare l'attività trascrizionale.

Biogenesi e differenziamento dei plastidi:

I plastidi derivano sempre da altri plastidi, la cellula non è in grado di formare ex novo questi organuli. Tutti i plastidi derivano da
quelli dello zigote che a sua volta li ha editati da quelli delle cellule gamiche. Nella maggior parte delle piante, il gamete maschile
concorre con il suo nuovo nucleo alla formazione dello zigote, gli altri organuli vengono trasmessi dal citoplasma del gamete
femminile (via materna); fanno eccezione le conifere per le quali la trasmissione è per via paterna. La divisione delle cellule
meristematiche è preceduta dalla moltiplicazione dei proplastidi, cosicché le cellule figlie siano provviste dello stesso il numero di
proplastidi rispetto alle cellule madri. Il differenziamento cellulare si accompagna all'ulteriore moltiplicazione dei proplastidi, che
porta un aumento del numero di plastidi per cellula e al loro differenziamento in organelli maturi. Non solo i proplastidi, ma anche
plastidi maturi, sono in grado di dividersi e differenziarsi in diverse tipologie di plastidio. Il processo di divisione (scissione binaria)
inizia con la comparsa di un’invaginazione nella zona mediana dell'intero dell'involucro plastidiale, e procede fino a scindere in due
l’organello Il tipo e il numero di plastidi di una cellula matura è legato a fattori interni ed ambientali. È noto che la luce riveste un
ruolo fondamentale nel differenziamento dei cloroplasti. Ciò risulta evidente dall'osservazione di una sezione trasversale di giovani
foglie e fusto: gli strati più esterni di cellule parenchimatiche contengono prevalentemente cloroplasti mentre quelli più interni, non
raggiunti dalla luce, presentano soprattutto leucoplasti. Ancora, nella porzione subaerea della pianta (germoglio) prevalgono i
cloroplasti, mentre nella parte sotterranea questi organelli sono assenti (salvo rare eccezioni) e vi abbondano i leucoplasti. La
formazione del sistema tilacoidale avviene solamente in presenza di luce; se i semi sono fatti germinare all'oscurità, nella plantula
non si formano cloroplasti ma ezioplasti. Questi plastidi posseggono un corpo paracristallino formato da elementi tubulari
membranali, il corpo prolammelare. Se la plantula è esposta alla luce il corpo prolamellare si disgrega e si riaggrega in lamelle
dando luogo al sistema di tilacoidi, l’ezioplasto si trasforma in cloroplasto. Il processo è definito fotoconversione e si compie in
termini relativamente brevi. La relazione tra luce e sviluppo dei plastidi è divenuta più stretta nel corso dell'evoluzione delle piante;
per es., mentre nelle pteridofite e gimnosperme la sintesi di clorofilla e il differenziamento dei cloroplasti può avvenire anche al
buio, nelle angiosperme, in assenza di luce, i proplastidi non si differenziano in cloroplasti, né sintetizzano clorofilla, ma si
differenziano in ezioplasti. Durante il differenziamento dei proplastidi in cloroplasti, le membrane interne aumentano di numero e
complessità per cui si cominciano a formare i primi tilacoidi granali e intergranali. Sorprendentemente, sono ancora scarsamente
conosciuti i meccanismi con i quali vengono prodotte le membrane e poi assemblate in un modello tridimensionale. I proplastidi
generalmente contengono piccole quantità di membrane tilacoidali, quindi, la massiccia biogenesi di membrane nel cloroplasto
potrebbe semplicemente derivare da membrane preesistenti. Tuttavia, studi recenti hanno dimostrato che sia il cloroplasto che i
proplastidi contengono vescicole entro lo stroma e che vi è un traffico vescicolare tra l'involucro interno e lo stroma. Probabilmente
lo scopo principale del traffico vescicolare è quello di fornire galattolipidi, che sono sintetizzati nelle membrane dell'involucro dei
plastidi, per la formazione continua di membrane tilacoidali. Il traffico vescicolare plastidiale sembra utilizzare alcune proteine
omologhe del sistema di traffico citosolico del Golgi, codificate da geni nucleari, in modo che, il cloroplasto contenga sia GTPasi
ARF1 sia SAR1, coinvolte nell'assemblaggio delle vescicoleInoltre il cloroplasto contiene dinamina e proteine richieste per la fusione
delle vescicole. È da sottolineare la facilità con cui i plastidi maturi possono trasformarsi da un tipo all’altro. Per molti tipi di plastidi
esistono due differenti modalità di biogenesi: una diretta dai protoplastidi ed una indiretta per interconversione da plastidi
preesistenti. In molte radici, l'esposizione alla luce è accompagnata dalla conversione degli amiloplasti in cloroplasti.

Biogenesi e differenziamento dei plastidi:

Divisione dei plastidi: I meccanismi di regolazione della divisione dei plastidi sono ancora largamente sconosciuti, tuttavia recenti
dati molecolari e biochimici hanno permesso di cominciare a far luce su questo processo. L’identificazione di un omologo alla
proteina batterica FtsZ nel genoma nucleare di Arabidopsis ha condotto all'idea che il cloroplasto utilizzi, almeno in parte, il
macchinario batterico per la divisione. Nelle piante superiori e nelle alghe il gene FtsZ risulta conservato e duplicato; le proteine di
Arabidopsis At-FtsZ1 e At-FtsZ2 sono importate nei cloroplasti e colocalizzano in una struttura ad anello al sito di divisione del
cloroplasto, sul lato stromatico della membrana interna dell’involucro. Studi ultrastrutturali hanno rivelato che la divisione
plastidiale comporta l'azione coordinata di componenti dello stroma e della faccia citoplasmatica della membrana dell’involucro.
Questi componenti sono stati visualizzati come placche di materiale elettrondenso che formano due anelli, uno sul lato stromatico
ed uno nella faccia esterna dell’involucro. Tutti e tre gli anelli (l'anello Z e gli anelli interno ed esterno) si formano prima che il sito di
divisione sia visibile e il posizionamento dell'anello Z predetermina la posizione degli altri due anelli. La divisione dei plastidi può
essere accoppiata al ciclo cellulare, ma in alcuni casi risulta evidente una dipendenza da alcuni parametri cellulari, come la
dimensione della cellula.

Stromuli: In diverse specie e tipi cellulari sono stati osservati dei tubuli contenenti stroma, che partono dalla superficie plasmidi e si
connettono con altri plastidi permettendo lo scambio di macromolecole. Essi, denominati stromuli, sono delle strutture altamente
dinamiche che cambiano continuamente forma. Queste osservazioni sono state confermate grazie alla microscopia confocale in
cellule trasformate, i cui plastidi erano marcati con la proteina fluorescente GFP. Gli stromuli sono circondati dalle membrane
interna ed esterna dell'involucro plastidiale e misurano fino a 65 µm di lunghezza con un diametro di 0,4 più/meno 0,8 µm. Gli
stromuli si muovono lungo i filamenti di actina grazie all'attività ATPasica della miosina che genera la forza motrice. Gli stromuli
sono molto abbondanti in cellule contenenti i plastidi di piccolo volume e sono un mezzo per incrementare enormemente la
superficie e scambiare prodotti o segnali con il citoplasma. Questo può essere particolarmente importante per il trasferimento di
molecole da e verso altri organelli.

Morfologia struttura e funzione dei differenti tipi di plastidi:

Cloroplasti e pigmenti fotosintetici: I cloroplasti sono la forma prevalente di plastidi in tutti gli organismi autotrofi eucariotici, capaci
di fissare il carbonio nel processo di fotosintesi, in aggiunta in molti altri processi biochimici cruciali del metabolismo cellulare.
Mentre nelle alghe si passa da un solo grande plastidio per cellula a tanti piccoli plastidi nelle forme più evolute, nelle piante sono
presenti numerosi cloroplasti per cellula; questi presentano dimensioni comprese tra 4 e 10 micrometri ed hanno forma
ellissoidale, con una faccia piana ed una convessa. In 1 mm² di foglia possono essere presenti alcune centinaia di migliaia di
cloroplasti. Considerato che le piante sono di più recente origine rispetto alle alghe, è evidente che l'avere tanti cloroplasti piccoli
anziché un singolo grande cloroplasto sia risultato evolutivamente più vantaggioso. Il principale vantaggio è probabilmente
rappresentato dalla possibilità dei cloroplasti di muoversi indipendentemente l'uno all'altro orientandosi a favore della radiazione
luminosa. Inoltre, questi possono sviluppare una maggiore superficie disponibile per gli scambi di sostanze con il citoplasma.
Diversamente dalle membrane della maggior parte delle cellule eucariotiche, quelle dei cloroplasti sono povere di fosfolipidi e
ricche in galattolipidi. La membrana esterna del cloroplasto è dotata di speciali proteine, le porine, che formano dei canali
rendendola permeabile a molecole di ridotte dimensioni sia idrofile che moderatamente lipofile; la sua principale funzione è il
riconoscimento e l'importo di proteine sintetizzate nel citoplasma. La membrana interna è altamente selettiva: essa è liberamente
permeabile solo a molecole neutre di ridotte dimensioni; gli scambi di metaboliti e di ioni tra citoplasma e cloroplasto si attuano
attraverso specifiche proteine trasportatrici. Con il microscopio ottico, a forte ingrandimento, è possibile distinguere, all'interno del
cloroplasto, delle regioni più scure chiamate grana. L'osservazione al microscopio elettronico rivela che i grana consistono di pile di
sacchi membranosi discoidali sovrapposti denominati tilacoidi granali. In ogni granum può essere contato un numero molto
variabile di tilacoidi in relazione alla specie alle condizioni ambientali. Ad es., le piante cresciute all'ombra hanno un numero
superiore di tilacoidi per grano rispetto a quelle cresciute alla luce.

Altri tilacoidi, denominatiti tilacoidi intergranali o stromatici, decorrono lungo l'asse maggiore del cloroplasto connettendo i diversi
grana. Tutti i tilacoidi sono in continuità tra loro costituendo un sistema chiuso di membrane che racchiude una singola camera
interconnessa definita lume. La zona in cui i tilacoidi di un granum vengono a contatto è definita partizione; la zona terminale dei
tilacoidi dei grana, a contatto con lo stroma, è detta margine. Nello spessore della membrana dei tilacoidi è localizzato l'apparato
fotochimico della fotosintesi. La fase luminosa della fotosintesi, cioè la “cattura della luce”, il trasporto degli elettroni e la
produzione di ATP avvengono grazie a complessi multiproteici inseriti nella membrana tilacoidale. La “cattura della luce” viene
effettuata dalle antenne che sono complessi multiproteici contenenti pigmenti ed inseriti nei tilacoidi. Nelle piante superiori sono
due, lavorano in serie e sono denominati fotosistema I (PSI) e fotosistema II (PSII). Il cuore di un fotosistema è il centro di reazione
costituito da una coppia di clorofille. Il PSI contiene il centro di reazione P700, mentre il PSII il P680. Nel centro di reazione avviene
l'evento fotochimico primario, ovvero l'ossidazione della clorofilla con perdita di un e-. Il centro di reazione ossidato (P680 e P700)
è un fortissimo ossidante, che deve in tempi brevissimi essere ridotto. Per ridurre il P680 gli e- vengono strappati dall'acqua e
passano al P680 riportandolo al suo stato basale. L’e- perso dal P680 passa, attraverso una serie di trasportatori, al P700
riportandolo al suo stato basale. L'elettrone perso dal P700 giunge, attraverso una seconda serie di trasportatori, al NADP+ ,
riducendolo a NADPH. L'ATP viene prodotto dall'ATP sintasi, un complesso multiproteico inserito nella membrana tilacoidale che è
capace di sintetizzare ATP partendo da ADP e Pi. Il sistema dei tilacoidi è immerso nello stroma, una sostanza amorfa ricca in
ribosomi, in cui risiedono, tra l’altro, gli enzimi coinvolti nella fase di organicazione del carbonio. La fase di carbonicazione consiste
in una serie di reazioni enzimatiche che portano alla formazione di carboidrati partendo da CO2, ATP e NADPH. Le reazioni di
carbonicazione sono catalizzate da enzimi localizzati nello stroma ed organizzate in un ciclo detto di Calvin. La reazione più
importante è catalizzata dall'enzima ribulosio bifosfato carbossilasi/ossigenasi (Rubisco), che aggiunge una molecola di CO2 ad uno
zucchero a cinque atomi di carbonio. Il prodotto sono due molecole a tre atomi di C, il 3- fosfoglicerato. Seguono due reazioni di
riduzione che portano alla formazione della gliceraldeide-3-fosfato. Questo trioso fa da mattone per la costruzione di tutti gli altri
zuccheri. Nelle membrane dei cloroplasti avviene anche la sintesi degli acidi grassi differentemente dai funghi, batteri e animali nei
quali avviene nel citosol. Inoltre nelle piante almeno 30 enzimi coinvolti nella formazione degli acidi grassi a 16 e 18 atomi di
carbonio sono componenti solubili localizzati nello stroma. Al microscopio elettronico, nello stroma possono essere riconosciute
regioni più chiare e prive di grana, i nucleoidi, in cui è localizzato il DNA plastidiale. Durante l’attività fotosintetica, nelle ore diurne,
la quantità di zuccheri prodotti può essere superiore rispetto alla quantità di zuccheri consumati e/o esportati dalla cellula e
l'eccesso viene polimerizzato ad amido, e temporaneamente accumulato nello stroma del cloroplasto. Durante le ore notturne,
questo amido, detto amido primario, è idrolizzato in zuccheri solubili presto in parte consumato per le attività metaboliche della
cellula e in parte trasportato negli amiloplasti dove viene riformato amido. Per distinguerlo dall'amido contenuto nei cloroplasti,
quello accumulato degli amiloplasti è detto amido secondario. Nello stroma, inoltre, possono essere osservate inclusioni lipidiche
rotondeggianti, i plastoglobuli. I pigmenti che sono coinvolti nella cattura dell'energia luminosa, rendendo possibile il processo
fotosintetico, appartengono a tre classi: clorofille, carotenoidi e ficobiline. Le clorofille sono metallocomposti appartenenti alla
famiglia delle porfirine. Presentano un anello porfinirico, simile all'eme dell'emoglobina, contenente una serie di doppi legami
coniugati. Al centro dell'anello porfinirico risiede uno ione Mg2+ , coordinato con i quattro atomi di azoto degli anelli tetrapirrolici.
Le clorofille presentano, inoltre, sull’anello C, un nucleo aliciclico ciclopentanoico con un carbossile esterificato.

Esistono in natura 4 tipi di clorofilla che differiscono per il loro sostituenti attorno alla struttura ad anello: la clorofilla a (presente in
tutti gli organismi fotosintetici sia procarioti che eucarioti), la clorofilla b (presente nel proclorofite, nelle alghe euglenoidi, nelle
alghe verdi e in tutte le piante), la clorofilla c (presente nelle diatomee e nelle alghe brune) e la clorofilla d (in un cianobatterio ed in
alcune alghe rosse). Le clorofille, ad eccezione della c possiedono un alcol alifatico (fitolo) esterificato all'anello D che rende le
molecole idrofobiche. La clorofilla a si differenzia dalla b esclusivamente per la presenza di un gruppo metilico anziché aldeidico
legato al carbonio 3 dell'anello B. La clorofilla c si differenzia dalla clorofilla a poiché il gruppo vinilico dell'anello A è ossidato a
gruppo aldeidico. I carotenoidi sono pigmenti liposolubili di colore giallo arancio e si ritrovano in tutti gli organismi fotosintetici.
Sono formati da un elevato numero di unità isoprenoidi che agli estremi della molecola possono formare un anello esagonale. I
carotenoidi presenti nei cloroplasti appartengono a a due categorie: i caroteni, come il beta-carotene abbondante nella carota e il
licopene di cui è ricco il pomodoro, ed i loro derivati ossigenati, le xantofille come la rodoxantina presente nell’arillo del tasso e la
zeaxantina abbondante nella cariossidi del mais. Le ficobiline sono pigmenti idrosolubili colore rosso o azzurro, presenti nei
cianobatteri e nei cloroplasti di alcune alghe. Questi pigmenti sono coniugati con proteine (ficobiliproteine) e formano dei granuli
situati sulla superficie esterna dei tilacoidi (ficolibosomi).
Interazione tra DNA nucleare e plastidiale: Molto importanti sono le interazioni tra il DNA nucleare e quello plastidiale. La maggior
parte, 90% delle proteine di un cloroplasto è codificata dal genoma nucleare e sintetizzata sui ribosomi del citosol. Le proteine
codificate dal genoma nucleare e destinate al plastidio possiedono all’N-terminale una sequenza che è il segnale di indirizzamento.
In seguito al riconoscimento, la proteina viene traslocata attraverso un complesso apparato, detto sistema TOC/TIC, che interessa le
due membrane, e il segnale di localizzazione viene eliminato con un meccanismo di proteolisi che genera la proteina matura. Di
recente è stato proposto che il legame peptidico avvenga ad opera di fattori solubili nel citoplasma, presumibilmente HSP70 e
HSP90. Il complesso TOC è costituito dalle proteine Toc159 e Toc34, entrambe GTPasi che controllano il riconoscimento del peptide
segnale e, per questo, considerati recettori, e dalla proteina Toc75 che costituisce il canale della membrana esterna. Il canale della
membrana interna è costituito dalle proteine Tic110, Tic20 e/o Tic21. Si ritiene che la proteina Tic110 coordini le tappe tardive
dell’importo reclutando proteine dello stroma con funzione di chaperonine; in particolare, essa potrebbe interagire con Tic40 e
Hsp93 a costituire un complesso di importo nello stroma. Al momento del raggiungimento dello stroma il peptide di transito viene
rimosso dalla proteina SPP un enzima monomerico che necessita di ioni zinco per avere attività catalitica. Altre chaperonine
potrebbero infine assistere il raggiungimento della corretta conformazione della proteina matura. Altre proteine potrebbero far
parte del complesso TIC, solo saltuariamente e consentirebbero di regolare l'importo di proteine in risposta segnali redox. Dati
recenti indicano l'esistenza di vie di trasporto delle proteine ai cloroplasti indipendenti dal sistema TOC/TIC. Alcune proteine
mancano dei prodotti da segnale Nterminale e si presume che vengano destinate al plastidio attraverso il meccanismo ancora
sconosciuto grazie ad un segnale di indirizzamento in posizione interna. L'osservazione è che alcune proteine plastidiali possiedono
un segnale di indirizzamento al reticolo endoplasmico e glicosilazione che sono tipicamente aggiunte nell’apparato di Golgi
suggerisce l'esistenza di un ulteriore via di trasporto ai plastidi mediata dal sistema di endomembrane. Alcune proteine plastidiali
sono costituite da diverse subunità codificate in parte nel genoma e in parte dal plastoma. Un es. significativo è dato dalla Rubisco,
enzima chiave della fotosintesi, responsabile dell'assimilazione della CO2 su una molecola organica. Questo enzima è localizzato
nello stroma dei cloroplasti ed è costituito da 8 subunità piccole (codificate dal DNA nucleare, sintetizzate nel citoplasma e
importate nel cloroplasto) e da 8 subunità grandi (codificate dal DNA plastidiale tradotte su ribosomi dello stroma); l'enzima
funzionale deriva dall'assemblaggio delle subunità grandi e di quelle piccole ad opera di speciali chaperonine plastidiali, che
garantiscono la conformazione attiva dell’enzima.

Cloroplasti: I cromoplasti hanno forma variabile e, sebbene possono presentare delle membrane interne, mancano di un sistema
tilacoidale vero e proprio. Generalmente si differenziano a partire dai cloroplasti, come avviene nelle ultime fasi della maturazione
del pomodoro il peperone, ma possono derivare anche da plastidi non fotosintetici, come nella radice della barbabietola e della
carota. La conversione dei cloroplasti in cromoplasti comporta la degradazione delle clorofille e più in generale dell'intero apparato
fotosintetico. Contemporaneamente, compaiono nel plastidio i pigmenti carotenoidi che possono essere accumulati in goccioline
lipidiche giallo-arancio (plastoglobuli) e sottoforma di cristalli o associati a membrane. La conversione dei cloroplasti in cromoplasti
è legata a fattori endogeni (ormoni e nutrienti) ed ambientali (fotoperiodo e temperatura). Il processo in opportune condizioni può
essere reversibile; per es. per effetto del freddo o di intensa illuminazione i cloroplasti possono arrossarsi per poi tornare verdi
quando si ristabiliscono le condizioni iniziali. Nella conversione da cloroplasto a cromoplasto, uno dei maggiori cambiamenti e il
rimodellamento del sistema delle membrane interne. Il disassemblaggio dei tilacoidi è associato con la sintesi di nuove membrane
nelle quali si formano le strutture che accumulano i carotenoidi. Queste nuove membrane non derivano dai tilacoidi ma da
vescicole generate dalla membrana interna dell’involucro. Durante la transizione cloroplsto-cromoplasto si assiste ad un
incremento di plastoglobuli. Ci sono evidenze sperimentali che le proteine plastoglobuline partecipano al sequestro dei carotenoidi.
I plastoglobuli non solo agiscono come accumulatori di lipidi ma partecipano anche ad alcune vie metaboliche. Tecniche di
microscopia con GFP, hanno rivelato l'importanza degli stromuli nel processo di maturazione del pomodoro. Si osservano corti
stromuli associati a cellule con alta densità di plastidi nel mesocarpo esterno, mentre in quello interno sono lunghi, probabilmente
per fornire un'aria maggiore per l'importo di nuove proteine, particolarmente quelle coinvolte nella biosintesi dei carotenoidi e nel
differenziamento del cromoplasto. Durante il processo di differenziamento l'attività trascrizionale del genoma plastidiale è limitata
e la costruzione delle specifiche caratteristiche metaboliche del cromoplasto dipende dall'attività trascrizionale del nucleo. Il tasso
di divisione del cromoplasto è scarso o assente ed infatti solo perché solo poche componenti del sistema deputato alla divisione è
stato riscontrato nel proteoma del cromoplasto. Uno studio del trascrittoma cromoplastico ha mostrato che l'attività rimane quasi
la stessa durante il differenziamento del cromoplasto, eccetto per un limitato di geni, compresi quelli che codificano per l’acetil-CoA
carbossilasi, coinvolto nella biosintesi degli acidi grassi. Nel differenziamento e sviluppo dei cromoplasti gioca un ruolo chiave il
gene nucleare OR (ORANGE). Sebbene non direttamente coinvolto nella biosintesi dei carotenoidi, ne causa l'accumulo nel
plastidio, contribuendo alla conversione in cromoplasto. I cromoplasti sono anche siti di sintesi di zuccheri semplici, amido, lipidi,
composti aromatici e vitamine. Un altro interessante aspetto dei cromoplasti è la presenza di un sistema antiossidante molto attivo.
Il livello di glutatione e di ascorbato incrementa durante la maturazione del frutto di peperone in parallelo con l'attività degli enzimi
superossidodismutasi e del ciclo del glutatione e dell’ascorbato. Questa attività potrebbe giocare un ruolo nel proteggere i
carotenoidi dall'ossidazione, ma anche nel mediare i segnali tra il cromoplasto ed il nucleo. Recentemente alcuni scienziati
ritengono che specie reattive all'ossigeno partecipano alla comunicazione plastidio-nucleo, upregolando la trascrizione dei geni
della biosintesi dei carotenoidi. I cromoplasti possono differenziarsi in cloroplasti. La luce è probabilmente il fattore più importante
della rinverdimento, via citocromo, tuttavia anche i fattori nutrizionali sono coinvolti. Alte temperature, fertilizzazione azotata e
gibberelline stimolano il rivestimento delle arance. Oltre che negli agrumi il fenomeno è stato osservato anche in alcune
cucurbitacee. In Cucurbita pepo durante il rinverdimento i cromoplasti di tipo globulare, con numerosi plastoglobuli, scompaiono e
si formano nuovi tilacoidi da vescicole preesistenti e da invaginazioni della membrana interna per formare strutture clonali che
portano alla formazione del cloroplasto. Ancora sono scarse le informazioni sul meccanismo molecolare, ma evidenze sperimentali
suggeriscono che l'acido gibberellico stimoli il reinverdimento e riduca l'espressione dei geni biosintetici dei carotenoidi, come
fitoene sintasi e desaturasi e beta-carotene idrossilasi. Nelle clementine, le gibberelline e i nitrati inibiscono la sintesi dei
carotenoidi e riducono la degradazione della clorofilla. I cromoplasti sono gialli, arancioni o rossi, in relazione al rapporto tra
caroteni e xantofille, e sono responsabili del colore giallo, arancio e rosso di molti fiori (ranuncolo, calendula), di alcuni frutti
(pomodoro, peperone) e radici (carota, barbabietola). In altri frutti e fiori come la ciliegia e la rosa e nelle foglie di alcune specie
come l’acero rosso e ricino, la colorazione non è legata alla presenza di carotenoidi, ma di pigmenti antociani disciolti nel succo
vacuolare. In ogni caso il colore di fiori e frutti riveste un ruolo importante nell'attrazione dei pronubi (animali impollinatori) e dei
disseminatori (animali coinvolti nella dispersione dei semi).

Ezioplasti: Gli ezioplasti si formano dai proplastidi o dai cloroplasti in assenza di luce. Mancano di clorofilla ma producono con gran
quantità di protoclorofillide, precursore incolore della clorofilla. Gli ezioplasti sintetizzano molti lipidi, che sono componenti delle
membrane interne dei cloroplasti, mentre è molto ridotta la sintesi delle proteine di membrana. La grande sintesi di lipidi porta alla
formazione di un sistema di membrane tubulari molto ramificato, che forma un corpo paracristallino, il corpo prolamellare. Se la
plantula viene esposta la luce, il protoclorofillide si trasforma in clorofilla e i lipidi del corpo prolamellare si disperdono e vanno a
formare le membrane tilacoidali e l’ezioplasto si trasforma in cloroplasto. Il processo è definito fotoconversione e si compie in
tempi relativamente brevi.

Leucoplasti: Con il termine leucoplasto si indica qualsiasi plastidio privo di colore. I leucoplasti sono classificati in base alle sostanze
prodotte e/o accumulate: gli elaioplasti accumulano lipidi; i proteinoplasti immagazzinano proteine ed è possibile osservarli, ad
esempio, in alcune radici; negli amiloplasti, infine sono accumulati carboidrati sottoforma di amido. Gli elaioplasti sono leucoplasti
contenenti oli e si distinguono dagli sferosomi (o corpi oleiferi) che presentano una sola membrana esterna e derivano dal reticolo
endoplasmatico. I triacilgliceroli sono la forma di accumulo dei lipidi nelle piante e si trovano sia negli elaioplasti che nei corpi
oleiferi; nelle angiosperme si trovano nei semi in alcuni frutti, nel tappeto delle antere e nel polline. I proteinoplasti sono un sito di
accumulo di proteine sottoforma di corpi cristallini. L'attività enzimatica di tali proteine può essere svolta nel proteinoplasto stesso.
Questi organuli vegetali sono presenti in grandi quantità nei semi, dove hanno la funzione di nutrire l’embrione. Semi con
un'elevata quantità di proteinoplasti sono le arachidi e le noci del Brasile. Altro esempio di proteina accumulate nei proteinoplasti
sono le proteine P delle cellule floema. Gli amiloplasti sono completamente pieni di amido secondario, che differentemente
dall'ambito primario dei cloroplasti, rappresenta una riserva a lungo termine. Questi organelli si trovano nelle cellule
parenchimatiche di tutti gli organi, ma sono particolarmente abbondanti nelle parti della pianta specializzate per l'accumulo, come
radici, tuberi, rizomi, semi, midollo del fusto. Generalmente gli amiloplasti si formano dai proplastidi, ma talvolta derivano dai
cloroplasti. Il differenziamento dai proplastidi comporta l'aumento di volume e l’acquisizione degli enzimi richiesti per le sue vie
metaboliche. Gli enzimi vengono sintetizzati dai geni nucleari ed importati nell’amiloplasto. Gli amiloplasti maturi, detti granuli di
amido, assumono forme dimensioni caratteristiche che dipendono dalla disposizione di strati di amido intorno a un centro di
formazione definito ilo. L’ilo può essere centrale (come nel mais e frumento) o eccentrico (come nella patata e la soia). Intorno
all’ilo si possono osservare diversi strati concentrici più chiari e più scuri. In alcune specie come la patata e la canna da zucchero
questi strati sono molto evidenti, in altre come il frumento o il granturco non sono distinguibili. In alcune specie, come la patata, i
granuli di amido sono semplici, come in altre come l'avena, il riso e il grano saraceno, i granuli sono composti. Questi differenti
caratteri dell'amido secondario hanno valore tassonomico. Dal punto di vista chimico l'amido è costituito da una miscela di due
polisaccaridi del glucosio, l'amilopectina (componente principale) e l’amilosio. Questi composti sono differenti per la solubilità e
struttura e si colorano differentemente con lo iodio, il primo in rosso-viola, il secondo azzurro. I granuli interi assumono in presenza
di iodio una colorazione azzurro-viola principalmente data dall'amilosio che si colora più intensamente dell’amilopectina. La
funzione di accumulo di carboidrati non è l'unica svolta dagli amiloplasti. Nelle cellule della columella della cuffia radicale, gli
amiloplasti funzionano come sta lo statoliti, cioè sono coinvolti nella percezione dello stimolo gravitropico.

Gerontoplasti: Uno spettacolare fenomeno, in autunno, associato la senescenza fogliare di alberi decidui è la colorazione che
assumono le foglie. Mentre la clorofilla viene progressivamente degradata, i carotenoidi sono mantenuti ad un diverso grado a
seconda delle specie e dei fattori ambientali. I carotenoidi, insieme agli antociani rossi di nuova sintesi e ai prodotti scuri derivati
dall'ossidazione dei fenoli, definiscono la bellezza policromatica degli alberi in autunno. Durante la senescenza diversi fattori
influenzano considerevolmente i colori delle foglie in autunno, come i cambiamenti del pH vacuolare l'attivazione delle vie
biosintetiche degli antociani. Nelle foglie senescenti si osservano plastidi che, in seguito a processi degradativi, assumono un
aspetto simile a quello dei cromoplasti. Tali organelli, denominati gerontoplasti, rappresentano uno stadio degenerativo
irreversibile dei cloroplasti e non vanno confusi con i veri cromoplasti.

LA COMUNICAZIONE CELLULARE:

Come tutti gli organismi, anche le piante possiedono numerose strategie per riconoscere e rispondere a segnali endogeni ed
ambientali. Le loro cellule ricevono e processano le informazioni attraverso varie classi di recettori. Nelle piante proteine ad attività
recettoriale si trovano nella parete cellulare, nel citoplasma o sulle membrane interne, ma è soprattutto sulla membrana plasmatica
dove si localizzano la maggior parte dei recettori. Queste proteine permettono la trasmissione del segnale percepito all'esterno
della membrana al citoplasma e costituiscono il punto di partenza delle cosiddette vie di trasduzione del segnale. La fosforilazione
di proteine e il coinvolgimento di secondi messaggeri, come il calcio, sono meccanismi chiave della trasmissione del segnale
all'interno della cellula. Questi processi, mediante una gamma di meccanismi molecolari diversi, inducono risposte cellulari che
comportano la regolazione dell'espressione genica e/o dell'attività di enzimi e proteine strutturali.

I recettori di membrana:

La percezione del segnale attraverso recettori è una caratteristica comune a tutti gli organismi. Recettori localizzati a livello della
membrana plasmatica riconoscono segnali provenienti dall'ambiente esterno o da altre cellule e attivano una cascata di
segnalazione, spesso mediata da fosforilazioni, che portano a risposte specifiche, generalmente attraverso modificazioni
dell'espressione genica. Questi recettori sono coinvolti in una molteplicità di processi che spaziano da programmi di crescita e
sviluppo ad eventi di riconoscimento e difesa di altri organismi. Nelle piante esistono due tipi di recettori di membrana con attività
chinasica (di fosforilazione): recettori di tipo istidina (H)-kinasi e recettori tipo serina (S)/treonina (T)-kinasi. Le H-kinasi nei batteri
rivestono un ruolo chiave nel percepire segnali ambientali come la disponibilità di nutrienti o cambiamenti dell’osmolarità. Questo
meccanismo di trasduzione del segnale è stato chiamato sistema a due componenti poiché prevede il trasferimento di un gruppo
fosfato da un residuo di H di una proteina (recettore), che si autofosforila in presenza del segnale, ad un residuo di acido aspartico
di un'altra proteina (spesso fattore trascrizionale, anche detto regolatore della risposta). Nelle piante i sistemi a due componenti
sono più complessi. Il recettore del segnale possiede, oltre il dominio H-kinasico, un altro dominio che riceve il gruppo fosfato In
aggiunta esistono altre proteine intermedie che partecipano al trasferimento del gruppo fosfato dal recettore al regolatore della
risposta. In Arabidopsis sono stati caratterizzati come recettori di ormoni otto geni correlabili a recettori del sistema a due
componenti: tre sono coinvolti nella percezione delle citochine e cinque codificano recettori per l'etilene. I recettori di tipo S/T-
kinasi sono anche chiamati RLK. Essi sono costituiti da un dominio extracellulare, che in alcuni casi può mancare, da un dominio
transmembrana e da un dominio citoplasmatico con attività kinasica. Nelle piante gli RLK costituiscono la famiglia genica di origine
antica, precedente la comparsa delle piante vascolari, conta più di 600 membri in A. thaliana e 1100 in riso. Eventi di fusione dei
domini diversi di duplicazione genica hanno senza dubbio contribuito a generare la molteplicità e la variabilità di questi recettori nei
genomi delle piante. Si è ipotizzato che l’abbondanza di RLK nelle piante, che non ha eguali in altri gruppi di organismi, rappresenti
un adattamento specifico di organismi incapaci di movimento per poter uscire e rispondere ad un'ampia gamma di segnali. Sulla
base della presenza/assenza delle caratteristiche del dominio extracellulare e di quello con attività kinasica si riconoscono diverse
sottofamiglia di RLK. In Arabidopsis circa 200 RLK mancano di dominio extracellulare, sono chiamati RLCK e, ad oggi, le informazioni
sul ruolo sono ancora molto scarse. I restanti 400 geni RLK hanno una configurazione con tre domini da fare ipotizzare un ruolo di
recettori nella percezione di segnali sulla superficie. Il dominio extra cellulare è la porzione più variabile permetterebbe di
rispondere in modo selettivo ai diversi segnali. Sulla base di tali domini si riconoscono diverse classi di RLK. Il dominio più frequente
è detto Leucine-Rich Repeat (LRR) poiché contiene ripetizioni di una sequenza di 23-25 aminoacidi ricca in residui di leucina che
generalmente funziona mediando l'interazione con ligandi, in particolare con proteine e peptidi. Sebbene solo pochi di questi 400
geni RLK siano stati caratterizzati in dettaglio, studi recenti indicano che essi sono coinvolti in svariati processi.

La comunicazione mediata da endosomi:

La trasduzione del segnale a partire dai recettori di membrana è un nodo centrale della comunicazione cellulare, soprattutto
nell'ambito delle comunicazioni tra cellule diverse e tra organismi diversi. Per regolare l'attività dei recettori di membrana RLK si
sono evoluti alcuni meccanismi che sono essenziali per garantire alla cellula la capacità di percepire il segnale nei casi in cui ci siano
variazioni nella disponibilità del ligando. Questi meccanismi includono l'attività di fosfatasi e l'internalizzazione e/o il riciclo di
recettori all'interno della cellula attraverso fenomeni di endocitosi.

Endocitosi dei recettori di membrana: I recettori non risiedono in modo permanente sul plasmalemma, ma sono continuamente
rinnovati attraverso processi di endocitosi e di esocitosi. Questa dinamicità permette alla cellula di modificare la distribuzione e la
composizione della popolazione di recettori esposti in membrana. D'altra parte, con l'internalizzazione dei recettori, viene anche
modulata la sensibilità ad un determinato stimolo, anche fino a silenziare completamente la risposta, un processo fondamentale in
molti meccanismi di segnalazione. Infine, il legame tra recettore e ligando può scatenare esso stesso l'endocitosi, portando alla
formazione di un endosoma, la cui membrana deriva direttamente da quella parte di membrana plasmatica che circondava il
recettore. Questo processo è alla base di numerosi meccanismi cellulari, che vanno dalla traslocazione dei ligandi nel citoplasma
all'insorgenza di fenomeni di signaling dissociati dalla membrana plasmatica. Mettendo in relazione la superficie cellulare con il
numero di recettori codificati nel genoma, si osserva che questo rapporto aumenta di oltre 100 volte passando da un’alga
unicellulare ad una cellula meristematica di Arabidopsis. È stato teorizzato che attraverso l'endocitosi (indotta o costitutiva) e il
continuo riciclo della membrana e delle proteine in essa inserite, la cellula vegetale riesca ad espandere la superficie disponibile,
regolando al tempo stesso la distribuzione e l'abbondanza relativa dei diversi recettori. Gli endosomi fungono in quest'ottica come
un’estensione della membrana plasmatica in cui recettori e altre proteine possono svolgere la propria funzione per poi ritornare in
membrana o essere destinati ai vacuoli litici. Questo meccanismo, comune a tutti gli eucarioti, raggiunge nelle cellule vegetali livelli
di complessità e di estensione unici. Endocitosi costitutiva. Tra i segnali endogeni che vengono percepiti da recettori di membrana,
uno dei più noti nelle piante è quello mediato dalla brassinosteroide, un fitormone che si lega recettori di tipo RLK BRI1. La
marcatura del recettore con GFP ha evidenziato la sua localizzazione sia sulla membrana plasmatica sia in corrispondenza di
endosomi mobili nel citoplasma. Si tratta di un esempio di endocitosi costitutiva, il meccanismo che produce un ricambio continuo
dei recettori esposti sulla membrana plasmatica indipendentemente dal fatto che essi siano o meno associati al proprio ligando. Lo
stesso processo è stato osservato per altri recettori, come a ACR4, coinvolto nel segnaling che porta al differenziamento delle
cellule epidermiche. Prove sperimentali suggeriscono che la maggior parte dei recettori endocitati in modo costitutivo tornino
rapidamente sulla membrana plasmatica, mentre solo una piccola percentuale sarebbe indirizzata verso i vacuoli litici per essere
degradata. Endocitosi indotta da ligando. Molti altri recettori vengono invece indirizzati lungo la via endocitotica solo in seguito alla
loro associazione legando. È il caso di FLS2, il recettore per la flagellina. In Arabidopsis FLS2 si localizza sulla membrana plasmatica,
ma passa negli endosomi non appena le cellule sono trattate con flagellina. Un trattamento prolungato porta alla completa
rimozione dei recettori della membrana plasmatica, suggerendo quindi che, una volta internalizzati, essi vengano destinati alla lisi.
L'endocitosi indotta da ligando costituisce quindi un meccanismo per garantire che la via di segnalazione a valle del recettore venga
attivata in modo transitorio, oltre a permettere la rimozione e degradazione delle molecole esogene legate. Nel caso di FLS2, come
in molti altri fenomeni di endocitosi mediata dai recettori, l'associazione con il ligando provoca un cambiamento conformazionale
nel recettore. Questo può promuovere l'assemblaggio di un dominio di membrana arricchito di steroidi strutturali e altri lipidi, in cui
si localizzano altre copie del recettore, co-recettori e altre proteine. Contemporaneamente, sul versante citoplasmatico della
membrana, proteine adattatrici danno inizio all'assemblaggio del rivestimento di clatrina che porterà all'invaginazione della
membrana e alla successiva endocitosi. Dal momento in cui si attiva, il recettore trasmette a valle il segnale, lungo la via di
trasduzione. Questo si può realizzare attraverso il dominio kinasico del recettore stesso, che fosforila altre proteine della via di
segnalazione, come le MAPKKK di un modulo MAP-kinasico, oppure mediante l'attivazione delle proteine G o della fosfolipasi C, con
la conseguente liberazione di inositolo-3-fosfato (IP3), che diffondendo nel citosol trasmette il segnale a distanza. I diversi
componenti proteici della via di segnalazione si trovano spesso associati, attraverso l'azione di scaffold proteins, al dominio
citoplasmatico del recettore. In questo modo vengono garantite l'immediatezza della trasmissione del segnale e la specificità della
risposta.

Endosomi come piattaforme citoplasmatiche di segnalazione: Se da un lato l’endocitosi dei recettori può portare alla loro
eliminazione nell'ambito del silenziamento della risposta, va sottolineato che tali meccanismi comportano l'accumulo temporaneo
di recettori attivati negli endosomi precoci. Analogamente a quanto già noto nelle cellule animali, anche nei vegetali recettori
associati alla membrana degli endosomi restano in grado di funzionare, e possono pertanto continuare ad attivare le rispettive vie
di segnalazione. Non solo: allontanandosi dalla membrana plasmatica e addentrandosi nel citoplasma profondo, gli endosomi, e
connessi complessi proteici della via di segnalazione associati al recettore, possono venire più facilmente a contatto con i propri
substrati o raggiungere specifici compartimenti cellulari come l'involucro nucleare, o organelli e punti della membrana plasmatica
situati in zone della cellula distante dal sito endocitotico. Il ruolo di questi endosomi di segnalazione, ben noto ad esempio nei
neuroni, pare particolarmente comune nelle piante. Rispetto alla maggior parte delle cellule animali, infatti, quelle vegetali hanno
spesso dimensioni molto maggiori, che, associate alla presenza del vacuolo centrale, potrebbero ritardare notevolmente
l'insorgenza della risposta rispetto alla percezione dello stimolo, in cui il segnale citoplasmatico dovesse diffondere passivamente
nel citoplasma. L'immissione degli endosomi di segnalazione nelle correnti citoplasmatiche, che li trasportano rapidamente
attraverso tutto il citoplasma, rappresenta un meccanismo molto efficace per risolvere il problema. In questo contesto il caso di
BRI1 è particolarmente significativo. In seguito al trattamento con brefeldina A (che blocca la via esocitotica) questo recettore viene
progressivamente e completamente rimosso dalla membrana plasmatica, restando compartimentato negli endosomi. In queste
condizioni si osserva un aumento dell'intensità della risposta al brassinosteroide, che suggerisce che sia proprio il compartimento
endosomico quello in cui BRI1 esplica in modo più efficace la propria funzione.

Le MAP chinasi: Le Mitogen-Activated Protein Kinases, o MAPK, sono fosfotransferasi che in tutti gli eucarioti hanno una funzione
fondamentale nella trasduzione del segnale. Attraverso eventi di fosforilazione a catena, esse infatti scatenano specifiche risposte
cellulari in base alla percezione di uno stimolo esterno. Nelle piante queste cosiddette cascate chinasiche mediano le risposte a
numerosi stress biotici ed abiotici, come danni meccanici (ferite) o infezioni da parte di patogeni, ma anche ad ormoni quali l'etilene
o le auxine. Le MAPK sono anche coinvolte nella regolazione del ciclo cellulare e in processi di sviluppo e differenziamento.
Combinando l'analisi del genoma di Arabidopsis con prove sperimentali sono stati identificate più di 20 vie di segnalazione mediate
da MAPK, delle quali solo alcune sono state studiate a fondo. Esse comprendono vie legate al segnaling mediato da H2O2, alle
risposte a stress salini e termici o a stimoli di tigmotropici, alla regolazione delle risposte mediate da etilene e alle reazioni di difesa
contro i patogeni. Le vie di segnalazione mediata da MAPK, coinvolgono tre tipi di enzimi, chiamati MAPKKK, MAPKK e MAPK. Ogni
cascata MAP-kinasica che risulta cioè formata da una protein kinasi (MAPK), da una kinasi della protein kinasi (MAPKK) e da una
kinasi della kinasi della protein kinasi (MAPKKK). In un sistema di questo genere, quindi l'attivazione della MAPKKK porta alla
fosforilazione della MAPKK che, attivandosi, a sua volta fosforila la MAPK, la quale avrà come substrato una proteina attuatrice
della via di segnalazione.

Il ruolo del calcio: Come in tutti gli eucarioti anche nelle piante esistono meccanismi cellulari molto sofisticati e rigorosi per la
percezione e la trasduzione del segnale extracellulare. Moltissime vie di trasduzione del segnale, tuttavia, comprendono anche i
messaggeri cellulari di natura non proteica. Tra essi ricordiamo il nucleotidi ciclici, ioni idrogeno, specie reattive dell'ossigeno (ROS),
lipidi; ma il messaggero che rientra nel numero maggiore di vie di segnalazione è certamente lo ione calcio. Variazioni nella
concentrazione del Ca2+ intracellulare sono indotti ad esempio da stimoli luminosi, termici, meccanici, osmotico e ossidativi, come
pure da segnali ormonali ed elecitor fungini e batterici. La trasmissione di tanti segnali attraverso l'incremento della concentrazione
del Ca2+ è probabilmente una scelta evolutiva derivata dal fatto che l'intero metabolismo cellulare è in grado di funzionare solo in
presenza di basse concentrazioni citoplasmatiche di questo ione. La dimostrazione più evidente di questo fatto si riscontra nel
coinvolgimento di ortofosfato e composti organici fosforilati in gran parte delle reazioni metaboliche. Tali molecole sono molto
abbondanti nel citoplasma e la presenza di ioni calcio liberi porterebbe rapidamente alla loro parte precipitazione sottoforma di
fosfati di calcio, rendendoli così non disponibili per la cellula. A partire dalle prime forme di vita unicellulare, pertanto, il
mantenimento del livello di Ca2+ cellulare molto al di sotto delle concentrazioni millimolari presenti nell'acqua marina è stato senza
dubbio il requisito fondamentale. Posto quindi che l'omeostasi cellulare mantenga un livello di Ca citoplasmatico stabile basso, ogni
suo incremento risulta in una perturbazione molto evidente, che può quindi essere sfruttata come meccanismo di segnalazione. Per
le stesse ragioni, l’utilizzo del calcio come messaggero secondario solleva almeno due problemi. Innanzitutto, come abbiamo visto,
l'esposizione ad alte concentrazioni di Ca2+ per tempi prolungati è tossica per la cellula. In secondo luogo, se l'incremento della
concentrazione di calcio fa parte di tante vie di traduzione diverse, come è possibile il corretto accoppiamento tra lo stimolo a
monte e la risposta a valle?

Generazione del segnale: In effetti, in tutti questi meccanismi di segnali mediati da calcio, la concentrazione dello ione viene portata
ad un livello elevato rispetto al valore basale soltanto per un periodo di tempo limitato. Variazioni transitorie di questo genere sono
dette transienti di calcio. In molti casi un singolo transiente è sufficiente a trasmettere il segnale, come avviene ad esempio nelle
risposte a shock da basse temperature o a stimoli meccanici. Altre risposte cellulari vengono invece indotte soltanto in seguito alla
stimolazione prolungata. In alcuni processi, quali ad esempio l'articolazione dell'apertura degli stomi o le risposte a molecole
rilasciate dai rizobi azotofissatori, si osserva la ripetizione di cicli di aumento e diminuzione della concentrazione di Ca2+. Tali
oscillazioni possono estendersi nel tempo senza compromettere la funzionalità cellulare, in quanto il livello tossico di
concentrazione del Ca2+ viene raggiunto solo per periodi brevissimi (picchi di concentrazione) e vengono indicate come il
comunemente con l’espressione calcium spiking. I segnali basati su innalzamenti della concentrazione del calcio vengono generati
mediante l'apertura di canali ionici che permettono un rapido flusso passivo attraverso la membrana che separa il compartimento
di deposito per Ca2+ dal citoplasma. Una volta raggiunta la concentrazione necessaria ad attivare le proteine posizionate a valle del
segnale del calcio lungo la via di segnalazione, intervengono meccanismi di recupero, che ristabiliscono le condizioni basali,
traslocando attivamente gli ioni Ca2+ all'interno dei compartimenti di immagazzinamento o all'esterno della cellula. Tale processo,
che si oppone al gradiente di concertazione, avviene mediante l'intervento di pompe Ca2+-ATPasiche o di trasportatori che
scambiano Ca2+ e H+ con un meccanismo di antiporto. In questo modo la concentrazione citoplasmatica del calcio torna
progressivamente ai valori di partenza evitandone gli effetti tossici. Alcune pompe ATPasiche sembrano agire in modo costitutivo
per mantenere il gradiente di calcio sui due lati della membrana in cui sono inserite. Questi meccanismi di trasporto si combinano
durante i transienti e gli spike. La rapidità con cui la concentrazione del calcio sale e torna ai valori base, durante un transiente
isolato o inserito in un processo di spiking, avvicina spesso i due tratti di curva a due segmenti di retta. Questo si spiega facilmente
sulla base di meccanismi di generazione del segnale visti sopra: l'apertura dei canali provoca un rilascio immediato e massiccio di
calcio nel citoplasma, alimentato dal forte gradiente, che si traduce in un tratto quasi verticale nei grafici della concentrazione;
raggiunto il picco, i canali si chiudono e il livello di calcio citoplasmatico torna ad abbassarsi per l'azione di pompe e trasportatori
attivi secondari; la loro attività, più progressiva rispetto a quella dei canali, si traduce in una discesa quasi lineare verso i valori
basali.

Decodifica del segnale: I segnali generati variando la concentrazione del Ca2+ vengono percepiti dalla cellula attraverso il legame
diretto dello ione con differenti sensori proteici. Alcuni di questi sensori, come la calmodulina, subiscono un cambiamento
conformazionale in seguito al legame con il calcio. La calmodulina non possiede un'attività enzimatica propria ma il suo
cambiamento di conformazione regola l'attività di numerose proteine sia strutturali sia enzimatiche che con essa interagiscono. In
altri sensori, invece il cambiamento conformazionale indotto dal legame con il calcio altera la funzionalità o la struttura della
proteina stessa. È questo il caso di molte kinasi calcio-dipendenti direttamente responsabili della decodifica del segnale e
dell'attivazione della parte terminale della via di trasduzione. Kinasi calcio-dipendenti. Le piante possiedono un numero molto
elevato di chinasi regolate dal calcio, incluse proteine codificate da alcune famiglie geniche esclusive dei vegetali. Alcuni di questi
enzimi sono regolati dall'interazione con la calmodulina e con sensori simili alla calcineurina B, mentre altre, come alcuni membri
della famiglia SNF1, legano direttamente il calcio e cambiano conformazione esponendo così il proprio sito attivo. Questo avviene in
corrispondenza di un dominio C-terminale calmodulina-simile, che presenta più siti EF hand responsabili del legame con il calcio.
Proprio la divergenza funzionale tra questi domini è considerata alla base della capacità delle diverse kinasi di rispondere a
differenti caratteristiche spazio-temporali del segnale del calcio. Queste stesse kinasi possono inoltre essere ulteriormente regolate,
ad esempio mediante fosforilazione e interazione con altri messaggeri secondari di natura lipidica. Tra i substrati delle kinasi
calciodipendenti sono stati identificati enzimi legati al metabolismo dell'azoto e del carbonio, acquaporine, pompe ATPasiche di
tipo ACA2, pompe protoniche di membrana, canali e trasportatori ionici, sei in associate al citoscheletro e fattori di trascrizione, ma
l'elenco cresce costantemente, a dimostrazione dell'enorme numero di processi cellulari regolati da questi meccanismi
segnalazione.
Sezione 2:

Lezione 15/04 CRESCITA E DIFFERENZIAMENTO CELLULARE:


In un organismo pluricellulare, il processo che conduce alla formazione di differenti tipi di cellule si definisce differenziamento
cellulare. Il destino di ciascuna cellula è la combinazione di modelli coordinati di divisione, crescita e differenziamento cellulare,
inclusa la morte cellulare programmata. Il processo di differenziamento è preceduto da una fase di determinazione cellulare, cioè
l’indirizzamento di cellule ancora meristematiche (staminali, non differenziate) verso uno specifico programma differenziativo, che
le porta a formare i diversi tessuti di un organo. La struttura e la funzione è definita dalla cellula.

Molteplicità di forme e dimensioni: tutte le piante attuano processi molto simili e sono basate sullo stesso schema architettonico.
Ciascun elemento strutturale riflette un processo fondamentale:

- Sono i raccoglitori della luce solare (per produrre ATP, NADPH e zuccheri).

- Sono immobili, crescono per tutta la loro vita alla ricerca di risorse essenziali (luce, acqua, elementi minerali)

- Sono rafforzate strutturalmente per crescere contro gravità verso la luce

- Devono evitare la disidratazione

- Possiedono meccanismo di trasporto dell’acqua verso il germoglio e dei fotosintati verso la radice

Lo sviluppo vegetale dipende solo da eventi di divisione ed espansione cellulare. L’accrescimento è concentrato in regioni di attiva
divisione cellulare: i meristemi. I meristemi apicali sono localizzati all’estremità del fusto e della radice e a livello delle gemme
ascellari. Sono responsabili dell’accrescimento primario. I meristemi laterali come il cambio cribro-vascolare si trovano nel fusto e
nella radice. Sono responsabili dell’accrescimento secondario.

Tutti gli organi della pianta sono formati da tre sistemi di tessuti:

1. Tessuto dermico:

Epidermide: cellule appiattite e poligonali, sulla superficie di tutte le piante. Sono di solito ricoperte da uno strato ceroso (cuticola)
nella parte aerea della pianta e presentano peli o tricomi. Cellule epidermiche specializzate formano gli stomi. Nelle radici,
l’epidermide manca della cuticola per permettere l’assorbimento dell’acqua. I peli radicali sono estensioni delle cellule epidermiche
che aumentano la superficie di assorbimento.

Cere: associate sia a cutina (zone epigee) che a suberina (zone ipogee), sono miscele complesse di lipidi liberi a lunga catena,
esternamente idrofobiche, sintetizzate dal RE delle cellule epidermiche.

2. Tessuto fondamentale:

Comprende la maggior parte delle cellule vegetali. Ce ne sono 3 tipi:

- Parenchima: il più abbondante, cellule metabolicamente attive, con pareti sottili, svolgono molte funzioni compresa la fotosintesi.

- Collenchima: cellule strette e allungate con spesse pareti primarie (non lignificate), permettono un sostegno strutturale alla pianta
in fase di crescita.

- Sclerenchima: formato da due tipi di cellule, sclereidi e fibre, con pareti secondarie ispessite, cellule morte al termine del
differenziamento. Questo tessuto fornisce sostegno meccanico alle parti della pianta che hanno cessato di distendersi.

Nelle foglio il tessuto fondamentale è il mesofillo (palizzata e lacunoso). Nel fusto, midollo e corteccia rappresentano il tessuto
fondamentale (di solito la radice non ha midollo).

Endodermide: strato specializzato della corteccia della radice, si trova tra il tessuto fondamentale e quello vascolare. È formato da
un cilindro di cellule, che si differenzia con la deposizione di una stretta banda di suberina, detta banda di Caspary. Sono una
barriera al movimento intercellulare di acqua, ioni e soluti verso le cellule vascolari (e quindi il germoglio).

3. Tessuto vascolare:

Xilema: trasporta acqua e ioni minerali dalla radice al resto della pianta.

Floema: distribuisce i prodotti della fotosintesi a tutta la pianta.

Trachee, cellule conduttrici dello xilema, disposte una sull’altra a formare i vasi. Hanno ispessimento secondari della parete
(lignina), perdono il citoplasma a maturità (cioè funzionano quando sono elementi morti). Elementi dei tubi cribrosi, disposti uno
sull’altro a formare i tubi cribrosi. Mediano il trasferimento del saccarosio nel floema. Queste cellule sono vive quando i tubi sono
attivi. Nella stele centrale , che contiene il tessuto vascolare, si possono anche trovare cellule parenchimatiche (funzione di riserva)
e fibre (sostegno).

Identificazione di cellule e tessuti: la colorazione di sezioni permette di ottenere preparazioni adatte alle osservazioni al
microscopio. In genere, i tessuti biologici hanno poco contrasto, e i dettagli cellulari sono difficili da vedere con il semplice
microscopio ottico. La colorazione delle sezioni di organi può migliorare il grado di dettaglio osservabile in un preparato.

I diversi coloranti hanno diversa affinità per gli organelli o le macromolecole. Dunque, la sezione attenta dei coloranti da utilizzare
permette di identificare la natura chimica delle diverse sostanze che formano la cellula e il tessuto.

Blu di Toluidina: è un colorante policromatico, dunque ha il vantaggio di dare un campione multicolore quando reagisce con diversi
componenti chimici. È un colorante cationico che si lega a gruppi carichi negativamente. Una soluzione acquosa di questo colorante
è blu, ma si formano complessi di colori diversi quando il colorante si lega a gruppi carichi negativamente di diverse macromolecole
cellulari. Per esempio, è rosso/fucsia quando reagisce con le sostanze pectiche della parete, verde o blu chiaro quando reagisce con
sostanze polifenoliche come la lignina; blu-verde quando reagisce con gli acidi nucleici; cellule del floema, porpora.

Floroglucinolo: è un colorante che reagisce con i gruppi aldeidici della lignina, con formazione del cromoforo cationico fucsia. Le
pareti lignificate appaiono fucsia.

Iodio/ioduro di potassio: è una colorazione specifica per l’amido (amido: polimero del glucosio, che assume una struttura
secondaria ad elica). La reazione consiste nell’accumulo di iodio nel centro dell’elica della molecola di amido. La lunghezza della
molecola di amido determina la colorazione finale. Più è corta, più il preparato si colora di rosso; più è lunga, più la sezione si colora
di blu. Dopo colorazione, i granuli di amido restano blu/neri, mente l’amido di nuova formazione è rosso/fucsia.

Sudan IV: è una colorazione specifica per i lipidi. La colorazione si basa sul principio della differente solubilità della molecola in
solventi a diversa polarità. Essendo molto apolare, il colorante è preferenzialmente trattenuto dalle strutture cellulari idrofobiche,
come cutina, suberia, cere, corpi lipidici. Questa tecnica di colorazione usa un solvente moderatamente apolare per sciogliere il
colorante, in modo da permettere la è partizione di fase nella componente lipidica cellulare, senza tuttavia che il solvente la
solubilizzi. Lipidi e cere si colorano di rosa/rosso.

Al livello biochimico il differenziamento è il risultato di una attivazione genica differenziale, ed è spesso regolato dalla trascrizione di
alcuni geni codificanti fattori di trascrizione. Singoli fattori di trascrizione controllano molti dei geni che specificano particolari
comportamenti cellulari, agendo come regolatori principali del destino cellulare. Durante il differenziamento le cellule acquisiscono
caratteristiche morfologiche, strutturali e funzionali differenti, anche influenzate da fattori esterni come la luce, la temperatura, la
gravità e i nutrienti. Nonostante la grande distanza evolutiva tra i regni vegetale e animale, le cellule staminali in entrambi i regni
risiedono in contesti cellulari specializzati chiamati nicchie staminali. La presenza di nicchie staminali nelle piante e negli animali
probabilmente deriva dall’evoluzione convergente che ha portato a condividere la necessità di mantenere una riserva di cellule
staminali capaci di autoreplicarsi.

In un organismo pluricellulare, il processo che conduce alla formazione di differenti tipi di cellule si definisce differenziamento
cellulare. Il destino di ciascuna cellula è la combinazione di modelli coordinati di divisione, crescita e differenziamento cellulare,
inclusa la morte cellulare programmata. Il processo di differenziamento è preceduto da una fase di determinazione cellulare, cioè
l’indirizzamento di cellule ancora meristematiche (staminali, non differenziate) verso uno specifico programma differenziativo, che
le porta a formare i diversi tessuti di un organo. A livello biochimico il differenziamento è il risultato di una attivazione genica
differenziale, ed è spesso regolato dalla trascrizione di alcuni geni codificanti fattori di trascrizione. Singoli fattori di trascrizione
controllano molti dei geni che specificano particolari comportamenti cellulari, agendo come regolatori principali del destino
cellulare. Durante il differenziamento le cellule acquisiscono caratteristiche morfologiche, strutturali e funzionali differenti, anche
influenzate da fattori esterni come la luce, la temperatura, la gravità e i nutrienti. Nonostante la grande distanza evolutiva tra i
regni vegetale e animale, le cellule staminali in entrambi i regni risiedono in contesti cellulari specializzati chiamati nicchie
staminali. La presenza di nicchie staminali nelle piante e negli animali probabilmente deriva dall’evoluzione convergente che ha
portato a condividere la necessità di mantenere una riserva di cellule staminali capaci di autoreplicarsi.

TOTIPOTENZA DELLE CELLULE VEGETALI:

Le cellule staminali sono le cellule progenitrici delle cellule differenziate, indispensabili per la crescita e sviluppo di piante ed
animali; esse, per entrambi i tipi di organismi, condividono alcune caratteristiche fondamentali, cioè la capacità di autoreplicarsi e
di generare cellule figlie che possono andare incontro al differenziamento. Il mantenimento dello stato staminale o l’induzione al
differenziamento, in entrambi i sistemi, sono regolati da una combinazione di segnali intrinseci alla nicchia staminale e provenienti
dal microambiente circostante. Le nicchie staminali sono formate dalle cellule staminali stesse e dalle cellule differenziate che le
circondano. Ohlstein e collaboratori (2004) definiscono la nicchia come una specifica posizione in un tessuto dove le cellule
staminali possono risiedere per un periodo indefinito e produrre cellule figlie mentre si autoreplicano. Nelle piante le nicchie
staminali sono localizzate entro i meristemi presenti nell’apice radicale e vegetativo. Alcuni geni richiesti per la regolazione cellulare
nelle piante sono strettamente correlati a geni animali. Per esempio ZWILLE/PINHEAD, un gene che gioca un ruolo chiave nel
meristema apicale vegetativo è strettamente correlato a PIWI che è essenziale per il mantenimento dello stato staminale delle
cellule negli animali. In Arabidopsis il gene RETINOBLASTOMA RELATED è cruciale per il mantenimento delle cellule staminali
nell’apice radicale e corrisponde alla proteina RB identificata per la prima volta nei mammiferi. Un altro recente avanzamento nelle
conoscenze è il riconoscimento di regolazione genica modulata da microRNA nel mantenimento dello stato staminale in entrambi
gli organismi. Negli animali le diverse nicchie staminali condividono alcune caratteristiche: una posizione determinata in tessuti
specializzati, la richiesta di un contatto fisico mediato da molecole di adesione come le caderine e le integrine nella matrice
extracellulare, la formazione di molecole segnale coinvolte nella regolazione del mantenimento delle cellule staminali e una
struttura asimmetrica (polarizzazione es. nell’embrione la localizzazione cellulare dei nutrienti) per facilitare l’indirizzamento di una
delle due cellule figlie verso la via differenziativa. Le cellule staminali possono essere totipotenti, pluripotenti, multiplotenti o
unipotenti. Totipotenti significa che le cellule staminali possono dar luogo a tutti i tipi cellulari che formano un organismo, cioè
presentano la capacità di formare un organismo completo. Questa proprietà è ben manifesta nella cellula uovo fecondata, lo zigote
(comune ad animali e vegetali). Le cellule embrionali in un mammifero perdono i caratteri di totipotenza dallo stadio di 8 cellule in
avanti e finché il successivo sviluppo post-zigotico arriva ad uno stadio dove una massa non differenziata di cellule staminali
pluripotenti (abilità di una singola cellula staminale a dar luogo a molti ma non a tutti i tipi cellulari che formano un organismo)
danno luogo ad un organismo contenente un diverso arrangiamento di cellule specializzate. L’abilità differenziativa dei discendenti
di queste cellule precedentemente totipotenti gradualmente diventa limitata nel successivo sviluppo, culminante in cellule
somatiche staminali multipotenti che possono differenziare in un limitato tipo di cellule o in cellule staminali unipotenti che
possono differenziare in un unico tipo di cellule. Cellule staminali multipotenti sono esemplificate da cellule staminali
ematopoietiche presenti nel midollo osseo e che danno luogo a cellule del sangue. Nelle piante il concetto di totipotenza può
essere applicato oltre che allo zigote, anche a cellule somatiche che, sotto opportune condizioni, possono dedifferenziare e formare
una cellula embriogenica totipotente con la capacità di originare un embrione (via embriogenesi somatica) completo e quindi una
pianta. Quindi piena espressione di totipotenza si esplica nell’embriogenesi somatica mentre la rigenerazione degli apici e radice da
cellule differenziate è da catalogare nella pluripotenza. Tale rigenerazione può avvenire direttamente, o indirettamente, attraverso
la formazione di una massa indifferenziata di cellule, definita callo. Induzione diretta avviene quando gli espianti contengono cellule
che mantengono la capacità di dividersi e rigenerare una radice o un apice vegetativo, dopo essere rientrate nel ciclo cellulare.
Sempre nelle piante linee cellulari multipotenti, cioè in grado di specializzarsi unicamente in alcuni tipi di cellule, possono essere
riconosciute nei meristemi secondari, cioè il cambio subero -fellodermico e il cambio cribo -vascolare. Cellule unipotenti sono ad
esempio le cellule madri degli stomi, le cellule dei peli radicali e in coltura in vitro cellule di callo che attraverso una cito -
differenziazione formano cellule xilematiche (tracheidi). Il termine totipotenza è stato introdotto nel 1902 dal Botanico austriaco
Haberlandt per descrivere l’abilità di una cellula a differenziarsi in un differente tipo cellulare. Questo concetto portava a ritenere
che ogni singola cellula mantenesse la capacità di originare una pianta completa. Questa teoria è stata dimostrata nel 1958 quando
una pianta clonata è stata rigenerata da un frammento di tessuto prelevato da una carota e coltivato in vitro. Nelle piante le cellule
staminali possono essere formate ex novo a partire da tessuti differenziati se sottoposti a relativamente semplici manipolazioni
(coltura in vitro). Al contrario negli animali le cellule differenziate sono molto più rigidamente bloccate nel loro stato. Quali sono
allora le vere cellule staminali in una pianta? La risposta è che le cellule staminali si trovano nelle strutture meristematiche (apice
vegetativo e radicale) e che lo sviluppo continuo delle piante durante il loro ciclo di vita è dipendente da questa riserva di cellule
staminali. Una differenza fondamentale infatti tra piante e animali è che nelle piante la formazione degli organi non avviene
esclusivamente nell’embrione ma continua post-embrionalmente grazie ai meristemi in grado di rigenerare foglie, fusto, radici e
fiori. Le cellule che circondano le nicchie staminali vegetali inviano segnali per mantenere le cellule staminali in uno stato
indifferenziato. Lo sviluppo post-embrionale delle piante è dipendente dal mantenimento dell’apice vegetativo (SAM) e radicale
(RAM) e dai meristemi vascolari contenenti cellule staminali tessuto-specifiche. Cellule staminali nel SAM producono cellule per il
continuo sviluppo di nuovi organi, foglie, fusto fiori e frutti e le cellule staminali nel RAM provvedono alla formazione delle cellule
per il continuo sviluppo del sistema radicale. In Arabidopsis il SAM è costituito da circa 100 cellule. In Arabidopsis le cellule
staminali sono mantenute da segnali tra le cellule staminali ed il centro organizzatore della nicchia (OC), formato da un gruppo di
cellule poste subito sotto le staminali. Le cellule OC esprimono il gene WUSCHEL (WUS) che codifica un fattore di trascrizione che
deve essere essenziale per il mantenimento dello stato staminale, dal momento che nessuna cellula staminale è formata e
mantenuta nei mutanti deficienti di WUS. Gli apici di mutanti WUS arrestano prematuramente il loro sviluppo, si formano altri apici
in modo disordinato ed il fenotipo della pianta diventa basso e cespuglioso. Il gene WUS è represso da segnali negativi che si
originano dalle cellule staminali che esprimono il gene CLV3. CLV3 agisce con CLV1 e 2. CLV3 si esprime nella tunica, CLV1 e CLV2
nello strato L3 (iniziali del corpus), mentre le cellule che esprimono WUS si trovano sotto queste ultime. I 3 geni CLV agiscono
insieme per limitare la proliferazione delle cellule staminali. Una mutazione in uno dei 3 geni porta ad un graduale accumulo di
cellule indifferenziate nel SAM e mancato differenziamento delle cellule periferiche con produzione di organi in sovrannumero. Così
il bilanciamento dinamico regolato da queste cellule e da quelle del OC controlla strettamente il numero delle cellule staminali nella
nicchia del SAM. Le cellule staminali che formano i tessuti della radice si trovano nella zona meristematica dell’apice radicale. Il
segnale che le mantiene allo stato staminale si origina da un piccolo gruppo di cellule che risiede nel centro quiescente (QC). In
Arabidopsis la nicchia staminale comprende le cellule del QC (mitoticamente poco attive) e le cellule iniziali che lo circondano. Ogni
cellula iniziale si divide asimmetricamente per dare origine sia alle cellule che formeranno il corpo primario della radice sia ad altre
cellule necessarie per il mantenimento della nicchia stessa. Tutti i tessuti che formano il corpo primario della radice prendono
origine da cellule staminali poste in una posizione specifica. Le cellule derivate devono dividersi secondo piani prestabiliti,
parallelamente o perpendicolarmente alla superficie dell’organo, secondo il loro programma di sviluppo. Le cellule staminali
(conosciute come cellule iniziali) adiacenti a QC producono file longitudinali di cellule che formeranno i tessuti della corteccia e
dell’endodermide. Le cellule prodotte verso il basso formeranno la cuffia radicale, mentre quelle che si trovano sopra a QC daranno
luogo a cilindri concentrici di cellule che formeranno i tessuti vascolari, circondate da un anello di cellule iniziali del periciclo. Il
ruolo delle cellule iniziali è equivalente alle cellule staminali esprimenti CLV3 nel SAM, e le cellule di QC agiscono come quelle
esprimenti WUS nel OC. Sebbene la specificità delle cellule staminali nel SAM è regolata a livello di popolazione, le cellule staminali
del RAM appaiono essere regolate individualmente da segnali a corto raggio provenienti dalle cellule del QC.

CRESCITA PER DIVISIONE E PER DISTENSIONE:

Il differenziamento della cellula inizia con uno stadio precoce di determinazione, a cui segue la crescita per distensione in cui il
vacuolo si espande divenendo il compartimento cellulare più voluminoso. Il differenziamento di norma prosegue anche dopo che la
cellula ha raggiunto la sua forma definitiva sino a quando non abbia acquisito le caratteristiche specifiche per svolgere le sue
funzioni peculiari. L’accrescimento per distensione può portare la cellula ad aumentare il suo volume di centinaia, talvolta migliaia
di volte. L’accrescimento, talora molto elevato, della cellula vegetale, è reso possibile dall’aumento in volume del sistema
vacuolare, mentre l’aumento di volume del citoplasma è relativamente contenuto. L’accrescimento può non avvenire
uniformemente in tutte le direzioni e questo comporta che le cellule si scollino e si distanzino in alcuni punti formando spazi
intercellulari pieni di aria; questo fenomeno è fondamentale, ad esempio, nella formazione del parenchima spugnoso della foglia. Il
differenziamento cellulare porta quindi cellule tutte identiche, come quelle embrionali, alla formazione di tipi cellulari differenti,
con caratteristiche citologiche e funzionali ben distinte.

Come avviene il differenziamento cellulare? Ad oggi non tutto è chiaro, ma si può sicuramente affermare che il differenziamento sia
il risultato di programmi specifici di regolazione genica.

Come è operata questa regolazione genica? Differenti tipi cellulari sintetizzano diverse proteine perché essi trascrivono solo alcuni
dei geni presenti nel loro genoma, mentre altri vengono trascritti in altri tipi cellulari Il differenziamento non dipende solo
dall’espressione genica, ma è un processo più complesso che coinvolge interazioni tra le cellule, trasporto intercellulare di segnali,
riorganizzazione delle pareti e talvolta anche interazione con fattori ambientali.

CONTROLLO DEL DESTINO CELLULARE E CONTROLLO DELL’ESPRESSIONE GENICA:

Lo sviluppo di un organismo pluricellulare coinvolge la divisione cellulare coordinata, la crescita ed il differenziamento per generare
diversi tipi di cellule che contribuiscono alla formazione di tessuti organizzati, organi distinti ed infine al corpo della pianta. Le
regioni di regolazione dei geni sono in grado di rilevare segnali, connessi con lo sviluppo e l’ambiente, e rispondere dando inizio o
bloccando l’espressione dei geni. Questo processo coordinato richiede una stretta regolazione dell’espressione genica, mediata da
meccanismi di controllo della trascrizione, posttrascrizione, traduzione e post-traduzione. La regolazione dei geni e l̀ ocalizzata nella
regione a monte del sito di trascrizione, estremità 5', indicata come promotore del gene, contenente elementi di sequenza che
agiscono nel reclutamento dei fattori proteici facilitanti la trascrizione della regione del gene codificante per la proteina. Gli
elementi regolatori situati sulla stesso filamento della regione del gene codificante sono indicati come elementi cis. Un esempio di
questi elementi e ̀dato dal TATA box, caratteristico della maggior parte dei geni eucariotici, localizzato nella posizione a monte del
sito di inizio della trascrizione. TATA box e ̀responsabile del corretto posizionamento della RNA polimerasi II per dare inizio alla
trascrizione. I geni inducibili hanno quasi sempre un TATA box e almeno altri due elementi cis importanti per la trasduzione finale di
un segnale esterno CAAT box e GC box, siti di legame per i fattori di trascrizione.

Controllo dell’espressione genica:

Le differenze strutturali e funzionali nei vari tipi cellulari di un organismo eucariote non sono determinate dalla presenza o
dall’assenza di certi geni, ma dalle differenze nell’attività genica. Alcuni geni, detti housekeeping (geni del metabolismo basale
cellulare), sono attivi in quasi tutte le cellule. Altri geni sono accesi (espressi) o spenti (non espressi) in base al tipo di cellula. Ogni
cellula differenziata è caratterizzata da geni che sono accesi solo in quel tipo di cellula. I meccanismi fondamentali che controllano
l’attività genica sono comuni a tutti gli eucarioti multicellulari. Anche gli organismi eucarioti unicellulari ed i procarioti hanno sistemi
che accendono o spengono i geni quando è necessario. Ma mentre i sistemi procariotici sono esclusivamente limitati a risposte a
breve termine in seguito a cambiamenti ambientali, le cellule eucariotiche mostrano sia una risposta a breve termine che una a
lungo termine. I processi che regolano direttamente l’attività genica sono noti complessivamente come regolazione trascrizionale.
La regolazione trascrizionale determina quali geni devono essere trascritti quando e in che quantità. Ulteriori controlli regolano
finemente l’espressione genica intervenendo sulla maturazione dell’mRNA (regolazione posttrascrizionale), sulla sua traduzione in
proteine (regolazione traduzionale), e sulla vita media e sull’attività delle proteine stesse (regolazione post-traduzionale).
L’espressione genica nei procarioti è comunemente regolata a livello trascrizionale con geni organizzati in unità funzionali dette
operoni. I meccanismi che regolano l’attività degli operoni sono semplici mezzi di coordinazione per la sintesi di proteine con
funzioni correlate. I geni coinvolti in una stessa via metabolica negli eucarioti sono sparsi nel genoma. Ciononostante anche i singoli
geni degli eucarioti sono composti da sequenze codificanti proteine e sequenze regolatrici adiacenti.

Ci sono due categorie di regolazione genica eucariotica:

La regolazione a breve termine: coinvolge eventi regolatori nei quali gruppi di geni vengono velocemente accesi o spenti in risposta
ai cambiamenti delle condizioni ambientali, fisiologiche della cellula e dell’organismo. La regolazione a lungo termine (eucarioti
multicellulari): coinvolge eventi di regolazione richiesti da un organismo per il suo sviluppo e differenziamento.

La regolazione dell’espressione genica è più complessa negli eucarioti che nei procarioti per diversi motivi: le cellule eucariotiche
sono più complesse, il DNA nucleare è organizzato in cromatina, la membrana nucleare separa il processo di trascrizione da quello
della traduzione, gli eucarioti multicellulari producono una grande numero di cellule e molti tipi di cellule.

La struttura della cromatina gioca un ruolo importante nel determinare se un gene è attivo o inattivo:

Il DNA eucariotico è organizzato in cromatina grazie alle combinazione con le proteine istoniche. Il DNA è impacchettato intorno ad
un nucleo di 2 molecole di ciascun istone H2A, H2B, H3 e H4 a formare il nucleosoma. L’organizzazione a più alto livello della
cromatina si realizza quando l’istone H1 unisce nucleosomi adiacenti. I geni nelle regioni del DNA che sono strettamente avvolte
intorno agli istoni sono inattivi, poiché i loro promotori non sono accessibili alle proteine che iniziano la trascrizione. L’attivazione di
un gene coinvolge cambiamenti nello stato della cromatina in maniera tale che i fattori di inizio della trascrizione si possano legare
ai loro promotori. Questo processo è detto rimodellamento della cromatina. Un tipo di rimodellamento consiste nel fatto che un
attivatore si leghi ad una sequenza regolatrice a monte del promotore del gene e recluti un complesso di rimodellamento,
complesso proteico che disassembla un nucleosoma della cromatina esponendo il promotore. Un secondo tipo di rimodellamento
consiste in un attivatore che si lega ad una sequenza regolatrice a monte del promotore del gene e recluta un enzima che acetila gli
istoni dove si trova il promotore Acetilazione: aggiunta di gruppi acetile CH3CO. L’acetilazione fa sì che gli istoni perdano la loro
associazione con il DNA ed il promotore divenga accessibile. Questo rimodellamento è invertito da enzimi deacetilasi che
rimuovono i gruppi acetile gli istoni.

La regolazione dell’inizio della trascrizione coinvolge gli effetti di proteine che si legano al promotore e a siti regolatori del gene:

L’inizio di trascrizione è il livello più importante di regolazione dell’espressione genica. A monte dell’unità di trascrizione c’è il
promotore, una breve regione contenente la TATA box. La RNA polimerasi II da sola non può riconoscere la sequenza del
promotore, mentre alcune proteine dette fattori di trascrizione riconoscono e si legano alla TATA box e poi reclutano la polimerasi.
Una volta che si è formato il complesso RNA polimerasi II - fattori di trascrizione, inizia la trascrizione. Immediatamente a monte del
promotore c’è la regione prossimale del promotore. La regione prossimale del promotore contiene sequenze regolatrici chiamate
elementi prossimali del promotore. Gli elementi prossimali del promotore sono parte di un sistema di regolazione finalizzato ad
aumentare il tasso di trascrizione. Più distante dall’inizio del gene si trova l’enhancer, che contiene sequenze regolatrici che
determinano se il gene verrà trascritto alla massima velocità possibile. Per iniziare la trascrizione, delle proteine dette fattori di
trascrizione generali (o fattori di trascrizione basali) legano il promotore nella regione della TATA box. Questi fattori reclutano la
RNA polimerasi II e la orientano per iniziare la trascrizione. La combinazione dei fattori di trascrizione con l’RNA polimerasi II prende
il nome di complesso di inizio della trascrizione. Questo complesso porta solo ad un basso tasso di inizio della trascrizione, che
produce pochi trascritti di mRNA. Gli attivatori (proteine regolatrici che controllano l’espressione di uno o più geni) legano gli
elementi prossimali del promotore per aumentare il tasso di trascrizione. Quando legati, gli attivatori interagiscono direttamente
con i fattori di trascrizione per stimolare l’inizio della trascrizione, così che molti più trascritti vengono sintetizzati in un dato lasso di
tempo. I geni housekeeping hanno gli elementi prossimali del promotore che sono riconosciuti da attivatori presenti in tutti i tipi
cellulari. Al contrario i geni espressi solo in particolari tipi cellulari o in momenti particolari hanno gli elementi prossimali del
promotore che vengono riconosciuti da attivatori che si trovano solo in questi tipi cellulari. Gli eventi a livello dell’enhancer
determinano se un gene viene trascritto alla massima velocità Attivatori particolari si legano a sequenze regolatrici nell’enhancer.
Un co-attivatore (detto anche mediatore), un grosso complesso multiproteico, forma un ponte tra gli attivatori a livello
dell’enhancer e le proteine a livello di promotore e della regione prossimale del promotore e fa sì che il DNA si ripieghi su se stesso
formando un’ansa. Le interazioni tra co-attivatore, proteine sul promotore e RNA polimerasi stimolano la trascrizione alla massima
velocità. In alcuni geni i repressori contrastano l’effetto degli attivatori, bloccando o riducendo il tasso di trascrizione.

I repressori negli eucarioti agiscono in vari modi:

- legano la stessa sequenza regolatrice alla quale si legano gli attivatori (frequentemente nella regione enhancer), impedendo di
conseguenza che vi si leghino gli attivatori.

- legano il loro sito specifico nella sequenza nucleotidica vicino a dove si lega l’attivatore ed interagiscono con l’attivatore in modo
tale che quest’ultimo non possa interagire con il co-attivatore.

- reclutano gli enzimi della deacetilazione degli istoni, che modificano gli istoni, portando alla compattazione della cromatina e
rendendo il promotore del gene inaccessibile alla macchina della trascrizione.
Ma come tutti gli eventi di regolazione trascrizionale sono coordinati nella regolazione dell’espressione genica? Un numero
relativamente piccolo di proteine regolatrici (attivatori e repressori) controlla la trascrizione di tutti i geni codificanti. Combinando
poche proteine regolatrici in modi particolari, può essere controllata la trascrizione di una vasta gamma di geni. Questo processo è
definito controllo combinatorio della regolazione genica. Consideriamo l’es. teorico di due geni riportato in figura. Ciascun gene con
attivatori già legati ai rispettivi elementi prossimali del promotore. La «massima» trascrizione del gene. A richiede gli attivatori 2, 5,
7 e 8 legati alle loro sequenze regolatrici nell’enhancer. La «massima» trascrizione del gene B richiede gli attivatori 1, 5, 8 e 11 legati
al suo enhancer. Negli eucarioti non ci sono gli operoni, ma la trascrizione di geni con funzione correlata è comunque controllata in
modo coordinato. Come è possibile? Tutti i geni che sono regolati in modo coordinato sono associati alle stesse sequenze
regolatrici. Perciò, tramite un singolo segnale, la trascrizione di tutti i geni può essere controllata simultaneamente. Un esempio di
controllo coordinato è il controllo dell’espressione genica operato dai fitormoni o PGR (Plant Growth Regulators). Sono composti
organici che influenzano i processi di crescita, differenziamento e sviluppo nella pianta. Le auxine hanno un ruolo centrale nel
coordinamento di molti processi di crescita nel ciclo di vita della pianta essendo essenziale per il suo sviluppo morfologico. Le
auxine promuovono in particolare la formazione di apici radicali (rizogenesi). Il fitormone auxina agisce soprattutto su specifici
tessuti bersaglio. Le cellule di questi tessuti presentano dei recettori specifici. Il fitormone attraversa la membrana plasmatica ed
entra nel citoplasma, dove viene legato dal recettore. Il complesso fitormone-recettore entra nel nucleo, dove si lega a specifiche
sequenze regolatorie in prossimità del gene la cui espressione deve essere regolata dal fitormone. Il legame con le sequenze
regolatorie attiva quindi la trascrizione dei geni. Tutti i geni la cui espressione è regolata da uno specifico fitormone hanno la stessa
sequenza nucleotidica al quale il complesso fitormone-recettore va a legarsi. Le piante, organismi sessili, sono costantemente
sfidate da vari stress biotici e abiotici. Per adattarsi ai mutevoli ambienti hanno bisogno di costanti cambiamenti a livello
molecolare. Questi controlli efficienti ed efficaci che migliorano la sopravvivenza delle piante aumentando la loro tolleranza allo
stress, spesso, sono sotto controllo epigenetico. Il sistema epigenetico comporta diverse modificazioni chimiche a livello molecolare
che influenzano l'espressione genica. L'epigenetica, come definito da Conrad Waddington, è "lo studio di cambiamenti ereditari
nella funzione genica che non possono essere spiegati da cambiamenti nella sequenza del DNA". Oggi l'epigenetica si riferisce
principalmente ai cambiamenti che non si riferiscono a variazioni nella sequenza del DNA, ma alla modifica chimica che può essere
ereditata da una generazione alla successiva. Tre tipi di meccanismi regolatori epigenetici sono sfruttati dalle piante per
sopravvivere a condizioni avverse: (i) la metilazione del DNA, (ii) la modifica dell'istone e (iii) l’RNA interference (RNAi). (i) La
metilazione del DNA è una modifica chimica, catalizzata dalla citosina metiltransferasi che comporta l'aggiunta di un gruppo
metilico (-CH3) in una sequenza di DNA sul residuo di citosina in un modo specifico della sequenza, principalmente all'interno del
dinucleotide CpG. Il gruppo metilico aggiunto fornisce la piattaforma per l'attacco di vari complessi proteici che modifica la struttura
istonica con conseguente alterazione dell'espressione genica 52 L'attivazione di uno o più di questi percorsi provoca cambiamenti
nell'architettura della cromatina e influisce sull'espressione genica. L'attivazione di uno o più di questi percorsi provoca
cambiamenti nell'architettura della cromatina e influisce sull'espressione genica. La forma della «cromatina aperta» o «della
cromatina chiusa» sono associate rispettivamente all'attivazione o al silenziamento genico e regolano l'espressione genica nelle
cellule sotto diversi stimoli di sviluppo o ambientali. Una volta che gli mRNA vengono trascritti dai geni attivi, ulteriori regolazioni
avvengono in ciascuna delle principali fasi nel percorso dai geni alle proteine: durante la maturazione del pre-mRNA e lo
spostamento dell’mRNA maturo nel citoplasma (regolazione posttrascrizionale), durante la sintesi proteica (regolazione
traduzionale), dopo che la traduzione è terminata (regolazione post-traduzionale).

Regolazione post-trascrizionale regola la traduzione controllando la disponibilità dell’mRNA per i ribosomi:

1. Variazione nella maturazione del pre-mRNA Variazione nella maturazione del pre-mRNA possono determinare quali proteine
vengono prodotte nella cellula. I pre-mRNA possono essere maturati mediante splicing alternativo; alcune proteine regolatrici
specifiche per ogni tipo di cellula controllano quali esoni sono rimossi dalle molecole di premRNA legandosi a specifiche sequenze
regolatrici contenute nel pre-mRNA stesso. Il risultato dello splicing alternativo è che le proteine più appropriate all’interno di una
famiglia di proteine correlate vengono sintetizzate in particolari tipi di cellule o tessuti nei quali queste possono funzionare in modo
ottimale.

2. Controllo post-trascrizionale mediante proteine di mascheramento:

Alcuni controlli post-trascrizionali agiscono mediante proteine di mascheramento che si legano all’mRNA e lo rendono non
disponibile per la sintesi proteica. Quando un mRNA deve essere tradotto altri fattori rimuovono le proteine di mascheramento e
permettono all’mRNA di essere usato nella sintesi proteica.

3. Variazioni nella velocità di degradazione dell’mRNA:

Anche la velocità con la quale gli mRNA degli eucarioti vengono degradati può essere controllata a livello post-trascrizionale. Il
meccanismo coinvolge una molecola regolatrice che influenza direttamente o indirettamente le fasi di degradazione dell’mRNA sia
rallentando che aumentando la velocità di esecuzione. Anche le sequenze nucleotidiche nella regione 5’ UTR sembrano importanti
per l’emivita dell’mRNA.

4. Regolazione dell’espressione genica operata da piccole molecole di RNA:


La scoperta relativamente recente dei micro-RNA (miRNA) ha rivoluzionato la nostra comprensione sul controllo genico. I miRNA
sono piccole molecole di RNA a singolo filamento che regolano importanti processi, come lo sviluppo e la crescita. Cosa sono i
miRNA e come funzionano? Ogni miRNA viene codificato da un gene che non codifica per proteine. La trascrizione del gene produce
un RNA che è il precursore del miRNA. Il precursore si ripiega appaiandosi con se stesso a formare una struttura ad ansa. Un enzima
detto Dicer taglia le anse e produce molecole di RNA a doppio filamento lunghe 21-22 pb. Un complesso proteico si lega poi all’RNA
a doppio filamento e degrada uno dei due filamenti di RNA, lasciando un RNA a singolo filamento, il miRNA. Il miRNA, ancora legato
al complesso proteico, si lega ad ogni mRNA che ha una sequenza complementare. L’espressione genica viene a questo punto
silenziata mediante due meccanismi alternativi: le proteine del complesso tagliano l’mRNA sul quale il miRNA si è legato; il
segmento di RNA a doppio filamento che si è formato tra il miRNA e l’mRNA blocca i ribosomi nel processo di traduzione
dell’mRNA. Il fenomeno del silenziamento dell’espressione di un gene a livello posttrascrizionale mediato da corte molecole di RNA
a singolo filamento complementari a parti di una molecola di mRNA è chiamato RNA interference (RNAi).

La regolazione traduzionale controlla la velocità della sintesi proteica:

La regolazione traduzionale controlla la velocità con la quale gli mRNA vengono utilizzati per la sintesi proteica. La regolazione
traduzionale avviene essenzialmente in tutti i tipi di cellule e specie. Per es., la regolazione traduzionale è coinvolta nella
regolazione del ciclo cellulare in tutti gli eucarioti e in molti processi che avvengono durante lo sviluppo degli eucarioti
multicellulari.

La regolazione post-traduzionale controlla la disponibilità delle proteine funzionali:

La regolazione post-traduzionale controlla la disponibilità delle proteine funzionali prevalentemente in tre modi:

A) Modificazione chimica:

La modificazione chimica consiste nell’aggiunta o rimozione di gruppi chimici che alterano in maniera riversibile l’attività delle
proteine.

B) Maturazione:

Nel caso della maturazione le proteine vengono sintetizzate come precursori inattivi che sono poi convertiti in modo controllato in
forma attiva.

C) Degradazione:

La velocità di degradazione delle proteine è sottoposta a controllo regolatorio. Nelle cellule degli eucarioti alcune proteine
permangono per tutta la vita dell’individuo, mentre altre persistono per alcuni minuti. Tipicamente le proteine a vita breve vengono
marcate per la degradazione da enzimi che attaccano una «etichetta di distruzione» rappresentata da una piccola proteina detta
ubiquitina (cosiddetta perché presente nella stessa forma in tutti gli eucarioti) .

Lezione 19/04 LA MORTE PROGRAMMATA DELLE CELLULE


Concetto di morte cellulare programmata (Programmed Cell Death, PCD) introdotto agli inizi del ‘900 per spiegare la risposta delle
cellule vegetali all’infezione fungina. Negli anni ‘70 Kerry, Wyllie and Currie hanno coniato il termine apoptosi per descrivere la PCD
negli animali, compreso l’uomo. La morte cellulare non corrisponde temporalmente con la morte dell'individuo. Con “morte
cellulare” non si intende la mancanza nella cellula di segni vitali caratteristici (ad es. la respirazione), ma ci si riferisce al momento in
cui l'organizzazione funzionale della cellula viene irreversibilmente compromessa. Il fenomeno può verificarsi in modo rapido,
quando lo stimolo che lo determina ha notevole intensità, o essere il risultato di un lento processo involutivo. Vi sono tre sistemi
essenziali per il mantenimento dell’organizzazione funzionale della cellula: membrane cellulari, metabolismo energetico, sintesi
proteica. Questi 3 sistemi rappresentano le principali, anche se non le uniche, vie comuni attraverso cui i fattori ambientali biotici
(ad es. patogeni) e abiotici (ad es. stress chimico-fisico) provocano il danno e la morte cellulare.

MORTE CELLULARE PROGRAMMATA (APOPTOSI) E NECROSI NEI DIVERSI ORGANISMI:

Esistono due modalità di morte cellulare, distinte e ben riconoscibili.

NECROSI: è la morte cellulare accidentale, passiva che si verifica in risposta ad un ampia varietà di stress (ipossia, ipertermia, traumi
cellulari, radiazioni, sostanze tossiche ecc.).

PCD: è un processo biologico che procede in modo ordinato e regolato, richiede consumo di energia (ATP) e generalmente porta ad
un vantaggio durante il ciclo vitale dell'organismo (e ̀stata infatti definita da alcuni MORTE ALTRUISTA).

La necrosi e ̀una morte passiva, conseguente a traumi di varia natura. Negli animali la necrosi comporta in primo luogo ingresso di
ioni Na con aumento del volume cellulare, rottura della membrana plasmatica e delle endomembrane con il conseguente rilascio di
enzimi idrolitici ed altro materiale citosolico, provocando un processo infiammatorio nel tessuto circostante. Nelle piante i due
eventi di morte non sono così ben distinti e sembra esserci maggiore sovrapposizione tra le caratteristiche fenotipiche e molecolari
della necrosi e PCD. La necrosi e ̀una morte accidentale causata da fattori estrinseci, come accumulo di specifiche molecole
fitotossiche in seguito ad un evento traumatico di stress biotico o abiotico. È caratterizzata da una progressiva perdita di integrità
della membrana che si traduce nel rigonfiamento del citoplasma e rilascio dei componenti cellulari. Negli animali le specie reattive
dell’ossigeno (ROS) sono ben noti attivatori di PCD. Anche nelle piante cambiamenti ambientali e di sviluppo stimolano la
produzione di ROS. Il livello di ROS può essere aumentato da vari centri di produzione e portare le cellule ad una morte per necrosi.
Aumenti transitori possono portare ad una cascata di eventi che interagiscono con fitormoni, acido salicilico, ossido nitrico,
giasmonati ed etilene, amplificando o diminuendo la risposta o possono canalizzare la cascata di eventi attraverso sensori più
specifichi verso un’espressione genica ROS-dipendente correlata a PCD. Oltre la cascata di fosforilazione guidata dalle MAP-kinasi,
altre modifiche post-traduzionali regolatorie potrebbero essere coinvolte in percorsi di PCD, ROS-dipendenti. L’apoptosi presenta
significative differenze morfologiche rispetto alla necrosi, per esempio comporta diminuzione di volume della cellula con efflusso di
ioni cloro e potassio, attivazione di enzimi che determinano gli eventi di morte in modo controllato, inoltre e ̀un evento rapido
(poche decine di minuti) che impedisce una risposta infiammatoria dannosa. Si tratta di un processo essenziale per un corretto
sviluppo embrionale, per una corretta organogenesi e per mantenere l’omeostasi cellulare che, se alterata, può essere la prima
causa dello sviluppo di patologie. Negli animali, morte cellulare programmata ed apoptosi sono spesso usati come sinonimi, ma i
termini non sono identici. Infatti la PCD e ̀un processo definito geneticamente durante lo sviluppo degli organismi multicellulari,
l’apoptosi e ̀la sua manifestazione. Essa è contraddistinta da una serie di eventi morfologici facilmente distinguibili: riduzioni delle
dimensioni della cellula, condensazione della cromatina, frammentazione del DNA, formazione di evaginazioni della membrana
plasmatica e della membrana nucleare, formazione di corpi apoptotici che vengono rapidamente fagocitati e digeriti dai macrofagi.
La cellula scompare senza lasciare traccia, cioè senza dar luogo a fenomeni infiammatori o necrotici. Nelle cellule animali e ̀invalso
l'uso di denominare con il termine apoptosi (dal gr. apwptosis = caduta) il processo di PCD. Nel mondo vegetale la PCD e ̀parte
essenziale del processo di sviluppo e dei meccanismi di difesa da patogeni (nelle piante manca il sistema immunitario).

La PCD nelle piante:

- non segue la sequenza di eventi che caratterizzano l'apoptosi negli animali;

- puo ̀ essere reversibile prima di raggiungere “il punto di non ritorno”;

- nelle piante la PCD prevede il coinvolgimento del vacuolo: la rottura del tonoplasto ed il rilascio nel citoplasma degli enzimi
idrolitici coincide con l’inizio dell’autolisi (autofagia);

- PCD nello sviluppo e ̀regolata da ormoni o da altre molecole endogene bioattive;

- PCD, differenziamento e sviluppo sono processi spesso regolati dalle stesse molecole segnale che portano a risultati diversi a
seconda della trasduzione nel bersaglio (ad esempio l’auxina promuove la formazione di radici laterali, induce morte nella
formazione dei vasi legnosi, previene l’abscissione fogliare);

- PCD e ̀accompagnata dall’attivazione di enzimi idrolitici che portano al caratteristico aspetto citologico delle cellule che vanno
incontro a morte programmata.

Piante vs animali:

A) Risposta ipersensibile ai patogeni: si osserva la condensazione della cromatina, frammentazione del DNA prima della rottura del
vacuolo, collasso della membrana cellulare e distacco dalla parete.

B) Xilogenesi: si osserva la contrazione del vacuolo e successiva deposizione della parete secondaria, lignificazione e rottura del
vacuolo con rilascio di enzimi idrolitici.

C) Apoptosi: si osserva la condensazione e la frammentazione della cromatina, rigonfiamento della membrana seguita dalla
formazione dei corpi apoptotici che vengono fagocitati dai macrofagi o dalle cellule adiacenti.

MORTE CELLULARE NELLE PIANTE: MECCANISMI DI ATTIVAZIONE, GENI COINVOLTI E MODELLI DI STUDIO:

Nelle piante, la morte cellulare garantisce la versatilità dello sviluppo e la plasticità biochimica. Quasi tutte le fasi del ciclo vitale di
una pianta, dalla germinazione allo sviluppo vegetativo e a quello riproduttivo, prevedono fenomeni di PCD. La cessazione
dell’attività meristematica, la senescenza e l’abscissione delle foglie o di organi come nei fiori sono esempi di decisioni vita -morte
presenti nella vita delle piante. I fiori imperfetti, cioè mancanti di stami (pistilliferi) o di carpelli (staminiferi), nelle prime fasi di
sviluppo mostrano fiori, con i primordi sia degli stami sia dei carpelli, che vengono poi eliminati per PCD. Queste decisioni possono
colpire sistemi di organi specifici o, quando agiscono in concerto, condurre alla morte della pianta intera. Benché i processi sopra
riportati siano determinati geneticamente, le vie metaboliche coinvolte subiscono anche l’influenza dell’ambiente. Il risultato è una
complessa rete d’interazioni che contribuisce alla plasticità dello sviluppo delle piante, che è riflessa nella vasta varietà di forme che
queste mostrano. Alcune molecole che possono innescare la PCD nelle piante: le specie reattive dell’ossigeno (ROS), le gibberelline
(GA) e l’etilene; alcune molecole tendono a sopprimerla: acido abscissico (ABA) e le citochinine. Tutti gli eventi di PCD nelle piante
condividono il coinvolgimento del vacuolo e un efflusso di ioni calcio. La rottura del tonoplasto ed il conseguente collasso del
vacuolo calcio-dipendente determinano il rilascio degli enzimi presenti al suo interno e portano alla degradazione di tutto il
contenuto cellulare con l’inizio dell’autolisi. Tale strategia, adottata dalle piante per eliminare il citoplasma o intere cellule, è
definita autofagia.

MORTE PROGRAMMATA NEI PROCESSI DI SVILUPPO VEGETATIVI E RIPRODUTTIVI:

A differenza degli animali che usano la PCD per rimuovere specifiche cellule. Le piante la usano anche per rimuovere interi organi
non pi ù utili ad esempio le foglie senescenti o i petali dei fiori appassiti. La senescenza è un fenomeno adattativo che ha reso
alcune specie vegetali capaci di sopravvivere a condizioni ambientali avverse. La rapida senescenza delle piante annuali e biennali,
ad esempio, permette un cambiamento totale della popolazione ad intervalli frequenti, permettendo a cambiamenti genetici
vantaggiosi di diffondersi. La senescenza può manifestarsi nelle piante in maniera estremamente diversa. Alcune piante annuali,
come i cereali, mostrano una senescenza totale in cui radici, fusto e foglie muoiono contemporaneamente. Altre annuali
posseggono, invece, una senescenza sequenziale in cui le foglie più basse ingialliscono e muoiono subito, mentre il resto della
pianta morirà soltanto dopo la fioritura. Le piante erbacee perenni mostrano una senescenza apicale autunnale, in cui muore
soltanto la parte superiore della pianta. Nelle altre perenni, la senescenza rimane invece limitata soltanto a pochi organi, come le
infiorescenze o qualche foglia (nelle sempreverdi), o può coinvolgere l’intero fogliame annuale (nelle specie decidue). Nelle piante
bulbose, tutte le parti al di sopra del terreno muoiono ogni anno. La senescenza nelle piante può coinvolgere l’organismo intero o
organi specifici; gli stimoli possono essere esterni come la lunghezza del giorno e la temperatura o interni; in tutti i casi comunque i
geni di regolazione della senescenza danno inizio ad una cascata di eventi che causano la morte. È caratterizzata da profondi
cambiamenti finalizzati al recupero e alla redistribuzione di metaboliti e di materiale strutturale, in particolare delle riserve di azoto
e fosforo.

La PCD coinvolta nella senescenza ha tre caratteristiche distintive:

1) coinvolge l’intero organismo o organo (la foglia o il frutto) e non tipi cellulari specifici o un tessuto;

2) è un processo più lento; la sua lentezza e ̀dovuta alla mobilitazione di nutrienti in altre parti della pianta prima che si giunga al
così detto “punto di non ritorno”.

Questo evento è fondamentale affinché tutte le risorse accumulate per esempio nella foglia, organo di maggiore attività
fotosintetica, non vengano perse. La senescenza comporta cambiamenti nei plastidi che diventano gerontoplasti nelle foglie e
cromoplasti nei frutti. Questi cambiamenti strutturali si associano a cambiamenti biochimici come la degradazione della clorofilla e
delle proteine di riserva. Il catabolismo della clorofilla rende visibili i carotenoidi. Nei frutti durante la maturazione vengono
sintetizzati nuovi carotenoidi che si accumulano in strutture cristalline o globulari. La comparsa di colori autunnali nella chioma e ̀un
fenomeno tipico delle foreste decidue dei climi temperati. Le piante decidue (o caducifoglie) sono alberi e arbusti che perdono le
foglie prima di una stagione climatica sfavorevole, che nelle regioni temperate dell’emisfero Nord e ̀rappresentata dall’inverno. Non
tutte le piante decidue presentano i colori autunnali tipici del foliage: si stima infatti che sia solo un quarto delle specie arboree dei
climi temperati a mostrare questa caratteristica. In autunno, con l’invecchiamento delle foglie, nelle piante decidue la clorofilla
viene progressivamente degradata, e si rivelano gli altri pigmenti presenti, i carotenoidi.

SISTEMI, BARRIERE E CONTROLLO GENETICO DELLA RIPRODUZIONE:

I SISTEMI RIPRODUTTIVI DELLE PIANTE:

La riproduzione ha la finalità di perpetuare una determinata specie nel tempo. Nel corso dell’evoluzione, si sono sviluppati vari
sistemi riproduttivi attraverso i quali gli organismi viventi, come le piante, si riproducono generando nuovi individui a loro
somiglianti. Nelle piante, a differenza di quello che succede nella maggior parte del regno animale, coesistono la riproduzione
asessuata (vegetativa o agamica) e sessuata (gamica). Con la riproduzione sessuata (gamica), si genera una progenie attraverso la
fusione dei gameti maschili e femminili. La meiosi e la fecondazione hanno anche la funzione di mescolare le informazioni genetiche
e produrre nuove combinazioni. La riproduzione asessuata (vegetativa o agamica) produce una progenie di individui identici tra loro
e identici al parentale perché viene prodotta attraverso divisioni mitotiche. La mitosi è un processo di riproduzione asessuata grazie
alla quale da una singola cellula si formano 2 cellule figlie geneticamente identiche alla progenitrice. La riproduzione sessuata
produce pertanto la variabilità che è alla base della maggior parte delle differenze ereditarie tra gli organismi che si riproducono per
via sessuata. Questa variabilità è alla base dei processi evolutivi.

CICLO VITALE:

Gli animali seguono il modello nel quale la fase diploide predomina nel ciclo vitale, la fase aploide è ridotta e la meiosi è
immediatamente seguita dalla formazione dei gameti. La fecondazione ripristina la fase diploide del ciclo vitale. Gli animali hanno
un corredo aploide solo nei loro gameti maturi e le loro cellule aploidi non vanno incontro a divisioni mitotiche. Nella maggior parte
delle piante, e molti funghi ed alghe le fasi diploide ed aploide si alternano e una delle due può essere dominante nel ciclo vitale;
inoltre, le divisioni mitotiche si hanno in entrambe le fasi. La fecondazione produce la generazione diploide, nella quale gli individui
sono detti sporofiti. Quando gli sporofiti, attraverso una serie di divisioni mitotiche, hanno raggiunto la maturità, alcune delle loro
cellule attraverso la meiosi danno origine a cellule riproduttive aploidi, geneticamente diverse, dette spore (le spore non sono
gameti). Le spore germinano e attraverso numerose divisioni mitotiche danno origine ad una generazione di individui aploidi detti
gametofiti. Raggiunta la maturità alcune di queste cellule si trasformano in gameti (geneticamente identici). L’unione di due gameti
genera uno zigote che produce nuovamente una generazione di sporofiti. In molte piante, tra le quali la maggior parte dei cespugli,
degli arbusti, degli alberi e dei fiori, la generazione diploide, lo sporofito, costituisce la parte più visibile della pianta. La generazione
aploide, il gametofito, è ridotta ad uno stadio quasi microscopico che si forma nelle regioni riproduttive dello sporofito, le strutture
del fiore nelle fanerogame. Il gametofito femminile rimane nel fiore, il gametofito maschile viene rilasciato dal fiore sotto forma di
minuscoli granuli di polline. Quando il polline entra in contatto con un fiore della stessa specie, rilascia il nucleo aploide, che
feconda una cellula aploide di un gametofito femminile contenuto nel fiore. Si forma così una cellula diploide che si divide per
mitosi e genera uno sporofito. In alcuni funghi e alghe la fase diploide è limitata ad una sola cellula lo zigote. Subito dopo la
fecondazione lo zigote va incontro alla divisione meiotica e produce la generazione aploide. Le divisioni mitotiche si hanno solo
durante la fase aploide. Durante la fecondazione due gameti aploidi si uniscono a formare un nucleo diploide. Questo inizia subito
la meiosi producendo 4 cellule aploidi. Queste cellule immediatamente, o dopo poche divisioni mitotiche danno origine a spore
aploidi. Queste germinano e producono organismi aploidi, i gametofiti, che si accrescono o aumentano di numero con successive
divisioni mitotiche. I gameti possono formarsi in alcuni dei gametofiti. Il generarsi di variabilità genetica è un vantaggio
fondamentale della riproduzione sessuata. La variabilità aumenta la probabilità che almeno alcuni individui della progenie
sopravvivano e raggiungano con successo la maturità riproduttiva se cambiano le condizioni ambientali (selezione naturale).

Nel corso della meiosi e della fecondazione la variabilità genetica è prodotta in particolare da 3 meccanismi: 1. la ricombinazione;

2. le diverse combinazioni di cromosomi di origine materna e paterna che segregano ai poli del fuso durante l’anafase I;

3. i particolari assetti cromosomici dei gameti maschili e femminile che si uniscono alla fecondazione.

I 3 meccanismi agiscono insieme e producono una variabilità complessiva così elevata che 2 gameti prodotti dallo stesso individuo,
o da individui diversi, o 2 zigoti prodotti dall’unione dei gameti non hanno alcuna probabilità di avere la stessa costituzione
genetica.

Le piante possono essere:

- Monoiche o bisessuali: i gameti maschili e femminili sono prodotti dallo stesso individuo.

- Dioiche o unisessuali: i gameti maschili e femminili sono portati da individui diversi.

Nelle angiosperme possono essere presenti nello stesso fiore, in questo caso detto ermafrodita o monoclino, o in fiori diversi della
stessa pianta, definiti unisessuali o diclini, spesso raggruppati in infiorescenze maschili e femminili.

- Piante monoiche monoclini: frumento, orzo, riso, soia, pomodoro, peperone, lino, lattuga, avena, robinia.

- Piante monoiche diclini: mais, zucchino, nocciolo, castagno, la maggior parte delle conifere.

- Piante dioiche: non sono particolarmente diffuse, non presentano uno spiccato dimorfismo sessuale e le differenze sono
principalmente evidenti a livello di fiori; sono dioiche l’asparago, la canapa, il kiwi, il luppolo, il pioppo, il carpino, alcune
gimnosperme (ginkgo, ginepro, tasso), in alcune specie, come nel caso della vite, le forme selvatiche sono dioiche e le forme
domestiche sono monoiche.

Nei 2 grandi gruppi di piante da seme, gimnosperme e angiosperme. La presenza del fiore non è la principale differenza tra i 2
gruppi, infatti gli strobili delle conifere possono essere considerati fiori molto semplici. La principale differenza è che nelle piante da
fiore gli ovuli sono ricoperti da 2 strati tegumentali con un’apertura (micropilo ) e in seguito i semi sono racchiusi all’interno
dell’ovario che, dopo la fecondazione, originerà il frutto. Nelle gimnosperme gli ovuli sono ricoperti da un unico strato tegumentale
e i semi non sono racchiusi all’interno dell’ovario, ma rimangono nudi e disposti sulle scaglie di strutture particolari (coni o pigne ).
La riproduzione sessuata nelle gimnosperme è un processo lungo e complesso, in alcune specie di conifere si completa in circa 2
anni. Nel pino e nella maggior parte delle altre conifere, gli apparati riproduttivi, gli strobili, sempre unisessuali sono generalmente
portati dalla stessa pianta: negli strobili maschili si differenziano i granuli di polline, in quelle femminili gli ovuli contenenti le cellule
uovo. I granuli di polline vengono prodotti in grandissima quantità, trasportati dal vento e, catturati da sostanze vischiose prodotte
dagli ovuli, penetrano al loro interno. La fecondazione non avviene immediatamente. In questo stadio negli ovuli non è ancora
avvenuta la divisione meiotica che porta alla formazione delle megaspore (o macrospore, spore femminili). Solo circa 1 mese dopo
l’impollinazione, a partire da una cellula madre vengono prodotte 4 megaspore, di cui una darà origine al gametofito femminile,
l’endosperma primario , il cui sviluppo richiede più di 1 anno. I granuli pollinici germinano e producono il tubetto pollinico, che si
accresce nei tessuti dell’endosperma portando i gameti maschili (i nuclei spermatici) fino alla cellula uovo. Dopo la fecondazione, si
forma lo zigote, che dà origine all’embrione e che nelle conifere possiede numerosi cotiledoni. L’endosperma funziona come
tessuto nutritivo, il tegumento diventa duro e si trasforma nel rivestimento del seme. Contemporaneamente lo strobilo femminile
si accresce, diventa legnoso e si trasforma nella pigna. A maturità le squame della pigna si divaricano e viene liberato il seme.
L’impollinazione (anemofila o entomofila) è di fatto il trasporto dal granulo pollinico dalla parte maschile a quella femminile della
stessa pianta o di piante diverse.

Può essere distinta in 2 tipologie principali:

1. autoimpollinazione o impollinazione autogama;

2. impollinazione incrociata o impollinazione allogama.

Impollinazione autogama: la cellula uovo viene fecondata dal nucleo spermatico derivato da un granulo pollinico prodotto dallo
stesso fiore o da un fiore diverso, ma sempre della stessa pianta. Questa forma di impollinazione tende a portare il genotipo
all’omozigosi, anche se le piante che hanno sviluppato questa modalità di impollinazione non soffrono di depressione da inincrocio
(declino dell’adattabilità e vigore conseguente all’inincrocio tra individui imparentati e all’aumento di omozigosi).

Tra i principali meccanismi che promuovono l’autogamia vi sono:

1. presenza di fiori ermafroditi;

2. cleistogamia (l’impollinazione e la fecondazione avvengono nel fiore ancora chiuso);

3. morfologia del fiore.

Tra le specie autogame troviamo: Poaceae (riso, frumento, orzo, avena), Fabaceae (fagiolo, cece, pisello, lenticchia, soia) e
Solanaceae (pomodoro); oltre che nelle piante coltivate è diffusa anche in natura, dove è principalmente associata a piante annuali;
tuttavia, l’allogamia, benché con percentuali molto basse, di solito inferiori all’1%, è sempre possibile.

Impollinazione allogama: prevede l’esoincrocio, cioè la fecondazione del gamete femminile avviene ad opera di un gamete maschile
proveniente da un altro individuo. L’allogamia porta all’eterozigosi e le piante allogame tendono a soffrire di depressione da
inincrocio.

Tra i principali meccanismi che promuovono l’allogamia vi sono:

1. presenza di fiori diclini, fiori unisessuali in piante monoiche; i fiori maschili e femminili sono portati sulla stessa infiorescenza
(mango, ricino, banano); infiorescenze solo maschili o femminili in parti separate della stessa pianta (mais, castagno);

2. dioicismo (pioppo, papaya, palma da datteri, spinaci, canapa, vite selvatica);

3. dicogamia - maturazione in tempi differenti di antere e stigmi dello stesso fiore; proteroginia – i pistilli maturano prima delle
antere; proterandria – le antere maturano prima dei pistilli;

4. eterostilia differente lunghezza degli stili e filamenti nel fiore;

5. ercogamia – particolare disposizione degli organi per la quale nei fiori ermafroditi è resa impossibile l’autogamia;

6. autoincompatibilità – incapacità del polline fertile di fecondare un gamete femminile dello stesso fiore (Brassica, Nicotiana);

7. maschio-sterilità – il polline non è funzionale (castagno/marrone).

Molte piante perenni sono allogame. il polline delle specie allogame ha una vitalità maggiore e può mantenere un’elevata
germinabilità per più tempo una volta rilasciato dalle antere.

LA DETERMINAZIONE DEL SESSO NELLE PIANTE:

Il sistema di riproduzione sessuata che predomina negli animali, la separazione dei sessi, è raro nelle piante. Nelle piante terrestri,
la separazione tra i sessi (dioicismo) si ritrova solo nel 9-10% delle specie, vale a dire in circa 29.000 specie delle circa 300.000
conosciute. Nelle angiosperme, circa il 6% delle specie (più di 14.000), suddivise in 960 generi e 200 famiglie sono dioiche.
L’ermafroditismo è la norma nelle piante terrestri e la separazione delle funzioni sessuali in individui differenti si è presentata,
probabilmente, a partire da un antenato ermafrodita. La separazione dei sessi inizia con la comparsa di mutazioni in singoli loci
determinanti la presenza di strutture maschili e femminili e pone le basi per l’evoluzione di cromosomi sessuali. Il punto di partenza
è quindi la comparsa di mutazioni che inducono rispettivamente sterilità maschile o femminile. Nella maggior parte delle piante
caratterizzate dalla presenza di cromosomi sessuali , il sistema di determinazione del sesso è di tipo XY (il sesso eterogametico è il
maschio ) e solo raramente è presente il sistema di determinazione del tipo ZW (femmina eterogametica , come ad es. in Fragaria ,
in pioppo e ginkgo).

LA RIPRODUZIONE ASESSUATA:
La riproduzione asessuata determina la produzione di nuove piante geneticamente identiche, fatto salvo per rare mutazioni
somatiche. La riproduzione asessuata è un processo basato fondamentalmente sulla mitosi di cellule somatiche e di conseguenza
non comporta nessuna mescolanza di materiale genetico proveniente da individui diversi. Tutti gli individui prodotti possono
pertanto essere definiti cloni dell’individuo generante.

Le modalità di riproduzione asessuata possono essere distinte in 2 tipologie di base:

1. sistemi di propagazione vegetativa – che si basano sulla frammentazione spontanea del corpo della pianta o su strutture
specializzate che si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione e da cui si può rigenerare la pianta completa.

2. apomissia – rappresenta di fatto una riproduzione asessuata per seme e comporta la formazione di un embrione e quindi di un
nuovo individuo in assenza della meiosi e della fusione dei gameti.

La riproduzione asessuata è una tipologia di moltiplicazione che è basata sulla totipotenza delle cellule vegetali, principalmente
sulla capacità delle cellule meristematiche di rigenerare un intero individuo con le stesse caratteristiche della pianta madre.

Propagazione vegetativa: la propagazione da frammenti o porzioni della pianta è un fenomeno diffuso nel regno vegetale. In molte
piante non vascolari, come briofite ed epatiche, ogni singola cellula può essere un potenziale progenitore di una nuova pianta ed è
frequente che da frammenti del corpo vegetale dell’individuo di partenza si possano rigenerare nuove piante. Questa modalità di
moltiplicazione è tuttavia possibile anche nelle piante superiori dove, come negli alberi da frutto, è pratica comune propagare cloni
delle varietà desiderate, ad es. mediante innesto, tramite la realizzazione di talee, propaguli e margotte per mantenere le principali
caratteristiche di interesse di una determinata varietà. La propagazione vegetativa può avvenire anche mediante rigenerazione di
strutture specializzate. Nel regno vegetale, infatti, nel corso dell’evoluzione, si sono originate cellule, gruppi di cellule, organi
modificati in modo da funzionare specificatamente come strutture per la propagazione vegetativa. In questa categoria rientrano gli
stoloni, i rizomi, i cormi, i tuberi e i bulbi delle angiosperme, le foglie di molte piante succulente, rizomi e tuberi di felci ed equiseti e
le gemme dormienti di molti muschi. Gli stoloni sono fusti che si originano da gemme ascellari e crescono strisciando sulla
superficie del suolo o appena sotto di essa e possono radicare generando nuove piantine. Tra le piante che si possono riprodurre
per mezzo di stoloni possiamo citare quelle appartenenti ai generi Fragaria, Poa, Ranunculus, Trifolium, Oxalis. I rizomi sono fusti
generalmente sotterranei, allungati, carnosi, variamente ramificati e con decorso orizzontale. Hanno una funzione importante e
tendono a diffondersi sotto terra emettendo nuove radici e nuovi germogli dai loro nodi da cui si originano nuove piante. Se un
rizoma è diviso in pezzi, ogni pezzo può originare una nuova pianta. Tra le piante che si possono così propagare si ricordano:
l’asparago, il luppolo, lo zenzero e la canna comune; è diffusa anche nelle pteridofite, come felci ed equiseti. I tuberi sono fusti
modificati, solitamente allargati e carnosi con funzione di riserva (immagazzinamento di nutrienti). Servono alla pianta per
sopravvivere nei periodi climaticamente sfavorevoli e per fornire l’energia e i nutrienti necessari per la rigenerazione di una nuova
pianta quando le condizioni ambientali tornano favorevoli. Le gemme dei tuberi, in particolari condizioni, possono svilupparsi in
nuovi individui. La pianta più importante, a livello economico, che produce tuberi è la patata. I bulbi sono organi con funzione
vegetativa e di resistenza a condizioni climatiche avverse. Sono costituiti da un breve fusto centrale circondato e protetto da foglie
esterne. Le foglie più interne sono carnose per l’accumulo di nutrienti. Dopo un periodo di dormienza, i bulbi si sviluppano in nuove
piante. Si possono produrre bulbi secondari dallo sviluppo delle gemme. Molte piante appartenenti alla famiglia delle Liliaceae,
come l’aglio, la cipolla e i tulipani. I cormi sono dal punto di vista strutturale fusti vegetali con nodi, internodi e gemme e producono
radici avventizie. All’estremità del cormo poche gemme origineranno i germogli che produrranno foglie e fiori. Anche i cormi hanno
funzione di immagazzinamento di nutrienti e di resistenza per permettere alla pianta il superamento di periodi sfavorevoli. Tra le
piante con i cormi, lo zafferano vero utilizza il cormo per superare il periodo estivo (estivazione), mentre il ciclo vegetativo si svolge
dall’autunno alla fine della primavera. Un organo di propagazione molto simile al rizoma è il pollone, originato più spesso dalle
radici, come in Populus, Prunus e Robinia, e più raramente dalla parte basale del fusto, come in Olea e Chamaerops. Il pollone può
dar luogo sia a nuovi individui molto vicini alla pianta madre (anche in questo caso solo mettendo a nudo le radici si vede che si
tratta in realtà di una pianta sola), sia a nuove formazioni vegetative distanti anche molti metri, come in Robinia o in Populus. Per il
pioppo bianco (P. alba), ad es., i polloni radicali possono emergere anche a 50 metri di distanza dalla pianta madre. Un ultimo tipo
di riproduzione vegetativa spontanea nelle piante superiori è la frammentazione. E’ il caso in cui parti di pianta distaccatesi dalla
pianta madre per ragioni traumatiche sono in grado di sopravvivere tanto a lungo da ricostituire gli organi mancanti ed acquisire
capacità di vita autonoma. E’ un fenomeno normale, ad es., in molte Cactaceae, in cui i fusti fotosintetici possono rompersi, cadere
a terra ed emettere radici avventizie. I fusti fotosintetici delle Cactaceae possono aspettare il momento favorevole alla produzione
delle radici avventizie, la cui formazione richiede tempi assai variabili. Le specie in cui la formazione di radici avventizie è veloce,
possono produrre nuove piante anche in seguito alla rottura e caduta a terra di porzioni di fusti non fotosintetici, in grado di
sopravvivere per tempi brevi grazie alle sole riserve in essi contenute. E’ il caso dei rami che si staccano, soprattutto in seguito ad
eventi meteorologici.

Sistemi riproduttivi nelle piante: sporogenesi, gametogenesi e fecondazione

Gli apparati della riproduzione sessuale sono localizzati nel fiore Il fiore nelle angiosperme è composto di:

- Ricettacolo-dove sono inseriti i vari organi fiorali disposti in più verticilli;


- Calice-è il verticillo più esterno formato dai sepali;

- Corolla-situata più internamente è formata dai petali;

- Androceo-formato da un numero variabile di stami;

- Stame-è composto di un filamento inserito nel ricettacolo e di una parte terminale ingrossata l’antera;

- Antera-comprende 4 sacche polliniche (microsporangi) suddivise in 2 lobi separati da un tessuto connettivo all’interno del quale
passa il fascio conduttore;

- Sacche polliniche-sono delimitate da uno strato di cellule epidermiche (esotecio) che riveste un tessuto di cellule con pareti
ispessite, detto endotecio, in grado di provocare la deiscenza dell’antera e la dispersione del polline;

- Tessuto sporigeno-è localizzato internamente alle sacche delimitato dallo strato di cellule del tappeto con funzione nutritiva nei
confronti delle cellule madri del polline (microsporociti) e delle microspore;

- Gineceo-formato da uno o più carpelli ripiegati in modo da originare dei concettacoli chiusi all’interno dei quali sono localizzati gli
ovuli (megasporangi);

Uno o più carpelli uniti assieme originano il pistillo

- Pistillo-presenta una parte espansa lo stigma sul quale aderisce e germina il polline, una parte allungata e filiforme lo stilo,
all’interno del quale si accresce il tubetto pollinico, di una parte basale ingrossata l’ovario nel quale sono raccolti uno o più ovuli;

- Ovulo-comprende una parte basale, calaza, la quale attraverso il funicolo si inserisce sulla placenta e la parte centrale detta
nocella, avvolta da 2 tegumenti, primina e secondina che alla loro estremità formano un piccolo orifizio il micropilo attraverso il
quale passa il tubetto pollinico.

All’interno dell’ovulo si differenziano cellule particolari, dette cellule madri delle megaspore (megasporociti), ognuna delle quali
potrà originare una megaspora funzionale e un sacco embrionale.

All’interno delle antere e degli ovuli, a partire dalle cellule madri della megaspora, attraverso la meiosi, vengono cellule aploidi,
dette spore (microspore, maschili e megaspore, femminili). Queste dividendosi attraverso divisioni mitotiche danno origine al
gametofito all’interno del quale vengono formati e portati i gameti. In particolare, la meiosi maschile o microsporogenesi determina
la produzione di una tetrade di microspore: tutte e 4 sono funzionali e sono poste ai vertici di un tetraedro poiché i fusi durante la
seconda divisione si orientano a formare un angolo di circa 60°. Ogni microspora da origine ad un granulo pollinico che a maturità è
binucleato e contiene un nucleo vegetativo e uno generativo. In genere durante lo sviluppo il nucleo generativo subisce un’altra
divisione mitotica originando due distinti nuclei spermatici. La meiosi femminile o megasporogenesi determina la formazione di una
tetrade lineare di megaspore: generalmente solo una è funzionale, le altre degenerano. Attraverso 3 divisioni mitotiche la
megaspora da origine al sacco embrionale 8-nucleato: 1 cellula uovo, 2 sinergidi, 2 nuclei polari, e 3 antipodali.

Nelle angiosperme la formazione del seme (embriogenesi) avviene attraverso un processo di doppia fecondazione. Una volta che il
granulo pollinico si è adagiato sullo stigma, germina producendo un tubetto pollinico, che attraverso lo stilo tende a trasportare i
gameti maschili (i 2 nuclei spermatici) all’interno del sacco embrionale, dove avverrà la fecondazione. 1 dei 2 nuclei spermatici si
fonderà con la cellula uovo, producendo lo zigote diploide da cui si originerà l’embrione. L’altro nucleo spermatico si unisce con il
nucleo secondario che deriva dalla fusione dei 2 nuclei polari, si genera così l’endosperma triploide, che fornisce nutrimento
all’embrione fino a quando non sarà in grado di svolgere la fotosintesi. Nella successiva fase di sviluppo del seme, nelle dicotiledoni
l’endosperma viene riassorbito e le sostanze di riserva immagazzinate nei cotiledoni dell’embrione, mentre nelle monocotiledoni
l’endosperma permane. Nel mais la parete esterna dell’endosperma differenzia l’aleurone che può accumulare pigmenti
conferendo alle cariossidi una gamma di colori, da quelli più comuni come bianco e giallo al porpora e rosso.

Biologia dello sviluppo delle piante e del fiore

Tipicamente il fiore di una dicotiledone consiste di 4 classi di verticilli: sepali, petali, stami e carpelli. Anche se l’organizzazione e le
funzioni di questi organi siano a maturità completamente diversi, ognuno dei 4 verticilli all’inizio del proprio sviluppo appare come
una piccola protuberanza del meristema fiorale. È evidente che le cellule di cui si compone ogni primordio degli organi fiorali
debbano seguire un preciso programma di differenziazione. Una caratteristica morfologica principale delle piante superiori è
rappresentata dallo sviluppo secondo l’asse longitudinale caulinare-radicale: l’accrescimento avviene mediante divisioni cellulari in
corrispondenza degli apici del germoglio e della radice (meristemi apicali), seguendo uno specifico andamento anche in senso
radiale. Il gruppo di cellule che costituisce il meristema apicale del germoglio consente alla pianta di accrescersi verso l’alto e
produrre gemme di cellule proliferanti che originano le strutture fogliari e fiorali, mentre il meristema apicale delle radici consente
alla pianta di svilupparsi verso il basso e di produrre l’apparato radicale. Lo sviluppo dei fiori e degli organi riproduttivi così come
degli altri organi delle piante dipende da geni omeotici. Tali geni intervengono modificando il corso dello sviluppo in una
determinata regione o compartimento di un organismo condizionando così la formazione di determinati tessuti e organi. Studiando
mutazioni omeotiche che influenzano lo sviluppo dei verticilli fiorali è stato possibile formulare ipotesi sul controllo genetico dello
sviluppo dei fiori. Nel 1991 Coen e Meyerowitz formularono il modello ABC, capace di spiegare come geni omeotici siano in grado di
determinare l’identità degli organi fiorali nelle Angiospermae.

Il modello ABC rivisto

I geni con funzione A, (APETALA1 [AP1] in Arabidopsis) sono necessari per la formazione dei sepali, i geni con funzione B (APETALA3
[AP3] e PISTILLATA [PI] in Arabidopsis), insieme ai geni con funzione A, sono necessari per la formazione dei petali. I geni con
funzione B, insieme a quelli con funzione C (AGAMOUS [AG] in Arabidopsis), sono necessari per la formazione degli stami, e solo i
geni con funzione C sono necessari per la formazione dei carpelli. Il modello ABC è stato gradualmente ampliato per includere i geni
di classe D e i geni con funzione E, che sono necessari rispettivamente per gli ovuli e la definizione dei verticilli floreali. I geni con
funzione D in Arabidopsis includono SEEDSTICK (STK), nonché SHATTERPROOF1 e SHATTERPROOF2 (SHP1 e SHP2). Tutti i geni
omeotici contengono un dominio altamente conservato denominato omeobox o MADS-box, che promuove il legame del fattore di
trascrizione a specifiche sequenze di DNA. Si ritiene che l’espressione di determinati geni nei primordi delle gemme fiorali possa
attivare l’espressione dei geni omeotici e che i fattori di trascrizione codificati dai geni omeotici possano a loro volta regolare
l’espressione di altri geni specifici più direttamente coinvolti nella formazione di sepali, petali, stami e carpelli.

Incompatibilità:

Nelle piante fertili la produzione di seme è strettamente legata a due processi biologici: impollinazione e fecondazione. Lo studio
dei sistemi riproduttivi ha incluso l’analisi dettagliata dei meccanismi di impollinazione e fecondazione ed ha evidenziato la
presenza di meccanismi atti a prevenire sia l’autofecondazione che l’incrocio tra individui strettamente imparentati. Il meccanismo
di autoincompatibilità SI (self-incompatibility), impedisce al polline incompatibile, prodotto dalla stessa pianta o da piante
imparentate, di accrescere il tubetto pollinico lungo lo stilo ed effettuare la fecondazione. Le basi genetiche dell’incompatibilità
sono state inizialmente studiate in specie differenti mediante l’esecuzione di appropriati incroci. I risultati di tali sperimentazioni
hanno portato all’identificazione di un locus multiallelico, locus S, dal quale dipende il controllo genetico del meccanismo di
incompatibilità. La barriera fisiologica alla base dell’espressione di incompatibilità è determinata da una serie di alleli multipli delle
stesso gene, alleli S. Il polline ed il pistillo danno luogo alla reazione di incompatibilità quando sono portatori degli stessi alleli al
locus S: il tubetto pollinico è incapace di penetrare lo stigma o di accrescersi lungo lo stilo. A seconda della modalità di azione e
dello stadio di determinazione, l’incompatibilità viene distinta in gametofitica e sporofitica. Nel sistema di incompatibilità
gametofitica il fenotipo del polline è specificato dal suo stesso genotipo aploide al locus S. Nel sistema di incompatibilità sporofitica
il polline presenta il fenotipo della pianta madre che lo ha prodotto e sulla quale è maturato, pertanto il suo comportamento è
determinato dallo sporofito come se presentasse 2 alleli al locus S. Nel caso di incompatibilità gametofitica, il polline è in grado di
germinare e il tubetto pollinico di accrescersi solo quando il determinante allelico al locus S del polline è diverso da entrambi quelli
specificati dal genotipo del pistillo. Un granulo pollinico con allele S1 può germinare nello stigma ed il suo tubetto accrescersi entro
lo stilo di un genotipo S2S3, mentre questo non è possibile per granuli pollinici con allele S2 o S3. Nei sistemi gametofitici la
reazione di incompatibilità è sotto il controllo dei geni al locus S che possono essere costituiti da serie alleliche numerose e che non
manifestano tra loro relazioni di dominanza e recessività (S1, S2, Sn). Il primo di questi sistemi venne scoperto nel 1925 da East e
Mangelsdorf in Nicotiana sanderae. Le caratteristiche di questo sistema gametofitico di incompatibilità caratterizzato da controllo
monofattoriale con serie poliallelica sono schematizzate in figura.

Tale sistema prevede tre tipi principali di impollinazione:

- Pienamente incompatibile;

- Parzialmente compatibile, quando solo uno degli alleli è in comune;

- Totalmente compatibile, quando tutti gli alleli sono diversi.

Nel caso di incompatibilità sporofotica, il polline è in grado di germinare e il tubetto pollinico di accrescersi solo quando il genotipo
della pianta da cui deriva non ha nessun determinante allelico in comune con quelli specificati dal genotipo del pistillo. Ad es., il
polline con allele S2 prodotto da una pianta con genotipo S1S2 non è funzionante in un pistillo di una pianta il cui genotipo è S1S3.
Solo quando tutti i determinanti allelici al locus S sono diversi tra polline e pistillo è possibile avere una combinazione compatibile,
come ad es. nell’incrocio S1S2 x S3S4. Nei sistemi sporofitici eteromofici la mancata fecondazione è attribuibile alle particolarità
morfologiche che caratterizzano i diversi fenotipi S. Per es., in Linum il polline dei tipi a spillo non è in grado di germinare sullo
stigma di fiori dello stesso tipo poiché non riesce a sottrarne acqua, mentre il polline dei tipi a spazzola può germinare sullo stigma
dei fiori dello stesso tipo ma è rigettato in quanto assorbe troppa acqua. I sistemi sporofitici eteromorfici possiedono basi genetiche
piuttosto semplici: nell’eterostilia gli alleli al locus S mostrano relazioni di dominanza (S/s) e controllano le basi fisiologiche
dell’incompatibilità. Le piante con fiore a stilo corto (tipo a spazzola) hanno un genotipo Ss e mai SS, mentre quelle con fiore a stilo
lungo (tipo a spillo) hanno un genotipo ss. I sistemi sporofitici omomorfici non presentano differenziazioni dei caratteri morfologici
dei fiori e sono prevalentemente caratterizzati da controllo monofattoriale con serie poliallelica. Tale sistema è stato riscontrato in
varie specie di Brassicaceae ed il numero di alleli può essere anche molto numeroso.
Conoscenze molecolari della reazione di incompatibilità:

Sono stati caratterizzati 3 sistemi di incompatibilità: 2 di tipo gametofitico nelle Solenaceae ed 1 nel Papaver rhoeas; 1 di tipo
sporofitico tipico delle Brassicaceae. Nelle Solenaceae il losus S del pistillo codifica per una ribonucleasi, S-RNasi, che viene secreta
nel tessuto di trasmissione dello stilo interessato dalla crescita del tubetto pollinico a seguito delle impollinazione e che inibisce la
fecondazione degradando i trascritti prodotti dal polline in germinazione. In papavero, il gene S stigmatico codifica per una proteina
di dimensioni ridotte che attiva un meccanismo di trasduzione del segnale che causa l’inibizione della germinazione del granulo
pollinico. Nelle specie del genere Brassica caratterizzate da autoincompatibilità, la reazione di rigetto del polline avviene a livello
stigmatico. Tale meccanismo è controllato dai geni stigma-specifici per una glicoproteina secreta (SLG-S Locus Glycoprotein) e per
un recettore chinasico transmembranario (SRK-S locus Receptor Kinase). Si stima che il locus S abbia una dimensione di compresa
tra 20 e 400 kb a seconda del genotipo Il recettore chinasico e la glicoproteina secreta sono le componenti femminili che delimitano
le regioni più esterne. La struttura primaria di SRK ha evidenziato un dominio omologo a quello della glicoproteina (SLGsimile), un
dominio transmembranario e un dominio chinasico intracellulare. La componente maschile quella codificante per SCR (S locus
Cystein-Rich protein) è situata tra SLG e SRK. Modello di percezione e risposta del segnale nella risposta SI. Le molecole che hanno
dimostrato di funzionare definitivamente in SI sono mostrate in forma chiusa SRK è mostrata attraversare la membrana plasmatica
(barra arancione) della cellula epidermica stigmatica, con la sua chinasi (cerchio rosso) nel citoplasma e il suo ectodominio
(mezzaluna rossa) che si estende nella parete cellulare (area punteggiata). SLG ed eSRK sono mostrati come mezzalune nella parete
cellulare papillare. Le molecole SCR sono mostrate come molecole dimeriche nella parete cellulare papillare, a cui vengono
trasferite dalla copertura pollinica del polline. L'SCR "auto" (cerchi verdi) si lega con l’ectodominio SRK e innesca una cascata di
segnalazione, Mentre l'SCR "non-self" (triangoli viola) non si lega.

Maschiosterilità genetica:

La maschiosterilità consiste nella produzione di gameti non funzionali o nella mancata produzione di gameti maschili. La
maschiosterilità genetica è controllata da un singolo gene nucleare allo stato recessivo (mm). Mutazioni monofattoriali che
determinano la funzionalità maschile sono state descritte in numerose specie vegetali pomodoro, peperone, fagiolo, erba medica,
girasole, melone, orzo e mais. Un inconveniente che limita lo sfruttamento di questo tipo di maschiosterilità per la produzione di
seme ibrido è rappresentato dalla natura ereditaria del fenomeno che rende impossibile ottenere progenie composte unicamente
da piante maschiosterili.

Maschiosterilità citoplasmatica:

La maschiosterilità può essere dovuta anche a fattori aventi la loro sede nel citoplasma. La maschiosterilità citoplasmatica è
controllata da geni mitocondriali. Per cui è caratterizzata da ereditarietà uniparentale ed in generale di tipo materno. Le piante
maschiosterili (S) possono produrre seme solo ricorrendo a piante impollinatrici maschiofertili (N), ma produrranno una progenie
completamente maschiosterile (S). Perciò la possibilità di conservare una linea completamente sterile dipende dalla disponibilità di
un impollinatore fertile. Dal momento che questa possibilità non costituisce un fattore limitante, verso la maschiosterilità
citoplasmatica è stata rivolta una maggiore attenzione a questa rispetto a quella genetica per un suo sfruttamento nella produzione
di sementi ibride.

Maschiosterilità genetico-citoplasmatica:

Dovuta ad interazioni tra geni mitocondriali e geni nucleari ristoratori (R). Progenie di piante maschiosterili possono essere
maschiofertili quando sono incrociate con particolari impollinatori. Ritrovata in mais, cipolla, sorgo, frumento.

Gameti non ridotti: meccanismi citologici e conseguenze genetiche:

L’insorgenza naturale di mutazioni meiotiche responsabili della produzione dei gameti non ridotti è il fenomeno alla base dei
processi evolutivi che portano alla poliploidia e che condizionano gli approcci di miglioramento genetico delle forme poliploidi delle
specie coltivate. I gameti non ridotti hanno un numero gametico sporofitico (2n). Nonostante esistano diverse modalità di
formazione dei gameti 2n, tutte sono riconducibili a 2 meccanismi: FDR (First Division Restitution) e SDR (Second Division
Restitution). I 2 meccanismi hanno in comune il fatto che per produrre gameti 2n è necessaria la formazione di un nucleo di
restituzione: un nucleo derivante da una divisione cellulare il cui numero cromosomico è doppio rispetto a quello atteso. La
differenza è che nel meccanismo FDR il nucleo di restituzione si forma in prima divisione, mentre nel meccanismo SDR si forma in
seconda divisione.

Poliploidia-allopoliploidia:

Apomissia:

Con il termine apomissia sono indicati tutti i processi agamo spermici, cioè di produzione asessuata del seme. La riproduzione
apomittica avviene tramite lo sviluppo embriogenetico in assenza di fecondazione (partenogenesi) di una cellula con numero
cromosomico non ridotto:
1. Se l’embriogenesi prende origine direttamente da una cellula somatica si parla di embrionia avventizia o apomissia sporofitica;

2. Se l’embrione si sviluppa a partire da un ovocellula 2n (apomeiosi) differenziatasi in sacco embrionale non ridotto il processo è
definito apomissia gametofitica.

In quest’ultimo caso: Il sacco embrionale non ridotto può essere formato a partire da una cellula nucellare che acquisisce le funzioni
di megaspora (aposporia) La cellula madre delle megaspore dopo soppressione o modificazione della meiosi (diplosporia).

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