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LEZIONE 7 - 23 MARZO 2016

Riferimenti: dispensa n.2 + fotocopie dal libro per dispense 2 e 3 per le immagini in 3D, disponibili
sul sito docenti.

MECCANICA DEL CONTINUO

La meccanica del continuo studia la deformabilità dei corpi, quindi lo stato tensionale, ovvero quello
che accade a livello puntuale rispetto a quanto visto nelle lezioni precedenti.

Momento, taglio, sforzo normale sono caratteristiche integrali, riguardano forze e coppie; ora
inizieremo a vedere le sollecitazioni interne, cioè le tensioni (o “stress”):  e τ.
In questa lezione consideriamo sempre un volume elementare, estratto da un corpo più grande.
Questo è il concetto di sollecitazione puntuale, quindi stress. Anche momento, taglio, sforzo normale
spesso vengono chiamati sollecitazioni, ma questo può creare ambiguità; pertanto ci riferiremo agli
stress ( e τ) come “sollecitazioni”, mentre chiameremo momento, taglio e sforzo normale
“caratteristiche interne della sollecitazione” (differiscono per un’area, perché una è una forza e l’altra
una pressione). Il ragionamento sulla deformazione è puntuale; quanto visto finora vale anche se le
strutture fossero state rigide; rigido vuol dire caratterizzato da atti di moto rigido, cioè è sufficiente
conoscere lo spostamento di un suo punto e la φ, cioè di quanto ruota in una o più direzioni; se il solido
non è rigido, allora due punti qualunque del solido hanno una distanza mutua che cambia, e per
descrivere il moto non è più sufficiente conoscere lo spostamento di un suo punto e la φ.
Parliamo di moto rispetto allo spazio e non rispetto al tempo, sono tutte configurazioni ferme, o che
variano in maniera così lenta che le derivate rispetto al tempo sono nulle; N.B. proprio perché si
ragiona in questo modo, la velocità non è trascurabile: ci sono fenomeni viscosi, di strain rate
(velocità di deformazione) che hanno degli effetti, ad esempio:
-facciamo delle prove: se su una struttura mettiamo un peso e lo lasciamo lì per secoli, ci saranno degli
effetti per cui il carico si sposterà nel tempo per fenomeni viscosi;
-facciamo prova di schiacciamento lenta, e risulta che l’oggetto si schiaccia per un certo carico; dando
il carico in maniera più rapida, la resistenza apparente aumenta, e fittiziamente è come se la struttura
fosse più resistente (ad es. con un’esplosione). Ne parleremo in seguito, trattando le proprietà strutturali
dei materiali, ma nel momento in cui si “perde” il tempo non si vedono più, e bisogna tenerne conto in
maniera posticcia, cioè bisogna chiedersi se stiamo facendo un’analisi per carichi statici, cioè molto
lenti, oppure per carichi dinamici comunque lenti (ad es. un terremoto), oppure per carichi impulsivi,
per la dinamica rapida (ad es. un’esplosione). Il calcolo che si fa è simile, ma i materiali si
comporteranno in modo diverso; se tenessimo conto del tempo sin dall’inizio, riusciremmo comunque a
controllarlo, ma noi facciamo sempre considerazioni tenendo tutto fermo, quindi ne teniamo conto in
questo modo.
Inoltre noi operiamo sempre in piccoli spostamenti, cioè immaginiamo ad es. che un edificio si sposti
per un millesimo delle sue dimensioni o molto meno, e questo ci consente di fare un’analisi
confondendo la struttura prima che si deformi con quella dopo la deformazione.

Abbiamo una forza eccentrica. Che momento ho rispetto alla base?


Quanto vale la reazione vincolare alla base? L’incastro deve generare
una forza uguale e opposta, quindi sarà una forza verticale, una reazione
orizzontale nulla più una coppia che porta la forza dal vincolo a fuori.
Se la struttura ha piccoli spostamenti (in figura 1 la deformazione è stata
volutamente esagerata per poterla visualizzare) è lecito immaginare che
la configurazione prima e dopo l’applicazione del carico sia la stessa, e
quindi possiamo fare come se non si fosse mai spostata.
Per grandi spostamenti invece (sempre fig.1) la forza P si è spostata, ha
avuto un ulteriore spostamento δ, che fa sì che il momento aumenti di
una quantità P∙ δ: effetto P- delta .

La struttura ha un momento più grande, che genera delle sollecitazioni più grandi e quindi la struttura
tenderà a spostarsi ulteriormente, e questo processo può diventare instabile: mano a mano che la
struttura si sposta, le nuove sollecitazioni la fanno inflettere ancora di più, finchè la struttura collassa.
In questi casi quindi non si può fare la stessa assunzione di piccoli spostamenti, perché rischierei di non
accorgermi di un meccanismo di collasso della struttura. Cercheremo di trattare strutture in cui l’effetto
P- delta sia trascurabile.

Comunque è un problema legato alla compressione e all’eccentricità: se la


forza fosse verso l’alto (fig. 2), essa diventa stabilizzante, perché tende a
ricentrare, il momento si ridurrebbe e quindi va a contrastare quest’effetto.
Ogni volta che c’è compressione siamo a rischio instabilità, se invece
“tiriamo” no. Se tiriamo una riga, essa è stabile; se invece la comprimiamo,
all’improvviso “svergola”, si inflette e si rompe, ma la rottura è dovuta all’instabilità e non allo
schiacciamento; la forza che l’ha fatta rompere non è la forza compatibile con la crisi del materiale, è
un effetto geometrico, un effetto di grandi spostamenti.
In genere faremo l’ipotesi di piccoli spostamenti, cioè si assume che gli spostamenti siano talmente
piccoli da assumere che la configurazione indeformata (prima di mettere qualunque carico) e
quella deformata (post-carico) siano coincidenti.
Finora abbiamo parlato di corpi rigidi (però le strutture iperstatiche si possono calcolare solo se
non sono rigide: strutture rigide iperstatiche non sono calcolabili, perchè esistono infinite soluzioni
tutte compatibili; se non sono rigide invece ne esiste solo una).

Ragioniamo su una barra lunga L e con sezione trasversale di area A; si fa una prova di trazione
applicando una forza F, e si ottiene un allungamento Δ (Δ/2 a sx e Δ/2 a destra, ma prendiamo un punto
di riferimento fisso e ce lo portiamo tutto da un lato). Quindi plottiamo il diagramma forza-
spostamento:

La risposta sarà una curva di questo di tipo: in generale è una curva, ma in campo elastico ci aspettiamo
una proporzionalità diretta (legge di Hooke: “ut tensio, sic vis”, “come la deformazione, cosìla forza”,
cioè proporzionalità tra forza e deformazione, nel senso di allungamento).
N.B. “elastico” non vuol dire che questa risposta è una retta, ma che lasciandolo torna indietro: compie
cicli ad area nulla; esiste un potenziale, e il lavoro compiuto (forza∙spostamento) è nullo, un
qualunque percorso di carico e scarico segue la stessa curva (fig. 5). Spesso però questa curva è una
retta.
Invece in un comportamento plastico carica lungo una curva e scarica lungo un’altra; in questo caso si
ha un’area sottesa non nulla e quindi un lavoro dissipato, e si ha una deformazione residua (fig. 6): ad
esempio una molla è una struttura elastica, quindi se la tiro poi torna indietro, ma se la sollecito troppo
si plasticizza e resta allungata (torna indietro, ma è più lunga di prima). Questa differenza di
comportamento è significativa: da un certo punto di vista siamo attratti dalla risposta elastica, perché
per una struttura elastica in cui la risposta è lineare vale il principio di sovrapposizione degli effetti,
in base al quale una struttura complicata caricata in modo molto complicato si può immaginare caricata
da tante azioni più semplici; poi si sommano gli effetti della varie azioni e si ottiene la risposta. Questo
rende tutto operativamente più semplice, peròd’altra parte in questo modo non si dissipa energia, e se
ad esempio c’è un terremoto, che non è altro che un trasferimento di energia (come un’esplosione), e se
la struttura dissipa tale energia senza collassare non succede niente, ma se non è in grado di dissiparla
la trasferisce, si ha energia in circolo e si hanno danni sulla sua struttura (anche sul suo contenuto).
Ricordiamo che si può reggere un terremoto o con una grande resistenza, o con una soglia di resistenza
minore ma con una grande duttilità, cioè con una capacità isteretica.
N.B.: la sovrapposizione degli effetti vale solo per un comportamento elastico LINEARE:
immaginiamo che la struttura per una prima porzione di carico va da un punto ad un altro, per un’altra
porzione di carico torna indietro, per un’altra si sposta, e così via: ogni volta che prendiamo una
struttura elastica è come se fosse nuova, in qualunque fase della sua vita, perché la risposta che avrà è
sempre la stessa che aveva il primo giorno. Se invece abbiamo una situazione in cui ad esempio può
caricare e scaricare su una di queste rette (fig.8), avremo un percorso come quello indicato: cioè ogni
volta che vado a mettere un nuovo step, la struttura risponde in modo diverso perché c’è una storia,
un’energia, una deformazione residua, un parametro che tiene traccia di quello che succede, la
struttura non è sempre nuova; le risposte di questo tipo hanno il cosiddetto degrado o danno
(intrinseco), per cui l’effetto di uno stesso carico è diverso sulla struttura nuova rispetto alla struttura
che ha subito altri carichi, al contrario delle strutture elastiche, e quindi non è più lecito sovrapporre gli
effetti, in quanto la risposta dipende dalla fase in cui si trova la struttura e dalla sua storia passata.

Come esempio possiamo considerare una forcina per capelli, in materiale duttile (un metallo); se la
apriamo entro un certo limite, torna indietro in modo elastico, riacquistando la sua configurazione. Se
però eccediamo, plasticizza: si perde la linearità, l’energia dissipata non è nulla, e quando scarichiamo
non torna nella posizione iniziale, ma resta un po’ aperta (ha dissipato qualcosa). Se immaginiamo di
avere una prima azione debole e poi un’azione molto forte, è diverso dall’avere prima un’azione molto
forte e poi un’azione debole, perché dopo l’azione forte la forcina è un po’ aperta, quindi sto agendo su
una forcina diversa, come configurazione.
Cosa ancora peggiore, immaginiamo che la struttura ha una retta vergine (o “retta di carico”: segue un
certo percorso e poi si rompe) del tipo in fig.9 :

Se abbiamo una forcina nuova e facciamo una prova


per vedere quanto regge, si può fare l’intera prova e
portarla fino alla fine, vedendo che essa ha una
grande capacità anche in duttilità; se invece facciamo
la prova su una forcina che ha già avuto una certa
storia, è già stata caricata ed è rimasta in una certa
configurazione: se non sappiamo che è già stata
caricata, facendo la prova ci sembrerà molto meno
duttile.
La duttilità è quanto è grande il secondo ramo rispetto a quello elastico, cioè il punto di snervamento
rispetto alla condizione ultima; può essere vista come rapporto tra l’allungamento a rottura e
l’allungamento allo snervamento. Il punto di snervamento è dove inizia il comportamento plastico.
Questo fa sì che pur avendo a che fare con strutture duttili, per la storia di carico sono diventate fragili.
Un metallo finchè non arriva allo snervamento è un materiale elastico; e vogliamo dargli una piegatura,
lo stiamo plasticizzando, perché se così non fosse tornerebbe indietro come una molla, e se eccediamo,
rischiamo di arrivare in prossimità della sua crisi, rendendolo fragile. Quindi la duttilità in certi casi ci
attrae perché consente di dissipare energia, ma dobbiamo tenere conto della storia del materiale e del
suo danno, e questo è un aspetto molto pericoloso, perché possiamo avere un materiale prossimo alla
crisi senza saperlo, perché non sappiamo cosa ha passato quel materiale; se è molto prossimo alla crisi,
la risposta non sarà più plastica ma elasto-fragile, cioè arrivati al picco si rompe; questa è la differenza
tra una forcina di ferro ed una di vetro: finchè le manteniamo in campo elastico, si comportano allo
stesso modo; se eccediamo, quella di vetro si spacca, mentre quella di ferro si plasticizza e assumerà
nuove configurazioni. Con un materiale elastico questo problema non c’è, non mi importa della storia e
posso addirittura sfruttare la sovrapposizione degli effetti, ma non dissipa energia.
Comunque anche le strutture fatte con materiali plastici hanno un tratto elastico, e mantenendoci sotto
il 60% circa del suo carico ultimo possiamo sperare che il materiale si comporti in campo elastico. E’
per questo che, se vogliamo progettare una struttura restando nel “campo degli stati limite di servizio”
o “di esercizio”, cioè tutto ciò che compromette la funzionalità ma non la sicurezza (nel senso del
collasso della struttura), cercheremo di mantenerci a livelli di carico così bassi da non arrivare a
superare la soglia di elasticità; se invece ci avviciniamo alla crisi, per una struttura in vetro facciamo
comunque come se il materiale rispondesse in maniera elastica fino alla fine, mentre se la struttura è
duttile, come una struttura di acciaio, faremo dei cenni per tenere conto della duttilità, oppure
semplicemente faremo finta che lo snervamento (dove perde la linearità elastica) sia la nostra soglia
massima, cioè se snerva, se diventa plastico per noi sta per collassare; questa però sarebbe una forte
limitazione perché sfruttiamo peggio il materiale. Noi ragioneremo su un materiale lineare, quindi tutto
questo nella maggior parte dei casi non ci interessa, e sfrutteremo la sovrapposizione degli effetti.
Torniamo alle prove sulla barra; se la barra è di vetro, arrivati al punto P si rompe; se la barra è di
acciaio o di un materiale plastico, ad un certo punto presenta un altro ramo: se è piatto si ha plasticità
ideale o “perfetta”; si può avere una risposta fragile e quindi un crollo, oppure una risposta quasi
fragile, il cosiddetto softening, con una curva che scende, oppure un hardening, un incrudimento, se
subito dopo o dopo un tratto plastico la curva riprende a guadagnare qualcosa.
Comunque noi ci fermiamo al punto di snervamento; se il materiale è fragile, è corretto; se il materiale
è duttile, stiamo perdendo delle importanti risorse plastiche, ma siamo comunque a vantaggio di
sicurezza.
Questa curva però non è caratteristica del materiale
che costituisce la barra, ma della barra: se
prendiamo una barra lunga il doppio (A, 2L), la
forza a cui arriviamo è sempre la stessa, perché la
sezione trasversale è la stessa (A), quindi l’area che
porta il carico è la stessa, ma essendo lunga il
doppio, si può allungare il doppio prima di
rompersi; se invece prendiamo una barra con area
doppia (2A,L), si rompe per un carico doppio, ma
se la lunghezza è la stessa, l’allungamento sarà lo stesso.
Al variare della barra sembrerà che il materiale si comporti in modo diverso, quindi non è questo il
modo per caratterizzarlo, perché la risposta non è univoca; nella nostra ottica F sarebbe lo sforzo
normale N, la sollecitazione assiale, che è utile in certi casi ma non per vedere quando il materiale si
rompe, e quindi useremo un altro approccio:
Se abbiamo un sistema di forze in equilibrio, possiamo pensare di fare un
taglio con un piano, e chiederci cosa agisce a livello di pressione e quindi
di forze unitarie su questa faccia: possiamo individuare uno sforzo
normale, un taglio e un momento flettente, le cosiddette caratteristiche
integrali, cioè sono delle forze, che però andrebbero convertite in azioni
più puntuali:
Pressione normale  :
𝑁
lim =  = 𝑖𝑖
𝐴→0 𝐴

Sforzo tangenziale 𝜏:
𝑇
lim = 𝜏 = 𝑖𝑗
𝐴→0 𝐴

Il primo indice indica la normale alla faccia (al piano) su cui agisce, ed il secondo indica la direzione:
ad esempio 𝑖𝑗 agisce su un piano di normale i, con la direzione j. Se gli indici sono uguali, abbiamo
una , se sono diversi abbiamo una 𝜏.
Estraiamo un cubetto, di cui per semplicità consideriamo una faccia, di dimensioni dx e dy infinitesime
(avrà, ovviamente, anche una terza dimensione fuori piano, dz); su tale cubetto si possono individuare
le seguenti sollecitazioni:

Individuiamo 𝑥𝑥 (𝑐𝑖𝑜è 𝑥 ), e la  sul lato opposto sarà ancora 𝑥𝑥 , e sarà orientata nel verso opposto
perché il cubetto è estratto da un solido in equilibrio, quindi a livello locale dobbiamo garantire le
condizioni di equilibrio; però N.B.: l’equilibrio è sempre tra le forze, non tra le pressioni; se le vediamo
come freccette sembrano delle forze, ma in realtà sono pressioni, e quindi una distribuzione di
“forzettine” e non una forza singola.
Sceglieremo positiva ad esempio quella sulla faccia di normale positiva, nel verso della x positiva.
Poi introduciamo una 𝜏𝑥𝑦 sulla faccia di normale x, in direzione y; questa è quella positiva, e ne
esisterà una uguale e opposta 𝜏𝑥𝑦 dal lato opposto, per l’equilibrio. Analogamente si fa per le altre
facce. Si può fare lo stesso su un volume e quindi, considerando anche l’asse z, per tutte le 6 facce
(vedi fotocopie libro “Lez_2_3_INT_Th_Elas.pdf”). Quello che ha caratterizzato tutto è l’equilibrio;
ora però dobbiamo chiederci se per l’equilibrio possiamo dire qualcos’altro: le volte scorse per il taglio
abbiamo detto che dx era infinitesimo e quindi il braccio era trascurabile; in realtà ora essendo tutte
quantità puntuali, va capito meglio cosa vuol dire infinitesimo. Quindi se prendiamo polo nell’origine,
possiamo scrivere un’equazione globale di equilibrio intorno a quel punto, in termini di rotazione:
ad esempio la 𝑥è applicata su una faccia che ha base dz e altezza dy, ed è evidente che le 𝑥 si elidono,
(quindi non lo scriviamo) perché sono coassiali, uguali e opposte perché le facce sono uguali, quindi le
sigma per le aree danno forze uguali e opposte; pertanto rispetto a questo polo non hanno braccio (non
hanno braccio tra loro, figuriamoci rispetto al polo); idem per le 𝑦; invece per le τ non è così:
la τ* la faccia dzdy ha braccio nullo, lo stesso τ*dxdz
la (faccia inferiore); restano le τ che agiscono
sulle altre 2 facce (superiore e destra):

𝜏𝑦𝑥 *area faccia*braccio - 𝜏𝑥𝑦 *area faccia*braccio=0

prima coppia seconda coppia (segno – perché il verso di 𝜏𝑥𝑦 è antiorario)


Non ci sono altre coppie.

POLO 𝜏𝑦𝑥 𝑑𝑥𝑑𝑧 𝑑𝑦 − 𝜏𝑥𝑦 𝑑𝑧𝑑𝑦 𝑑𝑥 = 0

dxdydz è il volume del cubo, che è uguale al primo e al secondo membro, quindi si può semplificare
ottenendo la simmetria maggiore delle τ:
𝜏𝑦𝑥 = 𝜏𝑥𝑦
Cioè su due facce orientate in questo modo le τ sono sempre uguali, e questo è legato all’equilibrio;
esse ruotano in senso opposto perché per equilibrare bisogna generare due coppie uguali e opposte.
Possiamo introdurre il vettore delle in 3D)il vettore delle sollecitazioni, o “tensioni” o “stress”: 

()
𝑥
Le 3 tensioni normali sulle 3 facce coordinate
𝑦
𝑧
𝜏𝑥𝑦 
𝜏𝑥𝑧 Non scriviamo anche, ad esempio, 𝜏𝑦𝑥 perché è uguale a 𝜏𝑥𝑦
(𝜏𝑦𝑧 )
dovrebbero essere 9 componenti, perchè su ogni faccia ne ho 3, ma 3 sono simmetriche, e quindi ne
restano solo 6.
Poi ci sono altre quantità collegate con gli spostamenti:
ad esempio il corpo ha avuto secondo il suo asse uno spostamento che non è uguale ovunque, non è
costante su tutto il corpo, quindi non tutti i punti avanzano o arretrano della stessa quantità, e sono
proprio le variazioni di spostamento che generano delle deformazioni, ad esempio quelle assiali sono
allungamenti e accorciamenti.

Anche in questo caso ragioniamo su un cubetto: se lo


piazziamo sempre con gli assi coordinati, abbiamo già
introdotto delle variabili per gli spostamenti: u, v, w, gli
spostamenti secondo gli assi coordinati; se sono costanti
per tutto il corpo, abbiamo dei moti rigidi; però potrebbe
accadere, ad esempio, che lungo la direzione x ho della
variazioni.

Lo spostamento lo posso esprimere come uno sviluppo in serie: se non è costante, ha una serie di
variazioni di ordine superiore; se la interrompo al primo ordine, esprimo in questo modo la u di x:
𝑑𝑢
𝑢+ 𝑑𝑥
𝑑𝑥

𝜀𝑥 : deformazione assiale (detta anche 𝜀𝑥𝑥 , cioè la ε che nasce sulla faccia di normale x in direzione x)
𝑑𝑢
Cioè se mi sposto di un dx, mi trovo la variazione ; l’abbiamo già visto per il momento: a sinistra
𝑑𝑥

valeva M e a destra M+dM, qui a sinistra vale u e a destra vale un du in più, espresso come variazione
di u in dx. in un punto vale u, e in un altro punto spostato di dx varia di una quantità 𝜀𝑥 detta
deformazione.
Analogamente:
𝑑𝑣
= 𝜀𝑦 ( 𝑜 𝜀𝑦𝑦 ) deformazione lungo y
𝑑𝑦
𝑑𝑤
= 𝜀𝑧 ( 𝑜 𝜀𝑧𝑧 ) deformazione lungo z
𝑑𝑧

Che relazione c’è tra  ed ε? Entra in gioco la legge di Hooke: ∙ ε


Cioè c’è proporzionalità tra la agente e laè il modulo di Young o modulo elastico del materiale.
Se prendiamo lo stesso grafico di prima (fig.11) ma stavolta ragioniamo in termini di cioè di
forza/area, e in termini di ε, che se la struttura è abbastanza corta e posso immaginare che si allunga in
maniera uniforme, è data dall’allungamento diviso la lunghezza iniziale (Δ/L).

Ci accorgiamo che le 3 curve ottenute in precedenza adesso conducono ad una stessa risposta, si
sovrappongono in questo piano: infatti dove avevamo una forza F abbiamo diviso per un’area A; dove
avevamo una forza doppia abbiamo diviso per un’area doppia, e quindi arrivo alla stessa
l’allungamento doppio va diviso per una lunghezza inziale doppia. In questo piano pertanto è
possibile individuare la curva caratteristica del materiale; in fig.11 vediamo come risponde una barra di
un certo materiale, mentre in fig.15 vediamo cosa fa a livello puntuale il materiale (la risposta
strutturale del materiale).
E è il coefficiente di proporzionalità tra tensione e deformazione, ed è quindi la pendenza di questa
retta; è anche detto rigidezza, anche se la rigidezza dovrebbe essere letta nel piano in fig.11: se usiamo
un materiale con un modulo più alto, la retta si impenna e per avere lo stesso spostamento serve una
forza più grande, ovvero a parità di forza si allunga meno. Possiamo quindi scrivere, ad esempio:
𝑥
𝜀𝑥 =
𝐸𝑥

Attenzione: se questa (𝜀𝑥=𝑥 )è la deformazione principale, non è l’unica; infatti esiste un altro effetto,
𝐸𝑥

l’effetto Poisson:
effetto Poisson:
se ho un oggetto e lo schiaccio, cioè applico una
deformazione 𝜀𝑦 , spancia (lo stiamo immaginando
fermo da un lato e quindi spancia solo da un lato, ma in
realtà spancia da tutti i lati), e questa quantità che
chiamiamo 𝜀𝑥 vale - 𝜀𝑦 .
𝜀𝑥 = − 𝜀𝑦

Questo è il fenomeno per cui se schiacciamo un materiale, esso spancia nell’altro verso, detto effetto
Poisson; è lo stesso che si ha quando tiriamo un materiale ed esso si contrae nell’altra direzione. La ε
trasversale è proporzionale a quella assiale tramite un coefficiente il coefficiente di Poisson; il segno
– è dovuto al fatto che se lo schiacciamo, cioè lo facciamo contrarre, esso trasversalmente si espande,
quindi ha un verso opposto; analogamente se lo tiriamo, e quindi lo allunghiamo, trasversalmente si
contrae.
-1≤≤0.5, ma per noi 0≤≤0.5:
sommando 𝜀𝑥 , 𝜀𝑦 ed 𝜀𝑧 si ottiene la deformazione dell’intero volume; se consideriamo la conservazione
del volume, cioè l’incompressibilità (o incomprimibilità), si può dimostrare che quindi
vuol dire incomprimibilità, e se lo accorcio di 1 spancia da tutti i lati di 0.5 (della metà),
conservando il suo volume. Se fosse maggiore di 0.5 allora il suo volume aumenterebbe, e questo può
sembrare strano ma succede con la meccanica della frattura, perché quando un corpo frattura si aprono
delle fessure all’interno, e c’è aria che occupa un certo volume; il materiale occuperebbe comunque lo
stesso volume, ma con l’aria spancia molto di più, può arrivare anche a 2 e oltre; se sto schiacciando ed
esplode, può anche spanciare il doppio di quanto lo sto accorciando, ma non perché il volume è
aumentato, ma perché è pieno d’aria; in questo caso però non siamo più in meccanica del continuo,
perché il continuo si assume che non fratturi. Per noi il minimo è 0, cioè nella peggiore delle ipotesi,
schiacciandolo, scende senza spanciare.
-1 (in generale <0) vorrebbe dire che se lo comprimo, cioè lo accorcio, si contrae
pure; se lo tiro, cioè lo allungo, si espande pure; questo è possibile ma si tratta di
materiali ingegnerizzati, come gli stent, con una struttura del tipo a fisarmonica (fig.
17).
Noi però non ci occupiamo di questi materiali, quindi per noi 0≤≤0.5.
Quindi la situazione si complica: se avessimo una  in un’altra direzione, diviso la sua E mi genera
un’altra ε, ed essendo in un altro verso, nel mio verso mi trovo -per l’effetto Poisson:

𝑥 𝑦 𝑧
𝜀𝑥 = − 𝑥𝑦 − 𝑥𝑧
𝐸𝑥 𝐸𝑦 𝐸𝑧

Mettiamo gli indici perché in teoria in ogni direzione possiamo avere una risposta diversa; se il
materiale è isotropo, cioè le proprietà non dipendono dalle direzioni, possiamo scrivere:
𝑥 𝑦 𝑧
𝜀𝑥 = − −
𝐸 𝐸 𝐸
E con la rotazione degli indici scriviamo, ad es:

𝑦 𝑥 𝑧
𝜀𝑦 = − −
𝐸 𝐸 𝐸

Queste sono le relazioni tra le sigma e le epsilon.

A questo punto consideriamo un volumetto soggetto a delle sigma (fig. 18): esso si accorcia ed
eventualmente si espande; invece se è soggetto a delle tau (fig. 9), ci aspettiamo che il suo volume non
cambi, ma che cambino gli angoli che i piani formano tra loro, e quindi volendo linearizzare (cioè
rimettendolo dritto per comodità) possiamo immaginare che nasca un γ; vogliamo trovare la relazione
tra le τ e le γ, dove le γ sono variazioni di angolo; le  generano variazioni di volume; le τ generano
variazioni di forma, cioè degli angoli delle facce: hanno due effetti molto diversi. Questo vale per i
solidi ordinari, ma esistono anche materiali ingegnerizzati che si comportano in maniera diversa da
quello che ci aspettiamo.
τ=G γ dove G è il modulo di taglio (o modulo elastico tagliante).

Consideriamo un volume elementare, e manteniamo fisso il punto coincidente con l’origine. Possiamo
avere gli spostamenti indicati in figura.

Iniziamo considerando il volumetto soggetto solo a delle 


Se il punto a sx si è spostato di u, il punto a destra si è spostato di u+una variazione, perché se non c’è
variazione il corpo è rimasto rigido; pertanto è inutile scrivere u+variazione, e scriviamo solo la
𝑑𝑢
variazione: muovendomi lungo x, la u è cambiata lungo x, e la variazione è 𝑑𝑥; analogamente si può
𝑑𝑥

avere una variazione nelle altre direzioni: muovendomi lungo y, la v è cambiata lungo y, e la variazione
𝑑𝑣
è 𝑑𝑦; in questo modo abbiamo ottenuto delle ε, cioè il volumetto ha cambiato solo volume ma non
𝑑𝑦

forma, perché lo immaginiamo soggetto solo a delle e quindi u è costante lungo y (cioè lo
spostamento lungo x è costante lungo y, cioè tutti i punti si spostano della stessa quantità verso destra)
e v è costante lungo x (cioè tutti i punti si alzano della stessa quantità)
se invece gli applichiamo delle τ (in blu), avremo non solo una variazione di u lungo x (la ε), ma anche
lungo y: mano a mano che saliamo lungo y, lo spostamento orizzontale u non è costante, e lo stesso
vale per lo spostamento verticale v, che varia non solo lungo y ma anche lungo x. in questo caso perciò
si ha una rotazione, non si sposta tutto in maniera “piana”.
Se u varia lungo x genera una ε, se varia lungo y (o z) genera una γ; analogamente, se v varia lungo y
genera una ε, se varia lungo x (o z) genera una γ. Quindi questa variazione di angolo è data da:

𝑑𝑢 𝑑𝑣
𝑥𝑦 = 𝑑𝑦 + 𝑑𝑥 (𝑑𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝜀𝑥𝑦 )  : deformazioni angolari o taglianti

Anche per le γ, come per le τ, vale la simmetria per la quale si possono scambiare gli indici; infatti:

𝑑𝑣 𝑑𝑢
𝑦𝑥 = + = 𝑥𝑦
𝑑𝑥 𝑑𝑦

Mentre:

𝑑𝑢 𝑑𝑣
𝜀𝑥 = 𝑑𝑥 𝑒 𝜀𝑦 = 𝑑𝑦 𝜀: 𝑑𝑒𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑎𝑠𝑠𝑖𝑎𝑙𝑖 o normai

Cioè la deformazione assiale (𝜀) è la componente di spostamento diviso il suo verso, cioè come varia
nel suo verso (si allunga e si accorcia); invece la distorsione angolare  , cioè come cambia forma
il volumetto, come cambia l’angolo, dipende da come varia la u nell’altra direzione (y) e la v
nell'altra direzione (x).
C’è un parallelismo con gli stress:  𝑒𝑑 𝜀 sono STRAIN (il “tensio” della legge di Hooke, che non sta
per tensione ma per deformazione). Strain è valutata sugli spostamenti, cioè componente deformativa,
mentre l’altra è stress, le tensioni, le forze per unità di superficie (. Come possiamo metterli in
relazione: il mondo della cinematica deve collegarsi con il mondo della statica, vogliamo capire la
relazione tra forza e spostamento.
strain*costante elastica=stress, cioè:
[𝐸] ∙ (𝜀) = ()  (𝜀) = [𝐸]−1 ∙ ()

Vettore delle 𝜀: abbiamo 3 𝜀 omologhe alle , mentre alle 𝜏 accoppiamo le γ.


𝜀𝑥 1/𝐸 −/𝐸 −/𝐸 0 0 0 𝑥
𝜀𝑦 −/𝐸 1/𝐸 −/𝐸 0 0 0 𝑦
𝜀𝑧 −/𝐸 −/𝐸 1/𝐸 0 0 0 𝑧
𝑥𝑦 = 0 0 0 1/𝐺 0 0
∙ 𝜏
𝑥𝑦
𝑥𝑧 0 0 0 0 1/𝐺 0 𝜏 𝑥𝑧

( 𝑦𝑧 ) [ 0 0 0 0 0 1/𝐺] ( 𝜏 𝑦𝑧 )

La matrice E poteva essere 9*9, costituita da 81 costanti, cioè un materiale è caratterizzato da 81


numeri; ma in realtà c’è la simmetria maggiore delle 𝜏, pertanto abbiamo una matrice 6*6, costituita da
36 costanti; poi ci sono anche simmetrie minori, che si scoprono facendo dei ragionamenti sull’effetto
Poisson, per cui al massimo si hanno 21 costanti. Possiamo immaginare, ad esempio:
-materiali ortotropi: ha proprietà che dipendono solo da 3 piani;
-materiali trasversalmente isotropi: le proprietà sono uguali in tutti i piani normali ad una direzione,
quindi ha una direzione preferenziale e un piano ortogonale: lungo una direzione hanno un
comportamento, e nella direzione ortogonale hanno comportamento diverso; hanno 9 costanti; ad es.
acciaio estruso, materiali fibro-rinforzati a fibra lunga, come vetroresina, carboresina; come es. di
macromateriale abbiamo la muratura, costituita da malta (isotropa) e mattoni
(se prodotti tramite estrusione: non isotropi; se in pietra naturale come il tufo:
si possono considerare isotropi); andando a metterli insieme come sequenza
di mattoni e malta, avrà un comportamento non più isotropo, perché troverò
dei giunti messi in modo diverso, e diventa ortotropo.

Il calcestruzzo invece è omogeneo su scala molto grande, cioè per una struttura è omogeneo (ma è
costituito da inerti, sabbia, additivi, aria, ecc.) e quindi isotropo.
I materiali ordinari non hanno 36 costanti ma non più della metà, perché se facciamo un
partizionamento nella matrice, nel blocco superiore destro (3x3) abbiamo i coefficienti che
moltiplicano le τ per ottenere le ε; il blocco inferiore sinistro (3x3) è costituito dai coefficienti che
moltiplicano le per ottenere i γ. Ma se applichiamo una non ci aspettiamo che il materiale abbia
una γ, e se applichiamo una τ, non ci aspettiamo che il materiale abbia una ε: se consideriamo questi
moti incompatibili, tali blocchi sono costituiti da elementi tutti uguali a zero, e cioè stiamo dicendo che
le  non hanno alcun nesso con leγ e le τ non hanno alcun nesso con le ε; questo vale per i materiali
ordinari, ma è possibile costruire appositamente materiali che si comportano diversamente.
Noi abbiamo già introdotto 3 coefficienti: G, E, 
Un corpo isotropo ha 2 costanti, però per rispondere ad una serie di leggi, queste 3 costanti non sono
indipendenti:
𝐸
𝐺=
2(1 + )

cioè note 2 costanti, si può ricavare la terza, cioè solo 2 delle 3 sono indipendenti (non posso fissarle
tutte e tre, ma solo 2); inoltre essendo 0≤≤0.5, avremo che

𝐸 𝐸
≤G≤
2 3

Quindi un materiale isotropo è quello con meno costanti, perché in ogni direzione ha le stesse proprietà,
quindi non servono gli indici, e inoltre solo 2 su queste 3 costanti sono indipendenti.
Completiamo la matrice: per il blocco superiore sinistro,
𝑥
𝜀𝑥 =
𝐸

e nel caso di materiale non isotropo dobbiamo scrivere Ex; quindi sulla diagonale principale avremo
1/E, e si riferiscono a quelle dirette; per gli altri termini di tale blocco avremo -/E per l’effetto
Poisson, e si riferiscono a quelle incrociate.
Per il blocco inferiore destro, abbiamo 1/G sulla diagonale principale e 0 altrove, cioè tra τ e  c’è di
mezzo 1/G.
Quindi (per un materiale isotropo) i coefficienti non nulli sono 12, ma in realtà si riducono a 3, anzi il
materiale si caratterizza attraverso sole 2 costanti (poiché da queste 2 è possibile ricavare la terza), in
genere E e , che sono le più facili da valutare: facciamo una prova per misurare quanto spancia, e una
per misurare il rapporto tra forza e spostamento (mentre la prova di taglio per misurare G è già più
complicata).
Consideriamo le seguenti condizioni:
 Se ragioniamo solo nel piano, consideriamo una lastra di vetro, un muro; possiamo immaginare che le
sollecitazioni trasversali (cioè quelle fuori piano, in direzione z) siano nulle, cioè che tutto agisce nel
piano; quindi potremmo dire che z=0 e tutte le tau che hanno una componente lungo z sono nulle.

z=0 questa condizione si chiama

τxz= τyz=0 STATO PIANO DI TENSIONE

E’ uno stato tipico delle lastre, delle pareti che sono caricate nel proprio piano ma non fuori piano. Da
questo scopriamo che anche se ad es. la z è nulla, la εz non è nulla, ed è data da:

𝜀𝑧 = − (𝑥 + 𝑦 )
𝐸

Quindi se carichiamo la lastra nel suo piano, non nascono sollecitazioni fuori piano, ma ho
deformazioni fuori piano (spancia, è proprio l’effetto Poisson).

 Caso in cui ad es. 𝜀𝑧 è nulla, e di conseguenza non abbiamo alcuna deformazione fuori dal piano xy:

εz=0
γxz=0 STATO PIANO DI DEFORMAZIONE

γyz=0

Si ha ad esempio quando siamo in una galleria o in un solido molto lungo: sull’asse di simmetria c’è
uno stato piano di deformazione, che vuol dire che il corpo non si deforma né in una direzione, né
nell’altra, cioè quel piano sta fermo, non ha motivo di muoversi verso destra o sinistra; in questi casi
accade che, anche se εz è nulla, z non è nulla. Ad esempio consideriamo una galleria e facciamo una
fetta; il piano che abbiamo tagliato non ha delle ε perché resta fermo, non va né avanti né dietro per
simmetria, ma nasceranno delle z molto forti, perché avremo:
𝑧 
− (𝑥 + 𝑦 ) = 0  𝑧 =  (𝑥 + 𝑦 )
𝐸 𝐸
Quindi in quel piano nasceranno tensioni che sono  volte (𝑥 + 𝑦 ), e cioè sono tra 0 ed il 50% di
tutte quelle che agiscono nel piano, proprio perché il solido vorrebbe spanciare, ma è contrastato;
questo si chiama anche confinamento: ogni volta che impediamo un’espansione, stiamo facendo
nascere delle tensioni per impedirlo; queste sono proprio le tensioni vincolari che servono a garantire
quella congruenza.
Si tratta di condizioni molto particolari che vedremo meglio nel seguito.
Quindi se delle componenti di tensione fuori piano sono nulle, si ha uno stato piano di tensione (o di
sollecitazione); se invece abbiamo deformazioni fuori piano nulle, ad esempio su un asse di simmetria,
abbiamo uno stato piano di deformazione; e questi due stati non coincidono, si autoescludono: se
impedisco una  , nasce una ε; se impedisco una ε, nasce una . Questo a meno che non sia  = 0,
perché in questo caso il materiale non ha comportamento trasversale, e quindi se gli impedisco una
tensione non si sposta nemmeno, altrimenti per compensare tutto avrà queste deformazioni. Uno stato
piano di tensione impedisce uno stato piano di deformazione (e viceversa) a meno che non sia  nullo.

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