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La colonna sonora di un film è composta di rumori, musiche e voci.

In una prima fase della storia del


cinema, la componente sonora era limitata alla musica d’accompagnamento, eseguita dal vivo. Solo alla
fine degli anni Venti, con la diffusione della registrazione magnetica – prima su dischi, poi su pellicola –, il
sonoro si sincronizza all’immagine: si conclude così l’epoca del cinema muto.

L’inquadratura è l’unità minima di informazione audiovisiva del discorso cinematografico delimitata da due
stacchi di montaggio. due diverse interpretazioni del funzionamento dell'inquadratura, una corrisponde a
guardare attraverso qualcosa, con l'illusione di un accesso visivo e totale e immediato nei confronti della
realtà (finestra, teorie realiste), l'altra di un guardare all'interno di qualcosa, indirizzando l'attenzione sui
processi di "messa in forma" della realtà (cornice, teorie costruttiviste). Caratteristiche: campo e piano.
Possibili punti di vista: oggettivo e soggettivo. tipi di posizioni che concernono l’atto dello spettacolo; una
posizione attiva, ossia la posizione di chi guarda lo spettacolo, proprio all’uomo, lo sguardo maschile che
guarda senza essere visto. E la posizione passiva, di chi è guardato ed è parte dello spettacolo: le donne
messe in scena che sono immagini, e l’uomo come portatore dello sguardo.

La grandezza scalare esprime l’ampiezza dell’inquadratura, ed è determinata dalla distanza della macchina
da presa dal soggetto. Per ordinare le inquadrature in base alla grandezza scalare si utilizza la scala dei
campi e dei piani. Nei campi la figura umana perde centralità a favore dell’ambiente. A partire dalla
distanza maggiore dal soggetto si individuano: il Campo Lunghissimo e il Campo Lungo, in cui la figura
umana, se presente, occupa una posizioni periferica, a tutto vantaggio dell’esplorazione e della descrizione
dell’ambiente, oppure è presente come moltitudine; il Campo Medio, in cui lo spazio continua sì a prevalere
sul personaggio, ma quest’ultimo acquista maggiore visibilità; il Totale, un’inquadratura che consente di
cogliere contemporaneamente i personaggi e il luogo in cui si svolge l’azione, di solito uno spazio chiuso. Si
definiscono piani le grandezze scalari misurate sul rapporto tra la figura umana e la cornice
dell’inquadratura. A partire dalla distanza maggiore, si hanno: la Figura Intera, in cui il personaggio è ripreso
dalla testa ai piedi; il Piano Americano, in cui il personaggio è ripreso dalle ginocchia in su; la Mezza Figura
che, tagliando il corpo all’altezza dei fianchi, focalizza l’attenzione sull’azione e i movimenti del
personaggio; il Primo Piano e il Primissimo Piano, in cui il volto occupa un’ampia porzione di inquadratura.
Queste ultime soluzioni “avvicinano” attore e spettatore, e il loro utilizzo è quasi inevitabile nel caso in cui
un film voglia lavorare sulle emozioni dei personaggi. Il Particolare, infine, è un’inquadratura che mostra
una porzione del corpo umano (la bocca, un occhio, una mano ecc.); se il particolare appartiene a un
animale o a un oggetto prende il nome di Dettaglio. Es. Rosetta (Jean-Pierre e Luc Dardenne, 1999) Il film
dei fratelli Dardenne è caratterizzato da un utilizzo insistito del primo piano. In questo modo, il film, da un
lato, “chiude” la vicenda sul personaggio per restituirne, anche visivamente, l’isolamento e lo smarrimento;
dall’altro lato, questa strategia di ripresa stabilisce una vicinanza “fisica” tra la protagonista e lo spettatore,
favorendo una partecipazione empatica da parte di quest’ultimo.

Campo visivo e campo sonoro: Il suono filmico non può essere pensato al di fuori del suo rapporto
referenziale con l’immagine, alla quale lo spettatore tende in tutti i casi a riportarlo. La sua identificazione e
la sua collocazione avvengono dunque a partire dal campo visivo. Anche per questo, l’analisi degli elementi
sonori di un film si è sviluppata, storicamente, a partire da due criteri: da un lato, quello del loro
posizionamento rispetto al mondo del racconto, che porta a distinguere tra suoni interni, diegetici, e suoni
esterni, extradiegetici; dall’altro lato, quello della visibilità della fonte, che può variare tra in, off, over. Si ha
un suono in quando la rappresentazione mostra la fonte di emissione Contemporaneamente al suono. Esso
è dunque diegetico. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) Contrariamente alla consuetudine di montare i
campi e i controcampi di due personaggi in conversazione sincronizzando la voce di chi parla con
l’inquadratura di chi ascolta, questo dialogo tra Vincent Vega e Mia Wallace mantiene le voci
rigorosamente in: le parole, infatti, sono sempre pronunciate quando il personaggio è inquadrato. Si ha un
suono off quando la rappresentazione non mostra la fonte di emissione contemporaneamente al suono.
Esso resta tuttavia diegetico, collocato nel tempo dell’azione e in uno spazio contiguo a quello che
accompagna l’ascolto. Un suono over proviene da una fonte invisibile e da un altro tempo e/o da un altro
spazio rispetto a quello dell’azione mostrata nell’immagine. Esso, dunque, non appartiene al mondo del
racconto, e per questo si definisce extradiegetico. In/off quando la voce di chi parla si àncora
all’inquadratura di chi ascolta, o quando un’inquadratura in movimento esclude una fonte di emissione,
mostrata in precedenza, mantenendo in campo il suono che essa produce. Colazione da Tiffany (Breakfast
at Tiffany’s, Blake Edwards, 1961) Lo scrittore Paul Varjak viene distratto dalle note di una canzone, la
celebre Moon River, composta appositamente per il film. Nessun dubbio sul fatto che si tratti di una musica
diegetica in posizione off: Paul, infatti, dà segno di udirla, e per questo si alza dalla sedia e apre la finestra
per scoprire l’origine di quei suoni – la sua eccentrica vicina di casa, Holly Golightly. In/over
L’attraversamento della frontiera in/over coincide con un movimento dell’elemento sonoro dal mondo del
“fuori-tempo e del fuori-luogo” a quello del qui e ora del racconto (e viceversa). Over/off I movimenti alla
frontiera tra over e off si rivelano problematici: sono quelli che, minano un chiaro ancoraggio del suono al
campo visivo, lavorando al confine tra un’assenza fattuale (quella della posizione over) e una visiva (quella
della posizione off).

piano sequenza si indica un’inquadratura prolungata, fissa o in movimento, priva di stacchi di montaggio, la
cui ampiezza narrativa è pari a quella di una scena (o, comunque, di una porzione piuttosto estesa e
autonoma di racconto). Quest’ultima specificazione appare importante soprattutto per distinguere il piano
sequenza dal più generico long take, ossia un’inquadratura prolungata ma, appunto, non compiuta dal
punto di vista narrativo. Il piano sequenza è un singolo piano, fisso o mobile, che in virtù della sua durata e
della sua autonomia narrativa costituisce l'equivalente di una sequenza, e mira attraverso il rifiuto degli
stacchi di montaggio, a una restituzione integrale della realtà. La continuità percettiva del piano sequenza
produce un effetto di realtà. Il piano sequenza neorealista si rivela la "misura" di osservazione e di ascolto,
prima ancora che di narrazione. Mentre il piano sequenza wellesiano mira a progettare una visione
continua, quello neorealista si prefigge piuttosto di esaltare una continuità percettiva. Tre tendenze
principali: La prima interpreta il piano sequenza come una strategia di rinnovamento del racconto e del suo
coefficiente funzionale. La seconda tendenza coincide con l'idea che il piano frequenza si confronti con il
"tempo delle cose". Il piano sequenza si trasforma in una specie di "effetto speciale". Tendenza opposta a
quella che utilizza i piani sequenza unicamente con lo scopo di una "presa" integrale e prolungata di eventi
che si dispiegano nella loro effettiva durata.

narratore, la cui identità è definita sia dal livello narrativo in cui si colloca (intra o extradiegetico), sia dal
rapporto che intrattiene con la storia narrata (omo o eterodiegetico). Livello narrativo e rapporto con la
storia si intrecciano, dando luogo a quattro tipologie: extradiegetico (è una figura narrativa caratterizzata dal
correlare gli eventi a livello esterno, prendendo le distanze dai fatti. Zelig (Woody Allen, 1983) Il film è una sorta di
mockumentary (“falso documentario”) che ripercorre la vita di Leonard Zelig, un uomo che per il suo trasformismo
patologico diventa un vero e proprio fenomeno negli Stati Uniti degli anni Trenta del Novecento. Nell'esempio, la voce
over, dall’evidente impostazione documentaristica, ricostruisce una vicenda con la quale non intrattiene alcun
rapporto diretto) intradiegetico: quando l’istanza narrante si presentifica all’interno della storia che racconta,
situandosi allo stesso livello spazio-temporale del racconto di primo livello. Il narratore intradiegetico si specifica in
omodiegetico se è anche un personaggio della vicenda, in eterodiegetico nel caso in cui sia un testimone esterno. Io e
Annie (Annie Hall, Woody Allen, 1977) Il protagonista del film, il comico Alvy Singer, si presenta allo spettatore
guardando direttamente verso la macchina da presa (e cioè, verso di lui): Alvy è dunque l’istanza narrante che, dal
primo livello del racconto, espone in prima persona la propria storia. Il narratore è il primo e unico responsabile
della narrazione, e in quanto tale può "prendere parola". "teoria dell'enunciazione": un film appare come
una produzione e un passaggio in cui il soggetto dell'enunciazione inscrive un progetto narrativo e
un'intenzionalità comunicativa. La teoria dell'enunciazione cinematografica ha condotto a svincolare l'idea
di soggettività da quella di soggetto. -Enunciazione discorsiva: uso del presente e della prima o seconda
persona. -Enunciazione storica: uso del passato remoto e della terza persona singolare in cui sembra che gli
avvenimenti si raccontano da soli. L'enunciazione cinematografica è sempre metadiscorsiva, ci informa su
un testo che porta in sé la sua origine e la sua destinazione, una sorta di sdoppiamento in cui il film ci parla
di se stesso, del cinema, o dello spettatore. Un film può essere raccontato da un narratore estraneo ai fatti
oppure coinvolto in essi, ovvero da un narratore esterno oppure da un narrator interno. Il lavoro
cinematografico è diviso in tre momenti: pre-produzione: scrittura della sceneggiatura, ricerca di
sopralluoghi, definizione del cast, stesura del budget e del piano di lavorazione ecc. produzione:
costruzione del set, riprese e inquadrature ecc. post-produzione: montaggio, sviluppo, stampa della
pellicola, creazione del pacchetto di dati per la proiezione digitale.

Il termine narrazione possiede due significati principali:- un Processo "azione del narrare"; -un Prodotto
"singolo racconto fissato in una forma definitiva". Studiare la narrazione può significare molte cose diverse
a seconda del livello a cui si colloca l'analisi o l'aspetto che si intende portare in primo piano; a questo
proposito e nata negli anni sessante del Novecento una disciplina critico- letteraria detta "narratologia" che
studia i racconti e le forme e le strutture della narrazione. Narratologia tematica o del contenuto= si
occupa dei contenuti narrativi, puntando l'attenzione sulla narratività. Narratologia modale o
dell'espressione= guarda al racconto come un processo d'azione, puntando l'attenzione su come un
linguaggio dà vita e organizza una narrazione, e insistendo sui processi enunciativi e comunicativi.

Attore virtuale: Oggi, grazie alla motion capture e alla computer grafica, è possibile partire dal corpo e dalla
recitazione dell’attore, “acquisiti” digitalmente fin nei minimi dettagli (dai movimenti muscolari a quelli
oculari), per produrre personaggi virtuali, al tempo stesso immaginari e antropomorfi.

MONTAGGIO: momento fondamentale della fase di post-produzione. Consiste in un processo di analisi,


selezione e assemblaggio del materiale realizzato durante le riprese, mentre dal punto di vista creativo lo si
definisce come terza e ultima fase di scrittura del film. Costituisce la tappa decisiva. Montare significa
creare delle relazioni tra gli elementi, scoprire il film: la sua forma, il suo tono, il suo ritmo e il suo
significato definitivo. Esso trasforma una condizione naturale in un processo creativo. Possiamo isolare due
tendenze di montaggio: basate sulla logica di continuità e discontinuità. Il montaggio valorizza la frattura tra
le immagini , il loro scontro e la loro dissomiglianza. Tanto il cinema della continuità quanto quello della
discontinuità guardano alla fase della messa in serie delle inquadrature come a un processo che dà forma e
fa funzionare il film. Alla metà degli anni 10 del 900 il cinema hollywoodiano e le avanguardie scoprono che
il senso di un film non risiede nelle singole immagini ma ha origine dal loro accostamento. Abbiamo da un
lato l’idea che il montaggio rappresenti l’essenza del cinema, dall’altro lato l’idea che il montaggio
rappresenti la realizzazione di un più generale principio artistico, al punto di fare del cinema il mezzo
d’espressione più complesso e moderno. La prima prospettiva è chiamata montaggio sovrano: l’idea di
base è che l’immagine fotografica rappresentata dalla singola inquadratura, sia il punto di partenza di un
più complesso processo creativo. Il montaggio è il momento creativo x cui, da una foto inanimata, nasce la
viva forma cinematografica. Esperimento di Kulesov: proiettò una sequenza di una stessa immagine,
raffigurante il primo piano di un attore russo, seguita dalle inquadrature di una minestra, di un cadavere
composto in una bara e di una bimba che gioca. Al termine, gli spettatori attribuiscono all’uomo tre
sentimenti diversi: fame, dolore e tenerezza (sentimenti che non esistono nell’inquadratura dell’attore ma
che nascono solo grazie alla successione delle inquadrature). Il lavoro del montatore consiste
nell'individuare il momento “giusto” in cui muovere da un’inquadratura alla successiva, e ciò comporta
un’analisi attenta delle riprese, dato che i fattori in gioco, sono molteplici: angolazione della macchina da
presa, elementi scenografici, condizioni di luce, linea dello sguardo degli attori, sonoro, direzione dei
movimenti ecc. Una volta individuato il match- point, vale a dire un elemento presente in entrambe le
inquadrature da unire, il montatore taglia (match-cut) e procede all’assemblaggio. Il montaggio continuo
cerca di creare una successione motivata di elementi; il montaggio narrativo volto a trasformare una
successione di immagini in una catena di causa-effetto con la conseguenza di attribuirgli un ordine
temporale e una cronologia. Il montaggio alternato e il montaggio parallelo il "semplice" movimento in
avanti e indietro stabilito da più linee narrative consente , rispettivamente di stabilire un rapporto di
simultaneità tra azioni ambientate in spazi ravvicinati e tra azioni ambientate in spazi lontani tra loro. il
montaggio alternato indica l’avvicendamento di inquadrature relative a due o più linee narrative che si
sviluppano nello stesso tempo ma in luoghi diversi, e che sono destinate a convergere. Inception
(Christopher Nolan, 2010) le linee narrative della realtà e dei diversi “sogni dentro i sogni” sono spesso
intrecciate per mezzo del montaggio alternato: le azioni si svolgono contemporaneamente, in luoghi
diversi, influenzandosi a vicenda. La nozione di montaggio intellettuale, indissolubilmente legata al nome
del regista russo Sergej Ejzenštejn, rimanda a modalità di associazione finalizzate a “costruire” un’idea o un
concetto. Le inquadrature, dunque, non si legano sulla base di un principio di continuità (di analogia)
narrativa o iconica, ma rappresentano le “cellule” di un incontro/scontro dal quale scaturiscono un
pensiero e un’emozione ben precisi. Il montaggio del cinema moderno: Tra la fine degli anni Cinquanta e
l’inizio degli anni Sessanta prende forma un movimento: Nouvelle Vague. Ad accomunare i tanti autori
riferibili è la ricerca di una scrittura personale, soggettiva, inventiva. Per questa ragione, il montaggio
moderno si caratterizza molto spesso per un rifiuto delle regole del découpage e, in particolare, per una
tendenza a rendere gli stacchi bruschi ed evidenti e a decostruire la fluidità del racconto. Il montaggio
interno: in questo caso, i processi di scomposizione, selezione e articolazione si basano sulla valorizzazione
di risorse filmiche come i movimenti di macchina, l’organizzazione plastica, scenografica e fotografica della
scena, la messa a fuoco e la post- produzione digitale. Il montaggio parallelo indica l’alternarsi di due o più
linee narrative che non sono destinate a convergere. mira a creare delle relazioni di tipo simbolico – dei
“parallelismi”. Montaggio plastico: rovesciamento di prospettiva, tale per cui il livello figurativo
dell'immagine appare trascinato da quello plastico, formale e astratto, con la conseguenza di produrre
associazioni talvolta spiazzanti e rivelatorie. Per Ejzenstejn i fattori plastici concorrerebbero a caratterizzare
il tono, visivo ed emotivo, delle immagini. Montaggio delle attrazioni: idea di suscitare reazioni emotive
nello spettatore.

Come si chiama il montaggio del suono? Pixaggio: Nella tecnologia digitale la ripresa avviene grazie a
sensori presenti nella videocamera, che scompongono l’immagine in pixel e la trasmettono come impulso
elettrico digitale a supporti di memorizzazione ottico-magnetici. I rapporti proporzionali tra base e altezza
dell’immagine sono dunque convertiti in numero di pixel (o, se si vuole, in quantità di informazioni), dando
vita a diverse risoluzioni

Grammatica filmica Greimas propone un approccio "essenzialista" spostando l'attenzione sulla narratività
cercando di chiarire cosa accomuna tutti i tipi di racconto e che cosa permette loro di significare. Un testo
viene pensato come una struttura a 4 livelli dal più profondo al più superficiale: -la grammatica
fondamentale, -la grammatica narrativa, -la struttura discorsiva, -manifestazione testuale. é nel secondo
livello che il percorso generativo si "veste" narrativamente grazie agli attanti, in tutto sei raggruppati in tre
coppie: Soggetto e Oggetto di valor), Destinante e destinatario, Aiutante e opponente. Nella teoria
greimasiana il programma narrativo-tipo prevede una prima fase detta "manipolazione", in cui inizialmente
il Soggetto non sia in congiunzione con l'Oggetto. La fase successiva "competenza" prevede che il soggetto
affronti una prima delle tre prove che deve affrontare, detta qualificante, che gli permette di acquisire
conoscenze o poteri necessari a ricongiungersi con l'Oggetto di valore. Segue la fase detta "performanza" in
cui il soggetto agisce per trasformare una serie di stati attraverso la prova decisiva che consiste in una lotta
contro L'Antisoggetto. Chiude il percorso narrativo la fase della "sanzione", in cui il Destinante giudica il
Soggetto e le sue azioni. La Sanzione può essere: -pragmatica: il Destinante giudica la performance del
Soggetto e il giudizio può portare ad una ricompensa o ad una punizione. -cognitiva: il Destinatario non
giudica l'azione, ma l'essere del soggetto che equivale al riconoscimento del suo statuto eroico. Graimes
interpreta la narrazione come "strumento" essenziale dell'uomo grazie al quale egli dà senso al mondo e
alle proprie esperienze

La nozione di ruolo (non sovrapponibile a quella di personaggio) rimanda sia ad una figura particolare ("il
ruolo di Anna Karenina") sia ad un insieme di tratti codificati in termini di azione, comportamento,
abbigliamento, e appartenenza ad un determinato universo diegetico. Star as celebrity rimanda a qualcuno
la cui notorietà deriva da ciò che accade al di fuori della sfera lavorativa, e cioè in termini di lifestyle. Star as
performer identifica un attore e un'attrice definiti in primo luogo del proprio lavoro, e la cui fama è dunque
alimentata dalle performance. L’utilizzo di attori e attrici non professionisti può avvenire per esigenze
molto diverse. In alcuni casi, essi sono impiegati per portare sullo schermo una maggiore verità sociale e
antropologica; in altri casi, invece, la scelta può rispondere alla volontà di affidarsi – anche per un ruolo
principale – a interpreti che, proprio perché non “del mestiere”, possono rappresentare un personaggio in
modo più immediato, spontaneo, vitale.

Con il termine di meta-recitazione, ci si riferisce a una tendenza, suscettibile di assumere forme molto
diverse, in cui l’atto recitativo non appare assorbito nell’interpretazione ma, al contrario, esposto, tra
stilizzazione, simulazione e consapevolezza, quasi che l’attore allontanasse da sé il personaggio.

La nozione di anti-recitazione identifica quelle strategie in cui l’attore non solo non si immedesima con i
personaggi, ma sembra sempre interpretare se stesso o una versione ostentata di sé, riportando il
personaggio verso l’attore per confondere i piani tra realtà e finzione.

La nozione di actorly transformation rimanda a una tendenza che promuove il lavoro sul corpo a emblema
di una ricerca di verità dell’interpretazione. Toro scatenato (Raging Bull, Martin Scorsese, 1980) Per questo
film Robert De Niro ha sottoposto il proprio corpo a una duplice trasformazione: prima è ingrassato di circa
trenta chili per girare le scene che, nel film, occupano la parte finale; poi, attraverso una faticosa
preparazione atletica durata alcuni mesi, ha “ricostruito” la propria muscolatura per somigliare a un boxeur
(il film è ispirato all’autobiografia del pugile Jake LaMotta). De Niro, adepto del Metodo, ha inseguito una
totale immersione nel personaggio anche dal punto di vista comportamentale, psicologico ed emotivo, sia
studiando la quotidianità del pugile italo-americano, sia approfondendo la conoscenza del mondo delle
palestre di pugilato.

Elemento centrale del racconto l’attore è stato storicamente interpretato, e quindi utilizzato, secondo
logiche anche molto diverse tra loro, che ne hanno valorizzato ora il “mestiere”, e quindi l’abilità di dare
vita a un personaggio, ora la capacità di “perdersi” nel ruolo, per disegnare figure complesse e sfaccettate,
ora quella di significare, in modo immediato, una categoria umana. l’attore è usato come colui che
“interpreta se stesso”, e porta sullo schermo una propria verità; nel Secondo (personaggio), prevale l’idea
dell’attore come professionista che interpreta un ruolo, non di rado tipizzato a partire dalle logiche del
cinema di genere.

Tutti i racconti si articolano su uno schema elementare fondato sulla successione e sulla trasformazione, in
cui un evento o più arrivano a compromettere una situazione di equilibrio che solo un secondo evento
potrà ristabilire. Gli eventi solo legati tra loro da una catena di causa-effetto non lasciando nulla al caso e
rendono ben evidenti i legami tra personaggi (coloro che fanno) e azioni, e tra azioni e desideri (ciò che
muove il personaggio all'azione). Un racconto è una sequenza di trasformazioni interdipendenti dotata di
un inizio e di una fine. Il racconto cinematografico è una sequenza due volte temporale: c'è il tempo della
cosa raccontata e il tempo del racconto, e il secondo è sempre una distorsione del primo. Field trae dalla
"Poetica" di Aristotele la suddivisione del racconto in tre atti: principio, mezzo, fine, ribattezzandole in:
Impostazione, Confronto e Risoluzione; raccomandazione di legare queste fasi in modo ordinato e coerente
e di svilupparle in modo che abbiano una lunghezza armoniosa fra loro (circa: 30 min; 60 min; 30 min;).
Lungo l'ossatura degli atti Field colloca -plot point: punti di svolta innescati da uno o più eventi, che
generano a loro volta una sequenza di avvenimenti destinati a condurre la storia in direzioni diverse. -pinch
point: il cui scopo è quello di pinzare il racconto. -mid point: punto di non ritorno della vicenda.

Contesto diegetico: ciò che fa parte del film ed è inserito al suo interno, narratore, sonoro ecc.. il teatro
ricostruisce una storia sulla scena, e il cinema mostra sullo schermo una storia ugualmente ricostruita sul
set. mimesis= imitazione dell'azione (per es. teatro) e diegesis= racconto di un narratore (per es.
letteratura), in entrambi i casi è all'opera un processo di imitazione, ma nel primo caso assume la forma di
una rappresentazione diretta della realtà, mentre nel secondo assume la forma di una narrazione realizzata
attraverso la mediazione della parola, scritta o orale, di un narratore. La narrazione cinematografica è una
mescolanza di mimesis e diegesis, di azione al presente e di manipolazione narrativa. La rappresentazione
cinematografica è un accadere al "presente", ma compare allo spettatore come già avvenuta. Il mondo del
film è sottoposto ad un processo di organizzazione tra sguardo della macchina da presa e tra montaggio che
stabilisce le relazioni tra le inquadrature e un nuovo ambiente visivo e sonoro.

I raccordi spaziali garantiscono una rappresentazione omogenea dell’area in cui si svolge l’azione, e
ruotano attorno alla regola dei 180°: immaginando che il set sia una circonferenza, la si divide a metà,
riservando una semicirconferenza all’azione, l’altra alle tecnologie di ripresa. Questa segmentazione dello
spazio avviene a partire da un’inquadratura di riferimento (un establishing shot che presenta i personaggi e
l’ambiente), la quale definisce, per tutta la durata della scena, la linea d’azione. È dunque fondamentale che
la macchina da presa non scavalchi mai tale linea, pena una perdita di orientamento da parte dello
spettatore. Una seconda regola, dipendente da quella dei 180°, è detta dei 30°, e interessa sia lo spazio, sia
l’asse delle riprese: essa prescrive una differenza di angolazione tra due inquadrature contigue di almeno
30°, poiché uno scarto minore finirebbe per trasformare il taglio in una specie di “salto” temporale. Il
raccordo di posizione, prevede che in due inquadrature contigue i personaggi che, nella prima, si trovano a
destra, mantengano tale posizione nella successiva, anche in presenza di una variazione dell’asse o della
distanza di ripresa. Il raccordo sull’asse articola una variazione della distanza di ripresa del soggetto
(allontanamento o avvicinamento) senza introdurre cambiamenti di angolazione. Lo squalo (Jaws, Steven
Spielberg, 1975) L’avvicinamento al protagonista, Martin Brody, intento a sorvegliare la spiaggia e il mare,
avviene tramite due rapidi stacchi sull’asse: da un campo medio a una mezza figura, da questa a un primo
piano, senza variazioni di angolazione. Il raccordo di direzione di movimento Esso prevede, che se un
personaggio esce da un’inquadratura a destra, deve entrare nella successiva da sinistra (e viceversa). In
caso contrario, lo spettatore avrebbe l’impressione di un improvviso e incomprensibile cambiamento di
direzione di marcia. Nel raccordo di direzione di sguardi, utilizzato in particolare per regolare le scene di
dialogo, la relazione tra le inquadrature è costruita sull’incrocio delle traiettorie degli sguardi. Allo scopo di
creare l’impressione che due personaggi si stiano guardando, il primo deve rivolgere lo sguardo fuori
campo verso sinistra, il secondo fuori campo verso destra. I raccordi di azione si dividono in raccordo di
sguardo e raccordo di movimento. Il raccordo di sguardo disciplina l’atto del guardare e serve a stabilire
una relazione di continuità tra “vedente” e “visto”, così che l’inquadratura che segue l’oggettiva di un
personaggio che punta lo sguardo fuori campo possa essere interpretata come la sua soggettiva. Il raccordo
di movimento unisce due inquadrature diverse di una stessa azione staccando su un movimento che inizia
in un’inquadratura e continua nella successiva; I raccordi sonori creano un effetto di continuità tra le
inquadrature grazie a suoni che si prolungano dall’una all’altra. Infine, il raccordo sonoro è utilizzato per
regolare le scene di dialogo e per ammorbidire i passaggi da un interlocutore all’altro: facendo coincidere lo
stacco con una battuta di dialogo, infatti, il raccordo crea un “ponte sonoro” (sound bridge) tra le
inquadrature.

Al contrario dei raccordi, che mirano a mascherare gli stacchi mentre definiscono un universo diegetico
lineare e continuo, le transizioni marcano un cambiamento di tempo, spazio o azione, chiudendo una fase
del racconto per aprirne un’altra. La dissolvenza è la transizione più comune, e consiste nella progressiva
“sparizione” o “apparizione” di un’inquadratura. Può avere una durata variabile e suggerisce una chiusura
(o un’apertura) e, insieme, un “rallentamento”, ammorbidendo il passaggio da una situazione a un’altra. La
più utilizzata è la dissolvenza al nero, che può ricorrere sia in apertura (fade in), dall’assenza di immagine
all’immagine piena, sia in chiusura (fade out), dall’immagine piena alla sua assenza. La dissolvenza, però,
può anche partire dal/arrivare al bianco e, più raramente, fare ricorso al colore (rosso, blu, giallo ecc.). Nella
dissolvenza incrociata, invece, un’inquadratura non sfuma verso il nero ma scompare a poco a poco
sull’assolvenza di una seconda inquadratura. L’iris Consiste nell’oscuramento circolare progressivo
dell’immagine (iris out) o nella sua apparizione secondo la stessa modalità (iris in), quasi a mimare
l’apertura/chiusura dell’obiettivo della macchina da presa. la tendina consiste nell’avanzamento di una
nuova inquadratura su quella precedente, secondo diverse possibili linee di progressione: dal basso verso
l’alto, da sinistra verso destra (e viceversa) oppure seguendo una delle quattro diagonali del quadro.

SCHERMO: il termine italiano schermo indica in origine ciò che protegge, difende, nasconde, separa e fa
schermo. E’ solo a partire dal XIX secolo, quando lo schermo comincia ad essere associato stabilmente con
le arti dello spettacolo, che esso smette di essere barriera e filtro per diventare invece porta, finestra,
apertura che svela e dischiude, consentendo l’ accesso, attraverso la soglia ben delimitata di una cornice o
di un margine, a uno spazio della rappresentazione che si distingue nettamente dallo spazio circostante. Nel
suo libro Il linguaggio dei nuovi media, Manovich ha tracciato una genealogia dello schermo che va dalla
tela del quadro al monitor del computer e che ha come punto di arrivo la scomparsa dello schermo stesso
con l’ avvento della realtà virtuale. Schermo classico (quadro), dinamico (tv), interattivo (computer), in
tempo reale (videocamere), realtà virtuale.

Salles è il primo di una lunga serie di intellettuali che ci parla del regard, dello sguardo che ha capacità
ricettive. Ogni occhio è, per lui, ossessionato e modella il mondo secondo lo schema del suo cosmo. Lo
sguardo di cui parla Salles è lo sguardo di un amateur delle belle arti, che si concentra su un’arte molto
raffinata. Ma lo scopo di questi studi è di disaccoppiare lo sguardo dal suo legame apparentemente
strutturale con l’occhio. Il disaccoppiamento tra sguardo ed occhio ha consentito di mettere in discussione
la tradizionale opposizione binaria tra soggetto attivo riguardante (spettatore) ed oggetto passivo
riguardato (immagine). L’opera d’arte, se presa in considerazione, è un quasi-soggetto perché intrattiene
col mondo un rapporto analogo a quello che si intrattiene tra esseri umani, empatizzando con sentimenti e
con attività. Un’attenzione particolare è stata rivolta allo studio di ritratti ed autoritratti, che con la
fenomenologia dello sguardo cieco mette in luce il vero e proprio disaccoppiamento tra sguardo e visione. Il
pioniere dello studio sullo sguardo dei dipinti fu Riegl, che ha distinto due unità: - Unità interna, ottenuta
dai volti che si guardano reciprocamente - Unità esterna, lo sguardo si posa sullo spettatore esterno al
quadro. Abbiamo anche un’altra distinzione di Fried, che riguarda termini come absorption e theatricality. Il
primo termine si riferisce ad immagini che si comportano come se lo spettatore non fosse presente, il
secondo invece si riferisce ad immagini che lo apostrofano esplicitamente, coinvolgendolo. Anche Debray
ha parlato di tre regimi dello sguardo: - Il regime dell’idolo caratterizzato dallo sguardo magico e proprio
alla logosfera, ossia epoca della scrittura. - Il regime dell’arte, sguardo estetico e vigente nella grafosfera,
l’epoca della stampa - Il regime visivo, caratterizzato dallo sguardo economico e operativo della videosfera.
I tre regimi operano come articolazioni storiche di quella che viene chiamata iconosfera di un’epoca. Il
concetto di iconosfera designa un sistema complessivo della mediazione iconica e delle interrelazioni di
diversi tipi di immagini fra di loro e fra le immagini e le dimensioni non iconiche del reale.

INTERDISCIPLINARITA: Per campo di studi transdisciplinare si intende un campo di ricerca che non si
concentra solo su una specifica disciplina ma i suoi concetti e paradigmi sono presenti anche in altre
discipline. È un campo di ricerca che non è specifico ma transita da una disciplina all’altra. Possiamo per
esempio parlare della cultura visuale come di una disciplina che può essere vista da un punto di vista
storico, quindi riassumendo la sua storia e quali sono le dati importanti, oppure anche dal punto di vista
antropologico per evidenziare quali cambiamenti ha causato la nascita e lo sviluppo di questa disciplina.
indica un argomento, una materia, una metodologia o un approccio culturale, che abbraccia competenze di
più settori scientifici o di più discipline di studio; culture visuali si legano alla fenomenologia,
psicologia, scienze cognitive.

Fenomenologia: Riflessione di Husserl: per lui bisogna descrivere i caratteri strutturanti della coscienza
d’immagine, in quanto distinta da altre forme di intenzionalità della coscienza. La percezione funge da
punto di partenza, è l’esperienza, la presentazione della cosa in carne ed ossa che esiste davanti ai nostri
occhi. Le altre forme di intenzionalità, secondo lui, sono ri-presentazioni, in quanto: - La memoria mi ri-
presenta un oggetto presente in passato. - L’anticipazione mi presenta un oggetto presente in futuro. -
L’illusione è una distorsione della percezione. - L’allucinazione è una patologica percezione priva di oggetto.
- La fantasia è un ente inventato, non posto come esistente. La coscienza d’immagine si rapporta ad una
presenza, appunto in immagine. È tripartita in cosa iconica (immagine fisica, supporto materiale come tela
o marmo), oggetto iconico (quel che vedo raffigurato nella cosa iconica) e soggetto iconico (referente
esterno).

Il concetto di cultura è un concetto ampio che viene inteso come l’insieme di oggetti, tecniche, pratiche,
identità, significati ed ideologie che caratterizzano un contesto storico preso in considerazione essendo
oggetto di studio. Questa idea di cultura ha però delle conseguenze nello studio di immagini e di visione. -
Le immagini: viene analizzato qualsiasi tipo di immagine che sia culturalmente rilevante. Significa ricostruire
la situazione in cui sono sorte, evidenziando significati, valori, identità e stereotipi e ricostruire tutto il
tessuto di desideri, credenze ed azioni che circondano ogni immagine. - La visione: evidenziare e studiare le
diverse declinazioni e considerarla come tecnicamente, socialmente e storicamente situata.

Mitchell ci parla dello “showing seeing”, ossia dell’esporre ed analizzare l’atto stesso del vedere nelle sue
diverse declinazioni estetiche ed epistemiche, culturali e sociali. Il fenomeno dell’attenzione visiva è un
fenomeno che riguarda la modulazione dello sguardo la cui natura cambia nel tempo a seconda dei
dispositivi che configurano lo sguardo stesso.

La pellicola è un nastro continuo di materiale plastico, costituito da un supporto trasparente e flessibile su


cui è steso uno strato di sostanza sensibile alla luce, l’emulsione (gelatina organica contenente sali
d’argento). Nel corso della storia del cinema la pellicola ha subito profondi cambiamenti, sia per quanto
riguarda i materiali di base, sia per quanto riguarda la capacità di riprodurre lo spettro dei colori e la
sensibilità, vale a dire la “risposta” dell’emulsione alla luce. Una pellicola veloce è più sensibile alla luce, una
lenta richiede una maggiore quantità di luce. A definire la pellicola è anche il suo formato. Lo standard
principale, stabilito fin dalle origini del cinema, è il 35mm con quattro perforazioni su entrambi i lati,
necessarie a garantire uno scorrimento ottimale. formati panoramici, in cui la base dell’immagine si
presenta significativamente maggiore rispetto all’altezza. La standardizzazione ha condotto a due formati
principali: prima l’1:1.66, poi l’1:1.85.

Jonhatan Gottschall condivide questo pensiero e definisce la narrazione come una delle tecnologie più
arcaiche dell'uomo orientata sul problem solving.

Cristopher Vogler propone un modello diviso in tre atti, centrato sul "viaggio dell'eroe", la cui soluzione del
problema è legata a un percorso di maturazione cognitiva, psicologica e morale del soggetto protagonista.
Esso segmenta la narrazione in momenti di tensione e momenti di distensione. Primo atto: viene introdotto
l'eroe e i valori in gioco; è composto da quattro fasi: Mondo ordinario, Richiamo all'avventura, Rifiuto
dell'avventura e Mentore. Secondo atto: il protagonista dovrà confrontarsi con le proprie paure; è
composto da cinque fasi: Prove, nemici, alleati, avvicinamento, Prova suprema (segnata da una crisi
dell'eroe), ricompensa, la via del ritorno. Terzo atto: è il momento del climax in cui il protagonista deve
dimostrare di aver maturato una trasformazione; è composto da due fasi: Resurrezione e Ritorno con l'elisir
(momento in cui l'intreccio si scioglie definitivamente, Vogler distingue due tendenze principali: una
americana in cui tutti i problemi trovano soluzione e la storia si chiude; una europea in cui non tutti i nodi si
sciolgono e il finale appare aperto). Questi modelli definiscono un Regime Narrativo: sistema di scelte
attorno alle quali si aggregano i modi di interpretare e far interagire gli elementi base della narrazione.

Casetti e Di Chion identificano tre modelli dello storytelling cinematografico: narrazione forte, narrazione
debole e anti-narrazione. -Narrazione forte: si basa su una chiarezza di impostazione del mondo diegetico,
su una concatenazione stringente dell'azione e su un'assiologia trasparente. Centrale nel racconto è il
percorso del protagonista. - Anti-narrazione: opposta al regime della narrazione forte è stata oggetto delle
avanguardie storiche e del cinema moderno europeo; si basa su una perdita di centralità dell'azione a tutto
vantaggio del succedersi d'eventi. I valori in gioco si contaminano o si eclissano del tutto, e la struttura
narrativa si frammenta perdendo coerenza e saldezza. -Narrazione debole: caratterizzata da uno sviluppo
eccessivo degli esistenti (personaggi e ambienti) rispetto agli eventi (azioni e avvenimenti), lavora
sull'accadere delle cose piuttosto che sul loro intreccio causale, lasciando ampio spazio ai percorsi
psicologici ed emotivi dei personaggi. Un quarto regime di cui Pulp Fiction di Tarantino rappresenta il
capostipite è la metanarrazione che fa di sé l'oggetto e il terreno elettivo del proprio comunicare, e lo fa
praticando continue interferenze e contaminazioni con modelli precedenti.

L’ellissi: quando uno o più eventi della storia non vengono raccontati. Il più delle volte si limita a cancellare
una parte inessenziale della storia; in altri casi può essere utilizzata dal narratore per nascondere o
rimuovere qualcosa di essenziale, magari allo scopo di creare un effetto di suspense o di sorpresa. si
possono avere delle ellissi esplicite, quando il film dichiara che tra due situazioni è trascorso un certo lasso
di tempo, oppure delle ellissi implicite, vere e proprie “assenze” di cui lo spettatore avverte comunque la
presenza nella forma di una lacuna cronologica. Nel caso delle ellissi esplicite si può ulteriormente
distinguere tra ellissi determinate, quando è indicata precisamente la durata del segmento di storia, e ellissi
indeterminate, quando l’indicazione resta più vaga o generica. Es. Neverland – Un sogno per la vita (Marc
Forster, 2004) In questa scena l’ellissi serve a rimuovere la morte di Sylvia: dall’inquadratura sulla donna
che entra nell’allestimento casalingo dell’“isola che non c’è” si passa all’immagine della sua sepoltura.

Il sommario identifica una compressione della durata reale di una serie di azioni e/o avvenimenti. si ottiene
attraverso un montaggio che presenta evidenti ellissi tra le inquadrature, ed è utilizzato perlopiù per
condensare in pochi secondi o minuti un ampio arco temporale. Es. Gangs of New York, Il finale contiene un
sommario che, collega l’anno della conclusione della vicenda narrata (il 1863) al presente. Grazie a una
serie di dissolvenze incrociate la sequenza “comprime” 140 anni di storia in 50 secondi.

La durata: degli eventi di un racconto è sempre inferiore a quella della storia: in questo modo, un film può
rappresentare sullo schermo vicende che si sviluppano lungo un arco temporale anche molto esteso.

La scena: ci si riferisce a tutti quei casi in cui il tempo del racconto equivale al tempo della storia. Nella
scena l’andamento narrativo di un film mira a costruire continuità, fondata sul rispetto della dinamica
temporale degli eventi, anche in presenza di fenomeni di montaggio. Una coincidenza non linguistica ma
“letterale” tra durata della storia e durata del racconto si ottiene invece ricorrendo al piano-sequenza, la cui
logica, in alcuni casi, può estendersi a tutto il film. Es. Birdman o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza, Il film
di Iñarritu presenta un montaggio che, fa apparire il racconto come un unico piano sequenza di 119 minuti.
Tuttavia, l’idea della perfetta coincidenza tra durata della storia e durata del racconto che ne dovrebbe
derivare è tradita dalla presenza, di alcune ellissi temporali (di diverse ore). Il piano sequenza proposto
nella clip mostra il percorso del protagonista, Riggan Thomson, dal suo camerino al palcoscenico, dove si
stanno svolgendo le prove dello spettacolo di cui è regista e attore.

La dilatazione: identifica tutti quei casi in cui la durata di un evento della storia risulta ampliata nel
racconto. L’espansione della durata può servire, a mostrare meglio un’azione oppure a enfatizzare alcuni
aspetti simbolici del racconto. Es. Sciopero (Sergej Ejzenštejn, 1925) Nella sequenza finale del film la
dilatazione della durata è ottenuta attraverso l’innesto di alcune immagini extradiegetiche: la brutalità del
massacro degli scioperanti da parte dei cosacchi è infatti sottolineata, con evidente intento metaforico,
dalle immagini della macellazione di un bovino.

La pausa: quando il racconto sembra bloccare temporaneamente la progressione degli eventi della storia.
Le pause possono coincidere con un passaggio descrittivo oppure con un momento di contemplazione. si ha
una pausa in tutti quei casi in cui la dimensione descrittiva prende il sopravvento e sembra fermare, anche
solo per una manciata di secondi, il prosieguo dell’azione. Es. L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962) Nel
finale del film si colloca una lunga pausa che assume una doppia valenza di natura contemplativa e
descrittiva. La storia si è ormai conclusa con il tacito e reciproco addio tra Vittoria e Piero, che hanno deciso
di non presentarsi all’appuntamento precedentemente concordato. La macchina da presa prosegue
tuttavia il racconto, indugiando sui luoghi che sono stati teatro della vicenda, descrivendoli con uno stile
che trasmette allo spettatore una sensazione mista di abbandono, solitudine ed estraneità.

Fermo immagine, accelerato e ralenti indicano fenomeni, rispettivamente, di arresto, compressione o


dilatazione della durata. fermo immagine nel quale il fluire degli eventi si congela per lasciare sullo
schermo un fotogramma fisso. Accanto a questa possibilità specificatamente cinematografica va citato il
ralenti e l'accelerato, i quali imprimono, rispettivamente, un rallentamento o un’accelerazione al flusso
degli eventi. FERMO IMMAGINE The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013) Scorsese realizza una
breve pausa tramite due fermo immagine di natura commentativa, sui quali la voce over del protagonista
del film, il broker Jordan Belfort, innesta un flashback e si presenta allo spettatore. ACCELERATO La ricotta
(Pier Paolo Pasolini, 1963) un borgataro romano che interpreta il ruolo di un ladrone, vende il cagnolino che
gli ha appena mangiato il pranzo e con i soldi ottenuti corre a comprare pane e formaggio da un “ricottaro”,
per poi tornare sul set e consumare il pasto. Pasolini propone la scena integralmente, senza tagli temporali,
ma accelerando lo scorrimento (e, dunque, abbreviando la durata): un espediente che serve soprattutto a
rappresentare la “frenesia alimentare” che caratterizza il personaggio. RALENTI The Hurt Locker (Kathryn
Bigelow, 2008) Una squadra di artificieri statunitensi procede allo sminamento di una città irachena;
mentre uno di loro si allontana dall’ordigno che ha appena neutralizzato, i compagni che sorvegliano la
zona individuano un uomo con un cellulare in mano, forse un terrorista che sta per far esplodere una
bomba radiocomandata. La tensione è rappresentata attraverso un montaggio molto rapido, fino al
momento culminante dell’esplosione, presentato in modo contrastante per mezzo di un ralenti. In questo
caso, dunque (ma si tratta dell’uso più comune), il ralenti è impiegato per enfatizzare il valore narrativo o
simbolico di un’azione.

L’ordine del racconto indica la successione temporale in cui sono narrati i fatti della storia all’interno del
racconto. Quando l’ordine di un film rispetta il concatenamento lineare della storia si parla di ordine
cronologico.

Il flashback indica l’innesto di un frammento di passato sul presente, un salto “all’indietro” del racconto.
Nel cinema classico i flashback sono utilizzati principalmente per fornire informazioni utili alla
comprensione della storia o per arricchire la biografia dei personaggi, svolgendo dunque una funzione
completiva. In genere essi sono introdotti da dialoghi o situazioni visive che marcano il passaggio dal tempo
presente al tempo passato. Dal punto di vista della posizione narrativa, il flashback, la cui ampiezza può
variare dal racconto di pochi minuti a quello di molti anni, può essere interno, quando recupera un
momento eliso dalla narrazione, oppure esterno, quando si riferisce a un passato non compreso nel tempo
del racconto. FLASHBACK ESTERNO Casablanca (Michael Curtiz, 1942) Questo lungo flashback (quasi 10
minuti) è introdotto dal primo piano di Rick alla Parigi di qualche anno prima. Si tratta di un flashback
esterno che serve sia a chiarire perché Rick si trova adesso a Casablanca, sia ad approfondire i suoi
sentimenti. Attraverso un sommario vengono presentati alcuni momenti della loro relazione nata allo
scoppio della Seconda guerra mondiale fino alla progettazione della fuga dopo l’arrivo dei nazisti. Grazie a
queste informazioni è possibile stabilire, con una certa approssimazione, l’ampiezza del flashback, che si
chiude sulla partenza del solo Rick assieme al pianista Sam. FLASHBACK INTERNO Fight Club (David Fincher,
1999) I flashback, di ampiezza minima, del plot-twist del film sono di natura interna, in quanto
ripropongono situazioni che si sono svolte precedentemente. Grazie a questi flashback lo spettatore scopre,
contemporaneamente al protagonista, la vera identità di Tyler Durden. FLASHBACK SOGGETTIVO The
Millionaire (Slumdog Millionaire, Danny Boyle, 2008) Il film è costruito sull’innesto di lunghi flashback
soggettivi che aiutano a comprendere le motivazioni alla base della decisione di Jamal Malik di partecipare
al programma “Chi vuol essere milionario?”. L’effetto di questi numerosi “ripescaggi” memoriali è una
continua interruzione e dilatazione del presente del racconto, caratterizzato da unità di luogo, tempo e
azione. All’interno dei ricordi di Jamal adulto, provocati dalle domande del conduttore, si innestano poi
ulteriori flashback riferiti al piccolo Jamal, con la conseguenza di produrre una complessa struttura narrativa
a scatole cinesi, con un ricordo incassato nell’altro. FLASHBACK OGGETTIVO Michael Clayton (Tony Gilroy,
2007) Verso la fine del film l’avvocato Michael Clayton decide di utilizzare per una giusta causa i documenti
compromettenti di cui è entrato in possesso. Allo scopo di fermarlo, Karen Crowder, che rappresenta
legalmente l’azienda che quei documenti accusano, fa piazzare una bomba nell’automobile di Michael.
Nella scena l’uomo scende dall’auto per ammirare alcuni cavalli, poco prima che la bomba esploda; sulla
corsa dell’avvocato il film innesta una dissolvenza al bianco che introduce un flashback oggettivo, la cui
portata è definita dalla scritta “quattro giorni prima”.

Il flashforward indica l’anticipazione di un evento successivo rispetto all’ordine della storia, l’innesto di un
frammento di futuro sul presente, un salto “in avanti”. Si tratta di una figura utilizzata molto di rado nel
cinema classico, perlopiù in forma di sogno premonitore o proiezione immaginativa. Es. Easy Rider (Dennis
Hopper, 1969) la tragica conclusione è anticipata circa venti minuti prima della fine. Nella clip sono
affiancati il flashforward, che si presenta come una rapidissima “visione” di uno dei protagonisti, Wyatt,
scatenata dalla lettura di un aforisma sulla morte, e il finale del film.

La frequenza riguarda il rapporto tra il numero di volte in cui un fatto accade nella storia e il numero di
volte della sua rappresentazione nel racconto. Si possono distinguere quattro ordini: la frequenza
singolativa, in cui un fatto avvenuto una volta nella storia viene rappresentato una volta nel racconto; la
frequenza singolativa-plurima, fatti avvenuti vengono riproposti nel racconto lo stesso numero di volte. Si
parla di frequenza ripetitiva quando un fatto accaduto una volta nella storia viene mostrato più volte nel
racconto, utilizzata per raccontare una stessa sequenza di eventi da prospettive diverse. Rashomon
(Rashōmon, Akira Kurosawa, 1950) un unico fatto, la morte di un samurai per mano di un brigante, viene
raccontato in flashback in quattro diverse versioni. La frequenza iterativa si ha quando una singola
rappresentazione discorsiva si incarica di raccontare un fatto accaduto più volte nella storia.

Il concetto di focalizzazione riguarda la dimensione cognitiva del punto di vista da cui sono narrati i fatti e i
rapporti di sapere tra narratore, personaggio e spettatore. focalizzazione zero, esprime il caso in cui lo
spettatore è onnisciente grazie a un narratore che, governando “dall’alto” il racconto, gli consegna un
sapere superiore a quello dei personaggi. La morte corre sul fiume (Night of the Hunter, Charles Laughton,
1955) grazie al narratore lo spettatore si muove agilmente tra luoghi e personaggi distanti nel tempo e nello
spazio, entrando e uscendo da situazioni diverse tra le quali, anche grazie al montaggio parallelo, viene
chiaramente istituito un rapporto di causalità. focalizzazione interna il sapere dello spettatore appare
“strozzato” da un allineamento a un personaggio, che diventa il filtro, o focolaio percettivo, del racconto.
Tre colori – Film Blu (Trois couleurs: Bleu, Krzysztof Kieslowski, 1993) è il racconto dell’elaborazione della
morte del marito da parte di Julie. Nel caso della focalizzazione esterna il punto focale continua a essere
collocato all’interno del mondo diegetico, ma senza ancorarsi all’azione onnisciente di un narratore o alla
percezione di un personaggio. Il sapere dello spettatore, dunque, è inferiore a quello di quest’ultimo: ne
deriva una partecipazione per certi versi “a distanza”, “oggettiva”. Rosetta (Jean-Pierre e Luc Dardenne,
1999) Come tutto il film, anche il finale, pur restando concentrato sulla protagonista, Rosetta, esclude lo
spettatore da una comprensione del suo pensiero, dei suoi desideri e dei suoi sentimenti che vada al di là
dell’osservazione delle sue azioni.

Il concetto di ocularizzazione, teorizzato da François Jost, è "la relazione che si instaura tra ciò che
la macchina da presa mostra e ciò che si presume il personaggio veda". Essa gestisce i rapporti di visione che
intercorrono fra spettatore, istanza narrante e personaggio. Ocularizzazione zero: lo sguardo dello spettatore è
diretto, senza intermediazioni, ovvero rimanda al punto di vista dell'istanza narrante. Es. Il petroliere (There Will
Be Blood, Paul Thomas Anderson, 2007) L’arrivo di Plainview e di suo figlio alla fattoria dei Sunday è narrato
attraverso una serie di inquadrature oggettive che conferiscono un effetto di neutralità alle immagini: lo sguardo
è “di nessuno”, in quanto non rinvia a un personaggio né, più in generale, denuncia stilisticamente la presenza di
uno occhio che guarda. ocularizzazione interna è poi definita primaria quando l'immagine contiene in sé le
tracce che rimandano allo sguardo da cui è prodotta. Infine lo stesso personaggio può essere mostrato di spalle,
intento a guardare qualcosa che anche lo spettatore può vedere Es. Melancholia (Lars von Trier, 2011) La
macchina a mano entra nella limousine su cui viaggiano Justine e Michael e, grazie a continui movimenti
insubordinati e alla prossimità, quasi soffocante, con i volti dei personaggi, trasmette allo spettatore l’idea di uno
sguardo “presente”. Si parla invece di ocularizzazione interna secondaria quando si ricorre alla figura del
raccordo di sguardo: esso pone in relazione due immagini distinte, che identificano rispettivamente la fonte
visiva (il personaggio nell'atto di guardare) e l'oggetto del suo sguardo. Es. Barton Fink – È successo a Hollywood
(Barton Fink, Joel Coen, 1991) Grazie a una serie di soggettive, lo spettatore coglie assieme al protagonista
(identificato col suo punto di vista ottico) gli oggetti su cui questi posa, di volta in volta, lo sguardo: in basso la
macchina da scrivere, di fronte, sulla parete, un quadro, in alto la carta da parati che inizia a staccarsi.

Il termine acronia indica un “non tempo”, vale a dire una temporalità a tal punto disordinata da rendere
impossibile (o molto problematica) la percezione di un ordine del racconto. Es. Hiroshima mon amour (Alain
Resnais, 1959) intreccia i piani temporali del presente, del ricordo e dell’interiorità di “lei” e di “lui”,
anonimi protagonisti simbolo di un dolore privato e collettivo. Il racconto disorienta lo spettatore tramite
un montaggio che sovrappone livelli temporali ed emotivi diversi: la speranza del futuro con il ricordo del
passato, le emozioni e le rappresentazioni private con le immagini documentarie.

La teoria del cinema per identificare tutto quello che sta davanti alla cinepresa pronto per essere filmato
ricorre al termine profilmico, il quale restituisce bene il senso di un'esistenza transitoria. Studiare gli
elementi profilmici significa analizzare le operazioni creative e tecniche che contribuiscono a creare l'evento
scenico che, progettato e predisposto in funzione della ripresa, si trasformerà in un evento filmico.

grazie al chroma key (un ambiente neutro, illuminato in modo uniforme, in cui gli attori recitano circondati
da pareti di colore blu o verde, che saranno successivamente "bucate" per inserirvi qualsiasi tipo di scena)
e alla computer grafica, è possibile progettare intere scenografie in digitale, ma anche ritoccare in modo del
tutto realistico ambienti naturali. Il Signore degli Anelli (Peter Jackson, 2001) Per ricreare il mondo
straordinario inventato da J.R.R. Tolkien, hanno fatto alternativamente ricorso a location naturali –
sfruttando la grande varietà di paesaggi della Nuova Zelanda.

puzzle film, opere che si presentano come vere e proprie sfide cognitive per gli spettatori, nelle quali non
sempre è possibile (prima della fine del film) stabilire esattamente quali rapporti temporali leghino i diversi
blocchi narrativi del racconto. Es. Mr. Nobody (Jaco Van Dormael, 2009). Il meccanismo disorientante del
racconto, che segue secondo un ordine non lineare le diverse, possibili vite di Nemo a tre età differenti, si
risolve solo grazie a un plot twist situato quasi al termine del film, che costringe lo spettatore, per
l’ennesima volta, a riconsiderare la cronologia di quanto ha visto fino a quel momento.

Il colore: x definire una certa atmosfera generale e dei chiari percorsi per lo sguardo che dipende in larga
parte dall'illuminazione, dalla scelta del supporto e da operazioni di post-produzione. Con il termine di
elementi scenotecnici ci si riferisce a quell’insieme estremamente eterogeneo di oggetti che contribuisce a
caratterizzare una scenografia: mobili, finiture di un soprammobili, piante, fiori, arredi urbani, macchine,
insegne ecc. Gli elementi scenotecnici, la cui selezione è di responsabilità dell’arredatore, servono a
dettagliare un ambiente, precisandone la fisionomia, la storicità, il “carattere”, ma offrono anche importanti
informazioni in merito ai soggetti che lo abitano. accentuano la presenza stessa del colore o articolano
particolari dialettiche cromatiche.

All'interno di un film la luce non si limita mai a svolgere una semplice funzione tecnica di illuminazione, ma
contribuisce a definire la composizione, a sagomare dei percorsi per lo sguardo, a cariare la scena di valori
simbolici ed emotivi. Jacques Aumont individua tre funzioni principali della luce all'interno di un film: -
funzione drammatica, ha una funzione narrativa e di comunicazione che permette di direzionare
l’attenzione su alcuni elementi. -funzione atmosferica, rimanda alla possibilità di creare, attraverso l'uso
delle risorse fotografiche, particolari connotazioni semantiche psicologiche ed emotive; -funzione
simbolica, segnata da connotazioni di tipo culturale che vertono sulla luce in quanto tale; luce quale
metafora del divino, del bene, della verità, della speranza ecc. ombra: spazio negativo, inganno, calco
spettrale dell'umano ecc. Quest'uso simbolico della luce sembra richiamare l'avanguardia espressionista
tedesca, che rappresenta la prima esplorazione della possibilità della luce di trasmettere il senso più intimo
del racconto. Opposta a questa concezione della luce c'è quella realista che valorizza l'illuminazione in
quanto presenza concreta, viva, naturale, e che trova un ulteriore sviluppo nella Nouvelle Vague, che
adotterà un sistema di una luce diffusa spesso piatta, verticale, uniforme, senza ombre né chiaroscuri.
L’illuminazione serve sia a modellare superfici e volumi, sia a evidenziare alcuni elementi a scapito di altri,
così da dirigere l’attenzione dello spettatore, sia, infine, a creare determinate atmosfere emotive. Dal punto
di vista analitico, un primo parametro su cui occorre interrogarsi nello studio della luce filmica è quello della
sua qualità, dipendente dalla tipologia dei corpi illuminanti utilizzati. Le lampade possono essere a
incandescenza, a fluorescenza o a LED, e possedere una diversa potenza, o intensità, e una diversa
temperatura colore, che può avvicinare la tonalità della luce verso toni caldi (quelli del rosso, equivalenti a
una temperatura più bassa) o verso toni freddi (quelli dell’azzurro, equivalenti a una temperatura più alta).
La qualità cromatica della luce può essere ulteriormente modificata ponendo delle gelatine (filtri di vetro o
materiale plastico) davanti alle lampade. Es. Fight Club (David Fincher, 1999) per dare forma al mondo
allucinato di Fight Club, il direttore della fotografia ha impiegato un’illuminazione prevalentemente
contrastata, ricorrendo a dei proiettori che entrano direttamente in scena come fonti diegetiche. I neon e le
lampadine nude illuminano in modo crudo, diretto e parziale i volti dei personaggi, creando chiaroscuri
marcati che sottolineano la violenza dell’ambiente. La direzione della luce, vale a dire la sua posizione
rispetto al soggetto e all’asse di ripresa può essere manipolata allo scopo di creare particolari effetti
narrativi ed espressivi. Se una luce dall’alto tende a produrre condizioni di illuminazione vicine a quelle
reali, una luce dal basso favorisce normalmente una distorsione dei tratti del volto o la creazione di
un’atmosfera drammatica. Luce frontale e luce di taglio indicano invece, un’illuminazione che investe i corpi
in modo diretto, appiattendone le ombre e i volumi, e un’illuminazione che, provenendo di lato, conferisce
rilievo alle forme, anche se nel caso di un soggetto umano essa tende a oscurare parte del viso. Infine, si
definisce controluce (back light) l’effetto di silhouette, e cioè di contorno, prodotto da una luce proveniente
da dietro un personaggio o un oggetto. Per illuminare in modo corretto e uniforme un soggetto si utilizzano
di norma almeno due fonti luminose: una luce principale, detta luce chiave (key light), e una luce di
riempimento (fill light). Schema ulteriormente perfezionato in un modello a tre luci: oltre alla luce chiave,
forte e netta, utilizzata per illuminare la scena e conferire volume agli attori, e alla luce di riempimento,
posta di lato per ammorbidire le ombre prodotte dalla prima, in questo schema si ricorre anche a una fonte
in controluce, posta alle spalle del personaggio, così da staccarlo dallo sfondo. Questa triangolazione è
particolarmente adatta a ottenere un’illuminazione in chiave alta (high-key), caratterizzata da una luce
diffusa, senza contrasti, morbida, con zone d’ombra ristrette; al contrario, un’illuminazione in chiave bassa
(low-key), in cui il ruolo della luce di riempimento si riduce in modo significativo (fino a scomparire),
presenta forti contrasti chiaroscurali, ombre più ampie e definite, e una qualità della luce più dura.

La scenografia cinematografica è rappresentata dagli spazi interni ed esterni, veri e ricostruiti, reali e
virtuali che caratterizzano gli ambienti di un film. Essa è dunque il “contenitore” tridimensionale degli
eventi e contribuisce in modo determinante a creare l’atmosfera, anche emozionale, di un racconto, oltre a
fornire numerose informazioni sia in merito al luogo, al tempo e al tipo di società in cui si esso svolge, sia in
merito ai personaggi.

il Metodo, sviluppato negli Stati Uniti da Lee Strasberg, rappresenta una delle principali rivoluzioni
nell’ambito della recitazione. Grazie all’Actors Studio, fondato a New York nel 1947, il Metodo si afferma
come nuovo paradigma anche nell’ambito del cinema. Esso si basa sul rifiuto del ruolo e su un lavoro di
ricerca interiore, fondato sulla memoria emotiva, vale a dire sull’“estrazione” del personaggio dal vissuto
dell’interprete. Il Metodo mira dunque a cancellare la distanza tra attore e personaggio, e a trasformare la
recitazione da imitazione di comportamenti a esperienza pienamente reale.
La profondità di campo è un parametro fotografico che stabilisce la messa a fuoco dei diversi piani della
scena. Una profondità di campo ampia offre la possibilità di vedere nitidamente sia ciò che si trova in primo
piano, sia ciò che si trova sullo sfondo; al contrario, una profondità di campo ridotta mette a fuoco solo una
zona dell’inquadratura, sfocando tutto il resto. Entrambe le modalità possono essere utilizzate per dare vita
a fenomeni di montaggio interno

caligarismo un modo di intraprendere il mondo mediante il ricorso ad una stilizzazione espressiva delle
scenografia, nonché il ruolo assegnato a contrasti luce/ombra allo scopo di drammatizzare lo spazio

Il Cinemascope ha rappresentato per tutti gli anni Cinquanta il principale sistema widescreen, in aperta
competizione con altri brevetti, e, soprattutto, il Panavision, che nel decennio successivo si sarebbe imposto
a livello internazionale. “Guerra dei brevetti” a parte, tutti questi sistemi si reggono sull’utilizzo di lenti
anamorfiche che permettono, in fase di ripresa, di “schiacciare” un rapporto d’aspetto panoramico
all’interno di un classico fotogramma 35mm, e, in fase di proiezione, di restituirlo correttamente. Negli anni
Sessanta, l’1:2.35 si è imposto come standard del formato widescreen, per restarlo fino a oggi. Es. Lawrence
d’Arabia (Lawrence of Arabia, David Lean, 1962) L’utilizzo del Panavision amplifica la sensazione di vastità
degli spazi desertici in cui è ambientata buona parte del racconto. Nei campi campi lunghi e lunghissimi,
inoltre, il formato panoramico consente di creare un’affascinante dialettica tra l’ampiezza del paesaggio e la
presenza umana, e di realizzare inquadrature profonde, costruite su più livelli.

La nozione di décadrage (letteralmente, “deinquadratura”) identifica una rappresentazione vistosamente


costruita contro le consuetudini compositive che, tra codici geometrici, ottici, visuali e culturali, governano
la disposizione degli elementi all’interno dell’inquadratura. In particolare, il décadrage lavora a svuotare lo
spazio, opponendosi alla logica della centratura e della costruzione armoniosa tipica del découpage
narrativo, con la conseguenza, tra le alte, di sensibilizzare la cornice dell’immagine. Es. Questa è la mia vita
(Vivre sa vie, Jean-Luc Godard, 1962) Come accade più volte nel film, Godard riprende la protagonista,
Nana, di spalle, sottraendo il suo volto – e, quindi, le sue emozioni – allo spettatore. In questa scena, la
ragazza, ridotta a pura forma, viene raccontata attraverso un’inquadratura in décadrage: il suo corpo è
infatti spinto verso il lato destro dell’immagine e “tagliato” dal bordo dell’inquadratura, che resta
sostanzialmente vuota.

Il fuori campo identifica lo spazio invisibile che circonda il rettangolo dell’inquadratura sopra, sotto, a
destra, a sinistra, dietro e davanti. Esso contiene elementi che cooperano, in forme diverse, con l’immagine
visualizzata. A un grado minimo, il fuori campo rappresenta una dimensione mentale, alla quale il visibile
rimanda in termini logici. Dal punto di vista narrativo, rappresenta un elemento essenziale nella costruzione
dello spazio immaginario della rappresentazione filmica, generalmente disciplinato dal sistema dei raccordi:
esso, dunque, funziona come continuazione del campo. Ma questo “spazio assente”, che preme
sull’inquadratura, è stato sottoposto, soprattutto nel cinema contemporaneo, anche a usi marcati ed
eccentrici, tra rimozione, negazione e dialoghi impossibili, che incrinano l’idea di una lineare, prevedibile
continuità tra visibile e invisibile. Es. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) Tarantino si è divertito, in
questa scena, a negare allo spettatore l’accesso al fuori campo, chiaramente “costruito” dallo sguardo di
Vincent. Una vera e propria censura che, mentre lascia lo spettatore frustrato, mette apertamente a tema il
funzionamento della continuità (e reversibilità) tra visibile e invisibile.

La messa a fuoco rappresenta un importante strumento di gerarchizzazione della rappresentazione. Nel


cinema hollywoodiano classico una messa a fuoco selettiva è impiegata per distinguere tra elementi
principali ed elementi di sfondo (fuori fuoco), ma anche per isolare i primi piani degli attori. Nel cinema
contemporaneo, invece, il lavoro sulla messa a fuoco può percorre strade diverse, ora enunciandosi
chiaramente come strategia ottica e visiva, ora dando vita a composizioni fortemente pittoriche e
iperrealiste, in cui la dialettica tra elementi a fuoco ed elementi fuori fuoco non risponde tanto a una logica
narrativa quanto, piuttosto, a una espressiva o simbolica.
Gli obiettivi fotografici si distinguono sulla base della lunghezza focale, ossia la distanza tra il centro della
lente e il piano focale, misurata in millimetri. La lunghezza focale determina l’angolo di campo, vale a dire la
porzione di spazio ripresa. Gli obiettivi che offrono un’immagine simile alla visione umana sono detti
normali, o a focale media, e hanno una lunghezza focale pari a 50mm, o di poco inferiore o superiore;
l’angolo di campo varia tra i 45° e i 60°. i teleobiettivi possiedono una focale più lunga e un angolo di campo
minore, inferiore ai 45°. Offrono un’immagine più ravvicinata dei soggetti, con possibili “schiacciamenti” dei
piani visivi e della profondità. I grandangoli possiedono una focale più corta rispetto a quelli normali e un
angolo di campo maggiore di 60°. Essi offrono una visuale più ampia e una grande profondità di campo, ma
possono generare alcune distorsioni prospettiche, soprattutto se impiegati per realizzare piani ravvicinati.

L’altezza esprime la distanza tra la macchina da presa e il suolo, e le sue variazioni si misurano a partire da
una posizione neutra, detta altezza standard, in cui l’obiettivo della macchina da presa è situato all’altezza
degli occhi del personaggio. Nell’altezza ribassata e in quella rialzata, invece, il punto di ripresa è posto,
rispettivamente, sotto e sopra la linea degli occhi. Queste soluzioni sono spesso utilizzate per stabilire un
punto di vista marcato oppure per introdurre un coefficiente particolare nel rapporto tra un personaggio e
un altro, o tra un personaggio e l’ambiente circostante.

Le angolazioni si distinguono in frontale, dall’alto e dal basso. La più comune è quella frontale, dove l’asse
ottico della macchina da presa è parallelo al suolo e l’inquadratura assume una valenza neutra, poiché
riproduce l’angolazione abituale con cui gli esseri umani osservano il mondo. Ruotando la macchina da
presa verso il basso si ottiene un’angolazione dall’alto, utilizzata sia per riprodurre realisticamente uno
sguardo dall’alto, sia per ottenere particolari effetti visivi o emotivi. L’angolazione dal basso si realizza
ruotando la macchina da presa verso l’alto. L’effetto deformante della visione “da sotto in su” è stato
largamente utilizzato dal cinema horror e thriller per connotare in senso negativo un personaggio. Un caso
estremo di angolazione dall’alto è l’inquadratura a piombo, in cui l’asse ottico della macchina da presa è
perpendicolare al suolo. Questa angolazione offre allo spettatore una visione ampia, quasi una “mappa”
dell’ambiente. Un’angolazione perpendicolare dal basso produce invece un’inquadratura supina: essa
genera effetti di deformazione che, anziché schiacciare il rilievo e la tridimensionalità degli elementi, li
esalta.

L’inclinazione esprime la variazione dell’angolo tra il piano orizzontale della macchina da presa e il suolo. Di
norma, questo angolo misura 0° e produce un’inquadratura in piano. Un angolo maggiore, fino a 90°,
genera un’inquadratura obliqua. Un’inclinazione di 90° esatti fa sì che la linea dell’orizzonte risulti
perpendicolare, e l’inquadratura è detta verticale. Infine, quando l’angolo misura 180°, si ha
un’inquadratura capovolta. Un’inquadratura può essere fissa o in movimento. Esistono due grandi famiglie
di movimenti: le panoramiche, in cui la macchina da presa si muove lungo uno dei suoi assi, e le carrellate,
in cui si sposta nello spazio grazie a dei supporti mobili; lo zoom rappresenta invece un caso di movimento
“apparente”, prodotto da una variazione ottica. I movimenti della macchina possono essere combinati tra
loro per dare vita a movimenti complessi, e realizzati grazie all’ausilio di supporti.

i movimenti di macchina si distinguono in motivati e autonomi. I movimenti motivati dipendono dalle


dinamiche del racconto: ciò significa che la macchina da presa si sposta sulla base delle necessità
dell’azione o della logica narrativa. Un caso particolare di movimento motivato è il récadrage, detto anche
re-inquadratura di aggiustamento. Si tratta di piccoli spostamenti della macchina da presa che reagiscono ai
movimenti di un personaggio per seguirlo e, al tempo stesso, per mantenerlo al centro dell’inquadratura. I
movimenti autonomi, rendendo protagonista il dispositivo di ripresa, contribuiscono a far emergere il ruolo
dell’istanza narrante e a introdurre una dimensione meta-linguistica. Altre volte essi sono impiegati per
sottolineare alcuni aspetti del racconto, o per disegnare percorsi di sguardo che esplorano il mondo
diegetico in modo indipendente, libero dalle “richieste” dell’azione. Es. Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976)
Dopo un primo, fallimentare appuntamento, Travis spera di poter rivedere Betsy. La scena della telefonata
in cui le chiede un nuovo incontro inizia con un’inquadratura in campo medio; ben prima della fine, però, la
macchina da presa si sposta con una carrellata laterale sul corridoio che conduce all’esterno. Il movimento
di macchina, del tutto slegato dalle dinamiche profilmiche, si impone con particolare evidenza, anticipando
la conclusione della telefonata per inquadrare uno spazio vuoto.

Le panoramiche si ottengono attraverso una rotazione della macchina da presa sul proprio asse. A seconda
dell’asse si possono avere panoramiche orizzontali (da destra a sinistra, e viceversa), verticali (dall’alto in
basso, e viceversa) e oblique (in diagonale). Il movimento può variare sia per quanto riguarda l’ampiezza,
sia per quanto riguarda la velocità di esecuzione: una panoramica lenta serve in genere a offrire una
descrizione accurata dello spazio, mentre una panoramica particolarmente veloce – detta a schiaffo – serve
a unire rapidamente due elementi, rendendo quasi indecifrabili i contenuti dello spazio che li separa. In
funzione descrittiva essa viene utilizzata per esplorare lo spazio, generalmente in campi medi o lunghi. Con
valore contemplativo serve soprattutto a valorizzare un panorama particolarmente significativo, non di
rado dal punto di vista di un personaggio. Si parla invece di funzione connettiva, quando la panoramica è
utilizzata per collegare un elemento in campo con un altro che, all’inizio del movimento, si trova fuori
campo.

La carrellata è un movimento in cui la macchina da presa si sposta nello spazio grazie a un supporto mobile,
quelle in avanti e indietro rappresentano degli spostamenti regolari verso o da qualcosa: la prima tende a
enfatizzare, attraverso un movimento di avvicinamento, un elemento della scena, escludendo
progressivamente lo spazio circostante; la seconda, al contrario, costruita su un movimento di
allontanamento, tende a ricollocare via via gli elementi nello spazio, “allargando” la visione. Es.
Trainspotting (Danny Boyle, 1996) Il monologo interiore di Mark “Rent Boy” Renton, seduto a un tavolo e
del tutto disconnesso dalla situazione che lo circonda, è accompagnato da una lenta carrellata indietro. Il
movimento, allargando la visione allo spazio circonstante, contribuisce a isolare visivamente Mark e a
sottolineare la sua completa estraneità. A seconda del rapporto che stabiliscono con un soggetto umano, le
carrellate si distinguono in a precedere o a seguire. Nel primo caso, la macchina da presa indietreggia
rispetto a uno o più personaggi che le vanno incontro; al contrario, nella carrellata a seguire la macchina da
presa è posta alle spalle del soggetto in movimento. Nella carrellata laterale la macchina da presa segue
parallelamente il soggetto in movimento, visto in genere di profilo. Essa è spesso impiegata per descrivere
uno spostamento da un luogo a un altro, in modo da rendere lo spettatore consapevole dello spazio
percorso. Nella carrellata verticale, la macchina da presa compie movimenti a salire o a scendere, mentre in
quella circolare e in quella obliqua si muove, rispettivamente, di 360° attorno al soggetto e in diagonale
nello spazio.

Lo zoom, detto anche carrellata ottica, si realizza per mezzo di un obiettivo a lunghezza focale variabile (lo
zoom, appunto), e produce un movimento di avvicinamento, zoom in, o di allontanamento, zoom out,
senza bisogno di spostare fisicamente la macchina da presa.

Carrellate – fisiche e ottiche – e panoramiche possono combinarsi tra loro per dare vita a movimenti di
macchina complessi e, non di rado, spettacolari. Es. L’esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973) Il
movimento è creato sommando uno zoom out e una carrellata indietro. Ciò consente di “allungare” il
percorso della macchina da presa – da Chris, che sta cercando di contattare l’ex marito, a Regan – e di
connettere senza interruzioni la mezza figura dalla madre a quella della figlia, nascosta dietro la porta della
sua camera per origliare.

La macchina a mano (o a spalla) è utilizzata per ottenere immagini dinamiche, nervose, “mosse”, che
risentono degli spostamenti dell’operatore.

Gru e dolly sono strutture mobili che consentono di sollevare la macchina da presa per effettuare
movimenti ampi e complessi. Gru possono portare a grandi altezze una macchina da presa sistemata su una
piattaforma, collocata al termine di un braccio, su cui prendono posto l’operatore e il suo assistente. Può
essere posizionata su carrelli o binari, e il suo braccio mobile è manovrato da terra. Via col vento (Gone
with the Wind, Victor Fleming, 1939) La scena in cui Rossella O’Hara, alla ricerca del dottor Meade, scopre
le atrocità della battaglia di Atlanta, uno degli episodi più sanguinosi della Guerra civile americana, è
raccontata per mezzo di una spettacolare gru che svela a poco a poco, salendo e carrellando all’indietro, la
vastità del campo affollato di feriti, in cui la ragazza diventa un puntino quasi irriconoscibile. Il maestoso
movimento si conclude con l’ingresso nell’inquadratura della bandiera degli Stati confederati. dolly è un
macchinario dotato di un braccio mobile azionato da un sistema idraulico. Il dolly permette di alzare la
macchina da presa (assieme all’operatore) di qualche metro per compiere movimenti fluidi in tutte le
direzioni, e può essere montato su ruote o binari. Scarface (Brian De Palma, 1984) Grazie al dolly, De Palma
realizza un unico, fluido movimento verso l’alto, con l’inquadratura che s’allontana dal tavolo su cui Tony e i
suoi complici stanno contando il denaro per stringere sull’orologio appeso alla parete. Una dissolvenza
incrociata introduce un’ellissi temporale, e subito dopo la macchina da presa torna verso il tavolo con un
movimento simmetrico e opposto, di discesa e di allontanamento, che dal dettaglio dell’orologio riapre al
totale della stanza.

La louma, il cui brevetto risale alla metà degli anni Sessanta, è un’evoluzione della gru in cui la macchina da
presa, comandata a distanza, è posizionata all’estremità di un braccio snodato in grado di sollevarsi fino a
sette metri e di muoversi in tutte le direzioni. Un ulteriore sviluppo di questa tecnologia è rappresentato dal
technocrane, brevettato alla fine degli anni Ottanta: una “gru telescopica” snodabile che può non solo
alzarsi fino a venti metri, ma anche compiere complessi movimenti impossibili da ottenere con una classica
gru o un dolly.

La steadycam, brevettata negli anni Settanta dall’operatore Garrett Brown, è un corpetto di sostegno,
composto da un sistema di imbracature, contrappesi e ammortizzatori, su cui viene montata la macchina da
presa. Esso è indossato dall’operatore e consente di effettuare riprese molto dinamiche. A differenza di
quanto accade con la macchina a mano, però, con la steadycam i movimenti risultano fluidi e stabili, come
fossero realizzati con un carrello.

Con il termine di camera car ci riferisce a riprese effettuate montando la macchina da presa su un veicolo in
movimento, che può essere l’oggetto stesso della ripresa, oppure su una macchina di servizio, che precede
o segue il veicolo da filmare.

La skycam è una macchina da presa che si sposta lungo un sistema di cavi aerei, producendo un movimento
fluido simile a una carrellata. Essa è impiegata per ottenere riprese dall’alto, dinamiche, spesso di tipo
panoramico. Inquadrature simili, ma da altezze maggiori, sono le carrellate aeree, realizzate installando la
macchina da presa su un elicottero o, come accade più spesso oggi, su un drone.

Nel montaggio analitico si parte normalmente da una totalità che viene poi scomposta – “analizzata”, per
l’appunto – in inquadrature più strette, in genere focalizzate sui personaggi. Grazie all’establishing shot,
ossia l’inquadratura di “ambientazione” posta all’inizio di una nuova scena, lo spettatore ottiene una
visione chiara e totale delle coordinate spaziali in cui si svolgerà l’azione e dei rapporti posizionali tra i
personaggi e tra questi e l’ambiente che li circonda; grazie a questa inquadratura di contestualizzazione, il
successivo lavoro di scomposizione dell’unità non produrrà effetti di disorientamento.

un insieme di regole, detto découpage, si regge su regole di posizione, modalità di raccordo e transizioni in
grado di offrire allo spettatore un’impressione di continuità spazio-temporale e, quindi, di coerenza
narrativa, cancellando così la discontinuità materiale del film.

Il continuity system è un sistema in cui la frammentazione organizzata nel segno della continuità può
accogliere cambiamenti di velocità, strappi o deviazioni. Le rotture di tono si realizzano attraverso un uso
marcato degli elementi linguistici il quale introduce una momentanea differenza nel flusso percettivo del
film, senza per questo compromettere la tenuta complessiva. Queste rotture rappresentano in tutti i casi
delle strategie per dare profondità al flusso continuo del racconto per coinvolgere lo spettatore
un’ideologia della discontinuità, caratterizzata dall’esaltazione della natura frammentaria del film, invece
che dal suo occultamento più o meno insensibile nel disegno del montaggio.

Con il termine di associazioni plastiche ci si riferisce a soluzioni di montaggio basate su una valorizzazione
delle proprietà formali e grafiche delle immagini. questo tipo di montaggio è stato utilizzato soprattutto
nell’ambito del cinema surrealista e dadaista. con le associazioni ritmiche, il montaggio appare guidato
dalla volontà di imprimere un certo andamento ritmico, melodico ed emotivo al racconto.

La nozione di taglio sottrattivo rimanda a tutti quei casi in cui il montaggio di un’azione continua si
caratterizza per l’evidente l’elisione di alcuni momenti. L’effetto percettivo di queste operazioni di selezione
e giunzione, effettuate per mezzo di stacchi netti anziché ricorrendo alla logica dei raccordi, è un
andamento spezzato e balbettante, in cui tra un’inquadratura e l’altra si inseriscono delle ellissi non
giustificate dal punto di vista diegetico.

L'idea di ritmo è inseparabile da quella di montaggio, la sua azione di spezzamento, che decide la durata
delle singole inquadrature e del loro numero complessivo, contribuisce a imprimere un certo dinamismo al
film. Ejzenstejn distingue tra dimensione metrica: dipende dalla lunghezza assoluta dei pezzi o dal ritmo
quantitativo prodotto dal numero degli stacchi. dimensione ritmica: si misura in rapporto ai contenuti
dell'inquadratura. Sinfonie urbane: il cui scopo, a carattere documentario, è quello di tradurre sullo
schermo la complessa, mutevole musicalità della città.

jump cut rappresenta un’altra “sgrammaticatura” tipica del montaggio moderno, e consiste in un “taglio
sull’asse” interno alla medesima inquadratura. Come il taglio sottrattivo, esso introduce un’ellissi temporale
chiaramente percepibile.

Lo split screen indica una suddivisione dell’inquadratura in due o più porzioni autonome, e può essere
realizzato sia in fase di postproduzione, sia attraverso l’utilizzo di elementi architettonici e/o scenografici
che, possono restituire l’impressione di una segmentazione dell’immagine. Di solito è utilizzato al posto del
montaggio alternato per trasmettere la simultaneità di due o più azioni oppure per mostrare
contemporaneamente il punto di vista di diversi personaggi. Hulk (Ang Lee, 2003) In questa scena lo split
screen si sostituisce al découpage, visualizzandolo sullo schermo. Esso iconizza la segmentazione di un’unità
spazio-temporale (il laboratorio), restituendo all’interno di un’unica inquadratura frammenti dell’azione o
punti di vista diversi, che normalmente sarebbero montati in successione.

Con il termine di morphing si indica la trasformazione fluida di un’immagine in un’altra. Un’applicazione


ancillare di questo effetto speciale fa ricorso alla dissolvenza incrociata, che consente, entro certi limiti, una
transizione morbida tra due inquadrature, ma è solo con l’avvento delle tecnologie digitali e di appositi
software di computer grafica che questa evoluzione insensibile può realizzarsi compiutamente.

Dolby Stereo quale standard di proiezione: basato su quattro canali, tre frontali e un surround, al posto del
precedente sistema monolocale, esso consente di esaltare la potenzialità del nastro magnetico nella ricerca
di suoni più puliti, profondi e ricchi di sfumature. Una nuova “cultura del suono” evidenziata anche dalla
nascita di nuove figure professionali come quella del sound designer e il sound editor per la colonna
sonora.

Il sound bridge (“ponte sonoro”) è largamente utilizzato per regolare le scene di dialogo e, in particolare,
per fluidificare il movimento tra i parlanti. Esso consiste nello “staccare” le parole da colui che le pronuncia
per farle udire sull’inquadratura di colui che ascolta. Così, evitando di far coincidere gli stacchi con la fine
delle battute, il raccordo contribuisce ad ammorbidire la discontinuità visiva.

L-cut è un particolare tipo di sound bridge utilizzato per fluidificare il passaggio tra due situazioni
narrativamente non contigue, e consiste nel far continuare il sonoro di un’inquadratura sulla successiva.
il J-cut ammorbidisce il passaggio tra scene o sequenze non contigue. In questo caso, tuttavia, non si tratta
di continuare il sonoro di un’inquadratura su quella successiva ma, al contrario, di anticiparlo, facendo
ascoltare l’audio prima di vedere la nuova immagine.

Asincronismo è il centro della riflessione Pudovkin che riprende le posizioni della Dichiarazione
identificando il sonoro un elemento in grado di potenziare la capacità espressiva, di ordine essenzialmente
concettuale, del film. A patto, però, che colonna visiva e colonna sonora si svolgano secondo ritmi percorsi
e logiche distinti, in modo che la musica non svolga mai la funzione di accompagnamento. Secondo
Pudovkin l’asincronismo rappresenta anche un modello di dialogo tra sonoro e visivo molto più vicino alla
percezione umana.

La nozione di auricolarizzazione serve a illustrare quei casi in cui gli elementi sonori di un film si presentano
in forma soggettiva o marcata, rinviati all’ascolto di un personaggio, che si trasforma così in filtro percettivo.
può variare tra zero, interna primaria e interna secondaria. L’auricolarizzazione zero si offre secondo una
logica “ambientale”, dettata dalla distanza delle fonti di emissione dal punto di ascolto collocato
idealmente nella macchina da presa. auricolarizzazione interna primaria nel caso in cui un suono, in virtù di
qualche tipo di deformazione, rimanda a una percezione soggettiva, marcata, innaturale, a un “orecchio
interno”, eventualmente riferibile all’istanza narrante. auricolarizzazione interna secondaria quando un
suono appare raccordato a un personaggio che dà segno di udirlo, e che si trasforma di conseguenza in
filtro percettivo. I suoni, dunque, sono “di qualcuno”, e possono anche possedere una natura soggettiva,
provenendo dall’“interno” di un personaggio.

All’interno di un film, i rumori svolgono una funzione di intensificazione realista. Essi possiedono perlopiù
una natura referenziale, e accompagnano in modo verosimile il suono di ambienti, oggetti, azioni ecc.
Accanto a questo impiego “neutro”, tuttavia, si danno, numerosi esempi di utilizzi marcati, espressivi,
simbolici del rumore. I due elementi della colonna sonora che si trovano più spesso a “collaborare” a fini
descrittivi e/o atmosferici sono i rumori e la musica d’accompagnamento. Il loro sovrapporsi, mescolarsi,
intrecciarsi è spesso utilizzato, nel cinema narrativo, come fattore di continuità e uniformazione. L’efficacia
realista dei rumori dipende, in non piccola parte, dal ricorso a convenzioni e stereotipi sonori alla cui
codificazione il cinema ha partecipato in modo diretto. Ciò contribuisce a renderli “familiari”,
immediatamente identificabili e riconoscibili.

La musica accompagna le immagini cinematografiche fin dal loro primo apparire, e nel corso della storia del
cinema è stata impiegata in forme e con funzioni molto diverse. In particolare, essa è stata utilizzata sia
indirizzata a suscitare emozioni, sia ad assumere un ruolo di vero e proprio “protagonista”. Il cosiddetto
mickey mousing rimanda, fin dal nome, a una modalità di impiego della musica d’accompagnamento
caratteristica dei primi film di animazione Disney, nei quali essa risulta sincronizzata punto per punto alle
azioni dei personaggi. Es. Spider-Man (Sam Raimi, 2002) La scena in cui Peter Parker prende confidenza con
i suoi nuovi poteri, Ogni movimento del ragazzo, è scandito dalle variazioni della musica, spesso in modo
puntuale. Ma questa sincronia caratterizza anche la prima parte della scena, statica e riflessiva, che mostra
il progressivo prender forma, nella mente di Peter, della trasformazione in corso. Si dice empatico un
accompagnamento musicale che lavora a precisare, potenziare e amplificare il contenuto di un film,
sottolineando gesti, pensieri, azioni. Si definisce anempatica una musica dissonante e indifferente: essa
scava una distanza rispetto al visivo, seguendo il suo corso senza apparente “empatia” nei confronti del
mondo del racconto.

il leitmotiv è un “motivo conduttore” che punteggia il film, ripresentandosi in forma identica oppure in
varianti ritmiche e/o melodiche. Esso serve sia a caratterizzare un aspetto del racconto (per esempio, un
personaggio), sia a marcare un sistema di rime e di cambiamenti interni, sia a uniformare la narrazione.

La voce: L'avvento, alla fine degli anni Venti, della registrazione sincrona delle parole dei personaggi
conclude l'epoca del cinema muto per dare avvio all'epoca del cinema sonoro. L’idea di vococentrismo,
tuttavia, non rimanda soltanto a una centralità logico-narrativa della parola: essa indica anche la priorità e
l’intelligibilità acustica che il cinema (sfidando non di rado la verosimiglianza sonora) tende ad assegnare a
questo elemento.

Con il termine di overlapping dialogue ci si riferisce alla strategia di accavallare le parole e le linee di
dialogo. Se da un lato il “parlarsi sopra” può rendere gli scambi tra i personaggi meno intellegibili, dall’altro
questa strategia recitativa introduce spesso un coefficiente di verosimiglianza: nella realtà, infatti, i turni di
parola non sono quasi mai scanditi in modo “pulito”.

La voce over del narratore extradiegetico, tendenzialmente onnisciente e più o meno impersonale e
“compromessa” con i fatti che racconta, rappresenta una strategia assai ricorrente lungo tutta la storia del
cinema. Proprio questa sua “popolarità” l’ha trasformata, nel cinema moderno e postmoderno, in una
convenzione da aggredire in forme spesso estreme per decostruirne stabilità, oggettività, autorità.

La nozione di acousmêtre indica, un “essere acustico”, un personaggio che vive di sola voce e che, lungo il
film, va generalmente incontro a un processo di lenta ma progressiva deacusmatizzazione: il suo destino,
dunque, è quello di sincronizzarsi a un corpo o a una sorgente.

Accanto a personaggi che si fanno narratori di se stessi (ricorrendo alla più classica voce over), ve ne sono
altri che “danno voce” ai propri pensieri e alle proprie emozioni. In questi casi, ciò che affiora (come traccia
sonora) è un discorso introspettivo, privato, un monologo interiore. Es. La grande bellezza (Paolo
Sorrentino, 2013) Il film è punteggiato dalla voce di Jep Gambardella, attraverso la quale il personaggio dà
corpo sonoro alla propria soggettività. La natura interiore, "privata" e monologante di questa voce è
sempre molto chiara, come nell’esempio, in cui sembra anzi nascere in risposta a ciò che circonda l'uomo: a
differenza della voce over, essa appartiene dunque allo spazio-tempo del racconto pur rappresentando, dal
punto di vista enunciativo, uno stratagemma per rendere udibile una “fonte” puramente interiore.

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