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György Ligeti

Analisi

a cura di

Andrea Pireddu
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Andrea Pireddu

Cagliari, 01-10-2006

György Ligeti
Introduzione

Ligeti, una volta conseguito il


diploma nella accademia di F. Liszt a
Budapest, insegnò in quella stessa
scuola per un certo periodo sino al
1956, quando, all’età di trentatré anni,
dovette fuggire dall’Ungheria invasa
dall’armata sovietica. Si rifugiò in
Germania ove ebbe la possibilità di
lavorare assieme a Stockhausen e ad
altri noti compositori nello Studio di
Ligeti nel suo studio a Colonia. Musica Elettronica di Colonia, città ove
si stabilì definitivamente dopo la fuga.
Grazie ai suoi primi lavori, il primo quartetto
d’archi Methamorphoses nocturne (1953 — 1954),
Apparitions (1958 — 1959) ed Atmosphères (1961)
per orchestra, Volumina per organo (1961 — 1966),
Aventures e Nouvelles Aventures (1962 — 1965),
Requiem (1963 — 1965), Lux Aeterna (1966),
Concerto per violoncello (1966), egli si guadagnò
una grossa reputazione come una delle figure
principali dell’avanguardia musicale. Inizialmente
però Ligeti si distinse più come critico musicale
che come compositore, benché egli componesse di
continuo sin dagli anni giovanili. Complice di
questo fatto fu il suo ritardo seppur breve nel
frequentare da protagonista i corsi di Darmstadt e Tecnici nello Studio für
Elektronische Musik, WDR a
dunque ad entrare a far parte del gruppo degli Colonia.
sperimentatori più radicali del momento, al quale,
oltre Stockhausen, appartenevano Boulez, Pousser, Berio, Nono e Maderna.
L’accrescersi della fama di Ligeti di contro però coincide
storicamente con un inesorabile affievolirsi di quelle solide convinzioni, si
potrebbe dire ideologiche, ma in certi casi anche politiche, che
rappresentarono i pilastri dell’avanguardia. Fatte salve alcune sue
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produzioni ove sembra emergere una lieve inclinazione alla trasgressione


avanguardista come Aventures e Novelles Aventures, Ligeti, pur essendo
entrato da anni a pieno titolo fra gli sperimentatori della Nuova Musica,
riuscì comunque a non lasciarsi trascinare dai difetti che i principi cardine
dell’avanguardia musicale rivelarono col tempo e che furono il cancro
stesso del loro sfacelo. Mentre le poetiche avanguardiste vedevano
l’oggetto musicale come risultante di procedure che ambiscono ad essere
incarnazione fisica del pensiero musicale, gesti culturali più che trame
musicali autonome, in Ligeti l’atto del comporre avviene già a partire dallo
sviluppo del materiale sonoro senza che presupposti teorico estetici
possano immergersi nell’ideologico. Errore questo che portò storicamente
all’assurdo di mimare l’atto del comporre o del suonare come mero atto
provocatorio.
L’evento che maggiormente contribuì alla
consacrazione di Ligeti a livello mondiale fu quando
il regista statunitense Stanley Kubrick utilizzò
alcune delle sue musiche per due dei suoi film di
maggior successo. In 2001: odissea nello spazio
troviamo ben tre brani dell’autore ungherese:
Requiem, durante le scene in cui compare il
misterioso monolito, Lux Aeterna, che sottolinea le
scene di navigazione sulla Luna, ed infine
Atmosphères, l’ouverture di apertura al film stesso.
Stanley Kubrick sul set del In Shining, oltre al Lontano di Ligeti, vengono usati
suo ultimo film Ears Wide
Shut: Allucinazioni sonore. ben quattro brani di altri due autori del novecento:
Musica per archi, percussioni e celesta di Bartok,
Ultrenja, Il risveglio di Giacobbe e De Natura Sonoris di Penderecki (*).
“Ciò che di meglio vi è in un film è quando le immagini e la musica creano
l'effetto. Parola dello stesso regista, il quale facendo suo l'ideale
wagneriano del Gesamtkunstwerk, ovvero l'opera d'arte totale, in cui
parola, musica e dramma sono fuse in una sintesi armoniosa, è riuscito ad
esprimere ciò che è inesprimibile a parole. In tutti i suoi film Kubrick ha
sempre concesso un ruolo di assoluta preminenza alla musica, tanto da
girare intere sequenze senza dialoghi. E l'ha accuratamente scelta e
manipolata così da creare
un'inscindibile correlazione fra
i due codici comunicativi.
Vagliando tra la musica
preesistente, da quella colta a
quella classica che citava
stravolgendola e svuotandola
del referente storico, egli l'ha
applicata a contesti visivo—
uditivi sempre più arditi e 2001: odissea nello spazio, prima scena del monolito con
diversi. Fortemente connotata commento musicale tratto dal Requiem di Ligeti.
sotto il profilo emotivo, la musica realizza uno stato ipnotico riconducibile
esclusivamente alle immagini ad essa associate, in modo da diventare non
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un mero commento extra testuale alla narrazione filmica, bensì un


particolare stato psico—uditivo che si instilla nello spettatore, col grande
merito di avvicinare anche i profani ad un tipo di musica ostica ai più”
(Maria Rosaria Nigro).
Provando ad immaginare quale sia l’abilità che ha consentito al genio
di Kubrick di far coesistere in maniera sinergica musica ed immagini,
partendo prima dalla musica e poi scegliendo le scene appropriate da
associare alla prima, si potrebbe esporre la seguente tesi. L’immagine
statica possiede in se una sorta di ritmo. Questo è determinato dal rapporto
fra il numero di dettagli in essa contenuti e la velocità con la quale la
mente riesce a mettere a fuoco tali dettagli per coglierne il loro significato
intrinseco e dunque decodificare l’immagine stessa. Per dettaglio
dell’immagine è da intendersi non soltanto un soggetto visivo nella sua
integrità, ad esempio una sedia, un tavolo o una finestra, ma anche la
forma e soprattutto il colore di questi soggetti, che può essere più o meno
sgargiante rispetto al resto dell’immagine. Anche il contrasto in se è ritmo,
o per lo meno, un’inequivocabile singola pulsazione all’interno d’una
struttura ritmica più o meno complessa.
Si può prendere in considerazione poi un secondo livello di ritmo che
è originato dalla percezione di un significato superiore dedotto
dall’immagine e che trascende l’immagine stessa. Ad esempio, nella
fotografia di una landa desertica, solo cielo e dune di sabbia, non vi sono
che pochissimi dettagli, dunque poco ritmo, tale che può suggerire alla
mente diverse sensazioni e sentimenti, i quali, se vogliamo, sono
relazionati in qualche maniera da un denominatore comune: silenzio,
solitudine, libertà degli spazi aperti, pace, calma. A questi posso associare
una musica sicuramente non dall’andamento eccessivamente sostenuto ed
incalzante, salvo giustificazioni forti che prescindano dall’immagine
corrente, dunque giustificazioni legate ad un contesto di immagini
all’interno del quale quella corrente è stata inserita.
Si tratta pertanto di un secondo livello determinato dall’associazione
degli elementi di un’immagine ad uno stato psicologico umano.
Nell’immagine in movimento intervengono sinergicamente altri vari
stadi di ritmo. Oltre a quelli succitati per l’immagine statica, validi anche
qui, c’è il ritmo artificiale creato dal regista. Ad esempio, il ritmo scandito
dalla sequenza delle inquadrature nella totalità di un film, il percorso della
telecamera in movimento e soprattutto la periodicità con la quale si cambia
il soggetto di inquadratura in una singola scena.
Vi è poi un ritmo naturale che è dato dalla periodicità con la quale si
ripetono determinati eventi o movimenti nella cosiddetta scena d’azione.
Sempre per fare un esempio, la corsa di un fuorilegge in fuga in un film
poliziesco contiene in se un ritmo più sostenuto rispetto al roteare lento e
parsimonioso di una stazione spaziale in un film di fantascienza. Entrambe
sono comunque esempi di ritmo che non dipendono dal tipo di inquadratura
o di coreografia, ma sono oggettivamente appartenenti al soggetto visivo.
In definitiva la musica riesce a sposarsi tanto più sinergicamente con
l’immagine, statica o dinamica che sia, quanto più si riesce ad
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assecondarne il ritmo, o meglio ancora, i ritmi in essa contenuti. Bisogna


anche sottolineare che il livello superiore di percezione dei ritmi
dell’immagine, ossia il significato psicologico, è legato ed influenzato da
questioni storiche e culturali soggettive, dunque rappresenta una variabile
che cambia da persona a persona, da società a società, come da epoca ed
epoca.
Un livello di ritmo oggettivo, e per questo attendibile, rimane solo
quello del ritmo naturale: ovvero, come già accennato, il rapporto fra
dettagli reali dell’immagine e velocità con la quale mediamente il nostro
cervello li focalizza per interpretare il contenuto dell’immagine stessa.
Anche se bisogna precisare che anche la capacità interpretativa a livello
elementare di una qualsivoglia immagine è legata a fattori culturali: un
aborigeno della foresta Amazzonica stenterebbe a decodificare l’immagine
di un wordprocessor sul monitor d’un computer. Dunque anche questo
livello di ritmo primario, se pensassimo ad una ipotetica scala gerarchica,
ha oltremodo una componente soggettiva, magari più marginale se ci
limitassimo a prendere in considerazione solo la società industrializzata.
Forse queste considerazioni non sono sufficienti a spiegare la scelta
musicale di Kubrick. Tuttavia è certamente ipotizzabile che egli sia rimasto
intriso di quei fermenti culturali che ruotano attorno ai movimenti
sessantottini e che si diffusero in America proprio negli anni in cui girò i
film succitati. Tali movimenti erano caratterizzati generalmente da una
esigenza di ribellarsi al sistema, di andare oltre le rigide regole imposte
dalla società, talvolta con manifestazioni di violenta ribellione (Arancia
meccanica), e talora sviluppando un spiccata inclinazione al nuovo e al
moderno. Ecco dunque che un film come 2001: odissea nello spazio diventa
un terreno di incontro fra classico, Wagner e Strauss, ed avanguardia
musicale, Ligeti, ove le immagini del film fungono da tessuto connettivo di
questo connubio.

(*) NOTA di pag.3:

— Ligeti dunque diventerà il compositore più usato da Kubrick, infatti, oltre ai film
succitati possiamo trovare suoi brani anche in Eyes Wide Shut, ovvero il secondo movimento di
Musica ricercata, in Arancia meccanica poi, nella scena in cui Alex mette una cassetta
dell’amato Beethoven nello stereo, ne toglie un’altra: ed è proprio di Ligeti. Infine, il più
inusuale brano, Aventures del 1965 è quello che ascoltiamo nella sequenza dell' "Albergo" in
2001: odissea dello spazio, in cui la presenza di entità aliene che osservano il terrorizzato
Bowman, protagonista del film, è suggerita dai suoni surreali, simili a voci, ottenute modificando
un brano di Ligeti, il quale, pare, vinse successivamente una causa contro la MGM per utilizzo
illegale del suo lavoro. —
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Atmosphères (1961)

Alla fine della prima metà del


secolo scorso Ligeti, presentò il suo
celebre saggio Metamorfosi della forma
musicale. Oggi questo lavoro può
considerarsi una pietra miliare del
pensiero musicale contemporaneo, ma nel
momento in cui uscì rappresentò una
preziosa svolta nei confronti di quel vicolo
cieco nel quale s’era arenata la Nuova
Musica. Era tendenza ormai diffusa pensare che per il compositore moderno
fosse possibile scegliere esclusivamente fra due filosofie di pensiero, l’una
che privilegiava un’architettura compositiva iperorganizzata che doveva
estendersi a tutti i parametri musicali e del suono, l’altra, quella di Cage e
Kagel, che si ispirava a strutture compositive governate parzialmente o
interamente dal caso. L’analisi condotta nel corposo saggio affronta con
dovizia di dettagli le problematiche relative al suono ed agli eventi musicali
estendendole alla dimensione temporale. Ed è soprattutto in quest’ultimo
terreno che Ligeti si metterà alla prova in qualità di compositore.
L’effetto di una progressiva saturazione della tessitura sonora
provoca parallelamente in chi ascolta una condizione di crescente
‘permeabilità’: quanto più la musica tende ad un aggregato sonoro
indistinto tanto più l’orecchio perde la sua capacità analitica di discernere i
dettagli del fenomeno sonoro stesso. Tale condizione da Ligeti viene
definita come entropia, e porta a molte conseguenze. Prima di tutto, se
aumenta la densità del flusso sonoro, si allenta in maniera inversamente
proporzionale la percezione del tempo musicale. L’entropia del suono
dunque, una volta saturato lo spazio acustico, conduce al collasso della
dimensione tempo ovvero ad una massa talmente contratta da inibire
qualsiasi movimento. L’insieme di questi parametri legati da rigide relazioni
interne, densità del suono, volume, rifrazione timbrica, flusso temporale e
reattività dell’ascoltatore, da vita quindi ad un nuovo sistema di controllo
del fenomeno musicale. Ligeti sostanzialmente teorizza e sfrutta il
principio delle reazioni reversibili in musica, e benché non sia il primo ad
averle scoperte ne usufruisce sistematicamente con rara perspicacia ed
efficacia.
L’esigenza di scrutare oltre le possibilità offerte dal panorama
musicale contemporaneo muove comunque da ragioni storiche ben precise.
L’idea che fosse possibile sviluppare una struttura iperorganizzata, fonte
d’ispirazione per molti giovani compositori degli anni cinquanta ed oltre, ha
finito per essere tradita da una esperienza pratica che tendeva a produrre
sistematicamente l’esatto opposto dei presupposti teorici. Le opere
generate per mezzo della più alta organizzazione musicale acusticamente
erano comparabili a quelle orchestrate dalla scuola americana di Cage. La
musica totalmente preformata dunque si rivelò un’illusione, se non un
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utopia, costringendo i migliori fra i compositori a piegarsi ad inversioni di


tendenza che non solo non realizzavano le aspirazioni teoriche fino allora
acquisite ma le capovolgevano. La teoria perseguita sino in fondo finisce
per capovolgersi nel suo contrario. Ligeti tende dunque a semplificare la
teoria per ottenere risultati compositivi complessi e fugge da ogni idea
preconcetta per aver la possibilità di attuare un riscontro continuo fra
fenomeno acustico e progettazione dello stesso. Ciò è più comprensibile nel
momento in cui egli concepisce il materiale compositivo non come un
insieme neutro di mattoni inerti soggiogati alle logiche della struttura
compositiva, così come avviene nel bitematismo della forma sonata, ma
una componente genetica viva ed attiva, se non addirittura la fase
embrionale della composizione stessa.
Atmosphères rientra in quel ciclo di composizioni che, assieme ad
Apparitions precedentemente ed a Volumina successivamente, decretarono
il successo del compositore, e sono frutto delle teorizzazioni su citate, ma
anche di una più concreta esperienza pratica presso lo Studio di Musica
Elettronica di Colonia attorno al 1956. È qui che Ligeti poté sperimentare la
manipolazione del suono con le nuove tecnologie e confrontarsi con nuove
concezioni della struttura
compositiva, come quella a fasce
sonore che diventerà un marchio di
riconoscimento evidente almeno
per tutta la sua produzione
orchestrale del secolo scorso.
Il pezzo fu composto agli inizi
del 1961 ed a dispetto della sua
parvenza acustica di natura
palesemente modernistica è per un
organico orchestrale classico.
L’idea base del pezzo si può dire
sintetizzi in maniera efficacemente
concisa i presupposti teorici mossi
da Ligeti nel suo saggio: sviluppare
un tessuto sonoro che illustri la
staticità acustica. Come si è detto
precedentemente, tale condizione
Esempio di una fase di cluster in Atmosphères, si può verificare nel momento in cui
battute 52 — 53, parti dei violini I° e II°.
si raggiunge uno stadio di
saturazione del flusso sonoro. La tecnica che consente tale saturazione è
l’aggregato sonoro del cluster, che innesca l’annullamento percettivo della
armonia, di scansioni temporali di qualunque genere, e ,soprattutto, delle
figure tonali. Le conseguenze di questa prassi sono palesi e volutamente
ricercate: se la musica tradizionale è basata sullo sviluppo tematico, come
la musica strutturale sull’alternanza di fenomeni acustici e pause, nel
momento in cui fenomeno acustico e pausa coincidono crolla ogni sistema
analitico fino ad allora convenzionalmente accettato per comprendere il
fenomeno musica.
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Inizialmente ciascuno strumento dell’organico attacca con una nota


diversa realizzando così il totale cromatico del cluster, l’estensione del
quale abbraccia oltre le cinque ottave: dal RE1 del controfagotto al DO#6
con cui attacca il primo dei violini I°.

Inizio con suoni lunghi, particolare di battute 1 — 3, parte del controfagotto e del primo e secondo dei
violini I°.

Dal punto di vista microstrutturale Ligeti ottiene il suono statico


agendo simultaneamente sui diversi parametri del suono in maniera quasi
inconsueta.
Per ciò che riguarda la gestione delle altezze in generale si osserva
che la zona centrale è tendenzialmente impegnata in maniera più
consistente rispetto ai registi acuti e gravi dove, al contrario, il suono
sistematicamente si assottiglia.
La sezione degli archi è
caratterizzata prevalentemente
da successioni di cromatismi che
avvengono per gradi. Nei fiati le
successioni per ogni singolo
strumento avvengono invece per
terze. La sovrapposizione di tali
successioni da origine in un
secondo momento ad un impianto
cromatico. Avvolte quest’ultima
procedura può riguardare sia fiati
che archi, come a b.23 — 29.
Tutto ciò in ogni modo non risulta
percepibile all’orecchio umano.
Si rileva però che, pur
nell’intento quasi maniacale di
ottenere una scrittura controllata Dettaglio a battuta 27, parti dei flauti e della prima
schiera dei violini I°.
in ogni minimo dettaglio, si
ottiene un risultato sonoro che sfuma nell’impreciso dal punto di vista
acustico.
Questa filosofia si riscontra anche osservando le dinamiche. Le
indicazioni esecutive interne per ciascun strumento devono essere precise
ma il risultato sonoro confuso. Alcune voci all’interno del cluster eseguono
un crescendo mentre altre simultaneamente eseguono un diminuendo. Se
da un lato ciò da origine ad una imprecisione dinamica, comunque sia
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voluta, d’altro canto si ravviva l’intensità evitando connotazioni che


alludono ad intenzioni espressive.
Un altro stratagemma adottato per annullare la chiara percezione di
altezze sonore definite è di incrociare le articolazioni melodiche. Si realizza
ad esempio su due note a distanza di terza: una voce si sposta dalla nota
fondamentale alla terza superiore, un’altra voce simultaneamente svolge il
processo inverso. Dunque, come sostiene una delle più note leggi della
fisica, due forze di pari intensità ma di segno opposto, incontrandosi si
annullano vicendevolmente: ne deriva una totalità cromatica, le voci si
muovono ma il suono complessivo rimane fermo.
Le pulsazioni ritmiche invece raggiungono uno stadio di neutralità
sonora raggruppando gli ostinati in modo tale che questi procedano secondo
una diversa successione temporale, ovvero ogni singolo movimento viene
inghiottito da un insieme che lo annulla. Per meglio comprendere questo
effetto Ligeti ricorre ad una metafora: nel bosco le foglie degli alberi si
agitano assieme agli stessi alberi, ma nell’insieme il sistema sembra
immobile. Si veda come esempio efficace sempre le battute da 23 a 29.
A metà del brano si trova un canone a 56 voci. Non si tratta tuttavia
di una imitazione ritmica ma di altezze. È percepibile per un breve tratto
poi se ne perde la cognizione per effetto del cluster. Bisogna precisare che
l’intera architettura di Atmosphères secondo le palesi intenzioni
dell’autore non deve essere associabile ad alcuno stile precedentemente
codificato, non deve
avere o contenere forme
riconducibili ad alcuna di
quelle finora conosciute,
e l’utilizzo, seppur raro,
di strumenti compositivi
ascrivibili alla tradizione
classica non deve oltre
modo far pensare al
rinnego momentaneo di
tali intenti. In effetti, nel
momento in cui si elimina
Frammento del canone a 56 voci, battute 45 — 46, parti dei il parametro ritmo dal
violini II°.
processo imitativo si
snatura il significato del canone in senso tradizionale. Tuttavia si rispettano
alcune convenzioni: non ci sono ne unisoni ne ottave, ma questa osservanza
è rispettata al di là delle logiche tradizionali. L’ottava ha una rilevanza
armonica talmente forte che se non opportunamente fagocitata da una
consistente densità sonora e chiaramente percepibile anche nel marasma
indefinito di un cluster.
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Una volta creato


il suono statico si
agisce generando delle
oscillazioni nella sua
banda di frequenza: il
cluster all’inizio del
canone si estende per
due ottave, dal mi al
Conclusione del canone, battuta 54, parti dei clarinetti in
notazione reale. FA#5. Nel corso del
brano si riduce
progressivamente a due seconde minori, SI2 — DO3 e DO3 — DO#3.
Nel complesso il suono statico è organizzato in 21 varianti
corrispondenti ad altrettante sezioni del brano che vengono segnalate in
partitura con precise indicazioni di tempo in secondi. Una ventiduesima
sezione è puramente immaginaria: dura 19 secondi e rappresenta la
risonanza reale ed interiore, nella memoria dell’ascoltatore, reduce questo
del flusso sonoro delle precedenti 21 varianti. Queste battute di risonanza
diventeranno un sistematico segno distintivo presente in altri successivi
lavori di Ligeti.
Le durate delle sezioni non devono essere ne troppo brevi perché
sarebbero interpretate come segnale d’una scansione temporale, contrario
questo alla logica di Atmosphères, ne troppo lunghe perché troppo
stucchevole all’ascolto. La gestione delle proporzioni è per quanto possibile
di tipo empirico in fase realizzativa, pur muovendo da proporzioni
matematiche in fase di progetto: dunque l’infrastruttura numerica è
continuamente corretta e adattata all’esperienza.
Non esiste nella struttura globale un meccanismo preordinato. La
ripartizione meccanica e spesso disattesa. Lo schema viene adattato alle
possibilità degli strumenti e dunque, in fondo, sempre all’esperienza.
Ligeti riesce in definitiva a sfuggire senz’altro dalla famigerata
indeterminatezza che rende le strutture composte con troppe direttive del
tutto indeterminate e casuali.
Per ciò che riguarda la posizione formale di Atmosphères poi, come
ho già accennato, è fissata con precisione dalla mancanza di una vera e
propria struttura musicale. Tendenze che si riscontrano in certi pezzi di
Edgard Varèse, ma soprattutto nel Klang—farbenstück op. 16 di Schöenberg
e in tutte le fasi creative di Debussy.
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Lux Aeterna (1966)

Il brano è stato composto


nell’estate del 1966 per un coro a
cappella di sedici voci soliste,
ovvero quattro per tipologia
vocale, ed ha una durata di circa
otto minuti (7’ 56’’). La scrittura
prevede sin dalle prime battute
l’uso di sedici pentagrammi
complessivi, uno per voce, dunque si presume siano previste situazioni in
cui la polifonia arrivi a sedici parti simultanee. In realtà, come si vedrà,
tale situazione non si verificherà che in pochi e fugaci punti della partitura.
L’idea architettonica di base del pezzo muove essenzialmente da
poche direttive di base. Dal punto di vista macrostrutturale, si tende ad
associare un impasto timbrico differente a seconda della parola o della
frase da vocalizzare, es.: “lux perpetua” registro medio alto di tutte le voci
da battuta 94, salvo il contrastante intervento dei contralti in un registro
grave. Il pezzo privilegia prevalentemente l’uso di al massimo due sezioni
per volta e quasi sempre l’accoppiata avviene tra sezioni che nell’ambito
vocale hanno un range d’estensione in comune, es.: Soprani — Contralti,
Contralti — Tenori, Tenori — Bassi.
La microstruttura
prevede come materiale di
base l’uso di una scala che
partendo dalla nota cardine
FA, si sviluppa alternando
nella sua evoluzione senso
ascendente con quello
discendente e tendendo a
raggiungere intervalli di
dimensioni via via sempre più
crescenti.
Prima pagina di Lux Aeterna, ingresso delle sole voci
È più plausibile parlare
femminili. di scala, e dunque di un
materiale sonoro non
particolarmente connotato, specie dal punto di vista tonale, piuttosto che
di gruppo tematico e tanto meno di melodia. Questo perché il senso
melodico qui è palesemente snaturato sia dalla struttura ritmica, a causa
dei valori molto lunghi delle note, e sia dal rapporto fra questa e la scelta
degli intervalli. In altre parole si tende ad un appiattimento ritmico tout
court, che coinvolge anche l’articolazione melodica. Il ritmo c’è, si ‘vede’,
ma è pressoché impercettibile.
L’entrata delle voci avviene in maniera contrappuntistica con tactus
differenti, ossia sfasati sia all’interno di una sezione che rispetto alle voci
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delle altre sezioni, con rare eccezioni, ad esempio nella prima battuta fra
I° soprano e I° contralto.
Ogni attacco esegue una nota quasi sempre di lunga durata (ad
esempio minima puntata o semibreve legata ad una croma) che, soprattutto
nelle battute iniziali, sarà preceduta e legata ad una nota di breve durata
(ad esempio semicroma o croma puntata) appartenente in genere ad un
gruppo irregolare. Ogni voce all’interno di una sezione ha tendenzialmente
il proprio gruppo di incipit caratterizzante, es.: la terzina per il I° soprano,
la quintina per il II° soprano, la quartina per il III° soprano e di nuovo la
terzina per il IV° soprano. All’interno di ciascun gruppo la durata della nota
legata è di volta in volta di durata differente.
Lo scopo di questa tecnica è duplice: dal punto di vista acustico deve
dare la sensazione di una texture sonora che propende costantemente
verso una situazione di uniformità ed omogeneità, ovvero senza
discontinuità acustiche prodotte da evidenti articolazioni ritmico melodiche
o da alcun che di similare riferimento temporale. In tal modo si azzera lo
scorrere del tempo per dare l’impressione di una musica statica quanto
possibile, avendo escluso, appunto, gesti sonori connotanti. All’interno di
questa texture sonora statica si percepiscono tuttavia delle micro attività
cinetiche generate dalla alternanza degli attacchi delle voci che in generale
ripetono dalle due alle tre volte la stessa parola, se non la stessa sillaba,
vedi ad esempio il ‘Lux -‘ nelle prime cinque battute. In sostanza, seppur
immobile, la musica è comunque viva. Le attività cinetiche sono tali però
da assuefare abilmente l’ascolto verso un “non movimento”.
La seconda ragione può essere a mio parere di natura tecnico vocale,
ma comunque indotta da scelte compositive precedentemente descritte.
Per ottenere un amalgama sonoro di tale uniformità con le voci si è
escogitato l’artifizio su descritto per dar la possibilità alle voci di prendere
fiato ma senza spezzare in maniera stucchevole l’equilibrio generato.
Un’altra tendenza è quella di limitare l’ambito vocale complessivo
delle voci in un intervallo molto ristretto, almeno nelle prime battute. E ciò
avviene gioco forza alla luce della procedura compositiva intervallare
precedentemente descritta. Si verificherà dunque un continuo orbitare
attorno a situazioni di unisono. Situazioni che in ambito strumentale
orchestrale offrono impasti timbrici di certo interesse, sicuramente del
tutto tonalmente non allusivi, come al contrario avverrebbe con l’uso delle
ottave, qui totalmente fuori luogo in una situazione come questa di
atonalità prevalentemente cromatica o comunque dissonante. Anche per
quest’ultima ragione l’ambito vocale complessivo, almeno quando
l’esecuzione è limitata a sole due sezioni non procede oltre l’ottava.
Quando l’organico si espande oltre le due sezioni l’uso dell’ottava è
acusticamente più tollerabile, anche perché indistinguibile in una sonorità
densa polifonicamente e timbricamente omogenea (su tali argomentazioni
si può fare riferimento al saggio di Ligeti ‘Metamorfosi della forma
musicale’ da “Ligeti”, a cura di Enzo Restagno, Torino, E.D.T., 1985,
pp.226 — 227, dove l’autore parla esplicitamente di tali problematiche in
maniera più diffusa).
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Lontano (1967)

Negli anni Sessanta, l’interesse


per la musica dodecafonica sembrava
ormai essersi esaurito. Tanta fu
l’esigenza e la persuasione ad un
cambiamento radicale che alcuni fra i
più grandi compositori dell’epoca furono
alquanto determinati ad esplorare altri
modi alternativi di organizzazione delle
altezze, giungendo, talora con successo, a risultati soddisfacenti. Tuttavia,
più di cinquant’anni di sperimentazione col sistema dodecafonico non
poterono essere dimenticati ed archiviati, e diedero i loro frutti, non solo
nel campo della gestione delle altezze, ma anche in quello della gestione
ritmica.
Già in opere come Atmosphères e Requiem, concepiti entrambe in un
unico movimento, Ligeti tesse delle trame d’una ricchezza e mastodonticità
armonica quasi mahaleriana che raggiungono dunque un tale spessore
sonoro da far dimenticare il puntillismo degli anni Cinquanta. L’incipit
accuratamente sfumato ed impercettibile accompagna lentamente
l’ascoltatore in una dimensione acustica siderea che di questi lavori ne è un
marchio inconfondibile. Non meno delle pause di silenzio volute e calcolate
nelle ultime battute della partitura, che alludono a gesti della tradizione
tardo romantica, come ad esempio la desolata dissolvenza finale della Sesta
di Čajikovskij. Ma le allusioni alla tradizione classica non si fermano qui,
come si può scorgere analizzando la fitta impalcatura di Atmosphères.
Anche la partitura di Lontano prevede un’organizzazione che fa
coesistere un numero considerevole di stratificazioni sonore, ma con una
concentrazione minore e con momenti di più evidente diradamento dello
spettro armonico rispetto al precedente lavoro. In generale, le linee
sovrapposte ed intrecciate della complessa struttura sonora derivano
prevalentemente dalla idea canonica iniziale, generata dal pedale su
un'unica nota e che si evolve in situazioni acustiche sempre più intricate
fino al cluster. Tale complessità si raggiunge attraverso micro movimenti
scalari ai quali concorrono progressivamente tutti gli strumenti
dell’organico, e che a tratti si trasformano in distinti profili melodici,
ovvero un’eco della tonalità, ma non funzionale. È come se dal denso fluire
di quella enorme e sempre più compatta massa cromatica affiorassero
lentamente a galla dei tronchi al quale l’ascoltatore si possa aggrappare
per qualche istante. Ciò è più evidente che nei precedenti lavori, com’è
maggiormente vero che le concatenazioni armoniche proprie della tonalità
qui sono vicariate da transizioni fra addensamenti timbrici diversi, più
chiaramente avvertibili che in Atmosphères.
A livello macroscopico il pezzo è organizzato in tre ampie sezioni di
sviluppo, la prima di queste è da b.1 — 46, quella centrale da b.56 — 113 e
la conclusiva va da b.122 — 164. I confini che delimitano tali sezioni sono
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caratterizzati proprio da quelle già accennate brevi fasi di maggiore


rarefazione dello spessore sonoro, in maniera simile a quanto si riscontra
nelle battute iniziali e finali, le quali godono però di più respiro temporale
per definirsi.
Nella prima parte l’unica nota che funge da pedale introduttivo è un
espressivo LAb sostenuto a lungo dall’armonico artificiale dei violoncelli.
Questa nota viene ripresa dai flauti e di seguito dai clarinetti, e poi ancora
viene trasmessa ai fagotti ed ai corni come un fluido, ovvero un’entità
apparentemente fissa ed inanimata che lentamente ed impercettibilmente
prende vita, emanando fuggenti luccichii ed ornandosi di lievi coloriture
armoniche.
Inoltre, sotto la pallida presenza dei fiati (vedi ad esempio, a b.
15 — 16), l’ingresso lento ed inesorabile degli archi, in tremolo sul
ponticello e senza vibrato, non mira
a conferire consistenza all’amalgama
generale, ma a dare l’impressione
d’un “sussurro quasi raggelante”
(Ernesto Napolitano). Sensazione che
può facilmente richiamare alla
mente una delle scene in cui Danny,
il piccolo protagonista del film
Shining, si avvia verso la famigerata
stanza 237. Al fine di determinare
tale consistenza sonora non vengono
dunque ammessi fra i fiati quegli
Battute 15 — 16, parti dei violini II° soli e delle strumenti dalla sonorità più
viole.
invadente, salvo alcuni lievi
interventi dei corni e dei legni.
Da b.18 si scorge quindi il prevalere di un RE# suonato dagli archi e
dai legni, e soprattutto la
comparsa di un DO ai violini, il
quale velocemente si trasforma in
armonico artificiale e pian piano
si affievolisce nelle sedici battute
successive in corrispondenza della
conclusione della prima parte.
Sembrerebbe dunque ci sia una
tendenza a focalizzare lo sviluppo
musicale su altezze determinate
che, come si è già potuto rilevare
in Lux Aeterna, servono a
stabilire inequivocabili punti di Battute 17 — 18, parti dei flauti e dei violini I° soli.
riferimento.
A b.21 — 23 poi le stratificazioni sonore, che nel frattempo il lento
processo compositivo ha prodotto, lasciano emergere garbatamente quasi
dal nulla un frammento melodico, eseguito da viole e violoncelli nel
registro acuto, il quale si distingue per una natura insolitamente espressiva.
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Frammento melodico delle viole a battute 21 — 23.

Una stesura musicale così congeniata si potrebbe interpretare come


realizzazione del rapporto fra sfondo e figura che, se in Atmosphères viene
lasciato nell’assoluta indeterminatezza, qui giunge a fugaci episodi di
separazione. Indice questo di una più matura consapevolezza del
compositore nel trattare con raffinatezza lo strumento orchestrale.
Tuttavia, suddetto rapporto sarà decisamente più determinante ed
evidente quando quattro anni più tardi l’autore si accingerà alla stesura di
Melodien, ma con un organico più esiguo rispetto a Lontano.
L’inclinazione a focalizzare l’attenzione su un unico suono, inoltre,
non viene disattesa neanche alla successiva fase di transizione (b.43 — 48)
che approda ad una sonorità svuotata quasi completamente d’ogni

Fase di transizione a battute 43 — 45, in evidenza il REb della tuba e l’armonico di DO ai violini I°.

consistenza orchestrale. L’effetto acusticamente spoglio di un singolo suono


viene diffuso su vari registri di ottava, procedura questa che si può notare
avviatasi già da b.33. L’impressione che se ne ha è di una landa desertica
delimitata ai sui estremi dal REb della tuba sette ottave più grave del
precedente armonico di DO che prosegue alle prime due parti dei violini I°.
La seconda delle principali sezioni comincia con un altro semplice
suono, il tritono di SIb — MI eseguito in ottave dagli archi, a b.56 — 60, e si
giunge gradualmente ad una prima fase di addensamento timbrico, nella
quale intanto si inseriscono i legni sui suoni SOL — SI. Questi ultimi risultano
essere pressoché impercettibili alla fine di b.65. Successivamente
emergono e si spengono con un diminuendo nel breve volgere di sole due
battute.
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L’immagine sonora si fa ancora una volta sempre più spessa e si


raggiunge una nuova fase addensamento tra b.74 — 75, fra le note FA — SIb,
con un prevalere del FA sull’impasto di corni, tromba e contrabbassi
all’acuto. A b.92 — 94, infine, emerge fra gli ottoni un SOLb sul tremolo
fortissimo degli archi a conclusione di un crescendo.
L’apparire di questi centri di condensazione armonica non altera nel

Particolare di battute 92 — 93, si nota il prevalere del SOLb alle trombe, ai tromboni ed alla tuba.

fitto amalgama sottostante il consueto procedimento di scrittura polifonica.


Così che il collegamento fra il MI iniziale di b.60 e il SI di b.65 avviene
attraverso un disegno di dieci note in ottava alle prime quattro parti dei
violini I°, ancora esteso due ottave più in basso dalle viole I° e II°, e quindi
ripreso in canone dalle altre.
Verso la conclusione della sezione centrale da b.93 i corni annunciano
un disegno fatto sulle note di una scala per toni interi, ovvero SOL — SIb —
LAb — SOLb — FAb. Non è il solo indizio che induca a riconoscervi una
matrice debussiana. Complice di tale plausibile allusione è anche la scelta
delle dinamiche e soprattutto del suono, più precisamente il tremolo delle
viole e dei violoncelli, che suggeriscono alla mente il ricordo delle fascinose
sonorità de La Mer.

Nuovo caratteristico frammento melodico dei corni da battuta 93, ripreso successivamente dagli
archi e dagli altri strumenti, sino a battuta 106 ai soli contrabbassi.

Da b.111, l’insieme di tre note ravvicinate MI — FA — SOLb ai


violoncelli e al clarinetto basso sfocia in un improvviso sbalzo di dinamica
con una forcella sul fortissimo ai contrabbassi a chiusura di tale sezione. Ad
essa si lega, su quelle tre note mantenute sullo sfondo, la rarefatta zona di
transizione. Qui si afferma un unico suono, un FA prima stagnante nel
registro grave, sotto una coltre di timbri variegati. Successivamente, dopo
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il consueto convergere delle voci su più ottave, il FA è mutato in armonico


artificiale e posto al centro di un accordo RE — FA — SOL, ai violoncelli soli
da b.120, con RE e SOL armonici naturali, che ripropone quella
sovrapposizione di terza minore che si incontra più volte anche in Lux
Aeterna.
Nella sezione conclusiva a b.122 si privilegia ancora l’emersione di
nuove note, ovvero un RE sopra una tetra atmosfera generata da archi e
legni, poi un SOL a b.127, ove spiccano prepotentemente gli ottoni da un
suono orchestrale già denso.
Ed infine, dopo un progressivo assottigliamento dell’ambito vocale
verso l’alto, spicca un RE# acutissimo che dopo venti battute si spegne ai
soli violini. Da b.145, al culmine del intero lavoro, un pianissimo lascia
apparire inaspettatamente una lontana sonorità dei corni, che sembrerebbe
alludere al titolo stesso del pezzo.
Il procedere degli accordi dei corni per toni interi rievocherebbe
atmosfere impressioniste, come già si è altrove sottolineato. Dunque
sorprende alquanto l’affermazione dello stesso autore secondo cui la
conclusione di Lontano ricorda il finale del movimento lento dell’Ottava di
Bruckner .
Dal punto di vista ritmico possiamo notare che il risultato musicale è
acusticamente privo di alcuna pulsazione regolare. Non emergono
accentazioni chiare di alcun genere. Tutti i confini fra le diverse scansioni
di ciascun suono vengono dissolte — ogni suono muore in quello successivo.
Questo perché la nascita del suono avviene regolarmente in maniera quasi
indistinguibile partendo dal nulla acustico con la fievole dinamica di un
pianissimo (pppp) ed un attacco impercettibile, per poi evolversi verso un
piano (p) ed estinguersi in una non esistenza. È come un breve respiro. Ma
forse lo stesso pezzo nella sua interezza può immaginarsi come un grande
respiro fatto di tanti piccoli respiri.
Dunque non c’è ragione alcuna di prevedere cambiamenti
nell’indicazione di tempo — per l’intera durata del pezzo qui è un quattro
quarti (4/4), che svolge solo il ruolo di una cornice temporale astratta al
fine di agevolare l’esecuzione. Il compositore suggerisce infatti che il pezzo
deve essere eseguito con grande libertà: “Il tempo in armatura di chiave di
64 alla semiminima è solamente un’indicazione generale. Il pezzo deve
essere eseguito con grande espressione, e le molte fluttuazioni di tempo
sono lecite oltre alle indicazioni di rallentando e di accelerando” (Ligeti).
Un genere di musica così concepita può definirsi in maniera molto semplice
e schematica, ovvero casuale, naturalmente solo dal punto di vista del
risultato psicoacustico, come le partiture scritte a suo tempo da Kagel o
Stockhausen, Lutoslawski o Penderecki. A differenza di questi però Ligeti
scelse invece un modo molto più preciso, e quasi fiammingo, di annotare la
sua musica. Questo al fine di ottenere in maniera più equilibrata e
controllata il fitto arazzo di eventi micropolifonici che sfociano in corposi
addensamenti cromatici. L’impressione acustica però non è di fastidiose
quanto goffe ed inaspettate dissonanze, ma di veri e propri colori timbrici
che si evolvono attraverso una complesso processo di metamorfosi sonora in
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altri nuovi timbri, come, guarda caso, avverrebbe in un brano di musica


elettronica a fasce sonore.
“Analizzando le prime otto battute del pezzo si rileva come ogni
entrata strumentale avviene su una parte diversa dell’unità di tempo
all’interno di una battuta. Dunque ogni pulsazione (o semiminima) potrebbe
essere considerata divisa in due ,tre, quattro, cinque e sei parti. E una
qualsiasi di queste parti potrebbe servire come inizio ad una nuova entrata
d’una determinata voce. Per ogni entrata Ligeti ha scelto 12 diverse
posizioni all’interno di una semiminima, e l’intero pezzo è basato su questa
idea ritmica. Nella figura qui di seguito sono stati raccolti questi 12 modelli
ritmici disposti non nell’ordine in cui appaiono in partitura, ma in quello di
alternanza conseguente dall’inizio alla fine di una semiminima.

Come si è già accennato, i modelli ritmici dividono la semiminima in


più parti e per convenienza dell’analisi sarà opportuno ridurli ad un
denominatore comune, ovvero ad un sessantesimo (1/60). Vale a dire,
dividiamo la semiminima in 60 intervalli uguali, all’interno dei quali
inglobiamo i 12 modelli ritmici disponendoli nella loro corretta posizione.

Dallo schema precedente si può notare più chiaramente che i modelli


ritmici dividono la semiminima in parti diseguali, ovvero sia: 10 — 2 — 3 — 5
— 4 — 6 — 6 — 4 — 5 — 3 — 2 — 10. Ciò accade poiché Ligeti si è avvalso
della notazione musicale tradizionale, dunque crome puntate, terzine,
cinquine e sestine. Il compositore non si è voluto spingere oltre sfruttando
ritmi più sofisticati, perché qui sarebbe risultato poco pratico da gestire.
Egli stesso asserisce che lo strumentista non deve eseguire questi ritmi con
assoluta precisione.
Un livello grossolano di accuratezza esecutiva può essere più che
soddisfacente per un compositore che è quasi infastidito dalla correttezza
matematica, infatti la notazione deve essere piuttosto un’indicazione
psicologica per l’esecutore, il quale si presume suoni questa musica “con
grande espressione” e dove ogni “fluttuazione (temporale) è ammessa”
(Ligeti).
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Vediamo come in pratica Ligeti ha utilizzato i modelli ritmici,


seguendo le entrate degli strumenti. Lo schema riguarda sempre le prime
otto battute.

Si può dunque osservare come si tenda ad evitare la ripetizione dello


stesso modello prima che tutti i modelli vengano presentati, regola che è
uno dei principi fondamentali della tecnica dodecafonica, soprattutto
quando vengono prese in considerazione le altezze. Qui però è riferito al
ritmo. Tale tendenza, tuttavia, viene applicata con molta libertà. Ligeti
consente che alcuni modelli riappaiano prima che tutti gli altri vengano
presentati (mostrati con parentesi tonde nello schema seguente). Alcuni
modelli vengono persino ripetuti tre [con parentesi quadre] ed anche
quattro volte {con parentesi grafe}.
1 — 9 — 10 — 8 — 5 — 4 — 11 — (9) — 6 — 2 — (4 — 10 — 11) — 12 — 3 —7

— (5 — 8) — [4] — (12 — 3) — [5] — {4} — (7) — [3 — 9] — (2 — 1 — 6) —

[2] — {9} — [6]

Quindi nelle prime 32 entrate del LAb la serie completa dei modelli
appare due volte in libero ordine, i sei modelli [4 — 5 — 3 — 9 — 2 — 6]
appaiono una terza volta e due di loro {4 — 9} anche una quarta volta. È
piuttosto chiaro che Ligeti gli ha scelti ad occhio, senza alcun calcolo pre
compositivo, concentrandosi piuttosto sulla naturalezza e fluidità del
processo creativo. In tutta la partitura egli usa solamente questi 12 modelli
ritmici in un modo molto simile a quanto descritto finora. Ligeti li ha
liberamente manipolati come le 12 lettere alfabetiche di qualche strano
linguaggio o come i tasselli di un gioco per bambini, facendo sempre nuove
ed innumerevoli combinazioni” (Dmitri Smirnov) .

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