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DIABETE MELLITO

Il diabete mellito è una malattia cronica eterogenea, caratterizzata da un alterato metabolismo del glucosio e
di altri substrati energetici.
Da un punto di vista biochimico, è caratterizzata da iperglicemia dovuta a un deficit, relativo o assoluto, di
insulina.
Il glucosio è un monosaccaride (aldoesoso) e rappresenta la fonte di energia principale per le cellule del
nostro organismo e unica per le cellule del sistema nervoso centrale (SNC) e per gli eritrociti.
Il glucosio presente in circolo deriva principalmente dalla dieta, dove è presente sia in forma di
monosaccaride sia in forma di carboidrati complessi (polisaccaridi, es. l’amido); una piccola quota deriva
dalla sintesi endogena (gluconeogenesi).
Il glucosio circola in forma libera e i suoi livelli sono mantenuti entro un intervallo abbastanza ristretto (70-
100 mg/dL) dall’azione di ormoni, quali l’insulina e il glucagone, che garantiscono il mantenimento
dell’equilibrio tra la produzione e l’utilizzo di glucosio.
In particolare, nel periodo post-prandiale, la maggior parte del glucosio deriva dalla dieta e viene
metabolizzata dalle cellule dell’organismo.
Il glucosio entra nelle cellule per diffusione facilitata mediata dai trasportatori GLUT, di cui esistono varie
isoforme con caratteristiche differenti.
Le più importanti sono la GLUT-2, che funge da “sensore della glicemia” nelle cellule β del pancreas che
sintetizzano e secernono insulina, e GLUT-4, espressa sulle cellule dei tessuti insulino-dipendenti (tessuto
adiposo e muscolare), la cui espressione è indotta dall’insulina.
In seguito al suo ingresso nella cellula, il glucosio subisce immediatamente un processo di fosforilazione a
glucosio-6-P, che ne impedisce la fuoriuscita dalla cellula.
Questa reazione di fosforilazione è mediata dalle esochinasi, di cui si conoscono 4 isoforme, con
caratteristiche differenti.
In particolare, l’esochinasi IV, nota anche come glucochinasi, è espressa esclusivamente a livello epatico e,
rispetto alle altre esochinasi, non subisce l’inibizione da prodotto, ossia del glucosio-6-P, e, pertanto, anche
in presenza di elevate concentrazioni di glucosio ne media la fosforilazione.
Questa caratteristica è importante perché il fegato rappresenta il principale organo di deposito per il
glucosio. Non appena il glucosio è fosforilato all’interno delle cellule, può andare incontro a differenti
destini metabolici:
 glicogenosintesi - sintesi di glicogeno, che rappresenta la forma di deposito del glucosio (a livello
epatico e muscolare);
 glicolisi (90%) - produzione di piruvato e lattato;
 ossidazione attraverso la via dei pentosi;
 glicazione delle proteine.
Il periodo post-assorbitivo (6-12 ore dopo l’ingestione di cibo, quando il contenuto dell’intestino tenue è
stato digerito ed assorbito) è caratterizzato da un’accentuazione progressiva della glicogenolisi epatica.
In condizioni di digiuno breve (es. il digiuno notturno), il glucosio in circolo deriva principalmente dal
fegato che lo ricava dal glicogeno mediante il processo di glicogenolisi (scissione del glicogeno) e lo
sintetizza ex novo mediante il processo di gluconeogenesi (sintesi di glucosio a partire da precursori non
saccaridici).
In condizioni di digiuno prolungato (>15 giorni), il glucosio presente in circolo deriva dal fegato ed in parte
dal rene, dove si attiva la gluconeogenesi (Figura 22.1).
Dopo esaurimento delle riserve di glicogeno, sono mobilizzati gli acidi grassi liberi dal tessuto adiposo,
come fonte d’energia principale per fegato e muscolo.
Il cervello e i tessuti anaerobici ricevono il glucosio che deriva principalmente dalla gluconeogenesi.
Inoltre, a livello epatico si ha la formazione di corpi chetonici a partire da acetil-CoA, che sono rilasciati in
circolo e utilizzati dai tessuti, inclusi il SNC, come fonte energetica alternativa.

Nel pancreas ritroviamo due tipi di cellule:


 le cellule acinose secernono enzimi digestivi
 degli agglomerati sferici concentrici che rappresentano le isole di Langerhans sensibili alla glicemia.
Quattro tipi di cellule costituiscono le isole di Langerhans:
 Le cellule Alfa che secernono glucagone il quale stimola la glicogenolisi epatica e promuove l’immissione
in circolo del glucosio punto
 Le cellule beta che secernono insulina la quale permette il metabolismo del glucosio attivando la glicolisi,
la glicogeno sintesi epatica e l’immagazzinamento dei grassi.
 Le cellule Delta che secernono somatostatina la quale inibisce la secrezione di insulina e glucagone e la
sintesi dell'ormone della crescita ipofisario.
 Le cellule PP che secernono il peptide pancreatico il quale regola la secrezione pancreatica esocrina.

La SOMATOSTATINA è un piccolo polipeptide di 14 Aa con una emivita nel sangue di soli 3 minuti.
Tutti i fattori correlati all’ingestione di cibo possono indurre la secrezione della somatostatina con:
- Aumento della glicemia
- Aumento del tasso ematico di aminoacidi
- Aumento degli acidi grassi
- Aumento della concentrazione di vari ormoni gastrointestinali
A sua volta la somatostatina ha vari effetti inibitori:
- Agisce all’interno delle stesse isole del Langherans inibendo la secrezione dell’insulina e del
glucagone
- Riduce la motilità dello stomaco, della cistifellea e del duodeno
- Riduce l’attività secretoria e di assorbimento in tutto il tratto gastroinestinale.
Impedendo la secrezione di insulina e di glucagone riduce l’utilizzo ed il rapido esaurimento dei nutrienti
assorbiti rendendoli disponibili per più tempo.
La somatostatina viene secreta anche dall’ipotalamo come ormone inibitore dell’ormone della crescita che
va ad inibire la secrezione di ormone Somatotropo dall’adenoipofisi

In condizioni di sazietà domina l'insulina e vi è un aumento dell'ossidazione del glucosio, della sintesi di
glicogeno, della sintesi di lipidi, della sintesi proteica.
In condizioni di digiuno domina il glucagone aumentando la glicogenolisi, la gluconeogenesi, la
chetogenesi.
Diversi ormoni sono coinvolti nella regolazione della glicemia.

L’INSULINA è un ormone peptidico sintetizzato dalle cellule β del pancreas, costituito da una catena α e
una catena β unite mediante un ponte disolfuro.
È sintetizzata come pre-pro-ormone (peptide segnale + proinsulina, formata da insulina + peptide C), e
convertita in pro-insulina dalla rimozione del peptide segnale nel reticolo endoplasmatico; dopo la
formazione dei ponti S-S, la pro-insulina trasloca nell’apparato del Golgi, dove il peptide C è rimosso per
taglio proteolitico.
L’insulina ormai matura e il peptide C sono conservati nei granuli secretori all’interno delle cellule β in
attesa di essere rilasciati nel torrente circolatorio per esocitosi in risposta ad un appropriato stimolo.
Il peptide C è indispensabile per il corretto ripiegamento della proinsulina.
Il principale stimolo alla secrezione di insulina è l’iperglicemia.
La secrezione di insulina è bifasica, con un primo picco precoce dovuto alla secrezione dell’insulina
preformata e un secondo picco tardivo dovuto alla sintesi ex novo dell’ormone.
L’insulina ha una breve emivita plasmatica, di circa 6 minuti, che ne determina la rapida variazione di
concentrazione in circolo; il 40-60% dell’ormone è catabolizzato a livello epatico e la restante quota a livello
renale. I numerosi processi cellulari regolati dall’insulina dipendono dal legame con il suo recettore posto
sulla membrana delle cellule degli organi bersaglio, principalmente fegato, muscolo e tessuto adiposo. Ù
Il recettore è un eterodimero in cui le subunità (α e β) sono legate da ponti S-S.
Entrambe le subunità sono ampiamente glicosilate.
La subunità α è extracellulare e, pertanto, è coinvolta nell’interazione con l’insulina; la subunità β è
costituita da una porzione transmembrana e una citoplasmatica, che è responsabile della trasduzione del
segnale.
Il recettore ha un’emivita di 7-12 ore in assenza di insulina e 2-3 ore in presenza.
L’insulina è il principale ormone con azione anabolica e anticatabolica, promuovendo l’assunzione di
glucosio e amminoacidi da parte delle cellule di numerosi tessuti, stimolando la sintesi del glicogeno, degli
acidi grassi e delle proteine e inibendo i processi catabolici: per esempio, inibisce la lipasi ormone-sensibile
del tessuto adiposo e il processo di beta-ossidazione degli acidi grassi.

Il GLUCAGONE è un ormone proteico sintetizzato dalle cellule α del pancreas in risposta a vari stimoli,
quali l’ipoglicemia.
Rappresenta l’ormone dell’emergenza energetica poiché interviene nelle situazioni di carenza di substrati.
Il glucagone è sintetizzato in forma di pre-ormone, accumulato in vescicole secretorie e rilasciato per
esocitosi in risposta agli stimoli.
Il glucagone esercita la sua azione iperglicemizzante principalmente stimolando la glicogenolisi
(demolizione del glicogeno) e la gluconeogenesi a livello epatico.

Poiché il termine diabete mellito comprende un gruppo di disturbi metabolici accomunati da iperglicemia,
nel corso dei decenni queste condizioni patologiche sono state classificate secondo criteri differenti:
 Diabete di tipo 1, è causato da distruzione delle cellule β, su base autoimmune idiopatica, ed è caratterizzato
da una carenza insulinica assoluta (la variante LADA, Latent Autoimmune Diabetes in Adults, ha decorso
lento e compare nell’adulto).
 Diabete di tipo 2, è causato da un deficit parziale di secrezione insulinica, che in genere progredisce nel
tempo ma non porta mai a una carenza assoluta di ormone, e che si instaura spesso su una condizione, più o
meno severa, di insulino-resistenza su base multifattoriale.
 Diabete gestazionale, forma di diabete diagnosticato in gravidanza, che deve essere distinta dal diabete
manifesto. Il diabete gestazionale è causato da difetti funzionali analoghi a quelli del diabete di tipo 2; viene
diagnosticato per la prima volta in gravidanza (comunemente tra il secondo ed il terzo trimestre) e in genere
regredisce dopo il parto per poi ripresentarsi, spesso a distanza, con le caratteristiche del diabete di tipo 2.
 Altri tipi di diabete, possono essere dovuti a: difetti genetici delle cellule β del pancreas, come il MODY
(Maturity Onset of Diabetes of the Young), una forma di diabete di tipo 2 con esordio giovanile; assunzione
di farmaci o sostanze tossiche; difetti genetici dell’azione insulinica; infezioni; malattie del pancreas
esocrino; alterazioni del sistema immunitario (forme rare); endocrinopatie; sindromi genetiche rare.

DIABETE DI TIPO 1
Il diabete mellito di tipo 1 (DM1) è una malattia multifattoriale nella quale l’esposizione a vari fattori
ambientali innesca, in un soggetto con un background di predisposizione genetica, una risposta autoimmune
che causa la distruzione delle cellule β pancreatiche, determinando un deficit di insulina con conseguente
incremento cronico della glicemia.
In una fase iniziale, la risposta autoimmune, pur non essendo clinicamente individuabile, è dimostrata dalla
presenza di autoanticorpi diretti contro alcuni antigeni β-cellulari e determina una condizione di insulite,
un’infiammazione delle isole di Langerhans in cui risiedono le cellule β, caratterizzata da infiltrazione di
linfociti.
All’inizio di questa fase le cellule β mantengono ancora la propria funzionalità.
Con il progredire della risposta autoimmune, le cellule β si riducono in numero e capacità di produzione di
insulina, con comparsa di iperglicemia.
Questa è la vera e propria fase in cui il diabete viene diagnosticato.
La velocità di distruzione delle cellule β varia ampiamente tra gli individui, poiché alcuni casi progrediscono
rapidamente verso il diabete clinico mentre altri evolvono più lentamente.
La forma a progressione rapida si osserva comunemente nei bambini, mentre la forma che insorge
lentamente si presenta negli adulti (LADA).
Le manifestazioni cliniche non si evidenziano fino a che la maggioranza delle cellule β (circa l’80%) non è
distrutta.
L’eziopatogenesi del DM1, quindi, è il risultato dell’interazione tra fattori genetici, ambientali ed
immunologici.
Fattori genetici
Attualmente, sono stati identificati numerosi geni o loci cromosomici associati con la malattia ma il più
importante è il sistema HLA (Human Leukocyte Antigens).
Il sistema HLA è un insieme di geni che si trova sul braccio corto del cromosoma 6 e forma una regione
conosciuta come complesso maggiore di istocompatibilità (Major Histocompatibility Complex, MHC).
La regione HLA comprende più di 200 geni codificanti per tre classi di proteine.
Le proteine di classe I e II sono glicoproteine di membrana che mediano il riconoscimento di peptidi
estranei, mentre le proteine di classe III svolgono un ruolo fondamentale nel processo infiammatorio.
Alcuni alleli dei geni DR e DQ presenti nel locus HLA di classe II sono fortemente associati al DM1 e
contribuiscono fino al 50% del rischio.
Nella popolazione caucasica l’associazione è più marcata.
In generale, l’associazione dei vari aplotipi con la malattia varia da aplotipi altamente predisponenti ad
aplotipi fortemente protettivi, aplotipi neutrali e aplotipi moderatamente protettivi.
Altri geni che conferiscono individualmente un modesto aumento del rischio di sviluppare DM1 sono il gene
PTPN22, coinvolto nella regolazione della risposta immunitaria innata, e il gene dell’insulina (IDDM2).
Fattori ambientali
Numerosi dati epidemiologici suggeriscono che la componente genetica, benché fondamentale nello
sviluppo del diabete di tipo 1, non è da sola sufficiente a determinare l’insorgenza della malattia.
È, quindi, sempre più verosimile l’ipotesi che l’ambiente possa svolgere un ruolo importante nell’eziologia
del DM1.
I fattori ambientali che sembrano essere associati al rischio di sviluppare DM1 sono:
 virus - in particolare gli Enterovirus; le principali associazioni riguardano il virus Coxsackie B4;
 batteri - micobatteri;
 alimentazione - latte vaccino, sostanze diabetogene nella soya e nel frumento.
Fattori immunologici
Nel DM1 l’iperglicemia cronica è il risultato della distruzione selettiva delle cellule β delle isole di
Langherans mediata principalmente dai linfociti T, sia CD4 (T helper) sia CD8 (T citotossici).
Negli infiltrati linfocitari delle isole di Langherans (insulite) dei soggetti con DM1 sono stati identificati,
oltre ai TCD8 (i più abbondanti) e i TCD4, linfociti B, cellule natural killer (NK), cellule dendritiche e
macrofagi.
Tutti questi tipi cellulari del sistema immunitario possono contribuire in modo differente alla patogenesi del
DM1.
Le proteine rilasciate dalle cellule β danneggiate o distrutte (per esempio durante un’infezione virale o
esposizione a tossine) sono fagocitate dalle cellule che presentano l’antigene (Antigen Presenting Cell, APC),
quali i macrofagi o le cellule dendritiche.
Le APC frammentano le proteine in peptidi che sono quindi presentati dalle molecole HLA di classe II,
presenti sulla loro superficie, ai linfociti T helper 1 proinfiammatori (Th1).
Questi ultimi innescano una cascata di risposte immunitarie, tra cui:
 attivazione dei linfociti B, che producono autoanticorpi contro antigeni insulari;
 attivazione dei linfociti T citotossici specifici contro antigeni delle cellule β.
Inoltre, le APC possono presentare i peptidi antigenici a linfociti T regolatori (T reg) che in condizioni
normali sopprimono la cascata proinfiammatoria e impediscono la distruzione delle cellule β.
La distruzione del tessuto pancreatico è soprattutto dovuta a reazioni di immunità cellulo-mediata, mentre
la produzione di autoanticorpi è considerata un epifenomeno (non sono cioè patogenici), secondario alla
distruzione delle cellule β del pancreas.
Sia i linfociti T autoreattivi che gli autoanticorpi possono riconoscere differenti antigeni insulari, quali
l’insulina, la decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD), la tirosina-fosfatasi (IA2) e il trasportatore dello
zinco (ZnT8).
È stato ipotizzato che la risposta autoimmune cellulo-mediata sia inizialmente diretta verso un antigene
primario, provocando un certo grado di danno tissutale con rilascio di prodotti di degradazione che
inducono risposte immuni secondarie contribuendo all’estensione e alla cronicizzazione del processo.
Lo scatenarsi della risposta immunitaria nei confronti di autoantigeni è dovuto alla perdita del meccanismo
fisiologico di tolleranza verso molecole self.
Per spiegare tale meccanismo sono state avanzate diverse ipotesi, tra cui le più accreditate sembrano essere
le seguenti: difetto nella selezione linfocitaria a livello del timo; mimetismo molecolare; alterazione dei
meccanismi soppressori.

Difetto nella selezione linfocitaria a livello del timo


La tolleranza fisiologica del sistema immunitario nei confronti degli antigeni self è controllata
principalmente a livello del timo, dove avviene la selezione del repertorio linfocitario prevenendo la
maturazione o l’attivazione di linfociti potenzialmente autoreattivi (selezione negativa).
Nei soggetti con DM1 vi può essere un’alterazione di tale processo.
Nella selezione negativa, le molecole HLA hanno un ruolo importante perché presentano gli antigeni self
ai linfociti T immaturi che, riconoscendoli, andranno incontro alla selezione negativa.
Gli alleli HLA di suscettibilità al DM1 legano i peptidi derivati dagli antigeni insulari con bassa affinità,
determinando un’inefficiente presentazione degli autoantigeni ai linfociti T autoreattivi che potrebbero,
quindi, sfuggire alla selezione negativa e raggiungere la periferia.
Mimetismo molecolare
Consiste nella risposta immunitaria verso un antigene esogeno, quale una proteina virale, che possiede una
sequenza di amminoacidi in comune con una proteina delle cellule β.
Pertanto, i linfociti T riconoscono anche l’autoantigene delle cellule β, verso il quale sviluppano una
reazione che ne determina la distruzione.
In tal caso i meccanismi di tolleranza sono aggirati dall’induzione di una risposta immunitaria contro un
antigene esogeno.

Alterazione dei meccanismi soppressori


In condizioni fisiologiche, la maggior parte dei linfociti self autoreattivi è eliminata nel timo attraverso il
meccanismo descritto in precedenza di “selezione clonale”, oppure può essere attivamente soppressa da
linfociti T reg. Alterazioni di questi ultimi possono contribuire allo sviluppo della reazione immunitaria
contro il self.
DIABETE DI TIPO 2
Il diabete mellito di tipo 2 (DM2) è una malattia multifattoriale la cui insorgenza è il risultato
dell’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali.
Il DM2 è caratterizzato da gradi variabili di insulino-resistenza, alterata secrezione insulinica e aumentata
produzione di glucosio, che determinano la condizione di iperglicemia.
L’insulino-resistenza è definita come la ridotta sensibilità dei tessuti bersaglio (muscolo, fegato e tessuto
adiposo) all’azione dell’insulina, le cui conseguenze sono: ridotta captazione insulino-mediata di glucosio
nel tessuto adiposo e muscolare; ridotta inibizione insulino-mediata della gluconeogenesi a livello epatico;
ridotta capacità dell’insulina di inibire la lipolisi del tessuto adiposo attraverso la sua azione sulla lipasi
ormone-sensibile.
L’insulino-resistenza determina, nelle fasi precoci della malattia, iperplasia compensatoria delle cellule β del
pancreas con ipersecrezione di insulina che garantisce uno stato di euglicemia (livelli normali di glucosio).
Pertanto, inizialmente, l’iperinsulinismo compensa la resistenza periferica all’insulina.
Questa condizione può durare anche alcuni anni.
Tuttavia, nel tempo, le cellule β andranno incontro a insufficienza, caratterizzata dal progressivo declino
della massa e della funzione delle cellule, che porta all’instaurarsi di una condizione di iperglicemia e
all’insorgenza del DM2 conclamato.
Nei rari casi d’insufficienza beta-cellulare primitiva, l’insorgenza del DM2 non è preceduta dalla fase di
insulino-resistenza. L’insulino-resistenza può essere dovuta ad alterazioni del recettore (ridotta sintesi;
aumentata degradazione; ridotta attivazione fosforilazione-dipendente) o ad alterazioni degli eventi post-
recettoriali.
Tra i vari fattori che possono causare insulino-resistenza, l’obesità ha un ruolo chiave, con un rapporto dose-
risposta tra il grasso viscerale e il grado di insulino-resistenza.
A differenza del DM1, alla cui patogenesi contribuisce il sistema immunitario, il DM2 è il risultato
dell’interazione tra fattori genetici ed ambientali.

Fattori genetici
La forte componente genetica del DM2 si evince da alcune osservazioni:
 studi su gemelli hanno rivelato che la concordanza del DM2 è del 70% nei gemelli monozigoti e del 20-30%
in quelli dizigoti;
 il rischio di sviluppare il DM2 nel corso della propria vita è di circa il 10% nella popolazione generale, del
40% se si ha un genitore affetto e del 70% se entrambi i genitori sono affetti;
 il rischio di sviluppare il DM2 di un soggetto che ha un fratello diabetico è notevolmente incrementato
rispetto al rischio osservato nella popolazione generale.
Tuttavia, a differenza del DM1, non sono state identificate delle varianti genetiche fortemente predittive di
rischio di sviluppare DM2.
Negli ultimi anni, genome-wide association studies (GWAS) hanno portato all’identificazione di alcuni loci
associati a DM2, ciascuno con un effetto molto modesto sul rischio individuale di malattia (10-40%).
Fattori ambientali
Uno dei più importanti fattori di rischio ambientale è l’obesità, ed in particolare l’obesità viscerale, che è
presente in circa il 90% dei soggetti con DM2. Un altro importante fattore di rischio è l’età, il cui aumento si
accompagna ad una riduzione fisiologica della sensibilità dei tessuti periferici all’insulina.
DIABETE GESTAZIONALE
Il diabete mellito gestazionale (Gestational Diabetes Mellitus, GDM) è definito classicamente come una
condizione di alterata tolleranza al glucosio, di grado e severità variabili, che insorge in gravidanza
(generalmente nel secondo o terzo trimestre) ed in genere regredisce dopo il parto.
Tuttavia, si può ripresentare, a distanza, preferenzialmente con le caratteristiche del diabete di tipo 2.
Il GDM rappresenta l’alterazione metabolica più comune in gravidanza che, se non correttamente
riconosciuta e adeguatamente trattata, si associa a un’elevata morbilità materno-fetale, legata soprattutto
all’eccessiva crescita fetale (macrosomia).
Nel corso della gravidanza l’organismo va incontro ad un processo di adattamento fisiologico caratterizzato
da alterazioni endocrino-metaboliche necessarie per garantire l’apporto di nutrienti al feto e per una
adeguata preparazione dell’organismo materno al parto ed alla lattazione.
L’insulino-resistenza che si instaura con il progredire della gravidanza, più evidente a livello del tessuto
muscolare e adiposo, è una condizione fisiologica finalizzata alla crescita fetale.
I meccanismi patogenetici del GDM sono sovrapponibili a quelli del DM2; si sviluppa un’intolleranza ai
carboidrati nel momento in cui la secrezione beta-cellulare non è più sufficiente a compensare la resistenza
insulinica periferica, fisiologicamente presente in gravidanza.
Nelle donne con GDM, la ridotta azione dell’insulina determina un eccesso di nutrienti in circolo, quali
glucosio, lipidi e amminoacidi, che attraversando la placenta determinano un’incrementata secrezione fetale
d’insulina (iperinsulinismo), che a sua volta determina un incremento del tessuto adiposo con conseguente
organomegalia e macrosomia.
Inoltre, l’iperinsulinismo può determinare l’insorgenza nel neonato della sindrome da distress respiratorio,
dovuta all’inibizione esercitata dall’insulina sulla sintesi di fosfaditilcolina, che rappresenta il principale
costituente del surfattante polmonare.

ALTRI TIPI DI DIABETE


Nella categoria altri tipi di diabete, particolare attenzione merita il diabete della maturità ad esordio precoce
(MODY).
Il diabete MODY è una forma monogenica di diabete a trasmissione autosomica dominante, così definito
perché fenotipicamente presenta le caratteristiche di un diabete di tipo 2 ma ha un esordio giovanile (prima
dei 25 anni). Ù
Il MODY è una forma di diabete non autoimmune, causato da una mutazione puntiforme o da una delezione
di geni che codificano per molecole importanti nello sviluppo o nella funzione della cellula β pancreatica,
con conseguente alterazione della secrezione insulinica.
Attualmente, se ne conoscono 14 differenti forme ma le più comuni sono il MODY 2, dovuto a mutazioni
nel gene che codifica per la glucochinasi, ed il MODY 3, dovuto a mutazioni nel gene che codifica per il
fattore HNF-1 alfa.
Altre forme monogeniche meno frequenti sono il diabete a trasmissione materna con sordità bilaterale,
causato da mutazioni del DNA mitocondriale, o mutazioni del gene dell’insulina, che generalmente si
manifestano con diabete neonatale.

DIAGNOSI
Il laboratorio clinico ha un ruolo centrale nella diagnosi del diabete, che si basa, fondamentalmente, sul
dosaggio di 2 parametri: l’emoglobina glicata (HbA1c) e la glicemia.
In presenza di sintomi tipici della malattia (poliuria, polidipsia e calo ponderale), la diagnosi di diabete
mellito è posta in seguito al riscontro, anche in una sola occasione, di glicemia casuale ≥200 mg/dL
(indipendentemente dall’assunzione di cibo).
In assenza dei sintomi tipici della malattia, la diagnosi di diabete deve essere posta con il riscontro,
confermato in almeno due diverse occasioni, di:
 glicemia a digiuno ≥126 mg/dL (per digiuno si intende almeno 8 ore di astensione dal cibo)
 glicemia ≥200 mg/dL 2 ore dopo carico orale di glucosio (eseguito con 75 g)
 HbA1c ≥48 mmol/mol (6,5%).
Ai fini diagnostici e di screening la misurazione della glicemia deve essere effettuata su plasma venoso in
laboratorio e massima cura deve essere posta nell’appropriata manipolazione del campione (fase
preanalitica).
L’uso del glucometro è sconsigliato perché genera misurazioni non standardizzabili.
Per la diagnosi di diabete non sono utili le misurazioni di:
 glicemia post-prandiale o profilo glicemico;
 insulinemia basale o durante test da carico orale di glucosio (Oral Glucose Tolerance Test, OGTT);
 peptide C;
 autoanticorpi.
Oltre al diabete sono conosciuti altri stati di disglicemia. I
seguenti valori dei principali parametri glicemici sono considerati meritevoli di attenzione perché
identificano soggetti a rischio di diabete e malattie cardiovascolari:
 glicemia a digiuno 100-125 mg/dL (alterata glicemia a digiuno o Impaired Fasting Glucose, IFG);
 glicemia 2 ore dopo carico orale di glucosio 140-199 mg/dL (ridotta tolleranza al glucosio o Impaired
Glucose Tolerance, IGT);
 HbA1c 42-48 mmol/mol (6,00-6,49%).
Nei soggetti con IFG e/o IGT oppure HbA1c con valori di 42-48 mmol/mol (6,00-6,49%) deve essere
ricercata la presenza di altri fattori di rischio di diabete (obesità, familiarità per diabete, ecc.) al fine di
programmare un intervento per ridurre il rischio della malattia.
In tali soggetti è anche opportuno ricercare la presenza di eventuali altri fattori di rischio cardiovascolare
(dislipidemia, ipertensione, ecc.) per definire il rischio cardiovascolare globale e instaurare gli opportuni
provvedimenti terapeutici.
Nei soggetti con IFG, soprattutto in presenza di altri fattori di rischio di diabete, è utile eseguire la curva da
carico orale di glucosio per una migliore definizione diagnostica e prognostica; non è, infatti, raro che tali
soggetti abbiano valori di glicemia dopo carico compatibili con la diagnosi di diabete.
Anche la sindrome metabolica è una condizione caratterizzata da un elevato rischio di sviluppare diabete.
La OGTT si esegue somministrando al paziente 75 g di glucosio disciolti in 300 mL di acqua; il prelievo per
il dosaggio della glicemia deve essere eseguito a digiuno, prima della somministrazione della soluzione
glucosata (glicemia basale), e dopo 2 ore dalla somministrazione della soluzione.
L’emoglobina glicata è un parametro più pratico e affidabile della glicemia; essa ha, infatti, un’instabilità
preanalitica minore della glicemia, non richiede preparazione (es. digiuno) e non è influenzata da eventi
acuti. L’instabilità preanalitica della glicemia è dovuta al fatto che, dopo il prelievo, la glicolisi continua
nelle cellule ematiche determinando una progressiva riduzione dei valori di glucosio.
Tale fenomeno, definito pseudoipoglicemia, può essere evitato centrifugando i campioni subito dopo il
prelievo, oppure fortemente limitato utilizzando provette pretrattate con soluzione antiglicolitica.
È importante sottolineare che non vi è concordanza totale tra i livelli di emoglobina glicata e i livelli di
glicemia a digiuno o dopo OGTT.
Ciò può essere in parte dovuto alla variabilità di laboratorio, ma anche al fatto che i tre parametri, in una
certa misura, riflettono processi fisiologici diversi.
È, quindi, plausibile che una persona possa avere valori di glicemia diagnostici per diabete e valori di
emoglobina glicata normali, o viceversa.
Per questo motivo, nel caso in cui sia necessario un test di conferma per la diagnosi di diabete, è
consigliabile ripetere lo stesso test.
Nel caso in cui il paziente si presenti con due test diversi (es. glicemia a digiuno ed emoglobina glicata)
concordanti, la diagnosi può essere posta senza ripetere nessuna delle misurazioni; se, invece, il paziente si
presenta con due test diversi e discordanti è consigliabile ripetere il test anormale e fare la diagnosi sulla
base di questo risultato.
L’emoglobina glicata presenta dei limiti legati al fatto che in alcune condizioni, sia fisiologiche sia
patologiche, i suoi livelli potrebbero essere alterati determinando dei risultati falsi.
In questi casi è possibile dosare l’albumina glicata, che riflette il processo di glicazione dell’albumina ed è
indicativa della glicemia dei 15-20 giorni precedenti al prelievo del campione.
Pertanto, l’albumina glicata rappresenta un indicatore a medio-termine della glicemia, più precoce rispetto
all’emoglobina glicata, la quale rispecchia la glicemia dei precedenti 35-45 giorni.
Il dosaggio dell’albumina glicata può essere usato anche nelle condizioni in cui è importante conoscere lo
stato di compenso glicometabolico a medio-breve termine, quali diabete scarsamente compensato, diabete
gestazionale, iperglicemia post-prandiale, diabete fluttuante, pazienti gastrectomizzati;
L’INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO DEL DIABETE HA IMPORTANTI IMPLICAZIONI
PROGNOSTICHE E TERAPEUTICHE
Il quadro clinico è spesso sufficiente per la classificazione tra diabete di tipo 1 e 2, che rappresentano le
forme di diabete più frequentemente riscontrate nella popolazione; tuttavia, in alcuni casi può essere
necessaria la determinazione dei marcatori di autoimmunità (IAA, GADA, IA-2, ZnT8) e la valutazione
della secrezione beta-cellulare.
Infatti, una buona percentuale di pazienti inizialmente definiti come diabete di tipo 2 è in realtà affetta dal
diabete LADA.
Utilizzando il criterio clinico, tali pazienti sono classificati come diabete di tipo 2 e iniziano il trattamento
con dieta e ipoglicemizzanti orali, ma progressivamente manifestano un deterioramento della funzione beta-
cellulare tale da richiedere terapia insulinica. D
al punto di vista clinico, il LADA va sospettato se sono presenti una o più tra le seguenti caratteristiche:
 età <50 anni;
 BMI <25 kg/m2;
 anamnesi positiva per malattie autoimmuni, familiarità positiva per diabete tipo 1 o malattie autoimmuni;
 necessità di terapia insulinica entro 6-12 mesi dalla diagnosi.
L’età di esordio >50 anni e la presenza di sovrappeso non devono tuttavia portare a escludere a priori la
diagnosi di LADA quando gli altri criteri siano soddisfatti.
I test diagnostici utili per confermare il sospetto clinico di LADA sono:
 determinazione dei marcatori di autoimmunità (autoanticorpi);
 valutazione della funzione beta-cellulare mediante misurazione del peptide C.

Gli anticorpi contro il pancreas attualmente meglio conosciuti e dosati sono:


 ICA (Islet Cell antibodies)  anticorpi diretti contro le cellule delle isole pancreatiche che legano diverse
proteine delle cellule insulari.
 GADA (Glutamic Acid Decarboxylase Autoantibodies) sono autoanticorpi diretti contro le decarbossilasi
dell’acido glutammico ma non specifici per le cellule β perché questi enzimi sono presenti in altri organi, es.
il cervello. È un marcatore molto precoce;
 IA-2 (Tyrosine Phosphatase-Related Islet Antigen 2)  è una proteina transmembrana localizzata nei
granuli secretori delle cellule endocrine, dove sembra essere coinvolta nel processo di secrezione insulinica;
 IAA (Insulin Autoantibodies) L’insulina è l’unico antigene ritenuto altamente specifico per le cellule β.
Questi anticorpi si ritrovano in circa il 50% dei pazienti pediatrici affetti da diabete di tipo 1;
 ZnT8 (Zinc Transporter 8 Autoantibodies) è una proteina di membrana presente nei granuli secretori
contenenti insulina.
È un marcatore molto precoce e specifico. Sono stati osservati nel 26% dei soggetti con DM1 classificati in
precedenza come anticorpo-negativi, permettendo, quindi, di rivalutare la diagnosi.
Se venissero dosati tutti e 4 i marcatori di autoimmunità nei soggetti affetti da DM1 all’esordio, solo il 2-4%
risulterebbe anticorpo-negativo, meno del 10% avrebbe solo un marcatore positivo e circa il 70% avrebbe tre
o quattro marker di positività.
Il peptide C deve essere dosato dopo stimolo con glucagone o dopo pasto misto.
Il test dopo stimolo con glucagone va effettuato a digiuno e consiste in un prelievo basale e un prelievo dopo
6 minuti dalla iniezione ev di 1 mg di glucagone.
Valori di peptide C <0,2 nmol/L al basale o <0,6 nmol/L dopo stimolo sono indicativi di un grave deficit di
secrezione insulinica e della necessità di trattamento insulinico.
Valori di glicemia >180 mg/dL controindicano l’esecuzione del test, in quanto l’iperstimolazione della
cellula che ne deriva indurrebbe una sovrastima della secrezione insulinica.
Il test è utile per l’inquadramento diagnostico e prognostico dei casi di incerta classificazione, ma non
rappresenta l’unico criterio su cui basare la scelta terapeutica.
Per quanto riguarda il diabete MODY, i criteri clinici sono:
 età di insorgenza <25 anni;
 controllo metabolico mantenuto senza insulina per oltre 2 anni;
 ereditarietà autosomica dominante (almeno tre generazioni di soggetti affetti da diabete nel pedigree
familiare);
 assenza di autoimmunità.
In presenza di un fondato sospetto clinico di MODY è necessario rivolgersi a laboratori di riferimento per la
caratterizzazione del difetto genetico.
L’identificazione del MODY è importante per l’inquadramento prognostico del paziente e perché indica la
necessità di screening nei familiari.
Per quanto riguarda il diabete gestazionale, è importante distinguere tra diabete gestazionale e diabete
manifesto diagnosticato in gravidanza.
Nelle donne in gravidanza il valore normale di riferimento della glicemia a digiuno è <92 mg/dL.
Le donne in gravidanza, alla prima visita, tra i vari esami di laboratorio, devono eseguire la glicemia a
digiuno. Il riscontro di un valore di glicemia a digiuno ≥126 mg/dL pone la diagnosi di diabete manifesto; il
riscontro, invece, di un valore di glicemia a digiuno compreso tra 92 e 125 mg/dL è indicativo di diabete
gestazionale.
Se la glicemia a digiuno è <92 mg/dL, in base alla valutazione dei fattori di rischio specifici, la donna dovrà
eseguire una OGTT tra la 24ª e la 28ª settimana di gestazione, nel caso di rischio moderato, o tra la 16ª e 18ª
settimana nel caso di elevato rischio, e nel caso in cui la OGTT sia negativa, deve essere ripetuta tra la 24ª e
la 28ª settimana

Fattori di rischio moderato per il GDM (OGTT a 24-28 settimane):


 familiarità positiva per diabete in familiari di I° grado;
 pregresso diabete gestazionale (anche se con screening normale alla 16ª-18ª settimana);
 macrosomia fetale in gravidanze precedenti; sovrappeso o obesità (BMI ≥ 25 kg/m2);
 età ≥ 35 anni; etnie a elevato rischio (Asia meridionale, Medio Oriente, Caraibi).

Fattori di rischio elevato per il GDM (OGTT a 16-18 settimane) sono:


 obesità (BMI ≥ 30 kg/m2);
 pregresso diabete gestazionale;
 glicemia a digiuno 100-125 mg/dL, all’inizio della gravidanza o in passato.
In gravidanza, la OGTT deve essere eseguita come nella popolazione generale; quindi, si somministrano 75
g di glucosio disciolti in 300 mL di acqua ma i prelievi per il dosaggio della glicemia si effettuano a digiuno,
prima della somministrazione della soluzione glucosata, dopo 1 ora e dopo 2 ore.

Le donne con GDM si devono sottoporre a screening per diabete mellito 2 eseguendo un OGTT con
procedura classica con 75 g di glucosio dopo 6 settimane ed entro 6 mesi dal parto.
Se il test è negativo, la OGTT deve essere ripetuta ogni 3 anni; se si riscontra un’alterata tolleranza ai glucidi
(IFG o IGT), il test deve essere ripetuto ogni anno.
Una volta posta la diagnosi di diabete mellito (qualsiasi forma), la prima valutazione del paziente deve
comprendere una visita medica completa volta a definire le sue condizioni cliniche generali ma focalizzata
soprattutto sulla ricerca di eventuali complicanze croniche della malattia già in atto, mediante esami di
laboratorio e strumentali.
 In particolare, la valutazione iniziale del paziente cui è stato diagnosticato il diabete mellito si basa su:
anamnesi familiare;
 anamnesi fisiologica (attività fisica praticata, stile di vita, ecc);
 anamnesi patologica;
 esame obiettivo;
 esami di laboratorio che devono includere: profilo lipidico a digiuno, comprendente colesterolo totale,
colesterolo HDL, trigliceridi e colesterolo LDL;
 test di funzionalità epatica ed eventuali approfondimenti nel sospetto di steatosi o epatite;
 albumina urinaria in tutti i pazienti con diabete di tipo 2 e nei pazienti con diabete di tipo 1 con durata di
malattia >5 anni;
 creatininemia (nel bambino solo in presenza di proteinuria) e stima della filtrazione glomerulare;
 nei pazienti con diabete di tipo 1 alla diagnosi: screening di tiroidite autoimmune e malattia celiaca;
 autoanticorpi anti-insulina, e/o anti-GAD e/o anti-IA2 e/o anti-ZnT8 per la corretta classificazione del tipo
di diabete;
 esame delle urine per valutare chetonuria, proteinuria e sedimento.

COMPLICANZE
Le complicanze del diabete mellito possono essere classificate in acute e croniche.
La complicanza acuta tipica del DM1 è la chetoacidosi diabetica, di cui può rappresentare la
manifestazione clinica d’esordio, soprattutto nei bambini;
la complicanza acuta del DM2 è il coma iperosmolare iperglicemico.
La chetoacidosi diabetica è dovuta alla carenza di insulina e all’eccesso di ormoni controregolatori
(catecolamine, glucagone, ormone della crescita, cortisolo).
In particolare, la chetosi deriva da un’incrementata sintesi epatica di corpi chetonici che, a sua volta, deriva
dall’incrementato afflusso epatico di acidi grassi liberati dal tessuto adiposo, in cui la mancata inibizione da
parte dell’insulina della lipasi ormone-sensibile determina l’idrolisi dei trigliceridi in glicerolo e acidi grassi,
che vengono immessi in circolo e raggiungono il fegato, dove gli acidi grassi vanno incontro al processo di
beta-ossidazione con formazione di acetil-CoA.
La formazione dei corpi chetonici è favorita quando la concentrazione di acetil-CoA eccede la capacità
ossidativa del ciclo di Krebs.
A pH fisiologico i corpi chetonici sono presenti come chetoacidi e vengono neutralizzati dai bicarbonati;
quando però le riserve di bicarbonato si esauriscono, compare acidosi metabolica.
I sintomi principali sono: nausea, vomito, dolore addominale, poliuria, polidpsia, astenia, anoressia,
alterazioni dello stato mentale, dispnea.
I segni più frequenti sono rappresentati da: tachicardia, secchezza di cute e mucose, tachipnea, respiro di
Kussmaul, tachipnea, distress respiratorio, disidratazione, ipotensione, febbre, letargia, obnubilamento del
sensorio, edema cerebrale e possibile coma.
Il coma iperosmolare è una complicanza metabolica del diabete mellito di tipo 2 che si manifesta soprattutto
in individui anziani; l’evento precipitante si ritiene sia un inadeguato apporto idrico che, nei soggetti già a
rischio di disidratazione per la poliuria, conduce a ipovolemia, con riduzione della filtrazione glomerulare
che aggrava l’iperglicemia.
I segni e sintomi principali sono: nausea, vomito, disidratazione, secchezza di cute e mucose, ipotonia dei
bulbi oculari, ipotensione, sonnolenza, letargia, convulsioni fino al coma.
Può essere precipitata da: infezioni, ictus, infarto miocardico acuto, pancreatiti, uremia, nutrizione
parenterale, diuretici, dialisi peritoneale, farmaci (es. fenitoina, steroidi).
Viene diagnosticata in caso di rilievo di:
 severa iperglicemia: >600 mg/dL; iperosmolarità >320 mOsm/L;
 marcata disidratazione;
 chetoni: assenti o tracce;
 assenza di acidosi (pH >7,3; HCO3– >15 mEq/L).
Le complicanze croniche possono essere suddivise in non vascolari e vascolari.
Quest’ultime sono a loro volta classificate in microangiopatie, a carico dei piccoli vasi, principalmente a
livello della retina e del glomerulo renale, e macroangiopatie, a livello del circolo periferico e coronarico,
con formazione precoce di lesioni aterosclerotiche.
Le complicanze non vascolari comprendono disturbi come la gastroparesi, le infezioni e le alterazioni
cutanee; inoltre, il diabete di lunga durata può associarsi a perdita dell’udito.
Il rischio di complicanze aumenta in funzione della durata dell’iperglicemia; considerato che il diabete di
tipo 2 è spesso preceduto da un lungo periodo di iperglicemia asintomatica, un grande numero di pazienti si
presenta già con una o più complicanze al momento della diagnosi.
L’iperglicemia cronica determina l’instaurarsi di complicanze croniche attraverso vari meccanismi che
comprendono la glicazione non enzimatica con formazione dei prodotti terminali della glicazione avanzata
(AGE, Advanced Glycation End Product), l’attivazione della protein chinasi C (PKC) e difetti della via dei
polioli che determinano un incremento dello stress ossidativo.

Monitoraggio
Il laboratorio clinico ha un ruolo fondamentale anche nel monitoraggio del paziente con diabete mellito, per
valutare il corretto compenso glicemico e/o l’eventuale insorgenza di alterazioni, al fine di intervenire
tempestivamente, modificando o sostituendo la terapia.
In particolare, sono utili ai fini del monitoraggio i seguenti esami di laboratorio, che devono essere eseguiti
almeno una volta l’anno:
 esame delle urine finalizzato a valutare:
-glicosuria (compare con glicemia >180 mg/dL);
-chetonuria (frequente nel DM1 scompensato);
-albuminuria (>30 mg/24 ore o >30 mg/g creatinina) – importante marcatore per lo sviluppo di
nefropatia diabetica e associato a significativo rischio di patologia cardiovascolare;
 eGFR per valutare la funzionalità renale;
 chetonemia;
 profilo lipidico completo;
 HbA1c per valutare il controllo glicometabolico a lungo termine;
 albumina glicata per valutare il controllo glicometabolico a medio termine;
 peptide C per valutare la capacità secretoria residua delle cellule β pancreatiche;
 insulina, soprattutto nei pazienti con DM2, per valutare il grado di insulino-resistenza. L’insulina deve
essere valutata dopo stimolo (OGTT). Nei pazienti con DM2, la risposta insulinemica sarà ritardata e
persistente.

La misurazione dell’emoglobina glicata rappresenta il gold standard per la valutazione del controllo
glicometabolico nei pazienti diabetici.
Le linee guida raccomandano di dosarla:
 2 volte l’anno in pazienti con controllo metabolico stabile e che hanno raggiunto il target terapeutico;
 >2 volte l’anno in pazienti con controllo metabolico instabile.
Poiché la frequenza della misurazione di HbA1c è legata alla vita media degli eritrociti, è inappropriato
dosarla a meno di 2 mesi di distanza.
Terapia
In tutte le persone con diabete la glicemia e l’HbA1c vanno mantenute entro i livelli appropriati al fine di
ridurre il rischio di complicanze acute e croniche.
In particolare, gli obiettivi glicemici in pazienti con diabete di tipo 1 e 2 sono:
 emoglobina glicata <53 mmol/mol (<7%);
 glicemia a digiuno e pre-prandiale 70-130 mg/dL;
 glicemia post-prandiale <160 mg/dL.
L’emoglobina glicata rappresenta l’obiettivo principale del trattamento in persone con diabete, in virtù della
stretta relazione tra questo indice di controllo glicemico e le complicanze micro- e macroangiopatiche.
In linea di massima, la terapia del diabete prevede una corretta alimentazione, l’attività fisica e, se
necessario, la somministrazione di farmaci (insulina, ipoglicemizzanti orali).
Il DM1 richiede terapia con insulina esogena, vista l’insulinopenia dovuta alla distruzione delle cellule β del
pancreas; nel DM2, invece, il trattamento si basa su interventi sullo stile di vita (alimentazione ed esercizio
fisico), ipoglicemizzanti orali e, in alcuni casi, insulina.
Nel pazienti con DM2, il farmaco di prima scelta è la metformina.
Nel caso in cui la monoterapia non sia sufficiente a raggiungere l’obiettivo glicemico, si può valutare la
terapia combinata con metformina associata ad altre molecole.
Quando il controllo glicemico non è soddisfacente anche in politerapia, la terapia insulinica è fondamentale.
Nel paziente con DM1 l’obiettivo è bilanciare e combinare l’apporto calorico con l’appropriata quantità di
insulina; quindi, la dieta e il monitoraggio della glicemia devono essere integrate al fine di definire il regime
insulinico ottimale.
Inoltre, bisogna minimizzare l’incremento ponderale spesso associato al trattamento anti-diabetico intensivo.
Il paziente con DM1 si può sottoporre anche a trapianto del pancreas o delle isole di Langerhans, che ha
l’obiettivo di ridurre il bisogno di insulina esogena eliminando al contempo alcune delle manifestazioni più
pericolose come l’ipoglicemia.
Le donne con diabete gestazionale durante la gravidanza devono mantenere i seguenti obiettivi glicemici:
 glicemia a digiuno <92 mg/dL;
 glicemia 1 ora dopo i pasti <140 mg/dL;
 glicemia 2 ore dopo i pasti <120 mg/dL;
 emoglobina glicata <42 mmol/mol (<6%).
La terapia del diabete gestazionale è innanzitutto nutrizionale, con l’obiettivo di fornire un’adeguata
nutrizione materna e fetale, adeguato apporto calorico, vitaminico e minerale e controllo glicemico ottimale
in assenza di chetonuria/chetonemia.
Qualora gli obiettivi glicemici non venissero raggiunti dopo 2 settimane di dieta seguita correttamente, si
deve instaurare una terapia insulinica.
Attualmente, gli ipoglicemizzanti orali non sono raccomandati in gravidanza. Immediatamente dopo la
diagnosi di diabete gestazionale, le donne devono eseguire l’autocontrollo glicemico con misurazioni
quotidiane.

ESERCIZIO FISICO
Migliora la sensibilità all’insulina, il profilo lipidico e l’ipertensione
• Deve essere eseguito almeno ogni 2-3 giorni per una efficacia ottimale
• Può aumentare il rischio di ipoglicemie acute e tardive.
Occorre gestire l’esercizio fisico tramite: l’autocontrollo della glicemia per sapere quale sia la risposta
all’esercizio e quale siano gli effetti dei cambiamenti della dieta e dell’insulina su di esso; una riduzione
della dose insulinica, se si pratica esercizio regolare; aggiunta dei carboidrati se necessaria.
Attenzione alle ipoglicemie tardive;
L’esercizio in condizioni di deficit insulinico aumenterà i livelli plasmatici di glucosio e corpi chetonici.
L’alcool può esacerbare il rischio di ipoglicemie dopo l’esercizio.
VITAMINA D E DIABETE
La vitamina D può svolgere un ruolo significativo in entrambi i tipi di diabete, 1 e 2.
Ci sono prove interessanti sulla validità della cosomministrazione di vitamina D e omega 3 Pare che 3.000
UI al giorno di vitamina D3, contro i precedenti di 800 UI al giorno, siano dosi giuste anche in prevenzione.
Il dosaggio deve aumentare negli anziani e soprattutto in presenza di determinate patologie.
Agisce in entrambi i casi poiché nel diabete 2 si ha una ridotta secrezione insulinica e insulino resistenza e la
vitamina D modula entrambe; mentre nel diabete 1 abbiamo detto esserci un’autoimmunità, e la vitamina D
protegge dall’autoimmunità.
La vitamina D riduce l’iperglicemia causata da statine e antipsicotici, infatti alcuni farmaci possono
aumentare il rischio di disfunzione metabolica.
Le statine farmaci usati per abbassare il colesterolo, possono innescare il diabete indotto da farmaci.
Uno studio pubblicato sulla rivista International Journal of Basic & Clinical Pharmacology dimostra che
l’assunzione di vitamina D riduce gli effetti avversi sulla glicemia causati dalle statine.
Gli antipsicotici atipici, come la quetiapina, un farmaco usato per il trattamento del bipolarismo, sono stati
collegati a un aumento del rischio di iperglicemia e diabete, cheto acidosi diabetica, coma e anche la morte.
La vitamina d3 può contrastare questi effetti.

Inoltre, la vitamina D ha un ruolo molto importante nel mantenere l'epigenoma.


Le alterazioni epigenetiche sono una caratteristica del diabete, dove è presente ipermetilazione.
La vitamina D previene l’ipermetilazione in molti geni correlati al diabete, aumentando l'espressione delle
demetilasi del DNA.
Quando la vitamina D è carente, molti dei processi che controlla iniziano a non procedere bene e questo fa
da starter per l'inizio di malattie come il diabete.
L’INTESTINO ED IL DIABETE
La funzionalità dell’intestino e del microbiota possono essere responsabili delle alterazioni che si osservano
nei soggetti diabetici.
Sono due le condizioni che vengono rilevate nell’intestino di un soggetto diabetico:
-Permeabilità della mucosa intestinale, rilevata attraverso il test del mannitolo
-Infiammazione con aumento di linfociti nella mucosa
I fattori genetici e ambientali, oltre che la dieta influenzano lo sviluppo del microbiota intestinale.
Nel diabete di tipo 1, sono stati riportati un'abbondanza di Bacteroides e un basso numero di batteri che
producono butirrato.
Queste modifiche possono influenzare l'omeostasi immunologica nell'intestino e la permeabilità
dell'intestino.
Un intestino infiammato può portare allo sviluppo di risposte immunitarie verso gli antigeni alimentari,
come il latte vaccino.
Il microbiota alterato influisce sulla protezione immunitaria contro le infezioni da enterovirus associate al
diabete di tipo1.
Inoltre, l'interazione complessa tra il microbiota intestinale, l'ospite, l'ambiente e i meccanismi della malattia
conducono allo sviluppo di autoimmunità nelle beta-cellule e diabete di tipo 1.
Un meccanismo che nasce sempre da uno stato di disbiosi potrebbe essere legato all’insulina resistenza
all’infiammazione che si osserva nel diabete di tipo 2.
In questo caso questo tipo di batteri oltre che a produrre lattato e degradare la mucina è responsabile del
rilascio di una molecola altamente infiammatoria che è LPS.
I recettori sono ben distribuiti in tutti i tessuti del nostro organismo e questo stimola uno stato
infiammatorio.
Le LPS si lega a TLR4 provocando una risposta infiammatoria e la secrezione di citochine.
L’aumento di LPS induce infiammazione, insulino-resistenza, intolleranza al glucosio e obesità.
Nei soggetti obesi/diabetici elevati livelli LPS correlano con incremento della permeabilità intestinale
evidenziabile dalla proteina zonulina o occludina.
Quindi oltre ai classici marcatori si osserva anche l’incremento di marcatori che pur essendo associati ad
altri stati di infiammazione, influenzano la patologia principale che, per noi in questo caso, è il diabete.
Dunque, anche in condizioni di prediabete, quindi con una glicemia a digiuno con valori compresi tra 100 e
125, si hanno già alterazioni della flora batterica intestinale con una minore biodiversità.
In uno studio è stato messo in evidenza come riducendo le condizioni di prediabete, con la
supplementazione di probiotici che ristabiliscono la flora intestinale, la condizione di prediabete stessa viene
migliorata.
Un’altra causa che lega le alterazioni del microbiota con l’insorgenza di diverse patologie oltre al diabete,
come quelle epatiche o cardiovascolari, è la produzione di un metabolita che prende il nome di TMA,
trimetilamina.
Questo tipo di metabolita viene prodotto dalla fermentazione di alcuni tipi di batteri che si trovano nel nostro
intestino su due sostanze, la colina e la carnitina, che provengono da una dieta di carne o da derivati di
origine animale.
Questa dieta ricca di colina e carnitina, non solo, aumentano l’assorbimento del colesterolo, ma vengono
metabolizzati dai batteri intestinali, attraverso delle reazioni di fermentazione, il TMA il quale, una volta nel
fegato, attraverso la FMO3, flavinmonossigenasi3, viene convertita in TMAO, trimetilamina N-ossido.
Questo TMAO, in parte rientra nella circolazione enterica per essere ulteriormente metabolizzato e, in parte,
passa nella circolazione sistemica per essere distribuito in tutto il corpo.
Il TMAO sembra essere legato a diverse manifestazioni patologiche tra cui: danni renali, diabete di tipo 2,
sindrome metabolica, infarto e aterosclerosi.
IL TMAO può essere considerato come un marcatore precoce o predittivo per una serie di manifestazioni
cliniche.
Alcuni parametri che vengono tenuti sotto controllo sia per la prevenzione del diabete, sia per il
monitoraggio della patologia, sono la misura della disfunzione delle beta cellule ed il rischio di Insulina
Resistenza, che sono le due caratteristiche principali nella manifestazione della patologia.
In alcuni centri dove si seguono dei pazienti diabetici sono parametri di routine i livelli di vitamina D e suo
metaboloma, TXNIP, del Peptide C, della proinsulina e dell’Insulina.
La Vitamina D e TXNIP, che è il mediatore di stress ossidativo il quale inibisce l’attività della tireodossina
e ne limita la biodisponibilità, sono associati con differenti marker di disfunzione delle beta cellule.
Inoltre, viene monitorata anche la funzione delle beta cellule attraverso un metodo che prende il nome di
HOMA-BETA.
Questo metodo si basa sul dosaggio delle concentrazioni sieriche di glucosio e di insulina a digiuno.
L’indice calcolato ci dà delle informazioni sulle cellule beta.
Questa misura è in percentuale, dunque se io ottengo una percentuale 100 % allora tutte le cellule beta
funzionano; se invece otteniamo 0 vorrà dire che le cellule pancreatiche non stanno funzionando e qundi il
soggetto è affetto di diabete.
Le condizioni di percentuali intermedie sono possibili grazie al fatto che consideriamo il rapporto
percentuale degli indici di insulina e di glicemia, ottenendo una contezza di quante cellule beta del pancreas
funzionano.
Un altro indice che possiamo considerare è l’HOMA index che valuta il grado di insulina resistenza.
Valori normali sono considerati tra 0.23 e 2.5, per valori di HOMO index maggiori a 2.5 il soggetto presenta
insulina resistenza.

Inoltre, è stato dimostrato che:


Nel Diabete 1 : ci sono bassi livelli di HOMA-beta , vitamina D eTXNIP.
Vi è un elevato rapporto PI/C
Nel Diabete 2 : Ci sono elevati livelli di peptide C, proinsulina, PI/C, HOMA IR e vitamina D senza
differenze.
La Vitamina D correla:
▪ positivamente con HOMA-beta e TXNIP
▪negativamente con PI, PI/C, PI/I e HOMA-IR.
TXNIP correla positivamente con HOMAbeta e negativamente con PI/C

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