Sei sulla pagina 1di 7

Il biomarcatore è un indicatore di parametri fisiologici, biochimici, genetici (genoma nucleare-mitocondriale-

olobioma), o anatomici.
L’olobioma, riferito ai biomarcatori di tipo genetico fa riferimento a microbioma che sono associati ad una
malattia, ossia i patrimoni genetici di virus, batteri e funghi i quali rappresentano i nuovi fattori che causano
patologie ad elevata incidenza e prevalenza che ritroviamo oggi.
Esempi di Biomarkers sono:
•Livelli di glucosio usati come biomarcatori nella gestione del diabete;
•Immagini cerebrali come la risonanza magnetica (MRI) in grado di fornire informazioni sulla progressione della
sclerosi multipla;
•sostanze biologiche come gli enzimi, che possono essere trovati nel sangue o nei campioni di tessuto e sono
spesso usati nella ricerca sul cancro;
•cambiamenti genetici (DNA);
•immagini mediche o raggi X.
Questo perché ricordiamo che i biomarcatori sono degli indicatori di uno stato patologico o fisiologico umano.
Le tre grandi classi di biomarcatori sono:
 Diagnostici che ci permettono di individuare uno stato iniziale o progressivo di una malattia,
 Predittivi i quali vengono utilizzati nel monitoraggio della terapia o nella scelta della terapia per alcuni tipi
di farmaci e ci permettono di predire la risposta della terapia ed individuare i “responder” ossia i soggetti che
risponderanno alla somministrazione del farmaco e i “non responder” poiché non rispondono al farmaco
somministrato. Un esempio lo possiamo riscontrare nel trattamento delle terapie oncologiche o auto-immuni.
Questi farmaci biotecnologici hanno un bersaglio per specifico ed il farmaco è specifico verso un dato target.
 Prognostici i quali hanno a che fare con l’outcome (evoluzione) di una malattia.
Chi ha un biomarcatore prognostico basso, furi dal range di normalità, ha un “good outcome” ossia una
buona evoluzione della malattia quindi si ha una buona prognosi; chi presenta un valore alto ha un “poor
outcome”, ossia un’evoluzione scarsa della malattia associata ad una prognosi più aggravata rispetto la
precedente.

Le definizioni dei biomarcatori sono state stabilite dalla US Food and Drug Administration e dal National
Institutes of Health.
La review esplora le distinzioni tra biomarcatori e valutazioni degli esiti clinici, discute le definizioni e le
applicazioni specifiche di biomarker diagnostici, di monitoraggio, farmacodinamici/di risposta, predittivi,
prognostici, di sicurezza e di suscettibilità/rischio, esplora anche le implicazioni degli attuali trend di sviluppo dei
biomarcatori, compresi i biomarcatori compositi complessi e i biomarker digitali derivati da sensori e tecnologie
mobili.
Inoltre, discute le sfide e i potenziali benefici dei sistemi guidati dai biomarcatori, della necessità di garantire la
qualità e riproducibilità della scienza che sta alla base dello sviluppo dei biomarcatori e l'importanza di
promuovere la collaborazione e la multidisciplinarietà nell'intero ecosistema dello sviluppo e dell’utilizzo dei
biomarcatori.
Un biomarcatore è rappresentato da una modificazione (di tipo molecolare, biochimico, genetico, immunologico
o fisiologico) che consente di rilevare un evento in un sistema biologico che possa influenzare o predire
l’insorgenza o l’evoluzione di una malattia.
Ne deriva che oggi in uno studio di epidemiologia molecolare, che è pur sempre paragonabile ad uno studio di
epidemiologia tradizionale, la differenza la fa l’end-point che viene valutato.
Questo non è più la malattia conclamata (tassi di incidenza o prevalenza) o l’esito della malattia stessa (tassi di
mortalità), ma uno o più biomarcatori.
Questo ci permette di individuare una data patologia o malattia nella sua totalità.
L’ end-point è la risposta al trattamento che vogliamo sottoporre a verifica nello studio.
Quindi con l’introduzione dei biomarcatori come tecnica diagnostica non solo parliamo di epidemiologia
molecolare, ma è cambiato anche l’end-point passando da un end-point clinico che rappresenta la prevalenza e
l’incidenza di una malattia come la mortalità per infarto del miocardio in paziente con ipertensione arteriosa.
Ad oggi con il biomarcatore, il quale ricordiamo essere un indicatore che mette in evidenza qualcosa, ha fatto
spostare l’attenzione da un EP clinico, ossia che il clinico poteva osservare ed individuare il sintomo di una data
malattia, ad un qualcosa che può predire un’eventuale insorgenza di patologia.
In questo caso parliamo di end-point surrogato poiché mi permette di predire eventuali effetti dannosi, benefici
clinici o ancora la mancanza di benefici ed effetti dannosi.
Dunque, io riconosco precocemente dei segnali che potrebbero essere causa della malattia o individuare dei
sagnali che sono già causa di una data malattia, ma, li riconosco in tempi utili prima che questa avanzi troppo per
poterla contrastare.
Per esempio, se noi consideriamo una data patologia evidenziata con gli EP clinici e surrogati ci accorgeremmo
che, per esempio nel caso dell’ipertensione, ossia dell’aumento della pressione sanguigna, uno degli esiti clinici
che ci si poteva aspettare con gli EP clinici era il rischio di infarto o di ictus.
Quindi poiché si è capito che un aumento della pressione era correlata, spesse volte, ad un infarto o ictus, si è
cercato di non condurre il paziente a questa fine, ma, monitorando la pressione arteriosa si cerca di controllare
questo marcatore e di riportarlo nei valori ottimali per evitare l’insorgenza del malessere.
In questo caso EP surrogato è la Pressione Arteriosa e i livelli di questa mi permettono di prevenire l’insorgenza
di malattie portate proprio da questa patologia.
Stessa cosa possiamo dire per le alterazioni di accumulo lipidiche, le quali conducono all’aumento del
colesterolo, all’ottusione delle arterie che causeranno infarto.
Ovviamente anche in questo caso monitorando i livelli di colesterolo si può prevenire l’insorgenza di malattie
associate al suo aumento.
Stessa cosa potremmo dire per il diabete o per il cancro.
Quindi posso definire l’END-POINT PRIMARIO come quella risposta capace di misurare nel singolo paziente
l’efficacia del trattamento al livello terapeutico prescelto.
Ogni farmaco prima di arrivare al paziente deve passare degli step che ne garantiscono un effetto sicuro, povero
di effetti collaterali e che dia un’efficacia terapeutica appropriata.
Questi step sono le fasi di sviluppo del farmaco dove l’utilizzo del biomarcatore aiuta i clinici nel percorso di
approvazione.
Infatti, l’uso dei biomarcatori inizia con le prime fasi di studio preclinico, per poi continuare con gli studi clinici
e i post-clinici.
Queste ricerche, la cui durata oscilla in genere tra i sette e i dieci anni, sono a carico del “proprietario” del
farmaco (il più delle volte un’industria farmaceutica) e si articolano in diverse fasi: studi “in vitro” e “in
vivo” sugli animali (sperimentazione preclinica) e studi cosiddetti di fase 1, di fase 2 e di fase 3 eseguiti
sull’uomo (sperimentazione clinica).
Si utilizzano in questi processi i biomarcatore per migliorare i processi di sviluppo dei medicinali, dalla scoperta
del farmaco e dalle valutazioni precliniche attraverso ogni fase degli studi clinici e negli studi post-marketing.
Inoltre, c’è da dire che gli studi clinici cercano di misurare le risposte dei pazienti a un trattamento e se non è
possibile misurare direttamente la risposta, i biomarcatori possono fornire un modo alternativo di misurare un
risultato, infatti abbiamo detto che servono come endpoint surrogati.
I biomarcatori ci permettono di ottenere un trattamento su “misura” per ogni paziente e ciò consentirà decisioni
terapeutiche più sicure ed efficaci.
Poiché lo sviluppo di un farmaco richiede tempo ma soprattutto denaro alla casa farmaceutica che procede nella
drug discovery i biomarcatori con un EP surrogato ci permettono di misurare prima, più facilmente o
frequentemente, con elevata precisione i trattamenti e i benefici del farmaco.
I biomarcatori possono essere meno influenzati da altri trattamenti, riduzione della dimensione del campione
richiesta e permette ai ricercatori di prendere decisioni più rapide; offrono importanti vantaggi etici come
endpoint surrogati nelle malattie con prognosi sfavorevole.
Un esempio dell’uso di un biomarker come un surrogate endpoint lo possiamo riscontrare nello sviluppo di
medicinali antiretrovirali per l'HIV e l'AIDS (immuno deficienza acquisita.
Il bersaglio del retrovirus sono i linfociti CD4. Questi linfociti portano sulla loro superficie questo antigene che li
rende riconoscibili al retrovirus.
Sappiamo bene che il virus che va ad infettare la cellula tende a far morire la cellula stessa.
Nel Passato gli studi sarebbero stati basati su endpoint clinici difficili come la progressione dell'infezione da HIV
in AIDS e/o la sopravvivenza del paziente.
Ad oggi, i cambiamenti cellulari come i livelli di "linfociti CD4" e i cambiamenti nei livelli di RNA dell'HIV-
virus nel plasma possono essere usati come endpoint surrogati.
Quindi, ancora, possiamo rafforzare il concetto di EP surrogato come un modo di approcciarsi allo studio di una
patologia, intervenendo su una data malattia utilizzando dei marcatori molecolari che mi danno dei valori a
livello microscopico e non ho più la necessità di individuare delle manifestazioni macroscopiche come i sintomi
clinici di una malattia.
Molte tecniche continuano a cambiare inseguito alle high-throughput technology platforms, ossia piattaforme
tecnologiche ad alta produttività, dove molti nuovi biomarcatori vengono scoperti e utilizzati durante lo sviluppo
di nuovi farmaci.
Molti di questi usano:
- genomica (analisi dei cambiamenti che si verificano a livello genico)dove il DNA viene studiato nella
sua totalità. Se consideriamo il progetto “Genoma” del 2001, il cui obiettivo principale del era quello di
comprendere la funzione dei geni appartenenti al genere umano.
Il progetto ha inoltre studiato vari altri organismi non umani quali il batterio Escherichia coli, il
moscerino della frutta Drosophila melanogaster e il topo da laboratorio.
È stato possibile condurre tale progetto poiché le nuove tecnologie permettevano di analizzare il DNA
nella sua totalità dando la possibilità di analizzare 20mila geni nella stessa analisi e nello stesso momento.
Questo progetto ha condotto alla sequenza del DNA umano con un solo strumento ed analisi.
- proteomica (analisi dei cambiamenti a livello proteico) analisi del cambiamento proteico che potrebbe
essere modificato dalla patologia
- metabolomica (analisi delle differenze nelle molecole chimiche che svolgono un ruolo importante nella
funzione corporea e cellulare) si studiano e rilevano contemporaneamente i livelli di concentrazioni dei
metaboliti che sono variati in quell’analisi allo stesso momento in quel determinato tessuto.
il dato grezzo contiene dunque tutte le concentrazioni dei metaboliti che io sto studiando.
Queste nuove tecnologie mirano a delle analisi su larga scala di tutto quello che è un gruppo di macromolecole.
La ricerca sul cancro (oncologia) è stata una delle prime aree in cui è stato adottato l'uso di biomarcatori.
La Companion diagnostics (La diagnostica di accompagnamento) sono test convalidati e approvati per la
commercializzazione insieme a un nuovo farmaco.
Questi test possono aiutare a selezionare pazienti che potrebbero rispondere a un farmaco ed escludere quei
pazienti che potrebbero avere una reazione avversa e determinare la dose migliore per un paziente.
Infatti, prima dell’uso dei biomarcatori i pazienti affetti da una stessa neoplasia venivano trattati con una stessa
terapia tumorale. A seguito di queste cure c’erano dei pazienti che beneficiavano della cura, dei pazienti che non
ne beneficiavano e dei pazienti che sviluppavano degli effetti collaterali.
Con l’introduzione dei biomarcatori la cura è diventata il più specifica possibile per il paziente e la sua malattia,
migliorando i benefici della terapia.
Le tecniche utilizzate sono:
- Genomica: che utilizza tecniche di sequenza genomica, variazione genomica e annotazione genomica
- La trascrittomica la quale studia l’espressione dei geni a livello dell’mRNA.
- La proteomica che analizza l’espressione dei geni nelle proteine
- La metabolomica che utilizza come tecniche di spettrometria di massa o risonanza magnetica nucleare.
La maggior parte delle industrie farmaceutiche che si occupano di mettere in commercio dei farmaci che puntano
verso un particolare target molecolare sono obbligate a mettere appunto anche il kit diagnostico che deve essere
associato all’immissione in commercio del farmaco perché deve essere in grado di dimostrare che il farmaco che
agisce su quel target molecolare e quindi mettere in commercio il kit che serve ad individuare il bersaglio di quel
farmaco.
La scoperta di biomarcatori è strettamente correlata alla biochimica clinica e alla biologia molecolare.
Sono stati sviluppati biomarcatori per l’individuazione di diversi tipi di malattie, neurologiche, epatiche,
cardiache, renali etc.
Ovviamente tutti questi biomarcatori devono essere sensibili e specifici e ci permettono di entrare in correlazione
con un EP clinico.
Infatti, ricordiamo che l’utilizzo di un EP clinico con quello surrogato mi rafforza l’utilizzo dei biomarcatori
surrogati.
Quindi il biomarcatore deve essere quantificabile
poiché lo devo poter misurare, dovrebbe
permettere una gestione personale del pz e della
malattia, dovrebbe permettere una stratificazione
del rischio di progressione della patologia, deve
essere economico ed efficace.

Ad oggi la scoperta dei biomarcatori, che


abbiamo detto essere correlata alla scoperta dei
farmaci, deve seguire degli step. Ad ogni step dello sviluppo di un farmaco corrisponde una diversa fase del
biomarcatore, in particolare:
SCOPERTA FARMACO:
 SELEZIONE DI UN TARGET
 INDIVIDUAZIONE DI UN LEAD
 VALIDAZIONE DELLA FASE PRECLINICA
 FASE CLINICA CHE CONSTA DI FASE I, II, III
 PRODUZIONE DEL FARMACO ED IMMISSIONE DUL COMMERCIO CON STUDI DI FASE IV

SCOPERTA DEL BIOMARCATORE


 SCOPERTA DEL BIOMARCATORE MEDIANTE I PROCESSI DI GENOMICA, PROTEOMICA
ETC. TRAMITE LE TECNICHE BIOINFORMATICA O DI MEDICINA DI LABORATORIO.
 SVILUPPO DEL SAGGIO DI CONFERMA BIOMARCKER
 VALIDAZIONE DEL BIOMARCATORE
 VALIDAZIONE CLINICA E UTILITÀ
 APPROVAZIONE NORMATIVA DA PARTE DLL’ US/EU E ADOZIONE CLINICA.
Idealmente, un nuovo biomarcatore deve dimostrare «elevata utilità clinica con elevato livello di evidenza»
Deve esserci sia una validazione analitica che clinica.
All’inizio gli analiti sono molti per poi ridursi ad uno ottenendo un biomarcatore specifico.
Allo stesso modo il numero di persone che vengono coinvolte nella validazione di un biomarcatore è nullo
inizialmente perché gli studi preclinici vengono fatti in vitro e sugli animali per poi aumentare con gli studi
clinici e le diverse fasi fino a diventare massimo dopo l’immissione del farmaco in commercio.
Se il passaggio da un piccolo pool di persone ad un pool più ampio non riscontra gli stessi risultati questo
biomarcatore non potrà essere ultimato per essere messo in commercio.

Possiamo distinguere i biomarcatori in:

MARCATORI ESOGENI
I marcatori esogeni comprendono parti (materiale genetico) o specifici prodotti (es. proteine o tossine) di agenti
infettivi patogeni per l’uomo. Quindi derivano dall’esterno dell’organismo umano.
Possono essere agenti chimici presenti nell’ambiente che penetrano nell’organismo umano la cui identificazione
è spesso resa difficoltosa dal fatto che una volta entrati nell’organismo subiscono dei processi di
biotrasformazione per cui la loro struttura chimica può differire anche in maniera considerevole rispetto a quella
originaria (pollini, agenti xenobiotici).

MARCATORI ENDOGENI
I marcatori endogeni si dividono in:
 MARCATORI DI FUNZIONE Comprendono tutte quelle sostanze presenti a vario titolo nei tessuti
e/o nei fluidi extracellulari, come per esempio i metaboliti (enzimi, ormoni, citochine immunoglobuline).
Sono di solito presenti in quantità minime, per aumentare in seguito a stimoli fisiologici (es. ormoni) o
patologici (citochine, Immunoglobuline).
Li troviamo a vario titolo nei nostri tessuti o liquidi corporei poiché esplicano la loro azione in piccole
quantità e possono variare i loro livelli inseguito ad alcuni stimoli fisiologici.
L’interpretazione dei dati forniti da questi marcatori può essere di notevole utilità nell’individuare la
carenza ad esempio di specifici enzimi.

 MARCATORI DI LESIONE Sono sostanze che fanno parte della normale struttura delle cellule di un
tessuto od organo che in seguito ad un evento lesivo, vengono rilasciati nei fluidi extracellulari.
Essi forniscono quindi un’informazione immediata sulla struttura biologica danneggiata, con specificità a
livello cellulare e/o molecolare.

I profili di biomarker possono essere ottenuti da PBMCs, plasma e siero e cellule circolanti selezionate nel
sangue, così come da altri fluidi corporei tra cui l'urina e la saliva, per identificare gli individui asintomatici a
rischio. ECM, frammenti di matrice extracellulare.
BIOPSIA LIQUIDA
Negli ultimi anni il sangue è stato paragonato ad una sorta di compartimento da cui io posso attingere delle
informazioni paragonabili a quelle che io ricaverei andando a studiare il tessuto coinvolto direttamente dalla
patologia.
Se consideriamo i casi tumorali potremmo notare come il sangue venga studiato tramite una “biopsia liquida”
ossia si pensa che nel sangue siano rappresentati tutte le caratteristiche genetiche e tumorali che possano essere
presenti in una formazione tumorale nel nostro organismo.
Quindi utilizzando il sangue ottengo le informazioni a me necessarie riguardanti la massa tumorale con le stesse
“notizie” ottenute facendo una biopsia della massa tumorale stessa.
Dunque, si possono eguagliare i risultati utilizzando un modo meno invadente rispetto allo studio diretto della
massa tumorale.
Questa tecnica non è sostitutiva della biopsia della massa tumorale ma quando non è possibile ottenere un tessuto
bioptico questa è un’ottima soluzione.
Inoltre, questa tecnica è fondamentale nel controllo della crescita del tumore e nell’anticipare la possibile
metastasi tumorale.
Dunque, non devo considerare il sangue solamente come una matrice da cui prelevare lipidi, cellule etc., ma devo
considerarlo in oncologia come un possibile mezzo per trarre informazione sul tumore localizzato in diverse parti
del nostro organismo.
Nella matrice sangue si vanno a cercare:
-gli acidi nucleici circolanti che possono essere DNA o RNA, ed in particolar modo il DNA tumorale circolante
viene indicato con la sigla ctDNA o ctRNA.
Molecole di cfDNA o di cfRNA vengono rilasciati in circolo sia in condizioni fisiologiche sia in condizioni
patologiche.
Il DNA libero circolante (cfDNA) è un frammento di DNA degradato rilasciato nel plasma sanguigno. 
CfDNA può essere utilizzato per descrivere varie forme di DNA che circolano liberamente nel flusso sanguigno,
tra cui dna tumorale circolante (ctDNA), DNA mitocondriale privo di cellule (ccf mtDNA) e DNA fetale privo di
cellule (cffDNA). 
Elevati livelli di cfDNA si osservano nel cancro,specialmente nelle malattie avanzate.
Ci sono prove che cfDNA diventa sempre più frequente in circolazione con l'inizio dell'età.
cfDNA ha dimostrato di essere un biomarcatore utile per una moltitudine di disturbi diversi dal cancro e dalla
medicina fetale.
L'utilità clinica del ctDNA per il rilevamento della malattia primaria è in parte limitata dalla sensibilità della
tecnologia attuale per rilevare piccoli tumori con bassi livelli di ctDNA presenti e a priori mutazioni somatiche
sconosciute.
Le prove della malattia con metodi di imaging tradizionali, come TC, PET o RISONANZA MAGNETICA
possono essere assenti dopo la resezione del tumore.
Pertanto, l'analisi ctDNA pone una potenziale via per rilevare la malattia residua minima (MRD), e quindi la
possibilità di recidiva tumorale, nei casi in cui i tumori alla rinfusa sono assenti con i metodi di imaging
convenzionali. 
La questione se la misurazione della quantità o delle qualità del ctDNA possa essere utilizzata per determinare i
risultati nelle persone a caso è stata oggetto di studio. A dicembre 2015 questo era molto incerto. Sebbene alcuni
studi abbiano mostrato una tendenza a livelli di ctDNA più elevati nelle persone con cancro metastatico ad alto
stadio, il carico di ctDNA non è sempre correlato con la tradizionale stadiazione del cancro. [31] A dicembre
2017 sembrava improbabile che il ctDNA fosse di utilità clinica come unico predittore della prognosi. 
- le cellule tumorali circolanti fondamentali per riscontrare uno spostamento o un’estensione del tumore dalla
sede primaria e quindi c’è la possibilità di invadenza di un altro organo.
Ci sono degli studi che cercano di dimostrare come questa ricerca di queste cellule sia fondamentale nel
prevenire la formazione di una metastasi.
Questo, ovviamente, si può ottenere tramite le tecniche di imaging.
-lo studio di un gruppo di particelle che sono gli esosomi perché rappresentano delle cellule su cui si può fare
caratterizzazione molecolare dei tessuti che li producono, tra cui anche la massa tumorale.
Gli esosomi sono vescicole di diametro tra 30 e 200nm, secreti dalle cellule nei fluidi biologici: sangue, urine,
fluido amniotico, asciti, liquido cerebrospinale, ecc.
Secondo la derivazione cellulare, gli esosomi contengono diverse molecole, e veicolano segnali attraverso il
contenuto di RNA, in particolare microRNA, proteine, lipidi e DNA.
La scoperta degli esosomi è recente perché sono delle piccole vesciche di natura lipidica che si originano per
gemmazione e contengono una serie di molecole derivanti dalla cellula che li ha prodotti.
Per tale motivo si pensa che questi possano essere utili nell’individuazione di tumori o altre malattie.
Sono, sostanzialmente, dei mezzi con cui la cellula comunica con cellule vicine e lontane che rappresentano le
cellule bersaglio.
Queste cellule andranno ad inglobare gli esosomi e i loro contenuto.

Un altro liquido biologico studiato è la SALIVA che è principalmente secreta dalle ghiandole salivari e le sue
biomolecole informative (DNA, RNA, proteine, metaboliti e microbiota) sono ottenute da ghiandole salivari,
cellule della mucosa orale, microbiota orale e fluido crevicolare gengivale.
L’analisi salivare permette di svolgere diverse indagini medico-legali, studi di nutrigenomica e alcuni test virali
come quello dell’HIV.
Poiché è possibile individuare diverse molecole che derivano da diverse parti/cellule, ci permette di avere una
matrice che dà informazioni non solo sulle condizioni della produzione di saliva o sulle ghiandole dell mucosa
buccale, ma possiamo parlare di SALIVAOMICA che include:
- la genomica (umana e microbica)
- il microbioma orale
- l'epigenoma (metilazione del DNA)
- il trascrittoma (mRNA, microRNA e altri RNA non codificanti)
- il proteoma
- il metaboloma
La saliva è una potenziale matrice biologica sostituente del siero poiché si ottiene mediante un prelievo non
invasivo, è facile da raccogliere, conservare e trasportare, è un fluido che si ottiene in tempo reale cioè mi
permette di relazionarla nel momento in cui è stata raccolta e, in fine, contiene proteine presenti nel siero e alte
quantità i DNA.
Questa matrice presenta però dei limiti, tra cui la misconoscenza delle biomolecole e della loro rilevanza
eziopatogenica, la mancanza di sistemi rilevazione ad alta sensibilità che ricordiamo essere la minima
concentrazione che un metodo o uno strumento è in grado di mettere in evidenza, le concentrazioni delle proteine
da 100 a 1000 inferiori rispetto al siero, la composizione salivare può essere influenzata da variazioni diurne e
circadiane, metodo di raccolta e grado di stimolazione del flusso.

Tra i diversi biomarcatori i quali valutano le alterazioni biochimiche o molecolari misurabili in campioni umani
troviamo:
Biomarcatori di esposizione: “sostanza esogena o un suo metabolita o il prodotto dell’interazione tra uno
xenobiotico ed una molecola o cellula bersaglio, misurati in un compartimento dell’organismo”. (es. livelli
urinari o plasmatici di composti esogeni e/o dei loro metaboliti)

Biomarcatori di suscettibilità :“intrinseca o acquisita diminuzione della capacità di un organismo di rispondere


ai possibili effetti conseguenti l’esposizione ad un determinato xenobiotico” (es. studio dei genotipi che
caratterizzano il polimorfismo di enzimi coinvolti nel metabolismo dei composti tossici e/o cancerogeni)

Biomarcatori di effetti biologici : “un’alterazione biochimica, fisiologica o di altro tipo misurabile in un


organismo che, a seguito dell’esposizione ad un determinato fattore di rischio e a seconda dell’entità, indica un
danno effettivo o potenziale alla salute o una vera e propria malattia” (es. aberrazioni cromosomiche , scambio di
cromatidi fratelli, micronuclei)

METALLOTIONEINE
Tra i diversi biomarcatori le proteine sono più dinamiche, diverse e più direttamente riflettenti della fisiologia
cellulare rispetto ai marcatori a base di acidi nucleici.
I più recenti approcci diagnostici utilizzano una piattaforma in cui combiniamo approcci specifici di preparazione
del campione, metodi di spettrometria di massa differenti e l'analisi mediante strumenti computazionali. Per
esempio: le proteine glicosilate (glicoproteine) rappresentano un subproteoma che è particolarmente rilevante per
la ricerca clinica perché solitamente si trovano o secrete dai tessuti, rappresentando quindi buoni candidati per
l'individuazione in fluidi corporei facilmente accessibili o sulla superficie cellulare che rappresenta potenziali
bersagli farmacologici.
Quasi l'80% dei biomarcatori proteici attualmente utilizzati e bersagli farmacologici nelle cliniche sono
glicosilati.
Le metallotioneine sono proteine ubiquitarie a basso peso molecolare e ad alto contenuto di aminoacidi solforati,
e quindi metionine e cisteine, e metalli.
Si ipotizza che queste giochino un ruolo importante e nella:
-Fissazione dei metalli in tracce come lo zinco ed il rame e nel controllare la concentrazione di questioni ioni
-Regolazione dei flussi di ioni ai distretti cellulari
-Neutralizzazione dei metalli tossici come il mercurio ed il cadmio e nella protezione dello stress indotto dai
metalli.
Nello studio di avvelenamento da metalli pesanti o di patologie correlate allo stress indotto da questi io posso
andare a identificare non solo i metalli ma anche le metallotioneine che chelano i metalli.
Se io mi trovo davanti ad un soggetto che è entrato in contatto con determinati metalli tossici, sicuramente avrà
in circolo una concentrazione elevata di queste proteine.
Quindi ho da un lato un marcatore esogeno (i metalli) e dall’altro un marcatore endogeno (le metallotioneine).
Altra cosa che posso andare a cercare è un marcatore di lesione, perché molto spesso accade che i metalli
nonostante siano legati alle metallotioneine, prima di essere chelati, portano dei danni tissutali e cellulari, per
esempio a livello epatico.
Non solo posso individuare queste anomalie, ma nel caso di malattie genetiche come la malattia di Wilson, la
quale a causa di un’alterazione di un trasportatore del rame porta all’accumulo di metallo proteine che si
accumula in particolar modo nel fegato.
Il rame si trova in elevate concentrazioni elevate nel sangue e nelle urine ma ci sono dei biomarcatori epatici,
soprattutto le transaminasi, in un soggetto con patologia attiva, avranno un valore altissimo.
Questo perché questa malattia va a colpire il parenchima epatico con rilascio di una grande quantità di enzimi
intracellulari (transaminasi) e che inizialmente non vanno a identificare subito la malattia, ma si pensa che ci
siano delle patologie dirette del fegato.
Un altro biomarcatore da individuare sia per i metalli ma anche per esempio per i solventi è controllare il
metabolismo degli xenobiotici a livello epatico che aumentano la produzione di enzimi coinvolti nel loro
metabolismo.

Potrebbero piacerti anche