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Giulia Ingala e Claudia La Rocca

LEZIONE DEL 15/11/2021

IL PROTIDOGRAMMA
Il sangue è costituito, seppure in piccola quantità, da una parte proteica costituita da proteine
plasmatiche che rivestono diverse funzioni fra cui il mantenimento della pressione colloido-
osmotica, il trasporto di ioni, ormoni e vitamine e svariate altre funzioni. Per cui valutarle
all’esame emocromocitometrico ci può fornire informazioni sullo stato di salute generale
dell’individuo, in quanto la maggior parte di queste proteine viene prodotta a livello epatico
e quindi ci può fornire informazioni sulla disfunzionalità a livello dell’epatocita, ma può anche
fornire informazioni riguardanti disfunzioni di carattere nutrizionale in quanto, essendo delle
proteine, devono essere sintetizzate a partire dagli amminoacidi e di conseguenza qualsiasi
problema di assorbimento che si può riscontrare ad esempio nel morbo di Crohn, nelle
enterocoliti, nella celiachia e tutto ciò che in generale inficia la superficie assorbente
intestinale può riflettersi con cambiamenti a livello delle proteine plasmatiche. Alcune di
queste hanno funzione immunitaria, gli anticorpi, e quindi valutare queste proteine ci può
dare informazioni in merito ai meccanismi di difesa dell’organismo e in merito
all’instaurazione di un’infiammazione di tipo acuta o cronica.
Viene utilizzato un tracciato che prende il nome di protidogramma. Si tratta del tracciato
elettroforetico delle proteine plasmatiche, derivante quindi dalla separazione elettroforetica
delle proteine del plasma. Più specificamente queste proteine:
 sono contenute in quantità da 6 a 8 g/dl
 la maggior parte vengono sintetizzate a livello epatico
 una piccola quota, fra cui le immunoglobuline, alcune lipoproteine e alcune frazioni
del complemento come la frazione C3 presentano invece una sintesi extra-epatica
 la velocità con cui queste proteine vengono sintetizzate sono influenzate da fattori
ormonali, per esempio la tiroxina ed il cortisolo possono aumentare la velocità di
sintesi dell’albumina
 sono anche un indicatore delle condizioni generali di salute dell’individuo, in quanto
vengono condizionate dallo stato nutrizionale.
Funzioni delle proteine plasmatiche:
 coagulazione e fibrinolisi perché diversi componenti della coagulazione si trovano
all’interno del plasma
 fattori di difesa
 funzioni di trasporto (la ceruloplasmina che trasporta il rame, la transferrina che
trasporta il ferro, l’albumina che trasporta la bilirubina)
 mantenimento della pressione colloido-osmotica, imputabile per la maggior parte
all’albumina
 inibitori enzimatici perché in condizioni di infiammazione si attivano le cellule ad
attività fagocitica che hanno azione aspecifica nei confronti del patogeno, agendo
mediante la produzione di enzimi litici. Ad esempio, i neutrofili che rilasciano elastasi.
Per contenere questa azione distruttiva degli enzimi litici ci si serve appunto delle
proteine plasmatiche.
L’aumento della quota delle proteine totali può essere causato da:
1. Riduzione relativa della parte liquida, come in caso di disidratazione
2. L’aumento delle gamma-globuline e delle proteine totali, nonostante il calo
dell’albumina, è indicatore di fenomeni acuti e cronici (cirrosi epatica, sarcoidosi,
ecc.) e anche di malattie autoimmuni. Si può riscontrare anche nel caso di alcune
gammopatie che possono essere di tipo monoclonale o policlonale, in cui si ha
l’aumento di una classe specifica di proteine plasmatiche.
Si ha la diminuzione delle proteine totali nel caso in cui si assista ad:
1. Aumento relativo di acqua circolante
2. Diminuita sintesi delle proteine dovuta a:
 insufficiente apporto proteico alimentare
 dieta ipoproteica, malassorbimento, grave insufficienza pancreatica, enteriti
croniche, fistole intestinali, ecc.
 epatopatie croniche, carenza di amminoacidi essenziali
3. Perdita proteica attraverso il rene
4. Eccessivo catabolismo proteico endogeno.
Per studiare il tracciato elettroforetico delle
proteine plasmatiche si fa un’elettroforesi
delle proteine su gel di agarosio o su
acetato di cellulosa: all’interno dei pozzetti
ci sono spazi vuoti in cui viene inserito il
campione che ha una consistenza liquida.
Si ha un supporto con gel di agarosio o
acetato di cellulosa che si inserisce
all’interno di una vaschetta in cui si ha un
opportuno buffer che fa veicolare la
corrente e si attacca all’alimentatore per cui le proteine migrano dal polo negativo al polo
positivo e si separano in base alla loro massa: le proteine più pesanti si troveranno più vicine
al punto di caricamento (polo negativo in cui sono stati messi i campioni in partenza), mentre
le proteine più leggere si troveranno verso la fine del gel perché non hanno difficoltà a
migrare.
Ecco il grafico che ne deriva, ovvero il protidogramma:
In generale, permette di evidenziare le seguenti bande:

PREALBUMINA (0,2-0,4 g/l)


Prima dell’albumina migra la prealbumina (o transtiretina), proteina tetramerica sintetizzata
a livello epatico con un peso molecolare compreso fra 54-61 kDa. Funge da trasportatrice
di due importanti ormoni:
 trasporta 1/3 della tiroxina circolante
 l’acido retinoico che viaggia complessato con la retinol-binding protein (RBP) insieme
anche alla prealbumina.
Il valore di prealbumina (come anche quello dell’albumina) è ridotto nei casi di
infiammazione e di denutrizione. A differenza dell’albumina però, questa proteina ha una
breve emivita e la sua presenza non è imputabile a difetti della sintesi epatica quanto più
allo stato nutrizionale, per cui rappresenta un ottimo indicatore di malassorbimento a livello
intestinale.
ALBUMINA (35-50 g/l)
Anche l’albumina (60 kDa) viene sintetizzata a livello epatico ed è quella maggiormente
responsabile del mantenimento della pressione colloido-osmotica. Può trasportare metalli,
metaboliti, ormoni e vitamine.
Per quanto la sua riduzione sia indice di alterato input nutrizionale, essa è più specifica per
gli stadi infiammatori e si riduce anche quando la capacità dell’epatocita è alterata, ovvero
in presenza di malattie epatiche.
I casi di iperalbuminemia sono molto rari e sono dovuti in genere a fenomeni di
disidratazione; mentre l’ipoalbumineamia si riscontra invece in casi di:
 perdita esogena di albumina: infiammazione acuta e cronica, sindrome nefrosica,
ustioni, alterazione della mucosa dell’apparato digerente, ecc.
 apporto inadeguato di proteine a causa di: vomito, diarrea, malassorbimento, fistole
intestinali, pancreatiti, coliti ulcerative, enteriti, ecc.
 diminuita sintesi nelle malattie epatiche
 aumento del catabolismo, come ad esempio nell’ipertiroidismo
 gravidanza e lattazione.
ALFA-GLOBULINE
PROTEINE ALFA1
Alfa1-antitripsina (0,9-2 g/l) è un’antiproteasi, una glicoproteina sintetizzata dal fegato con
PM di 50 kDa. Ha la funzione di inibire le proteasi di tipo serinico, in particolare l’elastasi
neutrofila. Essa aumenta in tutte le situazioni infiammatorie causate da infezioni e necrosi
di tessuti.
PROTEINE ALFA2
 Alfa2-macroglobulina (150-400 mg/dl)
È una proteina sintetizzata dal fegato e dai macrofagi con PM di 72 kDa. Ha un’azione
su tipi di proteasi diverse, ad esempio ha azione sulla tripsina, sulla callicreina, sulla
trombina e sulla plasmina. Aumenta nel diabete, in casi di cirrosi e di sindrome
nefrosica.
 Aptoglobine (0,3-2 g/l)
Glicoproteine dall’alto peso molecolare (da 90 a 400 kDa), hanno struttura
tetramerica e hanno la funzione di legare l’emoglobina ossigenata che viene rilasciata
sia normalmente nel fisiologico turnover degli eritrociti che nei processi emocateretici.
Aumenta nelle infiammazioni acute o croniche, nelle neoplasie e nelle nefrosi; invece,
diminuisce in caso di emolisi intravascolare.
 Ceruloplasmina (0,2-6 g/l)
È una proteina legante il rame e viene sintetizzata a livello epatico. La sua carenza
la si riscontra nel morbo di Wilson, malattia autosomica dominante che è
caratterizzata da un accumulo di rame a livello tissutale (viene, infatti, anche definita
sindrome epatolenticolare), in particolare a livello di ossa, sistema nervoso centrale,
fegato e a livello oculare. Se tale difetto genetico (dovuto ad una mutazione del gene
ATP7B, trasportatore del rame) viene diagnosticato in tempo in seguito alla
diminuzione di questa proteina plasmatica, possono essere somministrare molecole
ad azione chelante il rame.

BETA-GLOBULINE
Le beta-globuline vengono distinte in due gruppi:
1. BETA1:
 aumenta nelle anemie ferro-carenziali, in gravidanza e durante
l’infiammazione
 diminuisce nelle neoplasie e nelle malattie epatiche.
Di queste fa parte la transferrina (200-320 mg/dl). È di sintesi epatica, con PM di 76 kDa.
Lega due atomi di ferro, con il compito di trasportalo dalla sede di assorbimento o di
emocateresi ai luoghi di sintesi.
2. BETA2:
 aumentano in seguito a processi flogistici, cirrosi biliare primitiva e colestasi
 diminuiscono in casi di epatite A e B e nelle patologie autoimmuni.
Le beta2-globuline comprendono il fibrinogeno, PCR e la frazione C3 del complemento.
GAMMA-GLOBULINE
Le immunoglobuline sono di cinque classi e l’analisi elettroforetica ci può evidenziare:
 Ipogammaglobulinemia che sono un reperto comune che non desta eccessiva
preoccupazione, in quanto se si è in uno stato di buona salute e sono assenti
stimolazioni da parte di agenti esterni, queste proteine saranno scarsamente
prodotte. Tuttavia, se contemporaneamente si hanno segni di ridotta capacità di far
fronte alle infezioni, una riduzione delle gamma-globuline può indicare un deficit
primario o secondario (acquisito, ad esempio, per immunodeficienza o per patologie
tumorali) di tipo immunologico
 Ipergammaglobulinemie che possono essere distinte in:

 Policlonali quando più di una classe di queste proteine aumenta. Nel tracciato
il picco è abbastanza ampio e schiacciato perché più cloni di queste
plasmacellule possono dare luogo a ipergammaglobulinemie e, quindi, si
accumulano e possono essere dei reperti occasionali dovuti ad un’infezione
acuta o cronica, ad un fenomeno infettivo che poi va incontro a risoluzione o
può essere di tipo benigno
 Monoclonali caratterizzate dall’accumulo della componente monoclonale che
deriva dalla proliferazione sconsiderata di un unico clone di tipo
plasmacellulare. Quindi, vi è un’unica gamma-globulina o una sua unica
catena leggera o pesante che si accumula. Queste vanno attenzionate perché
possono essere dei reperti occasionali che vanno incontro a risoluzione
spontanea; tuttavia, in altri casi vengono definite come gammopatie
monoclonali dal significato incerto perché potrebbero rappresentare un fattore
di rischio per il mieloma multiplo: c’è epidemiologicamente un legame serio fra
lo sviluppo del mieloma multiplo e la presenza di una gammopatia
monoclonale dal significato incerto (MGUS).
Le gammopatie monoclonali rappresentano un
gruppo di patologie caratterizzate dalla
proliferazione di cloni plasmacellulari (linfociti B
differenziati), ognuno dei quali produce una
quantità variabile di immunoglobuline
omogenee dal punto di vista biologico,
strutturale e immunologico che costituisce la
componente monoclonale (CM). Questa può
essere costituita da:
- un’immunoglobulina completa
- solo catene leggere (maggior parte dei casi clinici)
- solo catene pesanti (più raramente).
Per identificare questa componente monclonale si utilizza la tecnica dell’immunofissazione
sierica o immunoelettroforesi, tecnica che in caso di sospetta gammopatia monoclonale,
viene impiegata per definire la classe di immunoglobuline (IgA, IgG, IgM, IgD e IgE) ed il
tipo di catena leggera kappa o lambda che caratterizzano la gammopatia stessa. Mette
insieme sia la separazione elettroforetica della miscela contenuta nel siero e
contemporaneamente inseriamo nel gel degli anticorpi legati contro le possibili forme e le
possibili catene delle immunoglobuline. Può essere effettuata nel siero, ma anche nelle
urine e nel liquido cerebrospinale.
Riepilogo:

EMOSTASI E COAGULAZIONE
Le piastrine sono frammenti cellulari che derivano dal processo eritropoietico per
differenziazione da una cellula staminale totipotente delle serie mieloblastica, che forma il
megacariocita che per disgregazione genera questi frammenti. Essi hanno un diametro di
circa 2 micrometri (sono quattro volte più piccoli dei globuli rossi), hanno i mitocondri e quindi
sono in grado di esercitare la fosforilazione ossidativa, non hanno nucleo e hanno una
membrana ricca dei fosfolipidi sulla quale agiranno i vari fattori di coagulazione per attivare
la cascata coagulativa.
Il processo di emostasi e di fibrinolisi è un processo ben bilanciato nello spazio e nel tempo
perché tutti gli indici che si possono trovare alterati sono dovuti ad uno squilibrio di questi
due fenomeni: l’emostasi è in fenomeno per cui si ha iniziale vasocostrizione per
minimizzare la perdita di sangue quando è stata rotta la continuità dell’endotelio per un
qualche motivo, vengono poi attivate le piastrine che giungono nel sito del danno per
formare una sorta di tappo e si ha l’attivazione della cascata coagulativa che depone queste
molecole di fibrina. Più molecole di fibrina formano i polimeri che stabilizzano il coagulo e si
è avuta la riparazione del tessuto. Tuttavia, non si deve permettere che il tessuto rimanga
in queste condizioni per troppo tempo e quindi si deve limitare l’azione della fibrina attivando
il processo di fibrinolisi che viene attivato dalla plasmina, in concomitanza con una serie di
attivatori e inibitori. Quando qualcuno di questi si sbilancia o per deficit generici o per
problema nel numero o nella funzionalità delle piastrine di natura immunitaria, genetica o
farmaco-indotta si avranno indici dell’esame emocromocitometrico sfalsati o a quello
generale o si fanno analisi più specializzate (come nel caso di soggetti tendenti
all’ipercoagubilità o a sindromi emorragiche). Quindi, alterazioni della triade di Virkow
determinano la formazione del trombo:
 Alterazioni del flusso ematico
 Alterazioni dell’endotelio
 Alterazioni delle componenti del sangue.
A questo fenomeno emostatico e coagulativo partecipano sia componenti cellulari che
componenti plasmatiche che instaurano:
1. La fase vascolare in cui vengono prodotti dei mediatori che determinano la
vasocostrizione. Fra questi mediatori si ha l’azione dei nerva vasorum che per azione
riflessa esercitano il rilascio simpatico di catecolammine, componenti che
provengono direttamente dal sistema vascolare fra cui l’endotelina e la serotonina
che proviene direttamente dalle piastrine. Durante la fase vascolare vengono
prodotte anche altre molecole che possono partecipare agli stadi successivi, fra cui
il fattore tissutale che dà l’avvio alla via estrinseca della coagulazione, l’attivatore
tissutale del plasminogeno (tPA) e il fattore di von Willebrand
2. Adesione e aggregazione delle piastrine nel sito del danno con la formazione del
tappo emostatico
3. Coagulazione del sangue.
4. Fibrinolisi e ricostruzione del lume vascolare.
Per quanto riguarda la coagulazione si hanno due diversi meccanismi, di cui la via intrinseca
risulta essere la più lenta e meno emergenziale (si attiva quando il sangue è posto in
provetta) e origina dall’attivazione di fattori chiamati precancreina, chiminogeni ad alto peso
molecolare e di altre molecole che vengono attivate dal contatto con superfici cariche
negativamente, per poi culminare nella trombina che trasforma il fibrinogeno in fibrina;
viceversa, la via estrinseca viene attivata da un danno tissutale imponente con liberazione
del fattore tissutale o di altro materiale che abbia attività simile al fattore tissutale. Questo,
scavalcando una serie di fattori della coagulazione, culmina sul fattore X e successivamente
sulla trombina, per andare a trasformare il fibrinogeno in fibrina. Questa cascata coagulativa
non è che costituita da fattori proteici, alcuni la cui sintesi a livello epatico dipende dalla
vitamina K (interviene come cofattore enzimatico di una reazione di carbossilazione che è
necessaria per la sintesi di questi fattori. Molti farmaci, fra cui anticoagulanti di tipo
cumarinico, bloccano questo meccanismo), mentre altri vengono definiti vitamina K-
indipendenti.

Tornando a ritroso, l’endotelio si è danneggiato. Quando si espone il collagene


sottoendoteliale, c’è una proteina denominata “Fattore di Von Willebrand” che è fra le
prime ad essere richiamata nella sede del danno e riesce a instaurare dei legami con dei
recettori specifici proprio a livello delle cellule endoteliali e del collagene subendoteliale.
Questa proteina ha derivazione tanto endoteliale quanto piastrinica e si ripresenta anche
nei megacariociti. Abbiamo, quindi, un bel pool di riserva di Fattore di Von Willebrand, infatti,
quando a livello genetico c’è un’alterazione del gene che codifica per questa proteina, noi
possiamo andare incontro a delle emofilie, quindi a dei fenomeni emorragici più o meno
gravi in base al tipo di mutazione.
Cosa fa questo fattore? Esso si va ad aggregare formando inizialmente dei dimeri, poi dei
multimeri e quindi a formare un primo fattore proteico che si interpone tra il collagene
subendoteliale e la breccia e, poiché l’endotelio si è attivato e le piastrine si stanno attivando,
richiama contemporaneamente le piastrine e consente, tramite altri legami recettoriali,
l’adesione (inizialmente) ma anche poi l’aggregazione.

Quando viene prodotto questo fattore (dall’endotelio oppure dalla piastrina richiamata da
altri fattori), la piastrina immediatamente cambia forma, diventa più tondeggiante e
soprattutto emette delle estroflessioni, i cosiddetti “pseudopodi”, e comincia a rilasciare
molecole, come il Trombossano A2, che da una parte agisce da vasocostrittore (quindi
insieme all’endotelina, insieme alla serotonina e insieme ai riflessi di tipo simpatico
corrobora alla vasocostrizione), dall’altra parte agisce attivando le piastrine stesse.
Contemporaneamente, oltre al Trombossano A2, viene rilasciato il contenuto dei granuli
serotoninici tra cui ADP, Calcio e Serotonina che favoriscono la loro attivazione e
aggregazione.

In questa figura, ci sono dei recettori che sono il GPIa (si legge GP1a) che fa prendere
contatto alla piastrina attivata con il collagene subendoteliale; e il GPIb che consente alla
piastrina attivata di prendere contatto con il Fattore di Von Willebrand, quindi GPIa e GPIb
sono fondamentali per questo tipo di interazione.
Questo fenomeno è l’adesione della piastrina all’endotelio danneggiato.
L’aggregazione piastrinica coinvolge un altro recettore che è il GP IIb/IIIa. Questi legami
vengono stabilizzati dal fibrinogeno, in presenza di Calcio, in una sorta di processo che si
autoamplifica.

Una prima alterazione patologica la possiamo evidenziare quando si hanno dei deficit di tipo
qualitativo/quantitativo su base genetica della produzione di Fattore di Von Willebrand. In
questo caso, a seconda del tipo di mutazione e a seconda di quanto pool di Fattore di Von
Willebrand abbiamo normale, possiamo avere uno spettro di manifestazione clinica ampio:
inizialmente si possono avere epistassi, ecchimosi o menorragie; oppure in conseguenza
ad un evento traumatico (intervento chirurgico, parto), si possono sviluppare delle vere e
proprie emorragie.
Quindi questa malattia potrebbe rimanere anche subclinica, ma si manifesta qualora si
presenti un trauma che predispone il soggetto all’attivazione della cascata coagulativa e
questa poi non avviene come dovrebbe avvenire.

Le piastrine che vengono rilasciate sono tutte attivate e le loro membrane sono particolari
perché hanno tanti fosfolipidi che sono la sede dove avvengono tutte queste reazioni.
Immaginiamo come i mediatori chimici, ma anche le alterazioni meccaniche a cui vanno
incontro le piastrine, possano determinare un’attivazione dei recettori accoppiati a proteine
G che sono presenti sulla membrana delle piastrine. I recettori accoppiati a proteine G vanno
ad attivare la fosfolipasi C, questa comincia a formare l’IP3 (inositolo-3-fosfato), che rilascia
il calcio, il quale attiva la calmodulina e la miosina. Questo determina dei cambiamenti
morfologici delle piastrine; consente al GP IIb/IIIa di contrarre legami col fibrinogeno e con
altre proteine e quindi sostanzialmente di consentire la cascata coagulativa.
Come secondo messaggero viene prodotto anche il DAG che determina la degranulazione
delle piastrine stesse.

Viene attivato in questo contesto anche l’enzima Fosfolipasi A2 che va a mobilizzare l’acido
arachidonico di membrana, il quale, per azione delle ciclossigenasi, viene trasformato
inizialmente in PGG2 e poi in PGH2, che è il precursore del trombossano, il quale è induttore
dell’aggregazione piastrinica. Per cui, se si somministra un farmaco che inibisce questa via,
come ad esempio un antiaggregante piastrinico (quale l’aspirina), la fosfolipasi A2 viene
inibita e l’effetto finale è la riduzione della formazione di trombossano.

Poi avviene la cascata coagulativa dove ci sono una serie di fattori in successione, alcuni
dei quali sono Vitamina K – dipendenti, tra cui il Fattore VII, il Fattore IX, il Fattore X, il
Fattore XII, la proteina C e la proteina S (queste ultime due rientrano tra gli inibitori della
cascata coagulativa).
La via intrinseca della coagulazione è quella attivata dal contatto con superfici cariche
negativamente e impiega più step; la via estrinseca è attivata dal danno tissutale, quindi
dalla liberazione di tromboplastina.
Culminano queste vie nella via comune e quindi nella trasformazione della protrombina in
trombina e del fibrinogeno in fibrina.
Il fattore XIII non fa altro che stabilizzare la fibrina.
Dopo che questo è terminato, avviene la degradazione ovvero la fibrinolisi che è attuata
dalla plasmina.

Tutte queste vie seppure descritte sequenzialmente, molto spesso avvengono


contemporaneamente: dapprima vi è lo spasmo vascolare, ma poi tutto il resto avviene in
maniera molto rapida e poi successivamente possiamo attivare la fibrinolisi.
In queste due tabelle sono riportati il numero e la denominazione dei fattori della
coagulazione, la loro azione (se sono attività enzimatiche o cofattoriali), e (seconda tabella)
se agiscono nella via comune, nella via intrinseca o estrinseca.

Nella fase fibrinolitica: la plasmina che va a degradare la fibrina e degrada anche il


fibrinogeno, da chi è attivata? Dall’attivatore del plasminogeno. Questo viene prodotto a
livello endoteliale: non appena si attivano le cellule endoteliali, si ha un rilascio di attivatore
del plasminogeno che in qualche modo va ad attivare la plasmina e in questo modo si ha la
degradazione della fibrina.

C’è un parametro che possiamo misurare quando si sospettano dei problemi di


ipercoagulabilità o alterazioni della fibrinolisi ed è il D-Dimero. Il D-Dimero o gli FDP
(fibrinogen degradation products) derivano dal taglio proteolitico o del fibrinogeno o della
fibrina, operato dalla plasmina.
Come si detectano? Il D-Dimero si va a detectare nel siero andando a fare una reazione
anticorpale (i D-Dimeri pesano all’incirca 18 kDa): se utilizziamo delle particelle in lattice che
sono coniugate con un anticorpo capace di riconoscere il D-Dimero, se nel siero c’è una
quantità importante di D-Dimero avremo una sorta di reazione di agglutinazione e questo ci
dirà che c’è la presenza di D-dimero in quel campione.
Ovviamente c’è una soglia, ma i valori sono molto ampi tra un individuo e un altro, quindi
c’è un ampio range di variabilità interindividuale, anche perché questo deve riflettere un
bilancio tra coagulazione e fibrinolisi, quindi solitamente possiamo non trovarne, ma
potremmo anche trovarne quando c’è stato un processo coagulativo che è andato incontro
a risoluzione.

Ricordiamo pure gli inibitori della fase fibrinolitica, perché seppure sia vero che questo
stato di ipercoagulabilità debba essere localizzato nel tempo e nello spazio, d’altra parte
questo stato di coagulazione deve rimanere in un tempo tale per cui non vi sia una
digestione prematura, quindi anticipata, del coagulo perché questo determinerebbe una
condizione emorragica. Per potere, quindi, in qualche modo evitare questo problema vi sono
gli inibitori dell’attivatore del plasminogeno che possono legare la plasmina. In particolare,
PAI-1 e PAI-2 vanno indiscriminatamente a legare l’attivatore tissutale del plasminogeno,
mentre l’alfa2-antiplasmina lega la plasmina quando questa è in circolo e non quando
questa è associata al coagulo.
MALATTIE DELLA COAGULAZIONE

Le malattie della coagulazione in ultima analisi da cosa possono derivare?


1. Ci possono essere delle manifestazioni emorragiche, ovviamente quando
mancano i fattori della coagulazione o quando sono alterate le vie fibrinolitiche
2. Ci può essere un alterato numero o funzionalità piastrinica
Le malattie emorragiche possono essere anche divise in base al fatto che i deficit dei fattori
della coagulazione dipendano o da un singolo o da più fattori della coagulazione.

Per esempio, delle malattie emorragiche da carenza di singoli fattori della coagulazione o
della fibrinolisi, i più importanti sono l’Emofilia A (deficit del fattore VIII) e l’Emofilia B (deficit
del fattore IX); il deficit dell’inibitore della plasmina (quindi la plasmina va ad agire prima del
tempo e ci troviamo di fronte ad una malattia di tipo emorragico); il deficit del fibrinogeno e
il deficit della protrombina su base genetica.
EMOFILIA

Le emofilie sono malattie X-linked e si trasmettono con modalità recessiva. L’emofilia B è


anche definita “Malattia di Christmas” perché il fattore che manca, totalmente o
parzialmente, è il fattore IX della coagulazione, definito anche “fattore di Christmas”.
Sono malattie che più frequentemente colpiscono i maschi e le poche donne affette o hanno
entrambi gli alleli mutati o sono figlie di un padre emofilico.

Quando, invece, le malattie emorragiche sono attribuibili a carenze multiple dei fattori della
coagulazione:
 è probabile che ci siano delle alterazioni nell’assorbimento della vitamina K, anche
perché più fattori della via coagulativa dipendono dalla reazione catalizzata dalla
Vitamina K.
 C’è una condizione denominata “Coagulopatia da consumo” ovvero la
“Coagulazione Intravascolare Disseminata (CID)” in cui vi è una attivazione
sconsiderata dei processi di coagulazione e successivamente una iperfibrinolisi, che
determinano inizialmente una tendenza all’ipercoagulabilità molto elevata (quindi
formazione di trombi e possibilità di manifestazioni tromboemboliche); dall’altra
parte, in concomitanza col fatto che il primo movens che ha determinato questa
malattia sia più o meno rapido, contemporaneamente alla fase di ipercoagulabilità vi
è un’eccessiva attivazione della via fibrinolitica e contemporaneamente un consumo
di tutti i fattori della coagulazione, nonché anche delle piastrine.
Questo determinerà da una parte il fenomeno della coagulabilità, quindi manifestazioni
trombotiche, dall’altro il fenomeno emorragico e del sanguinamento.
È una condizione che si verifica soprattutto quando l’esordio è acuto. È molto difficile da
trattare, ma anche da diagnosticare, soprattutto nelle forme subcliniche che molto spesso
possono rimanere non diagnosticate per un lungo periodo di tempo. È molto difficile da
trattare soprattutto quando intervengono in quelle condizioni emergenziali, per esempio
come conseguenza di alcune complicanze ostetriche oppure, in generale, in conseguenza
ad interventi chirurgici. La CID, però, colpisce più frequentemente le donne e molto
spessocome complicanze di tipo ostetrico.
 Alcune di queste malattie emorragiche si possono evidenziare quando ci sono delle
patologie epatiche oppure in presenza di sovradosaggio di farmaci ad attività
anticoagulante.
Si possono avere anche malattie emorragiche associate ad un alterato numero di
piastrine.

Queste piastrine possono essere di meno perché:


- I processi sintetici sono alterali a livello midollare (quindi invasioni neoplastiche del
midollo, anemia aplastica, farmaci che hanno attività soppressiva a livello midollare)
- Vi sono delle problematiche immunologiche che possono determinare una
distruzione delle piastrine
- Avviene un aumento della degradazione delle stesse dagli organi deputati al loro
smaltimento: la milza è la principale sede di eliminazione delle piastrine ormai
mature).

Alcune malattie piastriniche possono essere correlabili a problemi genetici:

- Deficit del fattore di Von Willebrand: può determinare una ridotta capacità delle
piastrine di essere richiamate nel sito del danno
- Malattia di Bernard-Soulier: in cui viene meno il recettore per il fattore di Von
Willebrand, il GpIb che è il primo che interagisce col collagene subendoteliale
- La Tromboastenia di Glanzmann: è una malattia ereditaria in cui c’è un deficit del
complesso GPIIb/GPIIIa che è quello che lega una piastrina con l’altra e al
fibrinogeno, quindi in questo caso ci sarà un’alterazione dell’aggregazione piastrinica
- Malattia del pool di riserva: quando vi sono delle piastrine che sono povere di granuli.
Il contenuto dei granuli piastrinici è quasi assente e le piastrine risultano poco
funzionali o mal funzionali.

Alcune patologie possono intervenire quando vengono meno gli inibitori fisiologici della
coagulazione.
La proteina C è attivata dal complesso trombina-trombomodulina e insieme alla proteina
S inibisce i fattori Va e VIIIa.
L’antitrombina III e il cofattore eparinico II: il primo inattiva e il secondo inibisce la
trombina.
L’antitrombina III è proprio il sito di legame dell’eparina che va a potenziare di circa 2000
volte la capacità con cui l’antitrombina III va ad inattivare la trombina.
TROMBOFILIE CONGENITE

Quando vengono meno gli inibitori fisiologici della coagulazione, si può andare incontro a
delle trombofilie, quindi a dei meccanismi di ipercoagulabilità che molto spesso danno
luogo ad episodi di trombosi venosa. Molto spesso questi episodi insorgono in età media,
tra i 40 e i 50 anni, e sono spesso associati ad una familiarità.
Normalmente sono causate da mutazioni a livello delle proteine inibitrici dell’emostasi:
proteina C, proteina S.
C’è un’associazione tra l’iperomocisteinemia e la presenza di trombosi venosa (non si parla
di causalità ma di associazione).

METABOLISMO DELL’OMOCISTEINA

Nella via metabolica che trasforma la Metionina in Cisteina ci sono più step che innanzitutto
danno luogo alla formazione della S-adenosilmetionina (SAM) che è un donatore di gruppi
metilici che interviene nella sintesi di DNA, RNA, quindi di nucleotidi purinici e pirimidinici e
anche nella sintesi di proteine.
In questa via, oltre alla formazione di gruppi metilici, vi è associata la via del folato che è
controllata dal Metilen-tetraidrofolato reduttasi (MTHFR) e poi altre vie successive, come la
Cistationina beta sintetasi (CBS) che porta alla formazione di cisteina dall’omocisteina,
attraverso uno step intermedio che richiede la Vitamina B6.
Questo ciclo richiede vitamina B12.
In questa via metabolica, quando c’è un difetto genico, il prodotto finale non riesce ad essere
prodotto e quindi c’è un accumulo intermedio di omocisteina che, quando supera certi livelli,
la si ritrova come valore incrementato nel sangue.
A parte i deficit enzimatici di cui abbiamo parlato, quindi della CBS o della MTHFR, è stato
comunque osservato che ci sono delle condizioni che per qualche motivo determinano
l’incrementano dei livelli di omocisteina e che possono essere correlati ad alcuni stili di vita.
Quindi l’omocisteina ancora non è considerata un biomarcatore, però può essere importante
questa associazione con la trombosi.
Quindi:
- O è associata a carenza di vitamina B12 o vitamina B6
- Al tabagismo
- A eccessivo consumo di caffè o di alcol
- Scarsa attività fisica
Quindi oltre ad essere implicata a livello di associazione epidemiologica, quindi non si parla
di fenomeno causa-effetto, ma di associazione epidemiologica tra alcune malattie
autoimmuni – Psorsiasi, Lupus Eritematoso Sistemico – e iperomocisteinemia e d’altra parte
anche all’incremento della probabilità di sviluppare trombosi venosa. In questo caso, quindi,
in un soggetto che ha familiarità a questo evento, il clinico può andare a prescrivere i livelli
di iperomocisteina da visionare nel tempo.

TEST DI BASE DELL’EMOSTASI


Quali sono i test di base che ci consentono di monitorare l’emostasi?

MANIFESTAZIONI EMORRAGICHE:
- Tempo di emorragia: anche se viene fatto poco e solo in alcuni casi
- Tempo di protrombina (PT)
- Tempo di tromboplastina parziale (aPTT)
Nel caso di MANIFESTAZIONI TROMBOEMBOLICHE:
- Si dosano i singoli fattori della coagulazione

TEMPO DI EMORRAGIA

In questo test, al paziente viene fatto un piccolissimo taglio. A monte del taglio si applica
una pressione (circa 30-40 mmHg) per un tempo di 10 minuti e, a intervalli regolari di tempo,
con una carta assorbente (quella che viene definita “carta bibula”) si va a tamponare e a
vedere la presenza del sangue. Quando non va più il sangue sulla carta bibula, quello è il
tempo di emorragia ovvero il tempo che è stato necessario per bloccare la perdita di sangue.
Normalmente, questo test dà dei valori normali che hanno un range dai 5 ai 10 minuti. Se
questo tempo supera i 30 minuti, la condizione è grave.

FUNZIONALITA’ PIASTRINICA

Per valutare la funzionalità piastrinica, si può fare un test di aggregazione piastrinica.


Si valuta in assorbanza, quindi con uno spettrofotometro per esempio, in turbidimetria.
Si prende il campione di sangue e si aggiunge qualcosa che va ad attivare l’aggregazione
piastrinica, solitamente ADP, collagene, trombina e ristocetina (che è un antibiotico che
attiva in vitro l’aggregazione, quindi rappresenta l’input all’aggregazione).
Si valuta quindi nel tempo come viene consumato l’ADP, come avviene l’aggregazione,
quindi semplicemente con delle tecniche spettrofotometriche.

Ci sono ormai degli strumenti a disposizione che consentono di fare questi test in maniera
molto più rapida. Ad esempio la strumentazione PFA-100 che va a valutare un tempo di
chiusura (“closure time”) che è impiegato dalle piastrine per chiudere un’apertura presente
su una membrana rivestita di collagene. In questo modo, in maniera automatizzata, si può
avere un’idea di quanto si aggregano bene le piastrine.
Questo tipo di strumentazione non è in grado di distinguere l’effetto dell’anticoagulante.
Quindi, nel soggetto che fa terapia anticoagulante, bisogna sospendere l’anticoagulante per
un periodo di almeno 2 settimane, prima di poter valutare la normale aggregazione
piastrinica tramite questo test.
Quindi quando il clinico prescrive questo test deve fare una sorta di bilancio tra il rischio e il
beneficio derivante dallo stesso.

TEMPO DI PROTROMBINA

È in grado di valutare l’attivazione della via estrinseca. Esso valuta il tempo necessario per
la trasformazione del fibrinogeno in fibrina (normalmente 12-16 secondi) quando si dà al
campione una fonte di tromboplastina tissutale (solitamente di origine sintetica) e del Calcio.
Questo ci aiuta a valutare la capacità dei fattori della coagulazione di poter agire in maniera
consona.
C’è un problema però nell’utilizzare il tempo di protrombina: la tromboplastina tissutale che
si va ad utilizzare, può essere di natura umana, animale, sintetica e quindi ci possono essere
dei problemi relativi alla calibrazione di quello stesso reagente. Per evitare questo problema,
ci si è messi in condizione di poter normalizzare la variabilità proveniente dalle diverse fonti
di tromboplastina tissutale utilizzando semplicemente una formula, ovvero: il tempo di
protrombina del paziente (espresso in secondi) viene diviso per il tempo di protrombina di
un controllo (fornito dal kit che viene utilizzato, sempre espresso in secondi) e viene elevato
all’indice ISI (International Sensitivity Index) che è un valore che indica la sensibilità di quella
tromboplastina tissutale. Quindi il tempo di protrombina lo si può vedere come secondi, in
un risultato nell’emocromo, però più correttamente lo si vedrà espresso come INR
(International Normalised Ratio).
INR = (PTpaziente (sec) / PT controllo (sec)^ISI
Questo è un modo per annullare le differenze che potrebbero derivare dalla sensibilità
diversa della tromboplastina tissutale che si va ad aggiungere nel campione.

Il valore normale di INR, nel soggetto che non fa alcuna terapia o nel soggetto che non ha
problemi di coagulazione, è normalmente di 1 sec (può oscillare da 0.9 a 1.3); in corso di
terapia anticoagulante ci vuole più tempo per quel soggetto per attivare la cascata
coagulativa quindi va a 2-3 sec.
2-3 secondi è anche il valore terapeutico ottimale che si vuole raggiungere quando si hanno
delle condizioni che implicano un rischio trombotico più elevato, oppure anche in quei
soggetti che sono portatori di valvole cardiache e che quindi hanno dei problemi meccanici
che potrebbero determinare degli stati di ipercoagulabilità.
Nei soggetti che sono a rischio di infarto del miocardio, ci aspettiamo di ottenere un valore
ottimale che va dai 2.5 ai 3.5 secondi.
TEMPO DI TROMBOPLASTINA PARZIALE ATTIVATA (aPTT)

Per andare a determinare la via intrinseca della coagulazione (quanto è efficace il


campione di sangue ottenuto dal paziente nell’attivare la via intrinseca della coagulazione)
si usa il test della tromboplastina parziale attivata. In questo test si va a mettere l’acido
ellagico (che funge da attivatore del contatto perché la via intrinseca si attiva quando si ha
l’esposizione ad una superficie carica negativamente o quando si ha il contatto del collagene
subendoteliale con questi fattori attivati) in presenza di Calcio e Cefalina (che funge da
sostituto delle piastrine).
Normalmente il valore è compreso tra i 28 e i 40 secondi.

FIBRINOGENEMIA

Si può anche, eventualmente, valutare la quantità di fibrinogeno presente nel sangue


(FIBRINOGENEMIA). Questo potrebbe aumentare in alcuni processi infiammatori, nelle
neoplasie, nelle gravidanze, o diminuire nella trombolisi, nelle iperfibrinolisi e nelle patologie
epatiche.
In questo caso, il plasma citrato viene ricalcificato e messo a reagire con la trombina bovina.
Il tempo di formazione del coagulo è inversamente proporzionale alla concentrazione di
fibrinogeno presente nel campione.
DOSAGGIO ANTITROMBINA III

Anche il dosaggio dell’antitrombina III ci può aiutare ad avere uno stato di valutazione
iniziale del funzionamento della cascata coagulativa.
TEST DEL D-DIMERO

Vengono utilizzati degli anticorpi che reagiscono con i derivati della fibrina e che vengono
coniugati a delle particelle rivestite in lattice, per cui in maniera solida si vede una reazione
di agglutinazione qualora siano presenti i prodotti di degradazione della fibrina.

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