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PATOLOGIA

CLINICA
AA. 2020/2021
CANALE A - PROF D. TRERÈ

A cura di Federico Daoli e Filippo Ferraboschi


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INDICE

CAPITOLO 1: Le proteine nel sangue


…………………………………………………………………………………………………….pag. 4
CAPITOLO 2: Il laboratorio nella valutazione della funzione emostatica
…………………………………………………………………………………………………..pag. 18
CAPITOLO 3: Diagnosi di laboratorio delle dislipoproteinemie
.………………………………………………………………………………………………….pag. 49
CAPITOLO 4: Il laboratorio nella valutazione diagnostica del diabete
…………………………………………………………………………………………………..pag. 63
CAPITOLO 5: Il laboratorio nella valutazione delle alterazioni
dell’equilibrio acido-base
……………………………………..………………………………………………………..….pag. 78
CAPITOLO 6: Esami di primo livello per lo studio della funzionalità
epatica
………….…………………………………………………………………………………..…..pag. 91
CAPITOLO 7: Esami di laboratorio per lo studio della funzionalità renale
...…………………………………………………………………………………………..….pag. 105

Fonti utilizzate:
 Lezioni frontali
 Sbobine canale A 2020/2021
 Slide
 Dispense degli anni scorsi
 Internet

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CAPITOLO 1: LE PROTEINE NEL SANGUE
Le proteine del sangue vengono studiate poiché hanno un significato diagnostico molto
importante. Nel nostro organismo il numero di proteine presenti in generale è molto elevato e un
centinaio di queste circola nel sangue periferico. Tali proteine sono quindi facilmente accessibili,
poiché basta un prelievo di sangue per dosarle. Nonostante il numero di proteine nel sangue
periferico sia molto inferiore rispetto a quelle totali nel nostro organismo, queste sono
estremamente utili nell’inquadrare la presenza o meno di patologie importanti. L’utilità dell’esame
di laboratorio sta nel fatto di poter valutare eventuali variazioni qualitative e quantitative delle
proteine nel sangue che hanno un significato diagnostico e quindi ci possono aiutare appunto a
valutare la presenza della patologia.
Queste 100 proteine sono sintetizzate prevalentemente dal fegato, mentre:
- un 20%, quindi una quota minore, viene sintetizzata dalle plasmacellule e consistono nelle
immunoglobuline (o anticorpi)
- alcune sono elementi del complemento e quindi sintetizzate dal sistema monocito-
macrofagico
- alcune sono apolipoproteine prodotte dalla parete intestinale
- infine, ci sono ormoni proteici circolanti prodotti da specifiche cellule a funzione endocrina.
Nel loro insieme le proteine formano una soluzione relativamente stabile e si suddividono in base
alla solubilità in albumine (solubili in acqua) e globuline (solubili in soluzioni saline diluite).
Quando possibile in laboratorio si preferisce lavorare sul siero. La differenza tra plasma e siero è
che quest’ultimo è costituito dal plasma da cui vengono eliminati i fattori di coagulazione.
Buona parte dell’attività diagnostica di laboratorio viene effettuata tramite strumenti
automatizzati, poiché a parte la diagnosi molecolare, nessuna diagnosi viene più fatta a mano, per
cui i campioni biologici seguono dei percorsi in queste macchine dove vengono processati. Il
materiale che arriva in laboratorio è trattato con sostanze anticoagulanti: tuttavia, quando il
plasma viene processato, si possono formare al suo interno dei piccoli coaguli che interferiscono
con il processo di analisi. È preferibile perciò, quando possibile, utilizzare il siero, da cui il nome di
“proteine sieriche” per le proteine che vengono analizzate (concentrazione: 6-8 g/dL).

IL TRACCIATO ELETTROFORETICO
In laboratorio si utilizza la tecnica elettroforetica per l’analisi delle proteine sieriche: questa
tecnica prevede la separazione dell’insieme eterogeneo delle proteine nelle diverse componenti,
utilizzando un campo elettrico. È infatti presente un catodo o polo positivo, verso cui le proteine,
che sono cariche negativamente (essendo sostanze anfoteriche in un ambiente basico), si
muovono. Il movimento dipende sia dalla quantità di carica negativa che dalla massa proteica. Le
proteine più piccole e cariche migreranno quindi più velocemente, mentre quelle più grandi e
meno cariche rimarranno praticamente nel punto di semina.

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Originariamente questa tecnica consentiva di separare quattro tipi di proteine in quattro bande: il
primo consistente nel gruppo di proteine più veloci, che in realtà ne contiene soltanto una,
l’albumina, e poi altri tre gruppi denominati con le lettere greche α, β e γ. Oggi le tecniche più
moderne dividono il gruppo α in α1 e α2. Normalmente, dunque, dalla separazione elettroforetica
delle proteine sieriche si individuano i seguenti gruppi o bande:

 albumina (3,2 - 5,6 g/dL; 52 - 68%)


 α1 globuline (0,1 - 0,4 g/dL; 2,4 – 5,3%)
 α2 globuline (0,4 - 1,2 g/dL; 6,6 – 13,5%)
 β globuline (0,6 - 1,3 g/dL; 8,5 – 14,5%)
 γ globuline (0,5 - 1,6 g/dL; 10,7 – 21%)
Il rapporto albumina/globuline varia da 1,2 a 1,7.
Dalla scansione tramite densitometro, dopo aver separato le proteine ed averle colorate, si
ottiene un tracciato (profilo o protidogramma) che presenta dei picchi in corrispondenza di
ciascuna banda. Il picco ha un’altezza proporzionale all’intensità di colorazione della banda e una
base proporzionale alla larghezza della banda, per cui l’area sottesa al picco è proporzionale alla
concentrazione di proteine contenute nella banda. Pertanto, misurando l’area dei diversi picchi,
riusciamo ad ottenere un’espressione percentuale delle cinque bande i cui valori sono quelli
riportati nell’elenco in alto (non sono da memorizzare, ma è importante osservare che l’albumina
da sola corrisponde ad almeno il 60/61% della quantità delle proteine sieriche e ricordare
indicativamente i valori degli altri gruppi, anche gli uni rispetto agli altri).
Le alterazioni di questi picchi o bande ci possono essere utili nella diagnosi di patologie specifiche.
È quindi necessario innanzitutto conoscere la composizione di queste cinque bande.

1. ALBUMINA:
È la proteina ematica più abbondante ed infatti è la
principale responsabile della pressione oncotica nel
plasma. Ha un’emivita di circa 2-3 settimane (da
ricordare). La sua funzione oltre a determinare e
regolare la pressione oncotica del sangue, è quella di
trasferire e veicolare sostanze insolubili nel sangue
periferico (bilirubina, acidi grassi non esterificati),
ormoni (tiroxina, triiodiotironina, cortisolo,
aldosterone), farmaci (salicilati, warfarina,
clofibrato, fenilbutazone) e ioni (il 40% del calcio
sierico).
[Dalle slide: La sua concentrazione plasmatica viene utilizzata principalmente come indice di
funzionalità epatica e dello stato nutrizionale: l’albuminemia diminuisce inoltre nelle nefropatie
con proteinuria, nelle ustioni, e nelle enteropatie protido-disperdenti. La riduzione dei suoi livelli
plasmatici costituisce un elemento caratterizzante la risposta della fase acuta.

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Prealbumina o transtiretrina (non trattata):

 denominata prealbumina in quanto migra davanti alla albumina, o trans-ti-retrina in


quanto veicola la tiroxina e la RBP (retinol binding protein),
 è sintetizzata dal fegato ed è presente nel siero e nel liquor, dove costituisce una delle
componenti proteiche maggiori
 svolge principalmente una funzione di trasporto per aminoacidi, enzimi, farmaci, ormoni e
vitamine
 ha una emivita di 2 giorni e, per questo motivo, rappresenta un indice di funzionalità
epatica e/o dello stato nutrizionale più precoce rispetto all’albumina
 come l’albumina, i suoi livelli plasmatici si riducono durante la “risposta della fase acuta”]

2. BANDA α1
Anche questa è costituita per la maggior parte
(90%) da un’unica proteina, l’α1-antitripsina
(AAT). Questa proteina è un inibitore della
tripsina, ma l’attività inibitoria si estende in realtà
a più enzimi, svolgendo un’ampia attività anti-
proteasica. Si lega a elastasi, collagenasi,
chimotripsina, plasmina e trombina. Questi sono
enzimi che vengono liberati dai polimorfonucleati
neutrofili durante un processo infiammatorio,
poiché hanno attività antibatterica.
Le proteine come l’α1-antitripsina sono necessarie a tamponare l’azione isto-lesiva che potrebbero
avere questi enzimi nei confronti delle cellule dell’organismo. Essi, infatti, hanno la proprietà di
distruggere i batteri, ma potrebbero anche danneggiare le cellule proprie.
Il deficit di α1-antitripsina può causare enfisema polmonare e epatopatia:

 la patologia polmonare si manifesta con broncopneumopatia cronica ostruttiva e


enfisema, tra la terza e la quarta decade di vita.
Come mai la malattia colpisce il polmone? Perché soprattutto nei soggetti fumatori o in
quelli che vivono in ambienti con un alto tasso di inquinamento, vi è uno stimolo irritativo
cronico e basale a livello polmonare, che determina quindi una risposta flogistica continua.
Se manca l’α1-antitripsina, vi è una mancata inibizione soprattutto dell’elastasi, rilasciata
dai leucociti in risposta alla presenza di agenti irritanti nelle vie respiratorie, che distrugge
le fibre elastiche del parenchima polmonare, determinando l’enfisema;
 la malattia epatica è una vera e propria epatite dovuta ad una patologia di accumulo.
L’enzima nella sua forma mutata non può essere infatti trasferito dal reticolo
endoplasmatico degli epatociti all’apparato di Golgi, accumulandosi nel primo. La malattia
può essere piuttosto pericolosa, si manifesta in età pediatrica e può evolvere in cirrosi e in
epatocarcinoma.

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La patologia da deficit di α1-antitripsina si trasmette come carattere autosomico recessivo con
un’incidenza di 1/2000-4000 nati vivi: è quindi, pur rimanendo relativamente rara, una tra le più
comuni malattie genetiche gravi. Si conoscono ad oggi più di 75 varianti del gene (SERPINA1, da
SERine Protease INhibitor A1, si trova sul cromosoma 14) e vengono classificate con le lettere
dell’alfabeto. Una ventina di queste varianti può determinare una modificazione nell’attività
dell’enzima, con conseguente manifestazione patologica:

 la variante M è quella che si potrebbe definire “normale”, non è un termine corretto, ma


sta ad indicare il fatto che sia la più diffusa, poiché è presente in omozigosi in più del 90%
della popolazione europea ed è associata a normali valori dell’enzima;
 la variante Z è pericolosa solo in omozigosi, poiché determina in questo caso una riduzione
dei livelli di enzima circolante dell’85-90%: questi pazienti hanno un elevato rischio di
sviluppare la patologia polmonare e nel 20% dei casi sviluppano una epatopatia, in
eterozigosi (con variante M) la riduzione dell’attività dell’enzima è solo del 50% e mancano
quindi le manifestazioni cliniche;
 la variante S in omozigosi causa riduzione del 40% dell’enzima rimanendo però
asintomatica, mentre è pericolosa, causando enfisema polmonare, quando è in eterozigosi
con la variante Z, causando soprattutto manifestazioni cliniche in soggetti fumatori o in
soggetti che abitano in aree urbane ad elevato tasso di inquinamento;
 la variante Null, molto rara, è però quella più pericolosa tra quelle conosciute, in omozigosi
è associata alla totale assenza dell’enzima e ad un elevatissimo rischio di sviluppare la
patologia polmonare ed epatopatia.
Curiosità: la patologia da deficit di cui abbiamo finora parlato, per quanto rara e pericolosa, potrebbe
essere più usuale di quanto pensiamo: molto probabilmente due famosi musicisti, Chopin e Michael
Jackson, soffrivano di tale malattia.

Fra le altre alfa1-globuline si hanno:

 α1-glicoproteina acida (o orosomucoide): la sua funzione non è ancora perfettamente


compresa, ma le omologie nella sequenza amminoacidica con le immunoglobuline
suggeriscono un suo ruolo ancestrale nel sistema immunitario. È una proteina della fase
acuta e un inibitore del progesterone.
 α1-fetoproteina
[Dalle slide: è una albumina fetale sintetizzata nel sacco vitellino e, a partire dal 4°mese di
gravidanza, dal fegato fetale; dall’8° mese la sua concentrazione sierica decresce
rapidamente, consensualmente ad una aumenta produzione di albumina. Durante la
gravidanza un suo aumento indica difetti del tubo neurale, spina bifida o gravidanza
gemellare, mentre una sua riduzione è associata alla sindrome di Down. In età adulta il suo
aumento è associato alla presenza di epatocarcinoma]
 α-lipoproteine: le lipoproteine hanno una componente lipidica e una proteica e quindi le
diverse classi di lipoproteine migrano in maniera diversa sul tracciato elettroforetico.

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3. BANDA α2:
Le α2-globuline sono principalmente costituite
da due componenti:

 l’α2-macroglobulina: è molto
grande, ha un peso molecolare di
800 kDa ed è quindi seconda in
dimensioni solo alle IgM, le
immunoglobuline pentameriche.
Ha una funzione simile a quella
dell’α1-antitripsina: un’anti-proteasi aspecifica, che interviene anche nella regolazione
dei processi emocoagulativi (insieme alla α2-antiplasmina, inibisce l’azione fibrinolitica
della plasmina sulla fibrina), nella risposta immunitaria e nel trasporto di ormoni
(somatotropo e insulina). Essendo che non sono state ancora riconosciute malattie da
deficit congeniti, si può dedurre che le malattie da deficit siano incompatibili con la
vita. Data la sua dimensione, nelle sindromi nefrosiche, come nelle glomerulopatie
importanti in cui il danno glomerulare è molto rilevante e si altera il filtro glomerulare,
determinando il passaggio delle proteine plasmatiche, la macroglobulina non passa,
rimane nel siero. Non è una proteina della fase acuta;
 l’aptoglobina ha la funzione di intercettare l’emoglobina che si libera dai globuli rossi.
Vi sono infatti delle tipologie di anemie, ossia le anemie emolitiche, che sono rare, ma
possono provocare la liberazione di grandi quantità di emoglobina. Questa quando
arriva al glomerulo viene filtrata ed eliminata tramite le urine. In questo modo si perde
l’emoglobina, ma soprattutto il ferro contenuto in essa. L’aptoglobina, quindi,
intercetta l’emoglobina liberata in seguito ad emolisi intravascolare, la capta e fa in
modo che quindi non venga eliminato tramite l’urina: il complesso aptoglobina-
emoglobina viene rimosso dal plasma ad opera del sistema reticolo-endoteliale e
metabolizzato in AA e ferro. Nelle emolisi intravascolari i livelli ematici di aptoglobina
risultano ridotti, mentre aumentano in corso di neoplasie, traumi e processi
infiammatori. Solo quando le anemie sono di grande entità l’azione dell’aptoglobina
non riesce a rimediare all’eliminazione dell’emoglobina.
Sono presenti anche altre proteine del picco α2, che però sono meno rilevanti:

 ceruloplasmina: deputata al trasporto del rame (proteina della fase acuta)


 α2-antiplasmina: inibisce l’azione fibrinolitica della plasmina (proteina della fase acuta)
 proteina trasportatrice la vitamina D (vitamin D binding protein, DBP)
 pre-β lipoproteine (VLDL).

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4. BANDA β:

 transferrina (β1), (nei tracciati


elettroforetici meglio condotti è
possibile distinguere un picco β1 e
β2): è la proteina deputata al
trasporto del ferro nel plasma.
Quando manca il ferro e siamo in
condizione quindi di sideropenia i livelli plasmatici di transferrina aumentano come
meccanismo di compenso per la conservazione del ferro, dando origine ad un
meccanismo inutile, poiché anche se aumento il trasportatore, la sostanza trasportata,
ossia il ferro, non aumenta. Tuttavia, il picco β1 può andare incontro ad un modesto
aumento. Aumentati livelli di transferrina si riscontrano anche nella gravidanza e in
corso di terapie estro-progestiniche. È una proteina negativa della fase acuta.
 frazione C3 del complemento (β2) (proteina della fase acuta);
 antitrombina III: inibitore della cascata coagulativa (proteina della fase acuta);
 β2-microglobulina: catena leggera degli antigeni del complesso maggiore di
istocompatibilità di classe I (MHC I);
 β2-lipoproteine (LDL).

5. BANDA γ:

 Immunoglobuline: IgG, IgA, IgM, e,


meno rappresentate in condizioni
normali, IgD ed IgE. Le IgA sono un
po’ più veloci nella migrazione, le
IgM intermedie, le IgG più numerose
e un po’ più lente.

N.B.: Se facessimo
un’elettroforesi del sangue intero
avremo anche un contributo del
fibrinogeno, che è il fattore di
coagulazione che ha la maggiore
concentrazione a livello
plasmatico, tanto da poter essere
rilevato appunto in un tracciato
elettroforetico. Considerando
l’immagine di fianco possiamo
vedere che a sinistra vi è un
grafico relativo all’analisi del siero, mentre a destra vi è quello relativo al sangue intero, in cui
possiamo osservare tra il picco beta e il gamma quello del fibrinogeno;
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 Proteina C reattiva, importante indice di flogosi, che è presente in quantità minime,
tanto che non modifica la forma del tracciato. Il suo nome deriva dalla capacità di
legare il polisaccaride C dello Streptococcus Pneumoniae. In realtà è anche in grado di
legarsi a molti altri polisaccaridi presenti su specie batteriche, protozoi e parassiti.
(L’acronimo di questa è PCR, da non confondere con la reazione a catena della polimerasi)
La funzione di questa proteina è di legare questi target su specie soprattutto batteriche,
in modo da attivare la via classica del complemento (attraverso il fattore C1q) e quindi
contribuire alla regolazione della risposta infiammatoria. Questa proteina è anche
un’opsonina, poiché legandosi a queste sostanze estranee come i batteri, permette il
loro riconoscimento da parte dei leucociti e la successiva fagocitosi. Non si conoscono
neanche in questo caso delle malattie da deficit di questa proteina, che risulta quindi
fondamentale per la vita.

TRACCIATI ELETTROFORETICI PATOLOGICI


Si analizzano ora variazioni delle proteine sieriche in
particolari condizioni patologiche. Il normale tracciato
elettroforetico da tenere come riferimento è
rappresentato a lato.

INFIAMMAZIONE ACUTA
È un quadro che si determina generalmente a seguito di lesioni distruttive: neoplasie, necrosi,
ustioni, traumi, danni cellulari che determinano una risposta di tipo infiammatorio. Come
evidenziato dal grafico accanto, il tracciato elettroforetico delle proteine sieriche a seguito di un
evento di questo tipo subisce delle modifiche. In particolar
modo si osserva:
- Un aumento marcato delle α2 globuline da attribuire
in particolare ad un aumento dell’aptoglobina
- Un aumento meno marcato delle α1 globuline (in
particolare di α1 anti-tripsina)
- Aumenta anche la PCR, ma non determina variazioni
evidenti nel profilo elettroforetico.

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INFIAMMAZIONE CRONICA
Il grafico in questo caso mostra:
- Un aumento di α2 globuline (da imputare sempre
all’aptoglobina)
- Un aumento più evidente delle γ globuline
(immunoglobuline). L’aumento di questo picco in
questo caso viene definito a “base larga”.
L’aumento delle γ globuline sarà questa volta più rilevante
dell’aumento delle α2.

EPATOPATIA CRONICA
Qualsiasi danno cronico al fegato compromette la sua capacità
di produrre proteine, anche quelle plasmatiche. Si avrà
pertanto:
- Una diminuzione delle α1, α2 e β globuline
- Un aumento delle γ globuline
L’aumento immunoglobulinico è sia relativo, in quanto la
produzione delle altre globuline cala, sia assoluto, nel caso ci
sia ad esempio un’epatite cronica, che porta a iperproduzione
di γ globuline.
Il fegato, tra le tante, ha anche la funzione di smaltire le immunoglobuline provenienti dal circolo
ematico, contribuendo di fatto alla loro clearance. Un’insufficienza epatica, quindi un deficit
funzionale epatico, può determinare una riduzione di questa clearance.
Un indice importante per misurare l’entità di questo processo è il rapporto albumina/globuline.
Questo rapporto fisiologicamente è sempre sopra l’unità, tuttavia quando diventa sub-unitario
allora si può sospettare una condizione di questo tipo, in cui la clearence immunoglobulinica sia
compromessa.

SINDROME NEFROSICA
La sindrome nefrosica consiste in una perdita della
normale permeabilità del glomerulo renale, che fa sì che
le proteine vengano eliminate in eccesso rispetto alla
normalità.

Viene filtrato un gran numero di proteine e passano attraverso il glomerulo proteine più grandi
che normalmente dovrebbero essere trattenute nell’organismo. Clinicamente questa condizione
porterà all’edema: per via della proteinuria (eliminazione massiva di proteine tramite le urine)
avremo una riduzione della pressione oncotica del sangue e quindi edema. L’α2 globulina è una
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proteina molto grande e non passa attraverso il glomerulo neanche in caso di sindrome nefrosica,
pertanto a livello del sangue periferico avremo:
- Un aumento relativo della α2 globulina
- Diminuzione dell’albumina e di molte altre proteine plasmatiche
- Un aumento delle β globuline (β-lipoproteine epatiche)
Il fegato, inoltre, nel tentativo di ripristinare la pressione oncotica sintetizza lipoproteine e in
particolare β lipoproteine e pre-β lipoproteine, responsabili appunto dell’aumento del picco beta.

GAMMOPATIA MONOCLONALE
Questa condizione risulta essere molto evidente, come si evince anche dal grafico. Questo quadro
è una diretta conseguenza di una neoplasia delle plasmacellule: il mieloma multiplo. È
caratterizzata dalla trasformazione neoplastica di una plasmacellula che comincia a produrre un
solo tipo di immunoglobuline. Il picco che segna questo aumento può superare anche il picco di
albumina, inoltre -differentemente dalle epatopatie croniche in cui si ha un aumento di tutte le
immunoglobuline- è un picco a “base stretta” perché è rappresentativo dell’aumento di un solo
tipo di γ globuline.

AGAMMAGLOBULINEMIA
Condizione opposta alla precedente e molto rara. È dovuta a un’alterazione congenita dei linfociti
B tale per cui i soggetti affetti non possono produrre γ globuline, dunque scompare il picco relativo
a queste.

Altre condizioni associate ad alterazioni del profilo elettroforetico:


- anemia sideropenica: modesto aumento delle β-globuline (β1) per aumento della
transferrina
- deficit di α1-antitripsina: riduzione / scomparsa del picco delle α 1-globuline

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INDICI DI FLOGOSI
Sono degli indici di laboratorio che servono per diagnosticare e monitorare il processo flogistico in
atto.

- PCR: proteina C reattiva


- VES: velocità di eritrosedimentazione
Il processo di flogosi è caratterizzato da una serie di reazioni locali ma anche sistemiche. Esistono
infatti dei mediatori chimici che vengono prodotti nel sito di infiammazione e che hanno come
target delle molecole presenti in sedi anche molto lontane. Con il termine “fase acuta” intendiamo
l’insieme di tutti quegli eventi sistemici, e non solo locali, che avvengono in seno al processo di
flogosi. La manifestazione più esplicita della fase acuta è la febbre: mediatori chimici prodotti a
livello del sito di infiammazione comunicano ai centri termoregolatori del nostro organismo che
provvederanno ad alzare la temperatura, condizione che favorirà la risposta immunitaria nella
difesa dell’organismo da infezioni. Allo stesso modo condizioni come l’anoressia, la sonnolenza, la
leucocitosi e la produzione di ormoni dello stress (ACTH, cortisolo, adrenalina) sono tutte evidenze
che fanno parte della fase acuta. Una delle espressioni sistemiche della fase acuta è anche la
produzione a livello epatico di quelle che sono dette “proteine della fase acuta”.

PROTEINE DELLA FASE ACUTA


La fase acuta è:
- Veloce
- Efficace: è un indicatore sensibile di flogosi
- Standardizzata
- Aspecifica: è sempre uguale indipendentemente dalla causa che l’ha prodotta. Questo
rappresenta un limite dal punto di vista diagnostico perché si ha un quadro clinico che può
essere dovuto a cause estremamente diverse tra di loro (fra le più importanti si ricordano
infezioni, reazioni immuno-allergiche, ipossia, infarti, traumi, ustioni, interventi chirurgici e
neoplasie maligne).
Le proteine della fase acuta vengono definite tali quando durante un processo infiammatorio
aumentano del 25%; è dunque questa la soglia oltre la quale tale aumento è indicativo di un
processo flogistico in atto.
Il mediatore che comunica al fegato che deve produrre queste proteine è l’IL-6, liberata a livello
del sito di infiammazione sia da cellule del SI ma anche da fibroblasti, cellule epiteliali, cellule
endoteliali. La produzione di IL-6 è a sua volta stimolata da IL-1 e TNFα, prodotti dai macrofagi. Le
proteine della fase acuta vengono prodotte in quanto giocano un ruolo importante nella
regolazione del processo infiammatorio. Tra queste proteine infatti vi sono:
- Proteine pro-infiammatorie: opsonina, fattori chemiotattici etc. che favoriscono la flogosi.
- Proteine antiinfiammatorie: sono in realtà la maggior parte e arginano il processo
infiammatorio. Il fegato produce queste proteine per limitare tutti quei danni istolesivi di
cui il tessuto normale risentirebbe inevitabilmente nel momento in cui si cercasse di
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debellare l’infezione provocata da un microrganismo. Ci sono casi in cui i danni prodotti
dalla risposta infiammatoria sono maggiori di quelli prodotti dal microrganismo (come
accade ad esempio in caso di Covid-19), pertanto il ruolo di queste proteine
antinfiammatorie della fase acuta è fondamentale.
Le proteine della fase acuta fanno parte di tutte le bande viste precedentemente: α1, α2, β, γ
globuline. Fra le proteine della fase acuta si riconosce anche la proteina sierica dell’amiloide
(SAA). Questa lega le HDL, lipoproteine che prendono il colesterolo dai tessuti e lo portano al
fegato, dunque se SAA viene prodotta eccessivamente lega le HDL e comporta una riduzione della
loro funzionalità; in condizioni di cronicità tutto ciò può favorire l’amiloidosi secondaria .
*[Dalle slide: la SAA si lega all’isoforma 3 delle HDL spiazzando la Apo-A1, che regola il trasporto inverso
(dalla periferia al fegato) del colesterolo: le HDL ricche di SAA presentano un’affinità ridotta per gli epatociti
e incrementata per i macrofagi.]

Le proteine della fase acuta svolgono un ruolo


importante e da un punto di vista
laboratoristico possono essere utilizzate come
indice di flogosi per diagnosticare e monitorare
l’andamento del processo di infiammazione.
Teoricamente vi sono circa 30 proteine della
fase acuta ma non avrebbe senso monitorarle
tutte; bisogna ricercare quelle dal monitoraggio
più efficace. La proteina che meglio si adatta ad
una valutazione diretta e quantitativa della
risposta della fase acuta è la proteina C
reattiva. Essa ha una emivita breve (<24 ore) ed
una velocità di eliminazione dal sangue
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costante, pertanto la sua concentrazione plasmatica dipende esclusivamente dalla entità della
sintesi epatica. In assenza di infiammazione, poi, la sua concentrazione ematica è bassa (~ 1 mg/L)
e non dipende né dall’età, né da fattori individuali; inoltre sono pochi i processi patologici che non
determinano un incremento (elevato o modico) dei livelli plasmatici di questa proteina.
Il grafico illustra il monitoraggio delle varie proteine della fase acuta prodotte a seguito di un
danno tissutale rilevante in un animale da laboratorio.
È evidente che la PCR (linea rossa) aumenta immediatamente e in maniera molto evidente a
seguito dello stimolo infiammatorio. L’aumento della PCR si inizia ad osservare 6-8 ore dopo il
danno tissutale e procede in maniera esponenziale, raggiungendo il picco massimo dopo 48 ore,
quando ha valori anche centinaia di volte superiori a quelli di riferimento.
Anche la SAA (linea blu) è interessata da un aumento abbastanza consistente e repentino della sua
produzione. Al terminare dello stimolo infiammatoria però la PCR è più celere nel ritornare al
valore di riferimento rispetto alla SAA. Proprio per questa caratteristica la PCR è utilizzata come
indice di flogosi.
Le altre proteine come l’aptoglobina (linea gialla), il fibrinogeno (azzurro), i fattori del
complemento (viola) sono caratterizzati da una produzione con picchi più bassi molto più tardivi
rispetto allo stimolo infiammatorio (11-15gg), dunque è chiaro come siano meno efficaci per un
monitoraggio accurato.
Altre proteine sieriche vanno incontro ad una riduzione della propria concentrazione ematica
durante un processo infiammatorio (es. albumina, che diminuisce in caso di sindrome nefrosica,
transtiretrina, α1 fetoproteina, retinol binding protein, transferrina, fattore XII). La diminuzione di
concentrazione ematica è però troppo lieve e dunque non è un indice di flogosi efficace. Queste
vengono chiamate “proteine negative della fase acuta” ma non hanno possibilità di competere con
la PCR in ambito laboratoriale. Il significato della riduzione di queste proteine durante la fase acuta
ed i meccanismi che ne regolano le variazioni plasmatiche non sono stati ancora perfettamente
chiariti.

VELOCITA’ DI ERITROSEDIMENTAZIONE
Il secondo indice di flogosi è la VES, acronimo di velocità di eritrosedimentazione.
È stato osservato in passato che effettivamente prendendo provette di sangue (a cui viene
aggiunto anticoagulante) di diversi pazienti vi sia una differenza tra i livelli dei globuli rossi nel
corso del tempo. I globuli rossi sono infatti spinti verso il basso dalla forza di gravità, avendo
densità maggiore al plasma, ma la velocità con cui questi cadono è variabile. La velocità di caduta
varia di paziente in paziente, a seconda delle loro condizioni: il primo ad accorgersi di ciò fu un
ginecologo, il quale notò che le donne in gravidanza avevano delle velocità di sedimentazione più
elevate rispetto alla norma.
Il procedimento per ottenere la VES è semplice: si misura di quanti millimetri è sceso il livello dei
globuli rossi in un ora all’interno di una provetta millimetrata posta verticalmente. Ovviamente
quest’operazione non viene più fatta manualmente ma tramite delle macchine automatizzate.

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Nei soggetti con età inferiore a 50 anni i valori di riferimento della VES sono fino a 15 mm/h per il
sesso maschile e fino a 20 mm/h per il sesso femminile (con un incremento durante il periodo
mestruale); dopo i 50 anni i valori salgono fino a 20 mm/h per il sesso maschile e fino a 30 mm/h
per il sesso femminile
La VES si può calcolare applicando la legge di Stokes:
( )
V=

Questa legge si applica a particelle ideali sferiche, i globuli rossi in realtà sono biconcavi ma si può
approssimare la morfologia. Per la legge di Stokes la velocità di sedimentazione di una particella in
un liquido dipende dal doppio del quadrato del raggio della particella (quindi dalle sue
dimensioni), moltiplicato per la differenza tra le densità delle due sospensioni (nel nostro caso è
una costante), moltiplicato per la costante di gravità (quindi un’altra costante); e il tutto fratto
nove volte la viscosità del liquido.
Quindi, semplificando, l’equazione ci dice che la VES dipende dalle dimensioni dei globuli rossi e
dalla viscosità del sangue, la quale è strettamente correlata al numero dei globuli rossi. Definiamo
la VES allora come direttamente proporzionale alla massa eritrocitaria e inversamente
proporzionale al numero degli eritrociti.
La VES è indice di flogosi perché normalmente i globuli rossi tendono a respingersi tra loro: le forze
di elettro-repulsione prevalgono, quindi i globuli circolanti hanno una scarsa predisposizione
all’aggregazione. Durante la fase acuta alcune proteine di questa fase, come il fibrinogeno e le
proteine asimmetriche come le immunoglobuline, tendono a ridurre le forze elettro-repulsive che
fanno respingere tra loro i globuli rossi. I globuli rossi allora cominciano ad aggregarsi tra loro
portando a un aumento del numeratore della legge di Stokes, per cui aumenta la VES. Questo
indice di flogosi è quindi un indicatore indiretto, in quanto dipende a sua volta dalla produzione
delle proteine della fase acuta. Si tratta, inoltre, di un parametro che dipende anche da altri fattori,
che possono essere disturbanti per la rilevazione o il monitoraggio del processo flogistico. La VES
varia, infatti, con l’età e il sesso, si modifica con una latenza maggiore rispetto alla PCR (in quanto
il fibrinogeno aumenta più tardivamente), e, infine, la VES varia anche a seconda delle patologie
che riguardano il numero o le dimensioni dei globuli rossi.
[dalla dispensa dell’anno scorso:
1. Una policitemia da alta quota provoca un aumento del numero di globuli rossi e la VES risulta
diminuita -> controbilancia l’innalzamento indotto da un eventuale infiammazione che non
risulterebbe diagnosticabile (falso negativo);
2. Nel caso invece di una anemia, la VES sarebbe più elevata per il calo di numero di globuli rossi,
ma ciò non sarebbe indice di flogosi (falso positivo)].

Nonostante queste criticità, la rilevazione della VES è molto utilizzata nella pratica clinica,
soprattutto per la semplicità del metodo e per la sua economicità. Dal punto di vista teorico,
tuttavia, la ricerca della PCR non ha rivali, è l’indice di flogosi per eccellenza.
[Si sconsiglia di farle entrambe in contemporanea. Si potrebbe fare prima la VES e, se il risultato
non fosse soddisfacente, fare in seguito anche la PCR, ma mai entrambe contemporaneamente per
16
ragioni economiche e logiche: non ha senso fare un doppio test quando già uno solo di questi, la
PCR, è sufficiente e altamente affidabile, e non ha senso fare la PCR prima e la VES dopo perché la
VES sarà sempre meno affidabile]
Per concludere, gli indici di flogosi sono dei parametri estremamente sensibili (soprattutto se ci si
riferisce alla PCR) e sono utili per indicare la presenza, l’intensità e la durata di un processo
infiammatorio, tuttavia sono anche degli indici aspecifici: informano del fatto che nel paziente è in
atto un processo infiammatorio, ma non dicono nulla sulla causa del processo stesso. La
valutazione di questi indici sarà dunque solo l’inizio dell’indagine diagnostica che dovrà in seguito
essere volta a trovare le cause effettive della flogosi.

Le finalità degli indici di flogosi sono:


- Rilevare il processo infiammatorio; il processo infiammatorio ha già un’evidenza visibile,
dunque questa è la finalità di minor rilevanza.
- Controllare il decorso delle malattie infiammatorie croniche: alcune di queste patologie
sono caratterizzate da un andamento altalenante; hanno dei momenti di accensione e dei
momenti di spegnimento. Nei momenti in cui la risposta infiammatoria si riaccende, si deve
intervenire con farmaci antinfiammatori, che hanno però degli effetti collaterali anche
cronici. È importante per questo monitorare gli indici di flogosi per evitare di
somministrare questi farmaci durante le fasi di spegnimento e prescriverli invece soltanto
nelle fasi di effettiva infiammazione.
- Check up di un paziente sano: talvolta c’è la possibilità che delle modificazioni di questi
indici precedano i sintomi della patologia, come ad esempio può accadere per una
formazione neoplastica. Gli indici di flogosi possono quindi aiutare ad individuare
condizioni patologiche di diversa natura che non hanno un’esplicita manifestazione clinica.
È estremamente improbabile che un’alterazione degli indici di flogosi possa associarsi a uno stato
di buona salute, quindi bisognerà sempre indagare su quale disagio ci possa essere (nel caso di un
danno tissutale non immediatamente manifesto) o su quali siano le sue cause. La causa
dell’alterazione potrebbe anche non essere particolarmente rilevante, ma va comunque sempre
rilevata per escludere la presenza, in certi casi, di processi patologici.
Bisogna inoltre ricordare che la loro negatività non consente di escludere la presenza di un
processo patologico.

17
CAPITOLO 2: IL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE
DELLA FUNZIONE EMOSTATICA
Il termine emostasi (dal greco di αἷμα «sangue» e στάσις «immobilità, interruzione») comprende
tutti i meccanismi fisiologici che l'organismo mette in atto per evitare perdite di sangue. Nell’uomo
non è presente una riserva di sangue, ma ciò che è in circolo è sempre utile e necessario quindi
bisogna evitarne la dispersione.
In realtà il sistema emostatico è un sistema molto complesso perché nel contempo riesce a
garantire sia l’interruzione di un’emorragia che il mantenimento della fluidità del sangue. Perciò
grazie alla funzione emostatica l'organismo può fare cessare il sanguinamento di una ferita, pur
mantenendo nello stesso tempo la necessaria fluidità del sangue nel compartimento
intravascolare.
Un’alterazione del processo emostatico si traduce clinicamente con due manifestazioni estreme:

 l’incapacità di mantenere il sangue fluido porta alla trombosi;


 l’incapacità di interrompere un sanguinamento porta all’emorragia.
Nds. Il professore ci tiene a specificare che entrambe le condizioni sono potenzialmente molto
pericolose e hanno la stessa rilevanza clinica, ma in aula verrà in prevalenza descritta la seconda
poiché il laboratorio è più strutturato nel caratterizzare i disturbi dell’emostasi che producono
emorragia mentre si hanno meno strumenti per definire i pazienti che rischiano una trombosi.

IL PROCESSO EMOSTATICO
Il processo emostatico viene tradizionalmente diviso in un’emostasi primaria e un’emostasi
secondaria. Questa suddivisione ha sicuramente un’utilità didattica e facilita nello studiare
l’argomento, ma in realtà questo meccanismo è molto più complesso, integrato e sincrono.

 l’emostasi primaria consiste nella rapida formazione (pochi secondi) di un agglomerato di


piastrine, chiamato tappo emostatico primario (platelet plug), nella zona della lesione, che
consente l’interruzione del sanguinamento dai vasi capillari e dalle venule.
Contemporaneamente alla formazione del tappo, si attiva il processo di vasocostrizione che
riduce la potenziale perdita di sangue diminuendo l’afflusso di sangue nel distretto
danneggiato. La vasocostrizione inoltre favorisce i processi di riparazione poiché consente
loro di lavorare in una condizione di pressione ridotta. È bene precisare però che la
vasocostrizione non può essere protratta all’infinito perché causerebbe l’ischemia dei
tessuti a valle: è importante quindi che al ripristino del flusso ematico corrisponda la
solidità e resistenza del tappo emostatico e ciò si verifica grazie all’emostasi secondaria.
 l’emostasi secondaria porta, per attivazione del sistema della coagulazione, alla
formazione della fibrina, i cui filamenti rafforzano il tappo emostatico primario, dando
origine al tappo emostatico secondario: infatti, le piastrine adese le une alle altre
rappresentano una struttura friabile che deve essere cementata per resistere al ritorno
della pressione ematica; l’emostasi secondaria richiede alcuni minuti ed è importante
soprattutto per bloccare la fuoriuscita del sangue dai vasi di calibro maggiore.

18
In generale quindi le piastrine sono gli elementi
fondamentali dell’emostasi primaria e i fattori di
coagulazione lo sono per l’emostasi secondaria.

LE PIASTRINE
Nell’immagine a lato è presente uno striscio di sangue
periferico in cui si identificano: in basso al centro un
polimorfonucleato (a sx) e un linfocita (a dx), mentre sono
evidenziate dalle teste di freccia alcune piastrine al cui
interno sono visibili i granuli (visualizzabili anche con la colorazione di May-Grunwald e Giemsa).
Le piastrine sono dei frammenti citoplasmatici che derivano dal megacariocita che a sua volta
deriva dal precursore midollare che si chiama megacarioblasto; si aggirano tra le 150’000 e
400'000 per mm3 e sono per 2/3 circolanti e 1/3 sequestrato in un pool splenico. La vita media
delle piastrine è intorno ai 10-12 giorni, dopo di che vengono rimosse dai fagociti mononucleati
del sistema reticolo-endoteliale. Le piastrine non attivate hanno un diametro tra 1 e 4 μ ed uno
spessore 1 μ, pari a 1/7-1/8 di un globulo rosso.
Tra le componenti delle piastrine, le più importanti sono:

 il sistema canalicolare aperto che è costituito dalla membrana plasmatica trilaminare la


quale, invaginandosi profondamente all’interno della cellula, aumenta notevolmente la
superficie di contatto con l’ambiente esterno e favorisce la già elevata reattività delle
piastrine; inoltre, il sistema è avvolto da un glicocalice contenente specifiche glicoproteine
recettoriali (Gp);
 il sistema tubulare denso che è il REL derivato da
quello del megacariocita di origine. È in stretto
contatto con il sistema canalicolare aperto,
permettendo alle piastrine di produrre e rilasciare in
circolo molto velocemente diverse sostanze.
 Un complesso sistema citoscheletrico che permette
alle piastrine di modificare rapidamente (in pochi
secondi) la loro forma. Le piastrine circolanti hanno
una “forma discoidale”, mentre le piastrine attivate assumono una morfologia sferica con
emissione di pseudopodi contenenti recettori specifici (“forma stellata”).
All’interno delle piastrine sono presenti dei granuli contenenti una molteplicità di sostanze
preformate e quindi immediatamente disponibili al rilascio, per cui le piastrine possono
sintetizzare sostanze, ma per lo più contengono già sostanze dentro i granuli pronte per essere
liberate in circolo. In particolare:

 i granuli α, poco opachi e molto numerosi, contengono:


o proteine adesive: vWF, fibronectina, trombospondina
o fattori della coagulazione: fibrinogeno, vWF, fattore V, HMWK
o inibitori della fibrinolisi: PAI-1, α 1-antiplasmina
o sostanze ad azione antieparinica: β-tromboglobulina, fattore piastrinico 4
o modulatori di crescita (PDGF, TGF- β)

 i corpi densi (granuli δ) contengono calcio, fosforo, ATP/ADP, istamina e serotonina


19
EMOSTASI PRIMARIA
L’emostasi primaria si attiva tutte le volte in cui il sangue viene in contatto con una superficie
diversa dall’endotelio. Un danno endoteliale produce ovviamente una perdita di queste cellule e
sotto di esse è presente un connettivo estremamente reattivo per le piastrine: quindi, quando le
piastrine incontrano il connettivo sottoendoteliale esposto (collagene, proteoglicani, fibronectina)
si attivano attraverso degli specifici recettori e la reazione piastrinica può essere schematizzata in
tre fasi principali:
- adesione delle piastrine al connettivo sottoendoteliale esposto e passaggio da una forma
discoidale ad una forma sferica con protrusione di pseudopodi (forma stellata);
- attivazione delle piastrine con liberazione in circolo del contenuto dei granuli piastrinici a
diversa attività biologica;
- aggregazione di altre piastrine con formazione di un tappo emostatico primario.

1. ADESIONE DELLE PIASTRINE


Nell’immagine è schematizzato il processo di adesione: le cellule endoteliali (riprodotte in maniera
semplice una di fianco all’altra) poggiano sulla membrana basale e, quando si interrompe la loro
continuità, si ha il contatto tra le piastrine e il connettivo sottoendoteliale (l’ovale viola riproduce
la morfologia del collagene). L’adesione delle piastrine al collagene sottoendoteliale è mediata da
recettori specifici, costituiti da glicoproteine (Gp) appartenenti alla famiglia delle integrine:

 i recettori GpIa e GpIIa (assente


nell’immagine) consentono alle
piastrine di legarsi direttamente al
collagene → attacco diretto
 i recettori GpIb consentono alle
piastrine di legarsi al collagene per
interposizione del multimero chiamato
fattore di von Willebrand (vWF) →
attacco indiretto

In questa immagine a microscopia elettronica sono visibili due


cellule endoteliali tra cui è presente uno scollamento. In
particolare, la prima si trova nella parte bassa dell’immagine
mentre l’altra nella parte alta ed è possibile distinguere parte
del suo nucleo. A livello della piccola lesione si ha
l’esposizione del connettivo e proprio qui le piastrine,
calamitate dai loro pseudopodi, si attaccano al connettivo
grazie all’azione dei recettori Gp.
Il fattore di von Willebrand (vWF) è una grossa glicoproteina
plasmatica che forma multimeri eterogenei, mediamente
intorno alle 100 unità. Il vWF viene sintetizzato dalle cellule
endoteliali e dai megacariociti.

20
Il vWF plasmatico svolge una duplice funzione:

 media l’adesione delle piastrine al connettivo sottoendoteliale dei vasi sanguigni che
hanno subito lesioni;
 solubilizza, veicola e stabilizza il fattore VIII della coagulazione, proteggendolo dalla
degradazione.
È quindi evidente che il vWF regola sia l’emostasi primaria ma è anche un fattore importante nella
regolazione dell’emostasi secondaria, confermando l’intersezione tra i processi emostatici.

Malattia di von Willebrand


Il deficit ereditario di fattore di von Willebrand (malattia di von Willebrand) è considerata oggi la
patologia coagulativa ereditaria più frequente al mondo. Spesso si ritiene che l’emofilia detenga
questo titolo, ma in realtà da un punto di vista epidemiologico la malattia di von Willebrand è
estremamente più frequente con una prevalenza di circa 1 paziente ogni 1000 abitanti mentre
l’emofilia di tipo A, ad esempio, ha una prevalenza di 1/10.000 maschi.
Questa coagulopatia è però meno riconoscibile dell’emofilia perché fortunatamente in molti casi la
mutazione del gene che codifica per il vWF produce un deficit limitato dell’efficienza di questo
fattore e quindi molti pazienti sono asintomatici o hanno manifestazioni cliniche trascurabili che
possono essere valutate solo in laboratorio. I casi gravi sono effettivamente molto ridotti circa 1,5
soggetti / milione di abitanti mentre l’emofilia
tende a essere sempre grave.
Nei pazienti sintomatici, le manifestazioni
cliniche più caratteristiche sono costituite da
ecchimosi ed ematomi non proporzionali
all'intensità del trauma, epistassi, gengivorragie
e mestruazioni abbondanti: inoltre, a seguito di
situazioni chirurgiche od odontoiatriche anche
non particolarmente impegnative
(tonsillectomia, appendicectomia, estrazioni
dentali), i pazienti manifestano sanguinamenti
eccessivi e prolungati.
Il vWF e la rispettiva malattia prendono il nome dall’ematologo finlandese Erik Adolf von
Willebrand (1870-1949) ematologo finlandese che intorno agli anni ’20 visitò una ragazzina di
nome Hjördis Sundblom che aveva manifestazioni emorragiche ricorrenti anche importanti.
Inoltre, i genitori di Hjördis durante l’anamnesi familiare riferirono che in realtà 7 degli 11 figli
aveva manifestazioni simili e addirittura 3 bambine erano già decedute. Von Willebrand ricostruì
l’albero genealogico in modo che il quadrato rappresentasse il maschio, il cerchio la femmina, lo
scuro fortemente sintomatico (Hjördis è il terzultimo pallino nero in basso a destra) e il
tratteggiato con sintomi lievi.
Grazie a questo lavoro, l’ematologo scoprì non solo che le femmine presentavano con una certa
frequenza sindromi emorragiche ma anche che dei 58 soggetti studiati, 23 avevano avuto episodi
di emorragia.

21
Una volta identificata la modalità di trasmissione, chiamò questa patologia “pseudo-emofilia” a
seguito delle differenze tra le due manifestazioni per quanto riguarda:

 la diffusione: l’emofilia colpisce prevalentemente i maschi invece mentre in quest’altra


patologia la popolazione era costituita sia da maschi che da femmine. Inoltre, nel caso della
famiglia Sundblom c’era una certa prevalenza per le femmine;
 la diagnosi: i pazienti erano caratterizzati da un allungamento del tempo di
sanguinamento.
Per queste due caratteristiche non poteva essere emofilia e venne chiamata con il termine di
pseudo-emofilia. Successivamente si capì l’importanza del vWF battezzando la patologia con il
nome dell’ematologo.
Hjördis Sundblom morì per menorregia in occasione del suo 4° ciclo mestruale e questo fu uno
stimolo ulteriore per l’ematologo per approfondire le cause e la modalità di trasmissione della
patologia. La malattia di von Willebrand in base alle tipologie può essere trasmessa tramite una via
autosomica dominante oppure recessiva. In generale la possibilità di trasmettere la mutazione alla
progenie resta elevata.

Sindrome di Bernard Soulier


Una malattia emorragica simile a quella di von Willebrand è la sindrome di Bernard Soulier dovuta
questa volta però ad un deficit quantitativo o qualitativo della GpIb. Si trasmette secondo una
modalità autosomica recessiva manifestandosi clinicamente in omozigosi e quindi ha un’incidenza
pari a un individuo su un milione, molto inferiore rispetto alla malattia di von Willebrand.
La triade diagnostica della sindrome di Bernard Soulier è costituita da:

 sindrome emorragica che si presenta nella infanzia / adolescenza con le stesse


manifestazioni descritte nella sindrome di von Willebrand (principalmente epistassi,
gengivorragie, menorragie ed emorragie post-traumatiche o chirurgiche);
 piastrinopenia;
 presenza di piastrine giganti a livello del sangue periferico.

Nell’immagine a sx, si vede uno striscio di sangue normale con un certo numero di piastrine più
piccole dei globuli rossi. A dx invece lo striscio di sangue è stato ottenuto da un paziente con la
sindrome di Bernard Soulier e tra i globuli rossi si distinguono le piastrine giganti (da non
confondere per monociti).

22
Riassumendo, le alterazioni dell’emostasi primaria sono caratterizzate prevalentemente dalla
sindrome di von Willebrand quando manca il vWF e molto più raramente dalla sindrome di
Bernard Soulier quando manca o non è funzionale il recettore GpIb che lega le piastrine con il
connettivo sottoendoteliale.

2. ATTIVAZIONE DELLE PIASTRINE ADESE


Immediatamente dopo la fase di adesione, le piastrine liberano una molteplicità di sostanze in
parte contenute all’interno dei granuli e in parte neosintetizzate.
Tali sostanze comprendono:
 molecole ad attività vasocostrittrice e/o pro-aggregante (serotonina, TXA2, ADP, Ca++): la
vasocostrizione è un riflesso nervoso che può essere protratto da sostanze liberate dalle
piastrine; per quanto riguarda l’azione pro-aggregante, essa favorisce la fase successiva
dell’attivazione piastrinica;
 fattori della coagulazione (fibrinogeno, fattore V): prodotti dal fegato, alcuni di questi
hanno una componente aggiuntiva contenuta nei granuli piastrinici;
 inibitori della fibrinolisi (PAI-1, α2-antiplasmina)
In questa fase si ha anche l’espressione in superficie del fattore piastrinico 3 (FP3) che è un
complesso fosfolipidico capace di fornire il sito di nucleazione critico per il legame del calcio e dei
fattori della coagulazione. FP3 è quindi necessario alla funzione della cascata coagulativa,
mostrando ancora una volta l’intersezione tra l’emostasi primaria e secondaria.

3. AGGREGAZIONE PIASTRINICA: ADP


Di tutti i mediatori che sono liberati dalle piastrine, quelli fondamentali per l’aggregazione
piastrinica sono l’ADP e il trombossano.

Nell’immagine a lato le piastrine (in


azzurro) hanno una morfologia irregolare
con pseudopodi capaci di attaccarsi al
connettivo sottoendoteliale.
Se si fa uno zoom tra le due piastrine
contigue si evidenzia un punto di
congiunzione: infatti, l’ADP liberato in
circolo attiva un recettore silente nelle
piastrine che si chiama GpIIb/IIIa
rendendolo in grado di legare il fibrinogeno.
In particolare, questa molecola fa da ponte
tra due recettori attivati di piastrine diverse
permettendo l’aggregazione piastrinica.
Il legame tra fibrinogeno e complessi recettoriali GpIIb/IIIa viene poi stabilizzato dal cross-linking
della trombospondina liberata dai granuli α delle piastrine.

23
Tromboastenia di Glanzmann
Il deficit quantitativo o qualitativo del complesso recettoriale GpIIb/IIIa (solitamente congenito)
causa una grave sindrome emorragica, nota come tromboastenia di Glanzmann. Si trasmette
secondo una modalità autosomica recessiva e si tratta di una patologia rarissima, fino a pochi anni
fa erano conosciuti pochi migliaia di casi al mondo.
Le manifestazioni cliniche sono le stesse che si osservano nelle altre condizioni in cui è presente un
deficit della funzione piastrinica, anche se in questo caso il problema è di aggregazione e non di
adesione: sanguinamenti cutanei o mucosi in seguito a traumi minimi che si presentano nella
infanzia / adolescenza, epistassi, gengivorragie, menorragie ed emorragie post-traumatiche o
chirurgiche.
[Dalle slide: La diagnosi si basa sul riscontro di un tempo di sanguinamento prolungato con tempi
di coagulazione (aPTT e PT) normali e normale conta e morfologia delle piastrine. Contrariamente
alle sindromi di von Willebrand e di Bernard Soullier, nella tromboastenia di Glanzmann il test di
aggregazione con ADP è alterato, mentre risulta normale il test con la ristocetina. La diagnosi viene
completata dalla misurazione dei livelli di GPIIb/IIIa, di GPIIb e IIIa separatamente, e dal legame
con il fibrinogeno utilizzando anticorpi monoclonali specifici.]
nds. Il professore precisa l’estrema rarità della patologia che quasi sicuramente non incontreremo
durante la carriera medica, ma ne ritiene utile la trattazione per consolidare le informazioni sulla
fisiopatologia delle emostasi.
L’ADP, oltre ad attivare il complesso recettoriale GpIIb/IIIa, assieme a trombina e collageno, attiva
le fosfolipasi A2 e C che liberano acido arachidonico dai fosfolipidi della membrana piastrinica
(fosfatidilcolina e fosfatidilinositolo).
L’acido arachidonico può avere due diversi destini metabolici:

 la via lipossigenasica produce leucotrieni;


 la via ciclossigenasica produce le prostaglandine.

Tra le diverse classi di prostaglandine il fosfolipidi di membrana delle piastrine


trombossano A2 (TXA2) è estremamente (fosfatidilcolina e fosfatidilinositolo)
importante e rappresenta il più importante
agente aggregante prodotto dal nostro ADP fosfolipasi A2 e C
trombina
organismo. Il trombossano non solo favorisce collageno
l’aggregazione delle proteine, ma consente
anche il mantenimento della vasocostrizione acido arachidonico
necessaria a ridurre il flusso ematico nel distretto ciclossigenasi lipossigenasi
colpito dall’emorragia.
prostglandine
leucotrieni
L’aspirina (acido acetilsalicilico), oltre a essere
trombossano
farmaco antiinfiammatorio, ha anche una TXA2
funzione antiaggregante perché inibisce
irreversibilmente la ciclossigenasi.
vasocostrizione / aggregazione piastrinica

24
Quest’azione nella pratica medica può essere:

- negativa per coloro che hanno necessità di terapie antinfiammatorie prolungate. In questi
casi l’effetto finisce per essere la complicanza più importante nei pazienti che devono
prendere cronicamente questi farmaci (ovvero i FANS) aumentando il rischio di emorragia;

- positiva per coloro che hanno un elevato rischio di trombosi. L’aspirina se usata come
farmaco antiaggregante ha quindi un’azione preventiva nei pazienti che rischiano una
trombosi arterovenosa o hanno avuto patologie che possono facilitare tale alterazione
emostatica.

Per la scoperta dell’azione inibitoria dell’aspirina sulla


ciclossigenasi, il ricercatore inglese John R.Vane vinse il
premio Nobel per la medicina nel 1982. Egli non è lo
scopritore dell’aspirina. In questo schema si vede come
l’aspirina blocca mediante acetilazione la ciclossigenasi-1,
le piastrine non producono più trombossano e si
depotenzia molto la capacità pro-aggregante di questi
organuli.
Di seguito sono presentate una serie di indicazioni alla
terapia antiaggregante con acido acetilsalicilico. È un
campionario molto ricco di condizioni patologiche che
prevedono appunto il trattamento giornaliero con
aspirina proprio con la finalità di ridurre il rischio di
trombosi, quindi ridurre la capacità di aggregazione delle piastrine in pazienti che hanno
particolari caratteristiche:

 dopo un infarto del miocardio, per prevenirne un secondo


 dopo un intervento di angioplastica (con o senza stent)
 per prevenire l’infarto in pazienti con angina stabile o instabile
 dopo un intervento di by-pass
 dopo un TIA (Attacco Ischemico Transitorio) cerebrale
 dopo in ictus cerebrale ischemico
 nella cura e nella prevenzione delle arteriopatie cerebrali periferiche
 dopo un intervento di disostruzione delle carotidi
 in presenza di fibrillazione atriali in pazienti giovani o che non possono assumere
anticoagulanti per diversi motivi
 in pazienti anziani con rischio aterotrombotico (fumo, sedentarietà, diabete, ipertensione)
 in pazienti con alto rischio di malattie da trombosi arteriosa (diabetici)

nds. Il professore non ha letto esplicitamente l’elenco, ma


ne ha evidenziato l’importanza soprattutto per gli esami
futuri.
Nell’immagine è sintetizzata l’emostasi primaria: le
piastrine sono sfigurate nella loro morfologia e dietro ci

25
sono le cellule endoteliali. Evidentemente sotto il tappo emostatico primario non c’erano più
cellule endoteliali.
Le piastrine hanno aderito con i propri recettori al connettivo sottoendoteliale e si sono aggregate
per costituire il tappo emostatico primario interrompendo l’emorragia. Questo processo nella
pratica si verifica ogni volta che ci si taglia mentre si fa la barba o lavorando in cucina. Una volta
lesionata la cute è necessario aspettare qualche minuto prima che si interrompa l’emorragia grazie
al tappo emostatico primario.

EMOSTASI SECONDARIA
Se a questo punto si ripristinasse la normale pressione vascolare, il tappo emostatico primario
verrebbe spazzato via perché friabile e non resistente. L’emostasi secondaria ha quindi lo scopo di
consolidarlo così da permettere il ripristino della pressione e l’adeguata irrorazione dei tessuti.
Pertanto, a seguito del danno vascolare, le cellule endoteliali sintetizzano fattori che, in sinergia
con fattori prodotti dalle piastrine, attivano la cascata coagulativa.
I fattori della coagulazione sono prodotti dal fegato e normalmente circolano inattivi nel sangue
periferico. Quando si attivano, lo fanno secondo una sequela che si chiama cascata coagulativa,
una catena di enzimi che si attivano l’uno dopo l’altro: perciò, in condizioni normali, tutti gli enzimi
sono inattivi e quando si ha un danno endoteliale o la liberazione in circolo del fattore tissutale, si
attivano alcuni fattori della coagulazione che innescano questa cascata.
La finalità della cascata coagulativa è produrre fibrina, che è il collante capace di consolidare il
tappo emostatico primario.
Data la centralità di questo meccanismo, è necessario conoscerne e comprenderne tutti i passaggi.
Tradizionalmente e per semplicità didattica è suddivisa in due vie, una intrinseca e una estrinseca,
anche se oggi questi schemi sono un po’ superati.

VIA INTRINSECA VIA ESTRINSECA


Superficie Danno tessutale

XII XIIa fattore tessutale FT


HMWK (tromboplastina)
PK XI XIa

IX IXa FT + VIIa VII

VIII
FP3 Ca++
Ca++
X Xa

V
FP3
Ca++

II (protrombina) IIa (trombina)


XIII, Ca++
I (fibrinogeno) fibrina fibrina
solubile insolubile
26
Quindi la via:

 INTRINSECA è la via che si attiva tutte le volte che il sangue entra in contatto con una
superficie estranea, ad esempio una provetta di laboratorio. Quando il sangue entra in
contatto con una superficie che non è una cellula endoteliale si attiva il fattore XII che a
sua volta attiva l’XI che porta all’attivazione del IX il quale attiva il X in presenza del fattore
VIII, del complesso fosfolipidico FP3 (fattore piastrinico III) e del Ca2+ (ione fondamentale
per il buon funzionamento della cascata coagulativa). Il fattore X attivato attiva il II in
presenza del fattore V, FP3 e del Ca2+. Il fattore II infine permette la conversione del
fibrinogeno in fibrina, stabilizzata poi dal fattore XIII, che trasforma la fibrina solubile in
fibrina insolubile. È bene ricordare che tutti i fattori della coagulazione possono essere
indicati con un nome o un numero, ma i nomi necessariamente da ricordare sono quelli di:
o protrombina (fattore II) che nella forma attiva si chiama trombina;
o fibrinogeno (fattore I) che nella forma attiva si chiama fibrina. Il fibrinogeno inoltre
è la molecola che si interpone fra i due recettori attivati di una piastrina in fase di
aggregazione a riprova dell’intersezione tra emostasi primaria e secondaria.

 ESTRINSECA è la via che si attiva tutte le volte che c’è un danno tissutale. È la via più
importante in vivo e comincia con l’attivazione del fattore VII da parte del fattore tissutale
(FT, precedentemente chiamato tromboplastina). Questo è contenuto in tutte le cellule
(soprattutto le endoteliali) e si libera quando vengono danneggiate. Il FT attiva il fattore VII
che attiva il fattore X, seguendo poi le stesse tappe finali della via intrinseca.

Dal fattore X le due vie convergono descrivendo quindi la via comune della cascata coagulativa.

Fattori in comune alle due vie X, V, II, I.


Attivazione estrinseca fattore tissutale, VII.
Attivazione intrinseca fattore XII, XI, IX, VIII.
Se manca un fattore della coagulazione, la cascata si interrompe.

i fattori della coagulazione


fattore denom inazione emivita concentrazione % richiesta per p.m.
(ore) plasmatica (m g%) l’emostasi
I fibrinogeno 90 200 – 400 30 340.000
II protrom bina 60 20 40 70.000
III fattore tessutale 46.000
V proaccellerina o 18 0,5 – 1 10 – 15 330.000
fattore labile
VII proconvertina 6 0,2 5 – 10 48.000
VIII fattore antiemofilico A 14 0,05 – 0,15 10 – 40 300.000
IX fattore antiemofilico B o 25 0,3 – 0,4 10 – 40 54.000
fattore di Christm as
X fattore di Stuard 40 0,6 – 0,8 10 – 15 55.000
XI antecedente plasmatico 50 0,4 20 – 30 180.000
della trom boplastina
XIII fattore stabilizzante la 96 2,5 1–5 320.000
fibrina
XII fattore di Hageman o 55 0,3 0 75.000
fattore di contatto
HMW K chininogeno ad alto perso 168 0,7 0 110.000
molecolare o fattore di
Fitzgerald
PK precallicreina o 0,15 – 0,5 0 85.000
fattore di Fletcher

Il fattore IV corrisponde al calcio mentre nessun fattore della coagulazione è associato al numero VI

27
nds. La cascata coagulativa è da imparare a memoria.
Il seguente schema sintetizza tutte le caratteristiche dei fattori di coagulazione (compreso il
nome), ma è necessario focalizzarsi sui 3 box rossi:

 Il fattore XII come altri fattori di contatto non è necessario alla cascata coagulativa in vivo,
mentre è molto importante in quella in vitro: infatti, nei pazienti in cui manca il fattore XII
non si hanno fenomeni emorragici. Il fattore XII è chiamato anche fattore di Hageman dal
nome del primo paziente che fu identificato con questo tipo di alterazione. Hageman era
un ferroviere inglese che morì per embolia polmonare, ovvero una trombosi, situazione
opposta all’emorragia.
 Il fibrinogeno è il fattore della coagulazione più rappresentato nel sangue periferico, tant’è
che se si fa la separazione elettroforetica delle proteine del plasma si ha un picco in più che
corrisponde a questa molecola.
 I diversi fattori di coagulazione hanno diversa emivita e in particolar modo il fattore VII
(proconvertina) è quello con emivita minore. Anche questa informazione sarà utile per
capire fasi successive della lezione.
La cascata coagulativa è fondamentale per preservare l’organismo da perdite di sangue, ma può
anche essere pericolosa perché se viene attivata impropriamente ovviamente produce danni
importanti. È importante che la cascata coagulativa funzioni e operi bene, ma soltanto in
condizioni appropriate. Per questo motivo l’organismo produce anche inibitori della cascata
coagulativa che la bloccano quando viene attivata in maniera inappropriata.
NB. È lo stesso discorso visto per i fattori pro-infiammatori: l’infiammazione è uno strumento
importante che l’organismo ha nei confronti dei microrganismi patogeni, ma un’eccessiva
infiammazione può causare dei danni e quindi esistono una serie di proteine che la controllano e la
inibiscono.

Gli inibitori della cascata coagulativa sono:

 l’antitrombina III che non inibisce solo la trombina attivata, ma anche il fattore X della
coagulazione e i fattori di innesco della via intrinseca (XII, XI, IX). L’azione dell’antitrombina
III è promossa dall’eparina (farmaco anticoagulante);
 la proteina C attivata* e la proteina S che vengono invece attivate dalla trombomodulina,
una sostanza presente sulla superficie delle cellule endoteliali. Normalmente è inattiva, ma
viene innescata quando si produce trombina. La proteina C inibisce i fattori V e VIII agendo
con un meccanismo simile a un feedback negativo: con l’attivazione della cascata
coagulativa si forma la trombina che sicuramente trasforma il fibrinogeno in fibrina, ma
attiva anche una via inibitoria mediata dalla trombomodulina che blocca la cascata
coagulativa sui fattori V e VIII.

28
Esistono perciò due modalità, tra loro complementari, per inibire la cascata coagulativa. Questo
garantisce un perfetto equilibrio tra fattori pro-coagulanti e anticoagulanti.
*NB. La proteina C attivata è DIVERSA dalla proteina C reattiva, indice di flogosi

VIA INTRINSECA VIA ESTRINSECA


Superficie Danno tessutale

XII XIIa fattore tessutale FT


HMWK (tromboplastina)
PK XI XIa

IX IXa FT + VIIa VII

VIII
FP3 Ca++ attivazione
Ca++ inibizione
X Xa
proteina C attivata
proteina S V antitrombina
FP3 III
Ca++
trombomodulina
II (protrombina) IIa (trombina)
XIII, Ca++
I (fibrinogeno) fibrina fibrina
solubile insolubile
ENDOTELIO

Se si mette in una provetta di vetro o di plastica un campione di sangue, questo coagula e diventa
inutilizzabile in laboratorio. È quindi importante che il sangue arrivi liquido in laboratorio e per
raggiungere questo scopo all’interno delle provette si rimuove il fibrinogeno oppure si aggiungono
anticoagulanti.
Si distinguono due principali gruppi di sostanze ad azione anticoagulante:

 sostanze chelanti il calcio che, di fatto, sottraggono il calcio alla cascata coagulativa
rendendolo indisponibile:
o citrato,
o ossalato,
o EDTA (acido etilendiaminico tetracetico) sotto forma di sali di sodio e di potassio,
 inibitori della trombina: l’eparina esalta l’attività antitrombinica dell’antitrombina III.
In laboratorio si prediligono le sostanze chelanti il calcio, mentre l’eparina può essere utilizzata sia
in vitro che in vivo amplificando l’azione dell’antitrombina III.

FATTORI VITAMINA K - DIPENDENTI


Vi sono 4 fattori della coagulazione (II, VII, IX e X)
che sono chiamati vitamina K-dipendenti perché
una volta prodotti dal fegato (come gli altri
fattori, indipendentemente dalla vitamina K)

29
hanno bisogno di un’ultima modificazione post-traduzionale che è mediata dalla vitamina K.
I fattori vitamina K-dipendenti funzionano
soltanto se carbossilati in posizione γ dalla γ- FATTORE DELLA
glutamilcarbossilasi che ha come coenzima COAGULAZIONE
indispensabile la vitamina K: quindi, in sintesi,
senza vitamina K non si ha questa COO - gruppo carbossilico prodotto dall’azione
della carbossilasi vitamina K - dipendente
carbossilazione e quei 4 fattori della
coagulazione, seppur sintetizzati dal fegato,
non funzionano perché non riescono ad Ca2+
attaccarsi alle piastrine. Come si vede
nell’immagine, le piastrine hanno dei
fosfolipidi della membrana
fosfolipidi di membrana carichi piastrinica carichi negativamente
PO - PO -
negativamente ai quali si lega il calcio mentre PO -
i fattori della coagulazione si legano allo ione PO - PO -
grazie al gruppo carbossilico prodotto dalla γ-
PIASTRINA
glutamilcarbossilasi: quindi il calcio è un
ponte fondamentale che garantisce il legame
dei fattori della coagulazione con le piastrine.
La vitamina K viene assunta con la
dieta e appena arrivata subisce una
riduzione (tramite la vit. K reduttasi)
poiché solo nella forma ridotta può
funzionare come coenzima per la γ-
glutamilcarbossilasi.
Dopo aver partecipato alla reazione di
carbossilazione, la vitamina K ha
bisogno di due riduzioni in cui la prima
(esercitata dalla epossido-reduttasi)
serve per riportarla in condizioni simili
a quelle di partenza: in sintesi, la
vitamina K esogena ha bisogno di una
sola riduzione mentre a quella
endogena (che viene riciclata) ne
servono due.
I farmaci dicumarolici (in particolare il coumadin, nome commerciale del warfarin) sono una classe
di farmaci chiamati anticoagulanti orali che svolgono la loro azione inibendo la riduzione della
vitamina K e sono tra i più importanti farmaci anticoagulanti perché bloccano la cascata
coagulativa. In questo caso i fattori di coagulazione non vengono carbossilati e non riescono a
legare il calcio e ad ancorare la membrana piastrinica, rimanendo quindi inattivi.
*[Dalle slide: Gli inibitori della vitamina K agiscono bloccando la sintesi di nuovi fattori funzionali,
ma quelli già presenti nel sangue permangono attivi fino alla loro fisiologica degradazione; ciò
comporta che: 1) l’inizio della attività anticoagulante sia ritardato rispetto al momento
30
dell’assunzione del farmaco a seguito del graduale turnover dei fattori preesistenti; 2) dopo
l’interruzione del trattamento l’effetto persista fino alla sintesi graduale di nuovi fattori funzionali.]
NB. È bene non confondere i farmaci [dato che è un errore spesso fatto all’esame]:

 Antiaggreganti: agiscono nell’emostasi primaria (aspirina) sull’aggregazione delle piastrine,


 Anticoagulanti: agiscono nell’emostasi secondaria (coumadin, eparina) sulla cascata
coagulativa.

Figura a sinistra: in rosso gli eritrociti, in viola un leucocita (probabilmente un neutrofilo,


nonostante il professore abbia ripetuto più volte “linfocita”), in giallo le piastrine, in verde acqua la
fibrina.
Figura a destra: in rosso gli eritrociti, in violetto un leucocita, in giallo la fibrina.

Osserviamo nelle figure soprastanti due “istantanee” al microscopio elettronico del processo di
formazione del tappo emostatico secondario. In particolare, osserviamo una situazione in cui la
fibrina sta cominciando a organizzarsi in tralci filamentosi e una seconda situazione in cui i tralci
sono ampiamente formati e stanno intrappolando gli eritrociti e i leucociti, andando a formare la
struttura definitiva del tappo emostatico secondario.

SISTEMA FIBRINOLITICO

Il tappo emostatico secondario, schematizzabile come in figura a destra, può essere anche molto
voluminoso in rapporto alla sezione del vaso, può ostruirlo o ridurne fortemente il flusso ematico.

Una volta rigenerati il connettivo sottoendoteliale e


l’endotelio, il tappo emostatico secondario deve essere
rimosso, disciolto, al fine di ripristinare l’emodinamica
fisiologica del vaso. Entra in gioco pertanto il sistema

31
fibrinolitico, preposto appunto alla dissoluzione dei trombi e dei coaguli di fibrina.

Plasmina (plasminogeno = forma inattiva circolante nel sangue) → enzima strategico della
fibrinolisi, una proteasi che dissolve il tappo emostatico secondario degradando fibrina e
fibrinogeno.
L’attivazione del plasminogeno può avvenire tramite due diverse vie di attivazione:
- via estrinseca → mediata dall’attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA), prodotto dalle
cellule endoteliali solo quando il danno alla parete del vaso è stato completamente
riparato;
- via intrinseca → mediata dai fattori di contatto della cascata coagulativa (XIIa, XIa,
callicreina e chininogeno ad alto peso molecolare o HMWK), che di fatto nel processo
emostatico complessivo attivano contemporaneamente sia la cascata coagulativa
(attivando il fattore IX) sia quella del sistema fibrinolitico (attivando l’urochinasi).

L’attivazione del plasminogeno in


plasmina, nel primo caso, è mediata
direttamente da t-PA, nel secondo caso
dall’urochinasi attiva, una serin-proteasi
che funge da attivatore del plasminogeno
endogeno; prodotta in modo ubiquitario, è
stata individuata per la prima volta
nell’urina, da cui il nome (è secreta dalle
cellule dei tubuli renali per dissolvere
eventuali coaguli di fibrina che ostruiscano
le vie di deflusso renali, ma anche da
fibroblasti, cellule epiteliali e macrofagi).

Disciolto il tappo emostatico, il flusso ematico può rispristinarsi correttamente e la parete del vaso
riparata sarà identica a quella precedente la lesione.

N.B. chi ha un deficit di fattore XII non presenta problemi di tipo strettamente emostatico, ma di
dissoluzione dei coaguli, in quanto questo fattore è molto più determinante nell’attivazione del
sistema fibrinolitico di quanto lo sia nell’attivazione della cascata coagulativa.

REGOLAZIONE DEL SISTEMA FIBRINOLITICO

Il sistema fibrinolitico è regolato da alcuni inibitori della fibrinolisi:


- il più importante è l’inibitore dell’attivatore tissutale del plasminogeno (inibitore del t-
PA), prodotto come il t-PA stesso dalle cellule endoteliali; pertanto, le cellule endoteliali
producono contemporaneamente un fattore fibrinolitico e un fattore antifibrinolitico;
- 𝜶𝟐 -macroglobulina, che, come visto precedentemente, è un’anti-proteasi aspecifica e agirà
pertanto anche sulla plasmina, un enzima ad azione proteasica;
- 𝜶𝟐 -antiplasmina.
32
FARMACI FIBRINOLITICI

Utili nel trattamento dell’infarto del miocardio, dell’embolia polmonare e della trombosi venosa
profonda. Anziché prevenire la formazione di trombi, come i farmaci antiaggreganti, i farmaci
fibrinolitici sono pensati per trattare la trombosi (terapia trombolitica).
In passato si utilizzavano l’urochinasi umana o un suo equivalente batterico (streptochinasi): oggi
si preferisce utilizzare l’attivatore tissutale del plasminogeno, sintetizzato con tecniche di DNA
ricombinante in laboratorio (rt-PA o Alteplase). La caratteristica che lo fa preferire all’urochinasi e i
suoi equivalenti è la capacità di azione mirata: si lega alla fibrina, non al fibrinogeno, pertanto si
attiva determinando fibrinolisi solo dove effettivamente si è formato un coagulo.

EMOSTASI FISIOLOGICA

Bisogna tenere presente che la discussione del processo emostatico come è stata affrontata è il
frutto di una semplificazione didattica atta a facilitarne la comprensione. Le dicotomie “emostasi
primaria-secondaria”, “via intrinseca-estrinseca” sono strumenti esplicativi, in quanto le diverse
fasi del processo emostatico e fibrinolitico sono strettamente interdipendenti e non rigidamente
sequenziali, e anche le vie intrinseche ed estrinseche sono interconnesse tramite una serie di
feedback.
L’emostasi fisiologica richiede una complessa serie di interazioni tra glicoproteine plasmatiche,
piastrine circolanti e cellule dell’endotelio vascolare, e non tutti i meccanismi sono ancora stati
chiariti.

MANIFESTAZIONI CLINICHE ASSOCIATE A DEFICIT DELL’EMOSTASI

Le alterazioni dell’emostasi si manifestano dal punto di vista clinico con l’emorragia, di varia
entità, ma in genere sproporzionata al trauma che la provoca, quando non addirittura spontanea
(più raramente).

Esempi di manifestazioni tipiche in soggetti affetti da alterazioni


dell’emostasi:

• petecchie: piccole emorragie capillari con diametro di circa 1-2


mm di colorito rosso violaceo, frequenti nelle zone dove maggiore
è la pressione idrostatica o dove c’è pressione o frizione esterna
(es. dove poggia l’elastico dei calzini o della biancheria, palato
ecc);

33
• porpore: emorragie con diametro di 3 mm costituite da un insieme di
petecchie;

• ecchimosi: chiamati comunemente “lividi”, sono


versamenti emorragici sottocutanei di diametro tra 1
e 2 cm, inizialmente di colore rosso-blu, poi verde-
blu e quindi giallo-oro, in relazione ai vari stadi del
metabolismo dell’emoglobina;

• ematomi: versamenti emorragici profondi che spesso dissecano le fasce


muscolari (molto dolorosi); possono avere esiti clinicamente
insignificanti così come gravissimi, finanche mortali (versamento
retroperitoneale da dissecazione di un aneurisma dell’aorta);

• versamenti ematici in cavità dell’organismo: emotorace,


emopericardio, emoperitoneo, emartro (versamento di
sangue nella cavità articolare, raffigurato a lato);

• sanguinamenti da determinati distretti dell’organismo: gengivorragia, epistassi (perdita di


sangue dal naso), ematemesi (vomito ematico), melena (sangue nelle feci), ematuria
(sangue nelle urine), menorragia (emorragia uterina legata al flusso mestruale) e
metrorragia (emorragia uterina non legata al flusso mestruale).

Bisogna tenere presente che ogni sanguinamento è per definizione patologico, ma questi
fenomeni emorragici sono talvolta erroneamente chiamati “sanguinamenti patologici”, in
riferimento alla presenza di una causa patologica a monte, ovvero l’alterazione dell’emostasi, che
ne determina la spontaneità o l’entità sproporzionata al trauma. Per questo motivo sarebbe più
corretto chiamarli sanguinamenti, o emorragie, associate a patologie a carico dell’emostasi.

34
DIAGNOSI DI DEFICIT DELL’EMOSTASI

Dal punto di vista clinico, la


diagnosi e la caratterizzazione
dell’alterazione dell’emostasi che
uno specifico paziente presenta
non possono prescindere dalle
analisi di laboratorio.
Tuttavia, a livello puramente
clinico, in attesa degli esami di
laboratorio, il tipo di emorragia
può aiutare a capire se si tratta di
un deficit dell’emostasi primaria
o secondaria.

Note:
- l’emofilia è la più importante fra le coagulopatie legate a deficit della dell’emostasi
secondaria;
- il sanguinamento tipico dei deficit piastrinici è immediato e profuso perché nell’immediato
non si riesce a formare il tappo emostatico primario; quello tipico dei deficit della
coagulazione è più modesto e riprende dopo rimozione della pressione locale perché il
tappo emostatico primario si è formato ma non è stato rinforzato dalla fibrina, e non
resiste pertanto al flusso ematico normale che si viene a formare dopo la fine dell’effetto di
vasocostrizione;
- i deficit dell’emostasi primaria sono principalmente acquisiti e più frequenti nelle femmine,
mentre i deficit della coagulazione, primo fra tutti l’emofilia, sono tipicamente ereditabili e
legati al sesso maschile.

Le analisi di laboratorio sono fondamentali per confermare una eventuale ipotesi di diagnosi, in
quanto permettono di discriminare tra alterazioni dell’emostasi primaria e secondaria, e fra i vari
deficit specifici di entrambi i gruppi.

INDAGINI DI LABORATORIO PER LA VALUTAZIONE DELL’EMOSTASI


PRIMARIA

1. TEMPO DI SANGUINAMENTO

Il tempo di sanguinamento (o tempo di emorragia), in


realtà, è un esame che non si esegue in laboratorio, ma al
letto del paziente.
35
Si applica un bracciale gonfiabile al braccio del paziente e lo si gonfia fino a 40 mmHg, grazie a uno
sfigmomanometro, per regolare e mantenere costante la pressione venosa, evitando che sue
variazioni interferiscano nel risultato dell’esame. Con uno strumento apposito, un bisturi
automatico dotato di due lame, si produce, a livello dell’avambraccio, una lesione standardizzata
in larghezza e profondità. In particolare, si tratta di una piccola incisione superficiale sulla rete
capillare della faccia volare dell’avambraccio, in una zona pulita, esente da malattie della pelle e
lontano dalle vene superficiali.
Successivamente, con carta bibula (carta assorbente per liquidi
organici, usata in laboratorio) si deterge la ferita per evitare il
possibile impatto emotivo legato alla caduta del sangue, ma senza
toccare i lembi della ferita stessa, azione che rallenterebbe
l’interruzione dell’emorragia. Utilizzando una metodica più raffinata
che necessita di una cartina apposita, si può anche verificare la
diminuzione nel tempo della quantità di sangue assorbita (figura a
lato).

In sostanza quindi si produce una lesione al paziente e si misura il tempo in cui l’emorragia si
interrompe (tempo di emorragia TE).
Il limite perché questo tempo rientri in condizioni fisiologiche è di 6-7 minuti:
- se supera i 10 minuti significa che c’è un deficit dell’emostasi primaria (sospetto alterazione
delle piastrine).
- se invece il tempo di sanguinamento è minore di 10 minuti si tratterà di una alterazione
dell’emostasi secondaria.
Pur essendo un esame molto semplice, la standardizzazione lo rende un esame che comunque ci
fornisce un primo discrimine tra le due classi di alterazioni patologiche.

2. EMOCROMO

Il conteggio del numero di piastrine, eseguito con un normale esame emocromocitometrico, va


considerato insieme al tempo di sanguinamento per la valutazione dell’emostasi primaria.

 150.000 - 400.000 / µL: valori di riferimento;


 > 100.000 / µL: i pazienti sono asintomatici e il tempo di sanguinamento rimane nella
norma;
 50.000 - 100.000 / µL: il tempo di sanguinamento è lievemente allungato, ma senza alcuna
sintomatologia emorragica;
 < 50.000 / µL: il tempo di sanguinamento è allungato significativamente; si osservano
porpore cutanee dopo traumi minimi e sanguinamenti a livello mucoso in seguito a piccoli
interventi chirurgici;
 < 20.000 / µL: notevole rischio di sanguinamenti spontanei intracranici e in altre sedi
interne, con conseguenze gravi, potenzialmente letali se coinvolgono distretti sensibili
dell’organismo.

36
Esiste una correlazione tra numero delle piastrine e tempo di sanguinamento: quando il numero
di piastrine si riduce, il tempo di sanguinamento aumenta.

Esempio di situazione clinica: il conteggio


delle piastrine è nella norma (ipotizziamo
350.000 / µL), ma il tempo di
sanguinamento è allungato. Deduciamo
che il problema che porta ad allungamento
del tempo di sanguinamento non è legato
al numero di piastrine, ma alla loro
funzionalità.

Piastrinopenie: alterazioni dell’emostasi dovute a un’insufficiente quantità di piastrine;


caratterizzate da conta piastrinica non nella norma e tempo di sanguinamento allungato.
Piastrinopatie: alterazioni dell’emostasi dovute a un’alterata funzionalità delle piastrine;
caratterizzate da conta piastrinica tendenzialmente nella norma, ma tempo di sanguinamento
allungato.
Es. sindrome di Bernard-Soulier: sia una piastrinopatia che una piastrinopenia.

Per questo motivo è importante combinare i due esami: il tempo di sanguinamento ci permette di
distinguere alterazioni dell’emostasi primaria e secondaria; la conta piastrinica ci permette di
distinguere, all’interno delle alterazioni dell’emostasi primaria, le piastrinopatie dalle
piastrinopenie.

3. TEST DI AGGREGAZIONE PIASTRINICA


Il test di aggregazione piastrinica serve a stabilire se le piastrine hanno un problema di
aggregazione o di adesione.
Esso consiste nel far attraversare da un fascio di luce una sospensione di plasma ricco di piastrine
in cui è stata attivata artificialmente (tramite una sostanza aggregante come, ad esempio, ADP)
l’aggregazione piastrinica. La quantità di luce che passa attraverso il preparato è misurata da un
fotometro. Per eseguire questo test è opportuno sospendere ogni terapia anti aggregante.
Se la capacità di aggregazione è mantenuta l’ADP farà aggregare le piastrine che tenderanno a
precipitare sul fondo e, di conseguenza, passerà più luce attraverso la provetta.
Se le piastrine non si aggregano c’è un'alterazione in questo processo; una possibile causa di ciò
può essere la mancanza di fibrinogeno, oppure la malattia di Glanzmann (molto rara) in cui viene a
mancare il complesso recettoriale Gp IIb o Gp IIIa.
Il test di aggregazione può anche essere utilizzato per valutare l’adesione piastrinica. Utilizzando
un antibiotico, la ristocetina, che in vitro ha la capacità di attivare i recettori di adesione gp1b,
avverrà il legame con il fattore di Von Willebrand, con conseguente adesione delle piastrine. Se
dal test emerge che l’adesione è alterata le cause possono essere due: la mancanza del recettore
di adesione (malattia di Bernard-Soulier), oppure un deficit del fattore di Von Willebrand.
37
Nel momento in cui l’emostasi primaria risulta preservata, i test di aggregazione e di adesione non
danno segni patologici, il problema nell’emorragia anomala è da attribuire all’emostasi secondaria.

INDAGINI DI LABORATORIO PER LA VALUTAZIONE DELL’EMOSTASI


SECONDARIA
Per la ricerca di anomalie nell’emostasi secondaria sarebbe opportuno ricercare deficit di altri
fattori di coagulazione, ma ciò risulterebbe troppo dispendioso considerando quanti sono tutti i
fattori di coagulazione, quindi si fa uso di due surrogati clinici:

1. DETERMINAZIONE DELL’ aPTT (tempo di tromboplastina parziale attivata)


L’aPTT valuta l’efficacia delle vie comune e intrinseca di coagulazione (fattori I, II, V, VIII, IX, X, XI,
XII, HMWK e PK). Questo test si esegue cronometrando il tempo necessario alla formazione del
coagulo in un campione di plasma trattato con citrato di sodio (un anticoagulante che agisce
sequestrando il calcio e quindi bloccando la cascata coagulativa) in cui è stata indotta una
coagulazione. Per provocare questa coagulazione viene aggiunto il calcio, per antagonizzare il
citrato e un’emulsione di fosfolipidi, in quanto nel plasma mancano anche le piastrine
fondamentali per la continuazione della cascata. Per accelerare la reazione vengono anche
aggiunti agenti attivanti (caolino).
I tempi fisiologici di aPTT vanno in genere dai 28 ai 40 secondi, nei referti però viene riportato
come aPTT come una ratio, ovvero il rapporto tra il tempo di coagulazione del paziente diviso il
tempo misurato su un campione di plasma di controllo “normale” (per minimizzare le
variazioni dovute alle differenze tra reagenti nei vari laboratori).

2. DETERMINAZIONE DEL PT (tempo di protrombina) O TEMPO DI QUICK


PT invece valuta l’efficienza delle vie comune e estrinseca di coagulazione fattori (I, II, V, VII e X).
Questo test si esegue aggiungendo al plasma-citrato (plasma trattato con citrato di sodio)
tromboplastina tessutale e ioni calcio, e cronometrando il tempo necessario alla formazione del
coagulo. I valori (tra 11 e 13 secondi) vengono espressi come rapporto (PT ratio) tra il tempo di
coagulazione del plasma in esame e quello di un campione di plasma di controllo (normale).
L'efficacia diagnostica di questi due esami sta nel ricercare con grande precisione il deficit di
quale/i fattore/i causa la patologia senza andare a dosare direttamente fattore per fattore, che
risulterebbe troppo costoso.
Il massimo dell’informazione diagnostica si riesce ad ottenere solo considerando entrambe le
variabili.

38
[Dalla dispensa dell’anno scorso: Se dopo un’analisi di laboratorio combinassi tutti i risultati
possibili, potrei ottenere 4 diversi scenari:

 aPTT normale e PT normale: sono presenti tutti i fattori della coagulazione.


 aPTT allungato e PT normale: le ipotesi diagnostiche sono riguardanti un’assenza dei fattori
non comuni alle due vie ma appartenenti solo alla via intrinseca e quindi ai fattori XII, XI, IX,
VIII.
 aPTT normale e PT allungato: assenza del fattore VII (sola via estrinseca).
 Entrambi i tempi sono allungati.]

PATOLOGIE CORRELATE A aPTT e PT ALTERATI


Emofilia
In un paziente si misura un PT normale e un aPTT allungato, questo denota una mancanza di
fattori a monte esclusi quelli comini a le due vie (XII, XI, IX, VIII). Considerando che il XII non è
necessario per la cascata coagulativa in vivo può essere escluso, perciò sono da valutare i
rimanenti tre fattori (XI, IX, VIII). Il deficit di XI è una condizione genetica molto rara, sono molto
più frequenti deficit di VIII e IX, ovvero il quadro clinico di un soggetto emofiliaco
L’emofilia è una malattia emorragica congenita dovuta al deficit quantitativo o qualitativo del
fattore VIII (emofilia A, più frequente) o del fattore IX (emofilia B); entrambe le forme sono
recessive e legate al cromosoma X, pertanto la malattia si manifesta quasi esclusivamente nei
maschi (eredità diaginica).

La condizione più frequente è quella di maschio sano e donna portatrice in cui verosimilmente
avremo il 50% dei figli maschi sani, l’altro 50% malato; il 50% delle figlie donne sane e l’altro 50%
portatrici.
Nel caso di padre malato e madre sana tutti i figli maschi saranno sani e tutte le figlie femmine
portatrici.
Nell’ultimo, seppur più raro, caso di donna portatrice e padre malato avremo il 50% dei figli
maschi sani e l’altro 50% malato; il 50% delle figlie donne malate e l’altro 50% portatrici.

Il quadro clinico, identico nei due tipi di emofilia, è caratterizzato da emorragie spontanee o
traumatico/chirurgiche. Tipiche manifestazioni della malattia emofilica sono gli emartri
(versamento di sangue in un’articolazione), più frequentemente localizzati alle articolazioni
sottoposte a carico (ginocchio, gomito, spalla e anca). Altrettanto frequenti sono gli ematomi
39
intramuscolari, che compaiono qualche giorno dopo un trauma con tumefazione, indurimento
ligneo, dolenzia del muscolo interessato ed eventuali sindromi da compressione a carico di fasci
nervosi o vasi arteriosi che, in specifiche localizzazioni, possono assumere aspetti di particolare
gravità. Fra le emorragie mucose, frequenti e spesso copiose sono le epistassi; possono inoltre
presentarsi ematuria (sangue nelle urine) ed emorragie del cavo orale conseguenti anche a minimi
traumi. Le ecchimosi (emorragie cutanee) sono frequenti ma non pericolose. Particolare
attenzione deve essere rivolta alle estrazioni dentarie, che possono provocare emorragie cospicue
e persistenti. Vanno infine segnalate le emorragie cerebrali per la loro gravità (principale causa di
morte per emorragia nei soggetti emofilici) e per la necessità di una diagnosi precoce; un trauma
cranico, seppur di lieve entità, in un paziente emofilico richiede sempre un accesso ad un Pronto
Soccorso.
La cura per questa malattia consiste nella somministrazione selettiva per via endovenosa dei
fattori deficitari VIII o IX (in passato si trattava con trasfusioni di sangue).
Prima di somministrare uno dei due fattori bisogna però capire di che tipo di emofilia si tratta; per
legge vanno eseguiti dei test di dosaggio di entrambi i fattori, in realtà ci sono dei test di
laboratorio molto più semplici e meno costosi del dosaggio. Basta infatti prendere una provetta di
plasma del paziente con emofilia ignota e aggiungere il plasma di un paziente con emofilia A, a
questo punto i possibili scenari sono due:
- L’ aPTT rimane allungato: il paziente con emofilia ignota ha certamente un’emofilia di tipo A.
- L’aPTT diventa normale: il paziente con emofilia ignota ha certamente un’emofilia di tipo B

Deficit epatico, deficit fattore via comune, deficit vitamina K


Consideriamo una situazione opposta, paziente con aPTT normale e PT allungato, imputabile alla
sola carenza del VII, perché un eventuale deficit di qualsiasi altro fattore avrebbe comportato
anche un allungamento del aPTT.
Caso in cui sia aPTT che PT risultano allungati: deficit di almeno uno dei fattori della via comune o
della vitamina K. La causa più frequente, tuttavia, è quella di deficit epatico dato che i fattori di
coagulazione sono sintetizzati dal fegato. Nella genesi della patologia risulterà allungato per prima
PT rispetto ad aPTT perché il fattore VII è quello con l’emivita minore.
40
UTILIZZO PT COME METODO DI MONITORAGGIO
Il PT ha un’applicazione importante nel monitoraggio di pazienti che fanno uso di anticoagulanti
orali, ossia antagonisti della vitamina K, utilizzati per ridurre la capacità di coagulazione del sangue
in pazienti a rischio di sviluppare trombi o coaguli all’interno del sistema cardiocircolatorio: in
particolare viene utilizzata nella prevenzione dell’ictus in pazienti a rischio di embolie cardiogene
(fibrillazione atriale, protesi valvolari) o derivanti da arterie vertebrali o da carotidi
aterosclerotiche parzialmente stenotiche.
Questi farmaci risultano particolarmente difficili da gestire perché la vitamina K interagisce sia
sulla via intrinseca che sulla estrinseca e i livelli di questa vitamina dipendono dall’alimentazione,
perciò non vengono somministrate le stesse dosi di anticoagulante a tutti i pazienti. I dosaggi dei
farmaci impiegati vengono definiti sulla base delle variazioni indotte sui tempi di coagulazione e, in
particolare sul PT, in quanto il fattore VII è quello con minore emivita. Questo esame di laboratorio
ci permette di capire se la terapia è inefficace (PT praticamente invariato), nel giusto dosaggio (PT
leggermente allungato) o a dosaggi troppo elevati con rischio di favorire un’emorragia (PT molto
allungato).
Per garantire una standardizzazione universale di questo valore si opera tramite il sistema INR
(International Normalised Ratio); l’INR prevede che il PT ratio sia corretto per la sensibilità della
tromboplastina utilizzata in quel laboratorio per attivare la via estrinseca, determinata sulla base
dell’ISI (International Sensitivity Index); il codice ISI viene quindi applicato ad ogni lotto di
tromboplastina prodotta commercialmente per indicarne la diversa capacità di attivare in vitro la
cascata coagulativa.

INR = (PTpaziente / PTcontrollo) ISI


I valori di INR considerati ottimali per garantire la migliore efficacia della terapia anticoagulante
con inibitori della vitamina K vanno da 2 a 4, in funzione delle diverse condizioni patologiche da
trattare. Ad esempio, se l’INR rimane tra 1 e 2 vuol dire che la terapia non è efficace.

FARMACI ANTICOAGULANTI
Dopo un iniziale periodo di sperimentazione sta progressivamente entrando nella pratica l’utilizzo
di una nuova classe di farmaci, chiamati NAO (nuovi anticoagulanti orali) che a differenza dei
classici TAO (terapia anticoagulante orale) agiscono sulla cascata coagulativa bloccando
selettivamente la trombina (Dabigatran) o il fattore X attivato (Rivaroxaban, Apixaban, Edoxaban,
Betrixaban), i cui risultati sono più prevedibili in quanto viene meno tutta quella variabile legata
all’alimentazione, per cui questo tipo di approccio terapeutico non necessita di un monitoraggio di
laboratorio ma permette di somministrare la stessa dose a tutti i pazienti. Un farmaco è tanto più
sicuro da usare quanta è la possibilità di usare un antidoto per sovradosaggio, nel caso dei TAO si
usa tempestivamente la vitamina K, mentre lo svantaggio dei NAO è quello di non avere un
antidoto in caso di sovradosaggio.

41
MODELLO DI ATTIVAZIONE DELLA CASCATA COAGULATIVA AD UNA VIA
Inizialmente ricercatori e medici pensavano che solo la via estrinseca fosse importante nella
cascata coagulativa ma erano ipotesi in
contraddizione con l’esistenza
dell’emofilia, patologia genetica X-
linked che favoriva emorragie per
mancanza dei fattori VIII e IX. Si è
cercato un nuovo modello per
rappresentare la realtà dei fatti, esposto
nello schema.
In questo modello integrato si osserva
come la cascata coagulativa parta per
azione del complesso Fattore tessutale
+ Fattore VII, con attivazione della
trombina che andrà a sua volta ad
attivare i Fattori XI, VIII e IX. Si deduce
dunque che la via estrinseca abbia un
ruolo di innesco nel processo e che la
via intrinseca agisca da amplificatore (feedback positivo).
Inoltre, questo modello è coerente con la situazione in vivo in cui il Fattore XII non è necessario.

TROMBOFILIA
Per Trombofilia, o stato di ipercoagulabilità, si intende una circostanza clinica in cui il paziente,
presenta episodi ricorrenti di tromboembolismo arterovenoso. Solitamente è una circostanza
riguardante i giovani (sotto i 45 anni) che hanno familiarità con la condizione e una tendenza alle
recidive (predisposti alla patologia).
La trombofilia non va sottovalutata, è causa di morte di circa il 10% degli ospedalizzati ed è
concausa di morte in un ulteriore 15% di casi ed è quindi anzi una patologia pericolosa, aggravata
dal fatto che non disponiamo di strumenti diagnostici tali a quelli usati per l’emorragia e che
quindi abbiamo una metodica diagnostica relativamente più inefficiente.
*[Dalle slide: Il termine “trombofilia” è stato introdotto nel 1965 dall’ematologo Olav Egeberg il
quale per primo correlò il deficit ereditario di antitrombina III con la tendenza a sviluppare
manifestazioni trombotiche in una famiglia norvegese. Il termine fu formulato in contrapposizione
ad “emofilia”, cioè alla tendenza alla emorragia legata alla carenza ereditaria di un fattore della
coagulazione; il termine “haemorrhafilia”, successivamente semplificato in “haemofilia”, era stato
utilizzato per al prima volta nel 1828 dal tedesco Friedrich Hopff, studente di medicina
all’Università di Zurigo.]
La trombofilia è intuitivamente correlata ai fattori di coagulazione ma insorge anche per altri
motivi. Queste sono le cinque principali variabili che si possono valutare in laboratorio per

42
identificare la causa della trombofilia (solitamente pz <45 anni, con storia familiare positiva per
trombofilia e ha episodi ricorrenti di trombosi):
• determinazione della attività degli anticoagulanti naturali antitrombina III, proteina C e
S
• ricerca delle mutazioni del gene del fattore V
• ricerca delle mutazioni del gene della protrombina
• determinazione dei livelli ematici di omocisteina
• ricerca di anticorpi antifosfolipidi

1. CARENZA DEGLI INIBITORI NATURALI DELLA CASCATA COAGULATIVA


Storicamente la prima ricerca in tema è stata fatta sugli enzimi inibitori dei fattori di
coagulazione. Si è notato come condizioni caratterizzate da deficit o riduzione di questi enzimi,
ereditate come tratti autosomici dominanti a penetranza variabile, portino alla manifestazione
della patologia (si manifesta solo in eterozigosi, in omozigosi non è compatibile con la vita).
Clinicamente, però, solo il 6-7% dei casi di ipercoagulabilità sono legati ad un problema
dell’attività della proteina attiva C (da non confondere con la proteina reattiva C)
dell’antitrombina 3 e della proteina S, quindi queste proteine inibitrici della coagulazione
difettose non sono la principale causa di trombofilia.

2. MUTAZIONE DI LEIDEN
Molto più frequente è la mutazione di Leiden, scoperta nell’omonima città olandese, ossia una
mutazione del gene che codifica il fattore V. Questa mutazione fa perdere affinità tra la proteina C
e il fattore V impedendone l’inibizione, in questo caso la mutazione, a differenza dell’emofilia,
incrementa l’attività del Fattore V. È una mutazione frequente soprattutto dei paesi Nord Europei
(il nome viene da un paese olandese), ha una prevalenza del 15% nella popolazione svedese del 2-
3% nell’Italia settentrionale e del 1% nell’Italia meridionale, in eterozigosi aumenta il rischio di
trombosi di 5-7 volte, in omozigosi di 80 volte.

3. MUTAZIONE DEL GENE DELLA PROTROMBINA


Meno frequente è la mutazione del gene della protrombina, tale mutazione avviene nel
promotore che porta o ad un’iperpressione del gene o ad un allungata emivita del mRNA, effetti
che comunque comportano in ogni caso un aumento della concentrazione ematica di
protrombina circa del 30%.
[Dalle slide: La prevalenza della mutazione nella popolazione generale oscilla tra l’1 ed il 2%, con
un gradiente di frequenza geografica che appare inverso a quello del fattore V Leiden (più
frequente cioè nel Sud Europa che nel Nord); i soggetti eterozigoti hanno un rischio relativo di
trombosi venosa 3 volte superiore a quello che si riscontra nella popolazione che non presenta la
mutazione.]
[N.D.S] Il prof spiega che l’importante è ricordare la cascata coagulativa e non tutti i dati
epidemiologici, comunque le cause di trombofilia devono essere conosciute.

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4. IPEROMOCISTEINEMIA
L’omocisteina è uno degli ultimi marker di trombofilia studiati, è un importante amminoacido che
può essere metilato a metionina o transulfurato a cisteina grazie agli enzimi e relativi co-enzimi
che sono la vitamina B12, B6 e l’acido folico. Una mancanza di questi enzimi (mutazione genetica)
e co-enzimi (carenza alimentare) determina un accumulo dell’omocisteina che non può essere
convertita. Altri motivi per cui l’omocisteina si accumula sono:
● l’insufficienza renale, a cui si accompagna un calo drastico della clearence della sostanza
● lo stile di vita (fumo, caffè, stress, sedentarietà)
● l’età avanzata
● sesso maschile
L’iperomocisteinemia è associata ad una aumentata incidenza di aterosclerosi e trombosi venosa.
L’aterosclerosi viene favorita poiché alti livelli di omocisteina provocano un danno tossico
endoteliale tramite:
• riduzione della sintesi di monossido di azoto e dell’azione vasodilatante ad esso legata
• produzione dell’anione superossido e aumento dello stress ossidativo, con effetto sulla
ossidazione delle LDL
• promozione dei processi infiammatori

La Trombosi origina dall’iperomocisteinemia perché questa determina:


1. liberazione del fattore tissutale dai monociti
2. riduzione della espressione della trombomodulina
3. attivazione dei fattori XII e V
4. Inibizione della proteina C
Il numero di soggetti affetti da iperomocisteinemia è più alto di quanto ci si possa aspettare (la
prevalenza nella popolazione generale è del 4.8%) e sarà probabilmente sempre più associata alla
trombosi arterovenosa, oltre a promuovere l’aterosclerosi, la prima causa di morte nei paesi
occidentali.

5. SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI


Un'altra causa di trombofilia è la sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS), che è una malattia
autoimmune solitamente secondaria che accompagna una malattia autoimmune primaria come il
Lupus Eritematoso Sistemico, ma può essere anche primitiva. È caratterizzata da ipercoagulabilità,
perdita fetale ricorrente e piastrinopenia. Gli anticorpi antifosfolipidi che vengono a formarsi sono
un gruppo eterogeneo di IgG (più raramente IgM o IgA) che interferiscono con il normale processo
di coagulazione e la cui risposta non è uguale in vivo e in vitro: in vitro i tempi di coagulazione si
allungano, in particolare si allungherà il test aPPT; in vivo invece abbiamo trombofilia. Per la
diagnosi di laboratorio ricerchiamo tre specifici anticorpi: l’anticoagulante lupico (LAC), gli
anticorpi anti-cardiolipina (aCL) e gli anticorpi anti-β2-glicoproteina-1 (β2-GPI). La prevalenza
dell’APS nella popolazione generale spazia tra il 2-5% e si tratta dell’unico caso di trombofilia
acquisita.

44
[Dalle slide: ASSOCIAZIONE DI FATTORI TROMBOGENICI: è importante ricordare la possibilità di
una coesistenza di più fattori trombogenici in un paziente. In questi casi, il rischio di trombosi è
molto più che additivo; ad esempio, se il fattore V di Leiden è associato al deficit di antitrombina, di
proteina C o di proteina S, l’incidenza di trombosi venose ricorrenti diventa, rispettivamente, il 92%,
il 73% ed il 72%. Allo stesso modo, se uno dei fattori precedentemente descritti si associa ad
un’altra condizione predisponente la trombosi, quale la gravidanza, l’assunzione di contraccettivi
orali, la terapia estrogenica sostitutiva, la presenza di una neoplasia, l’immobilità o il decorso post-
operatorio, il rischio di trombosi aumenta in maniera esponenziale.]

COAGULAZIONE E FIBRINOLISI E INDAGINI DI LABORATORIO CORRELATE


Il fibrinogeno è costituito da un dominio centrale “E” e da due domini periferici “D”. La trombina
attiva i monomeri di fibrinogeno staccando i due domini fibrinopeptidi A e B (corte sequenze
amminoacidiche del fibrinogeno) convertendo il fibrinogeno in fibrina, in questo stadio la fibrina
polimerizza e verrà stabilizzata dal Fattore XIII realizzando così il tappo emostatico secondario e
completando il processo di coagulazione.
Quando la fibrina cesserà di essere utile si attiverà la plasmina, che taglierà proteoliticamente il
polimero determinando fibrinolisi. La degradazione della fibrina porta alla formazione di due
molecole che sono le FDP (prodotti di degradazione della fibrina) e il D-Dimero.
I fibrinopeptidi A e B, gli FDP e i D-Dimeri sono importanti indicatori: i primi (fibrinopeptidi A e B) si
esaminano in laboratorio misurando solo la concentrazione del fibrinopeptide A (per ottimizzare i
costi) nel sangue periferico e indicano un’intensa attività coagulativa; gli ultimi (gli FDP e i D-
Dimeri) si esaminano sempre tramite concentrazione ematica ed indicano un’intensa fibrinolisi. In
45
ogni caso, se vi è un’intensa fibrinolisi significa che è stata creata anche una grande quantità di
fibrina, sinonimo di un’intensa attività coagulativa, quindi questi meccanismi trovano un elevato
riscontro in una patologia che vedremo adesso chiamata: Coagulazione Intravasale Disseminata
(CID).

LA COAGULAZIONE INTRAVASALE DISSEMINATA


La CID (anche detta coagulopatia da consumo o sindrome da defibrinazione) è una patologia
Trombo-emorragica, come si deduce dal nome, è una patologia in cui coesistono i fenomeni
emorragici e i fenomeni di emostasi, rendendo il lavoro diagnostico e terapeutico assai arduo per
questa malattia mortale;
nonostante questa condizione in un
primo momento possa sembrare
contradditoria, ha nella sua
patogenesi un filo logico.
I fenomeni emostatici, nel caso della
CID, sono indotti da un’attivazione
della via estrinseca tramite o un
danno diffuso endoteliale o rilascio
sistemico di fattore tissutale. La
coagulazione, per sua natura,
dovrebbe essere limitata a singoli
distretti corporei in cui è avvenuta
una lesione o una microlesione,
invece nella CID la coagulazione è

46
sistemica e può evolvere in una disfunzione multiorgano.
Se poi consumo tutti i fattori della coagulazione in trombi sparsi non avrò più gli elementi
necessari per la coagulazione dove questa serve causando eventualmente anche emorragie
diffuse che difatti rappresentano buona parte della letalità nella patologia.
Le cause scatenanti più importanti nella CID sono dunque il massiccio rilascio di Fattore Tissutale
e i danni endoteliali diffusi
Il massiccio rilascio di fattore tissutale (attiva via estrinseca) è determinato da:

 incidenti ostetrici: la causa più frequente (più del 50% dei casi); riguardano distacco di
placenta, embolia di liquido amniotico, ritenzione di feto morto o aborto nel secondo
trimestre di gravidanza.
 neoplasie: dalla proliferazione e dalla necrosi delle cellule neoplastiche, in una popolazione
di cellule che è sostenuta da una neo-vascolarizzazione, si possono liberare in circolo grandi
quantità di tromboplastina. Inizialmente ci si è concentrati soprattutto sulle neoplasie
ematologiche, in particolare la leucemia promielocitica acuta, mentre oggi stanno
emergendo i carcinomi del polmone, del pancreas, del colon e dello stomaco.
 danno tessutale esteso: ustioni, congelamenti, traumi, ferite d’arma di fuoco
 sepsi da batteri gram-negativi: in particolare l’endotossina induce nei monociti la
liberazione del fattore tissutale e la sintesi di monochine, quali IL1 e TNF, che inibiscono
la produzione di trombomodulina da parte delle cellule endoteliali
 embolia adiposa
 emolisi intravascolare acuta: trasfusione di sangue incompatibile, interventi in circolazione
extracorporea, malaria, emoglobinuria parossistica notturna

Il danno endoteliale diffuso (attiva piastrine e via intrinseca, oltre che estrinseca) è determinato
da:

 Immunocomplessi circolanti: ci sono malattie autoimmuni (es LES) che producono


complessi antigene-anticorpo che se circolanti si depositano nell’endotelio casualmente in
diversi tessuti, causando una endotelite
 Infezioni (meningococco, vaiolo…)
 Shock termico, settico
 Vasculiti
 Anossia
 Acidosi

Anche il Covid-19 causa danno endoteliale che evolve poi in trombofilia aumentandone la letalità.
[Dalle slide:
La CID può essere causata anche dall’immissione in circolo di sostanze ad azione diretta:

 Veleni di serpente: il veleno della vipera Russel attiva direttamente il fattore X, altri veleni
attivano il fattore II
 Pancreatiti acute: la tripsina attiva direttamente i fattori X e II.
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CID: FORME CLINICHE:
 forme acute: quadro clinico dominato da manifestazioni emorragiche, a volte imponenti
 forme subacute: quadro clinico caratterizzato da sintomi ischemici a carico di vari organi
(cervello, cute, rene, polmone, intestino) conseguenti alla trombosi del microcircolo e/o da
emorragie di lieve entità conseguenti al consumo di fattori della coagulazione
 forme croniche: quadro clinico silente, in cui l’attivazione della coagulazione è
documentabile solo in base ai dati di laboratorio; tali forme possono scompensarsi dando
luogo a sindromi acute o subacute]
In una CID tutti i valori riportati dagli esami di laboratorio sono alterati, per diagnosticare il più
efficacemente possibile una sospetta CID sfruttiamo gli ultimi indici di laboratorio trattati, i
fibrinopeptidi A e B, i FDP e i D-Dimeri.
A meno che non si abbia la formazione di un tappo coagulativo secondario disteso in una ampia
lesione localizzata, elevati livelli di questi prodotti indicano un’intensa attività di coagulazione e
fibrinolisi sistemica, quindi la continua formazione e demolizione di trombi. Tra questi indici di
laboratorio il più importante ultimamente è stato il D-Dimero, che sta venendo sempre più
considerato come indice di riferimento per la CID.
L’interpretazione dei dati di laboratorio possono indicarci il rischio di CID e direzionarci verso le
corrette prognosi e terapie anche se non è facile discriminare i valori di laboratorio per questa
patologia.
[Dalle slide:
Indici di attivazione del sistema della coagulazione e del sistema fibrinolitico:
• aumento dei fibrinopeptidi A e B
• aumento degli FDP
• aumento del D-dimero
• diminuzione dell'antitrombina III

Indici di consumo dei fattori della coagulazione e delle piastrine:


• ipofibrinogemia
• diminuzione degli altri fattori della coagulazione (in particolare V e VIII)
• allungamento di PT e aPTT
• Piastrinopenia]

48
CAPITOLO 3: LIPOPROTEINE
Tutte le proteine sono accomunate dal fatto di essere formate da una sequenza di amminoacidi
legati dallo stesso tipo di legame, ovvero il legame peptidico, che unisce il gruppo carbossilico di
un amminoacido al gruppo aminico dell’amminoacido successivo. Le catene possono essere più o
meno lunghe e le combinazioni possibili sono infinite, però sono tutte formate da una sequenza
amminoacidica. Il termine “proteina” deriva dal greco prōteîos, ovvero “di vitale importanza”
perché quando furono scoperte si pensava che, come un equivalente del DNA, fossero di vitale
importanza.
I glucidi (dal greco γλυκύς, glucùs, cioè "dolce", per il sapore che conferiscono ai cibi nei quali sono
contenuti) sono accomunati dal fatto di essere formati da carbonio, idrogeno e ossigeno (infatti
vengono chiamati anche carboidrati, quindi idrati del carbonio) secondo la formula C nH2nOn, dove
n è uguale al numero di carboni che va da un minimo di 3 ad un massimo di 7. I monosaccaridi, che
hanno questa forma, possono poi formare strutture più complesse.
I lipidi, il cui nome deriva dal greco λίπος “adipe, grasso”, in quanto principali costituenti del
tessuto adiposo e quindi del grasso, hanno come caratteristica comune l’insolubilità in solventi
polari come l’acqua; non possiedono invece caratteristiche strutturali che li accomunino tutti, in
quanto sono composti molto eterogenei dal punto di vista strutturale e funzionale. Per la loro
insolubilità in acqua, non possono viaggiare autonomamente nel sangue periferico e pertanto
hanno bisogno di un carrier, trasportatore, rappresentato dalle lipoproteine, ovvero strutture che
hanno il ruolo di veicolare i lipidi incapaci di viaggiare disciolti nel sangue.

Le lipoproteine presentano:
- la superficie, di forma sferica, è composta da
proteine a funzione strutturale (in quanto tengono
insieme l’impalcatura che ricopre i lipidi insolubili
contenuti all’interno) chiamate apolipoproteine,
dai fosfolipidi, che presentano una parte lipofilica
rivolta verso l’interno e una idrofilica rivolta verso
l’esterno, e da colesterolo non esterificato.
- Il nucleo o core all’interno, in cui si trovano i trigliceridi e il colesterolo esterificato,
ovvero i lipidi più importanti per il metabolismo dell’organismo.

Le apolipoproteine costituiscono quindi la componente proteica delle lipoproteine e presentano


una parte idrofilica e una parte lipofilica, pertanto sono molecole anfipatiche. Oltre ad avere un
ruolo strutturale di sostegno della superficie esterna, svolgono anche importanti funzionali in
quanto possono agire da cofattori di enzimi specifici che in assenza di specifiche apolipoproteine
non funzionano, e possono fungere da componente di riconoscimento della lipoproteina per i
recettori che si trovano nei tessuti. Per questo motivo, l’interesse dei ricercatori è oggi rivolto a
questa componente delle lipoproteine al fine di intervenire nelle alterazioni delle lipoproteine
plasmatiche, chiamate dislipoproteinemie.
Le lipoproteine possono essere classificate in base a diversi criteri, fra i quali il più utilizzato è
basato sulla densità, che è determinato dal rapporto tra la componente proteica e la
componente lipidica. Tanto maggiore sarà la componente lipidica, tanto più bassa sarà la densità
della lipoproteina.

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Le cinque classi principali sono:
1. Chilomicroni
2. VLDL (very-low-density lipoproteins)
3. IDL (intermediate-density lipoproteins)
4. LDL (low-density lipoproteins)
5. HDL (high-density lipoproteins)
Il gradiente di densità può essere utilizzato per separare le lipoproteine, ma questo meccanismo di
separazione è molto impegnativo in termini economici, in quanto occorre fare
un’ultracentrifugazione cambiando continuamente i diversi gradienti e facendo così fluttare,
ovvero emergere in base alla diversa densità, le varie lipoproteine. Questo metodo viene applicato
di routine in ambito di ricerca, ma non può essere applicato in ambito laboratoristico per tutti i
pazienti dove, infatti, viene impiegata un’altra metodica a costo
minore. Quest’ultima prevede la classificazione delle lipoproteine
in base alla loro migrazione elettroforetica. Si distinguono:
- α lipoproteine (HDL), che ritrovano tra le α1 globuline
- β lipoproteine (LDL), che si ritrovano tra le β globuline
- Pre- β lipoproteine (VLDL e IDL), tra le α2 e le β
- I chilomicroni di fatto non si muovono quasi perché
contengono l’1% di proteine, non sufficienti a
trasportare le lipoproteine che quindi rimangono
all’interno delle γ- globuline.
Le lipoproteine possono essere inoltre separate
elettroforeticamente e poi colorate selettivamente in modo
da ottenere il lipidogramma.
NB: l’ordine della densità non è esattamente uguale all’ordine
ottenuto con la separazione elettroforetica:
- Per centrifugazione si ottengono, in ordine,
chilomicroni, VLDL, LDL e HDL
- Per elettroforesi: chilomicroni, LDL, VLDL e HDL

Commento alla tabella:


nella prima colonna sono visibili le lipoproteine ordinate in base alla densità, espressa in g/L, e al
diametro dell’ordine degli Å.
 I chilomicroni hanno dimensioni pari alla
metà o ad un terzo di quelle delle piastrine,
quindi sono sostanze relativamente grandi.
Hanno una densità bassissima, inferiore a
quella dell’acqua.
 Le VLDL hanno una densità lievemente
maggiore (corrispondente circa a quella
dell’acqua) e dimensioni più piccole;
 Le IDL hanno una densità lievemente
maggiore dell’acqua e dimensioni ancora
più piccole;
 Le LDL hanno una densità maggiore e una
dimensione minore;
 Le HDL sono quelle con la densità maggiore e le dimensioni minori.
Riassumendo quindi maggiore è la dimensione, minore è la densità.
50
L’ultima colonna rappresenta invece l’espressione percentuale delle 5 componenti principali delle
lipoproteine.
 Nei chilomicroni e nelle VLDL la componente prevalente è data dai trigliceridi;
 Nelle IDL e, soprattutto, nelle LDL la componente prevalente è data dal colesterolo
esterificato
 Nelle HDL la componente prevalente è data dalle proteine, che conferiscono la maggiore
densità

Note per l’esame:


- Colonna densità/diametro non è importante ricordare i valori numerici, ma è importare ricordare
l’andamento di queste grandezze
- Colonna composizione: non vanno ricordate le percentuali di tutte le componenti, ma solo quella della
componente maggiormente espressa

CARATTERISTICHE DELLE PRINCIPALI APOLIPOPROTEINE (slide non trattata a lezione)

METABOLISMO DEI LIPIDI


Il metabolismo viene diviso a scopo didattico in 3 tappe metaboliche, ma tale distinzione non
rispecchia la situazione reale, che è molto più complessa e ancora non perfettamente conosciuta.
Tali tappe sono
- Trasporto dei lipidi esogeni
- Trasporto dei lipidi endogeni
- Trasporto inverso del colesterolo

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1. TRASPORTO DEI LIPIDI ESOGENI
I lipidi esogeni sono divisibili essenzialmente in due classi,
ovvero i trigliceridi e il colesterolo. Ogni giorno si assumono
circa 100g di trigliceridi e 1g di colesterolo, che, una volta
assorbiti a livello intestinale, vengono immediatamente
assemblati negli enterociti per formare i chilomicroni (detti
“nascenti”), in cui la componente lipidica è di gran lunga
superiore a quella proteica. Quest’ultima comprende
un’apolipoproteina costitutiva chiamata ApoB-48, sintetizzata
dalle cellule dell’intestino, e dalla ApoA-1.
I chilomicroni entrano in circolo e immediatamente si
arricchiscono di due apolipoproteine che “prendono in prestito”
dalle HDL, ovvero l’ApoC-II e l’ApoE, cedendo l’ApoA-1 (ricorda:
le apolipoproteine possono passare da una lipoproteina all’altra, in questo caso dall’HDL al
chilomicrone). In questo modo il chilomicrone si ritrova ad avere 3 apolipoproteine sulla sua
superficie: ApoB-48, sintetizzata dalle cellule intestinali, ApoE e ApoC-II, cedute dalle HDL.
Quest’ultima ha un ruolo molto importante perché funge da coenzima per la lipoprotein lipasi
(LPL), enzima presente sulle cellule endoteliali del tessuto muscolare e del tessuto adiposo che si
attiva quando entra in contatto con la ApoC-II. Una volta attivata, è in grado di idrolizzare i
trigliceridi per consentirne l’assorbimento da parte del tessuto muscolare o adiposo. Nel tessuto
muscolare essi hanno principalmente una funzione energetica, in quanto questi sono composti
altamente energetici che possono dare fino a 9,4 cal/g, più del doppio di quelle rese da 1g di
glucosio (4,1cal/g). la resa calorica dei lipidi è dunque molto più elevata di quella degli zuccheri,
che hanno invece la caratteristica di essere subito disponibili. Mentre nel tessuto muscolare,
quindi, i lipidi fungono da carburante che consente il funzionamento del muscolo, nel tessuto
adiposo i lipidi vengono depositati per essere poi utilizzati quando ve n’è la necessità.

Riassumendo quindi il tessuto muscolare e il tessuto adiposo sono i target dei trigliceridi assunti
con la dieta e trasportati dai chilomicroni. Durante questo tragitto, i chilomicroni perdono
trigliceridi e si trasformano in chilomicroni remnants, che contengono tutto il colesterolo assunto
con la dieta (in quanto non viene ceduto a livello adiposo o muscolare) e una minore quota di
trigliceridi. I chilomicroni sono poi destinati al fegato. Le funzioni fondamentali dei chilomicroni
sono quindi
- Fornire i trigliceridi alimentari direttamente ai tessuti muscolare e adiposo
- Trasportare tutto il colesterolo alimentare al fegato

Arrivato al fegato, il colesterolo ha diversi destini metabolici:


- Una piccola quota viene utilizzata per il turnover della membrana plasmatica degli
epatociti, in quanto esso è un costituente molto importante delle membrane cellulari,
quindi le cellule che sono in continua proliferazione o che vanno incontro ad un
frequente turnover delle membrane hanno bisogno di colesterolo;
- Viene utilizzato per la sintesi degli acidi biliari primari (acido colico e acido
chenodesossicolico) necessari per l’assorbimento intestinale dei grassi presenti negli
alimenti;
- Una quota viene eliminata direttamente con la bile, la quale contiene quindi sia gli acidi
biliari che derivano dal colesterolo che colesterolo libero;
- Viene redistribuito ai tessuti periferici, dopo essere stato montato su un’altra classe di
lipoproteine, le VLDL.
52
Il nostro organismo è in grado di sintetizzare a livello del fegato il colesterolo a partire da molecole
di acetil-CoA grazie all’enzima idrossi-metil-glutaril-CoA reduttasi1 o HMG-CoA-reduttasi (nome
da ricordare), che ha un ruolo molto importante soprattutto nell’approccio terapeutico
attualmente più in uso per combattere le dislipoproteinemie e l’ipercolesterolemia in particolare.
In ultima analisi il colesterolo a disposizione è sia endogeno, cioè prodotto grazie all’HMG-CoA
reduttasi, che esogeno, quindi introdotto con la dieta.

2. TRASPORTO DEI LIPIDI ENDOGENI


Le VLDL partono dal fegato con una composizione simile a
quella dei chilomicroni. Come per questi ultimi infatti
- la componente principale è data dai trigliceridi;
- ricevono ApoE e ApoC-II dalle HDL
- l’ApoC-II attiva la LPL
- scaricano trigliceridi nei tessuti muscolare e
adiposo, che quindi ricevono i trigliceridi prima
dai chilomicroni e poi dalle VLDL.
le VLDL hanno come apolipoproteina strutturale ApoB-100,
sintetizzata dagli epatociti. Analogamente a quello che
accade nei chilomicroni, cala la quantità di trigliceridi e le
VLDL si trasformano così in IDL, lipoproteine a densità
intermedia.

Le IDL cedono l’ApoC-II alle HDL e


- in parte (50%) vengono ricaptate dal fegato;
- in parte rimangono in circolo e scambiano
componenti con le HDL tramite l’enzima CETP (o ApoD) che consente il trasferimento di
fosfolipidi e di trigliceridi dalle IDL alle HDL, ma soprattutto il trasferimento di
colesterolo esterificato dalle HDL alle IDL. Queste ultime, quindi, perdono trigliceridi e
fosfolipidi e si arricchiscono di colesterolo esterificato.
L’aumento della quantità di colesterolo esterificato contenuto in queste strutture fa sì che esse
cambino caratteristiche e morfologia diventando LDL, che contengono, come apolipoproteina,
ApoB-100, e che presentano, rispetto alle IDL, una maggiore quantità di colesterolo acquisito dalle
HDL. Esse sono le lipoproteine a maggior contenuto di colesterolo fra quelle finora analizzate.
Il compito delle LDL è quello di trasportare il colesterolo ai tessuti che ne hanno bisogno, per
esempio le gonadi per la sintesi di ormoni steroidei, le cellule della cute che producono la vitamina
D (liposolubile), e i tessuti in continuo turnover o rinnovamento. Da un punto di vista fisiologico, il
colesterolo è fondamentale per il corretto funzionamento delle cellule, ma può risultare dannoso
se presente in quantità eccessiva.
Una buona parte delle LDL viene ricaptata dal fegato grazie al recettore per le LDL, in grado di
riconoscere l’ApoB-100 e consentire l’ingresso di tali lipoproteine negli epatociti. La scoperta di
questo recettore ha consentito di capire molto sul metabolismo delle lipoproteine e i ricercatori
che lo hanno scoperto durante i loro studi sull’ipercolesterolemia familiare, Joseph Goldstein e
Michael Brown, hanno ricevuto il premio Nobel per tale scoperta.

1
il professore sulle slide lo chiama “idrossi-metil-glutaril-acetil-CoA reduttasi”, ma nella reazione non c’è nessun
acetile: il nome corretto, secondo internet e Lehninger, è quello riportato.
53
[Dalle slide: Il rilascio intracellulare di colesterolo che consegue alla captazione delle LDL per
endocitosi produce 3 principali effetti:
- l’attivazione dell’enzima acetilCoA-colesterolo aciltransferasi (ACAT), che favorisce
l’esterificazione ed il deposito di colesterolo all’interno degli epatociti;
- l’inibizione dell’enzima HMG-CoA-reduttasi, con conseguente blocco della sintesi intraepatica di
colesterolo;
- l'induzione della espressione della proteina SRE (sterol response element) che agisce sulla regione
"promoter" del gene per il recettore delle LDL, disattivandolo; pertanto, maggiore è la
concentrazione di colesterolo nell’epatocita, minore sarà il numero di recettori per le LDL espressi
dall’epatocita stesso, e viceversa]

Ipercolesterolemia
Sulla membrana degli epatociti è presente il recettore per le LDL che capta selettivamente le LDL
circolanti. I ricercatori hanno scoperto che tale recettore viene espresso in maniera
quantitativamente diversa dagli epatociti, che quindi ne presenteranno sulla membrana una
quantità estremamente variabile. La quantità di recettore espresso dipende dalla quantità di
colesterolo contenuto all’interno dell’epatocita stesso: più bassa sarà la quantità di colesterolo
presente all’interno dell’epatocita, maggiore sarà l’espressione del recettore sulla sua superficie e
viceversa. Il blocco del recettore, in caso di elevata quantità di colesterolo all’interno
dell’epatocita, fa sì che le LDL rimangano in circolo determinando un aumento della
colesterolemia. Esiste quindi un rapporto diretto tra quantità di colesterolo intraepatocitario,
espressione del recettore delle LDL e colesterolemia. La colesterolemia dipende quindi in
un’ultima analisi dalla quantità di colesterolo presente all’interno degli epatociti. Per ridurre la
colesterolemia, la strategia più efficace è quella di ridurre la quantità di colesterolo assunta con la
dieta:

Meno colesterolo assunto  meno colesterolo trasportato dai chilomicroni negli epatociti 
maggiore espressione del recettore per le LDL  riduzione delle LDL nel sangue periferico

Viceversa, una dieta ricca di colesterolo farà sì che il colesterolo circolante rimanga più elevato.
Il primo approccio utilizzato per ridurre l’ipercolesterolemia è quindi ridurre la quantità di
colesterolo assunto con la dieta.
Quando la dieta non è sufficiente, si può intervenire con dei farmaci. I primi farmaci ad essere stati
utilizzati sono stati la colestiramina e il colestipolo (ora non sono più utilizzati per gli importanti
effetti collaterali) ed erano sequestratori di acidi biliari primari, che sono prodotti dal fegato e
contengono un’elevata quantità di colesterolo; essi vanno nell’intestino poi tornano nel fegato.
Interrompendo il ciclo, essi rimangono a livello intestinale e vengono escreti con le feci e con essi il
colesterolo contenuto al loro interno. Questo approccio, pur risultando utile per ridurre la
colesterolemia, presenta però diversi effetti collaterali.
I farmaci attualmente più utilizzati per ridurre la colesterolemia sono le statine, che inibiscono la
HMG-CoA reduttasi impedendo così la neosintesi di colesterolo endogeno da parte degli epatociti.
Si riduce quindi la quantità di colesterolo all’interno degli epatociti, aumenta l’espressione dei
recettori per le LDL e si riduce la colesterolemia.

54
3. TRASPORTO INVERSO DEL COLESTEROLO
Le HDL si formano da sole in circolo dalla coalescenza di fosfolipidi e apolipoproteine sintetizzate
dal fegato e dall’intestino indicate con la lettera A (le apolipoproteine delle altre classi di
lipoproteine hanno invece la lettera B)
- ApoA-I sintetizzata da fegato ed intestino
- ApoA-II sintetizzata esclusivamente dal fegato
Dalla coalescenza di queste molecole si formano le HDL nascenti che costituiscono di fatto dei
contenitori vuoti. Queste hanno la capacità di prelevare colesterolo dai tessuti periferici.
Esempio: un macrofago è infarcito di colesterolo che viene de-esterificato e, una volta nella forma
non esterificata, passa all’interno dell’HDL. Grazie all’enzima LCAT (lecitina-colesterolo-acil-
transferasi), il colesterolo viene esterificato all’interno dell’HDL, la quale si trova così nella sua
forma matura e può raggiungere il fegato dove il recettore scavenger della classe B-I (uno) SR-BI,
riconosce le HDL. Nel fegato sono quindi presenti diversi recettori per le lipoproteine, alcuni per i
chilomicroni, altri per LDL, altri ancora per le HDL (SR-BI).
Le HDL, quindi, prendono il colesterolo dai tessuti periferici e lo trasportano al fegato nel
cosiddetto “trasporto inverso del colesterolo” (inverso rispetto a quello delle VLDL)
Le HDL hanno altre due funzioni molto importanti
- Consentono alle IDL di trasformarsi in LDL, grazie al trasferimento ad esse di colesterolo
esterificato contenuto all’interno delle HDL tramite l’enzima CETP o ApoD. Le LDL
andranno poi ai tessuti, tra cui il fegato, che hanno il recettore per le LDL (vedi prima);
- Costituiscono un serbatoio di apolipoproteine che cederanno poi sia ai chilomicroni che
alle VLDL. ApoC-II e ApoE sono infatti veicolate dalle HDL ma non servono ad esse, che
quindi le cedono a chilomicroni e VLDL per l’attivazione della LPL e l’idrolisi dei trigliceridi
(ApoC-II) e il riconoscimento dei chilomicroni da parte del fegato (ApoE)
(nota: le ApoE che vengono cedute dalle HDL alle VLDL non sono utilizzate per il
riconoscimento da parte dei recettori a livello epatico ma vengono restituite alle HDL)

LIPOPROTEINE E MALATTIE CARDIOVASCOLARI

Le malattie cardiovascolari, essenzialmente la cardiopatia coronarica e le malattie


cerebrovascolari, responsabili rispettivamente dell’infarto e dell’ictus, rappresentano la causa più
frequente di morte nel mondo occidentale. Oggi si è certi che l’aterosclerosi è il principale
responsabile del danno ischemico che si determina in pazienti con malattie cardiovascolari. Si sa
allo stesso modo che la concentrazione di lipoproteine nel sangue periferico è collegata alla
comparsa dell’aterosclerosi: una iperlipoproteinemia favorisce e accelera il processo
aterosclerotico e questo è stato dimostrato sia in studi di prevenzione primaria che in studi di
prevenzione secondaria (ovvero è stato dimostrato sia nella popolazione che non ha mai avuto
episodi cardiovascolari sia nei pazienti che hanno avuto malattie cardiovascolari e che vengono
quindi trattati per evitare la recidiva). Anche in questi pazienti, ovvero quelli che hanno già avuto
un evento cardiovascolare, ridurre la concentrazione di lipoproteine significa ridurre il rischio di un
secondo evento cardiovascolare. È chiaro che il metabolismo delle lipoproteine, visto in
precedenza, ha un ruolo fondamentale nella insorgenza dell’aterosclerosi e nel determinare quei
numeri impressionanti legati alla mortalità cardiovascolare nel mondo occidentale.

55
LO STUDIO DI FRAMINGHAM

La considerazione precedente è frutto


di difficoltosi studi; non è stato infatti
immediato identificare questo
rapporto. È stato necessario condurre
studi prospettici della durata di decine
di anni: il primo studio fu tenuto a
Framingham, piccola città del
Massachussets con circa 5000 abitanti,
che è stata invasa dai ricercatori dopo
la Seconda Guerra mondiale. Questi
hanno cominciato a monitorare nella
popolazione diversi parametri (non solo
colesterolo e lipoproteinemia) per
vedere nel tempo quali patologie insorgessero e vedere se potessero essere correlate a dati di
laboratorio di altra origine monitorate dall’inizio dello studio. Questi studi necessitano di molto
tempo e risorse e sono stati necessari almeno 20-25 anni prima che si arrivasse all’associazione tra
lipoproteinemia e malattie cardiovascolari. Questo studio sta ancora andando avanti e ora
vengono studiati i nipoti (quindi la terza generazione) dei soggetti per primi sottoposti a questo
studio osservazionale. In sintesi, questo studio ha dimostrato che l’aumento dell’1% della
colesterolemia è associato a un aumento del rischio di cardiopatia ischemica del 2-3%. Come si
vede nell’immagine, è evidente il rapporto tra il colesterolo totale e il tasso di mortalità in un
follow up medio di 6 anni: più alto è il colesterolo, maggiore è la mortalità per incidenti
cardiovascolari.

[Precisazione laboratoristica: in Italia si esprimono i campioni analizzati in laboratorio in mg/dL


(sistema tradizionale). In realtà questa espressione non è perfettamente corretta, infatti questa
unità di misura rappresenta più una densità piuttosto che una concentrazione; quest’ultima viene
infatti espressa in mmoli/L; quindi il S.I. raccomanda l’utilizzo della seconda unità di misura,
utilizzata infatti sia dagli anglosassoni che dagli americani. Nel grafico precedente si indica quindi
la concentrazione in mmol/L, ma si ha tra parentesi l’unità di misura in mg/dL, utilizzata
quotidianamente in Italia. Per passare da un’unità all’altra bisogna moltiplicare i mg/dL per 10 e
dividere per il peso molecolare. Viceversa, per ottenere i mg/dL bisogna moltiplicare le mmol/L
per il peso molecolare e dividere per 10. Specificamente per il colesterolo il fattore di conversione
pre-calcolato è 0,0259, quindi moltiplicando i mg/dL per questo fattore di conversione si
otterranno le mmol/L. Es: colesterolemia di 200mg/dL =5,18 mmol/L.]

STUDIO PROCAM

Gli studi successivi a quelli di Framingham hanno dimostrato che non tutto il colesterolo è
associato al rischio di aterosclerosi ma soprattutto quello contenuto nelle LDL. Allo stesso tempo si
è visto che le HDL hanno un ruolo protettivo perché prendono il colesterolo dai tessuti periferici e
lo portano al fegato, riducendo il colesterolo pericoloso, ovvero quello che si deposita nei tessuti,
in particolar modo nelle cellule endoteliali.
56
c-LDL, c-HDL, TRIGLICERIDI E MALATTIE CARDIOVASCOLARI

Tutti questi studi prospettici ci hanno consentito di concludere che:


- il colesterolo-LDL rappresenta ad oggi il più importante fattore di rischio, tra quelli legati
alle lipoproteine, per l’insorgenza di aterosclerosi e quindi malattie cardiovascolari.
- l’aumento dei livelli di colesterolo-HDL rappresenta un forte indice di protezione, per
questo si parla colesterolo “cattivo”, legato alle LDL e “buono”, legato alle HDL.
- I trigliceridi sono stati per molti anni considerati più pericolosi del colesterolo, tuttavia i
numerosi studi svolti in tutto il mondo hanno ridotto il rischio associato ai trigliceridi;
sicuramente questi impattano sull’aterosclerosi ma hanno un peso notevolmente inferiore
rispetto al colesterolo-LDL.

[Dalle slide: Lipoproteina a – Lp (a)


La lipoproteina a - Lp (a) rappresenta una frazione lipoproteica con densità tra le IDL e le HDL e
migrazione elettroforetica di tipo pre-β
La Lp (a) è una componente quantitativamente minore nella popolazione lipoproteica generale: la
sua importanza clinica deriva dal fatto che un incremento su base genetica dei livelli sierici di
questa lipoproteina è stato associato ad un forte aumento del rischio di sviluppare cardiopatia
coronarica
La pericolosità delle Lp (a) è presumibilmente dovuta alla omologia tra la sequenza aminocidica
della apo (a) e il plasminogeno: la Lp (a) potrebbe pertanto competere con il plasminogeno nel
legame con il tPA (attivatore tessutale del plasminogeno), inibendo l’attività fibrinolitica basale del
tPA circolante ed inducendo uno stato pro-trombotico]

57
DIFFERENZA TRA COLESTEROLO “BUONO” E “CATTIVO” A LIVELLO MOLECOLARE

I meccanismi molecolari che


giustificano questa interpretazione
(colesterolo cattivo o buono) sono
molto importanti perché possono
diventare il target per terapie sempre
più specifiche. Le LDL hanno un ruolo
fisiologico fondamentale all’interno
del nostro organismo; queste
diventano pericolose quando la loro
concentrazione aumenta nel sangue
periferico. Le LDL hanno un impatto
diretto sulle cellule endoteliali e
trasudano all’interno dell’endotelio
nella tonaca intima. Quando le LDL
vengono modificate, per esempio
possono venire ossidate o glicate nei pazienti diabetici, oppure quando diventano molto
concentrate nel sangue periferico, tendono ad insudare all’interno della tonaca intima
attraversando le cellule endoteliali, che normalmente dovrebbero essere impermeabili alle LDL.
Un fattore che favorisce questo passaggio è anche un danno endoteliale e quindi per esempio
l’ipertensione, che modifica il normale equilibrio tra endotelio e lume vascolare, favorendo
l’insudazione delle LDL. Queste nell’intima si trovano in un ambiente non fisiologico e non possono
utilizzare quei sistemi antiossidanti che possono avere nel sangue periferico e vanno incontro a
modificazione (es. ossidazioni) che fanno si che si attivi una molecola molto importante: MCP-1
(Monocyte Chemoattractant Protein-1; anche chiamata CCL2) che richiama i monociti. L’endotelio
si rende conto che c’è qualcosa di anomalo e chiama cellule per smaltire queste molecole
potenzialmente dannose. I monociti entrano nell’intima e interagiscono con le LDL trasformandosi
in macrofagi; la trasformazione in macrofagi produce delle citochine, come TNF-α e IL-1, che
hanno un effetto importante sull’endotelio aumentando le molecole di adesione specifiche per
l’extravasazione dei monociti, quali le selectine o i recettori per le integrine come VCAM o ICAM,
richiamando ulteriori monociti e dando origine a un circolo vizioso: il processo si autoamplifica in
maniera inefficace in quanto i macrofagi non riescono a digerire le LDL modificate e si trasformano
quindi in cellule schiumose: queste sono il primo step che poi determinerà l’insorgenza della
placca aterosclerotica. L’inizio di tutto il processo è quindi l’insudazione delle LDL nell’intima
(processo attivato o da un danno endoteliale o da un elevata concentrazione di LDL nel sangue
periferico).

58
Le HDL invece sono protettive perché:
- promuovono l’efflusso di colesterolo portando via il colesterolo che si sta accumulando
nelle arterie;
- inibiscono l’ossidazione delle LDL, che è la modificazione più importante che le trasforma
e le rende in grado di richiamare monociti e macrofagi. Uno dei meccanismi studiati è
quello dell’enzima paraoxonasi ma ne esistono altri riportati nella letteratura scientifica.
- Impediscono l’espressione di molecole di adesione sull’endotelio impedendo
l’extravasazione dei monociti e
interrompendo quel circolo
vizioso che si viene a formare e
che determina l’accumulo di
cellule macrofagiche e quindi
cellule schiumose, che sono le
responsabili dell’attivazione del
processo aterosclerotico.

La comprensione di questi meccanismi


molecolari ha confermato la definizione
di LDL come colesterolo “cattivo” e HDL
come colesterolo “buono”.

ATEROSCLEROSI COME MALATTIA INFIAMMATORIA


Ricordare questi meccanismi è importante perché l’aterosclerosi oggi viene considerata una
malattia infiammatoria, sono infatti i meccanismi propri dell’infiammazione e le sue citochine e
cellule caratteristiche che attivano, scatenano e amplificano questo processo. Per cui oggi
l’aterosclerosi è considerata una malattia infiammatoria che si sviluppa in risposta a danni
metabolici (diabete e ipercolesterolemia), fisici (ipertensione) e comportamentali (abitudine al
fumo: il metabolismo delle sostanze contenute nel fumo di sigaretta provoca un danno endoteliale
e favorisce l’insudazione delle lipoproteine, in particolare le LDL).
Questa è quindi una prospettiva relativamente recente e interessante in quanto il considerarla una
malattia infiammatoria e non più degenerativa delle arterie ha aperto delle prospettive
terapeutiche e diagnostiche:
- Terapeutiche: si può considerare l’utilizzo di antinfiammatori: si è però visto che gli attuali
antinfiammatori utilizzati nella terapia anti-aterosclerotica non sono così efficaci, in quanto
probabilmente il processo è nascosto: avvenendo infatti all’interno dell’endotelio gli
antinfiammatori che si usano comunemente non sono efficaci; è un importante ambito di
ricerca in quanto si stanno cercando antinfiammatori che possano effettivamente
interagire e contrastare il processo flogistico nascosto e quindi meno aggredibile.
- Diagnostica: è possibile considerare di utilizzare gli indici di flogosi nella valutazione del
rischio cardiovascolare

59
UTILIZZO DEI MARCATORI DI FLOGOSI (PCR) NELLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO
CARDIOVASCOALRE
Il problema principale riguarda la non specificità degli indici di flogosi, che possono essere alterati
anche in totale assenza di aterosclerosi, e questo limita fortemente le possibilità diagnostiche, non
dovendo tuttavia limitare la ricerca in questo ambito. Oggi si sa che la proteina C reattiva (PCR) è
da considerare un fattore di rischio, infatti valori molto elevati di PCR vengono considerati dai
laboratoristi un fattore di rischio per l’aterosclerosi e addirittura si ipotizza che un aumento della
PCR possa favorire il processo aterosclerotico stesso.
In conclusione, considerare l’aterosclerosi una malattia infiammatoria consente di poter
approfondire la patologia sia dal punto di vista terapeutico, tramite la ricerca di antinfiammatori
efficaci, sia dal punto di vista diagnostico, tramite la corretta interpretazione dei marcatori di
flogosi.

DIAGNOSI DI LABORATORIO DELLE IPERLIPOPROTEINEMIE


Per definire il rischio di aterosclerosi la cosa migliore sarebbe dosare tutte le lipoproteine presenti
nel sangue, ma il costo sarebbe decisamente troppo elevato (è lo stesso discorso che si applica per
i fattori della coagulazione), quindi si è deciso di dosare specifiche lipoproteine. Nella routine
ospedaliera si dosano:
- i trigliceridi (trigliceridemia);
- il colesterolo totale (colesterolemia) (facile e poco costoso);
- il colesterolo frazionato (HDL). Non si dosano le HDL ma il colesterolo contenuto nelle
HDL: dopo aver misurato il colesterolo totale, in un altro campione di sangue si fanno
precipitare le LDL, le IDL e le VLDL usando anticorpi anti-ApoB; questi, infatti, si andranno a
legare alle lipoproteine che esprimono Apo-B, facendole precipitare. Nel sovranatante
rimarranno soltanto le HDL, quindi, dosando il colesterolo del sovranatante, si doserà solo
il colesterolo-HDL. I chilomicroni sono assenti perché il prelievo si effettua dopo almeno 8
ore di digiuno e quindi questi ultimi non sono presenti nel sangue periferico.

Per calcolare invece il colesterolo-LDL bisogna


applicare una formula: quindi il colesterolo-HDL si
misura, mentre il colesterolo-LDL si calcola; per il
calcolo si utilizza la formula di Friedewald: col.LDL
= col.totale – col.HDL – (col.VLDL + col.IDL): il
colesterolo totale e il colesterolo-HDL sono noti
mentre il col.VLDL e il col.IDL sono da identificare:
Friedewald ha scoperto che queste dipendono dalla
trigliceridemia: col.VLDL + col.IDL = trigliceridi
(mg/dL)/ 5 ( si divide per 2,2 se l’unità di misura è
mmol/L). Questa formula permette quindi di
calcolare il colesterolo-LDL. Questo è possibile a
meno che i trigliceridi non superino la concentrazione di 400 mg/dL: questa è una condizione
eccezionale, quindi nella routine clinica questa formula risulta utile e applicabile nella maggioranza
dei casi.

60
Il valore numerico di riferimento per il
colesterolo associato al rischio di aterosclerosi è
200 mg/dL, tuttavia questo valore è da
approfondire: questo non è infatti un valore
calcolato ma un valore arbitrariamente scelto dal
grafico che mette in relazione colesterolemia e
tasso di mortalità che ha portato i cardiologi a
decidere che sopra i 200 mg/dL il rischio di
incidenti cardiovascolari diventa significativo;
tuttavia questo non significa che sotto i 200
mg/dL il rischio non esista. Il concetto
fondamentale è che non esiste un valore di
riferimento ma esiste un valore desiderabile che è stato deciso arbitrariamente, non calcolato con
metodo scientifico (e questo spiega anche il fatto che sia rappresentato da un numero intero
tondo, difficilmente ottenibile con calcoli matematici). È importante ricordare che il colesterolo
più basso è, meglio è (in inglese: ”low is better”); non esiste un valore di riferimento, il colesterolo
deve essere il più basso possibile perché bassi valori di colesterolo non hanno effetti negativi sui
pazienti. Si parla quindi di valori accettabili.

Quando i valori superano i valori accettabili si


accende un campanello di allarme, ma bisogna
tener presente quanto detto precedentemente.
Questi valori accettabili sono 200 mg/dL
nell’adulto e 180 mg/dL nel giovane per quanto
riguarda il colesterolo. Per i trigliceridi i valori
accettabili vanno da 150 a 200 mg/dL; per il
colesterolo-LDL i valori desiderabili sono inferiori
a 130 mg/dL; i valori limite tra i 130 e i 159
mg/dL e quelli ad alto rischio superiori a 160
mg/dL.
Un’altra importante raccomandazione è quella di
utilizzare il rapporto tra colesterolo-LDL e
colesterolo-HDL in quanto la colesterolemia
totale non ci da indicazioni quantitative su colesterolo buono e cattivo, fondamentali nel
determinare il rischio di aterosclerosi. Il rapporto tra col.LDL e col.HDL deve essere inferiore a 3 e
il rapporto tra col.totale e col.HDL deve essere inferiore a 5. Prendendo per esempio un paziente
con colesterolemia totale = 211 mg/dL, questo dovrebbe essere un paziente a rischio, tuttavia il
colesterolo-HDL è 59 mg/dL (valore accettabile sopra i 35 mg/dL) ed entrambi i rapporti sono
quindi ben al di sotto dei valori limite, descrivendo quindi un quadro più favorevole di quello
atteso con un paziente con colesterolemia così elevata. È fondamentale tenere conto di queste
valutazioni e 200 mg/dL risulta essere quindi troppo semplicistico e metodologicamente sbagliato
[il professore insiste molto su questo concetto].

61
FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Il colesterolo è sicuramente importantissimo nella determinazione di rischi cardiovascolari ma


deve essere valutato in un contesto generale che tiene conto di tutti i fattori di rischio per malattie
cardiovascolari. Questi si dividono in:
- Non modificabili: età, sesso e fattori genetici
- Modificabili: ipercolesterolemia, iperlipidemia associata a ipertensione, diabete, fumo di
sigaretta, obesità, sedentarietà e iperomocisteinemia, che è un fattore di rischio
emergente già analizzato nelle trombofilie.

È importante quindi tenere sempre conto del quadro complessivo di tutti i fattori di rischio per
ottenere un fattore di rischio complessivo che è quello che effettivamente deve essere
comunicato al paziente.
La lezione si conclude con la presentazione di due siti:
- http://www.cuore.iss.it/sopra/calc-rischio.asp : sito dell’istituto superiore di sanità che permette
di comprendere il peso dei diversi fattori di rischio nello sviluppo di patologie cardiovascolari.
- https://siia.it/per-il-pubblico/calcolo-del-rischio-cardiovascolare : sito con finalità simili all’altro
questa volta della società italiana dell’ipertensione arteriosa.

CLASSIFICAZIONE “DI LABORATORIO” O “FENOTIPICA” DELLE


IPERLIPOPROTEINEMIE SECONDO FREDERICKSON (NON TRATTATA A LEZIONE)

Questa classificazione si
basa ancora oggi sullo
schema proposto da
Frederickson nel 1970;
essa prevede la
ripartizione delle varie
forme di
iperlipoproteinemia in 6
fenotipi distinti in base:
1) all’aspetto del siero
(dopo una notte a +4°C)
2) alla composizione di
colesterolo e trigliceridi
3) alla analisi
elettroforetica delle
lipoproteine

62
CAPITOLO 4: IL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE
DIAGNOSTICA DEL DIABETE
DIABETE
Il termine diabete deriva dal greco “διαβαίνω” ossia “scorrere attraverso”, significato associato ai
sintomi tipici della patologia: la polidipsia (condizione in cui si ha molta sete e si beve molto) e la
poliuria (produzione di grandi quantità di urina).
Il termina diabete oggi viene identificato con due patologie:

 Diabete mellito: diffuso, è causato da una ridotta attività biologica della insulina; si
definisce mellito perché le urine risultano dolci al gusto.
 Diabete insipido: molto più raro, causato da un deficit di ADH; si definisce insipido perché
le urine sono insapori ed ipotoniche. Le urine sono “insipide” proprio perché contengono
molta acqua (la poliuria non è conseguenza di glicosuria). Esistono due forme:
 neurogenica o centrale: dovuta a lesioni ipotalamiche o lesioni cerebrali compressive o
traumatiche. ADH non viene prodotto -> poliuria
 nefrogenica o periferica: mancata recettività dell’ormone a livello dei recettori del tubulo
renale. L’ormone, quindi, viene prodotto ma non è efficace -> poliuria
Dal punto di vista laboratoristico le due forme si distinguono dosando l’ADH: se l’ADH è
alto si tratta di un diabete nefrogenico e viceversa. La neuroipofisi rilascia in circolo due
ormoni ricevuti dai nuclei secretori dell’ipotalamo: l’ossitocina e l’ADH, ormoni con
struttura simile che differiscono solo per due amminoacidi.
 L’ossitocina è legata alla sfera sessuale-riproduttiva e favorisce la contrazione della
muscolatura uterina e la funzionalità delle ghiandole mammarie.
 L’ADH ha come bersaglio le cellule del tubulo renale e ha la funzione di favorire il
riassorbimento di acqua. In caso di deficit, l’acqua viene filtrata dai glomeruli, non
viene adeguatamente riassorbita e viene quindi eliminata con le urine.

In mancanza di specifiche, quando si parla di diabete ci si riferisce al diabete mellito.

STORIA
Nel papiro di Ebers (1600 a.C.) si può trovare la prima testimonianza di un paziente probabilmente
affetto da diabete che presentava polidipsia e poliuria. La paternità dell’approfondimento
eziologico del diabete si tende ad attribuire a Paul Langerhans, il quale in realtà si limitò a
riconoscere delle “isole” di cellule del pancreas con caratteristiche differenti dal resto delle cellule
dell’organo (1869). Successivamente Joseph von Mering e Oskar Minkowski osservarono
l’insorgere dei sintomi del diabete in animali il cui pancreas era stato asportato, mettendo così in
luce il rapporto tra la componente endocrina del pancreas e il diabete. Nel 1921 il chirurgo
Frederick Banting eseguì una serie di esperimenti in cui tentò di procurarsi insulina in vivo tramite
la legatura dei dotti escretori del pancreas così causando l’atrofia del pancreas esocrino, sperando
che il pancreas endocrino fosse più resistente. Una volta prelevato il pancreas ricco di insulina
degli animali così trattati, prosegui all’iniezione in un cane a cui era stato asportato il pancreas e
63
quindi al quale era stato indotto il diabete. Insieme al
collega MacLoad, furono insigniti del premio Nobel nel
1923 per la scoperta. Leonard Thompson fu il primo
paziente affetto da diabete giovanile trattato con
“l’insulina di Banting”. In figura si può osservare la
prima paziente diabetica trattata con insulina che
riuscì ad arrivare all’età riproduttiva.
N.B.: il termine insulina deriva da “isole pancreatiche”.

DIABETE MELLITO
Il diabete mellito è caratterizzato da un’aumentata concentrazione di glucosio nel sangue,
prodotto da una carenza assoluta o relativa dell’attività biologica dell’insulina. Questa patologia
abbraccia tutti gli aspetti patologici dell’organismo, anche se da un punto di vista clinico risulta
prevalente l’effetto che ha sul metabolismo glucidico.
L’insulina svolge sempre un’azione anabolizzante nei confronti del metabolismo glucidico, lipidico
e proteico:

 stimola l’ingresso di glucosio nelle cellule riducendo la glicemia


 stimola la glicogenosintesi e inibisce la glicogenolisi
 stimola la glicolisi e inibisce la gluconeogenesi
 stimola la sintesi di acidi grassi e trigliceridi e inibisce il catabolismo lipidico
 riduce la chetogenesi favorendo l’ingresso dell’acetil-coenzima-A nel ciclo di Krebs
 stimola l’ingresso di aminoacidi nelle cellule (soprattutto muscolari) riducendo
l'aminoacidemia
 facilita l’avvio della formazione di catene peptidiche, stimolando quindi la sintesi proteica,
e riduce la proteolisi
 favorisce l’ingresso cellulare di potassio e l’uscita di sodio
 favorisce la sintesi degli acidi nucleici → impa o sulla proliferazione cellulare
 stimola la crescita dei tessuti esercitando un’azione anabolizzante

Perché la carenza dell’attività biologica


dell’insulina si traduce prevalentemente
in un’alterazione del metabolismo
glucidico e non delle altre vie
metaboliche?
Nel metabolismo glucidico non c’è una
contrapposizione equilibrata di ormoni
catabolizzanti ed anabolizzanti: l’insulina
è l’unico ormone ipoglicemizzante e ci
sono invece 7 ormoni iperglicemizzanti
(glucagone, adrenalina, cortisolo, GH,
somatostatina, ACTH, tiroxina).

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INSULINA
L’insulina è un ormone peptidico sintetizzato dalle cellule β-
pancreatiche ed è costituito da due catene A e B, rispettivamente
di 21 e 30 aminoacidi, unite tra loro da tre ponti disolfuro.
Viene sintetizzata sotto forma di un precursore di 110 aminoacidi,
la pre-proinsulina, dotato di una sequenza amino-terminale di 24
amminoacidi detta peptide leader o segnale; nel reticolo
endoplasmatico la sequenza segnale viene rimossa per formare la
proinsulina, costituita dalle due catene A e B unite da un peptide di
connessione di 35 aminoacidi, indispensabile per il corretto
ripiegamento dell’insulina.
Dopo la formazione dei ponti disolfuro la proinsulina viene traslocata nell’apparato del Golgi dove
il peptide di connessione viene rimosso per taglio proteolitico con perdita di 4 aminoacidi
formando il peptide C, di 31 aminoacidi; insulina e peptide C vengono quindi immagazzinati nei
granuli secretori fino alla liberazione in circolo.
A seguito di appropriati stimoli, tra i quali principalmente l’innalzamento dei livelli di glucosio nel
sangue periferico (che entra nella cellula attraverso GLUT 2), l’insulina e il peptide C vengono
rilasciati equimolarmente dalle cellule β-pancreatiche. In circolo l’insulina viene velocemente
catabolizzata dal fegato e dal rene; la sua emivita è quindi breve, di
circa 6 minuti.
L’azione dell’insulina si estrinseca nei tessuti periferici
(principalmente fegato, muscolo e tessuto adiposo) mediante un
recettore specifico costituito da un etero-dimero transmembrana
formato da due subunità α e β: la subunità α è extracellulare ed è
preposta al legame con l’insulina mentre la subunità β è costituita da
una porzione transmembrana e da una citoplasmatica, coinvolta
nella trasduzione del segnale e quindi nelle manifestazioni
metaboliche innescate dal legame.
Relativamente al metabolismo glucidico, l’azione scaturita dal
legame insulina-recettore si traduce nella mobilizzazione di un
recettore chiamato GLUT 4, normalmente contenuto all’interno della
cellula. Quando l’insulina si lega al recettore, il trasportatore viene
traslocato sulla membrana, così permettendo l’ingresso di glucosio
nelle cellule e diminuendo la glicemia.
La secrezione di insulina è caratteristicamente bifasica, con un primo picco precoce dovuto alla
liberazione in circolo dell’insulina preformata e un secondo picco tardivo conseguente alla sintesi
di insulina ex novo. Il secondo picco avviene se necessario ed è derivato dal permanere di valori di
glicemia elevati.

Il glucosio presente nel sangue viene filtrato dal glomerulo e, in condizioni di normoglicemia, passa
nel tubulo per poi essere riassorbito a livello tubulare. Essendo il numero di carrier in grado di

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recuperare il glucosio limitato, se la glicemia aumenta patologicamente lo zucchero rimane nelle
urine, dove determina un richiamo osmotico portando alla poliuria e successivamente alla
polidipsia.

EPIDEMIOLOGIA
Il diabete è diagnosticato nel 3% della popolazione italiana. A questa quota di diabete
diagnosticato si deve aggiungere una quota, dello stesso ordine di grandezza, di diabete non
diagnosticato, rappresentato esclusivamente dal diabete di tipo 2: ciò significa che l’incidenza del
diabete è doppia rispetto ai casi diagnosticati; quindi, nel nostro paese vi sono non meno di
3.000.000 di soggetti diabetici, solo per la metà riconosciuti come tali. Nelle diverse aree
geografiche, si prevede un diverso incremento del diabete: minore in Europa e nel Nord America,
dove probabilmente è già aumentato in modo significativo, mentre si prevede più di un raddoppio
in Africa e Asia.
Complessivamente, si stima il seguente incremento: 415 milioni nel 2015 -> 642 milioni nel 2040.
Questi numeri hanno fatto sì che il diabete abbia assunto una rilevanza socioeconomico-sanitaria
pari a pochissime altre condizioni. Il diabete più frequente (di tipo 2) tende ad incrementare con
l’età, quindi l’invecchiamento impatta sull’aumento della diffusione di questa patologia. Il diabete
viene considerato dall’OMS come la prima emergenza sanitaria.

[Dalle slide: Del 3% di pazienti diabetici, il 10% soffre di diabete di tipo 1 ed è in trattamento
insulinico, il restante 90% soffre di diabete di tipo 2 ed è in trattamento con insulina (10%), con
ipoglicemizzanti orali (60%) o con la sola dieta (30%).
La prevalenza del diabete di tipo 2 aumenta con l’età: al di sopra dei 65 anni oltre il 10% della
popolazione italiana risulta affetta da diabete.]

DIAGNOSI
Il presupposto fondamentale per diagnosticare il diabete è la valutazione della glicemia a digiuno
(FPG, ovvero “Fasting Plasma Glucose”):

 Normale metabolismo glucidico: sotto i 100-105 mg/dl.


 Diabete: sopra i 126 mg/dl. È consigliabile un secondo prelievo perché gli ormoni contro
regolatori dell’insulina possono influenzare il risultato.
 Alterata omeostasi glucidica: il paziente ha una FPG tra 105 mg/dl e 126 mg/dl. Sono
necessari ulteriori approfondimenti (OGTT o 2hrPPG).
Il principale esame è stato per molti anni il test da carico orale di glucosio (OGTT, oral glucose
tolerance test). Nell’OGTT si esegue un prelievo di sangue periferico a digiuno e si somministrano
al paziente 75 g di glucosio. Si prosegue misurando la glicemia ogni mezz’ora con ulteriori prelievi
in modo da poter costruire nell’arco di tre ore una curva glicemica con i dati raccolti. Il test può
anche essere accompagnato dalla misurazione dell’insulinemia.
Purtroppo, questo test ha una scarsa compliance, dove per compliance si intende il grado di
collaborazione da parte del paziente di seguire più o meno scrupolosamente le prescrizioni del
medico curante. Concetto da non confondere con la complianza o capacitanza in fisiologia, ossia la

66
capacità che hanno i vasi sanguigni di dilatarsi elasticamente sotto l’effetto di una pressione
sanguigna crescente, per poi restringersi restituendo il volume di sangue accumulato sotto
l’effetto di una pressione sanguigna decrescente.
In America si tende quindi a preferire il 2hrPPG (“2-Hours Post-Prandial Glucose”), in cui si misura
la glicemia a digiuno e dopo due ore dal pasto, saltando le fasi intermedie del test
precedentemente descritto. Seppure le tappe intermedie permetterebbero di fare una diagnosi
più raffinata, perché si potrebbe valutare il rapporto che può esserci tra obesità o sovrappeso,
intolleranza al glucosio, deficit di insulina dovuti ad altri motivi ecc…, i pazienti sono risultati molto
più complianti al 2hrPPG. In questo caso:

 Normale metabolismo glucidico: sotto i 140 mg/dl


 Diabete: sopra i 200 mg/dl.
 Intolleranza al glucosio: il paziente ha una 2hrPPG tra 140 mg/dl e 200 mg/dl. Per
intolleranza si intende un’alterata capacità di mantenere un’adeguata omeostasi glucidica.
Questi pazienti sono ad alto rischio di sviluppo di diabete, quindi oltre all’adozione di un
buono stile di vita, dovranno sottoporsi al test ripetutamente nel tempo (ogni 6-12 mesi).
In sintesi, i criteri della diagnosi del diabete sono:
1. Diabete mellito: (riscontro in almeno due occasioni)
o sintomi di diabete mellito associati al riscontro casuale di valori ematici di glicemia ≥ 200
mg/dl
o glicemia a digiuno (FPG: fasting plasma glucose) ≥ 126 mg/dl
o 2hrPPG (two-hour post-prandial plasma glucose) ≥ 200 mg/dl due ore dopo un carico di 75
g di glucosio

2. Alterata omeostasi glucidica:


o glicemia a digiuno tra 110 mg/dl e 125 mg/dl

3. Intolleranza al glucosio:
o 2hrPPG tra 140 mg/dl e 200 mg/dl

4. Soggetto con normale metabolismo glucidico:


o glicemia a digiuno < 110 mg/dl
o 2hrPPG < 140 mg/dl

[Dalle Slide: la formula di conversione da mg/dL a mmol/L è: mmol/L = (mg/dL x 10): peso
molecolare; che nel caso del glucosio è 180,095.]

67
CLASSIFICAZIONE DEL DIABETE (1997)
 Diabete di tipo 1 (T1DM)
 Diabete di tipo 2 (T2DM)
 Diabete gestazionale
 Altri tipi (forme da causa nota): meno dello 0,1% **
o difetti genetici della funzione delle cellule beta (MODY ed altri)
o difetti genetici dell’azione insulinica
o malattie del pancreas esocrino (pancreatiti, traumi, pancreasectomia, neoplasie, fibrosi
cistica, emocromatosi, altre)
o endocrinopatie (acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma,
ipertiroidismo, aldosteronoma, somatostatinoma)
o indotto da farmaci o da sostanze chimiche (vacor, pentamidina, acido nicotinico,
glucocorticoidi, ormone tiroideo, agonisti -adrenergici, tiazide, fenitoina, inteferone ,
altre)
o infezioni (rubella congenita, citomegalovirus, altre)
o altre forme non comuni immuno-mediate
o altre sindromi genetiche talvolta associate al diabete (sindrome di Down, sindrome di
Klinefelter, sindrome di Turner, atassia di Friedreich, corea di Huntington, sindrome di
Lawrence-Moon Beidel, distrofia miotonica, porfiria, sindrome di Prader-Willi, altre)
[** n.d.s. Non è necessario ricordare gli altri tipi, basta ricordare che per queste forme molto rare
la causa è conosciuta]

DIABETE DI TIPO 1 (T1DM)


Il diabete di tipo 1 deriva da una grave mancanza di insulina dovuta alla riduzione della massa
globale di cellule β. I termini “diabete giovanile” e “diabete insulino-dipendente” (IDDM: insulin-
dependent diabetes mellitus) sono imprecisi e fuorvianti e ne viene quindi sconsigliato l’uso.

PATOGENESI
Questa patologia insorge soprattutto nei bambini e adolescenti. L’elemento fondamentale di
questa forma di diabete è rappresentato dalla distruzione delle cellule β-insulari. Il meccanismo è
autoimmune probabilmente scatenato da agenti ambientali in soggetti geneticamente
predisposti.
L’importanza dei fattori genetici è documentata dalle seguenti osservazioni:
o i bambini che hanno un parente di primo grado affetto presentano un maggiore rischio di
sviluppare la malattia rispetto ai coetanei che non hanno parenti di primo grado affetti
(fenomeno della aggregazione familiare);

o l’incidenza di concordanza cumulativa in fratelli di pazienti affetti da diabete di tipo 1 è del


10%, cioè 20 volte superiore a quella della popolazione generale della stessa età;

o l’incidenza di concordanza cumulativa fra gemelli omozigoti è tra il 35 ed il 50 % (a seconda


delle diverse casistiche), e può arrivare al 70% nei soggetti che hanno entrambi gli allei del
68
sistema HLA ad alto rischio di malattia; → se la patologia non fosse influenzata anche da fa ori
ambientali, la concordanza sarebbe del 100%

o il diabete di tipo 1 risulta fortemente associato con specifici antigeni di istocompatibilità di


classe II (in particolare HLA-DR3, HLA-DR4 e HLA-DQ2); l’allele HLA-DR2 avrebbe invece un
ruolo protettivo.

FATTORI AMBIENTALI
Tra i fattori ambientali potenzialmente responsabili abbiamo un’infinità di virus, però sappiamo
perfettamente che i pazienti infettati non sviluppano diabete. Tra le infezioni virali che oggi si
ritengono maggiormente associate al diabete è quella da Coxsackie B4 (da ricordare, perché è
l’associazione più forte tra quelle trovate).
Altri fattori potenzialmente responsabili (associazioni non del tutto confermate):
- Infezioni batteriche, forse da micobatteri;
- Alimenti, forse le proteine del latte vaccino assunte prima del 4 mese di vita (c’è una
grande diatriba a riguardo);
- Tossine (?)
Tuttavia, fattori ambientali associati all’insorgenza del diabete sicuramente ci sono, ma non sono
ancora stati identificati.
[Dalle Slide: L’importanza dei fattori ambientali è documentata dalle seguenti osservazioni:
- i casi di T1DM aumentano nelle popolazioni che migrano verso aree geografiche ad alta
incidenza
- in alcune nazioni quali Polonia, Nuova Zelanda, Estonia e Stati Uniti, nella prima metà degli
anni ’80 sono state registrate “epidemie” di T1DM
- nei mesi invernali si osserva un aumento dell’incidenza della malattia]

MECCANISMI AUTOIMMUNITARI
Attraverso esperimenti ed esami autoptici (condotti su bambini che avevano sviluppato diabete di
tipo 1) si è scoperto che, prima della distruzione, le cellule β del pancreas vengono accerchiate da
linfociti, prevalentemente CD8+ e CD4+, e da macrofagi. Per cui sicuramente si tratta di una
risposta autoimmune di tipo cronico cellulo-mediata che ha un’azione distruttiva sulle cellule β-
pancreatiche: questi pazienti sviluppano anticorpi contro le cellule β o contro l’insulina. Tuttavia,
ad oggi, non conosciamo che cosa scatena questa reazione autoimmune.
[Dalle slide: Sebbene l’esordio del T1DM sia solitamente improvviso, la malattia risulta da un
attacco autoimmune delle cellule beta di tipo cronico, presente da anni prima dell’inizio delle
manifestazioni cliniche; iperglicemia e chetosi si determinano quando più del 90% delle cellule beta
à stato distrutto.
Il ruolo dei meccanismi autoimmunitari è sostenuto da diverse evidenze:
- insulite; l’infiltrato cellulare che si osserva nei modelli animali durante le fasi iniziali del diabete
consiste per lo più di linfociti CD8+ e da un numero variabile di CD4+ e macrofagi; i linfociti CD4+ di
animali malati possono trasmettere la malattia a animali sani, confermando il ruolo importante

69
dell’autoimmunità T mediata; inoltre, una infiltrazione linfocitaria è sempre documentabile nei
soggetti morti con diabete di recente insorgenza
- autoanticorpi circolanti diretti contro le cellule insulari (ICA) e altri auto-anticorpi si ritrovano
nella maggior parte dei soggetti con T1DM di recente diagnosi e sono spesso presenti nel periodo
di “prediabete”; inoltre, circa il 10% dei soggetti con diabete T1DM è portatore di altri disordini
autoimmuni organo-specifici quali la malattia di Graves, la malattia di Addison e la tiroidite di
Hashimoto]

CARATTERISTICHE CLINICHE
Il diabete di tipo 1 è fortemente sintomatico, si manifesta nel 95% dei casi prima dei 25 anni e
comunque sempre prima dei 35. Lo zucchero assunto con la dieta viene eliminato con le urine
(glicosuria) il che porta, in un paziente diabetico non trattato, a quella che è conosciuta anche
come sindrome delle tre P:
- poliuria → aumento diuresi osmotica provocata dal richiamo osmotico del glucosio nelle
urine (glicosuria). Talvolta associata a sintomi di disidratazione;
- polidipsia → sete intensa conseguente alla perdita di acqua ed ele roli ;
- polifagia → aumento dell’appe to dovuto al fatto che il glucosio introdotto con la dieta
non può essere utilizzato come combustibile; quindi, il soggetto mangia molto ma
dimagrisce. Questo aumento dell’appetito è conseguente al passaggio da una fase
anabolica insulino-dipendente ad una fase catabolica da deficit insulinico.
In mancanza di zucchero vengono utilizzate fonti energetiche alternative:
1. Per primo viene attaccato il tessuto adiposo, con conseguente progressivo calo ponderale:
gli acidi grassi escono dal TA e si portano al fegato dove vanno incontro alla β-ossidazione
per produrre energia.

2. Dalla β-ossidazione degli acidi grassi si produce Acetil-CoA che entra nel ciclo di Krebs
reagendo con l’acido ossalacetico. In caso di eccessivo catabolismo lipidico e un’accelerata
β-ossidazione si produce molto Acetil-CoA, che non trova una quantità sufficiente di
ossalacetato con cui reagire; per cui si accumula e dalla condensazione delle molecole di
Acetil-CoA si ottengono i corpi chetonici: acido acetoacetico, β-idrossibutile e acetone.
Questi tre acidi determinano acidosi metabolica (chetoacidosi) – un’alterazione
dell’equilibrio acido-base che è il responsabile, insieme a condizioni intercorrenti come
infezioni o stress, del coma chetoacidosico. Prima dell’insulina di Banting, infatti, i pazienti
con diabete di tipo 1 morivano per scompenso dell’acidosi metabolica seguita dal coma.
Oggi i corpi chetonici sono uno strumento diagnostico per identificare lo scompenso
metabolico legato al diabete di tipo 1.

3. Dopo gli acidi grassi, vengono utilizzate come substrato energetico le proteine provenienti
dal tessuto muscolare, il che comporta debolezza muscolare.

70
[Dalle Slide: Per “luna di miele” si intende
quel periodo di remissione transitoria, che può
durare alcune settimane, talora mesi, in cui c'è una
ripresa funzionale delle cellule beta del pancreas,
che producono insulina.]

DIABETE DI TIPO 2 (T2DM)


Il diabete di tipo 2 è una patologia completamente diversa dal diabete di tipo 1. In questo caso le
cellule β pancreatiche non hanno subito nessun danno, ma sono i tessuti periferici che non
riescono a recepire adeguatamente l’effetto dell’insulina. Il risultato finale è lo stesso –
l’iperglicemia.
Non sappiamo esattamente quale sia la causa di questa ridotta ricezione del segnale insulinico:
può essere un’alterazione del recettore per l’insulina o del legame recettore-insulina o
dell’insulina stessa; sta di fatto che nonostante sia prodotta, l’insulina ha una ridotta attività
biologica.
Il diabete di tipo 2 è molto più frequente del tipo 1 (90% dei pazienti diabetici) ed è una patologia
dell’adulto (comparsa dopo i 40 anni), caratterizzata da 3 fasi che possiamo monitorare
laboratoristicamente semplicemente dosando l’insulina e la glicemia dopo un carico di glucosio:
1. La glicemia è normale, ma per mantenerla tale il paziente diabetico deve produrre più
insulina. È per questo motivo che con il test da carico di glucosio, valutando l’insulinemia, si
riesce ad intercettare questa condizione (il prof raccomanda di fare il test da carico di
glucosio ogni mezz’ora). Si ha glicemia normale e insulinemia elevata.
2. Aumentano le resistenze periferiche all’insulina; di conseguenza, oltre ad un’iperglicemia
postprandiale, l’insulina continua ad aumentare ma la glicemia non si risolve nei tempi in
cui dovrebbe risolversi dopo un test da carico di glucosio. Si ha insulinemia sempre più
elevata e iperglicemia post-prandiale.
3. Si verifica una sorta di scompenso legato al fatto che le cellule β pancreatiche, forse
stressate per diversi anni nel produrre troppa insulina, non riescono più a tenere il passo.
Dunque, in questa fase anche l’insulinemia si riduce, con conseguente notevole aumento
della glicemia.
Si ha ridotta insulinemia e, di conseguenza, iperglicemia a riposo e diabete franco.
Nota del prof: Non chiamiamo il diabete di tipo 2 “patologia dell’adulto” o “diabete non insulino-
dipendente”, infatti molti di questi pazienti assumono insulina come terapia; alcuni pazienti
possono inoltre presentare i primi sintomi anche in età giovanile.

CARATTERISTICHE CLINICHE
L’evoluzione metabolica naturale del diabete di tipo 2, nei pazienti non adeguatamente trattati,
prevede il raggiungimento di valori di iperglicemia tali da produrre una poliuria tale che il paziente
va incontro a disidratazione – mancato equilibrio tra le enormi perdite di liquidi, dovuti agli
elevatissimi valori di glicemia raggiunti nella fase finale della malattia, e l’assunzione di liquidi. La

71
disidratazione ha un effetto diretto sulle cellule del SNC inducendo coma iperosmolare. Oggi,
grazie alle terapie, siamo in grado di scongiurare sia il coma chetoacidosico (associato al diabete di
tipo 1), sia quello iperosmolare, che dunque non rappresentano più un rischio per il paziente
diabetico. Gli elementi di pericolosità oggi associati al diabete sono le complicanze che si
sviluppano a seguito dell’iperglicemia.
[Dalle Slide: Il coma iperosmolare è caratterizzato da una disidratazione imponente prodotta da
una diuresi eccessiva non controbilanciata da un apporto idrico adeguato. Clinicamente si
manifesta con iperglicemia gravissima (anche >1000 mg/dl), iperosmolarità, ipovolemia e
ipernatriemia, insieme a segni di interessamento del sistema nervoso centrale che possono andare
dall’obnubilamento del sensorio fino al torpore e al coma: sono spesso presenti malattie
concomitanti di vario genere e il coma può essere precipitato dalla somministrazione di farmaci
quali diuretici, corticosteroidi e fenitoina.]

LADA (Latent Autoimmune Diabetes in Adults)


In questo tipo di diabete, considerato il quinto tipo (ma potrebbe rientrare nel diabete di tipo 1*),
la distruzione delle cellule β è molto più lenta, per cui si manifesta solo nell’adulto (oltre i 25 anni).
Questi soggetti sono sempre stati identificati come pazienti con diabete di tipo 2, perché la
patologia si sviluppa nell’adulto e per l’assenza di chetoacidosi; tuttavia, non presentano le
caratteristiche del paziente diabetico: non sono obesi e non presentano familiarità. Dunque, in
realtà, si tratta di pazienti con diabete di tipo 1 latente, che si manifesta più tardi, poiché il
meccanismo patogenetico è lo stesso. Sono positivi agli auto-anticorpi anti-GAD65 e sono
caratterizzati da bassi livelli di insulina (ha bisogno di un supporto di insulina significativo) e bassi
valori di peptide C.
*[Dalle Slide: questo tipo di diabete è infatti chiamato diabete di tipo 1 lento oppure diabete di tipo
1.5, poiché le sue caratteristiche sono una via di mezzo tra i due tipi principali di diabete.]

DIABETE GESTAZIONALE
Il quarto e ultimo tipo di diabete è il diabete gestazionale, di rilevanza emergente colpisce il 7%
delle donne in gravidanza. Non ne conosciamo le cause; probabilmente sono legate alle variazioni
endocrine che compaiono durante la gravidanza, ma non sappiamo quale sia esattamente
l’ormone che in qualche modo possa modificare il metabolismo glucidico. Queste donne
sviluppano il diabete dopo qualche mese dall’inizio della gravidanza, il che comporta una
condizione di iperglicemia. [Dalle Slide: il diabete si risolve non molto tempo dopo il parto ma è
probabile che si ripresenti ad una successiva gravidanza; inoltre, dal 30 al 60% delle donne sviluppa
un diabete di tipo 2 nei 10-15 anni successivi]. L’elevata concentrazione di zuccheri viene
trasmessa attraverso la placenta e raggiunge il feto che, dopo una certa fase di sviluppo, è in grado
di produrre insulina. Il feto, dunque, si sviluppa sotto un bombardamento di insulina endogena che
ha un effetto anabolizzante, motivo per cui tutti i neonati nati da madri con diabete gestazionale
sono sovrappeso (feto macrosomico). Questo non solo costituisce un rischio per la gravidanza, ma
i neonati sovrappeso sono sottoposti ad un maggiore rischio di sviluppare un diabete di tipo 2 in
età adulta.

72
TEST DI SCREENING
È importante, quindi, sia per la madre
che per il feto, diagnosticare
precocemente e trattare l’iperglicemia
durante la gravidanza. Il test di
screening deve essere eseguito tra la
24° e la 28° settimana di gestazione,
intervallo in cui si verifica il picco di
incidenza di questa condizione. Si somministrano 50g di glucosio alla futura mamma e si osservano
i risultati entro un’ora:
- Se la glicemia non supera i 140mg/dL la donna non ha sviluppato il diabete;
- Se la glicemia supera i 140mg/dL è necessario procedere con un test diagnostico: si
somministrano 100gr di glucosio e se al primo, al secondo, al terzo prelievo i valori di
glicemia superano quelli riportati in tabella, allora è diagnosticato il diabete in gravidanza e
trattato per evitare le complicanze soprattutto sul feto. Questa donna sicuramente
svilupperà il diabete gestazionale anche durante le gravidanze successive e, allo stesso
tempo, avrà un maggiore rischio di sviluppare un diabete di tipo 2 dopo la gravidanza. Per
questi motivi è importante un attento monitoraggio sia durante che dopo la gravidanza.

PERCHÉ IL DIABETE È UN’EMERGENZA SANITARIA?


Ad oggi, il diabete è un’emergenza sociosanitaria per via delle sue complicanze, per l’impatto che
queste hanno a livello sanitario ma anche socioeconomico. Per complicanze non intendiamo i due
tipi di coma legati al diabete di tipo 1 e 2, ma i danni vascolari che i pazienti diabetici sviluppano
nel tempo. Possiamo distinguere due macrogruppi di condizioni vascolari:
- Microangiopatia diabetica → danno sistemico a carico dei piccoli vasi conseguente ad
iperglicemia persistente, la quale determina un ispessimento della membrana basale che
modifica gli scambi tra il sangue e i tessuti. La localizzazione più frequente è a livello della
retina (retinopatia diabetica) e ciò ha determinato in passato un’elevata percentuale di
cecità nei pazienti diabetici. Potenzialmente tutti i capillari possono essere colpiti, ma quelli
più vulnerabili sono, oltre a quelli della retina, i capillari del sistema nervoso e i capillari
renali con conseguente neuropatia diabetica e nefropatia diabetica (responsabile di
insufficienza renale).

- Macroangiopatia diabetica → interessa i grandi vasi ed è alla base dell’aterosclerosi. I


pazienti con elevata glicemia tenderanno ad alterare le LDL circolanti che, così modificate,
sono in grado di innescare il processo aterosclerotico. In questi pazienti, l’aterosclerosi si
sviluppa più facilmente e crea danni importanti a livello cerebrovascolare, a livello delle
arterie coronarie e dei vasi periferici, con una serie di conseguenze rilevanti (malattia
cerebrovascolare, coronopatia e vasculopatia periferica).
Tutte queste complicanze associate al diabete sicuramente impattano in maniera significativa sulla
salute e sulla mortalità del paziente diabetico, ma anche sulla sfera sanitaria [Dalle slide:
l’aspettativa di vita nei cinquantenni con il diabete diminuisce di 7,5 anni negli uomini e 8,2 nelle
73
donne]. L’impatto sanitario è infatti enorme visto l’elevatissimo numero di pazienti diabetici, tanto
che si stanno facendo i conti della sostenibilità dell’ulteriore aumento del numero di pazienti nei
prossimi anni.

INDAGINI DI LABORATORIO
Le indagini di laboratorio sono fondamentali nel paziente diabetico, innanzitutto per la diagnosi, e
consistono in:
- Glicemia a digiuno e 2 ore dopo il pasto (2hrPPG) → cos tuisce il punto di partenza per la
diagnosi di diabete. Può essere svolto anche dal paziente stesso ogni giorno tramite “digito
puntura”, per mantenere monitorata la glicemia ed eventualmente modificare la terapia;
- Glicosuria → importante per la “diagnosi occasionale” (non mo vata) di diabete. Essendo il
diabete di tipo 2 asintomatico, di conseguenza difficile da diagnosticare, la valutazione del
glucosio è entrata nell’esame delle urine di routine. Dunque, la glicosuria non è un
fondamento per la diagnosi di diabete – per diagnosticare il diabete devo valutare la
glicemia; ma viene sfruttato il fatto che il paziente faccia un esame delle urine per qualsiasi
motivo (viene ospedalizzato o decide di fare una propria valutazione) per valutare
l’eventuale presenza di zucchero nelle urine.
- Insulinemia basale e 2 ore dopo il pasto (2hrPPG) → utile per valutare in che fase del
diabete di tipo 2 si trova il paziente (variazioni della curva insulinica nelle 3 fasi del T2DM).
- Chetonemia e chetonuria → sono cara eris che del diabete di po 1: se nel sangue
periferico o nelle urine sono presenti corpi chetonici vuol dire che la patologia è già in una
fase piuttosto avanzata (accelerato catabolismo dei lipidi).
- Ricerca di auto-anticorpi specifici:
o anti-cellule pancreatiche (ICA: Islet Cell Antibodies);
o anti-insulina (IAA: Insulin Auto Antibodies);
o anti-acido glutammico decarbossilasi (GADA: Glutamic Acid Decarboxylases
Autoantibodies, o anti-GAD65);
o anti-tirosinfosfatasi (IA2);
o anti-ZnT8 → ZnT8 è una proteina di membrana presente nei granuli secretori
contenenti insulina all’interno delle cellule β pancreatiche. Come gli altri bersagli
elencati, è un target della risposta anticorpale che caratterizza il diabete di tipo 1.
N.B. da un lato alcuni pazienti con diabete di tipo 1 non hanno gli anticorpi; dall’altro lato,
ancora più frequentemente, pazienti che hanno altre malattie autoimmuni presentano gli
stessi auto-anticorpi senza avere il diabete. Dunque, è bene conoscere questi indicatori
diagnostici, ma è importante tenere a mente che la loro sensibilità e specificità diagnostica
non è così elevata da poter costituire uno strumento diagnostico certo per il diabete.
 Tipizzazione per gli antigeni HLA → vi sono degli alleli associa al diabete di po 1: ne
esiste uno solo protettivo, mentre quelli che conosciamo maggiormente sono favorenti il
diabete.
 Diagnosi molecolare delle forme genetiche → u lizzato nelle pochissime forme gene che
conosciute, si tratta di una minima percentuale di pazienti che hanno un diabete da causa
nota.
74
N.B. I più importanti indicatori diagnostici sono i primi due, utilizzati nella pratica clinica.
Oltre che per fini diagnostici, le indagini di laboratorio sono fondamentali anche per il
monitoraggio del paziente diabetico, cui sarà sottoposto per il resto della vita, per valutare
l’evoluzione della malattia. Inoltre, è molto importante conoscere i livelli di glicemia ogni qualvolta
il paziente debba auto-somministrarsi l’insulina: esistono device sempre più raffinati che
consentono al paziente di auto-monitorare la propria glicemia. Possiamo definirlo un esame di
laboratorio che è uscito dal laboratorio per permettere al paziente di gestirsi autonomamente, in
accordo con il medico sulla dose di insulina da assumere. Indagini di laboratorio per il
monitoraggio del diabete:

 Glicemia/Glicosuria
 Insulinemia → nei pazien di po 2 ha un andamento cronologicamente associato
all’evoluzione della malattia: molto alto nella fase iniziale, un plateau nella fase intermedia
cui segue una decrescita nella fase finale;
 Peptide C -> utilizzato per la determinazione dell’insulinemia endogena nei pazienti in
trattamento con insulina;
 Emoglobina glicata (HbA1c) → il più importante per il monitoraggio dei pazienti diabetici.
Infatti, per capire se il paziente si sta autogestendo in maniera corretta (compliance del
paziente), la glicemia a digiuno è un valore indicativo solo delle ultime 24h; invece, molto
più significativo è il valore dell’Hb glicata. L’emoglobina è una molecola con emivita di 120
giorni presente all’interno dei globuli rossi, i quali sono talmente dipendenti dallo
zucchero, che possono trasportarlo al loro interno indipendentemente dalla presenza del
recettore GLUT4 (presentano il recettore ubiquitario GLUT1). Questa proprietà è
giustificata dall’assenza dei mitocondri che impedisce loro di compiere la respirazione
cellulare; di conseguenza producono energia solo attraverso la glicolisi anaerobia che,
essendo un processo biochimico molto dispendioso, rende indispensabile l’ingresso libero
di glucosio. Quando il glucosio è molto concentrato nel sangue periferico entra all’interno
degli eritrociti in grandi quantità e lega l’emoglobina.
N.B.: in qualche testo, ma anche in qualche esame di laboratorio, è possibile trovare il
termine emoglobina glicosilata anziché glicata, ma non è del tutto corretto – la
glicosilazione è una reazione che prevede l’intervento di un’enzima e non è questo il caso.
Il vantaggio di questo esame è la possibilità di valutare qual è stata la glicemia media degli
ultimi 30-40 giorni (tecnicamente gli ultimi 60 giorni, la metà di 120 giorni che è l’emivita
dell’Hb).
Tuttavia, in alcuni pazienti questo indicatore può essere mal interpretato, per esempio nei
pazienti anemici. Per cui quando c’è un’alterazione qualitativa e quantitativa dell’Hb,
prevalentemente nelle malattie ematologiche, essendo questo parametro inattendibile, si
ricorre all’albumina glicata. L’albumina è una proteina plasmatica con un’emivita di 12-20
giorni, anch’essa si lega agli zuccheri circolanti quando questi sono molto concentrati.
N.B.: Il valore dell’albumina glicata si utilizza solo in alternativa all’Hb glicata nei pazienti
con emopatie legate ai globuli rossi perché la sua capacità retroattiva è molto minore (15-
20 giorni di emivita a fronte dei 120 dell’Hb). È possibile trovare anche il termine generale
fruttosamine che sta ad indicare un pool di proteine plasmatiche, cui fa parte anche
l’albumina, che legano il glucosio circolante.

75
 Indici di funzionalità renale → non è utilizzato per monitorare il metabolismo glucidico ma
per valutare possibili complicanze come nefropatie o glomerulopatie. Gli indici di
funzionalità renale sono:
o micro-albuminuria;
o BUN (blood urea nitrogen);
o Creatininemia.
 assetto lipidico (colesterolo totale e frazionato, trigliceridi) → è un altro fattore di rischio
importante da monitorare.
[Nota del prof. I dettagli biochimici dell’Hb
glicata sono forniti solo per un eventuale
approfondimento personale. Le slide più
importanti sono: il planetario che rappresenta
come ci aspettiamo che aumenterà nel mondo
l’incidenza del diabete e i goals del trattamento
del paziente diabetico di cui è importante
ricordare i valori]

OBIETTIVI NEL TRATTAMENTO DEL PAZIENTE DIABETICO


Per ridurre in maniera significativa lo sviluppo delle complicanze nel diabete, che non possono
comunque essere completamente eliminate, ci dobbiamo adoperare perché i pazienti diabetici
mantengano due standard di laboratorio, da cui dipende l’incidenza delle complicanze.

 la glicemia a digiuno < 120 mg/dl


 HbA1c < 7%
Questi sono i goals del trattamento del paziente diabetico condivisi dall’OMS.

TEST DI SCREENING PER IL DIABETE


Per far fronte a questa emergenza sociosanitaria, oltre al trattamento dei pazienti diabetici, è
molto importante anche la prevenzione. L'introduzione di uno screening per la diagnosi di diabete
di tipo 2 in soggetti asintomatici viene fortemente incoraggiato dalle seguenti considerazioni:

 Il 50% dei pazienti con diabete sono inconsapevoli della loro malattia. Non hanno valutato
la glicemia e hanno forse sottovalutato la glicosuria, ma sono affetti da diabete e non si
stanno curando.
 studi epidemiologici suggeriscono che, relativamente al diabete di tipo 2, l’intervallo tra
insorgenza e diagnosi della malattia potrebbe essere intorno ai 10 anni. Questo significa
che per circa 10 anni un paziente diabetico non trattato rischia di andare incontro a
complicanze.
 il 50% dei pazienti con diabete di tipo 2 presenta, già al momento della diagnosi, una o più
complicanze specifiche del diabete mellito.

76
 Il costo di questo screening sarebbe bassissimo rispetto ad altri test di screening come
mammografia, pap test, sangue occulto nelle feci o altro;
Sono tre buoni motivi per introdurre il test di screening a minor costo: la glicemia a digiuno,
effettuabile in ospedale mediante un prelievo di sangue periferico. Il suggerimento è di farlo ogni
3 anni nei soggetti di età superiore ai 45 anni, in questo modo il gap medio tra insorgenza e
diagnosi della malattia da 10 anni si ridurrebbe mediamente ad un anno e mezzo e comunque ad
un massimo di 3 anni. Questo ci permetterebbe di diagnosticare precocemente il diabete così da
ridurre non solo il rischio di sviluppare complicanze, ma anche l’impatto economico sul sistema
sanitario nazionale.
[Slide saltata sui fattori di rischio per il diabete di tipo 2:
- familiarità per il diabete (parenti di primo grado affetti da diabete mellito di tipo 2)
- obesità: IBW (ideal body weight) > 120% o MBI (body mass index) > 27kg/ m 2
- appartenenza a popolazioni a rischio: afroamericani, ispano-americani, americani autoctoni,
americani-asiatici, abitanti delle isole del Pacifico
- precedente riscontro di alterata tolleranza al glucosio o alterata glicemia a digiuno
- madri di feti macrosomici (con peso > 4,032 Kg) o con diabete gestazionale
- ipertensione (PA > 140/90)
- colesterolo HDL < 35 mg/dl e/o trigliceridi > 250 mg/dl]

77
CAPITOLO 5: IL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE
DELLE ALTERAZIONI DELL’EQUILIBRIO ACIDO-BASE
EQUILIBRIO ACIDO-BASE
INTRODUZIONE
Lo ione H+ è presente in concentrazione estremamente
minore nell’organismo umano rispetto agli altri ioni (con
l’eccezione di alcuni distretti quali urina e succo gastrico).
Infatti [H+] è compresa tra 35 e 45 nmol/L, se si calcola la
differenza tra le molarità degli altri ioni risulta attorno a
106. Questa sua bassa concentrazione è spiegata dalla
sua alta reattività ed è fondamentale che essa rimanga
costante. Trattandosi di un range ristretto sono necessari
meccanismi omeostatici che hanno la funzione di
garantirne l’omeostasi.
Proprio per la sua bassa concentrazione la sua presenza è espressa con la formula del pH:
pH = –log10 [H+] moli/L
Si definisce pH il logaritmo decimale negativo della concentrazione degli ioni H +.
N.d.s.: A questo punto il Prof si mostra in disaccordo con tale affermazione riportata nei libri di
testo, contestando il fatto che il pH aiuti a rendere l’argomento più semplice. In realtà, secondo
lui, il pH complica l’argomento dell’equilibrio acido-base. Tuttavia, è bene allinearsi alla visione dei
libri di testo, riflettendo però su questo aspetto. Come detto, il pH è stato introdotto perché la
concentrazione di ioni H+ è molto bassa. Tuttavia, abbiamo a disposizione una scala che consente
di esprimere le concentrazioni di un qualunque analita in nanomoli, picomoli, femtomoli.
Leggendo un esame emocromocitometrico, uno degli esami più importanti, si nota infatti come il
volume corpuscolare medio sia espresso in femtolitri, quindi un valore ancora più basso nella
scala. Non sarebbe necessario dunque ricorrere al pH, ma è possibile gestire qualunque
concentrazione in frazioni di peso/volume. Inoltre, il sistema del pH è adimensionale (non sono né
grammi né litri né kg), diversamente da quanto siamo abituati solitamente, in cui si associa ad ogni
valore un’unità di misura. In sintesi, secondo il prof, non solo il pH non è d’aiuto ma può anche
disorientare, è una complicazione di un argomento oltremodo complicato. In aggiunta si tratta di
una scala che segue un ragionamento inverso, considerando che quando la concentrazione di H+
aumenta, il pH diminuisce e quando invece la concentrazione di H+ si riduce, il pH aumenta,
mentre ragionevolmente ci si aspetterebbe che, qualora per esempio la concentrazione di ione
sodio o potassio aumenti, anche il suo pH aumenti. Inoltre, non c’è proporzione tra la
concentrazione di H+ e il pH. [n.d.s a dimostrazione di questo, viene fatto un esempio numerico
non riportato nella slide, confrontando la concentrazione di H+ e il pH corrispondente, dove il
rapporto è sempre logaritmico: la differenza di concentrazione che c’è tra 7,9 e 8 cioè 3 mmol/L,
diventa di 45 mmol/L tra 6,9 e 6,8]. Quindi si tratta di una scala inversa, non proporzionale e
adimensionale.
78
La concentrazione fisiologica di ioni H+ (misurata considerando il sangue arterioso),
corrispondente a 0,00000004 moli/L, viene pertanto espressa con un valore di pH di 7.4, e le due
concentrazioni limite compatibili con la sopravvivenza sono espresse con valori di pH,
rispettivamente, di 6.8 e 7.8.
Le variazioni del pH sono controllate per tre principali motivi:

 la maggior parte degli enzimi necessari ai processi vitali ha


una cinetica di attivazione con massima attività a pH 7,4, che
diminuisce progressivamente con il variare del pH, fino ad
azzerarsi ai limiti estremi di 6,8 e 7,8. Le proteine per
mantenere la loro struttura terziaria (e quaternaria se
formati da più subunità) necessitano di un pH fisiologico;
 molte molecole hanno gruppi tampone che legano gli H+: modificazioni del pH cambiano il
grado di protonazione di tali gruppi, producendo quindi variazioni della loro funzione;
 il pH influenza i flussi transmembrana del potassio e della quota ionizzata del calcio,
intervenendo quindi nella regolazione dell’attività cardiaca e neuromuscolare.

Il sistema tampone ha come funzione primaria il mantenimento dell’intervallo fisiologico del pH.
Una soluzione tampone è solitamente formata da due componenti: una che cede ioni H+ e una
seconda che li sottrae, relativamente un acido e una base. Nell’organismo umano le stesse
molecole che prendono parte a tali sistemi hanno anche altre funzioni, con la conseguenza che un
eccessivo sbilanciamento ionico comporta la perdita di queste ultime.

REGOLAZIONE DEL pH
I meccanismi protettivi che subentrano nel controllo sono fondamentalmente 3:
 ematico (sistemi tampone), max efficienza in 2h;
 respiratorio o polmonare (ventilazione alveolare), max efficienza in 12-24 ore;
 renale (funzionalità renale), max efficienza in 3-4 giorni;
Le loro azioni sono strettamente coordinate ed interdipendenti, essi fanno parte di un unico
sistema integrato e la loro ‘scomposizione’ è da intendersi come artifizio didattico. Questi
meccanismi entrano in funzione con
modalità e tempistiche differenti. È
importante considerare la tempistica di
ogni meccanismo in quanto, per esempio,
in una situazione acuta e iperacuta i
meccanismi renali non si sono ancora
attivati.

SISTEMA EMATICO
È il primo ad intervenire ed è costituito da sistemi tampone [n.d.s: Si definiscono sistemi tampone
quelle sostanze che, in risposta ad un cambiamento dell’acidità dei liquidi causato dall’aggiunta di
un acido o di una base possono, in modo istantaneo, accettare o donare protoni (ioni H +) limitando
in questo modo le variazioni della concentrazione idrogenionica]. Si tratta di soluzioni acido base in
equilibrio, che hanno una limitata capacità di compensare squilibri di [H+]. Le soluzioni tampone
79
più efficaci presenti nel nostro organismo sono costituite da un acido debole e dal suo sale con
una base forte; la costituzione inversa è meno rappresentata, meno frequente.

Si suddividono in due grandi gruppi:


 sistemi tampone “chiusi”, esauribili. Possono essere ulteriormente suddivisi in:
a) processi di tamponamento intracellulare: 1. sistema H-proteina/Na-proteina; 2. sistema
emoglobina ridotta/ossigenata;
b) processi di tamponamento extracellulare: 1. sistema fosfato bisodico/monosodico; 2.
sistema fosfato monopotassico/bipotassico
 sistemi tampone “aperti”, rigenerabili: il principale e quello da prendere maggiormente in
considerazione è il sistema bicarbonato/acido carbonico.

Riferendosi al sistema bicarbonato/acido carbonico:


[H2O] + [CO2]  [H2CO3]  [H+] + [HCO3-]
L’acido debole è l’acido carbonico e la base forte è il bicarbonato. Tre caratteristiche lo rendono
centrale nella regolazione del pH:

1. è presente in quantità maggiore rispetto


agli altri.
Figura come il 65% del totale, a seguire vi
sono le proteine (35%), l’emoglobina e il
fostato (<1%)
2. è il più ubiquitario, presente anche
nell’osso (come è evidenziato nella figura
a fianco)
3. è il solo che può rigenerarsi scambiando le sue componenti con l’esterno. I polmoni
permettono di eliminare la CO2, tramite i reni è possibile variare la [HCO3-]

Per calcolare il pH si utilizza l’equazione di Henderson-Hasselbach. Secondo tale equazione


quando il sistema tampone è costituito da un acido debole e dalla sua base coniugata forte, il pH
dipende dalla costante di dissociazione dell’acido, indicata con pK, dal rapporto tra le
concentrazioni della specie dissociata (cioè della base [A-] che accetta protoni) e di quella
indissociata (cioè dell’acido [AH] che cede protoni).
[𝐴 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐴𝐻]
Questa equazione, quando riferita al sistema tampone bicarbonato/acido carbonico, diventa:
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐻 𝐶𝑂 ]
[continua l’invettiva contro Hasselbach. Il professor Trerè insiste sulla superiorità dell’equazione
pubblicata nel 1908 da Henderson, che indica la concentrazione degli ioni H+ senza conversione
[ ]
logaritmica: [H+] = K x ]
[ ]

80
I passaggi che portano al pH 7,4 che caratterizza il sangue arterioso, sono così individuati:
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐻 𝐶𝑂 ]
si dissocia l’acido carbonico in acqua e anidride carbonica
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐻 𝑂] + [𝐶𝑂 ]
Si elimina l’acqua, sostituendo però pK con pK’, che rappresenta la costante di dissociazione
dell’acido carbonico in acqua alla temperatura di 37°C invece che a 25°C. pK’=800x10 -9mol/L.
pK=pK’ solo a 25°C.
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐶𝑂 ]
considerando la seconda legge di Henry, che afferma che la pressione parziale di un gas disciolto in
una soluzione è direttamente proporzionale alla sua pressione parziale, si sostituisce [CO2] con
αPaCO2, dove PaCO2 è la pressione parziale dell’anidride carbonica e α è la costante di solubilità
della CO2 in acqua (a 37° = 0,031).
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
𝛼𝑃𝑎𝐶𝑂
Inserendo I valori numerici si ottiene:
[24𝑚𝐸𝑞/𝐿]
𝑝𝐻 = 6,1 + 𝑙𝑜𝑔
0,031 𝑥 40 𝑚𝑚𝐻𝑔

che diventa:
𝐩𝐇 = 𝟔, 𝟏 + 𝐥𝐨𝐠 𝟐𝟎 = 6,1 + 1,3 = 7,4
Quando il pH del nostro sangue vale 7,4?
Quando il rapporto bicarbonato/acido carbonico è 20/1. Ponendo il pH uguale a 7,4 e
considerando la costante di dissociazione acida in acqua uguale a 6,1 è possibile determinare le
condizioni necessarie affinché il pH del sangue venga mantenuto costante:
[ ]
=
[ ]

La funzione del tampone è attuata tramite aumento o diminuzione del denominatore oppure del
numeratore (sono sempre da considerare le azioni integrate dei meccanismi ematico, polmonare e
renale).

SISTEMA RESPIRATORIO O POLMONARE


Il polmone, variando la ventilazione alveolare, è in grado di modulare l’eliminazione della CO2. È
un sistema veloce ed efficace, ma non ha come unica funzione il mantenere costante il rapporto
tra ioni bicarbonato e anidride carbonica, inoltre non è possibile superare il limite posto dalla
capacità di lavoro dell’apparato respiratorio. Garantisce l’eliminazione (o la ritenzione) di una
81
certa quantità di CO2, quindi una concentrazione limitata, oltre alla quale si perde la funzione
principale dello scambio gassoso che è il rifornimento di O2. Il compenso respiratorio subentra
nelle alterazioni metaboliche, sia per contrastare l’alcalosi tramite ipoventilazione sia, più
marcatamente, tramite iperventilazione per compensare l’acidosi. Quindi:
 iperventilando si elimina CO2  aumenta pH;
 ipoventilando si trattiene CO2  diminuisce il pH;

SISTEMA RENALE
Il rene, pur intervenendo più lentamente, ha minori limiti funzionali e risulta essere
particolarmente efficace nel compensare variazioni del pH ematico; la funzione renale
nell’equilibrio acido base si attua attraverso tre diversi meccanismi:
 riassorbimento di bicarbonatoneutralizzazione del HCO3- urinario con H+ e sintesi HCO3-
 generazione di bicarbonato ex novo  neutralizzazione del HPO4- urinario con H+ e sintesi
HCO3-;
 escrezione di acidi  sintesi di NH3 e sua neutralizzazione con H+;
1-Riassorbimento di bicarbonato
A livello citoplasmatico è presente l’anidrasi
carbonica che produce acido carbonico
associando CO2 e H2O. Successivamente
dall’acido carbonico si dissociano ioni idrogeno e
ioni bicarbonato. Essi hanno due direzioni
differenti:

- H+ si porta nel lume;


- HCO3- entra nel sangue;
Nel lume tubulare è presente altro bicarbonato, eliminato a livello del glomerulo renale, il quale
funge da accettore di ioni idrogeno. Pertanto, non si tratta in realtà di un processo di
riassorbimento del bicarbonato, quanto di una neutralizzazione del bicarbonato presente nella
preurina e un passaggio di bicarbonato neosintetizzato a livello della cellula tubulare nel sangue.
Quindi la terminologia che si continua a utilizzare non esprime correttamente il reale meccanismo
che avviene. Aumentando o riducendo questo meccanismo si ha un maggiore o minore
riassorbimento di bicarbonato, di conseguenza varia il numeratore dell’equazione di Henderson e
Hasselbach per consentire di mantenere il rapporto [HCO3/CO2] = 20/1. Il limite di questo
compenso è la quantità di H+ che può passare nel lume tubulare, che è una conseguenza della
concentrazione di ioni bicarbonato presenti nel lume stesso la cui funzione è legare ioni idrogeno.

2-Generazione ex novo di bicarbonato


Il limite del meccanismo prima descritto è
superato sostituendo l’accettore di cariche
positive nel tubulo renale. Il nuovo ione che
si associa con H+ e ne permette l’escrezione
è HPO4-. La presenza di fosfati nelle urine
82
permette di misurarne l’acidità tramite titolazione (quantità di basi aggiunte per portare il pH delle
urine equivalente a quello del sangue). Il sistema smette di funzionare quando non ci sono più ioni
negativi nella preurina.

3-Escrezione di acidi
I meccanismi di compenso avvengono secondo
una precisa sequela: la parte più prossimale del
tubulo renale attiva la prima parte del compenso,
la parte più distale la seconda parte del compenso
e infine la parte più distale ancora del tubulo è
priva di ioni negativi nella preurina. A quel punto
si automantiene nella cellula tubulare
catabolizzando gli amminoacidi come la
glutammina, con produzione di NH3 e acido α-chetoglutarico. L’ammoniaca è un accettore di H+ e
permette di conseguenza il continuo riassorbimento di bicarbonato. L’associazione tra idrogeno e
NH3 forma lo ione ammonio che viene escreto assieme al cloruro. Il sistema va avanti fino a
quando gli amminoacidi non potranno essere più catabolizzati.

ACIDOSI E ALCALOSI METABOLICHE E RESPIRATORIE


Sono condizioni raggiunte dall’organismo quando l’azione dei sistemi prima elencati si rivela
insufficiente:
 L’acidosi è un disturbo che tende ad aggiungere acidi o rimuovere alcali dall’organismo,
provocando la diminuzione del pH;
 L’alcalosi è un disturbo che rimuove acidi o aggiunge alcali, provocando l’aumento del pH;
Quando queste alterazioni comportano una variazione del pH nel sangue si avrà uno stato di
acidemia (pH<7,36) o di alcalemia (pH>7,44). Se il disturbo è respiratorio deriva da una primitiva
variazione a carico dell’anidride carbonica (CO2), se viene indicato come metabolico l’alterazione
è caratterizzata da una primitiva variazione nella concentrazione di bicarbonati.

ACIDOSI RESPIRATORIA
L’acidosi respiratoria è provocata da un aumento di
anidride carbonica nel sangue arterioso (ipercapnia)
conseguente ad una riduzione della ventilazione alveolare.
Le cause sono molteplici, possono derivare da una
ostruzione delle vie respiratorie, disordini degli scambi
gassosi (come nel caso di una fibrosi polmonare) oppure
può essere implicato il SN (nel caso di assunzione di barbiturici). Considerando il rapporto
nell’equazione di Henderson-Hasselbach il denominatore aumenta portando ad una diminuzione
del pH.

83
Per quanto riguarda l’aspetto laboratoristico dell’acidosi respiratoria:
Nel sangue arterioso si presenta con:
 pH< 7,36 (o normale);
 pressione parziale dell’anidride carbonica aumentata, PaCO2 >42mmHg;
 bicarbonati aumentati (>25 mEq/L): ad ogni aumento di 10 mmHg della PaCO2 (alterazione
primaria) l’aumento di bicarbonati è in acuto di 1 mEq/L e in cronico di 3-4 mEq/L (questo
poiché il rene impiega molto tempo per compensare: all’inizio infatti la sua azione sarà
ridotta, solo dopo 3-5 giorni riuscirà a raggiungere quei 3-4 mEq/L che corrispondono al
massimo del compenso); l’aumento del bicarbonato ha lo scopo di cercare di mantenere
costante il rapporto nell’equazione di Henderson-Hasselbach (20:1);
 frequente iperkaliemia causata da un aumento di H+, prima nel sangue poi nel fluido
interstiziale; questo aumento causa l’ingresso dello ione H+ nella cellula (dove la sua
concentrazione è bassa). Quindi, per mantenere l’equilibrio elettrico il potassio esce dalla
cellula. L’iperkaliemia può, a sua volta, causare delle alterazioni per esempio della
funzionalità cardiaca, che è quindi un effetto collaterale intrinsicamente legato all’acidosi;
Nelle urine:
 Il pH è acido perché si cerca di eliminare acidi;
 la concentrazione di bicarbonato diminuisce;
 acidità titolabile aumentata;
 eliminazione di NH4Cl aumentata;
Attualmente l’esame delle urine non considera più la
titolazione ma viene misurato solo il pH.

ALCALOSI RESPIRATORIA
L’alcalosi respiratoria è dovuta ad una diminuzione del pH,
causata da una diminuzione di anidride carbonica nel
sangue arterioso (ipocapnia) conseguente ad un aumento
della ventilazione alveolare. Due cause molto diffuse di
iperventilazione sono l’ipertermia e il dolore, l’eziologia è comunque piuttosto varia. Il
denominatore è sempre protagonista delle alterazioni respiratorie. Il meccanismo di compenso
comporta una escrezione di ioni bicarbonato, a carico del sistema renale che interrompe quindi i
tre meccanismi di riassorbimento. Laboratoristicamente l’alcalosi respiratoria si caratterizza:
Nel sangue arterioso:
 pH aumentato (> 7,44) o normale;
 PaCO2 diminuita (< 38 mmHg);
 bicarbonati ridotti (< 23 mEq/L) a seconda del compenso: ad ogni riduzione di 10 mmHg
della PaCO2 la riduzione di bicarbonati è in acuto di 2 mEq/L e in cronico di 5 mEq/L;
 frequente ipokaliemia (ioni H+ in uscita dalla cellula che causano l’ingresso di potassio);
Nelle urine:
 il pH si presenta alcalino;
 bicarbonati aumentati;
 acidità titolabile diminuita;
 eliminazione di NH4Cl diminuita;

84
ACIDOSI METABOLICA
L’acidosi metabolica è caratterizzata da una riduzione del
pH conseguente ad una riduzione della concentrazione
ematica di bicarbonati. Per quanto riguardo le alterazioni
metaboliche del pH è il numeratore a variare. Un paziente
che presenta questo tipo di acidosi, per compensare,
iperventila eliminando CO2; infine subentra anche il sistema renale, tramite il riassorbimento di
bicarbonato (possibile se la causa dell’acidosi non è renale). Il compenso è quindi doppio: è
sempre polmonare e, se ci sono le condizioni, anche renale.
Laboratoristicamente l’acidosi metabolica si caratterizza:
Nel sangue arterioso:
 pH diminuito (< 7,36) o normale;
 PaCO2 diminuita (< 38 mmHg) a seconda del compenso: ad ogni riduzione dei bicarbonati
di 1 mEq corrisponde una riduzione della PaCO2 di 1,2 mmHg;
 bicarbonati diminuiti (< 23 mEq/L);
 frequente iperkaliemia (vd. sopra);
Nelle urine:
 pH acido;
 bicarbonati diminuiti;
 acidità titolabile aumentata;
 eliminazione di NH4Cl aumentata;

ALCALOSI METABOLICA
L’alcalosi metabolica è caratterizzata da un aumento del
pH conseguente ad un aumento della concentrazione
ematica dei bicarbonati. Per compensare si ha
ipoventilazione, consentendo di trattenere anidride
carbonica. Il rene contribuisce a diminurire la
concentrazione di ioni bicarbonato, sempre che non sia il
primo responsabile dell’alcalosi.
Laboratoristicamente l’alcalosi metabolica si caratterizza:
Nel sangue arterioso:
 pH aumentato (> 7,44) o normale;
 PaCO2 normale o aumentata (> 42 mmHg) a seconda del compenso: ad ogni aumento dei
bicarbonati di 1 mEq corrisponde un aumento della PaCO2 di 0,5 – 0,7 mmHg;
 bicarbonati aumentati (> 25 mEq/L);
 frequente ipokaliemia (vd. sopra);
Nelle urine:
 pH alcalino;
 bicarbonati aumentati;
 acidità titolabile diminuita;
 eliminazione di NH4Cl diminuita;
85
EMOGASANALISI (EGA)
L’indagine di laboratorio utilizzata per l’approccio diagnostico ai disturbi dell’equilibrio acido-base
è l’emogasanalisi o EGA. L’EGA si esegue su un prelievo di sangue arterioso, solitamente
dall’arteria radiale, con inclinazione dell’ago a 30°, ponendo la mano del paziente in lieve
dorsiflessione.
In alternativa si possono utilizzare l’arteria femorale o l’arteria brachiale: la prima è profonda,
quindi meno facilmente accessibile e comprimibile, però il prelievo risulta meno doloroso per il
paziente, la seconda è invece più accessibile ma il prelievo risulta molto più doloroso per il
paziente. Il campione deve essere analizzato immediatamente per evitare gli effetti del
metabolismo delle cellule presenti in provetta, in grado di alterare il pH, fornendo poi risultati non
veritieri.
Nonostante sia possibile raffreddare in ghiaccio il campione rendendo il risultato attendibile anche
dopo 30-60 minuti dal momento del prelievo, l’emogasanalisi è considerata incompatibile con i
tempi dei laboratori tradizionali, pertanto si utilizzano degli emogasanalizzatori portatili che
forniscono il risultato immediatamente dopo aver utilizzato una goccia di sangue. L’output della
macchina ha la stessa consistenza degli scontrini fiscali e, come tale, si scolorisce con il tempo, è
quindi importante fare una fotocopia del risultato.
Gli output riporteranno:
 valori misurati (tre, ma i più importanti sono pH e CO2);
 valori di riferimento (e non “valori normali” come indicato);
 valori calcolati (il terzo, ossia HCO3).
I dati ricavabili attraverso l’emogasanalisi sono molti, tuttavia l’attenzione verrà rivolta su pH,
PaCO2 e bicarbonato. Il pH e la PaCO2 sono misurabili direttamente attraverso lo strumento (che
misura anche la pO2, utile per studiare la ventilazione polmonare), mentre il bicarbonato è
calcolabile attraverso l’equazione di Henderson-Hasselbach. La scelta di calcolare alcuni parametri
è volta a risparmiare: sono stati scelti da calcolare valori o poco attendibili o molto costosi da
misurare. Dei tre valori che ci interessano (pH, paCO₂, bicarbonato) quindi ne devo misurare solo
due, poi calcolo il terzo.

Come si interpreta un’emogasanalisi?


1. Partendo dal pH, che permette di capire in maniera
immediata se il paziente abbia un’acidosi o un’alcalosi;
2. Per distinguere se l’acidosi o l’alcalosi siano metaboliche
o respiratorie bisogna poi osservare la PaCO2:
a) Nei casi di acidosi:
i) Una PaCO2 aumentata è indice di acidosi
respiratoria;
ii) Una PaCO2 ridotta è indice di acidosi
metabolica;
b) Nei casi di alcalosi:
i) Una PaCO2 ridotta è indice di alcalosi respiratoria;
ii) Una PaCO2 aumentata è indice di alcalosi metabolica;
È utile guardare come primi valori nel referto di un’EGA, il pH e la PaCO2: se le frecce
dell’andamento dei due valori vanno nello stesso verso, allora l’eziologia è sempre metabolica,

86
mentre se hanno verso opposto l’alterazione è sempre respiratoria. Non esiste in questi casi una
combinazione che corrisponda a un’altra, pertanto la diagnosi è certa. L’importanza del
determinare la presenza di un’acidosi o alcalosi, metabolica o respiratoria, permette di capire se il
paziente ha un disturbo semplice o più complesso. Se, infatti, individuo una delle precedenti
condizioni e il meccanismo compensatorio si bilancia numericamente, allora si tratterà di un
quadro semplice; ma se la compensazione non si verifica, sarà un quadro di mancata attivazione
dei meccanismi compensatori (condizione rara), caratterizzato da un’alterazione complessa e dalla
presenza di più disturbi contemporaneamente.
[Dalle slide: In patologia umana è difficile la presenza di “disordini semplici” in quanto spesso vi è
compromissione e/o co-interessamento di più organi (ad esempio scompenso cardiaco in un
paziente con broncopneumopatia cronica e/o insufficienza renale e/o perdita di liquidi per diarrea
o vomito): in tali condizioni ci si trova di fronte a quelli che vengono definiti “disordini complessi” o
“misti”. Nei disordini misti dell’equilibrio acido base il compenso atteso non è rispettato]

APPLICAZIONI DELLA TEROIA A CASI CLINICI


Primo caso clinico
Una signora di 33 anni si presenta in PS
per dispnea insorta da alcuni giorni.
Descrive un senso di “fame d’aria”, come
se non riuscisse a far entrare l’aria nel
polmone. L’anamnesi patologica è
negativa. Gli ultimi esami sono stati
effettuati due mesi prima, in occasione
del parto, senza problemi o complicanze.
Esame obbiettivo: non presenta febbre,
non ha tosse, non ha dolore toracico.
Una dispnea potrebbe essere associata a
una patologia polmonare, in questo caso

87
da escludere, data l’assenza di tosse, febbre e dolore toracico. La PA è di 120/80 mmHg, la FC è di
85 bpm.
Il professore suggerisce che possa trattarsi di una forma psicotica, di depressione associata al
parto, quindi una condizione emotiva, di ansia. Se, quindi, fosse un’iperventilazione reattiva, la
situazione riconducibile a essa sarebbe di acidosi metabolica e la paziente iperventila proprio
perché sta compensando tale l’acidosi.
Quello che viene notato primariamente non è l’alterazione primaria, bensì il meccanismo
compensatorio: la PaCO2 si modifica perché sta compensando un’alterazione metabolica, che a
seguito di opportuni esami di approfondimento, appare essere diabete, non gestazionale, ma
insorto dopo la gravidanza. Si tratta di un disturbo semplice.
Secondo caso clinico
Una signora di 73 anni si presenta i PS per
trauma contusivo, verificatosi su un autobus
di linea durante una brusca frenata.
Dall’anamnesi patologica remota risulta che
la paziente è cardiopatica e in trattamento
con beta-bloccanti, ACE inibitori e diuretici.
Riferisce di avere aumentato di sua
iniziativa il dosaggio di diuretici, per la
comparsa di edemi declivi.
Esame obiettivo: lamenta astenia,
faticabilità, appare disidratata, con labbra
secche e cute anelastica. È ipotesa (PA
95/65), tachicardica (FCM 98 battiti/minuto: VN 60-80) e bradipnoica (FR 10 atti/minuto: VN 12-
15). Il diuretico comporta l’eliminazione di una grande quantità di liquidi, pertanto l’organismo
compensa questa disidratazione recuperando acqua, per reidratarsi. Quindi il rene riassorbe sodio,
che richiama acqua. Il sodio, però, per essere riassorbito deve scambiarsi con uno ione positivo,
tra cui anche lo ione H+. Si avrà dunque fuoriuscita di ioni H+ ed eliminazione di tale ione con le
urine. Il paziente va, quindi, in alcalosi metabolica. Effettuando un’EGA la diagnosi di alcalosi
metabolica è molto semplice e rapida, permettendo di confermare l’ipotesi avanzata
precedentemente. A questo punto bisogna valutare il compenso: ad ogni aumento del
bicarbonato di 1mEq/L, corrisponde un aumento della PaCO2 di 0,5-0,7 mmHg. La bicarbonatemia
è aumentata di 31,6-24= 7,6 mmol/L. Moltiplicando 7,6x0,7 si ottiene 5,32 mmHg che rappresenta
l’aumento di PaCO2. Avendo l’EGA confermato questo aumento si tratta di un disturbo semplice in
quanto non ci sono altre alterazioni. Si dovrà quindi valutare la terapia, diversa dalla precedente,
che è stata la causa dello scompenso metabolico.
Terzo caso clinico
Un signore di 42 anni si presenta in PS per persistenza di iperpiressia da tre giorni, associata a
disturbi urinari (stranguria e pollachiuria), dolenzia in regione lombare destra e diarrea. La
stranguria è la minzione dolorosa: il paziente sente dolore durante la parte finale della minzione.
La pollachiuria, invece, è una minzione frequente. Queste due condizioni, si associano ad infezioni
delle vie urinarie. L’emocromo rivela infatti una leucocitosi neutrofila (18.800 bianchi/μL con l’85%
di neutrofili) e l’esame delle urine un pH di 7.12 con proteinuria, leucocituria ed ematuria.

88
Esame obiettivo: temperatura ascellare di
39,50°C (alta e che persiste da tre giorni), PA:
110/65 (ipoteso), FC: 112 bpm (tachicardico).
Il quadro clinico complessivo conferma
l’ipotesi di un’iperpiressia importante. Si
aggiunge anche polipnea (20 atti/minuto, VN
(valore normale): 12-15), reazione alla
febbre, che come questa, perdura da tre
giorni (è da tre giorni che il paziente sta
iperventilando).
Valutando la situazione da un punto di vista
emogasanalitico, l’alterazione che ci si
aspetta di trovare in un paziente con iperventilazione conseguente ad un contatto infettivo è di
un’alcalosi respiratoria.
Valutando il compenso (ad ogni diminuzione di 10mmHg della PaCO2 corrisponde una
diminuzione dei bicarbonati di 2mEq in acuto e di 4-5 mEq in cronico) si controlla se
effettivamente i bicarbonati sono diminuiti. Ad ogni riduzione della PaCO2, perché il paziente
iperventila, dovrebbe corrispondere una riduzione dei bicarbonati.
Se i bicarbonati non sono diminuiti, è inutile fare i calcoli, perché sicuramente non torneranno. Se,
invece i bicarbonati sono diminuiti, allora è giusto verificare che siano diminuiti correttamente.
In questo caso i bicarbonati non sono diminuiti, per cui non ha senso fare calcoli. Il compenso
atteso non è verificato. Si tratta di un’alterazione complessa, quindi sono presenti più disturbi
contemporaneamente. Si esclude un’acidosi respiratoria, unica condizione incompatibile, perché
un paziente non può iperventilare e ipoventilare nello stesso momento. Osservando l’EGA,
l’alterazione aggiuntiva sembra essere un’alcalosi, perché il paziente ha più bicarbonati di quelli
che mi aspetto. Se l’alcalosi respiratoria è già diagnosticata, allora rimarrà quella metabolica.
Molto probabilmente il paziente si è disidratato: un paziente che sta a casa per tre giorni, con
febbre è ragionevole pensare si sia potuto disidratare. È un’associazione molto frequente quella
tra alcalosi respiratoria da iperventilazione ed alcalosi metabolica da disidratazione.
Quarto caso clinico
Un signore di 81 anni, si presenta al PS per
febbre che dura da 3-4 giorni, non
risponde a FANS, ha tosse e dispnea
ingravescente (acuta). All’anamnesi
patologica remota riferisce una BPCO
enfisematosa: l’RX del torace evidenzia
proprio un marcato quadro di BPCO con
verosimili bronchiectasie e segni di
ipoventilazione destra. Ci si aspetta di
riscontrare un’acidosi respiratoria, dovuta
alla broncopneumopatia che si è
cronicizzata. Ad ogni aumento di
10mmHg della paCO2 corrisponde un

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aumento dei bicarbonati di 1mEq nell’acuto e di 3- 4mEq nel cronico. I bicarbonati sono invece
diminuiti: è presente, dunque, una seconda alterazione, che deve essere sicuramente metabolica.
Si tratta, infatti, di un’acidosi metabolica.

Il professore consiglia di eseguire quasi sempre un’EGA, per indirizzare la diagnosi e aiutare nella
comprensione del quadro clinico, anche in reparti in cui l’attenzione è concentrata su altri aspetti.

90
CAPITOLO 6: ESAMI DI PRIMO LIVELLO PER LO
STUDIO DELLA FUNZIONALITA’ EPATICA

RUOLO DEL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE


DELLA FUNZIONALITA’ EPATICA
Il fegato rappresenta l’organo più importante del nostro organismo dal punto di vista metabolico.
Il prof consiglia di pensare sempre al fegato se non si sa dove avviene una certa reazione, poiché si
ha il 95% di probabilità che sia la risposta corretta. Il fegato ha un ruolo fondamentale nella
gestione di tutte le vie metaboliche del nostro organismo: metabolismo lipidico, proteico,
glucidico. È fondamentale anche perché detossifica molte sostanze e le elimina con le urine quindi
le trasforma, le produce, le elimina ed è un grande organo di deposito. Quindi, il fegato ha tutte le
funzioni che si potrebbero attribuire a un organo: regolazione, deposito, detossificazione ed
escrezione.
Prove evidenti della sua importanza metabolica derivano dalle seguenti considerazioni, in cui si
considerano numeri grossolani ma che fanno capire l’entità del lavoro che il fegato
quotidianamente compie per mantenere l’omeostasi metabolica:

 Il fegato pur essendo l’organo solido più grande del corpo umano corrisponde al massimo
al 2% del peso corporeo, quindi ha un peso che va da 1000 a 1500 grammi.
 A fronte però di questa percentuale, bisogna tener conto che il fegato riceve il 28% della
gittata cardiaca, ed è quindi l’organo che riceve la maggior quantità di sangue. Ogni minuto
1,5 L di sangue passa dal fegato, il che significa che ogni tre minuti tutto il sangue
dell’organismo passa attraverso il fegato e che nell’arco della giornata il fegato processa
2000 litri di sangue. Ciò è la misura più evidente del ruolo metabolico fondamentale che ha
quest’organo.

PRINCIPALI FUNZIONI SVOLTE DAL FEGATO


Il fegato svolge funzioni sia in senso anabolizzante che catabolizzante: produce e distrugge
proteine, lipidi, glucidi a seconda dell’entità del nostro organismo. Ha un ruolo fondamentale nel
metabolismo degli ormoni steroidei. Produce la bilirubina, i sali biliari, sintetizza l’urea, forma
l’acido urico e funge da deposito per le sostanze fondamentali dell’organismo.
Il fegato offre quindi un grande vantaggio al patologo clinico, poiché fa un’infinità di cose, che
possono tutte essere utilizzate per valutarne la funzionalità: sintetizza un certo numero di
sostanze, la cui riduzione nel sangue periferico diventa un indice di funzionalità epatica; allo stesso
modo il fegato elimina dall’organismo altre sostanze, il cui aumento nel sangue periferico diventa
un indice di funzionalità epatica.

91
Non c’è nessun altro organo che ha garantito una disponibilità così imponente di esami che
possono essere usati nella pratica clinica. A fronte di questo grande vantaggio è stato necessario
fare un lavoro di selezione per due motivi principali:

 motivo economico: l’appropriatezza diagnostica e la razionalizzazione delle spese sono


molto importanti, più di quanto lo fossero in passato, quando non c’erano limiti alle spese.
 motivo razionale: poiché la diagnosi viene fatta da una mente umana, gestire una
molteplicità di variabili può diventare confondente, in quanto l’uomo ragiona meglio in
presenza di poche variabili affidabili (a differenza di un computer, che lavora molto meglio
su più variabili). Le cose cambieranno e stanno cambiando con la progressione
dell’intelligenza artificiale, che sta assumendo un ruolo fondamentale anche dal punto di
vista diagnostico.
[Esempio delle previsioni meteo: oggi sono molto più precise perché vengono fatte da calcatori
sulla base di una molteplicità di informazioni. Più informazioni essi ricevono, meglio riescono a
predire il meteo della giornata. Potrebbe succedere lo stesso con la diagnosi.]
Per questi due motivi è stato quindi necessario selezionare quelli che sono diventati gli indici di
funzionalità epatica condivisi a livello internazionale, poiché non è possibile prescrivere 148 esami
di laboratorio. Quindi nel corso degli anni è avvenuto un lavoro di selezione accurata, che a partire
da centinaia di esami di laboratorio, ne ha selezioni quattro.
Un accordo internazionale considera come indici di primo livello per la valutazione della
funzionalità epatica:

 bilirubina totale e frazionata;


 enzimi sierici - indicatori di danno epatocellulare e di colestasi;
 proteine sieriche;
 fattori della coagulazione.
N.d.S. Gli ultimi due li abbiamo già trattati, ci soffermeremo sui primi due.
92
“Di primo livello” significa che tali esami vengono svolti tutti e quattro contemporaneamente,
indipendentemente dal motivo per il quale si sta visitando il paziente: sia se si ha la certezza di una
malattia epatica da monitorare nel tempo, sia se si ha il sospetto di una malattia epatica, occorre
prescriverli tutti e quattro, attendere il risultato e iniziare a ragionare.
Dopo il primo livello vi sarà il secondo livello, che non per forza sarà di laboratorio, ma potrebbe
essere la diagnostica per immagine (es. un’ecografia).

BILIRUBINA
La bilirubina è il prodotto del catabolismo dell’eme; la produzione giornaliera di bilirubina (250-
350 mg) deriva soprattutto dalla distruzione dei globuli rossi (80-85%); in minor parte dalla
eritroblastolisi (15-20%), detta anche eritropoiesi inefficace (ovvero distruzione dei precursori dei
globuli rossi che vengono dal midollo; è fisiologica e limitata, però anche da qui si produce eme)
oppure dal catabolismo delle proteine contenenti eme (come mioglobina, citocromi e catalasi),
che sono una minima parte.
Il metabolismo della bilirubina parte dai globuli rossi, che vengono prodotti dal midollo osseo,
vivono 120 giorni, poi si sclerotizzano, ovvero perdono la flessibilità che consente loro di
attraversare i sinusoidi. Una volta sclerotizzati, vengono riconosciuti dalle cellule del sistema
reticolo endoteliale, che sono macrofagi espressi prevalentemente a livello della milza, ma che si
trovano in tutti i tessuti. Pertanto, in tutti i tessuti si possono identificare e distruggere globuli
rossi. Una volta fagocitato, il globulo rosso viene smembrato, si stacca l’eme dalla globina. La
globina è formata da catene di amminoacidi che vengono riciclati oppure catabolizzati. Dell’eme
si apre l’anello tetra-pirrolico e si preleva il ferro che viene riutilizzato, viene affidato alla
transferrina che lo riporta al midollo per fare nuovi globuli rossi o, se in quel momento non c’è
necessità, il ferro viene depositato nei tessuti di deposito. Rimane il resto dell’eme, che viene
catabolizzato con delle ossigenasi e biliverdina reduttasi, enzimi che trasformano l’eme in
bilirubina.
La bilirubina, essendo liposolubile e quindi potenzialmente tossica, viene trasferita dalle cellule del
sistema reticolo endoteliale al fegato attraverso un carrier: quello più utilizzato è l’albumina. Il
complesso bilirubina-albumina giunge al fegato da tutti i distretti dell’organismo. Qui l’albumina
cede la bilirubina a due proteine importanti: proteina Z e ligandina, che hanno la funzione di
trattenere all’interno dell’epatocita la bilirubina, che fisiologicamente non può più uscire, se non in
condizioni patologiche. All’interno dell’epatocita avviene la coniugazione con l’acido glucuronico,
grazie all’azione dell’enzima difosfato-glucuronil transferasi (UGT), reazione importante perché
trasforma la bilirubina da insolubile a solubile. In questa forma la bilirubina può essere eliminata
con la bile (poiché si tratta di un prodotto di scarto e il fegato ha il compito di trasformarla e di
eliminarla). [Dalle slide: La bilirubina coniugata viene secreta dagli epatociti nei canalicoli biliari
attraverso un processo ATP-dipendente mediato da un trasportatore multispecifico di anioni
organici chiamato MRP2 (multidrug resistance-associated protein 2)]. Nell’intestino la bilirubina
arriva contenuta all’interno della bile. Qui avvengono diverse reazioni: innanzitutto la bilirubina
viene degradata (deconiugata e ridotta) e trasformata in urobilinogeno, prodotto incolore e
idrosolubile. [Il professore sottolinea di prestare attenzione al fatto che bilirubina e urobilinogeno
sono molecole diverse: l’urobilinogeno deriva dalla trasformazione intestinale della bilirubina].

93
METABOLISMO DELL’UROBILINOGENO
L’urobilinogeno ha 3 diversi destini metabolici:
1. il 99,9% dell’urobilinogeno viene ossidato a stercobilina e urobilina ed eliminato con le
feci, determinandone il colore scuro (senza urobilinogeno le feci sono di colore cretaceo)
questo significa che ci limitiamo a osservare il colore delle feci. Le feci poco colorate
(con poco urobilinogeno) sono dette feci ipocoliche. Le feci del tutto decolorate (assenza
di urobilinogeno) sono dette feci acoliche.
2. una parte di urobilinogeno viene riassorbita a livello intestinale  non c’è nessuna utilità
in questo, ma semplicemente si tratta di una quota di urobilinogeno che si fa trascinare
dall’assorbimento di tutte le altre sostanze presenti nell’intestino. Tale riassorbimento è
talmente inutile che l’urobilinogeno riassorbito, attraverso il circolo portale, torna al
fegato, il quale incapsula urobilinogeno, lo coniuga e lo elimina nuovamente. Si parla di
circolo entero-epatico dell’urobilinogeno.
3. Una piccola quota dell’urobilinogeno che viene riassorbito salta il filtro epatico. Esistono
circoli collaterali che fanno sì che non il 100% del sangue venga filtrato dal fegato. Una
piccola quota di sangue, che contiene urobilinogeno, lo salta entrando in circolo.
L’urobilinogeno è una piccola molecola che arrivata al rene viene filtrata ed eliminata con
le urine  ciò che scappa al fegato viene compensato dal rene. È dunque normale
ritrovare tracce (ridotta quantità) di urobilinogeno nelle urine.

PRIMO INDICE DI FUNZIONALITA’ EPATICA: DETERMINAZIONE DELLA BILIRUBINA


DIRETTA E FRAZIONATA
Da un punto di vista laboratoristico, viene dosata la bilirubina totale e due tipi di bilirubina, che
vengono refertati come bilirubina diretta e indiretta, termini che derivano dalla tecnica di
laboratorio.
La bilirubina coniugata con l’acido glucuronico, che è idrosolubile, reagisce direttamente con il
reattivo utilizzato in laboratorio, lo ione diazonio dell’acido solfanilico, detto anche diazoreattivo
di Erlich (si parla di reazione di Van Der Bergh, dal medico olandese che l’ha messa a punto).
Mettendo a contatto la bilirubina coniugata con questo reattivo la reazione avviene direttamente,
producendo un prodotto colorato, di cui viene valutata l’intensità della reazione determinando la
bilirubina diretta.
La bilirubina indiretta non agisce direttamente con questo reattivo, ma ha bisogno di essere
solubilizzata con alcoli o altri solventi. Si chiama indiretta perché reagisce solo dopo che viene
trasformata.
È molto più intuitivo parlare di bilirubina coniugata e non coniugata, piuttosto che diretta e
indiretta. Quindi:

 bilirubina diretta  coniugata con acido glucuronico


 bilirubina indiretta  non coniugata con acido glucuronico.
L’unica bilirubina presente nel sangue periferico di un soggetto in buono stato di salute (il prof
raccomanda di usare questa espressione e non “normale”) è la bilirubina indiretta, poiché la
diretta si trova solo nell’intestino).
In condizioni fisiologiche, la bilirubina che si dosa nel sangue periferico è tutta nella forma
indiretta, ovvero è la bilirubina legata all’albumina che si sta dirigendo dai tessuti periferici al
94
fegato. Mentre la bilirubina diretta la dosiamo perché aumenta in condizioni patologiche, in
condizioni fisiologiche non c’è motivo di trovarla se non in tracce. Il valore di riferimento della
bilirubina, che non deve superare in condizioni fisiologiche, è 1 mg/dL.
[Dalle slide: Nella pratica di laboratorio non è possibile determinare la sola bilirubina indiretta;
pertanto, si determina prima la bilirubinemia diretta, poi si rende solubile la bilirubina libera e si
determina la bilirubina totale, ed infine si calcola la bilirubina indiretta per sottrazione]

ITTERO
Ittero è un termine clinico: si tratta dell’acquisizione di un colorito giallastro prima delle sclere
(che si colorano prima nella parte periferica, quindi può essere utile invitare il paziente a guardare
verso l’alto), poi della cute e delle mucose, conseguente a un eccesso di bilirubina. Quindi il
termine ittero si utilizza per l’esame obiettivo. In laboratorio si parla di ittero da iperbilirubinemia,
ovvero aumento dei valori di bilirubinemia.
Le manifestazioni cliniche iniziano a vedersi quando i valori di bilirubina superano i 2,5 mg/dL, ma
si parla di iperbilirubinemia già oltre 1 mg/dL (quindi già a 1,2 mg/dL).
La classificazione di laboratorio degli itteri li divide in base al rapporto tra i 2 tipi di bilirubina:
 itteri da iperbilirubinemia prevalentemente non coniugata - la bilirubina è tutta indiretta
[n.d.s.: nelle slide dice che dev’essere almeno per l’85% non coniugata, da cui il nome] 
stessa condizione che si ha in buono stato di salute, ma i valori sono più alti;
 itteri da iperbilirubinemia combinata- la bilirubina è sia diretta che indiretta e quella
diretta supera il 50% (forma che normalmente non è presente).
Gli itteri da iperbilirubinemia prevalentemente non coniugata sono ulteriormente suddivisi in:
 Itteri da iperproduzione di bilirubina abbiamo a che fare con malattie ematologiche. È un
errore attribuire sempre e solo al fegato la causa di un ittero. Il fegato ne è
frequentemente responsabile, ma non è l’unico. In questi casi la bilirubina aumenta perché
c’è un’esagerata distruzione di globuli rossi: vi è una malattia ematologica che determina
emolisi (globuli rossi distrutti in circolo) o addirittura una eritroblastolisi, detta anche
eritropoiesi inefficace (vengono distrutti i precursori dei globuli rossi). [Dalle slide: un’altra
causa di questo tipo di ittero è la degradazione dell’eme in raccolte extra-vascolari di
eritrociti]. In tutte queste malattie si distruggono globuli rossi, vi è più prodotto di scarto, vi
è più bilirubina che dagli organi periferici arriva al fegato. Tale forma di ittero non è grave (i
valori di bilirubina non superano quasi mai i 4-5 mg/dL), però è abbastanza frequente.
[Dalle slide: Emolisi La produzione di eritrociti da parte del midollo in seguito ad emolisi può
aumentare al massimo fino ad 8 volte; pertanto, l’emolisi da sola non produce mai valori di
bilirubinemia superiori a 4-5 mg/dl. Nei casi di emolisi protratta si possono formare calcoli
costituiti da sali di bilirubina nella colecisti o nelle vie biliari. Le anemie emolitiche che più
spesso provocano questa forma di ittero sono la sferocitosi ereditaria, l’anemia falciforme e
l’anemia da deficit enzimatici (G6PD).
Eritropoiesi inefficaceAlcune anemie (principalmente la talassemia major e le anemie
francamente megaloblastiche) sono caratterizzate da un significativo aumento dell’eritropoiesi
inefficace, che può arrivare a produrre fino al 70% della bilirubina totale; anche in questi casi
l’ittero è comunque sempre modesto.
95
Itteri di lieve entità possono anche derivare dalla degradazione dell’eme in raccolte
extravascolari di eritrociti quali estesi infarti tessutali (soprattutto polmonari), emorragie
interne (dalla rottura di un aneurisma dell’aorta allo stillicidio da errate manovre per il
posizionamento di un catetere) o ematomi di grandi dimensioni]
Schema in cui abbiamo l’epatocita al centro, a sinistra il sangue, sulla destra le vie biliari. La
bilirubina con il sangue arriva nel fegato, viene captata, coniugata e sottoposta a tutto il processo
già visto. Normalmente si hanno feci normo-coliche e tracce di urobilinogeno nell’urina.
Nei pazienti con ittero emolitico o eritroblastolitico (itteri che vengono chiamati pre-epatici, ma il
prof preferisce il termine itteri da cause ematologiche) si produce più bilirubina, che viene
catabolizzata dal fegato e quindi si produce più urobilinogeno. Questo però è un dato che si perde
perché le feci sono già scure, non possono diventare ancora più scure (possono diventare nere, ma
solo in caso di emorragia).

La cosa più importante che si vede è l’aumento della bilirubina indiretta nel sangue periferico.
Inoltre, più urobilinogeno si trova nell’intestino, più ne viene riassorbito, più urobilinogeno salta il
filtro epatico, maggiore quantità ritroviamo nelle urine. Nell’esame delle urine si riscontreranno
infatti i valori di urobilinogeno aumentati rispetto alle tracce di riferimento, mentre non si trova la
bilirubina perché questa può andare nelle urine, ma solo nella forma coniugata. Quella in
questione invece è una bilirubina coniugata con l’albumina, che quindi non passa il filtro
glomerulare.
Il quadro di laboratorio di un ittero emolitico è caratterizzato da: feci normali (che contengono più
urobilinogeno ma non colgo questa differenza), bilirubina nel sangue periferico aumentata,
urobilinogeno nelle urine aumentato in maniera significativa.

 Itteri da difetti di captazione (rarissimi) – assunzione di farmaci o mezzi di contrasto che


provocano una inibizione competitiva del legame tra bilirubina e ligandina situazione
transitoria, non impegnativa. Un’altra causa è costituita dal deficit di ligandina (sindrome di
Gilbert);

 Itteri da ridotta o assente attività della glucuronil-transferasi. Si tratta di una condizione


molto più impegnativa, poiché il fegato non riesce a coniugare la bilirubina in maniera

96
adeguata e quindi nel sangue periferico troviamo una maggiore quantità di bilirubina
indiretta. Appartengono a questo gruppo:
- Ittero fisiologico del neonato
- Sindrome di Gilbert
- Sindrome di Crigler-Najjar I e II

 Esempio classico è l’ittero fisiologico del neonato, che non deve essere trattato, perché nel
97% dei nati a termine tra la seconda e quinta giornata si ha un aumento della bilirubina
indiretta. Questo accade perché il fegato fino al momento della nascita non ha svolto questa
funzione, ma ci ha pensato la mamma a prendere la bilirubina del feto, a coniugarla con il suo
fegato e ad eliminarla (l’intestino non può eliminare tutto prima della nascita). Dopo il parto, il
neonato si autonomizza per questa funzione e gli enzimi hanno bisogno di un po' di tempo per
essere attivati e quindi occorre da qualche giorno fino a qualche settimana affinché la
glucuronil-transferasi epatica arrivi a regime. Nel frattempo, si accumula un po' di bilirubina
indiretta, che però nel giro di 15 giorni si riduce e torna ai valori di riferimento. Bisogna
preoccuparsi quando la bilirubina rimane elevata e soprattutto se raggiunge valori di 20
mg/dL. Si tratta di situazioni eccezionali, ma pericolosissime, perché sopra questa soglia vi è il
rischio che la bilirubina attraversi la barriera ematoencefalica non ancora matura e vada a
depositarsi in maniera irreversibile nell’area cerebrale ricca di lipidi. Dunque, il danno
cerebrale è un danno importante e irreversibile che deve essere prevenuto  occorre
monitorare tramite laboratorio ogni tipo di iperbilirubinemia per evitare che si arrivi a questo
valore. Questo vale sempre, ma in particolar modo nel neonato, la cui barriera
ematoencefalica è meno impermeabile alla bilirubina. In passato si interveniva con
fenobarbital, somministrato addirittura alla madre, in grado di indurre la glucuronil-
transferasi, aiutandola a maturare. Ovviamente il fenobarbital, come tutti i barbiturici, ha
effetti collaterali e ad oggi non viene più utilizzato. Oggi si preferisce usare la fototerapia o
fotoisomerizzazione: si tratta di culle con una forte luce azzurra o bianca, in cui viene
posizionato il neonato nudo. La luce a quella lunghezza d’onda trasforma la bilirubina da
liposolubile a idrosolubile, affinché possa essere eliminata dal neonato.

 Vi è una altra patologia che è molto diffusa, ma poco conosciuta, ovvero la sindrome di Gilbert,
che ha una prevalenza intorno all’8% (prevalenza altissima che dovrebbe rendere questa
patologia molto conosciuta). In realtà è poco conosciuta perché è del tutto benigna e
asintomatica. Essendo una forma ereditaria, nel 99% dei casi il paziente sa già di averla.
Si tratta di una condizione caratterizzata da un deficit (non totale) della glucuronil-transferasi.
Si riduce quindi la capacità di coniugare la bilirubina, per cui il paziente ha un sub-ittero
cronico: ha quasi sempre sclere gialle e valori di bilirubina che sono poco sopra il valore di
riferimento, senza superare mai i 6 mg/dL. L’ittero non evolve in nessuna patologia epatica,
ma viene accentuato dallo stress (in passato il digiuno rappresentava una forma di diagnosi a
esclusione per caratterizzare questa patologia).

97
[Dalle slide: Sindrome di Gilbert:
- malattia autosomica recessiva con prevalenza intorno all’8% ed incidenza maggiore nel sesso
maschile
- è causata da una mutazione del gene UGT1 (uridina difosfato grucuronil transferasi 1) che
riduce l’attività transferasica dal 65 al 90%
- alcune forme sono dovute ad un deficit di ligandina
- i valori di bilirubina sono solitamente tra 1,2 e 3 mg/dl; solo raramente superano i 5 mg/dl,
restando comunque sempre inferiori ai 6 mg/dl
- è una condizione benigna, ma cronica, che si manifesta raramente prima del secondo
decennio di vita, spesso in modo occasionale
- l’ittero è per lo più asintomatico e solo raramente è accompagnato da affaticamento,
malessere e dolore addominale
- l’iperbilirubiminemia è accentuata da stress quali sforzo fisico, febbre, malattie infettive, stati
post-operatori (spesso per interventi odontoiatrici), digiuno e assunzione di elevate quantità di
alcol
- un aspetto che può essere usato a scopo diagnostico è l’aumento della bilirubina sierica a
seguito di un digiuno prolungato o di un regime di restrizione calorica, mentre la
somministrazione di fenobarbital riduce la bilirubinemia fino a riportarla ai valori normali
- la diagnosi della sindrome di Gilbert è una diagnosi per esclusione, coadiuvata dall’anamnesi
familiare].

 Vi sono poi due condizioni estremamente rare ma molto più pericolose in cui si ha un deficit
importante della glucuronil-transferasi, ovvero la sindrome di Crigler-Najjar I e II.
Nella sindrome di Crigler-Najjar di tipo I si ha deficit assoluto dell’enzima, pertanto l’attività
enzimatica è pari a 0. I pazienti hanno un problema importante e il fenobarbital è
assolutamente inefficace perché non può indurre l’attività di un enzima che non c’è.
La sindrome di Crigler-Najjar di tipo II è caratterizzata da un deficit importante, ma non
assoluto, e in questo caso il fenobarbital ha efficacia.
Per diagnosticarle non è necessario fare un test genetico, ma basta valutare i valori di bilirubina:

 sotto i 6 mg/dL sindrome di Gilbert


 tra 6 e 20 mg/dLsindrome di Crigler-Najjar di tipo II
 sopra i 20 mg/dLsindrome di Crigler-Najjar di tipo I
Si tratta di 3 condizioni con un’incidenza completamente diversa tra loro.

PRINCIPALI FORME DI ITTERO DA IPERBILIRUBINEMIA COMBINATA


Studiamo ora il caso di pazienti con ittero che presentano nel sangue periferico bilirubina, di cui il
50% diretta (quindi non tracce). Sono chiamate iperbilirubinemie combinate. Tratteremo 4
condizioni, di cui le prime 2 sono rarissime.

98
Itteri da difetti ereditari della funzione escretoria epatica
Sono entrambe dovute ad una alterazione congenita, ereditarie autosomiche recessive
(solitamente a buona prognosi):
 Sindrome di Dubin-Johnson: dovuto a deficit ereditario di una proteina, MRP2 (multidrug
resistance-associated protein 2). Questa trasferisce molte sostanze, tra cui la bilirubina,
dall’interno dell’epatocita al dotto biliare. La bilirubina dunque arriva al fegato, viene
captata dalla ligandina, coniugata con acido glucuronico per poi essere escreta
dall’epatocita nei canalicoli biliari grazie alla proteina MRP2 (trasportatore polifunzionale).
Se questa non funziona, la bilirubina rimane nell’epatocita e refluisce nel sangue
periferico. È caratterizzata dalla presenza di un pigmento scuro negli epatociti (non
composto da bilirubina).
 Sindrome di Rotor: sembra essere una patologia da accumulo, dunque la bilirubina
coniugata si accumula e refluisce nel sangue.

Itteri da difetti acquisiti della funzione escretoria epatica

 Ittero epatocellulare: nell’immagine possiamo osservare


l’epatocita frammentato, sofferente. Questa condizione,
infatti, si determina a seguito di un danno epatocellulare
che può essere di diversa natura: cause fisiche, chimiche,
biologiche, intossicazioni da funghi, epatiti virali. Per
esempio, esaminiamo cosa accade durante una infezione
da un virus che colpisce gli epatociti: una percentuale di
epatociti rimane indenne, quindi continua a funzionare;
una percentuale va incontro a necrosi; una percentuale
viene danneggiata. L’entità clinica e laboratoristica
dell’epatite dipende da queste percentuali. Da una parte
abbiamo le epatiti fulminanti, in cui la necrosi è massiva.
Dall’altra parte abbiamo le forme asintomatiche o
paucisintomatiche, in cui il danno è molto limitato. Nel
99
mezzo si trovano tutta una serie di varianti. L’epatocita danneggiato ha una caratteristica:
la prima funzione che perde è l’orientamento (non parliamo di un epatocita che va in
necrosi, dunque definitivamente danneggiato, prendiamo in analisi un epatocita che ha un
danno che poi riesce a recuperare). Dunque, l’epatocita coniuga la bilirubina (la
coniugazione è persa solo se il danno è molto importante) però la elimina dal polo
vascolare, dunque torna nel sangue. Nella stragrande maggioranza dei casi di danno al
fegato, sono molti gli epatociti che si trovano in questa situazione. Possiamo quindi
osservare un aumento nel sangue periferico della bilirubina diretta, ma anche di quella
indiretta, poiché il fegato perde parte della sua funzione di ricevere bilirubina dal sangue
periferico in seguito ad un danno. Si tratta quindi di iperbilirubinemia mista. Importante è
che quando aumenta la forma diretta la troviamo direttamente nelle urine. Questa infatti
è idrosolubile, passa il filtro glomerulare (non viene riassorbita nel tubulo in quanto non
dovrebbe essere presente a questo livello) e viene eliminata con le urine, che acquisiscono
un caratteristico colore scuro (marrone intenso, si parla di colore “coca-cola”). Si
definiscono urine ipercromiche. Quando osserviamo urine di questo tipo possiamo
concludere che sicuramente al loro interno si trova bilirubina diretta, in quanto quella
indiretta non è mai presente in questo liquido biologico. È un sintomo molto precoce,
solitamente quello che preoccupa il paziente. Le feci invece saranno ipocoliche, in quanto
è presente meno bilirubina che viene escreta nella bile, dunque si formerà meno
urobilinogeno. Tuttavia l’urobilinogeno (presente in minore quantità) che viene riassorbito
salta il filtro epatico, dunque si interrompe il circolo intraepatico di questa sostanza che si
accumula nelle urine (il professore consiglia di non
fare molto affidamento sull’urobilinogeno da un punto
di vista diagnostico in quanto gli aumenti sono relativi
e la nostra capacità analitica non è così raffinata, è
utile solo in caso di itteri pre-epatici, emolitici, poiché
qui aumenta in maniera rilevante).

 Ittero ostruttivo: conseguente ad una ostruzione delle


vie biliari. Tra le cause abbiamo:
1. Neoplasia primitiva delle vie biliari oppure che
comprime dall’esterno;
2. Stenosi cicatriziale conseguente ad un processo
infiammatorio;
3. Calcoli, sono la causa ad oggi più frequente;
4. Tumore della testa del pancreas che occlude
dall’esterno;
La bilirubina viene correttamente prodotta, veicolata al fegato, coniugata, attraversa la porzione
pervia delle vie biliari, ma quando incontra l’ostacolo torna indietro ed entra nel sangue. Abbiamo
di nuovo iperbilirubinemia mista e bilirubina nelle urine. Quando l’ostruzione è completa
teoricamente non si forma urobilinogeno (immagine soprastante) quindi le feci saranno
completamente acoliche e l’urobilinogeno urinario scomparso. Questa è una condizione rara, si
interviene prima di arrivare a questo. Più comune è l’ostruzione parziale, in cui la bilirubina torna
indietro ma una piccola quota riesce a completare il passaggio. Questa condizione, dal punto di
vista laboratoristico, è molto simile agli itteri epatocellulari. In entrambe le forme ho infatti
bilirubina diretta e indiretta nel sangue periferico, urine ipercoliche, feci ipocoliche e una certa
quota di urobilinogeno nelle urine. Per distinguere dunque queste due condizioni, oltre alla
bilirubina, ho bisogno degli enzimi.
100
SECONDO INDICE DI FUNZIONALITA’ EPATICA: ENZIMI SIERICI INDICATORI DI
DANNO EPATOCELLULARE O COLESTATICO
(il professore stressa l’importanza di questo argomento)
Gli enzimi si trovano all’interno delle cellule e buona parte dello sforzo metabolico della cellula
consiste nel rinnovare i propri enzimi. Se trovo un enzima nel sangue periferico vuol dire che
qualche cellula ha ricevuto un danno. Vi sono enzimi ubiquitari, dunque mi dicono che in generale
c’è stato un danno, ed enzimi tessuto-specifici, che mi dicono che c’è stato un danno in quel
particolare organo. Inoltre, dal punto di vista laboratoristico, la sensibilità analitica agli enzimi in
generale è notevolmente migliorata, quindi basta che vi sia un danno di poche cellule per rilevare
la proteina nel sangue. Per esempio, uno dei pilastri della diagnosi dell’infarto del miocardio è la
liberazione in orari diversi (vi è una cronologia specifica dell’evento) di enzimi miocardio-specifici.
Enzimi indicatori di danno epatocellulare
Gli enzimi epato-specifici che si usano per
diagnosticare un danno epatocellulare sono
chiamati Aminotransferasi o Transaminasi (i
termini indicano le stesse molecole, il primo è più
moderno e usato soprattutto dai biochimici, il
secondo è un termine storico). L’acronimo delle
transaminasi è SGOT (transaminasi glutamico-
ossalacetica sierica) o SGPT (transaminasi
glutamico-piruvica sierica) (S = sierica), delle
aminotransferasi è AST (aspartato
aminotransferasi) o ALT (alanina
aminotransferasi).
Il rapporto AST/ALT (SGOT/SGPT) può essere utile:

 1 è indicativo di epatite virale


> 2 è indicativo di epatite alcolica
È importante notare che il rapporto è indicativo, dunque non va considerato come un riferimento
diagnostico infallibile. Quando aumentano le transaminasi possiamo affermare che si è verificato
un danno epatocellulare.
Enzimi indicatori di danno colestatico
Colestasi vuol dire stasi di bile nelle vie biliari.
L’enzima più specificatamente associato a
colestasi si chiama fosfatasi alcalina. Conosciamo
4 isoenzimi (epatica, ossea, placentare e
intestinale), ci riferiamo alla forma epatica. Nel
danno da colestasi vi è una stimolazione
dell’epitelio delle vie biliari che produce questo
enzima, il quale aumenta quindi nel sangue
101
periferico. Per distinguere quindi ittero epatocellulare e ittero ostruttivo (ostruzione parziale)
utilizzo gli enzimi specifici. Le transaminasi sono aumentate nel primo, la fosfatasi alcalina nel
secondo.

Un altro enzima importante è la -glutammil-transpeptidasi (-GT). Le -GT sono associate


prevalentemente alla colestasi, ma anche al danno epatocellulare. Sono le prime ad aumentare
durante un danno da ostruzione. È un indice molto sensibile di malattia epatica ma poco specifico,
in quanto aumenta anche in condizioni quali l’obesità, il diabete e l’alcolismo cronico (utile per
diagnosticare epatite alcolica), ed in corso di malattie pancreatiche, cardiache, renali e polmonari.

TERZO INDICE DI FUNZIONALITA’ EPATICA: PROTEINE PLASMATICHE


Nell’insufficienza epatica si verifica una diminuzione delle proteine prodotte dal fegato in maniera
omogenea (albumina, 1, 2, ). In questo caso le  globuline (in quanto prodotte dalle
plasmacellule) hanno un aumento relativo poiché, a differenza delle altre, non si riducono.
L’aumento diventa assoluto se il paziente ha un’epatite, poiché a quel punto le  globuline
vengono anche sintetizzate maggiormente. Il fegato ha anche l’importante compito di
determinare la clearance degli anticorpi. Riducendo questa
funzione aumentano ulteriormente gli anticorpi circolanti.
In alcuni casi l’aumento delle  globuline può essere così
marcato da andare a nascondere le , dal grafico sembra
che vi siano soltanto 4 picchi (albumina, 1,2, -). Questo
avviene soprattutto nella cirrosi epatica alcolica. È
importante ricordare che l’aumento delle  globuline è a
base larga. In queste condizioni il rapporto
albumina/globuline scende sotto l’unità.
[Dalle slide: nelle malattie epatiche croniche si assiste ad un aumento delle -globuline che si
associa ad una diminuzione della albumina: si osserva pertanto una inversione del rapporto
albumina/globuline (normalmente tra 1,2 e 1,7) che scende facilmente sotto alla unità e può
anche arrivare a 0,5]

QUARTO INDICE DI FUNZIONALITA’ EPATICA: TEMPI DI COAGULAZIONE

102
Un paziente con epatopatia conosciuta o sospetta fa questi 4 esami (1° livello). Sulla base dell’esito
possiamo indirizzarci verso una malattia ematologica, un danno epatocellulare o un danno
ostruttivo.
Esempi pratici: 1° caso clinico
Paziente di 31 anni si presenta in pronto soccorso per ittero comparso da una settimana, prima
sclerale poi cutaneo; analisi patologiche negativa; saltuario uso di sostanze stupefacenti; analisi
patologiche recenti: da due settimane astenia ingravescente (si aggrava rapidamente) e anoressia;
il paziente riferisce urine ipercromiche e feci ipocoliche; non lamenta dolore addominale; senza
febbre.
Sappiamo che ha un ittero, quindi è presente sicuramente una iperbilirubinemia. Analizziamo
alcune variabili:
 Tempi di coagulazione: Dall’emocromo possiamo osservare che la aPTT Ratio rientra nei
valori di normalità mentre la PT Ratio (attività protrombinica) è ridotta in maniera
significativa (dunque il PT è allungato);
 Bilirubina: osserviamo una iperbilirubinemia combinata in cui aumenta prevalentemente la
forma diretta;
 Enzimi: la fosfatasi alcalina è aumentata, ma solo di tre volte. Invece le transaminasi sono
aumentate di centinaia di volte quindi possiamo dedurre che si tratta di un danno
epatocellulare;
 Elettroforesi proteine sieriche: parametri da tenere in considerazione sono il rapporto
albumina/globuline e le varie proteine viste in precedenza (albumina, 1, 2, , 
globuline). Le  globuline sono aumentate al 27%, l’albumina è ridotta, l’1 è aumentata (di
poco). Il rapporto albumina/globuline è molto sotto l’unità (conferma che è un ittero
epatocellulare siccome il fegato non produce proteine);
 Esame delle urine: è presente bilirubina nelle urine;

Per comprendere la causa di questo ittero epatocellulare servono esami di secondo livello. Tramite
quest’ultimi, richiedendo marcatori virali, si dimostra la presenza di infezione acuta da HCV (è per
questo motivo che aumentano le 1 globuline, sono infatti proteine della fase acuta).
Esempi pratici: 2° caso clinico
Signore di 89 anni lamenta una dolenzia in ipocondrio destro e saltuariamente in epigastrio,
insorto da circa 20 giorni ed associato ad anoressia e calo ponderale di 4 kg sviluppatosi negli
ultimi 2 mesi; analisi patologiche remote negative. Intanto all’esame obiettivo non risulta ittero.
Prima sapevo che la bilirubina fosse aumentata, qui invece devo andare ad indagare. Analizziamo:

 VES: dall’emocromo risulta aumentata in maniera significativa (aumenta con l’età, ma non
è compatibile in questo caso con una condizione fisiologica);
 Bilirubina: risulta un valore di bilirubina totale di 1,63 dunque ci troviamo di fronte ad un
sub – ittero. Osserviamo una iperbilirubinemia combinata;
 Enzimi: la fosfatasi alcalina e le -GT sono aumentate in maniera significativa, mentre le
transaminasi variano poco. Sospetto dunque che il paziente abbia una ostruzione. Un altro
elemento che mi fa arrivare a questa conclusione è il valore del colesterolo (la bile, infatti,
contiene questa sostanza, dunque in seguito ad una ostruzione delle vie biliari possiamo
notare ipercolesterolemia);
103
 Elettroforesi delle proteine sieriche: il rapporto albumina/globuline è lievemente ridotto,
tuttavia le  globuline risultano normali quindi non è presente un’alterazione da ittero
epatocellulare. Si riduce un pochino l’albumina, ma aumentano le  e soprattutto le 1
globuline.

In un paziente con queste caratteristiche (sub – ittero da ostruzione, VES aumentata, indici di
flogosi aumentati, calo ponderale) posso pensare, come causa dell’ostruzione, ad una neoplasia.
L’ecografia (esame di secondo livello) dell’addome conferma una colestasi da ostruzione delle vie
biliari extra-epatiche, mentre ulteriori esami radiografici attribuiscono ciò alla presenza di un
colangiocarcinoma extra-epatico.
Il professore ha chiarito alcuni dubbi rispondendo a due domande fatte nelle lezioni precedenti:
- Per quale motivo le gamma GT aumentano durante l’epatite e perché sono indicatore di
alcolismo? Sono indicatore di alcolismo perché l’alcol ha un’azione di induzione
enzimatica sull’enzima glutamil-transferasi. I farmaci che si usano (fenobarbiatal) hanno la
funzione di attivare l’enzima. Vi sono anche altri farmaci (es. fenotoina, un
anticonvulsivante) con un’azione inducente l’enzima; l’alcol svolge la stessa azione, quindi
nel paziente alcolista le gamma GT aumentano per questo fenomeno.
- Che significato ha il rapporto AST/ALT nel differenziare un’epatite virale da un’epatite
alcolica? AST e ALT sono le due transaminasi (o aminotransferasi). Le AST sono meno
specifiche: sono presenti sia negli epatociti che in molte altre cellule e hanno due
localizzazioni principali: citoplasma e mitocondri. L’ALT invece è più epatospecifica.
In caso di danno aumentano le epatospecifiche, quindi il denominatore del rapporto (ALT);
il rapporto tende ad essere inferiore ad 1. Delle AST si libera in circolo solo quella
citoplasmatica. Con il perdurare del danno inizia ad uscire anche la forma mitocondriale,
che ha maggiore emivita; quindi, il rapporto tende ad aumentare. Diventa superiore a 2 in
caso di abuso di alcool perché esso non ha un’azione inducente ma ha un’azione più
tossica e diretta sui mitocondri, e quindi distruggendo i mitocondri libera la parte
mitocondriale del numeratore della frazione. Con cautela si può interpretare questo
rapporto: quando è minore di uno, è ragionevole pensare ad un’epatite nella fase acuta;
quando si inverte e supera il 2, si può pensare che sia un danno da alcol.

104
CAPITOLO 7: ESAMI DI LABORATORIO PER LO
STUDIO DELLA FUNZIONALITA’ RENALE

STUDIO DELLA FUNZIONALITA’ RENALE


Gli esami di laboratorio che si hanno a disposizione per valutare la funzionalità renale sono
quattro:
1. Esame delle urine:
a) Esame delle caratteristiche fisiche;
b) Esame delle caratteristiche chimiche;
c) Esame microscopico del sedimento urinario;
2. Determinazione della concentrazione ematica di composti azotati non proteici:
a) Uremia (BUN: Blood Urea Nitrogen);
b) Creatininemia;
c) Uricemia;
3. Clearance renali:
a) Clearance dell’inulina e della creatinina per la determinazione del filtrato glomerulare;
b) Clearance del PAI per la determinazione della portata renale plasmatica:
4. Prove funzionali:
a) Prova di diluizione;
b) Prova di concentrazione;

C’è una grande differenza rispetto agli indicatori di funzionalità epatica della lezione scorsa:
mentre gli indici di primo livello della funzionalità epatica si devono fare tutti e quattro insieme,
questi indicatori trovano specifiche applicazioni: non vanno fatti tutti insieme, ma a seconda delle
caratteristiche del paziente si partirà dall’esame delle urine, piuttosto che dall’azotemia ecc.
L’indicazione dell’esame dipende dal quadro clinico del paziente, mentre gli esami di primo livello
epatici venivano effettuati tutti insieme per poi valutare il caso.

ESAME DELLE URINE


Si compone di tre parti:

 Esame delle caratteristiche fisiche;


 Esame delle caratteristiche chimiche
 Esame microscopico del sedimento urinario;
È un esame di iper-routine ed è, subito dopo l’esame emocromocitometrico, uno dei più prescritti
al mondo. Molte persone vengono sottoposte a tale esame, anche solo per visite sportive. È
semplice ma molto importante nella valutazione di tutti gli indicatori di cui si compone .

105
CARATTERISTICHE FISICHE
Queste sono:

 Colore;
 Aspetto;
 Volume;
 Peso specifico;
Le prime due caratteristiche vengono refertate in maniera discorsiva: l’operatore osserva il
campione di urina e descrive il colore e l’aspetto. Il colore dovrebbe essere giallo paglierino, giallo
oro o giallo chiaro (tutti sinonimi). L’aspetto dovrebbe essere limpido. L’alternativa al giallo è
qualunque altro colore che possono assumere le urine; l’alternativa a limpido è torbido. A partire
da questi indicatori non si possono fare grandi diagnosi; saranno le analisi chimiche a dire perché
le urine sono per esempio torbide e perché il colore è variato.
Il volume è importante: al laboratorio arriva il campione, non l’intero volume. Bisogna tenere
conto che non viene misurato in laboratorio ma si misura al letto del paziente raccogliendo le
urine delle 24 ore. Se il paziente è domiciliato si raccomanda di raccogliere le urine e vedere alla
fine della giornata il volume prodotto. Il volume oscilla tra 800-1800 ml/giorno. La notte viene
prodotta meno urina rispetto al giorno (il che consente di riposare senza interruzioni: ilrapporto
giorno/notte è di circa 2/1). La quantità minima richiesta per una buona funzionalità renale è di
500 ml/giorno. Al di sotto si ritrova una condizione patologica, definita oliguria se il volume è
diminuito o anuria se non viene prodotta (blocco renale). La situazione opposta è la poliuria,
situazione trattata anche nel caso del diabete. Il paziente con poliuria produce più di 2000
ml/giorno di urina.
[Dalle slide: La diminuzione del volume urinario (oliguria) si osserva come conseguenza di una
diminuita filtrazione glomerulare che può essere dovuta a una alterazione anatomica dei glomeruli
o a una riduzione del flusso ematico. L’arresto completo della formazione di urina (anuria) si può
verificare nella insufficienza renale acuta in conseguenza di gravi lesioni tubulari o per ostruzione
delle vie urinarie. L’aumento del volume urinario (poliuria) si osserva in varie affezioni renali nelle
quali il rene ha perso la capacità di concentrare i soluti entro un certo limite].
Peso specifico: viene valutato in laboratorio. È il peso di un volume rapportato al medesimo
volume di acqua. In condizioni normali il peso specifico dell’urina varia tra 1,014 e 1,026: se il
peso specifico scende sotto 1,014 si parla di ipostenuria, situazione che si verifica quando il rene
perde, in parte, la sua capacità di concentrare e diluire le urine; quando i reni perdono
completamente questa capacità, il peso specifico delle urine rimane costantemente uguale a
quello del filtrato glomerulare, cioè intorno a 1,007 (isostenuria). Entrambi i termini sono riferiti
ad una ridotta capacità di filtrare le urine. Siccome la struttura che concentra le urine è il tubulo, il
peso specifico si può considerare come un indicatore (aspecifico in quanto ne esistono di più
specifici) della funzionalità tubulare.
[Dalle slide: Nelle poliurie le urine hanno solitamente basso peso specifico (con l’eccezione
importante del diabete) mentre nelle oligurie il peso specifico delle urine è solitamente aumentato]

106
CARATTERISTICHE CHIMICHE
Le caratteristiche più informative dal punto di vista diagnostico sono quelle chimiche. In questo
caso i parametri valutati sono stati condivisi a livello internazionale, per dare un esame delle urine
standard.
Gli indicatori sono i seguenti:
 pH;
 glucosio;
 proteine;
 emoglobina;
 corpi chetonici;
 bilurbina;
 urobilinogeno;
 nitriti;
Oltre a questi, si può richiedere qualunque tipo di analita nelle urine, si può richiedere per
esempio la concentrazione di un ormone o un metabolita. L’esame standard di default prevede
l’esecuzione e la valutazione degli analiti elencati sopra.
pH urinario: è debolmente acido, con un valore medio intorno al 6 (varia fisiologicamente da 4,5 a
8). È un’espressione dei sistemi di compenso che cercano di mantenere costante il pH del sangue:
quest’ultimo è mantenuto a 7,4 proprio grazie alle variazioni del pH urinario. Per mantenerlo
costante deve buttare fuori più acidi o più basi a seconda delle situazioni, quindi è assolutamente
normale trovare questa variabilità. Il pH urinario pari a 6 indica che l’organismo produce più
sostanze acide che basiche e il metabolismo è a pH acido, non neutro. Quindi il pH urinario risulta
leggermente acido per mantenere basico o neutro il pH ematico. La valutazione del pH è
fondamentale per studiare le alterazioni dell’equilibrio acido-base; va sempre valutato in un
contesto generale di equilibrio acido-base. Costituisce la parte complementare dell’emogasanalisi.
Vi sono anche condizioni alimentari che possono modificare transitoriamente il pH urinario.
[Dalle slide: Il pH dell’urina varia fisiologicamente tra 4,5 a 8; normalmente è comunque intorno a
6 (oscillando tra 5,5 e 6,5), dunque debolmente acido: il pH urinario risulta ridotto negli stati di
acidosi mentre sarà aumentato negli stati di alcalosi; L’acidità urinaria aumenta in caso di digiuno,
se si segue una dieta particolarmente ricca di cibi carnei e di grassi, in caso di prolungato esercizio
muscolare o in seguito all’assunzione di farmaci acidificanti; viceversa, la reazione delle urine sarà
alcalina se si segue una dieta vegetariana, se si assumono farmaci alcalinizzanti o nel caso di
ritenzione urinaria con urine che ristagnano a lungo nella vescica (ipertrofia prostatica)]
Glucosio e corpi chetonici: la presenza di zucchero nel sangue è indice di diabete, perché lo
zucchero viene completamente filtrato dal glomerulo e completamente riassorbito dal tubulo. Ma
questa capacità di riassorbimento totale è limitata: quando la glicemia è molto elevata (sopra i
180-200 mg/dL) e quindi la concentrazione di zucchero nel filtrato glomerulare e nella preurina è
molto alta, i carrier tubulari sono saturati e non riescono a riassorbire tutto lo zucchero e si ha
glicosuria. La glicosuria è poi anche responsabile della poliuria. Nel diabete di tipo I scompensato
lo scompenso metabolico è la chetoacidosi, e quindi si ha presenza nelle urine anche di corpi
chetonici. Questi primi parametri possono essere sfruttati per una caratteristica importante
dell’esame delle urine; nell’esame vengono infatti valutati una serie di analiti molto utili per

107
valutare la funzionalità di altri organi e apparati: è un esame ad ampio spettro diagnostico. Il pH
viene rilevato non per valutare la funzionalità renale, ma l’equilibrio acido-base. Glucosio e corpi
chetonici vengono valutati per diagnosticare il diabete. È questa la caratteristica dell’esame delle
urine: non è specificatamente legato alla funzionalità dei reni, ma insieme a parametri di
funzionalità renale ne vengono misurati molti altri che non si riflettono direttamente sulla
funzionalità di quell’organo. Questo ampio spettro diagnostico, che non comprende solo il rene,
giustifica il motivo per cui molte persone vengono sottoposte all’esame delle urine, spesso non
per insufficienza renale ma per valutare altri parametri.
[Dalle slide: I corpi chetonici originano dall’incompleto catabolismo dei lipidi; nelle urine sono
rappresentati per il 78% da acido -idrossibutirrico, per il 20% da acido acetacetico e per il 2% da
acetone; la chetonuria è un reperto caratteristico del diabete mellito scompensato e del digiuno
prolungato]

Proteine: al contrario dei precedenti, sono propriamente un indice di funzionalità renale. Le


proteine arrivano con l’arteriola afferente e vengono filtrate dal glomerulo in base alle loro
dimensioni. Quelle più piccole vengono tutte filtrate e quelle più grandi vengono trattenute ed
escono con l’arteriola efferente. La proteina limite è l’albumina, cioè la prima proteina che non è
filtrata, o è filtrata solo in maniera minimale; ha un peso molecolare di 69.000 Da. Le proteine con
un peso molecolare <69.000 vengono filtrate; quelle con peso molecolare >69.000 non vengono
filtrate. Qui torna un concetto simile a quello del glucosio: non ha senso mangiare una brioche per
poi eliminare tutto lo zucchero con le urine (infatti il glucosio è completamente riassorbito). Allo
stesso modo non ha senso mangiare una bistecca ed eliminare le proteine. Anche le proteine
vengono riassorbite: il tubulo riassorbe tutte le piccole proteine che sono state filtrate dal
glomerulo. Mentre l’assorbimento del glucosio è completo, possono sfuggire alcune proteine.
Quindi nelle urine vi possono essere tracce di proteine, ma bisogna notare bene l’unità di misura:
si tratta di 40-80 mg al giorno (massimo 150 mg), quantità minima da riferire al volume
complessivo (1-2 litri). In una giornata intera possono sfuggire queste minime quantità; si parla di
proteinuria fisiologica. Ma sono sempre tracce, è quasi come se non ci fossero. Se la quantità di
proteine nelle urine aumenta, le cause possono essere diverse:

• Alterazione glomerulare. Se c’è un danno glomerulare la prima proteina ad essere filtrata è


l’albumina, quindi l’albuminuria è un indice sensibile di glomerulopatia;
• Danno tubulare. In questo caso le proteine non vengono più riassorbite, quindi si ha
proteinuria.
Per capire se c’è stato un danno glomerulare o un danno tubulare bisogna valutare il peso
molecolare delle proteine. Quindi l’analisi qualitativa della proteinuria aiuta a capire se essa è
di origine glomerulare (proteine di grandi dimensioni, dall’albumina in su) o tubulare (proteine
di piccole dimensioni).

• Ci può essere anche una forma mista in cui coesistono danno glomerulare e tubulare,
quindi nelle urine si troveranno proteine ad alto e a basso peso molecolare.
Oltre queste classificazioni qualitative, ce n’è una quantitativa: l’entità della proteinuria è
proporzionale al danno che l’ha provocata. È bene quantificare le proteine; molte proteine
indicano un danno importante, poche proteine indicano un danno lieve.
108
Questa è la classificazione condivisa:
- <1 g/die: proteinurie lievi
- 1-3 g/die: proteinurie moderate
- >3 g/die: proteinurie gravi (sindrome nefrosica: argomento già affrontato studiando le
proteine del sangue; in questa condizione si ha aumento relativo di α2-macroglobulina)
Bisogna ricordare entrambe le classificazioni, sia qualitativa che quantitativa, perché valutate
insieme possono dare informazioni utili. Sotto il grammo la proteinuria non è preoccupante: si
ripete l’esame, si fanno valutazioni; diventa preoccupante quando si ha proteinuria >1g.
[Dalle slide:
Proteinuria fisiologica  Il tracciato elettroforetico della proteinuria fisiologica deve essere
eseguito su proteine fortemente concentrate e presenta le seguenti caratteristiche: l’albumina è
poco evidente e in quantità minore (30-40%) rispetto alle globuline; le globuline anziché
presentarsi come frazioni ben distinte appaiono come una zona continua indifferenziata.
Proteinurie glomerulari  Le proteinurie glomerulari sono caratterizzate dalla presenza nelle
urine di proteine ad alto peso molecolare (PM > 70.000); sono espressione di un danno
glomerulare e costituiscono il tipo più frequente di proteinurie patologiche; Le proteinurie
glomerulari sono a loro volta distinte in altamente selettive se viene escreta quasi esclusivamente
albumina (PM 69.000), selettive quando assieme all’albumina sono escrete proteine con PM tra
70.000 e 100.000 (ad esempio la transferrina, con PM 90.000 ) e non selettive quando sono
escrete proteine con PM superiore a 100.000, fino al passaggio nelle urine di quasi tutte le
proteine plasmatiche.
Proteinurie tubulari  Le proteinurie tubulari sono caratterizzate dalla presenza nelle urine di
proteine a basso PM (tra 10.000 e i 30.000), dette microglobuline, quali la 2-microglobulina (PM
11.000), il lisozima (PM 14.500) e la RBP (retinol binding protein: PM 21.000); sono generalmente
di modica entità e testimoniano una ridotta capacità del tubulo renale di riassorbire le proteine a
basso peso molecolare normalmente filtrate del glomerulo.
Proteinurie miste  Le proteinurie sono frequentemente prodotte dal sommarsi di un’alterazione
glomerulare e di un’alterazione tubulare: si hanno così le proteinurie miste, caratterizzate dalla
presenza nell’urina di un notevole numero di frazioni proteiche, comprendenti: albumina, frazioni
proteiche plasmatiche, frazioni proteiche caratteristiche della proteinuria tubulare
(microglobuline).
Overflow proteinuria  Questo tipo di proteinuria è anche detta pre-renale per sottolineare che
non è dovuta a nefropatia; compare quando si determina l’aumento della concentrazione
plasmatica di una proteina con basso peso molecolare (PM) La proteinuria di Bence Jones (PM tra
25.000 e 40.000) rappresenta un esempio classico di overflow proteinuria; altre proteine
interessate possono essere la mioglobina (PM 17.000), l’emoglobina (PM 64.000), il lisozima (PM
14.500), la 1-antitripsina (PM 45.000) e la 1-glicoproteina acida (PM 44.000)]

Emoglobina: viene anch’essa valutata di routine nelle urine. L’Hb si trova all’interno dei globuli
rossi, e non c’è nessun motivo per cui fisiologicamente debba trovarsi al di fuori di essi. Quando il
globulo rosso viene distrutto fisiologicamente, interviene un macrofago e quindi l’Hb si libera
all’interno di quest’ultimo. Se si ha distruzione di globuli rossi nel sangue periferico (emolisi)
l’emoglobina viene liberata in circolo. Grazie alle sue piccole dimensioni è in grado di passare il
filtro glomerulare ed essere eliminata con le urine; se si ritrova nelle urine si parla di

109
emoglobinuria. Il paziente ha già anemia, al quale conseguirebbe un’ulteriore perdita di ferro, e
quindi si troverebbe in una situazione che aggrava l’anemia iniziale. Per scongiurare questa
perdita di ferro esiste una proteina importante che si chiama aptoglobina, un controllore molto
attento nel sangue periferico che capta l’emoglobina eventualmente liberata dai globuli rossi e la
riporta all’interno del sistema reticoloendoteliale. È una proteina della fase acuta che è già stata
trattata. Se durante l’emolisi l’aptoglobina non riesce a legare tutta l’emoglobina, e quindi si ha un
eccesso di emoglobina (data da emolisi), si ha emoglobinuria. Questa condizione si manifesta
quando viene superata la capacità di legame dell’aptoglobina sull’emoglobina che si è liberata in
circolo. In sintesi, l’emoglobinuria è indice di una crisi emolitica grave, perché un’emolisi
intermedia non darebbe emoglobinuria. È sempre preoccupante perché è un processo di emolisi
molto avanzato, che ha già superato la capacità di compenso dell’aptoglobina. Questo indicatore
dà quindi informazioni su un’eventuale alterazione dei globuli rossi.
[Dalle slide: la capacità dell’aptoglobina di legare l’emoglobina è saturata da concentrazioni
ematiche di emoglobina superiori a 100-150 mg/dl; pertanto, il riscontro di emoglobina nelle urine
indica la presenza di una emolisi intravascolare importante. Si può avere emoglobinuria anche nei
casi di sanguinamento delle vie urinarie con successiva parziale emolisi delle emazie all’interno
delle urine; in questo caso l’emoglobinuria si associa ad ematuria]
Bilirubina e urobilinogeno: si valutano per studiare il metabolismo della bilirubina, quindi
eventualmente alterazioni della funzionalità epatica. È fisiologico ritrovare tracce di urobilinogeno
nelle urine e la bilirubina che si ritrova è solo quella diretta (coniugata). Queste due considerazioni
aiutano ad abbinare l’esame delle urine con l’esame del sangue e con il colore delle feci.

La bilirubina non coniugata (indiretta) è insolubile in acqua e non passa il filtro glomerulare mentre
la bilirubina coniugata (diretta) è idrosolubile e può quindi passare il filtro glomerulare; in
condizioni normali la bilirubina circolante è per la maggior parte nella forma non coniugata e,
pertanto, non si riscontra nelle urine. Quando aumenta la bilirubina diretta si avrà bilirubinemia,
urine di colore scuro e a seconda dell’entità del danno si potranno avere feci acoliche o ipocoliche.
Invece negli itteri in cui aumenta la bilirubina indiretta, nelle urine non si trova perché non passa il
filtro glomerulare, nemmeno aumentando la concentrazione di molte volte.
[Dalle slide: L’urobilinogeno si forma nell’intestino per riduzione della bilirubina libera: per lo più
viene eliminato con le feci, mentre una piccola quota viene riassorbita ed eliminata poi con la bile
e, in minima parte, attraverso il rene (0,5-1,5 mg/24 ore); pertanto, in condizioni normali
l’urobilinogeno è presente nelle urine solo in tracce].
Nitriti: sono un indice di carica batterica. Il nostro organismo non li produce, produce invece
nitrati dal metabolismo delle verdure fresche, per poi essere eliminati con le urine. Numerose
specie batteriche, anche se non tutte (Escherichia coli, Aerobacter, Proteus, Klebsielle,
Pseudomonas, Enterococchi, Stafilococchi ed altre), hanno la capacità di trasformare i nitrati in
nitriti. Quando si trovano dei nitriti si può dire che sicuramente c’è un batterio che li ha prodotti: è
un indice indiretto di infezione delle vie urinarie. Questo indicatore è sicuramente affidabile
quando è positivo, cioè non dà falsi positivi; potrebbe però dare falsi negativi, dando negatività
anche in presenza di batteri. Questo può avvenire perché alcuni batteri non trasformano nitrati in
nitriti e, se c’è un flusso urinario importante, non se ne formano in concentrazioni tali da essere

110
rilevabili in laboratorio. Quindi è affidabile sulla positività ma non lo è completamente sulla
negatività.
Questi erano i parametri, più della metà erano già stati trattati. Bisogna considerare l’ampio
spettro diagnostico dei parametri chimici, che danno tante informazioni. Spesso si sfrutta la visita
ambulatoriale o il check-up di un paziente per valutare un qualcosa che si sta cercando e nel
contempo anche altre funzionalità. Un esempio è il diabete asintomatico: si sfrutta ogni occasione
per valutare nelle urine del paziente l’eventuale presenza di glicosurie e quindi di diagnosticare il
prima possibile questa malattia.

ESAME MICROSCOPICO DEL SEDIMENTO


È l’ultima parte dell’esame delle urine; una volta veniva fatta dall’operatore, mentre negli ultimi
anni in molti laboratori si sta shiftando ad una parte automatizzata, semplificando le cose. Il
sedimento urinario si ottiene per centrifugazione delle urine, lo si mette su un vetrino per poi
osservarlo. Questo è l’approccio manuale; in molti laboratori questa parte è stata automatizzata.
Ecco perché si chiama esame microscopico del sedimento: perché si guarda al microscopio il
sedimento urinario. Non viene colorato con una colorazione specifica.
[Dalle slide: Il sedimento urinario si ottiene dalla centrifugazione di 10-15 mL di urina a velocità
moderata in una provetta a fondo conico: dopo decantazione del sovrastante e risospensione in 0,2
- 0,5 ml, una goccia del sedimento viene posta su un vetrino ed esaminata al microscopio]
Il sedimento urinario è scarsissimo, non vi si trova quasi niente. Vi sono però alcune sostanze che
si possono trovare fisiologicamente nelle urine in assenza di malattie: sono i cristalli e le cellule.
Le cellule vengono dallo sfaldamento delle vie urinarie e in base alla loro
morfologia si può desumere se sono cellule dei tubuli renali (cellule
molto piccole che sembrano leucociti, con un nucleo grande e ovale),
cellule degli epiteli transizionali delle basse vie urinarie (più irregolari
come dimensioni e con un nucleo proporzionalmente più piccolo)
oppure cellule epiteliali squamose (ancora più grandi e ondulate, più
irregolari come dimensioni e con un nucleo molto piccolo). Sono cellule
che si possono trovare a causa dello sfaldamento delle vie urinarie.
Vengono eliminate con le urine esattamente come le cellule dell’epitelio
intestinale vengono eliminate con le feci.
Oltre a queste cellule c’è anche la possibilità di riscontrare dei cristalli, sempre in condizioni
fisiologiche. Essi si formano e precipitano nelle urine in particolari condizioni essenzialmente
legate al pH. Nelle urine a reazione acida si vedono cristalli di acido urico, urati e cristalli di
ossalato di calcio; nelle urine a pH basico si possono trovare cristalli diversi. Non hanno significato
patologico, quindi è inutile accanirsi sulla loro descrizione poiché non hanno rilevanza clinica. Un
operatore li vede e li deve refertare, ma la presenza o l’assenza di cristalli non ha nessun
significato. Per capire se il cristallo è di acido urico piuttosto che di ossalato si fa riferimento alla
morfologia, che fa capire quale sia la sua composizione. Una delle più tipiche forme dei cristalli di
ossalato di calcio è “a retro di busta”: ha una somiglianza con le buste delle poste. Il fosfato triplo
invece, un cristallo triplo, è detto “a coperchio di bara”.

111
C’è una sola applicazione di questo parametro in patologia. L’applicazione è alla litiasi delle vie
urinarie, una condizione frequente, caratterizzata da formazione di calcoli nelle vie urinarie.
Spesso dà dolore, coliche renali, ed è quindi importante gestirla con appropriatezza. I calcoli renali
si trattano in base alla loro composizione: se la composizione è di un certo tipo allora si agirà sulla
dieta; se è di un altro tipo si può ricorrere alla frantumazione del calcolo, mettendo il paziente in
una vasca e usando ultrasuoni che abbiano una lunghezza d’onda idonea per frammentarli; in altri
casi ancora bisogna intervenire chirurgicamente. La terapia della litiasi delle vie urinarie è molto
variegata. In questi casi la presenza di un cristallo aiuta a capire la composizione del calcolo. Non è
che se un paziente ha un cristallo rischia di avere un calcolo, ma se ha un calcolo per altri motivi, il
sedimento urinario può aiutare a capirne la composizione e questa è l’unica raccomandazione di
applicazione delle conoscenze sui cristalli. In generale la presenza di un calcolo non ha nessun
rapporto con il rischio di sviluppare patologie.
Ciò che non ci deve mai essere sono gli indicatori seguenti, tutti reperti patologici:

 Cilindri;
 Muco;
 Globuli rossi;
 Globuli bianchi;
 Batteri;
 Parassiti;
Cilindri. I cilindri sono formazioni che riproducono a stampo
il lume dei tubuli distali dei dotti collettori, quindi sono
proteine che precipitano nel lume tubulare, o perché sono
particolarmente concentrate (e quindi quando c’è danno
glomerulare), o perché c’è una stasi della preurina in
particolari condizioni di pH. Si distinguono in cilindri amorfi,
costituiti solo dalla matrice proteica, e cilindri cellulari, a
seconda delle cellule che contengono (epiteliali, ematiche,
leucocitarie). Per l’osservazione si mette una goccia di urina, si sceglie a piacere un colorante e si
osserva il campione. Nel sedimento urinario si possono osservare cristalli amorfi e sporcizia
(perché non si è nelle condizioni dei preparati istologici); si possono vedere cilindri contenenti
cellule polimorfonucleate, o cilindri ematici contenenti globuli rossi. Bisogna vedere il motivo per
cui le proteine sono precipitate (danno glomerulare, stasi di urina, pH alterato, ittero...)
guardando quindi la causa che ha determinato la formazione del cilindro.

112
Muco. I cilindroidi sono invece cilindri costituiti da muco. Il muco nelle vie urinarie ha lo stesso
significato del muco nelle vie respiratorie. È l’espressione di uno stimolo irritativo; quando c’è
una infiammazione dell’albero delle vie respiratorie le cellule caliciformi mucipare producono
muco a scopo protettivo. Lo stesso avviene nelle vie urinarie. I cilindroidi di muco presenti nel
sedimento urinario indicano un’irritazione a carico delle vie urinarie, che deve essere indagata.
Globuli rossi. L’elemento su cui riporre maggiormente l’attenzione, perché talvolta viene non
adeguatamente considerato, è l’ematuria. L’ematuria indica la presenza di sangue nelle urine, in
particolare globuli rossi (da non confondere con emoglobinuria, che indica emoglobina nelle
urine). L’ematuria macroscopica è quella che conferisce alle urine il colore rosso, quella che si
vede e che preoccupa il paziente. Il colore delle urine (e delle feci) ha un impatto importante,
solitamente viene notificato subito al medico di base. L’ematuria microscopica invece si rileva solo
al microscopio ed è divisa in macroematuria o microematuria a seconda del numero di globuli
rossi identificati al microscopio. Questa è una raffinata classificazione quantitativa: macroscopica
e microscopica, macroematuria (globuli rossi distribuiti a tappeto) e microematuria (basso
numero di globuli rossi).
È importante tenere conto che questa classificazione non ha significato qualitativo poiché
l’ematuria è potenzialmente pericolosa indipendentemente dall’entità. Anzi, paradossalmente
una macroematuria può essere espressione di uno sforzo fisico, di una perdita di massa
particolarmente impegnativa o essere conseguenza di un trauma, quindi essere transitoria. Ciò
che può preoccupare di più è una microematuria consistente; anche pochi globuli rossi nel campo
microscopico (visti dall’operatore o valutati automaticamente), se persistenti e quindi presenti
nell’esame delle urine, devono preoccupare. Non si può dimettere un paziente con ematuria
fintanto che non si è capita la causa e auspicabilmente si è risolto il problema. Quindi è necessario
porre attenzione e adottare un percorso diagnostico efficace, utilizzando diagnostica per
immagini, altri esami di laboratorio ecc. Ci può essere per esempio una neoplasia del tratto
urinario in cui i vasi danno un piccolo sanguinamento, che quindi va identificata e ne va specificata
la localizzazione. Tra tutti gli esami delle urine quello nella pratica clinica che talvolta viene
sottovalutato è questo, anche se non si dovrebbe, soprattutto se si tratta di una microematuria.
Può aiutare a diagnosticare precocemente una patologia che potrà dare segni di sé dopo qualche
anno, in uno stadio più avanzato.
In caso di ematuria classica il globulo rosso si presenta non colorato e quindi traslucente, questi
raramente si presentano con la loro tipica forma a disco biconcavo, ma molto più spesso sono
rigonfi (urine ipotoniche) o disidratati (urine ipertoniche): la loro morfologia dipende quindi dalla
osmolarità dell’urina.
L’ematuria ha questa caratteristica: è molto sensibile ma poco specifica. Molto sensibile perché si
è in grado di identificare anche una bassa concentrazione di globuli rossi nelle urine; poco
specifica perché in realtà non dice nulla di più se non che ci potrebbe essere un’emorragia nelle
vie urinarie. Ci può essere una molteplicità di cause che devono essere indagate che possono
essere alla base di una potenziale ematuria. Due condizioni invece che possono rappresentare una
contaminazione sono le mestruazioni (l’ematuria in una donna durante il periodo mestruale non
deve preoccupare, per evitarla si possono fare le analisi al di fuori di questo periodo) oppure un
paziente che è stato cateterizzato (anche dopo 15-20 giorni nel paziente ci possono essere tracce
di globuli rossi); quindi in questi due casi l’ematuria non deve preoccupare; dev’essere ripetuto
l’esame delle urine per delle conferme, per vedere se si tratta di ematurie da contaminazione.
113
[Dalle slide: In teoria le urine non dovrebbero contenere eritrociti; tuttavia, qualche globulo rosso
può essere talvolta riscontrato anche nelle urine di soggetti in buono stato di salute. Le principali
cause di ematuria sono rappresentate da glomerulopatie, tumori delle vie urinarie, traumi renali,
litiasi delle vie urinarie, infarti renali, necrosi tubulare acuta, infezioni delle alte e basse vie urinarie
e stress fisici: le urine possono inoltre risultare contaminate da eritrociti provenienti dalla vagina in
donne mestruate o da traumi conseguenti a cateterismo vescicale]

Leucociti, batteri, parassiti. Non devono essere presenti nelle urine, che dovrebbero essere sterili.
In realtà un po’ di batteri si possono trovare, ma teoricamente non ci dovrebbero essere. La
leucocituria è indice di un’infezione delle vie urinarie conseguente alle reazioni immunitarie.
Quando i leucociti sono particolarmente numerosi le urine assumono un colore biancastro e un
aspetto torbido; si usa il termine piuria per indicare la presenza di pus nelle urine, espressione
dell’azione dei leucociti a seguito di un’infezione o risposta leucocitaria importante. Alcuni batteri
hanno dimensioni compatibili con la risoluzione di un microscopio, e quindi si possono vedere. Se
si trovassero dei batteri nelle urine bisognerebbe fare subito un approfondimento microbiologico,
per capire il ceppo ed eventualmente rilevare antibiotico-resistenze ecc. Si possono trovare anche
microrganismi quali funghi (Candida) e parassiti (Trichomonas vaginalis, Trichomonas hominis),
visibili anch’essi al microscopio.
[Dalle slide: la presenza di batteri nelle urine (batteriuria) è un reperto costante: si definisce
patologica una batteriuria con > 105 unità formanti colonie / mL di urina]
L’esame delle urine è semplice ma è molto importante. Tutti questi indicatori vanno
opportunamente memorizzati e compresi. Fanno parte della routine della pratica clinica. Con
l’emocromo e l’esame delle urine hanno a che fare tutti i medici, indipendentemente dalla
specializzazione. È bene acquisire confidenza con questo tipo di analisi e risultati.
I seguenti sono alcuni esempi di referti con esami delle urine:

ESEMPIO 1
Esame delle urine standard, in cui sono riportati colore e aspetto (refertati in maniera discorsiva).
Sono riportati anche tutti gli altri indicatori (glucosio, proteine, emoglobina, corpi chetonici,
bilirubina, urobilinogeno, nitriti, peso specifico, leucociti, cellule epiteliali). Nella sezione
“metodo” può essere riportata la dicitura citometria a flusso: questo indica che il sedimento viene
letto da una macchina, un citometro a flusso. Non ci sarà una valutazione discorsiva ma si troverà
il numero di leucociti e cellule epiteliali contati dalla macchina. Questa è una fase di transizione: in
qualche laboratorio si guarda ancora al microscopio il sedimento mentre in altri si usano
macchine; questa seconda componente è economicamente più vantaggiosa e probabilmente in
futuro sarà tutto automatizzato. La situazione riportata in questo esempio è di piena normalità.
L’esame delle urine non richiede grandi capacità interpretative; è facile capire se c’è qualcosa che
non va guardando i valori di riferimento. Tutti gli indicatori devono essere assenti; si può solo
trovare qualche traccia di urobilinogeno. Il pH deve rientrare nell’intervallo di valori sopracitato e
il resto deve essere tutto pari a zero. Fare una diagnosi a partire dall’esame delle urine è facile.

114
ESEMPIO 2
Se c’è un aumento di glucosio (5000 mg/dL) si può pensare ad un diabete all’esordio; di tipo I se
c’è un aumento di corpi chetonici. Il pH è basso a causa dei corpi chetonici che danno acidosi. Si
può trovare eventualmente anche una refertazione discorsiva: “rare cellule delle basse vie
urinarie, viste al microscopio”. Se c’è aumento di bilirubina si sa che questa sarà di tipo diretto. Si
scartano gli itteri da bilirubinemia indiretta e ci si concentra sulla tipologia epatocellulare e sulla
ostruttiva, con altri esami di laboratorio.

ESEMPIO 3
Aumento di emoglobina, ma anche di globuli rossi. L’emoglobinuria è indice di una emolisi. C’è
una trappola: si potrebbe pensare ad una malattia ematologica, ma in questo caso l’emoglobina
deriva dalla lisi dei globuli rossi (lisati a causa dell’osmolarità delle urine: questo avviene se c’è
una ematuria importante). L’osmolarità delle urine non corrisponde a quella del sangue: i globuli
rossi si lisano perché sono in un ambiente che non è il loro. Quindi l’emoglobinuria, in presenza di
ematuria, non deve creare problemi di interpretazione; resta da capire perché c’è sangue nelle
urine, ma bisogna ricordare che l’emoglobina deriva dalla lisi dei globuli rossi già nelle urine.
L’emoglobinuria diventa invece rilevante in assenza di ematuria, caso in cui si pensa ad una
emolisi. Questo è il caso di più difficile interpretazione che si possa riscontrare, per il resto la
gestione di un esame delle urine è estremamente semplice.

STRISCE REATTIVE
Esistono strisce reattive che permettono di fare l’esame delle urine in maniera autonoma, senza
coinvolgere il laboratorio. Esse contengono tanti quadratini che corrispondono a tutti i parametri
sopra elencati (nitriti, urobilinogeno, proteine, pH, globuli rossi, corpi chetonici, bilirubina,
glucosio, peso specifico...), tutti i parametri vengono valutati in maniera semi quantitativa con
queste strisce. In base alla modificazione del colore dei quadratini si può capire se c’è
un’alterazione di un certo parametro, capendo anche se si allontana poco o molto dal valore di
riferimento in maniera semi quantitativa (es. +1, +2, +3, +4).
L’esame viene eseguito prendendo il campione di urina,
immergendo lo stick, aspettando un minuto ed infine
confrontando il colore del quadratino con una scala
colorimetrica che è presente all’esterno della confezione; non
bisogna toccare a mani nude la confezione, bisogna usare
sempre i guanti. Questo delle strisce è un sistema molto
veloce che consente di fare valutazioni, non con la precisione
del laboratorio ma comunque risolvendo eventuali dubbi sulle
urine in maniera molto veloce. Hanno buona affidabilità e si
possono acquistare in farmacia per uso personale, quindi
sono commercializzate.

115
DETERMINAZIONE DELLA CONCENTRAZIONE EMATICA DI COMPOSTI AZOTATI
NON PROTEICI (AZOTEMIA)
Se si vuole valutare la funzionalità renale perché vi è un problema specifico, l’esame delle urine
aiuta solo parzialmente, molto più utile è l’esame dell’indice di funzionalità renale (ovvero la
concentrazione ematica di composti azotati non proteici).
Il rene elimina queste tre sostanze:

 Urea;
 Creatinina;
 Acido urico.
Esse hanno caratteristiche e vie metaboliche diverse tra loro, ma hanno in comune il fatto di
essere eliminate dal rene, quindi se aumenta la concentrazione di tutte e tre
contemporaneamente nel sangue periferico vuol dire che il rene non riesce a gestirle. Si
considerano contemporaneamente perché qualora vi sia un aumento di concentrazione di una
singola sostanza questo può essere dovuto ad una sua iperproduzione, ma se l’aumento riguarda
tutte e tre allora è un indice preciso di malfunzionamento renale. Il termine usato nella pratica
clinica per indicarle tutte e tre è azotemia. In realtà è un termine improprio, di per sé azotemia
significa “concentrazione di azoto nel sangue”, ma si fa riferimento all’azotemia dopo
l’allontanamento delle proteine.

Urea: deriva dal catabolismo degli amminoacidi; è prodotta a


livello epatico tramite il ciclo dell’urea, va nel sangue periferico,
arriva al rene ed è eliminata con le urine. Tale catabolismo però
può essere associato alla dieta: una dieta particolarmente ricca
di carne può determinare un aumento dell’urea, per questo,
oltre ad essere indice di funzionalità renale, può essere
associata ad una dieta particolare.

[Dalle slide: L’urea è il prodotto di fissazione della ammoniaca che deriva dalla transaminazione e
dalla deaminazione ossidativa degli aminoacidi, unità costitutive delle proteine; è prodotta dal
fegato (ciclo dell’urea) ed è eliminata principalmente per via renale. In soggetti con un normale
apporto proteico giornaliero nella alimentazione (1g/kg di peso) i valori ematici di urea sono
compresi tra 20 e 45 mg/dl].
Alternativamente alla concentrazione ematica dell’urea, nella diagnostica di laboratorio viene più
spesso determinata la concentrazione ematica dell’azoto ureico (BUN: blood urea nitrogen).
Dato che nella molecola di urea (PM 60) sono contenuti due atomi di azoto (PA 14), il rapporto
urea / azoto ureico corrisponde a 60 / 28, cioè a 2,14; pertanto, in soggetti con un normale
apporto proteico giornaliero nella alimentazione (1g/kg di peso) i valori ematici di azoto ureico
sono compresi tra 9 e 20 mg/dl.
N.B. Rispetto alla prima ora di lezione nella quale sono stati illustrati gli esami delle urine ora si sta
parlando di esami di laboratori svolti a livello del sangue periferico.

116
L’uremia può aumentare sia quando il rene non funziona, sia in un soggetto che ha
un’alimentazione molto ricca di carne e di conseguenza di proteine; questa è la ragione per cui
all’uremia si associa la misurazione di un altro parametro completamente diverso: la creatinina.
Creatinina: La creatina si forma a livello epatico dal metabolismo di 3 amminoacidi (arginina,
glicina e metionina), si porta al muscolo dove viene fosforilata con un legame altamente
energetico, quindi si forma la fosfocreatina, un’importante riserva energetica per il muscolo
(tant’è che può essere utilizzata come sostanza dopante). La creatinina è il prodotto finale del
catabolismo muscolare della fosfocreatina ed il rene è l’organo preposto alla sua eliminazione,
quindi se quest’ultimo non funziona la creatininemia aumenta (vr. 0,84-1,21 mg/dL).

Ci sono due differenze sostanziali rispetto all’urea:

• l’urea ad alte concentrazioni diventa tossica, la creatinina invece non diventa mai pericolosa,
anche se deve comunque essere eliminata.
• La produzione di creatinina è esclusivamente endogena, quindi la sua concentrazione non è
influenzata dall’apporto alimentare, mentre l’uremia è legata all’assunzione di proteine.
La creatininemia può aumentare dopo un certo lavoro muscolare (si fa riferimento a livelli
professionali, non ad un esercizio fisico svolto due volte a settimana).
Tuttavia, qualora considerassimo un soggetto che mangia molta carne e svolge un intenso
esercizio fisico, potrebbe presentare valori aumentati sia di uremia che di creatininemia; quindi,
viene aggiunto un terzo parametro: l’acido urico.
Acido urico: esso deriva dal catabolismo purinico; l’aumento di acido urico nel sangue periferico è
caratteristico della patologia della gotta, caratterizzata nelle sue fasi finali dal deposito di questo
prodotto soprattutto nelle articolazioni. Al di fuori della gotta, se l’acido urico aumenta con un
aumento anche di creatinina e urea abbiamo sicuramente insufficienza renale.
[Dalle slide: L’acido urico è il prodotto terminale del catabolismo purinico nell’uomo. La sintesi di
acido urico, catalizzata dall’enzima xantina ossidasi, si compie soprattutto nel fegato. Immesso nel
sangue, dove per il 96% si trova sotto forma di urato monosodico non legato a proteine, arriva ai
reni dove viene filtrato, parzialmente riassorbito e, di nuovo, parzialmente secreto prima di essere
definitivamente eliminato con l’urina. La concentrazione ematica di acido urico corrisponde a 2,5-7
mg/dl. L’acido urico è poco solubile in acqua; se, nelle urine, raggiunge elevate concentrazioni,
precipita rapidamente sotto forma di cristalli di urato, determinando la formazione di calcoli
renali. Similmente, in pazienti con alti livelli di acido urico nel sangue, cristalli di urato si
depositano nei tessuti molli, in modo particolare nelle articolazioni: ciò determina una sindrome
clinica denominata gotta]
Se aumentano tutte e tre contemporaneamente non può che essere colpa del rene, quindi questo
è il più importante esame di valutazione dell’indice di funzionalità renale che viene applicato
quotidianamente nella pratica clinica su di un campione di sangue periferico.

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CLEARANCE RENALI
Esistono poi altri esami, non di routine, che vengono eseguiti in reparti specialistici (nefrologia,
medicina interna...); si tratta di metodiche più raffinate e complicate, dalla maggiore sensibilità,
che di conseguenza forniscono risultati più precisi. Tra questi vi è la valutazione della clearance:
La clearance di una sostanza è la quantità di plasma che viene depurata da quella sostanza in
un’unità di tempo. Se prendo in considerazione una sostanza eliminata dal rene, la clearance
diventa indice della funzionalità renale.
[Dalle slide: Si definisce clearance (to clear: depurare) di una sostanza la quantità di plasma che
viene depurata di quella sostanza nell’unità di tempo: il calcolo della clearance si basa sull’assunto
che ogni sostanza rimossa dal plasma si ritrova simultaneamente nelle urine; pertanto, la
concentrazione nel plasma di una certa sostanza (P), moltiplicata per il volume di sangue depurato
di essa in 1 minuto (vale a dire il valore della clearance - C) deve essere uguale alla concentrazione
della stessa sostanza nelle urine (U) moltiplicata per la quantità di urina eliminata nell’unità di
tempo (V)]
CxP=UxV da cui 
Quindi sarà sufficiente applicare la formula usando come concentrazioni quelle di una sostanza
adeguata allo scopo.
Le prove di clearance vengono utilizzate principalmente per la valutazione del filtrato glomerulare
(e per diagnosticare eventuali glomerulopatie), cioè del volume di preurina prodotta dal
glomerulo nell’unità di tempo per ultrafiltrazione del sangue circolante. La sostanza ideale da
utilizzare a questo scopo dovrebbe presentare le seguenti caratteristiche:
• essere filtrata completamente dal glomerulo;
• non essere né riassorbita né secreta dal tubulo;
• non legarsi a proteine plasmatiche;
• non essere metabolizzata dall’organismo;
• non essere eliminate attraverso altri emuntori o dispersa nei tessuti;
• essere priva di tossicità e ben tollerata;
• poter essere dosata con facilità e sicurezza;
Sulla base di questi requisiti si possono usare due sostanze:
- Creatinina (endogena): non è perfetta perché viene parzialmente secreta, quindi in base
alle condizioni ottimali non è al 100% adatta, i “puristi” sostengono che questa non
dovrebbe essere utilizzata, ma in laboratorio si fa un errore analitico che controbilancia
questa caratteristica di secrezione.
- Inulina (esogena): non essendo normalmente presente nell’organismo deve essere
iniettata nel paziente, bisogna attendere il tempo che si distribuisca in maniera omogenea
nell’organismo e poi effettuarne la misurazione. Si tratta quindi di un procedimento più
complesso, che può fare ritenere accettabile la piccola approssimazione operata sulla
creatinina.
[Dalle slide: La sostanza che meglio risponde ai suddetti requisiti è l’inulina, polisaccaride esogeno
costituito prevalentemente da unità di D-fruttosio (PM 5.000): l’inulina viene completamente
filtrata dal glomerulo ed eliminata con le urine senza essere né riassorbita né secreta dal tubulo;
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pertanto, la sua clearance corrisponde esattamente alla quantità di liquido filtrato dai glomeruli
nell’unità di tempo. Per comodità di esecuzione, nella pratica clinica si ricorre più spesso alla
creatinina, sostanza endogena che presenta però il limite di essere parzialmente secreta dalle
cellule del tubulo renale, soprattutto quando i valori ematici si alzano per un deficit di filtrazione;
tale limite viene comunque controbilanciato da un errore tecnico relativo alla metodica utilizzata
per la determinazione della creatinina che tende a sovrastimare la concentrazione di creatinina
sierica rispetto a quella urinaria]
Per calcolare la clearance della creatinina in un paziente servono tre dati:

- Concentrazione urinaria: ottenibile dal laboratorio tramite valutazione di un campione di


urina
- Concentrazione plasmatica: ottenibile dal laboratorio tramite valutazione di un campione
di sangue periferico.
- Flusso urinario: valutazione clinica, bisogna calcolare quanta urina produce il paziente
nell’unità di tempo, per farlo si chiede al paziente di svuotare completamente la vescica,
dopo di che si aspettano un paio di ore e si invita nuovamente lo stesso a svolgere la stessa
operazione (spontaneamente o con un catetere), questa volta raccogliendo il volume di
urine, è così possibile ricavare il flusso urinario ovvero la quantità di urine prodotte
nell’unità di tempo (2h).
La creatininemia è più semplice da ottenere, ma le prove di
clearance sono più sensibili (i valori di clearance si modificano
prima di quelli di creatininemia): schema esplicativo la
clearance della creatinina è 110 (vr), e man mano che il rene
perde la sua funzionalità diminuisce; solo a circa 40 comincia ad
aumentare la creatininemia, valore alla quale ho già una capacità
di filtrazione glomerulare dimezzata. Ciò dimostra che le prove di
clearance esogene sono più informative, ma sono più complicate;
occorre quindi fare un bilancio ogni volta, per determinare quale
esame effettuare per ciascun paziente.
Riepilogando, per valutare la funzionalità glomerulare si può usare canonicamente la clearance
dell’inulina, più routinariamente quella della creatinina.
Esempio: creatinina nelle urine =59 mg/dL; flusso urinario = 2,16 ml/min; creatinina nel plasma =
1,2 mg/dL.
Per calcolare il valore di clearance è sufficiente applicare la formula
Cc=59 x 2,16: 1,2 = 106, 2 ml/min
Questo valore corrisponde ai ml di plasma che il rene riesce a depurare dalla creatinina nell’unità
di tempo.
Quindi mentre l’azotemia nei pazienti con insufficienza renale aumenta, la clearance diminuisce,
perché un rene che non funziona correttamente riesce a depurare una minore quantità di sangue.
La valutazione della clearance deve essere rapportata alla superficie corporea; i valori di
riferimento (tra 70 e 135 ml/min per l’uomo e tra 70 e 120 ml/min per la donna) sono riferiti ad
un paziente con una superficie corporea di 1,73 m².
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Questo valore è calcolabile sulla base di normogrammi facilmente
consultabili che mettono in relazione l’altezza con il peso; permettono
quindi di correggere la valutazione qualora si stesse prendendo in
considerazione un paziente obeso o ad esempio in età pediatrica. È una
particolarità in quanto è uno dei pochi esami di laboratorio che richiede
una valutazione della superficie corporea.

[Dalle slide: Cause di riduzione del filtrato glomerulare Una riduzione


del filtrato glomerulare può verificarsi in seguito ad una:- riduzione della
portata renale plasmatica, che si verifica, ad esempio, nei casi di grave
caduta della pressione arteriosa in seguito a stati di shock, emorragie
acute o disidratazione;-riduzione della superficie filtrante dei glomeruli,
che si verifica ad esempio in corso di glomerulonefrite cronica,
glomerulosclerosi diabetica, pielonefrite cronica]
[Dalle slide: Determinazione della PRP (portata renale plasmatica)  La portata renale
plasmatica (PRP) è data dalla quantità di plasma che circola attraverso l’apparato escretorio
renale nell’unità di tempo. Condizione basilare per la determinazione della PRP è l’impiego di una
sostanza che, in un solo passaggio attraverso il rene, venga completamente estratta dal sangue
(non importa se ad opera del tubulo o del glomerulo) e totalmente escreta con le urine; la
clearance di tale sostanza, vale a dire la quantità di plasma depurata dalla stessa nell’unità di
tempo, corrisponderà al volume di plasma che attraversa il rene nell’unità di tempo cioè, appunto,
alla PRP. La sostanza che meglio risponde ai suddetti requisiti è il sale sodico dell’acido para-
ammino-ippurico (PAI), sostanza esogena che viene eliminata dal sangue sia per filtrazione
glomerulare sia per secrezione tubulare; una condizione fondamentale per l’uso del PAI nella
determinazione delle PRP è che la sua concentrazione ematica rimanga sotto i 10 mg/ml: oltre
questo valore, infatti, si supera sia la capacità di filtrazione glomerulare sia la capacità di
secrezione tubulare]

PROVE FUNZIONALI PER TUBULOPATIE


La creatinina è la sostanza che permette di valutare la funzionalità del glomerulo, se si volessero
invece usare le prove di clearance per valutare la funzionalità del tubulo, ovvero la capacità dei
reni di adattare l’eliminazione urinaria a condizioni di sovraccarico o carenza d’acqua, la sostanza
scelta dovrebbe essere o completamente secreta o completamente riassorbita dallo stesso; un
composto che risponde a questi requisiti è il glucosio, quindi applicando al glucosio la formula di
clearance indicata prima si potrebbe potenzialmente valutare la funzionalità tubulare
(attenzione, per fare questo tipo di valutazione bisognerebbe prima accertarsi della funzionalità
glomerulare a monte). In realtà nella pratica clinica vengono utilizzate due strategie differenti:

o Prova di concentrazione: si opera una disidratazione volontaria del paziente non


facendogli ingerire liquidi per 12 ore: il paziente deve svuotare la vescica e consumare una
cena priva di liquidi alle 18, senza assumere altro alimento liquido o solido; alle 6, alle 8 e
alle 10 della mattina successiva si raccolgono tre campioni di urina: in condizioni di
normale funzionalità tubulare, negli ultimi due campioni, o almeno in uno di essi, il peso
specifico deve superare 1,025; questo perché in una condizione di carenza di liquidi ci si

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aspetterà un’urina molto concentrata dal peso specifico molto alto. Se invece il peso
specifico sarà normale vorrà dire che il paziente non ha concentrato le urine e quindi che il
tubulo non ha funzionato correttamente. Questo è un indicatore meno raffinato di quello
della clearance del glucosio, ma usato spesso nella pratica.
o Prova della diluizione: (prova inversa) al soggetto a digiuno dalla sera precedente si fa
svuotare la vescica e quindi si somministrano 1200 cc di acqua che devono essere bevuti in
30 minuti (iperidratazione); nelle successive 4 ore, ogni 30 minuti si raccolgono
separatamente le urine formate: in condizioni di normale funzionalità tubulare, il peso
specifico di almeno uno dei due primi campioni deve scendere a un valore di 1,003, anche
in questo caso se le urine non sono diluite significa che il tubulo non ha funzionato. Il
professore spiega come questa metodica sia meno utilizzata in quanto frequentemente i
pazienti che vi vengono sottoposti sono allettati e faticano a bere un quantitativo di acqua
così importante in soli 30 minuti, in più dare un carico d’acqua ad un paziente con un
problema renale potrebbe causare un blocco renale e di conseguenza la cosiddetta
“intossicazione da acqua”.
Da un punto di vista teorico questi due esami sono equivalenti, ma il professore sconsiglia il
secondo per i motivi sopracitati, la scelta spetta comunque al medico in seguito alla sua personale
valutazione.

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