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CLINICA
AA. 2020/2021
CANALE A - PROF D. TRERÈ
Fonti utilizzate:
Lezioni frontali
Sbobine canale A 2020/2021
Slide
Dispense degli anni scorsi
Internet
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CAPITOLO 1: LE PROTEINE NEL SANGUE
Le proteine del sangue vengono studiate poiché hanno un significato diagnostico molto
importante. Nel nostro organismo il numero di proteine presenti in generale è molto elevato e un
centinaio di queste circola nel sangue periferico. Tali proteine sono quindi facilmente accessibili,
poiché basta un prelievo di sangue per dosarle. Nonostante il numero di proteine nel sangue
periferico sia molto inferiore rispetto a quelle totali nel nostro organismo, queste sono
estremamente utili nell’inquadrare la presenza o meno di patologie importanti. L’utilità dell’esame
di laboratorio sta nel fatto di poter valutare eventuali variazioni qualitative e quantitative delle
proteine nel sangue che hanno un significato diagnostico e quindi ci possono aiutare appunto a
valutare la presenza della patologia.
Queste 100 proteine sono sintetizzate prevalentemente dal fegato, mentre:
- un 20%, quindi una quota minore, viene sintetizzata dalle plasmacellule e consistono nelle
immunoglobuline (o anticorpi)
- alcune sono elementi del complemento e quindi sintetizzate dal sistema monocito-
macrofagico
- alcune sono apolipoproteine prodotte dalla parete intestinale
- infine, ci sono ormoni proteici circolanti prodotti da specifiche cellule a funzione endocrina.
Nel loro insieme le proteine formano una soluzione relativamente stabile e si suddividono in base
alla solubilità in albumine (solubili in acqua) e globuline (solubili in soluzioni saline diluite).
Quando possibile in laboratorio si preferisce lavorare sul siero. La differenza tra plasma e siero è
che quest’ultimo è costituito dal plasma da cui vengono eliminati i fattori di coagulazione.
Buona parte dell’attività diagnostica di laboratorio viene effettuata tramite strumenti
automatizzati, poiché a parte la diagnosi molecolare, nessuna diagnosi viene più fatta a mano, per
cui i campioni biologici seguono dei percorsi in queste macchine dove vengono processati. Il
materiale che arriva in laboratorio è trattato con sostanze anticoagulanti: tuttavia, quando il
plasma viene processato, si possono formare al suo interno dei piccoli coaguli che interferiscono
con il processo di analisi. È preferibile perciò, quando possibile, utilizzare il siero, da cui il nome di
“proteine sieriche” per le proteine che vengono analizzate (concentrazione: 6-8 g/dL).
IL TRACCIATO ELETTROFORETICO
In laboratorio si utilizza la tecnica elettroforetica per l’analisi delle proteine sieriche: questa
tecnica prevede la separazione dell’insieme eterogeneo delle proteine nelle diverse componenti,
utilizzando un campo elettrico. È infatti presente un catodo o polo positivo, verso cui le proteine,
che sono cariche negativamente (essendo sostanze anfoteriche in un ambiente basico), si
muovono. Il movimento dipende sia dalla quantità di carica negativa che dalla massa proteica. Le
proteine più piccole e cariche migreranno quindi più velocemente, mentre quelle più grandi e
meno cariche rimarranno praticamente nel punto di semina.
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Originariamente questa tecnica consentiva di separare quattro tipi di proteine in quattro bande: il
primo consistente nel gruppo di proteine più veloci, che in realtà ne contiene soltanto una,
l’albumina, e poi altri tre gruppi denominati con le lettere greche α, β e γ. Oggi le tecniche più
moderne dividono il gruppo α in α1 e α2. Normalmente, dunque, dalla separazione elettroforetica
delle proteine sieriche si individuano i seguenti gruppi o bande:
1. ALBUMINA:
È la proteina ematica più abbondante ed infatti è la
principale responsabile della pressione oncotica nel
plasma. Ha un’emivita di circa 2-3 settimane (da
ricordare). La sua funzione oltre a determinare e
regolare la pressione oncotica del sangue, è quella di
trasferire e veicolare sostanze insolubili nel sangue
periferico (bilirubina, acidi grassi non esterificati),
ormoni (tiroxina, triiodiotironina, cortisolo,
aldosterone), farmaci (salicilati, warfarina,
clofibrato, fenilbutazone) e ioni (il 40% del calcio
sierico).
[Dalle slide: La sua concentrazione plasmatica viene utilizzata principalmente come indice di
funzionalità epatica e dello stato nutrizionale: l’albuminemia diminuisce inoltre nelle nefropatie
con proteinuria, nelle ustioni, e nelle enteropatie protido-disperdenti. La riduzione dei suoi livelli
plasmatici costituisce un elemento caratterizzante la risposta della fase acuta.
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Prealbumina o transtiretrina (non trattata):
2. BANDA α1
Anche questa è costituita per la maggior parte
(90%) da un’unica proteina, l’α1-antitripsina
(AAT). Questa proteina è un inibitore della
tripsina, ma l’attività inibitoria si estende in realtà
a più enzimi, svolgendo un’ampia attività anti-
proteasica. Si lega a elastasi, collagenasi,
chimotripsina, plasmina e trombina. Questi sono
enzimi che vengono liberati dai polimorfonucleati
neutrofili durante un processo infiammatorio,
poiché hanno attività antibatterica.
Le proteine come l’α1-antitripsina sono necessarie a tamponare l’azione isto-lesiva che potrebbero
avere questi enzimi nei confronti delle cellule dell’organismo. Essi, infatti, hanno la proprietà di
distruggere i batteri, ma potrebbero anche danneggiare le cellule proprie.
Il deficit di α1-antitripsina può causare enfisema polmonare e epatopatia:
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La patologia da deficit di α1-antitripsina si trasmette come carattere autosomico recessivo con
un’incidenza di 1/2000-4000 nati vivi: è quindi, pur rimanendo relativamente rara, una tra le più
comuni malattie genetiche gravi. Si conoscono ad oggi più di 75 varianti del gene (SERPINA1, da
SERine Protease INhibitor A1, si trova sul cromosoma 14) e vengono classificate con le lettere
dell’alfabeto. Una ventina di queste varianti può determinare una modificazione nell’attività
dell’enzima, con conseguente manifestazione patologica:
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3. BANDA α2:
Le α2-globuline sono principalmente costituite
da due componenti:
l’α2-macroglobulina: è molto
grande, ha un peso molecolare di
800 kDa ed è quindi seconda in
dimensioni solo alle IgM, le
immunoglobuline pentameriche.
Ha una funzione simile a quella
dell’α1-antitripsina: un’anti-proteasi aspecifica, che interviene anche nella regolazione
dei processi emocoagulativi (insieme alla α2-antiplasmina, inibisce l’azione fibrinolitica
della plasmina sulla fibrina), nella risposta immunitaria e nel trasporto di ormoni
(somatotropo e insulina). Essendo che non sono state ancora riconosciute malattie da
deficit congeniti, si può dedurre che le malattie da deficit siano incompatibili con la
vita. Data la sua dimensione, nelle sindromi nefrosiche, come nelle glomerulopatie
importanti in cui il danno glomerulare è molto rilevante e si altera il filtro glomerulare,
determinando il passaggio delle proteine plasmatiche, la macroglobulina non passa,
rimane nel siero. Non è una proteina della fase acuta;
l’aptoglobina ha la funzione di intercettare l’emoglobina che si libera dai globuli rossi.
Vi sono infatti delle tipologie di anemie, ossia le anemie emolitiche, che sono rare, ma
possono provocare la liberazione di grandi quantità di emoglobina. Questa quando
arriva al glomerulo viene filtrata ed eliminata tramite le urine. In questo modo si perde
l’emoglobina, ma soprattutto il ferro contenuto in essa. L’aptoglobina, quindi,
intercetta l’emoglobina liberata in seguito ad emolisi intravascolare, la capta e fa in
modo che quindi non venga eliminato tramite l’urina: il complesso aptoglobina-
emoglobina viene rimosso dal plasma ad opera del sistema reticolo-endoteliale e
metabolizzato in AA e ferro. Nelle emolisi intravascolari i livelli ematici di aptoglobina
risultano ridotti, mentre aumentano in corso di neoplasie, traumi e processi
infiammatori. Solo quando le anemie sono di grande entità l’azione dell’aptoglobina
non riesce a rimediare all’eliminazione dell’emoglobina.
Sono presenti anche altre proteine del picco α2, che però sono meno rilevanti:
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4. BANDA β:
5. BANDA γ:
N.B.: Se facessimo
un’elettroforesi del sangue intero
avremo anche un contributo del
fibrinogeno, che è il fattore di
coagulazione che ha la maggiore
concentrazione a livello
plasmatico, tanto da poter essere
rilevato appunto in un tracciato
elettroforetico. Considerando
l’immagine di fianco possiamo
vedere che a sinistra vi è un
grafico relativo all’analisi del siero, mentre a destra vi è quello relativo al sangue intero, in cui
possiamo osservare tra il picco beta e il gamma quello del fibrinogeno;
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Proteina C reattiva, importante indice di flogosi, che è presente in quantità minime,
tanto che non modifica la forma del tracciato. Il suo nome deriva dalla capacità di
legare il polisaccaride C dello Streptococcus Pneumoniae. In realtà è anche in grado di
legarsi a molti altri polisaccaridi presenti su specie batteriche, protozoi e parassiti.
(L’acronimo di questa è PCR, da non confondere con la reazione a catena della polimerasi)
La funzione di questa proteina è di legare questi target su specie soprattutto batteriche,
in modo da attivare la via classica del complemento (attraverso il fattore C1q) e quindi
contribuire alla regolazione della risposta infiammatoria. Questa proteina è anche
un’opsonina, poiché legandosi a queste sostanze estranee come i batteri, permette il
loro riconoscimento da parte dei leucociti e la successiva fagocitosi. Non si conoscono
neanche in questo caso delle malattie da deficit di questa proteina, che risulta quindi
fondamentale per la vita.
INFIAMMAZIONE ACUTA
È un quadro che si determina generalmente a seguito di lesioni distruttive: neoplasie, necrosi,
ustioni, traumi, danni cellulari che determinano una risposta di tipo infiammatorio. Come
evidenziato dal grafico accanto, il tracciato elettroforetico delle proteine sieriche a seguito di un
evento di questo tipo subisce delle modifiche. In particolar
modo si osserva:
- Un aumento marcato delle α2 globuline da attribuire
in particolare ad un aumento dell’aptoglobina
- Un aumento meno marcato delle α1 globuline (in
particolare di α1 anti-tripsina)
- Aumenta anche la PCR, ma non determina variazioni
evidenti nel profilo elettroforetico.
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INFIAMMAZIONE CRONICA
Il grafico in questo caso mostra:
- Un aumento di α2 globuline (da imputare sempre
all’aptoglobina)
- Un aumento più evidente delle γ globuline
(immunoglobuline). L’aumento di questo picco in
questo caso viene definito a “base larga”.
L’aumento delle γ globuline sarà questa volta più rilevante
dell’aumento delle α2.
EPATOPATIA CRONICA
Qualsiasi danno cronico al fegato compromette la sua capacità
di produrre proteine, anche quelle plasmatiche. Si avrà
pertanto:
- Una diminuzione delle α1, α2 e β globuline
- Un aumento delle γ globuline
L’aumento immunoglobulinico è sia relativo, in quanto la
produzione delle altre globuline cala, sia assoluto, nel caso ci
sia ad esempio un’epatite cronica, che porta a iperproduzione
di γ globuline.
Il fegato, tra le tante, ha anche la funzione di smaltire le immunoglobuline provenienti dal circolo
ematico, contribuendo di fatto alla loro clearance. Un’insufficienza epatica, quindi un deficit
funzionale epatico, può determinare una riduzione di questa clearance.
Un indice importante per misurare l’entità di questo processo è il rapporto albumina/globuline.
Questo rapporto fisiologicamente è sempre sopra l’unità, tuttavia quando diventa sub-unitario
allora si può sospettare una condizione di questo tipo, in cui la clearence immunoglobulinica sia
compromessa.
SINDROME NEFROSICA
La sindrome nefrosica consiste in una perdita della
normale permeabilità del glomerulo renale, che fa sì che
le proteine vengano eliminate in eccesso rispetto alla
normalità.
Viene filtrato un gran numero di proteine e passano attraverso il glomerulo proteine più grandi
che normalmente dovrebbero essere trattenute nell’organismo. Clinicamente questa condizione
porterà all’edema: per via della proteinuria (eliminazione massiva di proteine tramite le urine)
avremo una riduzione della pressione oncotica del sangue e quindi edema. L’α2 globulina è una
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proteina molto grande e non passa attraverso il glomerulo neanche in caso di sindrome nefrosica,
pertanto a livello del sangue periferico avremo:
- Un aumento relativo della α2 globulina
- Diminuzione dell’albumina e di molte altre proteine plasmatiche
- Un aumento delle β globuline (β-lipoproteine epatiche)
Il fegato, inoltre, nel tentativo di ripristinare la pressione oncotica sintetizza lipoproteine e in
particolare β lipoproteine e pre-β lipoproteine, responsabili appunto dell’aumento del picco beta.
GAMMOPATIA MONOCLONALE
Questa condizione risulta essere molto evidente, come si evince anche dal grafico. Questo quadro
è una diretta conseguenza di una neoplasia delle plasmacellule: il mieloma multiplo. È
caratterizzata dalla trasformazione neoplastica di una plasmacellula che comincia a produrre un
solo tipo di immunoglobuline. Il picco che segna questo aumento può superare anche il picco di
albumina, inoltre -differentemente dalle epatopatie croniche in cui si ha un aumento di tutte le
immunoglobuline- è un picco a “base stretta” perché è rappresentativo dell’aumento di un solo
tipo di γ globuline.
AGAMMAGLOBULINEMIA
Condizione opposta alla precedente e molto rara. È dovuta a un’alterazione congenita dei linfociti
B tale per cui i soggetti affetti non possono produrre γ globuline, dunque scompare il picco relativo
a queste.
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INDICI DI FLOGOSI
Sono degli indici di laboratorio che servono per diagnosticare e monitorare il processo flogistico in
atto.
VELOCITA’ DI ERITROSEDIMENTAZIONE
Il secondo indice di flogosi è la VES, acronimo di velocità di eritrosedimentazione.
È stato osservato in passato che effettivamente prendendo provette di sangue (a cui viene
aggiunto anticoagulante) di diversi pazienti vi sia una differenza tra i livelli dei globuli rossi nel
corso del tempo. I globuli rossi sono infatti spinti verso il basso dalla forza di gravità, avendo
densità maggiore al plasma, ma la velocità con cui questi cadono è variabile. La velocità di caduta
varia di paziente in paziente, a seconda delle loro condizioni: il primo ad accorgersi di ciò fu un
ginecologo, il quale notò che le donne in gravidanza avevano delle velocità di sedimentazione più
elevate rispetto alla norma.
Il procedimento per ottenere la VES è semplice: si misura di quanti millimetri è sceso il livello dei
globuli rossi in un ora all’interno di una provetta millimetrata posta verticalmente. Ovviamente
quest’operazione non viene più fatta manualmente ma tramite delle macchine automatizzate.
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Nei soggetti con età inferiore a 50 anni i valori di riferimento della VES sono fino a 15 mm/h per il
sesso maschile e fino a 20 mm/h per il sesso femminile (con un incremento durante il periodo
mestruale); dopo i 50 anni i valori salgono fino a 20 mm/h per il sesso maschile e fino a 30 mm/h
per il sesso femminile
La VES si può calcolare applicando la legge di Stokes:
( )
V=
Questa legge si applica a particelle ideali sferiche, i globuli rossi in realtà sono biconcavi ma si può
approssimare la morfologia. Per la legge di Stokes la velocità di sedimentazione di una particella in
un liquido dipende dal doppio del quadrato del raggio della particella (quindi dalle sue
dimensioni), moltiplicato per la differenza tra le densità delle due sospensioni (nel nostro caso è
una costante), moltiplicato per la costante di gravità (quindi un’altra costante); e il tutto fratto
nove volte la viscosità del liquido.
Quindi, semplificando, l’equazione ci dice che la VES dipende dalle dimensioni dei globuli rossi e
dalla viscosità del sangue, la quale è strettamente correlata al numero dei globuli rossi. Definiamo
la VES allora come direttamente proporzionale alla massa eritrocitaria e inversamente
proporzionale al numero degli eritrociti.
La VES è indice di flogosi perché normalmente i globuli rossi tendono a respingersi tra loro: le forze
di elettro-repulsione prevalgono, quindi i globuli circolanti hanno una scarsa predisposizione
all’aggregazione. Durante la fase acuta alcune proteine di questa fase, come il fibrinogeno e le
proteine asimmetriche come le immunoglobuline, tendono a ridurre le forze elettro-repulsive che
fanno respingere tra loro i globuli rossi. I globuli rossi allora cominciano ad aggregarsi tra loro
portando a un aumento del numeratore della legge di Stokes, per cui aumenta la VES. Questo
indice di flogosi è quindi un indicatore indiretto, in quanto dipende a sua volta dalla produzione
delle proteine della fase acuta. Si tratta, inoltre, di un parametro che dipende anche da altri fattori,
che possono essere disturbanti per la rilevazione o il monitoraggio del processo flogistico. La VES
varia, infatti, con l’età e il sesso, si modifica con una latenza maggiore rispetto alla PCR (in quanto
il fibrinogeno aumenta più tardivamente), e, infine, la VES varia anche a seconda delle patologie
che riguardano il numero o le dimensioni dei globuli rossi.
[dalla dispensa dell’anno scorso:
1. Una policitemia da alta quota provoca un aumento del numero di globuli rossi e la VES risulta
diminuita -> controbilancia l’innalzamento indotto da un eventuale infiammazione che non
risulterebbe diagnosticabile (falso negativo);
2. Nel caso invece di una anemia, la VES sarebbe più elevata per il calo di numero di globuli rossi,
ma ciò non sarebbe indice di flogosi (falso positivo)].
Nonostante queste criticità, la rilevazione della VES è molto utilizzata nella pratica clinica,
soprattutto per la semplicità del metodo e per la sua economicità. Dal punto di vista teorico,
tuttavia, la ricerca della PCR non ha rivali, è l’indice di flogosi per eccellenza.
[Si sconsiglia di farle entrambe in contemporanea. Si potrebbe fare prima la VES e, se il risultato
non fosse soddisfacente, fare in seguito anche la PCR, ma mai entrambe contemporaneamente per
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ragioni economiche e logiche: non ha senso fare un doppio test quando già uno solo di questi, la
PCR, è sufficiente e altamente affidabile, e non ha senso fare la PCR prima e la VES dopo perché la
VES sarà sempre meno affidabile]
Per concludere, gli indici di flogosi sono dei parametri estremamente sensibili (soprattutto se ci si
riferisce alla PCR) e sono utili per indicare la presenza, l’intensità e la durata di un processo
infiammatorio, tuttavia sono anche degli indici aspecifici: informano del fatto che nel paziente è in
atto un processo infiammatorio, ma non dicono nulla sulla causa del processo stesso. La
valutazione di questi indici sarà dunque solo l’inizio dell’indagine diagnostica che dovrà in seguito
essere volta a trovare le cause effettive della flogosi.
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CAPITOLO 2: IL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE
DELLA FUNZIONE EMOSTATICA
Il termine emostasi (dal greco di αἷμα «sangue» e στάσις «immobilità, interruzione») comprende
tutti i meccanismi fisiologici che l'organismo mette in atto per evitare perdite di sangue. Nell’uomo
non è presente una riserva di sangue, ma ciò che è in circolo è sempre utile e necessario quindi
bisogna evitarne la dispersione.
In realtà il sistema emostatico è un sistema molto complesso perché nel contempo riesce a
garantire sia l’interruzione di un’emorragia che il mantenimento della fluidità del sangue. Perciò
grazie alla funzione emostatica l'organismo può fare cessare il sanguinamento di una ferita, pur
mantenendo nello stesso tempo la necessaria fluidità del sangue nel compartimento
intravascolare.
Un’alterazione del processo emostatico si traduce clinicamente con due manifestazioni estreme:
IL PROCESSO EMOSTATICO
Il processo emostatico viene tradizionalmente diviso in un’emostasi primaria e un’emostasi
secondaria. Questa suddivisione ha sicuramente un’utilità didattica e facilita nello studiare
l’argomento, ma in realtà questo meccanismo è molto più complesso, integrato e sincrono.
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In generale quindi le piastrine sono gli elementi
fondamentali dell’emostasi primaria e i fattori di
coagulazione lo sono per l’emostasi secondaria.
LE PIASTRINE
Nell’immagine a lato è presente uno striscio di sangue
periferico in cui si identificano: in basso al centro un
polimorfonucleato (a sx) e un linfocita (a dx), mentre sono
evidenziate dalle teste di freccia alcune piastrine al cui
interno sono visibili i granuli (visualizzabili anche con la colorazione di May-Grunwald e Giemsa).
Le piastrine sono dei frammenti citoplasmatici che derivano dal megacariocita che a sua volta
deriva dal precursore midollare che si chiama megacarioblasto; si aggirano tra le 150’000 e
400'000 per mm3 e sono per 2/3 circolanti e 1/3 sequestrato in un pool splenico. La vita media
delle piastrine è intorno ai 10-12 giorni, dopo di che vengono rimosse dai fagociti mononucleati
del sistema reticolo-endoteliale. Le piastrine non attivate hanno un diametro tra 1 e 4 μ ed uno
spessore 1 μ, pari a 1/7-1/8 di un globulo rosso.
Tra le componenti delle piastrine, le più importanti sono:
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Il vWF plasmatico svolge una duplice funzione:
media l’adesione delle piastrine al connettivo sottoendoteliale dei vasi sanguigni che
hanno subito lesioni;
solubilizza, veicola e stabilizza il fattore VIII della coagulazione, proteggendolo dalla
degradazione.
È quindi evidente che il vWF regola sia l’emostasi primaria ma è anche un fattore importante nella
regolazione dell’emostasi secondaria, confermando l’intersezione tra i processi emostatici.
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Una volta identificata la modalità di trasmissione, chiamò questa patologia “pseudo-emofilia” a
seguito delle differenze tra le due manifestazioni per quanto riguarda:
Nell’immagine a sx, si vede uno striscio di sangue normale con un certo numero di piastrine più
piccole dei globuli rossi. A dx invece lo striscio di sangue è stato ottenuto da un paziente con la
sindrome di Bernard Soulier e tra i globuli rossi si distinguono le piastrine giganti (da non
confondere per monociti).
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Riassumendo, le alterazioni dell’emostasi primaria sono caratterizzate prevalentemente dalla
sindrome di von Willebrand quando manca il vWF e molto più raramente dalla sindrome di
Bernard Soulier quando manca o non è funzionale il recettore GpIb che lega le piastrine con il
connettivo sottoendoteliale.
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Tromboastenia di Glanzmann
Il deficit quantitativo o qualitativo del complesso recettoriale GpIIb/IIIa (solitamente congenito)
causa una grave sindrome emorragica, nota come tromboastenia di Glanzmann. Si trasmette
secondo una modalità autosomica recessiva e si tratta di una patologia rarissima, fino a pochi anni
fa erano conosciuti pochi migliaia di casi al mondo.
Le manifestazioni cliniche sono le stesse che si osservano nelle altre condizioni in cui è presente un
deficit della funzione piastrinica, anche se in questo caso il problema è di aggregazione e non di
adesione: sanguinamenti cutanei o mucosi in seguito a traumi minimi che si presentano nella
infanzia / adolescenza, epistassi, gengivorragie, menorragie ed emorragie post-traumatiche o
chirurgiche.
[Dalle slide: La diagnosi si basa sul riscontro di un tempo di sanguinamento prolungato con tempi
di coagulazione (aPTT e PT) normali e normale conta e morfologia delle piastrine. Contrariamente
alle sindromi di von Willebrand e di Bernard Soullier, nella tromboastenia di Glanzmann il test di
aggregazione con ADP è alterato, mentre risulta normale il test con la ristocetina. La diagnosi viene
completata dalla misurazione dei livelli di GPIIb/IIIa, di GPIIb e IIIa separatamente, e dal legame
con il fibrinogeno utilizzando anticorpi monoclonali specifici.]
nds. Il professore precisa l’estrema rarità della patologia che quasi sicuramente non incontreremo
durante la carriera medica, ma ne ritiene utile la trattazione per consolidare le informazioni sulla
fisiopatologia delle emostasi.
L’ADP, oltre ad attivare il complesso recettoriale GpIIb/IIIa, assieme a trombina e collageno, attiva
le fosfolipasi A2 e C che liberano acido arachidonico dai fosfolipidi della membrana piastrinica
(fosfatidilcolina e fosfatidilinositolo).
L’acido arachidonico può avere due diversi destini metabolici:
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Quest’azione nella pratica medica può essere:
- negativa per coloro che hanno necessità di terapie antinfiammatorie prolungate. In questi
casi l’effetto finisce per essere la complicanza più importante nei pazienti che devono
prendere cronicamente questi farmaci (ovvero i FANS) aumentando il rischio di emorragia;
- positiva per coloro che hanno un elevato rischio di trombosi. L’aspirina se usata come
farmaco antiaggregante ha quindi un’azione preventiva nei pazienti che rischiano una
trombosi arterovenosa o hanno avuto patologie che possono facilitare tale alterazione
emostatica.
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sono le cellule endoteliali. Evidentemente sotto il tappo emostatico primario non c’erano più
cellule endoteliali.
Le piastrine hanno aderito con i propri recettori al connettivo sottoendoteliale e si sono aggregate
per costituire il tappo emostatico primario interrompendo l’emorragia. Questo processo nella
pratica si verifica ogni volta che ci si taglia mentre si fa la barba o lavorando in cucina. Una volta
lesionata la cute è necessario aspettare qualche minuto prima che si interrompa l’emorragia grazie
al tappo emostatico primario.
EMOSTASI SECONDARIA
Se a questo punto si ripristinasse la normale pressione vascolare, il tappo emostatico primario
verrebbe spazzato via perché friabile e non resistente. L’emostasi secondaria ha quindi lo scopo di
consolidarlo così da permettere il ripristino della pressione e l’adeguata irrorazione dei tessuti.
Pertanto, a seguito del danno vascolare, le cellule endoteliali sintetizzano fattori che, in sinergia
con fattori prodotti dalle piastrine, attivano la cascata coagulativa.
I fattori della coagulazione sono prodotti dal fegato e normalmente circolano inattivi nel sangue
periferico. Quando si attivano, lo fanno secondo una sequela che si chiama cascata coagulativa,
una catena di enzimi che si attivano l’uno dopo l’altro: perciò, in condizioni normali, tutti gli enzimi
sono inattivi e quando si ha un danno endoteliale o la liberazione in circolo del fattore tissutale, si
attivano alcuni fattori della coagulazione che innescano questa cascata.
La finalità della cascata coagulativa è produrre fibrina, che è il collante capace di consolidare il
tappo emostatico primario.
Data la centralità di questo meccanismo, è necessario conoscerne e comprenderne tutti i passaggi.
Tradizionalmente e per semplicità didattica è suddivisa in due vie, una intrinseca e una estrinseca,
anche se oggi questi schemi sono un po’ superati.
VIII
FP3 Ca++
Ca++
X Xa
V
FP3
Ca++
INTRINSECA è la via che si attiva tutte le volte che il sangue entra in contatto con una
superficie estranea, ad esempio una provetta di laboratorio. Quando il sangue entra in
contatto con una superficie che non è una cellula endoteliale si attiva il fattore XII che a
sua volta attiva l’XI che porta all’attivazione del IX il quale attiva il X in presenza del fattore
VIII, del complesso fosfolipidico FP3 (fattore piastrinico III) e del Ca2+ (ione fondamentale
per il buon funzionamento della cascata coagulativa). Il fattore X attivato attiva il II in
presenza del fattore V, FP3 e del Ca2+. Il fattore II infine permette la conversione del
fibrinogeno in fibrina, stabilizzata poi dal fattore XIII, che trasforma la fibrina solubile in
fibrina insolubile. È bene ricordare che tutti i fattori della coagulazione possono essere
indicati con un nome o un numero, ma i nomi necessariamente da ricordare sono quelli di:
o protrombina (fattore II) che nella forma attiva si chiama trombina;
o fibrinogeno (fattore I) che nella forma attiva si chiama fibrina. Il fibrinogeno inoltre
è la molecola che si interpone fra i due recettori attivati di una piastrina in fase di
aggregazione a riprova dell’intersezione tra emostasi primaria e secondaria.
ESTRINSECA è la via che si attiva tutte le volte che c’è un danno tissutale. È la via più
importante in vivo e comincia con l’attivazione del fattore VII da parte del fattore tissutale
(FT, precedentemente chiamato tromboplastina). Questo è contenuto in tutte le cellule
(soprattutto le endoteliali) e si libera quando vengono danneggiate. Il FT attiva il fattore VII
che attiva il fattore X, seguendo poi le stesse tappe finali della via intrinseca.
Dal fattore X le due vie convergono descrivendo quindi la via comune della cascata coagulativa.
Il fattore IV corrisponde al calcio mentre nessun fattore della coagulazione è associato al numero VI
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nds. La cascata coagulativa è da imparare a memoria.
Il seguente schema sintetizza tutte le caratteristiche dei fattori di coagulazione (compreso il
nome), ma è necessario focalizzarsi sui 3 box rossi:
Il fattore XII come altri fattori di contatto non è necessario alla cascata coagulativa in vivo,
mentre è molto importante in quella in vitro: infatti, nei pazienti in cui manca il fattore XII
non si hanno fenomeni emorragici. Il fattore XII è chiamato anche fattore di Hageman dal
nome del primo paziente che fu identificato con questo tipo di alterazione. Hageman era
un ferroviere inglese che morì per embolia polmonare, ovvero una trombosi, situazione
opposta all’emorragia.
Il fibrinogeno è il fattore della coagulazione più rappresentato nel sangue periferico, tant’è
che se si fa la separazione elettroforetica delle proteine del plasma si ha un picco in più che
corrisponde a questa molecola.
I diversi fattori di coagulazione hanno diversa emivita e in particolar modo il fattore VII
(proconvertina) è quello con emivita minore. Anche questa informazione sarà utile per
capire fasi successive della lezione.
La cascata coagulativa è fondamentale per preservare l’organismo da perdite di sangue, ma può
anche essere pericolosa perché se viene attivata impropriamente ovviamente produce danni
importanti. È importante che la cascata coagulativa funzioni e operi bene, ma soltanto in
condizioni appropriate. Per questo motivo l’organismo produce anche inibitori della cascata
coagulativa che la bloccano quando viene attivata in maniera inappropriata.
NB. È lo stesso discorso visto per i fattori pro-infiammatori: l’infiammazione è uno strumento
importante che l’organismo ha nei confronti dei microrganismi patogeni, ma un’eccessiva
infiammazione può causare dei danni e quindi esistono una serie di proteine che la controllano e la
inibiscono.
l’antitrombina III che non inibisce solo la trombina attivata, ma anche il fattore X della
coagulazione e i fattori di innesco della via intrinseca (XII, XI, IX). L’azione dell’antitrombina
III è promossa dall’eparina (farmaco anticoagulante);
la proteina C attivata* e la proteina S che vengono invece attivate dalla trombomodulina,
una sostanza presente sulla superficie delle cellule endoteliali. Normalmente è inattiva, ma
viene innescata quando si produce trombina. La proteina C inibisce i fattori V e VIII agendo
con un meccanismo simile a un feedback negativo: con l’attivazione della cascata
coagulativa si forma la trombina che sicuramente trasforma il fibrinogeno in fibrina, ma
attiva anche una via inibitoria mediata dalla trombomodulina che blocca la cascata
coagulativa sui fattori V e VIII.
28
Esistono perciò due modalità, tra loro complementari, per inibire la cascata coagulativa. Questo
garantisce un perfetto equilibrio tra fattori pro-coagulanti e anticoagulanti.
*NB. La proteina C attivata è DIVERSA dalla proteina C reattiva, indice di flogosi
VIII
FP3 Ca++ attivazione
Ca++ inibizione
X Xa
proteina C attivata
proteina S V antitrombina
FP3 III
Ca++
trombomodulina
II (protrombina) IIa (trombina)
XIII, Ca++
I (fibrinogeno) fibrina fibrina
solubile insolubile
ENDOTELIO
Se si mette in una provetta di vetro o di plastica un campione di sangue, questo coagula e diventa
inutilizzabile in laboratorio. È quindi importante che il sangue arrivi liquido in laboratorio e per
raggiungere questo scopo all’interno delle provette si rimuove il fibrinogeno oppure si aggiungono
anticoagulanti.
Si distinguono due principali gruppi di sostanze ad azione anticoagulante:
sostanze chelanti il calcio che, di fatto, sottraggono il calcio alla cascata coagulativa
rendendolo indisponibile:
o citrato,
o ossalato,
o EDTA (acido etilendiaminico tetracetico) sotto forma di sali di sodio e di potassio,
inibitori della trombina: l’eparina esalta l’attività antitrombinica dell’antitrombina III.
In laboratorio si prediligono le sostanze chelanti il calcio, mentre l’eparina può essere utilizzata sia
in vitro che in vivo amplificando l’azione dell’antitrombina III.
29
hanno bisogno di un’ultima modificazione post-traduzionale che è mediata dalla vitamina K.
I fattori vitamina K-dipendenti funzionano
soltanto se carbossilati in posizione γ dalla γ- FATTORE DELLA
glutamilcarbossilasi che ha come coenzima COAGULAZIONE
indispensabile la vitamina K: quindi, in sintesi,
senza vitamina K non si ha questa COO - gruppo carbossilico prodotto dall’azione
della carbossilasi vitamina K - dipendente
carbossilazione e quei 4 fattori della
coagulazione, seppur sintetizzati dal fegato,
non funzionano perché non riescono ad Ca2+
attaccarsi alle piastrine. Come si vede
nell’immagine, le piastrine hanno dei
fosfolipidi della membrana
fosfolipidi di membrana carichi piastrinica carichi negativamente
PO - PO -
negativamente ai quali si lega il calcio mentre PO -
i fattori della coagulazione si legano allo ione PO - PO -
grazie al gruppo carbossilico prodotto dalla γ-
PIASTRINA
glutamilcarbossilasi: quindi il calcio è un
ponte fondamentale che garantisce il legame
dei fattori della coagulazione con le piastrine.
La vitamina K viene assunta con la
dieta e appena arrivata subisce una
riduzione (tramite la vit. K reduttasi)
poiché solo nella forma ridotta può
funzionare come coenzima per la γ-
glutamilcarbossilasi.
Dopo aver partecipato alla reazione di
carbossilazione, la vitamina K ha
bisogno di due riduzioni in cui la prima
(esercitata dalla epossido-reduttasi)
serve per riportarla in condizioni simili
a quelle di partenza: in sintesi, la
vitamina K esogena ha bisogno di una
sola riduzione mentre a quella
endogena (che viene riciclata) ne
servono due.
I farmaci dicumarolici (in particolare il coumadin, nome commerciale del warfarin) sono una classe
di farmaci chiamati anticoagulanti orali che svolgono la loro azione inibendo la riduzione della
vitamina K e sono tra i più importanti farmaci anticoagulanti perché bloccano la cascata
coagulativa. In questo caso i fattori di coagulazione non vengono carbossilati e non riescono a
legare il calcio e ad ancorare la membrana piastrinica, rimanendo quindi inattivi.
*[Dalle slide: Gli inibitori della vitamina K agiscono bloccando la sintesi di nuovi fattori funzionali,
ma quelli già presenti nel sangue permangono attivi fino alla loro fisiologica degradazione; ciò
comporta che: 1) l’inizio della attività anticoagulante sia ritardato rispetto al momento
30
dell’assunzione del farmaco a seguito del graduale turnover dei fattori preesistenti; 2) dopo
l’interruzione del trattamento l’effetto persista fino alla sintesi graduale di nuovi fattori funzionali.]
NB. È bene non confondere i farmaci [dato che è un errore spesso fatto all’esame]:
Osserviamo nelle figure soprastanti due “istantanee” al microscopio elettronico del processo di
formazione del tappo emostatico secondario. In particolare, osserviamo una situazione in cui la
fibrina sta cominciando a organizzarsi in tralci filamentosi e una seconda situazione in cui i tralci
sono ampiamente formati e stanno intrappolando gli eritrociti e i leucociti, andando a formare la
struttura definitiva del tappo emostatico secondario.
SISTEMA FIBRINOLITICO
Il tappo emostatico secondario, schematizzabile come in figura a destra, può essere anche molto
voluminoso in rapporto alla sezione del vaso, può ostruirlo o ridurne fortemente il flusso ematico.
31
fibrinolitico, preposto appunto alla dissoluzione dei trombi e dei coaguli di fibrina.
Plasmina (plasminogeno = forma inattiva circolante nel sangue) → enzima strategico della
fibrinolisi, una proteasi che dissolve il tappo emostatico secondario degradando fibrina e
fibrinogeno.
L’attivazione del plasminogeno può avvenire tramite due diverse vie di attivazione:
- via estrinseca → mediata dall’attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA), prodotto dalle
cellule endoteliali solo quando il danno alla parete del vaso è stato completamente
riparato;
- via intrinseca → mediata dai fattori di contatto della cascata coagulativa (XIIa, XIa,
callicreina e chininogeno ad alto peso molecolare o HMWK), che di fatto nel processo
emostatico complessivo attivano contemporaneamente sia la cascata coagulativa
(attivando il fattore IX) sia quella del sistema fibrinolitico (attivando l’urochinasi).
Disciolto il tappo emostatico, il flusso ematico può rispristinarsi correttamente e la parete del vaso
riparata sarà identica a quella precedente la lesione.
N.B. chi ha un deficit di fattore XII non presenta problemi di tipo strettamente emostatico, ma di
dissoluzione dei coaguli, in quanto questo fattore è molto più determinante nell’attivazione del
sistema fibrinolitico di quanto lo sia nell’attivazione della cascata coagulativa.
Utili nel trattamento dell’infarto del miocardio, dell’embolia polmonare e della trombosi venosa
profonda. Anziché prevenire la formazione di trombi, come i farmaci antiaggreganti, i farmaci
fibrinolitici sono pensati per trattare la trombosi (terapia trombolitica).
In passato si utilizzavano l’urochinasi umana o un suo equivalente batterico (streptochinasi): oggi
si preferisce utilizzare l’attivatore tissutale del plasminogeno, sintetizzato con tecniche di DNA
ricombinante in laboratorio (rt-PA o Alteplase). La caratteristica che lo fa preferire all’urochinasi e i
suoi equivalenti è la capacità di azione mirata: si lega alla fibrina, non al fibrinogeno, pertanto si
attiva determinando fibrinolisi solo dove effettivamente si è formato un coagulo.
EMOSTASI FISIOLOGICA
Bisogna tenere presente che la discussione del processo emostatico come è stata affrontata è il
frutto di una semplificazione didattica atta a facilitarne la comprensione. Le dicotomie “emostasi
primaria-secondaria”, “via intrinseca-estrinseca” sono strumenti esplicativi, in quanto le diverse
fasi del processo emostatico e fibrinolitico sono strettamente interdipendenti e non rigidamente
sequenziali, e anche le vie intrinseche ed estrinseche sono interconnesse tramite una serie di
feedback.
L’emostasi fisiologica richiede una complessa serie di interazioni tra glicoproteine plasmatiche,
piastrine circolanti e cellule dell’endotelio vascolare, e non tutti i meccanismi sono ancora stati
chiariti.
Le alterazioni dell’emostasi si manifestano dal punto di vista clinico con l’emorragia, di varia
entità, ma in genere sproporzionata al trauma che la provoca, quando non addirittura spontanea
(più raramente).
33
• porpore: emorragie con diametro di 3 mm costituite da un insieme di
petecchie;
Bisogna tenere presente che ogni sanguinamento è per definizione patologico, ma questi
fenomeni emorragici sono talvolta erroneamente chiamati “sanguinamenti patologici”, in
riferimento alla presenza di una causa patologica a monte, ovvero l’alterazione dell’emostasi, che
ne determina la spontaneità o l’entità sproporzionata al trauma. Per questo motivo sarebbe più
corretto chiamarli sanguinamenti, o emorragie, associate a patologie a carico dell’emostasi.
34
DIAGNOSI DI DEFICIT DELL’EMOSTASI
Note:
- l’emofilia è la più importante fra le coagulopatie legate a deficit della dell’emostasi
secondaria;
- il sanguinamento tipico dei deficit piastrinici è immediato e profuso perché nell’immediato
non si riesce a formare il tappo emostatico primario; quello tipico dei deficit della
coagulazione è più modesto e riprende dopo rimozione della pressione locale perché il
tappo emostatico primario si è formato ma non è stato rinforzato dalla fibrina, e non
resiste pertanto al flusso ematico normale che si viene a formare dopo la fine dell’effetto di
vasocostrizione;
- i deficit dell’emostasi primaria sono principalmente acquisiti e più frequenti nelle femmine,
mentre i deficit della coagulazione, primo fra tutti l’emofilia, sono tipicamente ereditabili e
legati al sesso maschile.
Le analisi di laboratorio sono fondamentali per confermare una eventuale ipotesi di diagnosi, in
quanto permettono di discriminare tra alterazioni dell’emostasi primaria e secondaria, e fra i vari
deficit specifici di entrambi i gruppi.
1. TEMPO DI SANGUINAMENTO
In sostanza quindi si produce una lesione al paziente e si misura il tempo in cui l’emorragia si
interrompe (tempo di emorragia TE).
Il limite perché questo tempo rientri in condizioni fisiologiche è di 6-7 minuti:
- se supera i 10 minuti significa che c’è un deficit dell’emostasi primaria (sospetto alterazione
delle piastrine).
- se invece il tempo di sanguinamento è minore di 10 minuti si tratterà di una alterazione
dell’emostasi secondaria.
Pur essendo un esame molto semplice, la standardizzazione lo rende un esame che comunque ci
fornisce un primo discrimine tra le due classi di alterazioni patologiche.
2. EMOCROMO
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Esiste una correlazione tra numero delle piastrine e tempo di sanguinamento: quando il numero
di piastrine si riduce, il tempo di sanguinamento aumenta.
Per questo motivo è importante combinare i due esami: il tempo di sanguinamento ci permette di
distinguere alterazioni dell’emostasi primaria e secondaria; la conta piastrinica ci permette di
distinguere, all’interno delle alterazioni dell’emostasi primaria, le piastrinopatie dalle
piastrinopenie.
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[Dalla dispensa dell’anno scorso: Se dopo un’analisi di laboratorio combinassi tutti i risultati
possibili, potrei ottenere 4 diversi scenari:
La condizione più frequente è quella di maschio sano e donna portatrice in cui verosimilmente
avremo il 50% dei figli maschi sani, l’altro 50% malato; il 50% delle figlie donne sane e l’altro 50%
portatrici.
Nel caso di padre malato e madre sana tutti i figli maschi saranno sani e tutte le figlie femmine
portatrici.
Nell’ultimo, seppur più raro, caso di donna portatrice e padre malato avremo il 50% dei figli
maschi sani e l’altro 50% malato; il 50% delle figlie donne malate e l’altro 50% portatrici.
Il quadro clinico, identico nei due tipi di emofilia, è caratterizzato da emorragie spontanee o
traumatico/chirurgiche. Tipiche manifestazioni della malattia emofilica sono gli emartri
(versamento di sangue in un’articolazione), più frequentemente localizzati alle articolazioni
sottoposte a carico (ginocchio, gomito, spalla e anca). Altrettanto frequenti sono gli ematomi
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intramuscolari, che compaiono qualche giorno dopo un trauma con tumefazione, indurimento
ligneo, dolenzia del muscolo interessato ed eventuali sindromi da compressione a carico di fasci
nervosi o vasi arteriosi che, in specifiche localizzazioni, possono assumere aspetti di particolare
gravità. Fra le emorragie mucose, frequenti e spesso copiose sono le epistassi; possono inoltre
presentarsi ematuria (sangue nelle urine) ed emorragie del cavo orale conseguenti anche a minimi
traumi. Le ecchimosi (emorragie cutanee) sono frequenti ma non pericolose. Particolare
attenzione deve essere rivolta alle estrazioni dentarie, che possono provocare emorragie cospicue
e persistenti. Vanno infine segnalate le emorragie cerebrali per la loro gravità (principale causa di
morte per emorragia nei soggetti emofilici) e per la necessità di una diagnosi precoce; un trauma
cranico, seppur di lieve entità, in un paziente emofilico richiede sempre un accesso ad un Pronto
Soccorso.
La cura per questa malattia consiste nella somministrazione selettiva per via endovenosa dei
fattori deficitari VIII o IX (in passato si trattava con trasfusioni di sangue).
Prima di somministrare uno dei due fattori bisogna però capire di che tipo di emofilia si tratta; per
legge vanno eseguiti dei test di dosaggio di entrambi i fattori, in realtà ci sono dei test di
laboratorio molto più semplici e meno costosi del dosaggio. Basta infatti prendere una provetta di
plasma del paziente con emofilia ignota e aggiungere il plasma di un paziente con emofilia A, a
questo punto i possibili scenari sono due:
- L’ aPTT rimane allungato: il paziente con emofilia ignota ha certamente un’emofilia di tipo A.
- L’aPTT diventa normale: il paziente con emofilia ignota ha certamente un’emofilia di tipo B
FARMACI ANTICOAGULANTI
Dopo un iniziale periodo di sperimentazione sta progressivamente entrando nella pratica l’utilizzo
di una nuova classe di farmaci, chiamati NAO (nuovi anticoagulanti orali) che a differenza dei
classici TAO (terapia anticoagulante orale) agiscono sulla cascata coagulativa bloccando
selettivamente la trombina (Dabigatran) o il fattore X attivato (Rivaroxaban, Apixaban, Edoxaban,
Betrixaban), i cui risultati sono più prevedibili in quanto viene meno tutta quella variabile legata
all’alimentazione, per cui questo tipo di approccio terapeutico non necessita di un monitoraggio di
laboratorio ma permette di somministrare la stessa dose a tutti i pazienti. Un farmaco è tanto più
sicuro da usare quanta è la possibilità di usare un antidoto per sovradosaggio, nel caso dei TAO si
usa tempestivamente la vitamina K, mentre lo svantaggio dei NAO è quello di non avere un
antidoto in caso di sovradosaggio.
41
MODELLO DI ATTIVAZIONE DELLA CASCATA COAGULATIVA AD UNA VIA
Inizialmente ricercatori e medici pensavano che solo la via estrinseca fosse importante nella
cascata coagulativa ma erano ipotesi in
contraddizione con l’esistenza
dell’emofilia, patologia genetica X-
linked che favoriva emorragie per
mancanza dei fattori VIII e IX. Si è
cercato un nuovo modello per
rappresentare la realtà dei fatti, esposto
nello schema.
In questo modello integrato si osserva
come la cascata coagulativa parta per
azione del complesso Fattore tessutale
+ Fattore VII, con attivazione della
trombina che andrà a sua volta ad
attivare i Fattori XI, VIII e IX. Si deduce
dunque che la via estrinseca abbia un
ruolo di innesco nel processo e che la
via intrinseca agisca da amplificatore (feedback positivo).
Inoltre, questo modello è coerente con la situazione in vivo in cui il Fattore XII non è necessario.
TROMBOFILIA
Per Trombofilia, o stato di ipercoagulabilità, si intende una circostanza clinica in cui il paziente,
presenta episodi ricorrenti di tromboembolismo arterovenoso. Solitamente è una circostanza
riguardante i giovani (sotto i 45 anni) che hanno familiarità con la condizione e una tendenza alle
recidive (predisposti alla patologia).
La trombofilia non va sottovalutata, è causa di morte di circa il 10% degli ospedalizzati ed è
concausa di morte in un ulteriore 15% di casi ed è quindi anzi una patologia pericolosa, aggravata
dal fatto che non disponiamo di strumenti diagnostici tali a quelli usati per l’emorragia e che
quindi abbiamo una metodica diagnostica relativamente più inefficiente.
*[Dalle slide: Il termine “trombofilia” è stato introdotto nel 1965 dall’ematologo Olav Egeberg il
quale per primo correlò il deficit ereditario di antitrombina III con la tendenza a sviluppare
manifestazioni trombotiche in una famiglia norvegese. Il termine fu formulato in contrapposizione
ad “emofilia”, cioè alla tendenza alla emorragia legata alla carenza ereditaria di un fattore della
coagulazione; il termine “haemorrhafilia”, successivamente semplificato in “haemofilia”, era stato
utilizzato per al prima volta nel 1828 dal tedesco Friedrich Hopff, studente di medicina
all’Università di Zurigo.]
La trombofilia è intuitivamente correlata ai fattori di coagulazione ma insorge anche per altri
motivi. Queste sono le cinque principali variabili che si possono valutare in laboratorio per
42
identificare la causa della trombofilia (solitamente pz <45 anni, con storia familiare positiva per
trombofilia e ha episodi ricorrenti di trombosi):
• determinazione della attività degli anticoagulanti naturali antitrombina III, proteina C e
S
• ricerca delle mutazioni del gene del fattore V
• ricerca delle mutazioni del gene della protrombina
• determinazione dei livelli ematici di omocisteina
• ricerca di anticorpi antifosfolipidi
2. MUTAZIONE DI LEIDEN
Molto più frequente è la mutazione di Leiden, scoperta nell’omonima città olandese, ossia una
mutazione del gene che codifica il fattore V. Questa mutazione fa perdere affinità tra la proteina C
e il fattore V impedendone l’inibizione, in questo caso la mutazione, a differenza dell’emofilia,
incrementa l’attività del Fattore V. È una mutazione frequente soprattutto dei paesi Nord Europei
(il nome viene da un paese olandese), ha una prevalenza del 15% nella popolazione svedese del 2-
3% nell’Italia settentrionale e del 1% nell’Italia meridionale, in eterozigosi aumenta il rischio di
trombosi di 5-7 volte, in omozigosi di 80 volte.
43
4. IPEROMOCISTEINEMIA
L’omocisteina è uno degli ultimi marker di trombofilia studiati, è un importante amminoacido che
può essere metilato a metionina o transulfurato a cisteina grazie agli enzimi e relativi co-enzimi
che sono la vitamina B12, B6 e l’acido folico. Una mancanza di questi enzimi (mutazione genetica)
e co-enzimi (carenza alimentare) determina un accumulo dell’omocisteina che non può essere
convertita. Altri motivi per cui l’omocisteina si accumula sono:
● l’insufficienza renale, a cui si accompagna un calo drastico della clearence della sostanza
● lo stile di vita (fumo, caffè, stress, sedentarietà)
● l’età avanzata
● sesso maschile
L’iperomocisteinemia è associata ad una aumentata incidenza di aterosclerosi e trombosi venosa.
L’aterosclerosi viene favorita poiché alti livelli di omocisteina provocano un danno tossico
endoteliale tramite:
• riduzione della sintesi di monossido di azoto e dell’azione vasodilatante ad esso legata
• produzione dell’anione superossido e aumento dello stress ossidativo, con effetto sulla
ossidazione delle LDL
• promozione dei processi infiammatori
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[Dalle slide: ASSOCIAZIONE DI FATTORI TROMBOGENICI: è importante ricordare la possibilità di
una coesistenza di più fattori trombogenici in un paziente. In questi casi, il rischio di trombosi è
molto più che additivo; ad esempio, se il fattore V di Leiden è associato al deficit di antitrombina, di
proteina C o di proteina S, l’incidenza di trombosi venose ricorrenti diventa, rispettivamente, il 92%,
il 73% ed il 72%. Allo stesso modo, se uno dei fattori precedentemente descritti si associa ad
un’altra condizione predisponente la trombosi, quale la gravidanza, l’assunzione di contraccettivi
orali, la terapia estrogenica sostitutiva, la presenza di una neoplasia, l’immobilità o il decorso post-
operatorio, il rischio di trombosi aumenta in maniera esponenziale.]
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sistemica e può evolvere in una disfunzione multiorgano.
Se poi consumo tutti i fattori della coagulazione in trombi sparsi non avrò più gli elementi
necessari per la coagulazione dove questa serve causando eventualmente anche emorragie
diffuse che difatti rappresentano buona parte della letalità nella patologia.
Le cause scatenanti più importanti nella CID sono dunque il massiccio rilascio di Fattore Tissutale
e i danni endoteliali diffusi
Il massiccio rilascio di fattore tissutale (attiva via estrinseca) è determinato da:
incidenti ostetrici: la causa più frequente (più del 50% dei casi); riguardano distacco di
placenta, embolia di liquido amniotico, ritenzione di feto morto o aborto nel secondo
trimestre di gravidanza.
neoplasie: dalla proliferazione e dalla necrosi delle cellule neoplastiche, in una popolazione
di cellule che è sostenuta da una neo-vascolarizzazione, si possono liberare in circolo grandi
quantità di tromboplastina. Inizialmente ci si è concentrati soprattutto sulle neoplasie
ematologiche, in particolare la leucemia promielocitica acuta, mentre oggi stanno
emergendo i carcinomi del polmone, del pancreas, del colon e dello stomaco.
danno tessutale esteso: ustioni, congelamenti, traumi, ferite d’arma di fuoco
sepsi da batteri gram-negativi: in particolare l’endotossina induce nei monociti la
liberazione del fattore tissutale e la sintesi di monochine, quali IL1 e TNF, che inibiscono
la produzione di trombomodulina da parte delle cellule endoteliali
embolia adiposa
emolisi intravascolare acuta: trasfusione di sangue incompatibile, interventi in circolazione
extracorporea, malaria, emoglobinuria parossistica notturna
Il danno endoteliale diffuso (attiva piastrine e via intrinseca, oltre che estrinseca) è determinato
da:
Anche il Covid-19 causa danno endoteliale che evolve poi in trombofilia aumentandone la letalità.
[Dalle slide:
La CID può essere causata anche dall’immissione in circolo di sostanze ad azione diretta:
Veleni di serpente: il veleno della vipera Russel attiva direttamente il fattore X, altri veleni
attivano il fattore II
Pancreatiti acute: la tripsina attiva direttamente i fattori X e II.
47
CID: FORME CLINICHE:
forme acute: quadro clinico dominato da manifestazioni emorragiche, a volte imponenti
forme subacute: quadro clinico caratterizzato da sintomi ischemici a carico di vari organi
(cervello, cute, rene, polmone, intestino) conseguenti alla trombosi del microcircolo e/o da
emorragie di lieve entità conseguenti al consumo di fattori della coagulazione
forme croniche: quadro clinico silente, in cui l’attivazione della coagulazione è
documentabile solo in base ai dati di laboratorio; tali forme possono scompensarsi dando
luogo a sindromi acute o subacute]
In una CID tutti i valori riportati dagli esami di laboratorio sono alterati, per diagnosticare il più
efficacemente possibile una sospetta CID sfruttiamo gli ultimi indici di laboratorio trattati, i
fibrinopeptidi A e B, i FDP e i D-Dimeri.
A meno che non si abbia la formazione di un tappo coagulativo secondario disteso in una ampia
lesione localizzata, elevati livelli di questi prodotti indicano un’intensa attività di coagulazione e
fibrinolisi sistemica, quindi la continua formazione e demolizione di trombi. Tra questi indici di
laboratorio il più importante ultimamente è stato il D-Dimero, che sta venendo sempre più
considerato come indice di riferimento per la CID.
L’interpretazione dei dati di laboratorio possono indicarci il rischio di CID e direzionarci verso le
corrette prognosi e terapie anche se non è facile discriminare i valori di laboratorio per questa
patologia.
[Dalle slide:
Indici di attivazione del sistema della coagulazione e del sistema fibrinolitico:
• aumento dei fibrinopeptidi A e B
• aumento degli FDP
• aumento del D-dimero
• diminuzione dell'antitrombina III
48
CAPITOLO 3: LIPOPROTEINE
Tutte le proteine sono accomunate dal fatto di essere formate da una sequenza di amminoacidi
legati dallo stesso tipo di legame, ovvero il legame peptidico, che unisce il gruppo carbossilico di
un amminoacido al gruppo aminico dell’amminoacido successivo. Le catene possono essere più o
meno lunghe e le combinazioni possibili sono infinite, però sono tutte formate da una sequenza
amminoacidica. Il termine “proteina” deriva dal greco prōteîos, ovvero “di vitale importanza”
perché quando furono scoperte si pensava che, come un equivalente del DNA, fossero di vitale
importanza.
I glucidi (dal greco γλυκύς, glucùs, cioè "dolce", per il sapore che conferiscono ai cibi nei quali sono
contenuti) sono accomunati dal fatto di essere formati da carbonio, idrogeno e ossigeno (infatti
vengono chiamati anche carboidrati, quindi idrati del carbonio) secondo la formula C nH2nOn, dove
n è uguale al numero di carboni che va da un minimo di 3 ad un massimo di 7. I monosaccaridi, che
hanno questa forma, possono poi formare strutture più complesse.
I lipidi, il cui nome deriva dal greco λίπος “adipe, grasso”, in quanto principali costituenti del
tessuto adiposo e quindi del grasso, hanno come caratteristica comune l’insolubilità in solventi
polari come l’acqua; non possiedono invece caratteristiche strutturali che li accomunino tutti, in
quanto sono composti molto eterogenei dal punto di vista strutturale e funzionale. Per la loro
insolubilità in acqua, non possono viaggiare autonomamente nel sangue periferico e pertanto
hanno bisogno di un carrier, trasportatore, rappresentato dalle lipoproteine, ovvero strutture che
hanno il ruolo di veicolare i lipidi incapaci di viaggiare disciolti nel sangue.
Le lipoproteine presentano:
- la superficie, di forma sferica, è composta da
proteine a funzione strutturale (in quanto tengono
insieme l’impalcatura che ricopre i lipidi insolubili
contenuti all’interno) chiamate apolipoproteine,
dai fosfolipidi, che presentano una parte lipofilica
rivolta verso l’interno e una idrofilica rivolta verso
l’esterno, e da colesterolo non esterificato.
- Il nucleo o core all’interno, in cui si trovano i trigliceridi e il colesterolo esterificato,
ovvero i lipidi più importanti per il metabolismo dell’organismo.
49
Le cinque classi principali sono:
1. Chilomicroni
2. VLDL (very-low-density lipoproteins)
3. IDL (intermediate-density lipoproteins)
4. LDL (low-density lipoproteins)
5. HDL (high-density lipoproteins)
Il gradiente di densità può essere utilizzato per separare le lipoproteine, ma questo meccanismo di
separazione è molto impegnativo in termini economici, in quanto occorre fare
un’ultracentrifugazione cambiando continuamente i diversi gradienti e facendo così fluttare,
ovvero emergere in base alla diversa densità, le varie lipoproteine. Questo metodo viene applicato
di routine in ambito di ricerca, ma non può essere applicato in ambito laboratoristico per tutti i
pazienti dove, infatti, viene impiegata un’altra metodica a costo
minore. Quest’ultima prevede la classificazione delle lipoproteine
in base alla loro migrazione elettroforetica. Si distinguono:
- α lipoproteine (HDL), che ritrovano tra le α1 globuline
- β lipoproteine (LDL), che si ritrovano tra le β globuline
- Pre- β lipoproteine (VLDL e IDL), tra le α2 e le β
- I chilomicroni di fatto non si muovono quasi perché
contengono l’1% di proteine, non sufficienti a
trasportare le lipoproteine che quindi rimangono
all’interno delle γ- globuline.
Le lipoproteine possono essere inoltre separate
elettroforeticamente e poi colorate selettivamente in modo
da ottenere il lipidogramma.
NB: l’ordine della densità non è esattamente uguale all’ordine
ottenuto con la separazione elettroforetica:
- Per centrifugazione si ottengono, in ordine,
chilomicroni, VLDL, LDL e HDL
- Per elettroforesi: chilomicroni, LDL, VLDL e HDL
51
1. TRASPORTO DEI LIPIDI ESOGENI
I lipidi esogeni sono divisibili essenzialmente in due classi,
ovvero i trigliceridi e il colesterolo. Ogni giorno si assumono
circa 100g di trigliceridi e 1g di colesterolo, che, una volta
assorbiti a livello intestinale, vengono immediatamente
assemblati negli enterociti per formare i chilomicroni (detti
“nascenti”), in cui la componente lipidica è di gran lunga
superiore a quella proteica. Quest’ultima comprende
un’apolipoproteina costitutiva chiamata ApoB-48, sintetizzata
dalle cellule dell’intestino, e dalla ApoA-1.
I chilomicroni entrano in circolo e immediatamente si
arricchiscono di due apolipoproteine che “prendono in prestito”
dalle HDL, ovvero l’ApoC-II e l’ApoE, cedendo l’ApoA-1 (ricorda:
le apolipoproteine possono passare da una lipoproteina all’altra, in questo caso dall’HDL al
chilomicrone). In questo modo il chilomicrone si ritrova ad avere 3 apolipoproteine sulla sua
superficie: ApoB-48, sintetizzata dalle cellule intestinali, ApoE e ApoC-II, cedute dalle HDL.
Quest’ultima ha un ruolo molto importante perché funge da coenzima per la lipoprotein lipasi
(LPL), enzima presente sulle cellule endoteliali del tessuto muscolare e del tessuto adiposo che si
attiva quando entra in contatto con la ApoC-II. Una volta attivata, è in grado di idrolizzare i
trigliceridi per consentirne l’assorbimento da parte del tessuto muscolare o adiposo. Nel tessuto
muscolare essi hanno principalmente una funzione energetica, in quanto questi sono composti
altamente energetici che possono dare fino a 9,4 cal/g, più del doppio di quelle rese da 1g di
glucosio (4,1cal/g). la resa calorica dei lipidi è dunque molto più elevata di quella degli zuccheri,
che hanno invece la caratteristica di essere subito disponibili. Mentre nel tessuto muscolare,
quindi, i lipidi fungono da carburante che consente il funzionamento del muscolo, nel tessuto
adiposo i lipidi vengono depositati per essere poi utilizzati quando ve n’è la necessità.
Riassumendo quindi il tessuto muscolare e il tessuto adiposo sono i target dei trigliceridi assunti
con la dieta e trasportati dai chilomicroni. Durante questo tragitto, i chilomicroni perdono
trigliceridi e si trasformano in chilomicroni remnants, che contengono tutto il colesterolo assunto
con la dieta (in quanto non viene ceduto a livello adiposo o muscolare) e una minore quota di
trigliceridi. I chilomicroni sono poi destinati al fegato. Le funzioni fondamentali dei chilomicroni
sono quindi
- Fornire i trigliceridi alimentari direttamente ai tessuti muscolare e adiposo
- Trasportare tutto il colesterolo alimentare al fegato
1
il professore sulle slide lo chiama “idrossi-metil-glutaril-acetil-CoA reduttasi”, ma nella reazione non c’è nessun
acetile: il nome corretto, secondo internet e Lehninger, è quello riportato.
53
[Dalle slide: Il rilascio intracellulare di colesterolo che consegue alla captazione delle LDL per
endocitosi produce 3 principali effetti:
- l’attivazione dell’enzima acetilCoA-colesterolo aciltransferasi (ACAT), che favorisce
l’esterificazione ed il deposito di colesterolo all’interno degli epatociti;
- l’inibizione dell’enzima HMG-CoA-reduttasi, con conseguente blocco della sintesi intraepatica di
colesterolo;
- l'induzione della espressione della proteina SRE (sterol response element) che agisce sulla regione
"promoter" del gene per il recettore delle LDL, disattivandolo; pertanto, maggiore è la
concentrazione di colesterolo nell’epatocita, minore sarà il numero di recettori per le LDL espressi
dall’epatocita stesso, e viceversa]
Ipercolesterolemia
Sulla membrana degli epatociti è presente il recettore per le LDL che capta selettivamente le LDL
circolanti. I ricercatori hanno scoperto che tale recettore viene espresso in maniera
quantitativamente diversa dagli epatociti, che quindi ne presenteranno sulla membrana una
quantità estremamente variabile. La quantità di recettore espresso dipende dalla quantità di
colesterolo contenuto all’interno dell’epatocita stesso: più bassa sarà la quantità di colesterolo
presente all’interno dell’epatocita, maggiore sarà l’espressione del recettore sulla sua superficie e
viceversa. Il blocco del recettore, in caso di elevata quantità di colesterolo all’interno
dell’epatocita, fa sì che le LDL rimangano in circolo determinando un aumento della
colesterolemia. Esiste quindi un rapporto diretto tra quantità di colesterolo intraepatocitario,
espressione del recettore delle LDL e colesterolemia. La colesterolemia dipende quindi in
un’ultima analisi dalla quantità di colesterolo presente all’interno degli epatociti. Per ridurre la
colesterolemia, la strategia più efficace è quella di ridurre la quantità di colesterolo assunta con la
dieta:
Meno colesterolo assunto meno colesterolo trasportato dai chilomicroni negli epatociti
maggiore espressione del recettore per le LDL riduzione delle LDL nel sangue periferico
Viceversa, una dieta ricca di colesterolo farà sì che il colesterolo circolante rimanga più elevato.
Il primo approccio utilizzato per ridurre l’ipercolesterolemia è quindi ridurre la quantità di
colesterolo assunto con la dieta.
Quando la dieta non è sufficiente, si può intervenire con dei farmaci. I primi farmaci ad essere stati
utilizzati sono stati la colestiramina e il colestipolo (ora non sono più utilizzati per gli importanti
effetti collaterali) ed erano sequestratori di acidi biliari primari, che sono prodotti dal fegato e
contengono un’elevata quantità di colesterolo; essi vanno nell’intestino poi tornano nel fegato.
Interrompendo il ciclo, essi rimangono a livello intestinale e vengono escreti con le feci e con essi il
colesterolo contenuto al loro interno. Questo approccio, pur risultando utile per ridurre la
colesterolemia, presenta però diversi effetti collaterali.
I farmaci attualmente più utilizzati per ridurre la colesterolemia sono le statine, che inibiscono la
HMG-CoA reduttasi impedendo così la neosintesi di colesterolo endogeno da parte degli epatociti.
Si riduce quindi la quantità di colesterolo all’interno degli epatociti, aumenta l’espressione dei
recettori per le LDL e si riduce la colesterolemia.
54
3. TRASPORTO INVERSO DEL COLESTEROLO
Le HDL si formano da sole in circolo dalla coalescenza di fosfolipidi e apolipoproteine sintetizzate
dal fegato e dall’intestino indicate con la lettera A (le apolipoproteine delle altre classi di
lipoproteine hanno invece la lettera B)
- ApoA-I sintetizzata da fegato ed intestino
- ApoA-II sintetizzata esclusivamente dal fegato
Dalla coalescenza di queste molecole si formano le HDL nascenti che costituiscono di fatto dei
contenitori vuoti. Queste hanno la capacità di prelevare colesterolo dai tessuti periferici.
Esempio: un macrofago è infarcito di colesterolo che viene de-esterificato e, una volta nella forma
non esterificata, passa all’interno dell’HDL. Grazie all’enzima LCAT (lecitina-colesterolo-acil-
transferasi), il colesterolo viene esterificato all’interno dell’HDL, la quale si trova così nella sua
forma matura e può raggiungere il fegato dove il recettore scavenger della classe B-I (uno) SR-BI,
riconosce le HDL. Nel fegato sono quindi presenti diversi recettori per le lipoproteine, alcuni per i
chilomicroni, altri per LDL, altri ancora per le HDL (SR-BI).
Le HDL, quindi, prendono il colesterolo dai tessuti periferici e lo trasportano al fegato nel
cosiddetto “trasporto inverso del colesterolo” (inverso rispetto a quello delle VLDL)
Le HDL hanno altre due funzioni molto importanti
- Consentono alle IDL di trasformarsi in LDL, grazie al trasferimento ad esse di colesterolo
esterificato contenuto all’interno delle HDL tramite l’enzima CETP o ApoD. Le LDL
andranno poi ai tessuti, tra cui il fegato, che hanno il recettore per le LDL (vedi prima);
- Costituiscono un serbatoio di apolipoproteine che cederanno poi sia ai chilomicroni che
alle VLDL. ApoC-II e ApoE sono infatti veicolate dalle HDL ma non servono ad esse, che
quindi le cedono a chilomicroni e VLDL per l’attivazione della LPL e l’idrolisi dei trigliceridi
(ApoC-II) e il riconoscimento dei chilomicroni da parte del fegato (ApoE)
(nota: le ApoE che vengono cedute dalle HDL alle VLDL non sono utilizzate per il
riconoscimento da parte dei recettori a livello epatico ma vengono restituite alle HDL)
55
LO STUDIO DI FRAMINGHAM
STUDIO PROCAM
Gli studi successivi a quelli di Framingham hanno dimostrato che non tutto il colesterolo è
associato al rischio di aterosclerosi ma soprattutto quello contenuto nelle LDL. Allo stesso tempo si
è visto che le HDL hanno un ruolo protettivo perché prendono il colesterolo dai tessuti periferici e
lo portano al fegato, riducendo il colesterolo pericoloso, ovvero quello che si deposita nei tessuti,
in particolar modo nelle cellule endoteliali.
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c-LDL, c-HDL, TRIGLICERIDI E MALATTIE CARDIOVASCOLARI
57
DIFFERENZA TRA COLESTEROLO “BUONO” E “CATTIVO” A LIVELLO MOLECOLARE
58
Le HDL invece sono protettive perché:
- promuovono l’efflusso di colesterolo portando via il colesterolo che si sta accumulando
nelle arterie;
- inibiscono l’ossidazione delle LDL, che è la modificazione più importante che le trasforma
e le rende in grado di richiamare monociti e macrofagi. Uno dei meccanismi studiati è
quello dell’enzima paraoxonasi ma ne esistono altri riportati nella letteratura scientifica.
- Impediscono l’espressione di molecole di adesione sull’endotelio impedendo
l’extravasazione dei monociti e
interrompendo quel circolo
vizioso che si viene a formare e
che determina l’accumulo di
cellule macrofagiche e quindi
cellule schiumose, che sono le
responsabili dell’attivazione del
processo aterosclerotico.
59
UTILIZZO DEI MARCATORI DI FLOGOSI (PCR) NELLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO
CARDIOVASCOALRE
Il problema principale riguarda la non specificità degli indici di flogosi, che possono essere alterati
anche in totale assenza di aterosclerosi, e questo limita fortemente le possibilità diagnostiche, non
dovendo tuttavia limitare la ricerca in questo ambito. Oggi si sa che la proteina C reattiva (PCR) è
da considerare un fattore di rischio, infatti valori molto elevati di PCR vengono considerati dai
laboratoristi un fattore di rischio per l’aterosclerosi e addirittura si ipotizza che un aumento della
PCR possa favorire il processo aterosclerotico stesso.
In conclusione, considerare l’aterosclerosi una malattia infiammatoria consente di poter
approfondire la patologia sia dal punto di vista terapeutico, tramite la ricerca di antinfiammatori
efficaci, sia dal punto di vista diagnostico, tramite la corretta interpretazione dei marcatori di
flogosi.
60
Il valore numerico di riferimento per il
colesterolo associato al rischio di aterosclerosi è
200 mg/dL, tuttavia questo valore è da
approfondire: questo non è infatti un valore
calcolato ma un valore arbitrariamente scelto dal
grafico che mette in relazione colesterolemia e
tasso di mortalità che ha portato i cardiologi a
decidere che sopra i 200 mg/dL il rischio di
incidenti cardiovascolari diventa significativo;
tuttavia questo non significa che sotto i 200
mg/dL il rischio non esista. Il concetto
fondamentale è che non esiste un valore di
riferimento ma esiste un valore desiderabile che è stato deciso arbitrariamente, non calcolato con
metodo scientifico (e questo spiega anche il fatto che sia rappresentato da un numero intero
tondo, difficilmente ottenibile con calcoli matematici). È importante ricordare che il colesterolo
più basso è, meglio è (in inglese: ”low is better”); non esiste un valore di riferimento, il colesterolo
deve essere il più basso possibile perché bassi valori di colesterolo non hanno effetti negativi sui
pazienti. Si parla quindi di valori accettabili.
61
FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE
È importante quindi tenere sempre conto del quadro complessivo di tutti i fattori di rischio per
ottenere un fattore di rischio complessivo che è quello che effettivamente deve essere
comunicato al paziente.
La lezione si conclude con la presentazione di due siti:
- http://www.cuore.iss.it/sopra/calc-rischio.asp : sito dell’istituto superiore di sanità che permette
di comprendere il peso dei diversi fattori di rischio nello sviluppo di patologie cardiovascolari.
- https://siia.it/per-il-pubblico/calcolo-del-rischio-cardiovascolare : sito con finalità simili all’altro
questa volta della società italiana dell’ipertensione arteriosa.
Questa classificazione si
basa ancora oggi sullo
schema proposto da
Frederickson nel 1970;
essa prevede la
ripartizione delle varie
forme di
iperlipoproteinemia in 6
fenotipi distinti in base:
1) all’aspetto del siero
(dopo una notte a +4°C)
2) alla composizione di
colesterolo e trigliceridi
3) alla analisi
elettroforetica delle
lipoproteine
62
CAPITOLO 4: IL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE
DIAGNOSTICA DEL DIABETE
DIABETE
Il termine diabete deriva dal greco “διαβαίνω” ossia “scorrere attraverso”, significato associato ai
sintomi tipici della patologia: la polidipsia (condizione in cui si ha molta sete e si beve molto) e la
poliuria (produzione di grandi quantità di urina).
Il termina diabete oggi viene identificato con due patologie:
Diabete mellito: diffuso, è causato da una ridotta attività biologica della insulina; si
definisce mellito perché le urine risultano dolci al gusto.
Diabete insipido: molto più raro, causato da un deficit di ADH; si definisce insipido perché
le urine sono insapori ed ipotoniche. Le urine sono “insipide” proprio perché contengono
molta acqua (la poliuria non è conseguenza di glicosuria). Esistono due forme:
neurogenica o centrale: dovuta a lesioni ipotalamiche o lesioni cerebrali compressive o
traumatiche. ADH non viene prodotto -> poliuria
nefrogenica o periferica: mancata recettività dell’ormone a livello dei recettori del tubulo
renale. L’ormone, quindi, viene prodotto ma non è efficace -> poliuria
Dal punto di vista laboratoristico le due forme si distinguono dosando l’ADH: se l’ADH è
alto si tratta di un diabete nefrogenico e viceversa. La neuroipofisi rilascia in circolo due
ormoni ricevuti dai nuclei secretori dell’ipotalamo: l’ossitocina e l’ADH, ormoni con
struttura simile che differiscono solo per due amminoacidi.
L’ossitocina è legata alla sfera sessuale-riproduttiva e favorisce la contrazione della
muscolatura uterina e la funzionalità delle ghiandole mammarie.
L’ADH ha come bersaglio le cellule del tubulo renale e ha la funzione di favorire il
riassorbimento di acqua. In caso di deficit, l’acqua viene filtrata dai glomeruli, non
viene adeguatamente riassorbita e viene quindi eliminata con le urine.
STORIA
Nel papiro di Ebers (1600 a.C.) si può trovare la prima testimonianza di un paziente probabilmente
affetto da diabete che presentava polidipsia e poliuria. La paternità dell’approfondimento
eziologico del diabete si tende ad attribuire a Paul Langerhans, il quale in realtà si limitò a
riconoscere delle “isole” di cellule del pancreas con caratteristiche differenti dal resto delle cellule
dell’organo (1869). Successivamente Joseph von Mering e Oskar Minkowski osservarono
l’insorgere dei sintomi del diabete in animali il cui pancreas era stato asportato, mettendo così in
luce il rapporto tra la componente endocrina del pancreas e il diabete. Nel 1921 il chirurgo
Frederick Banting eseguì una serie di esperimenti in cui tentò di procurarsi insulina in vivo tramite
la legatura dei dotti escretori del pancreas così causando l’atrofia del pancreas esocrino, sperando
che il pancreas endocrino fosse più resistente. Una volta prelevato il pancreas ricco di insulina
degli animali così trattati, prosegui all’iniezione in un cane a cui era stato asportato il pancreas e
63
quindi al quale era stato indotto il diabete. Insieme al
collega MacLoad, furono insigniti del premio Nobel nel
1923 per la scoperta. Leonard Thompson fu il primo
paziente affetto da diabete giovanile trattato con
“l’insulina di Banting”. In figura si può osservare la
prima paziente diabetica trattata con insulina che
riuscì ad arrivare all’età riproduttiva.
N.B.: il termine insulina deriva da “isole pancreatiche”.
DIABETE MELLITO
Il diabete mellito è caratterizzato da un’aumentata concentrazione di glucosio nel sangue,
prodotto da una carenza assoluta o relativa dell’attività biologica dell’insulina. Questa patologia
abbraccia tutti gli aspetti patologici dell’organismo, anche se da un punto di vista clinico risulta
prevalente l’effetto che ha sul metabolismo glucidico.
L’insulina svolge sempre un’azione anabolizzante nei confronti del metabolismo glucidico, lipidico
e proteico:
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INSULINA
L’insulina è un ormone peptidico sintetizzato dalle cellule β-
pancreatiche ed è costituito da due catene A e B, rispettivamente
di 21 e 30 aminoacidi, unite tra loro da tre ponti disolfuro.
Viene sintetizzata sotto forma di un precursore di 110 aminoacidi,
la pre-proinsulina, dotato di una sequenza amino-terminale di 24
amminoacidi detta peptide leader o segnale; nel reticolo
endoplasmatico la sequenza segnale viene rimossa per formare la
proinsulina, costituita dalle due catene A e B unite da un peptide di
connessione di 35 aminoacidi, indispensabile per il corretto
ripiegamento dell’insulina.
Dopo la formazione dei ponti disolfuro la proinsulina viene traslocata nell’apparato del Golgi dove
il peptide di connessione viene rimosso per taglio proteolitico con perdita di 4 aminoacidi
formando il peptide C, di 31 aminoacidi; insulina e peptide C vengono quindi immagazzinati nei
granuli secretori fino alla liberazione in circolo.
A seguito di appropriati stimoli, tra i quali principalmente l’innalzamento dei livelli di glucosio nel
sangue periferico (che entra nella cellula attraverso GLUT 2), l’insulina e il peptide C vengono
rilasciati equimolarmente dalle cellule β-pancreatiche. In circolo l’insulina viene velocemente
catabolizzata dal fegato e dal rene; la sua emivita è quindi breve, di
circa 6 minuti.
L’azione dell’insulina si estrinseca nei tessuti periferici
(principalmente fegato, muscolo e tessuto adiposo) mediante un
recettore specifico costituito da un etero-dimero transmembrana
formato da due subunità α e β: la subunità α è extracellulare ed è
preposta al legame con l’insulina mentre la subunità β è costituita da
una porzione transmembrana e da una citoplasmatica, coinvolta
nella trasduzione del segnale e quindi nelle manifestazioni
metaboliche innescate dal legame.
Relativamente al metabolismo glucidico, l’azione scaturita dal
legame insulina-recettore si traduce nella mobilizzazione di un
recettore chiamato GLUT 4, normalmente contenuto all’interno della
cellula. Quando l’insulina si lega al recettore, il trasportatore viene
traslocato sulla membrana, così permettendo l’ingresso di glucosio
nelle cellule e diminuendo la glicemia.
La secrezione di insulina è caratteristicamente bifasica, con un primo picco precoce dovuto alla
liberazione in circolo dell’insulina preformata e un secondo picco tardivo conseguente alla sintesi
di insulina ex novo. Il secondo picco avviene se necessario ed è derivato dal permanere di valori di
glicemia elevati.
Il glucosio presente nel sangue viene filtrato dal glomerulo e, in condizioni di normoglicemia, passa
nel tubulo per poi essere riassorbito a livello tubulare. Essendo il numero di carrier in grado di
65
recuperare il glucosio limitato, se la glicemia aumenta patologicamente lo zucchero rimane nelle
urine, dove determina un richiamo osmotico portando alla poliuria e successivamente alla
polidipsia.
EPIDEMIOLOGIA
Il diabete è diagnosticato nel 3% della popolazione italiana. A questa quota di diabete
diagnosticato si deve aggiungere una quota, dello stesso ordine di grandezza, di diabete non
diagnosticato, rappresentato esclusivamente dal diabete di tipo 2: ciò significa che l’incidenza del
diabete è doppia rispetto ai casi diagnosticati; quindi, nel nostro paese vi sono non meno di
3.000.000 di soggetti diabetici, solo per la metà riconosciuti come tali. Nelle diverse aree
geografiche, si prevede un diverso incremento del diabete: minore in Europa e nel Nord America,
dove probabilmente è già aumentato in modo significativo, mentre si prevede più di un raddoppio
in Africa e Asia.
Complessivamente, si stima il seguente incremento: 415 milioni nel 2015 -> 642 milioni nel 2040.
Questi numeri hanno fatto sì che il diabete abbia assunto una rilevanza socioeconomico-sanitaria
pari a pochissime altre condizioni. Il diabete più frequente (di tipo 2) tende ad incrementare con
l’età, quindi l’invecchiamento impatta sull’aumento della diffusione di questa patologia. Il diabete
viene considerato dall’OMS come la prima emergenza sanitaria.
[Dalle slide: Del 3% di pazienti diabetici, il 10% soffre di diabete di tipo 1 ed è in trattamento
insulinico, il restante 90% soffre di diabete di tipo 2 ed è in trattamento con insulina (10%), con
ipoglicemizzanti orali (60%) o con la sola dieta (30%).
La prevalenza del diabete di tipo 2 aumenta con l’età: al di sopra dei 65 anni oltre il 10% della
popolazione italiana risulta affetta da diabete.]
DIAGNOSI
Il presupposto fondamentale per diagnosticare il diabete è la valutazione della glicemia a digiuno
(FPG, ovvero “Fasting Plasma Glucose”):
66
capacità che hanno i vasi sanguigni di dilatarsi elasticamente sotto l’effetto di una pressione
sanguigna crescente, per poi restringersi restituendo il volume di sangue accumulato sotto
l’effetto di una pressione sanguigna decrescente.
In America si tende quindi a preferire il 2hrPPG (“2-Hours Post-Prandial Glucose”), in cui si misura
la glicemia a digiuno e dopo due ore dal pasto, saltando le fasi intermedie del test
precedentemente descritto. Seppure le tappe intermedie permetterebbero di fare una diagnosi
più raffinata, perché si potrebbe valutare il rapporto che può esserci tra obesità o sovrappeso,
intolleranza al glucosio, deficit di insulina dovuti ad altri motivi ecc…, i pazienti sono risultati molto
più complianti al 2hrPPG. In questo caso:
3. Intolleranza al glucosio:
o 2hrPPG tra 140 mg/dl e 200 mg/dl
[Dalle Slide: la formula di conversione da mg/dL a mmol/L è: mmol/L = (mg/dL x 10): peso
molecolare; che nel caso del glucosio è 180,095.]
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CLASSIFICAZIONE DEL DIABETE (1997)
Diabete di tipo 1 (T1DM)
Diabete di tipo 2 (T2DM)
Diabete gestazionale
Altri tipi (forme da causa nota): meno dello 0,1% **
o difetti genetici della funzione delle cellule beta (MODY ed altri)
o difetti genetici dell’azione insulinica
o malattie del pancreas esocrino (pancreatiti, traumi, pancreasectomia, neoplasie, fibrosi
cistica, emocromatosi, altre)
o endocrinopatie (acromegalia, sindrome di Cushing, glucagonoma, feocromocitoma,
ipertiroidismo, aldosteronoma, somatostatinoma)
o indotto da farmaci o da sostanze chimiche (vacor, pentamidina, acido nicotinico,
glucocorticoidi, ormone tiroideo, agonisti -adrenergici, tiazide, fenitoina, inteferone ,
altre)
o infezioni (rubella congenita, citomegalovirus, altre)
o altre forme non comuni immuno-mediate
o altre sindromi genetiche talvolta associate al diabete (sindrome di Down, sindrome di
Klinefelter, sindrome di Turner, atassia di Friedreich, corea di Huntington, sindrome di
Lawrence-Moon Beidel, distrofia miotonica, porfiria, sindrome di Prader-Willi, altre)
[** n.d.s. Non è necessario ricordare gli altri tipi, basta ricordare che per queste forme molto rare
la causa è conosciuta]
PATOGENESI
Questa patologia insorge soprattutto nei bambini e adolescenti. L’elemento fondamentale di
questa forma di diabete è rappresentato dalla distruzione delle cellule β-insulari. Il meccanismo è
autoimmune probabilmente scatenato da agenti ambientali in soggetti geneticamente
predisposti.
L’importanza dei fattori genetici è documentata dalle seguenti osservazioni:
o i bambini che hanno un parente di primo grado affetto presentano un maggiore rischio di
sviluppare la malattia rispetto ai coetanei che non hanno parenti di primo grado affetti
(fenomeno della aggregazione familiare);
FATTORI AMBIENTALI
Tra i fattori ambientali potenzialmente responsabili abbiamo un’infinità di virus, però sappiamo
perfettamente che i pazienti infettati non sviluppano diabete. Tra le infezioni virali che oggi si
ritengono maggiormente associate al diabete è quella da Coxsackie B4 (da ricordare, perché è
l’associazione più forte tra quelle trovate).
Altri fattori potenzialmente responsabili (associazioni non del tutto confermate):
- Infezioni batteriche, forse da micobatteri;
- Alimenti, forse le proteine del latte vaccino assunte prima del 4 mese di vita (c’è una
grande diatriba a riguardo);
- Tossine (?)
Tuttavia, fattori ambientali associati all’insorgenza del diabete sicuramente ci sono, ma non sono
ancora stati identificati.
[Dalle Slide: L’importanza dei fattori ambientali è documentata dalle seguenti osservazioni:
- i casi di T1DM aumentano nelle popolazioni che migrano verso aree geografiche ad alta
incidenza
- in alcune nazioni quali Polonia, Nuova Zelanda, Estonia e Stati Uniti, nella prima metà degli
anni ’80 sono state registrate “epidemie” di T1DM
- nei mesi invernali si osserva un aumento dell’incidenza della malattia]
MECCANISMI AUTOIMMUNITARI
Attraverso esperimenti ed esami autoptici (condotti su bambini che avevano sviluppato diabete di
tipo 1) si è scoperto che, prima della distruzione, le cellule β del pancreas vengono accerchiate da
linfociti, prevalentemente CD8+ e CD4+, e da macrofagi. Per cui sicuramente si tratta di una
risposta autoimmune di tipo cronico cellulo-mediata che ha un’azione distruttiva sulle cellule β-
pancreatiche: questi pazienti sviluppano anticorpi contro le cellule β o contro l’insulina. Tuttavia,
ad oggi, non conosciamo che cosa scatena questa reazione autoimmune.
[Dalle slide: Sebbene l’esordio del T1DM sia solitamente improvviso, la malattia risulta da un
attacco autoimmune delle cellule beta di tipo cronico, presente da anni prima dell’inizio delle
manifestazioni cliniche; iperglicemia e chetosi si determinano quando più del 90% delle cellule beta
à stato distrutto.
Il ruolo dei meccanismi autoimmunitari è sostenuto da diverse evidenze:
- insulite; l’infiltrato cellulare che si osserva nei modelli animali durante le fasi iniziali del diabete
consiste per lo più di linfociti CD8+ e da un numero variabile di CD4+ e macrofagi; i linfociti CD4+ di
animali malati possono trasmettere la malattia a animali sani, confermando il ruolo importante
69
dell’autoimmunità T mediata; inoltre, una infiltrazione linfocitaria è sempre documentabile nei
soggetti morti con diabete di recente insorgenza
- autoanticorpi circolanti diretti contro le cellule insulari (ICA) e altri auto-anticorpi si ritrovano
nella maggior parte dei soggetti con T1DM di recente diagnosi e sono spesso presenti nel periodo
di “prediabete”; inoltre, circa il 10% dei soggetti con diabete T1DM è portatore di altri disordini
autoimmuni organo-specifici quali la malattia di Graves, la malattia di Addison e la tiroidite di
Hashimoto]
CARATTERISTICHE CLINICHE
Il diabete di tipo 1 è fortemente sintomatico, si manifesta nel 95% dei casi prima dei 25 anni e
comunque sempre prima dei 35. Lo zucchero assunto con la dieta viene eliminato con le urine
(glicosuria) il che porta, in un paziente diabetico non trattato, a quella che è conosciuta anche
come sindrome delle tre P:
- poliuria → aumento diuresi osmotica provocata dal richiamo osmotico del glucosio nelle
urine (glicosuria). Talvolta associata a sintomi di disidratazione;
- polidipsia → sete intensa conseguente alla perdita di acqua ed ele roli ;
- polifagia → aumento dell’appe to dovuto al fatto che il glucosio introdotto con la dieta
non può essere utilizzato come combustibile; quindi, il soggetto mangia molto ma
dimagrisce. Questo aumento dell’appetito è conseguente al passaggio da una fase
anabolica insulino-dipendente ad una fase catabolica da deficit insulinico.
In mancanza di zucchero vengono utilizzate fonti energetiche alternative:
1. Per primo viene attaccato il tessuto adiposo, con conseguente progressivo calo ponderale:
gli acidi grassi escono dal TA e si portano al fegato dove vanno incontro alla β-ossidazione
per produrre energia.
2. Dalla β-ossidazione degli acidi grassi si produce Acetil-CoA che entra nel ciclo di Krebs
reagendo con l’acido ossalacetico. In caso di eccessivo catabolismo lipidico e un’accelerata
β-ossidazione si produce molto Acetil-CoA, che non trova una quantità sufficiente di
ossalacetato con cui reagire; per cui si accumula e dalla condensazione delle molecole di
Acetil-CoA si ottengono i corpi chetonici: acido acetoacetico, β-idrossibutile e acetone.
Questi tre acidi determinano acidosi metabolica (chetoacidosi) – un’alterazione
dell’equilibrio acido-base che è il responsabile, insieme a condizioni intercorrenti come
infezioni o stress, del coma chetoacidosico. Prima dell’insulina di Banting, infatti, i pazienti
con diabete di tipo 1 morivano per scompenso dell’acidosi metabolica seguita dal coma.
Oggi i corpi chetonici sono uno strumento diagnostico per identificare lo scompenso
metabolico legato al diabete di tipo 1.
3. Dopo gli acidi grassi, vengono utilizzate come substrato energetico le proteine provenienti
dal tessuto muscolare, il che comporta debolezza muscolare.
70
[Dalle Slide: Per “luna di miele” si intende
quel periodo di remissione transitoria, che può
durare alcune settimane, talora mesi, in cui c'è una
ripresa funzionale delle cellule beta del pancreas,
che producono insulina.]
CARATTERISTICHE CLINICHE
L’evoluzione metabolica naturale del diabete di tipo 2, nei pazienti non adeguatamente trattati,
prevede il raggiungimento di valori di iperglicemia tali da produrre una poliuria tale che il paziente
va incontro a disidratazione – mancato equilibrio tra le enormi perdite di liquidi, dovuti agli
elevatissimi valori di glicemia raggiunti nella fase finale della malattia, e l’assunzione di liquidi. La
71
disidratazione ha un effetto diretto sulle cellule del SNC inducendo coma iperosmolare. Oggi,
grazie alle terapie, siamo in grado di scongiurare sia il coma chetoacidosico (associato al diabete di
tipo 1), sia quello iperosmolare, che dunque non rappresentano più un rischio per il paziente
diabetico. Gli elementi di pericolosità oggi associati al diabete sono le complicanze che si
sviluppano a seguito dell’iperglicemia.
[Dalle Slide: Il coma iperosmolare è caratterizzato da una disidratazione imponente prodotta da
una diuresi eccessiva non controbilanciata da un apporto idrico adeguato. Clinicamente si
manifesta con iperglicemia gravissima (anche >1000 mg/dl), iperosmolarità, ipovolemia e
ipernatriemia, insieme a segni di interessamento del sistema nervoso centrale che possono andare
dall’obnubilamento del sensorio fino al torpore e al coma: sono spesso presenti malattie
concomitanti di vario genere e il coma può essere precipitato dalla somministrazione di farmaci
quali diuretici, corticosteroidi e fenitoina.]
DIABETE GESTAZIONALE
Il quarto e ultimo tipo di diabete è il diabete gestazionale, di rilevanza emergente colpisce il 7%
delle donne in gravidanza. Non ne conosciamo le cause; probabilmente sono legate alle variazioni
endocrine che compaiono durante la gravidanza, ma non sappiamo quale sia esattamente
l’ormone che in qualche modo possa modificare il metabolismo glucidico. Queste donne
sviluppano il diabete dopo qualche mese dall’inizio della gravidanza, il che comporta una
condizione di iperglicemia. [Dalle Slide: il diabete si risolve non molto tempo dopo il parto ma è
probabile che si ripresenti ad una successiva gravidanza; inoltre, dal 30 al 60% delle donne sviluppa
un diabete di tipo 2 nei 10-15 anni successivi]. L’elevata concentrazione di zuccheri viene
trasmessa attraverso la placenta e raggiunge il feto che, dopo una certa fase di sviluppo, è in grado
di produrre insulina. Il feto, dunque, si sviluppa sotto un bombardamento di insulina endogena che
ha un effetto anabolizzante, motivo per cui tutti i neonati nati da madri con diabete gestazionale
sono sovrappeso (feto macrosomico). Questo non solo costituisce un rischio per la gravidanza, ma
i neonati sovrappeso sono sottoposti ad un maggiore rischio di sviluppare un diabete di tipo 2 in
età adulta.
72
TEST DI SCREENING
È importante, quindi, sia per la madre
che per il feto, diagnosticare
precocemente e trattare l’iperglicemia
durante la gravidanza. Il test di
screening deve essere eseguito tra la
24° e la 28° settimana di gestazione,
intervallo in cui si verifica il picco di
incidenza di questa condizione. Si somministrano 50g di glucosio alla futura mamma e si osservano
i risultati entro un’ora:
- Se la glicemia non supera i 140mg/dL la donna non ha sviluppato il diabete;
- Se la glicemia supera i 140mg/dL è necessario procedere con un test diagnostico: si
somministrano 100gr di glucosio e se al primo, al secondo, al terzo prelievo i valori di
glicemia superano quelli riportati in tabella, allora è diagnosticato il diabete in gravidanza e
trattato per evitare le complicanze soprattutto sul feto. Questa donna sicuramente
svilupperà il diabete gestazionale anche durante le gravidanze successive e, allo stesso
tempo, avrà un maggiore rischio di sviluppare un diabete di tipo 2 dopo la gravidanza. Per
questi motivi è importante un attento monitoraggio sia durante che dopo la gravidanza.
INDAGINI DI LABORATORIO
Le indagini di laboratorio sono fondamentali nel paziente diabetico, innanzitutto per la diagnosi, e
consistono in:
- Glicemia a digiuno e 2 ore dopo il pasto (2hrPPG) → cos tuisce il punto di partenza per la
diagnosi di diabete. Può essere svolto anche dal paziente stesso ogni giorno tramite “digito
puntura”, per mantenere monitorata la glicemia ed eventualmente modificare la terapia;
- Glicosuria → importante per la “diagnosi occasionale” (non mo vata) di diabete. Essendo il
diabete di tipo 2 asintomatico, di conseguenza difficile da diagnosticare, la valutazione del
glucosio è entrata nell’esame delle urine di routine. Dunque, la glicosuria non è un
fondamento per la diagnosi di diabete – per diagnosticare il diabete devo valutare la
glicemia; ma viene sfruttato il fatto che il paziente faccia un esame delle urine per qualsiasi
motivo (viene ospedalizzato o decide di fare una propria valutazione) per valutare
l’eventuale presenza di zucchero nelle urine.
- Insulinemia basale e 2 ore dopo il pasto (2hrPPG) → utile per valutare in che fase del
diabete di tipo 2 si trova il paziente (variazioni della curva insulinica nelle 3 fasi del T2DM).
- Chetonemia e chetonuria → sono cara eris che del diabete di po 1: se nel sangue
periferico o nelle urine sono presenti corpi chetonici vuol dire che la patologia è già in una
fase piuttosto avanzata (accelerato catabolismo dei lipidi).
- Ricerca di auto-anticorpi specifici:
o anti-cellule pancreatiche (ICA: Islet Cell Antibodies);
o anti-insulina (IAA: Insulin Auto Antibodies);
o anti-acido glutammico decarbossilasi (GADA: Glutamic Acid Decarboxylases
Autoantibodies, o anti-GAD65);
o anti-tirosinfosfatasi (IA2);
o anti-ZnT8 → ZnT8 è una proteina di membrana presente nei granuli secretori
contenenti insulina all’interno delle cellule β pancreatiche. Come gli altri bersagli
elencati, è un target della risposta anticorpale che caratterizza il diabete di tipo 1.
N.B. da un lato alcuni pazienti con diabete di tipo 1 non hanno gli anticorpi; dall’altro lato,
ancora più frequentemente, pazienti che hanno altre malattie autoimmuni presentano gli
stessi auto-anticorpi senza avere il diabete. Dunque, è bene conoscere questi indicatori
diagnostici, ma è importante tenere a mente che la loro sensibilità e specificità diagnostica
non è così elevata da poter costituire uno strumento diagnostico certo per il diabete.
Tipizzazione per gli antigeni HLA → vi sono degli alleli associa al diabete di po 1: ne
esiste uno solo protettivo, mentre quelli che conosciamo maggiormente sono favorenti il
diabete.
Diagnosi molecolare delle forme genetiche → u lizzato nelle pochissime forme gene che
conosciute, si tratta di una minima percentuale di pazienti che hanno un diabete da causa
nota.
74
N.B. I più importanti indicatori diagnostici sono i primi due, utilizzati nella pratica clinica.
Oltre che per fini diagnostici, le indagini di laboratorio sono fondamentali anche per il
monitoraggio del paziente diabetico, cui sarà sottoposto per il resto della vita, per valutare
l’evoluzione della malattia. Inoltre, è molto importante conoscere i livelli di glicemia ogni qualvolta
il paziente debba auto-somministrarsi l’insulina: esistono device sempre più raffinati che
consentono al paziente di auto-monitorare la propria glicemia. Possiamo definirlo un esame di
laboratorio che è uscito dal laboratorio per permettere al paziente di gestirsi autonomamente, in
accordo con il medico sulla dose di insulina da assumere. Indagini di laboratorio per il
monitoraggio del diabete:
Glicemia/Glicosuria
Insulinemia → nei pazien di po 2 ha un andamento cronologicamente associato
all’evoluzione della malattia: molto alto nella fase iniziale, un plateau nella fase intermedia
cui segue una decrescita nella fase finale;
Peptide C -> utilizzato per la determinazione dell’insulinemia endogena nei pazienti in
trattamento con insulina;
Emoglobina glicata (HbA1c) → il più importante per il monitoraggio dei pazienti diabetici.
Infatti, per capire se il paziente si sta autogestendo in maniera corretta (compliance del
paziente), la glicemia a digiuno è un valore indicativo solo delle ultime 24h; invece, molto
più significativo è il valore dell’Hb glicata. L’emoglobina è una molecola con emivita di 120
giorni presente all’interno dei globuli rossi, i quali sono talmente dipendenti dallo
zucchero, che possono trasportarlo al loro interno indipendentemente dalla presenza del
recettore GLUT4 (presentano il recettore ubiquitario GLUT1). Questa proprietà è
giustificata dall’assenza dei mitocondri che impedisce loro di compiere la respirazione
cellulare; di conseguenza producono energia solo attraverso la glicolisi anaerobia che,
essendo un processo biochimico molto dispendioso, rende indispensabile l’ingresso libero
di glucosio. Quando il glucosio è molto concentrato nel sangue periferico entra all’interno
degli eritrociti in grandi quantità e lega l’emoglobina.
N.B.: in qualche testo, ma anche in qualche esame di laboratorio, è possibile trovare il
termine emoglobina glicosilata anziché glicata, ma non è del tutto corretto – la
glicosilazione è una reazione che prevede l’intervento di un’enzima e non è questo il caso.
Il vantaggio di questo esame è la possibilità di valutare qual è stata la glicemia media degli
ultimi 30-40 giorni (tecnicamente gli ultimi 60 giorni, la metà di 120 giorni che è l’emivita
dell’Hb).
Tuttavia, in alcuni pazienti questo indicatore può essere mal interpretato, per esempio nei
pazienti anemici. Per cui quando c’è un’alterazione qualitativa e quantitativa dell’Hb,
prevalentemente nelle malattie ematologiche, essendo questo parametro inattendibile, si
ricorre all’albumina glicata. L’albumina è una proteina plasmatica con un’emivita di 12-20
giorni, anch’essa si lega agli zuccheri circolanti quando questi sono molto concentrati.
N.B.: Il valore dell’albumina glicata si utilizza solo in alternativa all’Hb glicata nei pazienti
con emopatie legate ai globuli rossi perché la sua capacità retroattiva è molto minore (15-
20 giorni di emivita a fronte dei 120 dell’Hb). È possibile trovare anche il termine generale
fruttosamine che sta ad indicare un pool di proteine plasmatiche, cui fa parte anche
l’albumina, che legano il glucosio circolante.
75
Indici di funzionalità renale → non è utilizzato per monitorare il metabolismo glucidico ma
per valutare possibili complicanze come nefropatie o glomerulopatie. Gli indici di
funzionalità renale sono:
o micro-albuminuria;
o BUN (blood urea nitrogen);
o Creatininemia.
assetto lipidico (colesterolo totale e frazionato, trigliceridi) → è un altro fattore di rischio
importante da monitorare.
[Nota del prof. I dettagli biochimici dell’Hb
glicata sono forniti solo per un eventuale
approfondimento personale. Le slide più
importanti sono: il planetario che rappresenta
come ci aspettiamo che aumenterà nel mondo
l’incidenza del diabete e i goals del trattamento
del paziente diabetico di cui è importante
ricordare i valori]
Il 50% dei pazienti con diabete sono inconsapevoli della loro malattia. Non hanno valutato
la glicemia e hanno forse sottovalutato la glicosuria, ma sono affetti da diabete e non si
stanno curando.
studi epidemiologici suggeriscono che, relativamente al diabete di tipo 2, l’intervallo tra
insorgenza e diagnosi della malattia potrebbe essere intorno ai 10 anni. Questo significa
che per circa 10 anni un paziente diabetico non trattato rischia di andare incontro a
complicanze.
il 50% dei pazienti con diabete di tipo 2 presenta, già al momento della diagnosi, una o più
complicanze specifiche del diabete mellito.
76
Il costo di questo screening sarebbe bassissimo rispetto ad altri test di screening come
mammografia, pap test, sangue occulto nelle feci o altro;
Sono tre buoni motivi per introdurre il test di screening a minor costo: la glicemia a digiuno,
effettuabile in ospedale mediante un prelievo di sangue periferico. Il suggerimento è di farlo ogni
3 anni nei soggetti di età superiore ai 45 anni, in questo modo il gap medio tra insorgenza e
diagnosi della malattia da 10 anni si ridurrebbe mediamente ad un anno e mezzo e comunque ad
un massimo di 3 anni. Questo ci permetterebbe di diagnosticare precocemente il diabete così da
ridurre non solo il rischio di sviluppare complicanze, ma anche l’impatto economico sul sistema
sanitario nazionale.
[Slide saltata sui fattori di rischio per il diabete di tipo 2:
- familiarità per il diabete (parenti di primo grado affetti da diabete mellito di tipo 2)
- obesità: IBW (ideal body weight) > 120% o MBI (body mass index) > 27kg/ m 2
- appartenenza a popolazioni a rischio: afroamericani, ispano-americani, americani autoctoni,
americani-asiatici, abitanti delle isole del Pacifico
- precedente riscontro di alterata tolleranza al glucosio o alterata glicemia a digiuno
- madri di feti macrosomici (con peso > 4,032 Kg) o con diabete gestazionale
- ipertensione (PA > 140/90)
- colesterolo HDL < 35 mg/dl e/o trigliceridi > 250 mg/dl]
77
CAPITOLO 5: IL LABORATORIO NELLA VALUTAZIONE
DELLE ALTERAZIONI DELL’EQUILIBRIO ACIDO-BASE
EQUILIBRIO ACIDO-BASE
INTRODUZIONE
Lo ione H+ è presente in concentrazione estremamente
minore nell’organismo umano rispetto agli altri ioni (con
l’eccezione di alcuni distretti quali urina e succo gastrico).
Infatti [H+] è compresa tra 35 e 45 nmol/L, se si calcola la
differenza tra le molarità degli altri ioni risulta attorno a
106. Questa sua bassa concentrazione è spiegata dalla
sua alta reattività ed è fondamentale che essa rimanga
costante. Trattandosi di un range ristretto sono necessari
meccanismi omeostatici che hanno la funzione di
garantirne l’omeostasi.
Proprio per la sua bassa concentrazione la sua presenza è espressa con la formula del pH:
pH = –log10 [H+] moli/L
Si definisce pH il logaritmo decimale negativo della concentrazione degli ioni H +.
N.d.s.: A questo punto il Prof si mostra in disaccordo con tale affermazione riportata nei libri di
testo, contestando il fatto che il pH aiuti a rendere l’argomento più semplice. In realtà, secondo
lui, il pH complica l’argomento dell’equilibrio acido-base. Tuttavia, è bene allinearsi alla visione dei
libri di testo, riflettendo però su questo aspetto. Come detto, il pH è stato introdotto perché la
concentrazione di ioni H+ è molto bassa. Tuttavia, abbiamo a disposizione una scala che consente
di esprimere le concentrazioni di un qualunque analita in nanomoli, picomoli, femtomoli.
Leggendo un esame emocromocitometrico, uno degli esami più importanti, si nota infatti come il
volume corpuscolare medio sia espresso in femtolitri, quindi un valore ancora più basso nella
scala. Non sarebbe necessario dunque ricorrere al pH, ma è possibile gestire qualunque
concentrazione in frazioni di peso/volume. Inoltre, il sistema del pH è adimensionale (non sono né
grammi né litri né kg), diversamente da quanto siamo abituati solitamente, in cui si associa ad ogni
valore un’unità di misura. In sintesi, secondo il prof, non solo il pH non è d’aiuto ma può anche
disorientare, è una complicazione di un argomento oltremodo complicato. In aggiunta si tratta di
una scala che segue un ragionamento inverso, considerando che quando la concentrazione di H+
aumenta, il pH diminuisce e quando invece la concentrazione di H+ si riduce, il pH aumenta,
mentre ragionevolmente ci si aspetterebbe che, qualora per esempio la concentrazione di ione
sodio o potassio aumenti, anche il suo pH aumenti. Inoltre, non c’è proporzione tra la
concentrazione di H+ e il pH. [n.d.s a dimostrazione di questo, viene fatto un esempio numerico
non riportato nella slide, confrontando la concentrazione di H+ e il pH corrispondente, dove il
rapporto è sempre logaritmico: la differenza di concentrazione che c’è tra 7,9 e 8 cioè 3 mmol/L,
diventa di 45 mmol/L tra 6,9 e 6,8]. Quindi si tratta di una scala inversa, non proporzionale e
adimensionale.
78
La concentrazione fisiologica di ioni H+ (misurata considerando il sangue arterioso),
corrispondente a 0,00000004 moli/L, viene pertanto espressa con un valore di pH di 7.4, e le due
concentrazioni limite compatibili con la sopravvivenza sono espresse con valori di pH,
rispettivamente, di 6.8 e 7.8.
Le variazioni del pH sono controllate per tre principali motivi:
Il sistema tampone ha come funzione primaria il mantenimento dell’intervallo fisiologico del pH.
Una soluzione tampone è solitamente formata da due componenti: una che cede ioni H+ e una
seconda che li sottrae, relativamente un acido e una base. Nell’organismo umano le stesse
molecole che prendono parte a tali sistemi hanno anche altre funzioni, con la conseguenza che un
eccessivo sbilanciamento ionico comporta la perdita di queste ultime.
REGOLAZIONE DEL pH
I meccanismi protettivi che subentrano nel controllo sono fondamentalmente 3:
ematico (sistemi tampone), max efficienza in 2h;
respiratorio o polmonare (ventilazione alveolare), max efficienza in 12-24 ore;
renale (funzionalità renale), max efficienza in 3-4 giorni;
Le loro azioni sono strettamente coordinate ed interdipendenti, essi fanno parte di un unico
sistema integrato e la loro ‘scomposizione’ è da intendersi come artifizio didattico. Questi
meccanismi entrano in funzione con
modalità e tempistiche differenti. È
importante considerare la tempistica di
ogni meccanismo in quanto, per esempio,
in una situazione acuta e iperacuta i
meccanismi renali non si sono ancora
attivati.
SISTEMA EMATICO
È il primo ad intervenire ed è costituito da sistemi tampone [n.d.s: Si definiscono sistemi tampone
quelle sostanze che, in risposta ad un cambiamento dell’acidità dei liquidi causato dall’aggiunta di
un acido o di una base possono, in modo istantaneo, accettare o donare protoni (ioni H +) limitando
in questo modo le variazioni della concentrazione idrogenionica]. Si tratta di soluzioni acido base in
equilibrio, che hanno una limitata capacità di compensare squilibri di [H+]. Le soluzioni tampone
79
più efficaci presenti nel nostro organismo sono costituite da un acido debole e dal suo sale con
una base forte; la costituzione inversa è meno rappresentata, meno frequente.
80
I passaggi che portano al pH 7,4 che caratterizza il sangue arterioso, sono così individuati:
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐻 𝐶𝑂 ]
si dissocia l’acido carbonico in acqua e anidride carbonica
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐻 𝑂] + [𝐶𝑂 ]
Si elimina l’acqua, sostituendo però pK con pK’, che rappresenta la costante di dissociazione
dell’acido carbonico in acqua alla temperatura di 37°C invece che a 25°C. pK’=800x10 -9mol/L.
pK=pK’ solo a 25°C.
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
[𝐶𝑂 ]
considerando la seconda legge di Henry, che afferma che la pressione parziale di un gas disciolto in
una soluzione è direttamente proporzionale alla sua pressione parziale, si sostituisce [CO2] con
αPaCO2, dove PaCO2 è la pressione parziale dell’anidride carbonica e α è la costante di solubilità
della CO2 in acqua (a 37° = 0,031).
[𝐻𝐶𝑂 ]
𝑝𝐻 = 𝑝𝐾 + 𝑙𝑜𝑔
𝛼𝑃𝑎𝐶𝑂
Inserendo I valori numerici si ottiene:
[24𝑚𝐸𝑞/𝐿]
𝑝𝐻 = 6,1 + 𝑙𝑜𝑔
0,031 𝑥 40 𝑚𝑚𝐻𝑔
che diventa:
𝐩𝐇 = 𝟔, 𝟏 + 𝐥𝐨𝐠 𝟐𝟎 = 6,1 + 1,3 = 7,4
Quando il pH del nostro sangue vale 7,4?
Quando il rapporto bicarbonato/acido carbonico è 20/1. Ponendo il pH uguale a 7,4 e
considerando la costante di dissociazione acida in acqua uguale a 6,1 è possibile determinare le
condizioni necessarie affinché il pH del sangue venga mantenuto costante:
[ ]
=
[ ]
La funzione del tampone è attuata tramite aumento o diminuzione del denominatore oppure del
numeratore (sono sempre da considerare le azioni integrate dei meccanismi ematico, polmonare e
renale).
SISTEMA RENALE
Il rene, pur intervenendo più lentamente, ha minori limiti funzionali e risulta essere
particolarmente efficace nel compensare variazioni del pH ematico; la funzione renale
nell’equilibrio acido base si attua attraverso tre diversi meccanismi:
riassorbimento di bicarbonatoneutralizzazione del HCO3- urinario con H+ e sintesi HCO3-
generazione di bicarbonato ex novo neutralizzazione del HPO4- urinario con H+ e sintesi
HCO3-;
escrezione di acidi sintesi di NH3 e sua neutralizzazione con H+;
1-Riassorbimento di bicarbonato
A livello citoplasmatico è presente l’anidrasi
carbonica che produce acido carbonico
associando CO2 e H2O. Successivamente
dall’acido carbonico si dissociano ioni idrogeno e
ioni bicarbonato. Essi hanno due direzioni
differenti:
3-Escrezione di acidi
I meccanismi di compenso avvengono secondo
una precisa sequela: la parte più prossimale del
tubulo renale attiva la prima parte del compenso,
la parte più distale la seconda parte del compenso
e infine la parte più distale ancora del tubulo è
priva di ioni negativi nella preurina. A quel punto
si automantiene nella cellula tubulare
catabolizzando gli amminoacidi come la
glutammina, con produzione di NH3 e acido α-chetoglutarico. L’ammoniaca è un accettore di H+ e
permette di conseguenza il continuo riassorbimento di bicarbonato. L’associazione tra idrogeno e
NH3 forma lo ione ammonio che viene escreto assieme al cloruro. Il sistema va avanti fino a
quando gli amminoacidi non potranno essere più catabolizzati.
ACIDOSI RESPIRATORIA
L’acidosi respiratoria è provocata da un aumento di
anidride carbonica nel sangue arterioso (ipercapnia)
conseguente ad una riduzione della ventilazione alveolare.
Le cause sono molteplici, possono derivare da una
ostruzione delle vie respiratorie, disordini degli scambi
gassosi (come nel caso di una fibrosi polmonare) oppure
può essere implicato il SN (nel caso di assunzione di barbiturici). Considerando il rapporto
nell’equazione di Henderson-Hasselbach il denominatore aumenta portando ad una diminuzione
del pH.
83
Per quanto riguarda l’aspetto laboratoristico dell’acidosi respiratoria:
Nel sangue arterioso si presenta con:
pH< 7,36 (o normale);
pressione parziale dell’anidride carbonica aumentata, PaCO2 >42mmHg;
bicarbonati aumentati (>25 mEq/L): ad ogni aumento di 10 mmHg della PaCO2 (alterazione
primaria) l’aumento di bicarbonati è in acuto di 1 mEq/L e in cronico di 3-4 mEq/L (questo
poiché il rene impiega molto tempo per compensare: all’inizio infatti la sua azione sarà
ridotta, solo dopo 3-5 giorni riuscirà a raggiungere quei 3-4 mEq/L che corrispondono al
massimo del compenso); l’aumento del bicarbonato ha lo scopo di cercare di mantenere
costante il rapporto nell’equazione di Henderson-Hasselbach (20:1);
frequente iperkaliemia causata da un aumento di H+, prima nel sangue poi nel fluido
interstiziale; questo aumento causa l’ingresso dello ione H+ nella cellula (dove la sua
concentrazione è bassa). Quindi, per mantenere l’equilibrio elettrico il potassio esce dalla
cellula. L’iperkaliemia può, a sua volta, causare delle alterazioni per esempio della
funzionalità cardiaca, che è quindi un effetto collaterale intrinsicamente legato all’acidosi;
Nelle urine:
Il pH è acido perché si cerca di eliminare acidi;
la concentrazione di bicarbonato diminuisce;
acidità titolabile aumentata;
eliminazione di NH4Cl aumentata;
Attualmente l’esame delle urine non considera più la
titolazione ma viene misurato solo il pH.
ALCALOSI RESPIRATORIA
L’alcalosi respiratoria è dovuta ad una diminuzione del pH,
causata da una diminuzione di anidride carbonica nel
sangue arterioso (ipocapnia) conseguente ad un aumento
della ventilazione alveolare. Due cause molto diffuse di
iperventilazione sono l’ipertermia e il dolore, l’eziologia è comunque piuttosto varia. Il
denominatore è sempre protagonista delle alterazioni respiratorie. Il meccanismo di compenso
comporta una escrezione di ioni bicarbonato, a carico del sistema renale che interrompe quindi i
tre meccanismi di riassorbimento. Laboratoristicamente l’alcalosi respiratoria si caratterizza:
Nel sangue arterioso:
pH aumentato (> 7,44) o normale;
PaCO2 diminuita (< 38 mmHg);
bicarbonati ridotti (< 23 mEq/L) a seconda del compenso: ad ogni riduzione di 10 mmHg
della PaCO2 la riduzione di bicarbonati è in acuto di 2 mEq/L e in cronico di 5 mEq/L;
frequente ipokaliemia (ioni H+ in uscita dalla cellula che causano l’ingresso di potassio);
Nelle urine:
il pH si presenta alcalino;
bicarbonati aumentati;
acidità titolabile diminuita;
eliminazione di NH4Cl diminuita;
84
ACIDOSI METABOLICA
L’acidosi metabolica è caratterizzata da una riduzione del
pH conseguente ad una riduzione della concentrazione
ematica di bicarbonati. Per quanto riguardo le alterazioni
metaboliche del pH è il numeratore a variare. Un paziente
che presenta questo tipo di acidosi, per compensare,
iperventila eliminando CO2; infine subentra anche il sistema renale, tramite il riassorbimento di
bicarbonato (possibile se la causa dell’acidosi non è renale). Il compenso è quindi doppio: è
sempre polmonare e, se ci sono le condizioni, anche renale.
Laboratoristicamente l’acidosi metabolica si caratterizza:
Nel sangue arterioso:
pH diminuito (< 7,36) o normale;
PaCO2 diminuita (< 38 mmHg) a seconda del compenso: ad ogni riduzione dei bicarbonati
di 1 mEq corrisponde una riduzione della PaCO2 di 1,2 mmHg;
bicarbonati diminuiti (< 23 mEq/L);
frequente iperkaliemia (vd. sopra);
Nelle urine:
pH acido;
bicarbonati diminuiti;
acidità titolabile aumentata;
eliminazione di NH4Cl aumentata;
ALCALOSI METABOLICA
L’alcalosi metabolica è caratterizzata da un aumento del
pH conseguente ad un aumento della concentrazione
ematica dei bicarbonati. Per compensare si ha
ipoventilazione, consentendo di trattenere anidride
carbonica. Il rene contribuisce a diminurire la
concentrazione di ioni bicarbonato, sempre che non sia il
primo responsabile dell’alcalosi.
Laboratoristicamente l’alcalosi metabolica si caratterizza:
Nel sangue arterioso:
pH aumentato (> 7,44) o normale;
PaCO2 normale o aumentata (> 42 mmHg) a seconda del compenso: ad ogni aumento dei
bicarbonati di 1 mEq corrisponde un aumento della PaCO2 di 0,5 – 0,7 mmHg;
bicarbonati aumentati (> 25 mEq/L);
frequente ipokaliemia (vd. sopra);
Nelle urine:
pH alcalino;
bicarbonati aumentati;
acidità titolabile diminuita;
eliminazione di NH4Cl diminuita;
85
EMOGASANALISI (EGA)
L’indagine di laboratorio utilizzata per l’approccio diagnostico ai disturbi dell’equilibrio acido-base
è l’emogasanalisi o EGA. L’EGA si esegue su un prelievo di sangue arterioso, solitamente
dall’arteria radiale, con inclinazione dell’ago a 30°, ponendo la mano del paziente in lieve
dorsiflessione.
In alternativa si possono utilizzare l’arteria femorale o l’arteria brachiale: la prima è profonda,
quindi meno facilmente accessibile e comprimibile, però il prelievo risulta meno doloroso per il
paziente, la seconda è invece più accessibile ma il prelievo risulta molto più doloroso per il
paziente. Il campione deve essere analizzato immediatamente per evitare gli effetti del
metabolismo delle cellule presenti in provetta, in grado di alterare il pH, fornendo poi risultati non
veritieri.
Nonostante sia possibile raffreddare in ghiaccio il campione rendendo il risultato attendibile anche
dopo 30-60 minuti dal momento del prelievo, l’emogasanalisi è considerata incompatibile con i
tempi dei laboratori tradizionali, pertanto si utilizzano degli emogasanalizzatori portatili che
forniscono il risultato immediatamente dopo aver utilizzato una goccia di sangue. L’output della
macchina ha la stessa consistenza degli scontrini fiscali e, come tale, si scolorisce con il tempo, è
quindi importante fare una fotocopia del risultato.
Gli output riporteranno:
valori misurati (tre, ma i più importanti sono pH e CO2);
valori di riferimento (e non “valori normali” come indicato);
valori calcolati (il terzo, ossia HCO3).
I dati ricavabili attraverso l’emogasanalisi sono molti, tuttavia l’attenzione verrà rivolta su pH,
PaCO2 e bicarbonato. Il pH e la PaCO2 sono misurabili direttamente attraverso lo strumento (che
misura anche la pO2, utile per studiare la ventilazione polmonare), mentre il bicarbonato è
calcolabile attraverso l’equazione di Henderson-Hasselbach. La scelta di calcolare alcuni parametri
è volta a risparmiare: sono stati scelti da calcolare valori o poco attendibili o molto costosi da
misurare. Dei tre valori che ci interessano (pH, paCO₂, bicarbonato) quindi ne devo misurare solo
due, poi calcolo il terzo.
86
mentre se hanno verso opposto l’alterazione è sempre respiratoria. Non esiste in questi casi una
combinazione che corrisponda a un’altra, pertanto la diagnosi è certa. L’importanza del
determinare la presenza di un’acidosi o alcalosi, metabolica o respiratoria, permette di capire se il
paziente ha un disturbo semplice o più complesso. Se, infatti, individuo una delle precedenti
condizioni e il meccanismo compensatorio si bilancia numericamente, allora si tratterà di un
quadro semplice; ma se la compensazione non si verifica, sarà un quadro di mancata attivazione
dei meccanismi compensatori (condizione rara), caratterizzato da un’alterazione complessa e dalla
presenza di più disturbi contemporaneamente.
[Dalle slide: In patologia umana è difficile la presenza di “disordini semplici” in quanto spesso vi è
compromissione e/o co-interessamento di più organi (ad esempio scompenso cardiaco in un
paziente con broncopneumopatia cronica e/o insufficienza renale e/o perdita di liquidi per diarrea
o vomito): in tali condizioni ci si trova di fronte a quelli che vengono definiti “disordini complessi” o
“misti”. Nei disordini misti dell’equilibrio acido base il compenso atteso non è rispettato]
87
da escludere, data l’assenza di tosse, febbre e dolore toracico. La PA è di 120/80 mmHg, la FC è di
85 bpm.
Il professore suggerisce che possa trattarsi di una forma psicotica, di depressione associata al
parto, quindi una condizione emotiva, di ansia. Se, quindi, fosse un’iperventilazione reattiva, la
situazione riconducibile a essa sarebbe di acidosi metabolica e la paziente iperventila proprio
perché sta compensando tale l’acidosi.
Quello che viene notato primariamente non è l’alterazione primaria, bensì il meccanismo
compensatorio: la PaCO2 si modifica perché sta compensando un’alterazione metabolica, che a
seguito di opportuni esami di approfondimento, appare essere diabete, non gestazionale, ma
insorto dopo la gravidanza. Si tratta di un disturbo semplice.
Secondo caso clinico
Una signora di 73 anni si presenta i PS per
trauma contusivo, verificatosi su un autobus
di linea durante una brusca frenata.
Dall’anamnesi patologica remota risulta che
la paziente è cardiopatica e in trattamento
con beta-bloccanti, ACE inibitori e diuretici.
Riferisce di avere aumentato di sua
iniziativa il dosaggio di diuretici, per la
comparsa di edemi declivi.
Esame obiettivo: lamenta astenia,
faticabilità, appare disidratata, con labbra
secche e cute anelastica. È ipotesa (PA
95/65), tachicardica (FCM 98 battiti/minuto: VN 60-80) e bradipnoica (FR 10 atti/minuto: VN 12-
15). Il diuretico comporta l’eliminazione di una grande quantità di liquidi, pertanto l’organismo
compensa questa disidratazione recuperando acqua, per reidratarsi. Quindi il rene riassorbe sodio,
che richiama acqua. Il sodio, però, per essere riassorbito deve scambiarsi con uno ione positivo,
tra cui anche lo ione H+. Si avrà dunque fuoriuscita di ioni H+ ed eliminazione di tale ione con le
urine. Il paziente va, quindi, in alcalosi metabolica. Effettuando un’EGA la diagnosi di alcalosi
metabolica è molto semplice e rapida, permettendo di confermare l’ipotesi avanzata
precedentemente. A questo punto bisogna valutare il compenso: ad ogni aumento del
bicarbonato di 1mEq/L, corrisponde un aumento della PaCO2 di 0,5-0,7 mmHg. La bicarbonatemia
è aumentata di 31,6-24= 7,6 mmol/L. Moltiplicando 7,6x0,7 si ottiene 5,32 mmHg che rappresenta
l’aumento di PaCO2. Avendo l’EGA confermato questo aumento si tratta di un disturbo semplice in
quanto non ci sono altre alterazioni. Si dovrà quindi valutare la terapia, diversa dalla precedente,
che è stata la causa dello scompenso metabolico.
Terzo caso clinico
Un signore di 42 anni si presenta in PS per persistenza di iperpiressia da tre giorni, associata a
disturbi urinari (stranguria e pollachiuria), dolenzia in regione lombare destra e diarrea. La
stranguria è la minzione dolorosa: il paziente sente dolore durante la parte finale della minzione.
La pollachiuria, invece, è una minzione frequente. Queste due condizioni, si associano ad infezioni
delle vie urinarie. L’emocromo rivela infatti una leucocitosi neutrofila (18.800 bianchi/μL con l’85%
di neutrofili) e l’esame delle urine un pH di 7.12 con proteinuria, leucocituria ed ematuria.
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Esame obiettivo: temperatura ascellare di
39,50°C (alta e che persiste da tre giorni), PA:
110/65 (ipoteso), FC: 112 bpm (tachicardico).
Il quadro clinico complessivo conferma
l’ipotesi di un’iperpiressia importante. Si
aggiunge anche polipnea (20 atti/minuto, VN
(valore normale): 12-15), reazione alla
febbre, che come questa, perdura da tre
giorni (è da tre giorni che il paziente sta
iperventilando).
Valutando la situazione da un punto di vista
emogasanalitico, l’alterazione che ci si
aspetta di trovare in un paziente con iperventilazione conseguente ad un contatto infettivo è di
un’alcalosi respiratoria.
Valutando il compenso (ad ogni diminuzione di 10mmHg della PaCO2 corrisponde una
diminuzione dei bicarbonati di 2mEq in acuto e di 4-5 mEq in cronico) si controlla se
effettivamente i bicarbonati sono diminuiti. Ad ogni riduzione della PaCO2, perché il paziente
iperventila, dovrebbe corrispondere una riduzione dei bicarbonati.
Se i bicarbonati non sono diminuiti, è inutile fare i calcoli, perché sicuramente non torneranno. Se,
invece i bicarbonati sono diminuiti, allora è giusto verificare che siano diminuiti correttamente.
In questo caso i bicarbonati non sono diminuiti, per cui non ha senso fare calcoli. Il compenso
atteso non è verificato. Si tratta di un’alterazione complessa, quindi sono presenti più disturbi
contemporaneamente. Si esclude un’acidosi respiratoria, unica condizione incompatibile, perché
un paziente non può iperventilare e ipoventilare nello stesso momento. Osservando l’EGA,
l’alterazione aggiuntiva sembra essere un’alcalosi, perché il paziente ha più bicarbonati di quelli
che mi aspetto. Se l’alcalosi respiratoria è già diagnosticata, allora rimarrà quella metabolica.
Molto probabilmente il paziente si è disidratato: un paziente che sta a casa per tre giorni, con
febbre è ragionevole pensare si sia potuto disidratare. È un’associazione molto frequente quella
tra alcalosi respiratoria da iperventilazione ed alcalosi metabolica da disidratazione.
Quarto caso clinico
Un signore di 81 anni, si presenta al PS per
febbre che dura da 3-4 giorni, non
risponde a FANS, ha tosse e dispnea
ingravescente (acuta). All’anamnesi
patologica remota riferisce una BPCO
enfisematosa: l’RX del torace evidenzia
proprio un marcato quadro di BPCO con
verosimili bronchiectasie e segni di
ipoventilazione destra. Ci si aspetta di
riscontrare un’acidosi respiratoria, dovuta
alla broncopneumopatia che si è
cronicizzata. Ad ogni aumento di
10mmHg della paCO2 corrisponde un
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aumento dei bicarbonati di 1mEq nell’acuto e di 3- 4mEq nel cronico. I bicarbonati sono invece
diminuiti: è presente, dunque, una seconda alterazione, che deve essere sicuramente metabolica.
Si tratta, infatti, di un’acidosi metabolica.
Il professore consiglia di eseguire quasi sempre un’EGA, per indirizzare la diagnosi e aiutare nella
comprensione del quadro clinico, anche in reparti in cui l’attenzione è concentrata su altri aspetti.
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CAPITOLO 6: ESAMI DI PRIMO LIVELLO PER LO
STUDIO DELLA FUNZIONALITA’ EPATICA
Il fegato pur essendo l’organo solido più grande del corpo umano corrisponde al massimo
al 2% del peso corporeo, quindi ha un peso che va da 1000 a 1500 grammi.
A fronte però di questa percentuale, bisogna tener conto che il fegato riceve il 28% della
gittata cardiaca, ed è quindi l’organo che riceve la maggior quantità di sangue. Ogni minuto
1,5 L di sangue passa dal fegato, il che significa che ogni tre minuti tutto il sangue
dell’organismo passa attraverso il fegato e che nell’arco della giornata il fegato processa
2000 litri di sangue. Ciò è la misura più evidente del ruolo metabolico fondamentale che ha
quest’organo.
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Non c’è nessun altro organo che ha garantito una disponibilità così imponente di esami che
possono essere usati nella pratica clinica. A fronte di questo grande vantaggio è stato necessario
fare un lavoro di selezione per due motivi principali:
BILIRUBINA
La bilirubina è il prodotto del catabolismo dell’eme; la produzione giornaliera di bilirubina (250-
350 mg) deriva soprattutto dalla distruzione dei globuli rossi (80-85%); in minor parte dalla
eritroblastolisi (15-20%), detta anche eritropoiesi inefficace (ovvero distruzione dei precursori dei
globuli rossi che vengono dal midollo; è fisiologica e limitata, però anche da qui si produce eme)
oppure dal catabolismo delle proteine contenenti eme (come mioglobina, citocromi e catalasi),
che sono una minima parte.
Il metabolismo della bilirubina parte dai globuli rossi, che vengono prodotti dal midollo osseo,
vivono 120 giorni, poi si sclerotizzano, ovvero perdono la flessibilità che consente loro di
attraversare i sinusoidi. Una volta sclerotizzati, vengono riconosciuti dalle cellule del sistema
reticolo endoteliale, che sono macrofagi espressi prevalentemente a livello della milza, ma che si
trovano in tutti i tessuti. Pertanto, in tutti i tessuti si possono identificare e distruggere globuli
rossi. Una volta fagocitato, il globulo rosso viene smembrato, si stacca l’eme dalla globina. La
globina è formata da catene di amminoacidi che vengono riciclati oppure catabolizzati. Dell’eme
si apre l’anello tetra-pirrolico e si preleva il ferro che viene riutilizzato, viene affidato alla
transferrina che lo riporta al midollo per fare nuovi globuli rossi o, se in quel momento non c’è
necessità, il ferro viene depositato nei tessuti di deposito. Rimane il resto dell’eme, che viene
catabolizzato con delle ossigenasi e biliverdina reduttasi, enzimi che trasformano l’eme in
bilirubina.
La bilirubina, essendo liposolubile e quindi potenzialmente tossica, viene trasferita dalle cellule del
sistema reticolo endoteliale al fegato attraverso un carrier: quello più utilizzato è l’albumina. Il
complesso bilirubina-albumina giunge al fegato da tutti i distretti dell’organismo. Qui l’albumina
cede la bilirubina a due proteine importanti: proteina Z e ligandina, che hanno la funzione di
trattenere all’interno dell’epatocita la bilirubina, che fisiologicamente non può più uscire, se non in
condizioni patologiche. All’interno dell’epatocita avviene la coniugazione con l’acido glucuronico,
grazie all’azione dell’enzima difosfato-glucuronil transferasi (UGT), reazione importante perché
trasforma la bilirubina da insolubile a solubile. In questa forma la bilirubina può essere eliminata
con la bile (poiché si tratta di un prodotto di scarto e il fegato ha il compito di trasformarla e di
eliminarla). [Dalle slide: La bilirubina coniugata viene secreta dagli epatociti nei canalicoli biliari
attraverso un processo ATP-dipendente mediato da un trasportatore multispecifico di anioni
organici chiamato MRP2 (multidrug resistance-associated protein 2)]. Nell’intestino la bilirubina
arriva contenuta all’interno della bile. Qui avvengono diverse reazioni: innanzitutto la bilirubina
viene degradata (deconiugata e ridotta) e trasformata in urobilinogeno, prodotto incolore e
idrosolubile. [Il professore sottolinea di prestare attenzione al fatto che bilirubina e urobilinogeno
sono molecole diverse: l’urobilinogeno deriva dalla trasformazione intestinale della bilirubina].
93
METABOLISMO DELL’UROBILINOGENO
L’urobilinogeno ha 3 diversi destini metabolici:
1. il 99,9% dell’urobilinogeno viene ossidato a stercobilina e urobilina ed eliminato con le
feci, determinandone il colore scuro (senza urobilinogeno le feci sono di colore cretaceo)
questo significa che ci limitiamo a osservare il colore delle feci. Le feci poco colorate
(con poco urobilinogeno) sono dette feci ipocoliche. Le feci del tutto decolorate (assenza
di urobilinogeno) sono dette feci acoliche.
2. una parte di urobilinogeno viene riassorbita a livello intestinale non c’è nessuna utilità
in questo, ma semplicemente si tratta di una quota di urobilinogeno che si fa trascinare
dall’assorbimento di tutte le altre sostanze presenti nell’intestino. Tale riassorbimento è
talmente inutile che l’urobilinogeno riassorbito, attraverso il circolo portale, torna al
fegato, il quale incapsula urobilinogeno, lo coniuga e lo elimina nuovamente. Si parla di
circolo entero-epatico dell’urobilinogeno.
3. Una piccola quota dell’urobilinogeno che viene riassorbito salta il filtro epatico. Esistono
circoli collaterali che fanno sì che non il 100% del sangue venga filtrato dal fegato. Una
piccola quota di sangue, che contiene urobilinogeno, lo salta entrando in circolo.
L’urobilinogeno è una piccola molecola che arrivata al rene viene filtrata ed eliminata con
le urine ciò che scappa al fegato viene compensato dal rene. È dunque normale
ritrovare tracce (ridotta quantità) di urobilinogeno nelle urine.
ITTERO
Ittero è un termine clinico: si tratta dell’acquisizione di un colorito giallastro prima delle sclere
(che si colorano prima nella parte periferica, quindi può essere utile invitare il paziente a guardare
verso l’alto), poi della cute e delle mucose, conseguente a un eccesso di bilirubina. Quindi il
termine ittero si utilizza per l’esame obiettivo. In laboratorio si parla di ittero da iperbilirubinemia,
ovvero aumento dei valori di bilirubinemia.
Le manifestazioni cliniche iniziano a vedersi quando i valori di bilirubina superano i 2,5 mg/dL, ma
si parla di iperbilirubinemia già oltre 1 mg/dL (quindi già a 1,2 mg/dL).
La classificazione di laboratorio degli itteri li divide in base al rapporto tra i 2 tipi di bilirubina:
itteri da iperbilirubinemia prevalentemente non coniugata - la bilirubina è tutta indiretta
[n.d.s.: nelle slide dice che dev’essere almeno per l’85% non coniugata, da cui il nome]
stessa condizione che si ha in buono stato di salute, ma i valori sono più alti;
itteri da iperbilirubinemia combinata- la bilirubina è sia diretta che indiretta e quella
diretta supera il 50% (forma che normalmente non è presente).
Gli itteri da iperbilirubinemia prevalentemente non coniugata sono ulteriormente suddivisi in:
Itteri da iperproduzione di bilirubina abbiamo a che fare con malattie ematologiche. È un
errore attribuire sempre e solo al fegato la causa di un ittero. Il fegato ne è
frequentemente responsabile, ma non è l’unico. In questi casi la bilirubina aumenta perché
c’è un’esagerata distruzione di globuli rossi: vi è una malattia ematologica che determina
emolisi (globuli rossi distrutti in circolo) o addirittura una eritroblastolisi, detta anche
eritropoiesi inefficace (vengono distrutti i precursori dei globuli rossi). [Dalle slide: un’altra
causa di questo tipo di ittero è la degradazione dell’eme in raccolte extra-vascolari di
eritrociti]. In tutte queste malattie si distruggono globuli rossi, vi è più prodotto di scarto, vi
è più bilirubina che dagli organi periferici arriva al fegato. Tale forma di ittero non è grave (i
valori di bilirubina non superano quasi mai i 4-5 mg/dL), però è abbastanza frequente.
[Dalle slide: Emolisi La produzione di eritrociti da parte del midollo in seguito ad emolisi può
aumentare al massimo fino ad 8 volte; pertanto, l’emolisi da sola non produce mai valori di
bilirubinemia superiori a 4-5 mg/dl. Nei casi di emolisi protratta si possono formare calcoli
costituiti da sali di bilirubina nella colecisti o nelle vie biliari. Le anemie emolitiche che più
spesso provocano questa forma di ittero sono la sferocitosi ereditaria, l’anemia falciforme e
l’anemia da deficit enzimatici (G6PD).
Eritropoiesi inefficaceAlcune anemie (principalmente la talassemia major e le anemie
francamente megaloblastiche) sono caratterizzate da un significativo aumento dell’eritropoiesi
inefficace, che può arrivare a produrre fino al 70% della bilirubina totale; anche in questi casi
l’ittero è comunque sempre modesto.
95
Itteri di lieve entità possono anche derivare dalla degradazione dell’eme in raccolte
extravascolari di eritrociti quali estesi infarti tessutali (soprattutto polmonari), emorragie
interne (dalla rottura di un aneurisma dell’aorta allo stillicidio da errate manovre per il
posizionamento di un catetere) o ematomi di grandi dimensioni]
Schema in cui abbiamo l’epatocita al centro, a sinistra il sangue, sulla destra le vie biliari. La
bilirubina con il sangue arriva nel fegato, viene captata, coniugata e sottoposta a tutto il processo
già visto. Normalmente si hanno feci normo-coliche e tracce di urobilinogeno nell’urina.
Nei pazienti con ittero emolitico o eritroblastolitico (itteri che vengono chiamati pre-epatici, ma il
prof preferisce il termine itteri da cause ematologiche) si produce più bilirubina, che viene
catabolizzata dal fegato e quindi si produce più urobilinogeno. Questo però è un dato che si perde
perché le feci sono già scure, non possono diventare ancora più scure (possono diventare nere, ma
solo in caso di emorragia).
La cosa più importante che si vede è l’aumento della bilirubina indiretta nel sangue periferico.
Inoltre, più urobilinogeno si trova nell’intestino, più ne viene riassorbito, più urobilinogeno salta il
filtro epatico, maggiore quantità ritroviamo nelle urine. Nell’esame delle urine si riscontreranno
infatti i valori di urobilinogeno aumentati rispetto alle tracce di riferimento, mentre non si trova la
bilirubina perché questa può andare nelle urine, ma solo nella forma coniugata. Quella in
questione invece è una bilirubina coniugata con l’albumina, che quindi non passa il filtro
glomerulare.
Il quadro di laboratorio di un ittero emolitico è caratterizzato da: feci normali (che contengono più
urobilinogeno ma non colgo questa differenza), bilirubina nel sangue periferico aumentata,
urobilinogeno nelle urine aumentato in maniera significativa.
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adeguata e quindi nel sangue periferico troviamo una maggiore quantità di bilirubina
indiretta. Appartengono a questo gruppo:
- Ittero fisiologico del neonato
- Sindrome di Gilbert
- Sindrome di Crigler-Najjar I e II
Esempio classico è l’ittero fisiologico del neonato, che non deve essere trattato, perché nel
97% dei nati a termine tra la seconda e quinta giornata si ha un aumento della bilirubina
indiretta. Questo accade perché il fegato fino al momento della nascita non ha svolto questa
funzione, ma ci ha pensato la mamma a prendere la bilirubina del feto, a coniugarla con il suo
fegato e ad eliminarla (l’intestino non può eliminare tutto prima della nascita). Dopo il parto, il
neonato si autonomizza per questa funzione e gli enzimi hanno bisogno di un po' di tempo per
essere attivati e quindi occorre da qualche giorno fino a qualche settimana affinché la
glucuronil-transferasi epatica arrivi a regime. Nel frattempo, si accumula un po' di bilirubina
indiretta, che però nel giro di 15 giorni si riduce e torna ai valori di riferimento. Bisogna
preoccuparsi quando la bilirubina rimane elevata e soprattutto se raggiunge valori di 20
mg/dL. Si tratta di situazioni eccezionali, ma pericolosissime, perché sopra questa soglia vi è il
rischio che la bilirubina attraversi la barriera ematoencefalica non ancora matura e vada a
depositarsi in maniera irreversibile nell’area cerebrale ricca di lipidi. Dunque, il danno
cerebrale è un danno importante e irreversibile che deve essere prevenuto occorre
monitorare tramite laboratorio ogni tipo di iperbilirubinemia per evitare che si arrivi a questo
valore. Questo vale sempre, ma in particolar modo nel neonato, la cui barriera
ematoencefalica è meno impermeabile alla bilirubina. In passato si interveniva con
fenobarbital, somministrato addirittura alla madre, in grado di indurre la glucuronil-
transferasi, aiutandola a maturare. Ovviamente il fenobarbital, come tutti i barbiturici, ha
effetti collaterali e ad oggi non viene più utilizzato. Oggi si preferisce usare la fototerapia o
fotoisomerizzazione: si tratta di culle con una forte luce azzurra o bianca, in cui viene
posizionato il neonato nudo. La luce a quella lunghezza d’onda trasforma la bilirubina da
liposolubile a idrosolubile, affinché possa essere eliminata dal neonato.
Vi è una altra patologia che è molto diffusa, ma poco conosciuta, ovvero la sindrome di Gilbert,
che ha una prevalenza intorno all’8% (prevalenza altissima che dovrebbe rendere questa
patologia molto conosciuta). In realtà è poco conosciuta perché è del tutto benigna e
asintomatica. Essendo una forma ereditaria, nel 99% dei casi il paziente sa già di averla.
Si tratta di una condizione caratterizzata da un deficit (non totale) della glucuronil-transferasi.
Si riduce quindi la capacità di coniugare la bilirubina, per cui il paziente ha un sub-ittero
cronico: ha quasi sempre sclere gialle e valori di bilirubina che sono poco sopra il valore di
riferimento, senza superare mai i 6 mg/dL. L’ittero non evolve in nessuna patologia epatica,
ma viene accentuato dallo stress (in passato il digiuno rappresentava una forma di diagnosi a
esclusione per caratterizzare questa patologia).
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[Dalle slide: Sindrome di Gilbert:
- malattia autosomica recessiva con prevalenza intorno all’8% ed incidenza maggiore nel sesso
maschile
- è causata da una mutazione del gene UGT1 (uridina difosfato grucuronil transferasi 1) che
riduce l’attività transferasica dal 65 al 90%
- alcune forme sono dovute ad un deficit di ligandina
- i valori di bilirubina sono solitamente tra 1,2 e 3 mg/dl; solo raramente superano i 5 mg/dl,
restando comunque sempre inferiori ai 6 mg/dl
- è una condizione benigna, ma cronica, che si manifesta raramente prima del secondo
decennio di vita, spesso in modo occasionale
- l’ittero è per lo più asintomatico e solo raramente è accompagnato da affaticamento,
malessere e dolore addominale
- l’iperbilirubiminemia è accentuata da stress quali sforzo fisico, febbre, malattie infettive, stati
post-operatori (spesso per interventi odontoiatrici), digiuno e assunzione di elevate quantità di
alcol
- un aspetto che può essere usato a scopo diagnostico è l’aumento della bilirubina sierica a
seguito di un digiuno prolungato o di un regime di restrizione calorica, mentre la
somministrazione di fenobarbital riduce la bilirubinemia fino a riportarla ai valori normali
- la diagnosi della sindrome di Gilbert è una diagnosi per esclusione, coadiuvata dall’anamnesi
familiare].
Vi sono poi due condizioni estremamente rare ma molto più pericolose in cui si ha un deficit
importante della glucuronil-transferasi, ovvero la sindrome di Crigler-Najjar I e II.
Nella sindrome di Crigler-Najjar di tipo I si ha deficit assoluto dell’enzima, pertanto l’attività
enzimatica è pari a 0. I pazienti hanno un problema importante e il fenobarbital è
assolutamente inefficace perché non può indurre l’attività di un enzima che non c’è.
La sindrome di Crigler-Najjar di tipo II è caratterizzata da un deficit importante, ma non
assoluto, e in questo caso il fenobarbital ha efficacia.
Per diagnosticarle non è necessario fare un test genetico, ma basta valutare i valori di bilirubina:
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Itteri da difetti ereditari della funzione escretoria epatica
Sono entrambe dovute ad una alterazione congenita, ereditarie autosomiche recessive
(solitamente a buona prognosi):
Sindrome di Dubin-Johnson: dovuto a deficit ereditario di una proteina, MRP2 (multidrug
resistance-associated protein 2). Questa trasferisce molte sostanze, tra cui la bilirubina,
dall’interno dell’epatocita al dotto biliare. La bilirubina dunque arriva al fegato, viene
captata dalla ligandina, coniugata con acido glucuronico per poi essere escreta
dall’epatocita nei canalicoli biliari grazie alla proteina MRP2 (trasportatore polifunzionale).
Se questa non funziona, la bilirubina rimane nell’epatocita e refluisce nel sangue
periferico. È caratterizzata dalla presenza di un pigmento scuro negli epatociti (non
composto da bilirubina).
Sindrome di Rotor: sembra essere una patologia da accumulo, dunque la bilirubina
coniugata si accumula e refluisce nel sangue.
102
Un paziente con epatopatia conosciuta o sospetta fa questi 4 esami (1° livello). Sulla base dell’esito
possiamo indirizzarci verso una malattia ematologica, un danno epatocellulare o un danno
ostruttivo.
Esempi pratici: 1° caso clinico
Paziente di 31 anni si presenta in pronto soccorso per ittero comparso da una settimana, prima
sclerale poi cutaneo; analisi patologiche negativa; saltuario uso di sostanze stupefacenti; analisi
patologiche recenti: da due settimane astenia ingravescente (si aggrava rapidamente) e anoressia;
il paziente riferisce urine ipercromiche e feci ipocoliche; non lamenta dolore addominale; senza
febbre.
Sappiamo che ha un ittero, quindi è presente sicuramente una iperbilirubinemia. Analizziamo
alcune variabili:
Tempi di coagulazione: Dall’emocromo possiamo osservare che la aPTT Ratio rientra nei
valori di normalità mentre la PT Ratio (attività protrombinica) è ridotta in maniera
significativa (dunque il PT è allungato);
Bilirubina: osserviamo una iperbilirubinemia combinata in cui aumenta prevalentemente la
forma diretta;
Enzimi: la fosfatasi alcalina è aumentata, ma solo di tre volte. Invece le transaminasi sono
aumentate di centinaia di volte quindi possiamo dedurre che si tratta di un danno
epatocellulare;
Elettroforesi proteine sieriche: parametri da tenere in considerazione sono il rapporto
albumina/globuline e le varie proteine viste in precedenza (albumina, 1, 2, ,
globuline). Le globuline sono aumentate al 27%, l’albumina è ridotta, l’1 è aumentata (di
poco). Il rapporto albumina/globuline è molto sotto l’unità (conferma che è un ittero
epatocellulare siccome il fegato non produce proteine);
Esame delle urine: è presente bilirubina nelle urine;
Per comprendere la causa di questo ittero epatocellulare servono esami di secondo livello. Tramite
quest’ultimi, richiedendo marcatori virali, si dimostra la presenza di infezione acuta da HCV (è per
questo motivo che aumentano le 1 globuline, sono infatti proteine della fase acuta).
Esempi pratici: 2° caso clinico
Signore di 89 anni lamenta una dolenzia in ipocondrio destro e saltuariamente in epigastrio,
insorto da circa 20 giorni ed associato ad anoressia e calo ponderale di 4 kg sviluppatosi negli
ultimi 2 mesi; analisi patologiche remote negative. Intanto all’esame obiettivo non risulta ittero.
Prima sapevo che la bilirubina fosse aumentata, qui invece devo andare ad indagare. Analizziamo:
VES: dall’emocromo risulta aumentata in maniera significativa (aumenta con l’età, ma non
è compatibile in questo caso con una condizione fisiologica);
Bilirubina: risulta un valore di bilirubina totale di 1,63 dunque ci troviamo di fronte ad un
sub – ittero. Osserviamo una iperbilirubinemia combinata;
Enzimi: la fosfatasi alcalina e le -GT sono aumentate in maniera significativa, mentre le
transaminasi variano poco. Sospetto dunque che il paziente abbia una ostruzione. Un altro
elemento che mi fa arrivare a questa conclusione è il valore del colesterolo (la bile, infatti,
contiene questa sostanza, dunque in seguito ad una ostruzione delle vie biliari possiamo
notare ipercolesterolemia);
103
Elettroforesi delle proteine sieriche: il rapporto albumina/globuline è lievemente ridotto,
tuttavia le globuline risultano normali quindi non è presente un’alterazione da ittero
epatocellulare. Si riduce un pochino l’albumina, ma aumentano le e soprattutto le 1
globuline.
In un paziente con queste caratteristiche (sub – ittero da ostruzione, VES aumentata, indici di
flogosi aumentati, calo ponderale) posso pensare, come causa dell’ostruzione, ad una neoplasia.
L’ecografia (esame di secondo livello) dell’addome conferma una colestasi da ostruzione delle vie
biliari extra-epatiche, mentre ulteriori esami radiografici attribuiscono ciò alla presenza di un
colangiocarcinoma extra-epatico.
Il professore ha chiarito alcuni dubbi rispondendo a due domande fatte nelle lezioni precedenti:
- Per quale motivo le gamma GT aumentano durante l’epatite e perché sono indicatore di
alcolismo? Sono indicatore di alcolismo perché l’alcol ha un’azione di induzione
enzimatica sull’enzima glutamil-transferasi. I farmaci che si usano (fenobarbiatal) hanno la
funzione di attivare l’enzima. Vi sono anche altri farmaci (es. fenotoina, un
anticonvulsivante) con un’azione inducente l’enzima; l’alcol svolge la stessa azione, quindi
nel paziente alcolista le gamma GT aumentano per questo fenomeno.
- Che significato ha il rapporto AST/ALT nel differenziare un’epatite virale da un’epatite
alcolica? AST e ALT sono le due transaminasi (o aminotransferasi). Le AST sono meno
specifiche: sono presenti sia negli epatociti che in molte altre cellule e hanno due
localizzazioni principali: citoplasma e mitocondri. L’ALT invece è più epatospecifica.
In caso di danno aumentano le epatospecifiche, quindi il denominatore del rapporto (ALT);
il rapporto tende ad essere inferiore ad 1. Delle AST si libera in circolo solo quella
citoplasmatica. Con il perdurare del danno inizia ad uscire anche la forma mitocondriale,
che ha maggiore emivita; quindi, il rapporto tende ad aumentare. Diventa superiore a 2 in
caso di abuso di alcool perché esso non ha un’azione inducente ma ha un’azione più
tossica e diretta sui mitocondri, e quindi distruggendo i mitocondri libera la parte
mitocondriale del numeratore della frazione. Con cautela si può interpretare questo
rapporto: quando è minore di uno, è ragionevole pensare ad un’epatite nella fase acuta;
quando si inverte e supera il 2, si può pensare che sia un danno da alcol.
104
CAPITOLO 7: ESAMI DI LABORATORIO PER LO
STUDIO DELLA FUNZIONALITA’ RENALE
C’è una grande differenza rispetto agli indicatori di funzionalità epatica della lezione scorsa:
mentre gli indici di primo livello della funzionalità epatica si devono fare tutti e quattro insieme,
questi indicatori trovano specifiche applicazioni: non vanno fatti tutti insieme, ma a seconda delle
caratteristiche del paziente si partirà dall’esame delle urine, piuttosto che dall’azotemia ecc.
L’indicazione dell’esame dipende dal quadro clinico del paziente, mentre gli esami di primo livello
epatici venivano effettuati tutti insieme per poi valutare il caso.
105
CARATTERISTICHE FISICHE
Queste sono:
Colore;
Aspetto;
Volume;
Peso specifico;
Le prime due caratteristiche vengono refertate in maniera discorsiva: l’operatore osserva il
campione di urina e descrive il colore e l’aspetto. Il colore dovrebbe essere giallo paglierino, giallo
oro o giallo chiaro (tutti sinonimi). L’aspetto dovrebbe essere limpido. L’alternativa al giallo è
qualunque altro colore che possono assumere le urine; l’alternativa a limpido è torbido. A partire
da questi indicatori non si possono fare grandi diagnosi; saranno le analisi chimiche a dire perché
le urine sono per esempio torbide e perché il colore è variato.
Il volume è importante: al laboratorio arriva il campione, non l’intero volume. Bisogna tenere
conto che non viene misurato in laboratorio ma si misura al letto del paziente raccogliendo le
urine delle 24 ore. Se il paziente è domiciliato si raccomanda di raccogliere le urine e vedere alla
fine della giornata il volume prodotto. Il volume oscilla tra 800-1800 ml/giorno. La notte viene
prodotta meno urina rispetto al giorno (il che consente di riposare senza interruzioni: ilrapporto
giorno/notte è di circa 2/1). La quantità minima richiesta per una buona funzionalità renale è di
500 ml/giorno. Al di sotto si ritrova una condizione patologica, definita oliguria se il volume è
diminuito o anuria se non viene prodotta (blocco renale). La situazione opposta è la poliuria,
situazione trattata anche nel caso del diabete. Il paziente con poliuria produce più di 2000
ml/giorno di urina.
[Dalle slide: La diminuzione del volume urinario (oliguria) si osserva come conseguenza di una
diminuita filtrazione glomerulare che può essere dovuta a una alterazione anatomica dei glomeruli
o a una riduzione del flusso ematico. L’arresto completo della formazione di urina (anuria) si può
verificare nella insufficienza renale acuta in conseguenza di gravi lesioni tubulari o per ostruzione
delle vie urinarie. L’aumento del volume urinario (poliuria) si osserva in varie affezioni renali nelle
quali il rene ha perso la capacità di concentrare i soluti entro un certo limite].
Peso specifico: viene valutato in laboratorio. È il peso di un volume rapportato al medesimo
volume di acqua. In condizioni normali il peso specifico dell’urina varia tra 1,014 e 1,026: se il
peso specifico scende sotto 1,014 si parla di ipostenuria, situazione che si verifica quando il rene
perde, in parte, la sua capacità di concentrare e diluire le urine; quando i reni perdono
completamente questa capacità, il peso specifico delle urine rimane costantemente uguale a
quello del filtrato glomerulare, cioè intorno a 1,007 (isostenuria). Entrambi i termini sono riferiti
ad una ridotta capacità di filtrare le urine. Siccome la struttura che concentra le urine è il tubulo, il
peso specifico si può considerare come un indicatore (aspecifico in quanto ne esistono di più
specifici) della funzionalità tubulare.
[Dalle slide: Nelle poliurie le urine hanno solitamente basso peso specifico (con l’eccezione
importante del diabete) mentre nelle oligurie il peso specifico delle urine è solitamente aumentato]
106
CARATTERISTICHE CHIMICHE
Le caratteristiche più informative dal punto di vista diagnostico sono quelle chimiche. In questo
caso i parametri valutati sono stati condivisi a livello internazionale, per dare un esame delle urine
standard.
Gli indicatori sono i seguenti:
pH;
glucosio;
proteine;
emoglobina;
corpi chetonici;
bilurbina;
urobilinogeno;
nitriti;
Oltre a questi, si può richiedere qualunque tipo di analita nelle urine, si può richiedere per
esempio la concentrazione di un ormone o un metabolita. L’esame standard di default prevede
l’esecuzione e la valutazione degli analiti elencati sopra.
pH urinario: è debolmente acido, con un valore medio intorno al 6 (varia fisiologicamente da 4,5 a
8). È un’espressione dei sistemi di compenso che cercano di mantenere costante il pH del sangue:
quest’ultimo è mantenuto a 7,4 proprio grazie alle variazioni del pH urinario. Per mantenerlo
costante deve buttare fuori più acidi o più basi a seconda delle situazioni, quindi è assolutamente
normale trovare questa variabilità. Il pH urinario pari a 6 indica che l’organismo produce più
sostanze acide che basiche e il metabolismo è a pH acido, non neutro. Quindi il pH urinario risulta
leggermente acido per mantenere basico o neutro il pH ematico. La valutazione del pH è
fondamentale per studiare le alterazioni dell’equilibrio acido-base; va sempre valutato in un
contesto generale di equilibrio acido-base. Costituisce la parte complementare dell’emogasanalisi.
Vi sono anche condizioni alimentari che possono modificare transitoriamente il pH urinario.
[Dalle slide: Il pH dell’urina varia fisiologicamente tra 4,5 a 8; normalmente è comunque intorno a
6 (oscillando tra 5,5 e 6,5), dunque debolmente acido: il pH urinario risulta ridotto negli stati di
acidosi mentre sarà aumentato negli stati di alcalosi; L’acidità urinaria aumenta in caso di digiuno,
se si segue una dieta particolarmente ricca di cibi carnei e di grassi, in caso di prolungato esercizio
muscolare o in seguito all’assunzione di farmaci acidificanti; viceversa, la reazione delle urine sarà
alcalina se si segue una dieta vegetariana, se si assumono farmaci alcalinizzanti o nel caso di
ritenzione urinaria con urine che ristagnano a lungo nella vescica (ipertrofia prostatica)]
Glucosio e corpi chetonici: la presenza di zucchero nel sangue è indice di diabete, perché lo
zucchero viene completamente filtrato dal glomerulo e completamente riassorbito dal tubulo. Ma
questa capacità di riassorbimento totale è limitata: quando la glicemia è molto elevata (sopra i
180-200 mg/dL) e quindi la concentrazione di zucchero nel filtrato glomerulare e nella preurina è
molto alta, i carrier tubulari sono saturati e non riescono a riassorbire tutto lo zucchero e si ha
glicosuria. La glicosuria è poi anche responsabile della poliuria. Nel diabete di tipo I scompensato
lo scompenso metabolico è la chetoacidosi, e quindi si ha presenza nelle urine anche di corpi
chetonici. Questi primi parametri possono essere sfruttati per una caratteristica importante
dell’esame delle urine; nell’esame vengono infatti valutati una serie di analiti molto utili per
107
valutare la funzionalità di altri organi e apparati: è un esame ad ampio spettro diagnostico. Il pH
viene rilevato non per valutare la funzionalità renale, ma l’equilibrio acido-base. Glucosio e corpi
chetonici vengono valutati per diagnosticare il diabete. È questa la caratteristica dell’esame delle
urine: non è specificatamente legato alla funzionalità dei reni, ma insieme a parametri di
funzionalità renale ne vengono misurati molti altri che non si riflettono direttamente sulla
funzionalità di quell’organo. Questo ampio spettro diagnostico, che non comprende solo il rene,
giustifica il motivo per cui molte persone vengono sottoposte all’esame delle urine, spesso non
per insufficienza renale ma per valutare altri parametri.
[Dalle slide: I corpi chetonici originano dall’incompleto catabolismo dei lipidi; nelle urine sono
rappresentati per il 78% da acido -idrossibutirrico, per il 20% da acido acetacetico e per il 2% da
acetone; la chetonuria è un reperto caratteristico del diabete mellito scompensato e del digiuno
prolungato]
• Ci può essere anche una forma mista in cui coesistono danno glomerulare e tubulare,
quindi nelle urine si troveranno proteine ad alto e a basso peso molecolare.
Oltre queste classificazioni qualitative, ce n’è una quantitativa: l’entità della proteinuria è
proporzionale al danno che l’ha provocata. È bene quantificare le proteine; molte proteine
indicano un danno importante, poche proteine indicano un danno lieve.
108
Questa è la classificazione condivisa:
- <1 g/die: proteinurie lievi
- 1-3 g/die: proteinurie moderate
- >3 g/die: proteinurie gravi (sindrome nefrosica: argomento già affrontato studiando le
proteine del sangue; in questa condizione si ha aumento relativo di α2-macroglobulina)
Bisogna ricordare entrambe le classificazioni, sia qualitativa che quantitativa, perché valutate
insieme possono dare informazioni utili. Sotto il grammo la proteinuria non è preoccupante: si
ripete l’esame, si fanno valutazioni; diventa preoccupante quando si ha proteinuria >1g.
[Dalle slide:
Proteinuria fisiologica Il tracciato elettroforetico della proteinuria fisiologica deve essere
eseguito su proteine fortemente concentrate e presenta le seguenti caratteristiche: l’albumina è
poco evidente e in quantità minore (30-40%) rispetto alle globuline; le globuline anziché
presentarsi come frazioni ben distinte appaiono come una zona continua indifferenziata.
Proteinurie glomerulari Le proteinurie glomerulari sono caratterizzate dalla presenza nelle
urine di proteine ad alto peso molecolare (PM > 70.000); sono espressione di un danno
glomerulare e costituiscono il tipo più frequente di proteinurie patologiche; Le proteinurie
glomerulari sono a loro volta distinte in altamente selettive se viene escreta quasi esclusivamente
albumina (PM 69.000), selettive quando assieme all’albumina sono escrete proteine con PM tra
70.000 e 100.000 (ad esempio la transferrina, con PM 90.000 ) e non selettive quando sono
escrete proteine con PM superiore a 100.000, fino al passaggio nelle urine di quasi tutte le
proteine plasmatiche.
Proteinurie tubulari Le proteinurie tubulari sono caratterizzate dalla presenza nelle urine di
proteine a basso PM (tra 10.000 e i 30.000), dette microglobuline, quali la 2-microglobulina (PM
11.000), il lisozima (PM 14.500) e la RBP (retinol binding protein: PM 21.000); sono generalmente
di modica entità e testimoniano una ridotta capacità del tubulo renale di riassorbire le proteine a
basso peso molecolare normalmente filtrate del glomerulo.
Proteinurie miste Le proteinurie sono frequentemente prodotte dal sommarsi di un’alterazione
glomerulare e di un’alterazione tubulare: si hanno così le proteinurie miste, caratterizzate dalla
presenza nell’urina di un notevole numero di frazioni proteiche, comprendenti: albumina, frazioni
proteiche plasmatiche, frazioni proteiche caratteristiche della proteinuria tubulare
(microglobuline).
Overflow proteinuria Questo tipo di proteinuria è anche detta pre-renale per sottolineare che
non è dovuta a nefropatia; compare quando si determina l’aumento della concentrazione
plasmatica di una proteina con basso peso molecolare (PM) La proteinuria di Bence Jones (PM tra
25.000 e 40.000) rappresenta un esempio classico di overflow proteinuria; altre proteine
interessate possono essere la mioglobina (PM 17.000), l’emoglobina (PM 64.000), il lisozima (PM
14.500), la 1-antitripsina (PM 45.000) e la 1-glicoproteina acida (PM 44.000)]
Emoglobina: viene anch’essa valutata di routine nelle urine. L’Hb si trova all’interno dei globuli
rossi, e non c’è nessun motivo per cui fisiologicamente debba trovarsi al di fuori di essi. Quando il
globulo rosso viene distrutto fisiologicamente, interviene un macrofago e quindi l’Hb si libera
all’interno di quest’ultimo. Se si ha distruzione di globuli rossi nel sangue periferico (emolisi)
l’emoglobina viene liberata in circolo. Grazie alle sue piccole dimensioni è in grado di passare il
filtro glomerulare ed essere eliminata con le urine; se si ritrova nelle urine si parla di
109
emoglobinuria. Il paziente ha già anemia, al quale conseguirebbe un’ulteriore perdita di ferro, e
quindi si troverebbe in una situazione che aggrava l’anemia iniziale. Per scongiurare questa
perdita di ferro esiste una proteina importante che si chiama aptoglobina, un controllore molto
attento nel sangue periferico che capta l’emoglobina eventualmente liberata dai globuli rossi e la
riporta all’interno del sistema reticoloendoteliale. È una proteina della fase acuta che è già stata
trattata. Se durante l’emolisi l’aptoglobina non riesce a legare tutta l’emoglobina, e quindi si ha un
eccesso di emoglobina (data da emolisi), si ha emoglobinuria. Questa condizione si manifesta
quando viene superata la capacità di legame dell’aptoglobina sull’emoglobina che si è liberata in
circolo. In sintesi, l’emoglobinuria è indice di una crisi emolitica grave, perché un’emolisi
intermedia non darebbe emoglobinuria. È sempre preoccupante perché è un processo di emolisi
molto avanzato, che ha già superato la capacità di compenso dell’aptoglobina. Questo indicatore
dà quindi informazioni su un’eventuale alterazione dei globuli rossi.
[Dalle slide: la capacità dell’aptoglobina di legare l’emoglobina è saturata da concentrazioni
ematiche di emoglobina superiori a 100-150 mg/dl; pertanto, il riscontro di emoglobina nelle urine
indica la presenza di una emolisi intravascolare importante. Si può avere emoglobinuria anche nei
casi di sanguinamento delle vie urinarie con successiva parziale emolisi delle emazie all’interno
delle urine; in questo caso l’emoglobinuria si associa ad ematuria]
Bilirubina e urobilinogeno: si valutano per studiare il metabolismo della bilirubina, quindi
eventualmente alterazioni della funzionalità epatica. È fisiologico ritrovare tracce di urobilinogeno
nelle urine e la bilirubina che si ritrova è solo quella diretta (coniugata). Queste due considerazioni
aiutano ad abbinare l’esame delle urine con l’esame del sangue e con il colore delle feci.
La bilirubina non coniugata (indiretta) è insolubile in acqua e non passa il filtro glomerulare mentre
la bilirubina coniugata (diretta) è idrosolubile e può quindi passare il filtro glomerulare; in
condizioni normali la bilirubina circolante è per la maggior parte nella forma non coniugata e,
pertanto, non si riscontra nelle urine. Quando aumenta la bilirubina diretta si avrà bilirubinemia,
urine di colore scuro e a seconda dell’entità del danno si potranno avere feci acoliche o ipocoliche.
Invece negli itteri in cui aumenta la bilirubina indiretta, nelle urine non si trova perché non passa il
filtro glomerulare, nemmeno aumentando la concentrazione di molte volte.
[Dalle slide: L’urobilinogeno si forma nell’intestino per riduzione della bilirubina libera: per lo più
viene eliminato con le feci, mentre una piccola quota viene riassorbita ed eliminata poi con la bile
e, in minima parte, attraverso il rene (0,5-1,5 mg/24 ore); pertanto, in condizioni normali
l’urobilinogeno è presente nelle urine solo in tracce].
Nitriti: sono un indice di carica batterica. Il nostro organismo non li produce, produce invece
nitrati dal metabolismo delle verdure fresche, per poi essere eliminati con le urine. Numerose
specie batteriche, anche se non tutte (Escherichia coli, Aerobacter, Proteus, Klebsielle,
Pseudomonas, Enterococchi, Stafilococchi ed altre), hanno la capacità di trasformare i nitrati in
nitriti. Quando si trovano dei nitriti si può dire che sicuramente c’è un batterio che li ha prodotti: è
un indice indiretto di infezione delle vie urinarie. Questo indicatore è sicuramente affidabile
quando è positivo, cioè non dà falsi positivi; potrebbe però dare falsi negativi, dando negatività
anche in presenza di batteri. Questo può avvenire perché alcuni batteri non trasformano nitrati in
nitriti e, se c’è un flusso urinario importante, non se ne formano in concentrazioni tali da essere
110
rilevabili in laboratorio. Quindi è affidabile sulla positività ma non lo è completamente sulla
negatività.
Questi erano i parametri, più della metà erano già stati trattati. Bisogna considerare l’ampio
spettro diagnostico dei parametri chimici, che danno tante informazioni. Spesso si sfrutta la visita
ambulatoriale o il check-up di un paziente per valutare un qualcosa che si sta cercando e nel
contempo anche altre funzionalità. Un esempio è il diabete asintomatico: si sfrutta ogni occasione
per valutare nelle urine del paziente l’eventuale presenza di glicosurie e quindi di diagnosticare il
prima possibile questa malattia.
111
C’è una sola applicazione di questo parametro in patologia. L’applicazione è alla litiasi delle vie
urinarie, una condizione frequente, caratterizzata da formazione di calcoli nelle vie urinarie.
Spesso dà dolore, coliche renali, ed è quindi importante gestirla con appropriatezza. I calcoli renali
si trattano in base alla loro composizione: se la composizione è di un certo tipo allora si agirà sulla
dieta; se è di un altro tipo si può ricorrere alla frantumazione del calcolo, mettendo il paziente in
una vasca e usando ultrasuoni che abbiano una lunghezza d’onda idonea per frammentarli; in altri
casi ancora bisogna intervenire chirurgicamente. La terapia della litiasi delle vie urinarie è molto
variegata. In questi casi la presenza di un cristallo aiuta a capire la composizione del calcolo. Non è
che se un paziente ha un cristallo rischia di avere un calcolo, ma se ha un calcolo per altri motivi, il
sedimento urinario può aiutare a capirne la composizione e questa è l’unica raccomandazione di
applicazione delle conoscenze sui cristalli. In generale la presenza di un calcolo non ha nessun
rapporto con il rischio di sviluppare patologie.
Ciò che non ci deve mai essere sono gli indicatori seguenti, tutti reperti patologici:
Cilindri;
Muco;
Globuli rossi;
Globuli bianchi;
Batteri;
Parassiti;
Cilindri. I cilindri sono formazioni che riproducono a stampo
il lume dei tubuli distali dei dotti collettori, quindi sono
proteine che precipitano nel lume tubulare, o perché sono
particolarmente concentrate (e quindi quando c’è danno
glomerulare), o perché c’è una stasi della preurina in
particolari condizioni di pH. Si distinguono in cilindri amorfi,
costituiti solo dalla matrice proteica, e cilindri cellulari, a
seconda delle cellule che contengono (epiteliali, ematiche,
leucocitarie). Per l’osservazione si mette una goccia di urina, si sceglie a piacere un colorante e si
osserva il campione. Nel sedimento urinario si possono osservare cristalli amorfi e sporcizia
(perché non si è nelle condizioni dei preparati istologici); si possono vedere cilindri contenenti
cellule polimorfonucleate, o cilindri ematici contenenti globuli rossi. Bisogna vedere il motivo per
cui le proteine sono precipitate (danno glomerulare, stasi di urina, pH alterato, ittero...)
guardando quindi la causa che ha determinato la formazione del cilindro.
112
Muco. I cilindroidi sono invece cilindri costituiti da muco. Il muco nelle vie urinarie ha lo stesso
significato del muco nelle vie respiratorie. È l’espressione di uno stimolo irritativo; quando c’è
una infiammazione dell’albero delle vie respiratorie le cellule caliciformi mucipare producono
muco a scopo protettivo. Lo stesso avviene nelle vie urinarie. I cilindroidi di muco presenti nel
sedimento urinario indicano un’irritazione a carico delle vie urinarie, che deve essere indagata.
Globuli rossi. L’elemento su cui riporre maggiormente l’attenzione, perché talvolta viene non
adeguatamente considerato, è l’ematuria. L’ematuria indica la presenza di sangue nelle urine, in
particolare globuli rossi (da non confondere con emoglobinuria, che indica emoglobina nelle
urine). L’ematuria macroscopica è quella che conferisce alle urine il colore rosso, quella che si
vede e che preoccupa il paziente. Il colore delle urine (e delle feci) ha un impatto importante,
solitamente viene notificato subito al medico di base. L’ematuria microscopica invece si rileva solo
al microscopio ed è divisa in macroematuria o microematuria a seconda del numero di globuli
rossi identificati al microscopio. Questa è una raffinata classificazione quantitativa: macroscopica
e microscopica, macroematuria (globuli rossi distribuiti a tappeto) e microematuria (basso
numero di globuli rossi).
È importante tenere conto che questa classificazione non ha significato qualitativo poiché
l’ematuria è potenzialmente pericolosa indipendentemente dall’entità. Anzi, paradossalmente
una macroematuria può essere espressione di uno sforzo fisico, di una perdita di massa
particolarmente impegnativa o essere conseguenza di un trauma, quindi essere transitoria. Ciò
che può preoccupare di più è una microematuria consistente; anche pochi globuli rossi nel campo
microscopico (visti dall’operatore o valutati automaticamente), se persistenti e quindi presenti
nell’esame delle urine, devono preoccupare. Non si può dimettere un paziente con ematuria
fintanto che non si è capita la causa e auspicabilmente si è risolto il problema. Quindi è necessario
porre attenzione e adottare un percorso diagnostico efficace, utilizzando diagnostica per
immagini, altri esami di laboratorio ecc. Ci può essere per esempio una neoplasia del tratto
urinario in cui i vasi danno un piccolo sanguinamento, che quindi va identificata e ne va specificata
la localizzazione. Tra tutti gli esami delle urine quello nella pratica clinica che talvolta viene
sottovalutato è questo, anche se non si dovrebbe, soprattutto se si tratta di una microematuria.
Può aiutare a diagnosticare precocemente una patologia che potrà dare segni di sé dopo qualche
anno, in uno stadio più avanzato.
In caso di ematuria classica il globulo rosso si presenta non colorato e quindi traslucente, questi
raramente si presentano con la loro tipica forma a disco biconcavo, ma molto più spesso sono
rigonfi (urine ipotoniche) o disidratati (urine ipertoniche): la loro morfologia dipende quindi dalla
osmolarità dell’urina.
L’ematuria ha questa caratteristica: è molto sensibile ma poco specifica. Molto sensibile perché si
è in grado di identificare anche una bassa concentrazione di globuli rossi nelle urine; poco
specifica perché in realtà non dice nulla di più se non che ci potrebbe essere un’emorragia nelle
vie urinarie. Ci può essere una molteplicità di cause che devono essere indagate che possono
essere alla base di una potenziale ematuria. Due condizioni invece che possono rappresentare una
contaminazione sono le mestruazioni (l’ematuria in una donna durante il periodo mestruale non
deve preoccupare, per evitarla si possono fare le analisi al di fuori di questo periodo) oppure un
paziente che è stato cateterizzato (anche dopo 15-20 giorni nel paziente ci possono essere tracce
di globuli rossi); quindi in questi due casi l’ematuria non deve preoccupare; dev’essere ripetuto
l’esame delle urine per delle conferme, per vedere se si tratta di ematurie da contaminazione.
113
[Dalle slide: In teoria le urine non dovrebbero contenere eritrociti; tuttavia, qualche globulo rosso
può essere talvolta riscontrato anche nelle urine di soggetti in buono stato di salute. Le principali
cause di ematuria sono rappresentate da glomerulopatie, tumori delle vie urinarie, traumi renali,
litiasi delle vie urinarie, infarti renali, necrosi tubulare acuta, infezioni delle alte e basse vie urinarie
e stress fisici: le urine possono inoltre risultare contaminate da eritrociti provenienti dalla vagina in
donne mestruate o da traumi conseguenti a cateterismo vescicale]
Leucociti, batteri, parassiti. Non devono essere presenti nelle urine, che dovrebbero essere sterili.
In realtà un po’ di batteri si possono trovare, ma teoricamente non ci dovrebbero essere. La
leucocituria è indice di un’infezione delle vie urinarie conseguente alle reazioni immunitarie.
Quando i leucociti sono particolarmente numerosi le urine assumono un colore biancastro e un
aspetto torbido; si usa il termine piuria per indicare la presenza di pus nelle urine, espressione
dell’azione dei leucociti a seguito di un’infezione o risposta leucocitaria importante. Alcuni batteri
hanno dimensioni compatibili con la risoluzione di un microscopio, e quindi si possono vedere. Se
si trovassero dei batteri nelle urine bisognerebbe fare subito un approfondimento microbiologico,
per capire il ceppo ed eventualmente rilevare antibiotico-resistenze ecc. Si possono trovare anche
microrganismi quali funghi (Candida) e parassiti (Trichomonas vaginalis, Trichomonas hominis),
visibili anch’essi al microscopio.
[Dalle slide: la presenza di batteri nelle urine (batteriuria) è un reperto costante: si definisce
patologica una batteriuria con > 105 unità formanti colonie / mL di urina]
L’esame delle urine è semplice ma è molto importante. Tutti questi indicatori vanno
opportunamente memorizzati e compresi. Fanno parte della routine della pratica clinica. Con
l’emocromo e l’esame delle urine hanno a che fare tutti i medici, indipendentemente dalla
specializzazione. È bene acquisire confidenza con questo tipo di analisi e risultati.
I seguenti sono alcuni esempi di referti con esami delle urine:
ESEMPIO 1
Esame delle urine standard, in cui sono riportati colore e aspetto (refertati in maniera discorsiva).
Sono riportati anche tutti gli altri indicatori (glucosio, proteine, emoglobina, corpi chetonici,
bilirubina, urobilinogeno, nitriti, peso specifico, leucociti, cellule epiteliali). Nella sezione
“metodo” può essere riportata la dicitura citometria a flusso: questo indica che il sedimento viene
letto da una macchina, un citometro a flusso. Non ci sarà una valutazione discorsiva ma si troverà
il numero di leucociti e cellule epiteliali contati dalla macchina. Questa è una fase di transizione: in
qualche laboratorio si guarda ancora al microscopio il sedimento mentre in altri si usano
macchine; questa seconda componente è economicamente più vantaggiosa e probabilmente in
futuro sarà tutto automatizzato. La situazione riportata in questo esempio è di piena normalità.
L’esame delle urine non richiede grandi capacità interpretative; è facile capire se c’è qualcosa che
non va guardando i valori di riferimento. Tutti gli indicatori devono essere assenti; si può solo
trovare qualche traccia di urobilinogeno. Il pH deve rientrare nell’intervallo di valori sopracitato e
il resto deve essere tutto pari a zero. Fare una diagnosi a partire dall’esame delle urine è facile.
114
ESEMPIO 2
Se c’è un aumento di glucosio (5000 mg/dL) si può pensare ad un diabete all’esordio; di tipo I se
c’è un aumento di corpi chetonici. Il pH è basso a causa dei corpi chetonici che danno acidosi. Si
può trovare eventualmente anche una refertazione discorsiva: “rare cellule delle basse vie
urinarie, viste al microscopio”. Se c’è aumento di bilirubina si sa che questa sarà di tipo diretto. Si
scartano gli itteri da bilirubinemia indiretta e ci si concentra sulla tipologia epatocellulare e sulla
ostruttiva, con altri esami di laboratorio.
ESEMPIO 3
Aumento di emoglobina, ma anche di globuli rossi. L’emoglobinuria è indice di una emolisi. C’è
una trappola: si potrebbe pensare ad una malattia ematologica, ma in questo caso l’emoglobina
deriva dalla lisi dei globuli rossi (lisati a causa dell’osmolarità delle urine: questo avviene se c’è
una ematuria importante). L’osmolarità delle urine non corrisponde a quella del sangue: i globuli
rossi si lisano perché sono in un ambiente che non è il loro. Quindi l’emoglobinuria, in presenza di
ematuria, non deve creare problemi di interpretazione; resta da capire perché c’è sangue nelle
urine, ma bisogna ricordare che l’emoglobina deriva dalla lisi dei globuli rossi già nelle urine.
L’emoglobinuria diventa invece rilevante in assenza di ematuria, caso in cui si pensa ad una
emolisi. Questo è il caso di più difficile interpretazione che si possa riscontrare, per il resto la
gestione di un esame delle urine è estremamente semplice.
STRISCE REATTIVE
Esistono strisce reattive che permettono di fare l’esame delle urine in maniera autonoma, senza
coinvolgere il laboratorio. Esse contengono tanti quadratini che corrispondono a tutti i parametri
sopra elencati (nitriti, urobilinogeno, proteine, pH, globuli rossi, corpi chetonici, bilirubina,
glucosio, peso specifico...), tutti i parametri vengono valutati in maniera semi quantitativa con
queste strisce. In base alla modificazione del colore dei quadratini si può capire se c’è
un’alterazione di un certo parametro, capendo anche se si allontana poco o molto dal valore di
riferimento in maniera semi quantitativa (es. +1, +2, +3, +4).
L’esame viene eseguito prendendo il campione di urina,
immergendo lo stick, aspettando un minuto ed infine
confrontando il colore del quadratino con una scala
colorimetrica che è presente all’esterno della confezione; non
bisogna toccare a mani nude la confezione, bisogna usare
sempre i guanti. Questo delle strisce è un sistema molto
veloce che consente di fare valutazioni, non con la precisione
del laboratorio ma comunque risolvendo eventuali dubbi sulle
urine in maniera molto veloce. Hanno buona affidabilità e si
possono acquistare in farmacia per uso personale, quindi
sono commercializzate.
115
DETERMINAZIONE DELLA CONCENTRAZIONE EMATICA DI COMPOSTI AZOTATI
NON PROTEICI (AZOTEMIA)
Se si vuole valutare la funzionalità renale perché vi è un problema specifico, l’esame delle urine
aiuta solo parzialmente, molto più utile è l’esame dell’indice di funzionalità renale (ovvero la
concentrazione ematica di composti azotati non proteici).
Il rene elimina queste tre sostanze:
Urea;
Creatinina;
Acido urico.
Esse hanno caratteristiche e vie metaboliche diverse tra loro, ma hanno in comune il fatto di
essere eliminate dal rene, quindi se aumenta la concentrazione di tutte e tre
contemporaneamente nel sangue periferico vuol dire che il rene non riesce a gestirle. Si
considerano contemporaneamente perché qualora vi sia un aumento di concentrazione di una
singola sostanza questo può essere dovuto ad una sua iperproduzione, ma se l’aumento riguarda
tutte e tre allora è un indice preciso di malfunzionamento renale. Il termine usato nella pratica
clinica per indicarle tutte e tre è azotemia. In realtà è un termine improprio, di per sé azotemia
significa “concentrazione di azoto nel sangue”, ma si fa riferimento all’azotemia dopo
l’allontanamento delle proteine.
[Dalle slide: L’urea è il prodotto di fissazione della ammoniaca che deriva dalla transaminazione e
dalla deaminazione ossidativa degli aminoacidi, unità costitutive delle proteine; è prodotta dal
fegato (ciclo dell’urea) ed è eliminata principalmente per via renale. In soggetti con un normale
apporto proteico giornaliero nella alimentazione (1g/kg di peso) i valori ematici di urea sono
compresi tra 20 e 45 mg/dl].
Alternativamente alla concentrazione ematica dell’urea, nella diagnostica di laboratorio viene più
spesso determinata la concentrazione ematica dell’azoto ureico (BUN: blood urea nitrogen).
Dato che nella molecola di urea (PM 60) sono contenuti due atomi di azoto (PA 14), il rapporto
urea / azoto ureico corrisponde a 60 / 28, cioè a 2,14; pertanto, in soggetti con un normale
apporto proteico giornaliero nella alimentazione (1g/kg di peso) i valori ematici di azoto ureico
sono compresi tra 9 e 20 mg/dl.
N.B. Rispetto alla prima ora di lezione nella quale sono stati illustrati gli esami delle urine ora si sta
parlando di esami di laboratori svolti a livello del sangue periferico.
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L’uremia può aumentare sia quando il rene non funziona, sia in un soggetto che ha
un’alimentazione molto ricca di carne e di conseguenza di proteine; questa è la ragione per cui
all’uremia si associa la misurazione di un altro parametro completamente diverso: la creatinina.
Creatinina: La creatina si forma a livello epatico dal metabolismo di 3 amminoacidi (arginina,
glicina e metionina), si porta al muscolo dove viene fosforilata con un legame altamente
energetico, quindi si forma la fosfocreatina, un’importante riserva energetica per il muscolo
(tant’è che può essere utilizzata come sostanza dopante). La creatinina è il prodotto finale del
catabolismo muscolare della fosfocreatina ed il rene è l’organo preposto alla sua eliminazione,
quindi se quest’ultimo non funziona la creatininemia aumenta (vr. 0,84-1,21 mg/dL).
• l’urea ad alte concentrazioni diventa tossica, la creatinina invece non diventa mai pericolosa,
anche se deve comunque essere eliminata.
• La produzione di creatinina è esclusivamente endogena, quindi la sua concentrazione non è
influenzata dall’apporto alimentare, mentre l’uremia è legata all’assunzione di proteine.
La creatininemia può aumentare dopo un certo lavoro muscolare (si fa riferimento a livelli
professionali, non ad un esercizio fisico svolto due volte a settimana).
Tuttavia, qualora considerassimo un soggetto che mangia molta carne e svolge un intenso
esercizio fisico, potrebbe presentare valori aumentati sia di uremia che di creatininemia; quindi,
viene aggiunto un terzo parametro: l’acido urico.
Acido urico: esso deriva dal catabolismo purinico; l’aumento di acido urico nel sangue periferico è
caratteristico della patologia della gotta, caratterizzata nelle sue fasi finali dal deposito di questo
prodotto soprattutto nelle articolazioni. Al di fuori della gotta, se l’acido urico aumenta con un
aumento anche di creatinina e urea abbiamo sicuramente insufficienza renale.
[Dalle slide: L’acido urico è il prodotto terminale del catabolismo purinico nell’uomo. La sintesi di
acido urico, catalizzata dall’enzima xantina ossidasi, si compie soprattutto nel fegato. Immesso nel
sangue, dove per il 96% si trova sotto forma di urato monosodico non legato a proteine, arriva ai
reni dove viene filtrato, parzialmente riassorbito e, di nuovo, parzialmente secreto prima di essere
definitivamente eliminato con l’urina. La concentrazione ematica di acido urico corrisponde a 2,5-7
mg/dl. L’acido urico è poco solubile in acqua; se, nelle urine, raggiunge elevate concentrazioni,
precipita rapidamente sotto forma di cristalli di urato, determinando la formazione di calcoli
renali. Similmente, in pazienti con alti livelli di acido urico nel sangue, cristalli di urato si
depositano nei tessuti molli, in modo particolare nelle articolazioni: ciò determina una sindrome
clinica denominata gotta]
Se aumentano tutte e tre contemporaneamente non può che essere colpa del rene, quindi questo
è il più importante esame di valutazione dell’indice di funzionalità renale che viene applicato
quotidianamente nella pratica clinica su di un campione di sangue periferico.
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CLEARANCE RENALI
Esistono poi altri esami, non di routine, che vengono eseguiti in reparti specialistici (nefrologia,
medicina interna...); si tratta di metodiche più raffinate e complicate, dalla maggiore sensibilità,
che di conseguenza forniscono risultati più precisi. Tra questi vi è la valutazione della clearance:
La clearance di una sostanza è la quantità di plasma che viene depurata da quella sostanza in
un’unità di tempo. Se prendo in considerazione una sostanza eliminata dal rene, la clearance
diventa indice della funzionalità renale.
[Dalle slide: Si definisce clearance (to clear: depurare) di una sostanza la quantità di plasma che
viene depurata di quella sostanza nell’unità di tempo: il calcolo della clearance si basa sull’assunto
che ogni sostanza rimossa dal plasma si ritrova simultaneamente nelle urine; pertanto, la
concentrazione nel plasma di una certa sostanza (P), moltiplicata per il volume di sangue depurato
di essa in 1 minuto (vale a dire il valore della clearance - C) deve essere uguale alla concentrazione
della stessa sostanza nelle urine (U) moltiplicata per la quantità di urina eliminata nell’unità di
tempo (V)]
CxP=UxV da cui
Quindi sarà sufficiente applicare la formula usando come concentrazioni quelle di una sostanza
adeguata allo scopo.
Le prove di clearance vengono utilizzate principalmente per la valutazione del filtrato glomerulare
(e per diagnosticare eventuali glomerulopatie), cioè del volume di preurina prodotta dal
glomerulo nell’unità di tempo per ultrafiltrazione del sangue circolante. La sostanza ideale da
utilizzare a questo scopo dovrebbe presentare le seguenti caratteristiche:
• essere filtrata completamente dal glomerulo;
• non essere né riassorbita né secreta dal tubulo;
• non legarsi a proteine plasmatiche;
• non essere metabolizzata dall’organismo;
• non essere eliminate attraverso altri emuntori o dispersa nei tessuti;
• essere priva di tossicità e ben tollerata;
• poter essere dosata con facilità e sicurezza;
Sulla base di questi requisiti si possono usare due sostanze:
- Creatinina (endogena): non è perfetta perché viene parzialmente secreta, quindi in base
alle condizioni ottimali non è al 100% adatta, i “puristi” sostengono che questa non
dovrebbe essere utilizzata, ma in laboratorio si fa un errore analitico che controbilancia
questa caratteristica di secrezione.
- Inulina (esogena): non essendo normalmente presente nell’organismo deve essere
iniettata nel paziente, bisogna attendere il tempo che si distribuisca in maniera omogenea
nell’organismo e poi effettuarne la misurazione. Si tratta quindi di un procedimento più
complesso, che può fare ritenere accettabile la piccola approssimazione operata sulla
creatinina.
[Dalle slide: La sostanza che meglio risponde ai suddetti requisiti è l’inulina, polisaccaride esogeno
costituito prevalentemente da unità di D-fruttosio (PM 5.000): l’inulina viene completamente
filtrata dal glomerulo ed eliminata con le urine senza essere né riassorbita né secreta dal tubulo;
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pertanto, la sua clearance corrisponde esattamente alla quantità di liquido filtrato dai glomeruli
nell’unità di tempo. Per comodità di esecuzione, nella pratica clinica si ricorre più spesso alla
creatinina, sostanza endogena che presenta però il limite di essere parzialmente secreta dalle
cellule del tubulo renale, soprattutto quando i valori ematici si alzano per un deficit di filtrazione;
tale limite viene comunque controbilanciato da un errore tecnico relativo alla metodica utilizzata
per la determinazione della creatinina che tende a sovrastimare la concentrazione di creatinina
sierica rispetto a quella urinaria]
Per calcolare la clearance della creatinina in un paziente servono tre dati:
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aspetterà un’urina molto concentrata dal peso specifico molto alto. Se invece il peso
specifico sarà normale vorrà dire che il paziente non ha concentrato le urine e quindi che il
tubulo non ha funzionato correttamente. Questo è un indicatore meno raffinato di quello
della clearance del glucosio, ma usato spesso nella pratica.
o Prova della diluizione: (prova inversa) al soggetto a digiuno dalla sera precedente si fa
svuotare la vescica e quindi si somministrano 1200 cc di acqua che devono essere bevuti in
30 minuti (iperidratazione); nelle successive 4 ore, ogni 30 minuti si raccolgono
separatamente le urine formate: in condizioni di normale funzionalità tubulare, il peso
specifico di almeno uno dei due primi campioni deve scendere a un valore di 1,003, anche
in questo caso se le urine non sono diluite significa che il tubulo non ha funzionato. Il
professore spiega come questa metodica sia meno utilizzata in quanto frequentemente i
pazienti che vi vengono sottoposti sono allettati e faticano a bere un quantitativo di acqua
così importante in soli 30 minuti, in più dare un carico d’acqua ad un paziente con un
problema renale potrebbe causare un blocco renale e di conseguenza la cosiddetta
“intossicazione da acqua”.
Da un punto di vista teorico questi due esami sono equivalenti, ma il professore sconsiglia il
secondo per i motivi sopracitati, la scelta spetta comunque al medico in seguito alla sua personale
valutazione.
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