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L’anemia da disordini cronici è un’anemia dovuta a tre principali meccanismi quali la ridotta sopravvivenza
delle emazie, la ridotta attività proliferativa del midollo e alterata liberazione di ferro e suo difficile utilizzo.
È un tipo di anemia comune nei pazienti lungodegenti facente parte del gruppo delle normocitiche o
appena microcitiche. Le patologie croniche di base possono essere:
Il punto chiave sembra l’incapacità del midollo di incrementare la produzione di emazie per sopperire alla
perdita dovuta alla modesta emolisi, in quanto si è visto che in colture sperimentali di cellule del midollo,
macrofagi attivati inducono il rilascio del fattore TNF o cachettina che inibisce le cellule ematopoietiche ed
in particolare le BFU-E e CFU-E. Inoltre uno stato infiammatorio stimola la produzione di epcidina ( che
impedisce l’assorbimento/ mobilitazione del ferro rendendolo non disponibile al midollo.
DIAGNOSI e TERAPIA
1. Escludere altre forme di anemia mediante la valutazione di B12, folati, neoplasie midollari,
sanguinamenti
2. Dimostrare di avere di fronte un caso di anemia ipoproliferativa ( i reticolociti, aptoglobina,
birilubina ed LDH nella norma), ed avremo iposideremia, ferritina normale o aumentata e bassi
livelli di transferrina.
3. Ricercare i segni d’infiammazione ( VES, PCR, fibrinogeno alto e albumina ridotta).
Bisogna trattare la patologia cronica sottostante, eventualmente somministrare ferro o per via endovenosa
o recentemente è preparato in vescicole liposomiali che bypassa l’assorbimento intestinale. Se necessario
somministrare EPO, utile nei pz con AIDS, tumori o AR. ( si somministra se l’EPO del pz è minore di 100
Mu/mL, perché in questo caso la terapia ha successo fino al 70% dei casi. Nel pz anemico, l’EPO va
mantenuta più alta, mentre nei soggetti sani intorno a 2-30 mU/Ml). In queste anemie, RCW potrebbe
essere aumentata.
L’acido folico si ottiene invece da frutta e ortaggi crudi ( il processo di cottura distrugge il composto) e viene
assorbito nel duodeno e digiuno prossimale. L’assorbimento dipende dall’integrità della mucosa intestinale
e dal PH endoluminale, alterati da fattori quali le gastriti atrofiche, IPP e H2-antagonisti, metrotrexate,
sulfasalazina, colestiramina.
Sia la carenza di vit. B12 che di acido folico causano un’alterazione della sintesi di DNA che si manifesta a
livello dei tessuti rapidamente proliferanti, quali il midollo emopoietico e l’epitelio del tubo digerente.
Poiché sia la carenza dell’una che dell’altra vitamina è causa di alterazioni morfofunzionali dell’epitelio
intestinale e quindi di malassorbimento, un severo deficit di una delle due sostanze può essere causa di una
carenza secondaria dell’altra vitamina. L’acido folico, sottoforma di tetraidrofolato, è coinvolto in reazioni
che consentono la sintesi di purine, metionina e il deossitimidilato (dTMP). In tutte queste reazioni si
riforma tetraidofolato e il ciclo ricomincia. La carenza di folati comporta quindi un deficit di sintesi sia di
purine che di dTMP, necessari per la duplicazione del DNA. La B12 è attiva invece sotto forma di
metilcobalamina che catalizza la conversione da metilomocisteina + n5tetraidrofolato a metionina
+tetraidrofolato. La metionina è fondamentale per la sintesi della colina, dei fosfolipidi e della proteina
basica della mielina. In poche parole quindi, la carenza di metilcobalamina non consente la sintesi di
metionina ( e l’ottenimento del tetraidrofolato e viceversa) causando carenza di colina e mielina ( sintomi
neurologici). ( per essere pignoli, la b12 induce anche la sintesi di succinilCoA a partire da metilmaloni coA,
per cui l’accumulo di questo induce la sintesi di lipidi neurogeni anomali). Le carenze di B12 sono dovute:
Il paziente con anemia megaloblastica presenta un colorito bianco e giallastro insieme. A livello
gastrointestinale tipica è la glossite di Hunter: bruciori e parestesie linguali associati a ipotrofia, con
scomparsa delle papille e aftosi recidivante. Possono essere presenti una modesta epatosplenomegalia e
una febbricola. Sul piano neurologico i reperti più frequenti sono l’andatura paretico-spastica con
iperiflessia, babinski e romberg. L’anemia è macrocitica e normocromica con riduzione del numero assoluto
di reticolociti. Il livello emoglobinico può essere fortemente ridotto. L’osservazione al microscopio permette
di osservare i due segni tipici delle megaloblastiche: la macrovalocitosi degli eritrociti ( che si accompagna a
anisopoichilocitosi) e l’ipersegmentazione dei neutrofili. La biopsia al midollo mostra un quadro di
megaloblastosi dei globuli rossi mentre i megacariociti sono pesudoiperdiploidi esito della ridotta divisione
mitotica. Si notano piastrinopenia e leucopenia, iperbilirubinemia indiretta e aumento di LDH che indica
un’eritroblastolisi endomidollare. La diagnosi si basa su:
Utile il dosaggio degli anticorpi + gastroscopia nella quale vedremo come reperto infiltrazione della mucosa
da parte dei linfociti e plasmacellule. La terapia prevede la somministrazione di b12 e ac folico insieme per
via orale o parenterale. In genere si ottiene normalizzazione reticolocitaria dopo 4-7 gg e dell’emoglobina
dopo 1-2 mesi, se non c’è la risposta reticolocitaria il problema non è stato risolto. ( potrebbe esserci una
mielodisplasia).
Nota: helicobacter pylori con la sua gastrite atrofica e acloridria impedisce sia l’assorbimento del ferro sia di
vit b12 ( perché induce mimetismo molecolare e reazione anticorpale contro le cellule parietali gastriche).
ANEMIE NORMOCITICHE
Le anemie normocitiche hanno un MCV tra 80 e 10. Per fare la diagnosi differenziale tra le varie forme di
anemie normocitiche ci si basa sul seguente schema:
1. Valutazione di leucociti e piastrine: se sono alterati è possibile che tutto ciò sia dovuto a un
trattamento radiante o antiblastico e la diagnosi è finita. Altrimenti se è escluso la possibilità del
trattamento si procede all’aspirato e biopsia midollare.
2. Se leucociti e piastrine sono nella norma, valutiamo se nell’anamnesi si hanno segni di malattia
cronica che porterebbe alla diagnosi di “ anemia secondaria a malattia cronica”. Sel’anamensi è
negativa, valutiamo i reticolo citi perché se aumentati allora ciò indica un’anemia emorragica o
emolitica mentre se normali si procede alla ricerca di segni e sintomi correlabili a malattia cronica.
Se anche i segni sono negativi si procede all’agoaspirato e biopsia midollare.
In ambo i casi, dall’aspirato e dalla biopsia midollare si potranno avere due possibilità quali:
1. Anemia aplastica che può essere dovuta a cause chimiche, fisiche e virali, timoma o idiopatica
2. Anemia mieloftisica data da leucemia, linfomi, mieloma, mielofibrosi o da metastasi midollari da
neoplasie solide.
Ora si palerà di emolisi ed anemia emolitica. La vita media dei globuli rossi è 120 giorni, ma quando essa è
ridotta si parla di emolisi che può essere compensata o scompensata in funzione della reattività del midollo
per cui non necessariamente all’emolisi si accompagna l’anemia. Nello specifico un eritrone può aumentare
la sua attività fino a 6 volte per cui si ha emolisi senza anemia se la causa scatenante accorcia la vita dei
globuli rossi a non più di 20 gg. L’emolisi può essere:
1. Extravascolare: rilascio dell’emoglobina dai globuli rossi ai fagociti mononucleati della milza e del
fegato che provoca fuoriuscita di piccole quantità di emoglobina nel plasma con riduzione
dell’aptoglobina e incremento del metabolismo intracellulare dell’eme e birilubina con incremento
dell’urobilinogeno fecale.
2. Intravascolare: rilascio dell’emoglobina dai globuli rossi nel plasma che porta ad aumento di LDH,
riduzione dell’aptoglobina ed incremento dell’emoglobina libera nel sangue che viene ossidata in
metaemoglobina che viene sia eliminata nelle urine come tale ma anche eliminata legata
all’albumina ed emosiderasi dell’epitelio tubulare renale con conseguente emosidenuria.
A. Segni di emolisi
1. Aumento della bilirubina non coniugata
2. Aumento del bilinogeno fecale e dell’urobilinuria
3. Aumento LDH
4. Riduzione dell’aptoglobina
5. Riduzione della vita media delle emazie
B. Segni di iperfunzione compensatoria dell’eritrone, si nota infatti l’espansione del midollo osseo a
livello delle ossa lunghe soprattutto nelle porzioni distali e ci può essere un aumento delle cavità
dello scheletro a livello delle coste e del cranio.
1. Reticolocitosi
2. Iperplasia eritroblastica
3. Aumentato turnover del ferro plasmatico.
Ricorda: non sempre si parla di ittero, ciò dipende dalla capacità metaboliche del fegato. Nelle anemie
emolitiche, nei laboratori avremo LDH e birilubina indiretta aumentata ( marker sensibili ma non specifici) e
reticolo citi e aptoglobina aumentati ( specifici ma non sensibili)
1. Da difetti estrinseci dei globuli rossi ovvero dati da farmaci, da protesi valvolari, microangiopatie
2. Difetti intrinseci dei globuli rossi che possono essere:
Acquisiti per difetto di membrana ovvero emoglobinuria parossistica notturna
Ereditari articolati in:
1. Difetti di membrana quindi sferocitosi ed ellissocitosi o da alterata sintesi di lipidi
2. Enzimatici: G6PD, piruvato chinasi
3. Difetti dell’emoglobina: talassemie ( ridotta sintesi globina), o anemia falciforme ( alterata
sintesi della globina)
Sferocitosi ereditaria: la sferocitosi ereditaria è la più comune delle anemie emolitiche congenite della
razza bianca a trasmissione autosomica dominante nel 75% dei casi e non dominante nel restante 25%.
Sotto il profilo fisiopatologico sono state identificate quattro tipi di alterazioni più frequenti quali la carenza
di spectrina, carenza di anchirina con deficit secondario di spectrina, carenza di banda 3 e carenza di
proteina 4.2. Ciascuno di tali difetti indebolisce la coesione verticale tra citoscheletro e sovrastante doppio
strato lipidico: ne consegue una perdita di lipidi, una riduzione della superficie eritrocita ria e la
conseguente assunzione della forma sferica. Gli sferociti verranno poi trattenuti e demoliti dalla milza. La
presentazione clinica è alquanto variabile: da forme asintomatiche sino a quelle molto gravi ( soprattutto in
caso di carenza di spectrina). Alle volte episodi di ittero ripetuti e coliche biliari indirizzano la diagnosi verso
una sferocitosi ereditaria, inoltre si possono osservare pallore più o meno marcato e una milza aumentata
da 2 a 10 volte. L’anemia va da 4 a 10 g di Hb per 100 mL, mentre allo striscio si osservano eritrociti piccoli a
palla ed eritrociti grandi, mentre la concentrazione emoglobinica corpuscolare media (MCHC) tende ad
essere alta. Nella sferocitosi ereditaria, le emazie hanno un’aumentata fragilità osmotica che rappresenta il
cardine diagnostico della malattia e si valuta con un test di studio della resistenza osmotica con NaCl. Altro
test è quello di auto emolisi ( oggi meno usato rispetto a quello della fragilità osmotica) dove le cellule sono
poste sotto stress a 37 gradi per 48 H, o anche dei test genetici per identificare le proteine alterate. I
reticolo citi sono molto numerosi e si assiste ad incremento di:
Bilirubina
Urobilinogeno fecale
LDH
Il test di Coombs è negativo per cui non si basa su un fenomeno autoimmune. L’eritrone midollare è
iperplastico con sideremia aumentata o normale. La splenectomia è la terapia elettiva che non porta a
guarigione ma ad un miglioramento dell’emivita dei globuli rossi, da fare dopo la pubertà.
È una rara affezione caratterizzata da crisi emolitiche prevalentemente notturne e da un’emolisi spesso
cronica. Può manifestarsi a qualsiasi età e può comparire primitivamente come tale o in seguito ad aplasia
midollare o mielofibrosi. È una malattia della cellula staminale emopoietica dovuta ad aumentata sensibilità
alla lisi della membrana eritrocita ria, granulocita ria e piastrinica. La causa dell’aumentata sensibilità
consiste in una carenza per inadeguato ancoraggio alla membrana eritrocita ria, di alcune proteine che
svolgono un ruolo critico nell’antagonizzare i vari componenti del complemento. Tra le varie proteine si
ricordano:
L’emolisi avviene quando, attivato il complemento, una maggior quantità di C3 si lega alla membrana
eritrocita ria, determinandone peforazione con lisi intravascolare. La sintomatologia è quella di una grave
anemia con emissione di emoglobina nelle urine. L’intensità dell’emoglobinuria è tale da provocare
un’insufficienza renale da prevalente danno tubulare. Altre complicanze sono:
Crisi aplastica ed episodi trombotici, trombo embolia polmonare, trombosi della vena cava inferiore
ecc).
Malattia autosomica recessiva. La carenza della piruvato chinasi comporta una marcata riduzione della
quantità di ATP che l’eritrocita può produrre dal glucosio. Anemia normocromica e normocitica che non
presenta reticolocitosi e non denunzia un accorciamento della vita media delle emazie. La diagnosi si basa
sul test dell’autoemolisi e sul dosaggio dell’enzima. L’autoemolisi è aumentata come nella sferocitosi
ereditaria ma, a differenza di questa, non viene corretta dall’aggiunta di glucosio. La splenectomia è
obbligatoria in caso di anemia sintomatica.
Malattia X-linked che nella maggior parte dei casi il difetto è piccolo e non causa malattia. Il difetto
dell’enzima limita gravemente l’utilizzo del glucosio per la via dei pentosi. Questa via metabolica è
fondamentale per rigenerare il NADPH che a sua volta è utile per rigenerare il GSH dal GSSG tramite la
glutatione-reduttasi utile contro le sostanze ossidanti. In carenza di GSH, l’emoglobina si denatura e
precipita sulla membrana (corpi di heinz), dannegiandola e rendendola rigida sicchè l’eritrocita soccombe ai
macrofagi. La carenza dell’enzima può essere dovuta alla fave, infezioni e farmaci quali antimalarici,
analgesici e sulfonamidi. L’assunzione di queste sostanze porta in breve tempo a anemia, ittero, dolori
lombari, febbre e più raramente insufficienza renale.
Anemia falciforme
Nell’anemia falciforme l’amminoacido n6 della catena beta è sostituto dalla valina. Tale sostituzione porta
ad un tipo di emoglobina che in presenza di bassi livelli di O2 diventa insolubile e formando dei polimeri
precipita facendo acquisire ai globuli rossi la loro forma a falce. Questi eritrociti poi verranno facilmente
distrutti dai macrofagi ed inoltre questi globuli rossi si agglutinano nel torrente circolatorio ostruendolo e
provocando infarti. Si manifesta soprattutto in condizioni di omozigosi e le manifestazioni cliniche si hanno
dopo il 6 mese di vita. Le manifestazioni croniche sono ritardo della crescita, ipertensione polmonare,
scompenso cardiaco, atrofia splenica ( a seguito dei continui trombosi dei vasi splenici), insufficienza renale,
necrosi dell’anca e ulcere. Come manifestazioni acute si hanno crisi dolorifiche che possono portare a
trombosi cerebrale, sindrome polmonare acuta ed ematuria. Nelle forme acute la trombosi non è soltanto
nella milza ma anche nel polmone e cervello. Il trattamento prevede l’uso delle trasfusioni per ridurre la
quota di globuli rossi anomali.
Queste forme di anemia sono distinte in anticorpi caldi e freddi. Una forma autoimmune è la sindrome di
evan che fa parte delle forme calde.
Anticorpi caldi: sono le più frequenti e possono essere idiopatiche o associate a sindromi linfo-
immunoproliferative, connettiviti, sindromi mieloproliferative, infezioni, epatopatie croniche, tumori solidi
maligni. Si manifestano dopo i 45-50 anni. La sintomatologia clinica è quella dell’anemia, di gravità da
moderata a severa con segni di emolisi. Quest’ultima è a sede extravascolare (sub ittero o lieve ittero che
nel tempo causa calcoli della colecisti ed urine iperpigmentate). Il rilievo di una modesta splenomegalia è
comune mentre una splenomegalia marcata deve far sospettare fortemente la presenza di una malattia
proliferativa. I reticolo citi circolanti son spesso aumentati ma nel 10% dei casi i reticolo citi sono normali o
ridotti. In circolo si possono osservare schisto citi. Il numero di leucociti e delle piastrine è normale o
aumentato mentre agli esami si evince: LDH aumentate, iperbilirubinemia non coniugata, aptogloblina
ridotta. Alla mielobiopsia mostra una marcata iperplasia eritroblastica. La diagnosi si basa sulla positività del
test di Coombs diretto ( riscontro di anticorpi sul globulo rosso). L’uso di corticosteroidi costituisce il
trattamento iniziale nelle forme idiopatiche ed in caso usare la splenectomia se gli steroidi non è efficace. In
terza linea si usa la ciclosporina.
Gli anticorpi freddi sono policlonali nele infezioni e monoclonali nele forme linfoproliferative ( es linfoma
maligno). Le forme cliniche da anticorpi freddi sono a sede intravascolare a cui i pazienti vanno incontro in
concomitanza con l’esposizione alle basse temperatura. Ai sintomi dell’emolisi acuta ( brivido, febbre,
cefalea, astenia, ittero) si associano disturbi circolatori ( fenomeno del raynaud). Questa malattia è
sostenuta da anticorpi di classe IgM con test di Coombs diretto positivo. In genere steroidi e splenectomia
sono inefficaci, mentre ciclofosfamide e plasmaferesi sono utili. Va ricordato però che in generale in queste
due forme da anticorpi freddi e caldi, date da malattie secondarie bisogna risolvere la malattie di base.
NOTA: il test di coombs è sia diretto che indiretto (valutazione degli anticorpi nel siero ma non adeso ai
globuli rossi). Nelle anemia emolitiche autoimmuni si ha ittero, feci e urine ipercromiche, a volte
splenomegalia e c’è sempre reticolocitosi.
Emolisi meccaniche: tipica di pz con protesi cardiovascolare oppure anemia emolitica microangiopatica.
Sono malattie croniche monoclonali che originano dalla trasformazione di una cellula staminale
emopoietica totipotente. Si distinguono in forme ph negative quali policitemia vera, trombocitopenia
essenziale e mielofibrosi e ph positive quali leucemia mieloide cronica. Tutte questa patologie possono
diventare leucemia mieloide acuta e ciò è particolarmente frequente nella mielofibrosi sia primaria o
secondaria, meno nella PV e ancor meno nella TE. PV e TE possono però evolvere in mielofibrosi
secondaria, per distinguerla dalla primaria che indica sin dall’inizio il processo di mielofibrosi. In queste
patologie si nota un aumento oltre la norma di globuli rossi, piastrine o granulociti provocando spesso
epatosplenomegalia dovuta al sequestro di sangue, infiltrazione da parte della patologia neoplastica ed
avviene in questi organi un’ematopoiesi extramidollare a causa del fatto che il midollo è inefficace. Sono
patologie tipiche dell’anziano con picco intorno alla 7 decade. Tutte le patologie presentano un certo gradi
di fibrosi che è una reazione alla malattia in quanto i fibroblasti rispondono ad un’eccessiva presenza di
fattori di crescita tra cui TGFBETA e PDGF. Si è scoperto che queste malattie sono date da mutazioni quali:
JAK2 V617F nella quale in questo modo jak2 attiva la trasduzione del segnale anche in assenza del
ligando.
CALR, recettore per la calreticulina
MPL, recettore della trombopoietina
Policitemia vera: condizione data da:
Si distingue in:
La policitemia secondaria o acquisita può essere data o dall’azione del fattore EPO:
Ipossia mediata. L’ipossia può essere centrale ( malattie polmonari croniche, shunt cardiaci, alta
quota, ipoventilazione, forti fumatori). Ipossia periferica ad es per stenosi arterie renali. Hb
anormali o ad alta affinità.
Ipossia indipendente ( produzione inappropriata di EPO) data da neoplasie benigne ( fibromi, cisti
renali, feocromocitomi), e maligne ( epatomi, k renali, emangioblastomi e k paratiroidei)
Farmaco: abuso di eritropoietina o di androgeni
Post trapianto renale, in questo caso si fa terapia con ace inibitori.
Ad oggi si tende a ricercare la mutazione di Jak 2, ma nei pz obesi o fumatori o comunque pz che ci fanno
più pensare che sia una forma secondaria possiamo richiedere la seguente batteria di esami:
Emogasanalisi
Elettroforesi dell’Hb
Spirometria
Dosaggio di EPO
Eco addome e RX torace
Volume globuli rossi totale e volume plasmatico totale
Policitemia apparente: detta anche pseudo policitemia, data da forti variazioni del volume plasmatico tipica
dei forti fumatori, disidratati, con ustioni o condizioni di profondo stress. In generale, se la mutazione di
jak2 è presente, è molto probabile si tratti di una forma vera che può essere avvalorata da un’eventuale
biopsia midollare, ma se negativa possiamo dosare la EPO:
Se Epo è BASSA, si ricerca la mutazione rara di JAK2, ovvero dell’esone 12 che se presente indica
una forma vera
Se EPO è normale o alta, allora valutiamo le policitemie secondarie.
Policitemia vera: è un tumore del sangue con incremente di globuli rossi e alle volte anche di granulociti e
piastrine. Si articola in tre fasi:
Proliferativa
Post-policitemica in cui il midollo diventa quasi aplastico
Trasformazione in leucemia acuta
Il paziente può essere diagnosticato per caso mediante esami del sangue occasionali con: eritrocitosi,
leucocitosi, piastrinosi, LDH aumentato, ipoferritininemia. Altre forme di diagnosi sono mediante esame
obiettivo: pz rubeosico, iperteso, splenomegalia ( 40%), epatomegalia (70%). Presenterà:
Sintomi maggiori: trombosi ( arteriose, venose profonde, SNC, vasi mesenterici) ed emorragie ( per
minor efficienza piastrinica).
Sintomi minori: eritromelalgia ( temperatura della cute aumentata, bruciore rossore), prurito,
astenia, perdita di peso, gastrite e parestesie.
La diagnosi di PV si basa nell’avere tutti e tre i criteri maggiori o due maggiori e due minori. Criteri maggiori:
elevati livelli di emoglobina (Hb > 16.5 g/dl nell’uomo e > 16 g/dl nella donna)
ematocrito (> 49% nell’uomo e > 48% nella donna).
ricerca della mutazione del gene Jak-2
il criterio minore è livelli di EPO molto bassi. I criteri hanno subito modifiche, in passato nel 2008 infatti i
cut off di emoglobina ed ematocrito erano più alti, inoltre la biopsia midollare per jak2 è stata inclusa tra i
criteri maggiori ed è stata rimosso il test di coltura in metil cellulosa. Le principali cause di morte nella PV
sono di natura:
Abbassare l’ematocrito •
Trattare le complicazioni Senza però dimenticare che questi pz hanno un alto carico di sintomi, per
la maggior parte comuni ad altre patologie mieloproliferative croniche. Due di questi vengono
riferiti in frequenza maggiore nei pz con Policitemia: Stanchezza marcata, la cosiddetta Fatigue
delle patologie neoplastiche (92%) e Prurito (65%)
MPN10 (Total Symptom Score) Valido per tutte le patologie mieloproliferative. Per capire meglio l’entità e
la variazione di questi sintomi diamo un questionario, che in sostanza si autosomministrano, contenente
una serie di domande a cui corrisponde un punteggio da 0 a 10, al fine di –
Basso: non ha un’età maggiore di 65 anni, non ha avuto eventi trombotici e non ha altri fattori di
rischio cardiovascolari per cui si procede a flebotomia e basse dosi di ASA.
Medio: presente fattori di rischio cardiovascolare, per cui idrossiurea, flebotomia e ASA
Alta: ha età maggiore di 65 anni e/o trombosi : idrossiurea, flebotomia ed ASA.
Trombocitemia essenziale
La trombocitemia essenziale è una malattia delle cellule staminali ematopoietiche clonali che causa un
aumento della produzione di piastrine. La trombocitemia essenziale di solito si verifica con picchi
bimodali; un picco precoce tra le donne giovani e un picco successivo dopo i 50 anni sia nelle donne sia
negli uomini.
Una mutazione enzimatica della Janus kinase 2 (JAK2), JAK2V617F, è presente in circa il 50% dei pazienti;
la Janus kinase 2 (JAK2) è un membro della famiglia di enzimi della tirosin-chinasi ed è coinvolto nella
trasduzione del segnale dell'eritropoietina, della trombopoietina e del fattore stimolante le colonie di
granulociti (granulocyte colony-stimulating factor [G-CSF]) tra le altre entità. Gli altri pazienti hanno
mutazioni nell'esone 9 del gene della calreticulina (CALR) e alcuni hanno una mutazione del gene che
codifica per il recettore della trombopoietina (MPL).
Alcune sindromi mielodisplastiche (p. es., anemia refrattaria con sideroblasti anulari e trombocitosi
[RARS-T] e sindrome 5q-) possono presentarsi con una conta piastrinica elevata.
Fisiopatologia della trombocitemia essenziale
La trombocitemia può portare a
Le occlusioni microvascolari coinvolgono piccoli vasi degli arti distali (che causano eritromelalgia),
dell'occhio (che causano emicrania oculare), o del sistema nervoso centrale (che causano attacchi
ischemici transitori ). Non tutti i pazienti manifestano sintomi microvascolari, anche quando la conta
piastrinica è elevata.
Non è chiaro se il rischio di una trombosi dei grossi vasi che provoca trombosi venosa profonda o embolia
polmonare aumenta nella trombocitemia essenziale, soprattutto perché le piastrine sono coinvolte prima
di tutto nella trombosi arteriosa e non c'è correlazione tra la conta piastrinica e la trombosi dei grossi
vasi.
Il sanguinamento è più frequente in pazienti con trombocitosi grave (ossia, circa 1,5 milioni piastrine/mcL
[1,5 milioni × 109/L]); è dovuto a un deficit acquisito di fattore di von Willebrand generatosi in quanto le
piastrine assorbono e proteolizzano i multimeri di von Willebrand ad alto peso molecolare, provocando
una sindrome di von Willebrand acquisita.
Sintomatologia della trombocitemia essenziale
I sintomi più frequenti sono
Astenia
Lividi e sanguinamento
Gotta
Emicrania oftalmica
Parestesie a carico di mani e piedi
Eventi trombotici
La trombosi può causare sintomatologia nel distretto interessato (p. es., deficit neurologici nell'ictus o
attacco ischemico transitorio).
Le emorragie sono generalmente di lieve entità, raramente spontanee, e si manifestano sotto forma di
epistassi, tendenza a sviluppare ematomi o sanguinamenti gastrointestinali. Tuttavia, un sanguinamento
grave può verificarsi in una piccola percentuale di casi con trombocitosi estrema.
Si può verificare eritromelalgia (dolore urente alle mani e ai piedi, con calore, eritema, e talvolta ischemia
digitale). La milza può essere palpabile, ma una splenomegalia significativa è rara e deve suggerire
un'altra neoplasia mieloproliferativa.
La conta piastrinica è > 450 000/mcL (> 450 000 × 109/L) ma può essere > 1 000 000/mcL (> 1 000
000 × 109/L). Il numero di piastrine può diminuire in gravidanza. Lo striscio periferico può mostrare
piastrine giganti e frammenti di megacariociti.
La trombocitemia essenziale è una diagnosi di esclusione e deve essere presa in considerazione in
pazienti in cui possono essere escluse le comuni cause reattive di trombocitemia e altri neoplasie
mieloproliferative. Se vengono identificate citopenie, la sindrome mielodisplastica deve essere
considerata.
Se si sospetta una trombocitemia essenziale, si devono eseguire emocromo con formula, striscio di
sangue periferico, studi del ferro e studi genetici, tra cui un test quantitativo di JAK2 V617F, insieme a un
test del BCR-ABL per escludere la leucemia mieloide cronica (che può manifestarsi con la sola
trombocitosi). Se i test JAK2 e BCR-ABL sono negativi, devono essere effettuati i test per la
mutazione CALR e MPL. La diagnosi di trombocitemia essenziale è suggerita dall'ematocrito normale,
dalla conta leucocitaria, dal volume corpuscolare medio e dagli studi sul ferro, così come dall'assenza
della traslocazione della BCR-ABL.
L'analisi della mutazione dev'essere sempre quantitativa, perché il peso dell'allele del gene conduttore
nella trombocitemia essenziale positiva al JAK2 V617F non supera il 50%. Un carico quantitativo di
allele > 50% suggerisce policitemia vera o mielofibrosi primaria . Tuttavia, un carico di allele
quantitativo < 50% non esclude definitivamente la policitemia vera o la mielofibrosi primaria perché
questi due disturbi possono presentarsi con la sola trombocitosi, e nella policitemia vera, l'espansione
del volume plasmatico può mascherare la presenza di una massa espansa di globuli rossi. Inoltre, circa il
25% dei pazienti (soprattutto donne), con quella che inizialmente sembra essere una trombocitemia
essenziale, si trasforma nel tempo in policitemia vera, con un aumento dell'ematocrito e un aumento del
carico dell'allele JAK2 V617F.
Le linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità suggeriscono che per una diagnosi di
trombocitemia essenziale è necessaria una biopsia del midollo osseo che mostri un numero maggiore di
megacariociti ingranditi e maturi, ma questo criterio non è mai stato validato in modo prospettico e un
esame del midollo non distinguerà la trombocitemia essenziale dalla policitemia vera. In ogni caso, una
biopsia del midollo osseo può essere utilizzata per determinare se vi è una fibrosi significativa.
In presenza di sintomi vasomotori di lieve entità (p. es., cefalea, lieve ischemia digitale, eritromelalgia) e
allo scopo di ridurre il rischio trombotico in pazienti a basso rischio, solitamente è sufficiente un
trattamento con aspirina al dosaggio di 81 mg per via orale 1 volta/die, ma può essere utilizzata una dose
più elevata se necessario. Una grave emicrania può richiedere una riduzione della conta piastrinica per
controllarla. L'utilità dell'aspirina durante la gravidanza non è dimostrata, e può provocare
sanguinamento in pazienti con trombocitemia essenziale e mutazione CALR.
L'acido aminocaproico o l'acido tranexamico è efficace per controllare l'emorragia dovuta alla sindrome
di von Willebrand acquisita per procedure minori come procedure dentali. Le procedure principali
possono richiedere l'ottimizzazione della conta piastrinica.
Il trapianto allogenico di cellule staminali si utilizza raramente nella trombocitemia essenziale, ma può
essere efficace se c'è una trasformazione in leucemia acuta.
Abbassamento della conta piastrinica
Dato che la prognosi è solitamente favorevole e non esiste alcuna correlazione tra grado di trombocitosi
e trombosi, i farmaci potenzialmente tossici che riducono la conta piastrinica non devono essere
impiegati soltanto per normalizzare la conta piastrinica nei pazienti asintomatici. In genere le indicazioni
concordate per la terapia di riduzione delle piastrine comprendono
Tuttavia, non ci sono dati che dimostrino che la terapia citotossica per ridurre la conta piastrinica riduca il
rischio trombotico o migliori la sopravvivenza. I pazienti che sono JAK2-positivi e/o di età superiore ai 65
anni sono a maggior rischio di complicanze tromboemboliche.
I farmaci utilizzati per ridurre la conta piastrinica sono l'anagrelide, l'interferone alfa-2b, e l'idrossiurea.
L'idrossiurea è generalmente considerata il farmaco di prima scelta per l'utilizzo di breve termine. Poiché
l'anagrelide e l'idrossiurea attraversano la placenta umana, non sono indicati in gravidanza; quando
necessario, nelle donne in gravidanza può essere utilizzato l'interferone alfa-2b. L'interferone è la terapia
più sicura per l'emicrania quando i farmaci appositi per l'emicrania non risultano efficaci.
L'anagrelide deve essere usato con cautela nei pazienti anziani a causa dei suoi effetti sul sistema
cardiovascolare (p. es., palpitazioni, aritmie) e sui reni (p. es., ritenzione di liquidi).
L'idrossiurea deve essere prescritta solo da specialisti esperti nel suo uso e monitoraggio. Il trattamento
iniziale prevede una dose da 500 a 1000 mg per via orale 1 volta/die. I pazienti vengono monitorati
settimanalmente con un emocromo. Se la conta leucocitaria scende a < 4000/mcL (< 4 × 109/L),
l'idrossiurea deve essere sospesa e ripresa al 50% della dose quando il valore si normalizza. Quando si
raggiunge lo stato stazionario, l'intervallo tra un emocromo e l'altro viene allungato a 2 e
successivamente a 4 settimane. L'obiettivo è il sollievo dei sintomi piuttosto che la normalizzazione della
conta piastrinica. Una sospensione troppo rapida dell'idrossiurea può causare una rapida ripresa e il
circolo piastrinico.
Il ruxolitinib, un farmaco che viene utilizzato nella policitemia vera e nella mielofibrosi primaria, è stato
studiato in pazienti con trombocitemia essenziale che sono resistenti ad altri trattamenti.
La piastrinoaferesi (eliminazione piastrine) è stata utilizzata in rari casi per pazienti con emorragia grave
o trombosi ricorrenti o prima di un intervento chirurgico d'urgenza per ridurre rapidamente la conta delle
piastrine. Tuttavia, la piastrinoaferesi è raramente necessaria. I suoi effetti sono transitori, con una rapida
ripresa nella conta piastrinica. L'idrossiurea o l'anagrelide non forniscono un effetto immediato, ma
devono essere iniziati contemporaneamente alla piastrinoaferesi.
NOTA DALLE SBOB:per gli eventi trombotici se il pz non presenta storia di trombosi:
se ha età minore ai 60 anni:
CALR positivo: si fa osservazione
CVR o JAK2V617 positivo allora aspirina una volta al giorno
CVR e JAK2V617 positivo allora aspirina due volte al giorno
Se ha unèetà maggiore di 60 anni allora chemioterapia citoriduttivs ( sarebbe abbassamento conta
piastrinica)+ aspirina una volta al giorno.
Se il pz ha storia di trombosi arteriosa:
se ha età minore di 60 anni ed è CALR positivo allora chemioterapia citoriduttivs ( sarebbe abbassamento
conta piastrinica)+ aspirina una volta al giorno.
Se ha età maggiore di 60 anni ed è CALR positivo allora chemioterapia citoriduttivs ( sarebbe
abbassamento conta piastrinica)+ aspirina una volta al giorno. Se è CVR o JAK2V617F allora ed è CALR
positivo allora chemioterapia citoriduttivs ( sarebbe abbassamento conta piastrinica)+ aspirina due volte
al giorno
Se il pz ha storia di trombosi venosa se è CALR positivo allora chemioterapia citoriduttiva +
anticoagulazione sistemica. Se è CVR o jak2v617f allora ed è CALR positivo allora chemioterapia
citoriduttivs ( sarebbe abbassamento conta piastrinica)+ aspirina una volta al giorno+ anticoagulazione
sistemica.
MIELOFIBROSI: fibrosi progressiva del midollo osseo e incremento del tessuto connettivo che porta ad
eritropoiesi extramidollare. Si notano megacariociti anormali con conseguente eccesso di PDGF e PF4 che
alimenteranno l’instaurarsi della fibrosi. All’inzio avremo piastrine alte con normali valori di leucociti ed
emoglobina ma in seguito avremo un abbassamento di tali valori che indica progressione della malattia
con alto LDH. Ricordiamo che può essere primaria o conseguenza della PV o TE. La diagnosi tiene conto
di:
1. Striscio di sangue periferico con schisto citi, dacriocisti ed emazie a lacrime
2. Non si fa aspirato midollare in quanto la fibrosi non la consente
3. Faremo la biopsia midollare per valutare il grado di fibrosi distinto in 0 ( fibrosi sparsa), 1 ( lassa),
2 ( denso aumento della fibrosi) 3 ( aumento della fibrosi con comparsa di collagene). Da 0 a 2 la
fibrosi è solo reticolinica.
Nel sangue periferico possono comparire anche cellule immature che si dosano con la ricerca del marcatore
CD34 tipiche delle forme primarie e secondarie alla TE e PV, ma quelle date da linfomi dove la fibrosi
midollare è data dalla flogosi saranno CD34 negative. Le mielofibrosi inizialmente sono molto simili alla
trombocitosi essenziale. 1.3 casi su 100000, più frequente tra i 60-70 anni. Patogenesi •
Ematopoiesi inefficace •
Fibrosi REATTIVA (non neoplastica) che comporta poi anche •
Osteosclerosi e angiogenesi •
Varie citochine prodotte da vari componenti cellulari, come TFG-beta, PDGF, calmodulina,
promuovono la proliferazione fibroblastica, mentre VEGF l’angiogenesi.
- Sintomi costituzionali: la febbricola, la perdita di peso (negli ultimi sei mesi di più del 10% del peso
d’origine) e le sudorazioni notturne sono intesi come sintomi sistemici e peggiorano la prognosi. -
Splenomegalia: è la manifestazione clinica più frequente e debilitante nella MF per il suo impatto sulla
qualità di vita. La splenectomia non si fa più per l’elevato rischio di mortalità e morbilità, con una sola
eccezione: se la milza rimane molto grande nonostante la terapia, il pz è giovane e viene trapiantato di
midollo osseo da donatore, a volte viene tolta la milza prima del trapianto perché una milza troppo grande
potrebbe sequestrare le cellule trapiantante che quindi non attecchirebbero adeguatamente a livello
midollare. La splenomegalia porta ad inattività, senso di sazietà precoce, fastidio addominale, dolori e
tosse. Spesso pz avrà varie comorbilità, ciò ci porta a dover fare una terapia quanto personalizzata
possibile. Ad oggi non c’è una terapia in grado di guarire dalla MF. ➢ Nei pz giovani ad alto rischio è
possibile fare il trapianto di midollo. ➢ Possiamo dare una terapia di supporto con trasfusioni. ➢ La
splenectomia ha i limiti citati sopra. ➢ JAKi (JAK-inibitori): Ruxolitinib è stato approvato, è in grado di
ridurre le dimensioni milza nel 97% dei soggetti rispetto al gruppo di controllo trattato con Idrossiurea, ma
le risposte sono eterogenee. Questo nuovo farmaco è in grado di ridurre anche i sintomi nel 91% dei
soggetti. Recuperano peso e la capacità di camminare (il “6 minutes walking test” è ottimale), aumentano i
valori di colesterolo perché si riduce la cachessia. Inoltre, Ruxolitinib inibisce non solo jak2 ma anche jak1. È
un potente immunosoppressore (è usato nei pz covid19 in uso compassionevole in qualche caso). Adatto
anche ai pz giovani a basso rischio.
Sindrome mieloproliferativa cronica a decorso bifasico. Origina come malattia indolente in fase cronica, la
cui durata si misura in anni, in genere da 4 a 6. La fase cronica è caratterizzata dall’abnorme espansione di
un’emopoiesi clonale che è però capace di completare il processo di maturazione. Alla fase cronica segue
una leucemia acuta di tipo mieloide o linfoide. È data dal cromosoma Philadelphia cioè del risultato della
traslocazione tra i cromosomi 9 e 22 della cellula staminale totipotente. Esistono in totale tre tipi di
traslocazioni:
La proteina BCL-ABL è sempre attiva, presente soltanto nel citoplasma, in grado di fosforilare numerosi
substrati ma non è sensibile ai meccanismi di controllo quali:
Diminuzione della funzione di ABL a livello nucleare: instabilità genomica -> acquisizione di ulteriori
alterazioni genetiche più o meno critiche che predispongono alla crisi blastica.
Diagnosi •
Con le tecniche odierne, solo 1 pz su 10-25 può avere apparentemente una negatività al gene di fusione
BCL-ABL per gene occulto o altre traslocazioni.
Dipendenti dall’espansione della massa granulocita ria e piastrinica: sono legati all’espansione della
milza che comprime e disloca gli organi vicini ( tensione addominale, dolore all’ipocondrio sx,
ripienezza precoce dal pasto) ma anche infarti o emorragie sottocapsulari. Leucocitosi e piastrinosi
possono raramente determinare occlusione dei vasi retinici o dei corpi cavernosi del pene con
priapismo.
Dipendenti dall’anemizzazione quali astenia, calo ponderale, febbricola, dolori ossei e muscolari.
Il decorso della LMC è caratterizzato dal passaggio della fase cronica a quella blastica e ciò può avvenire o
con una lenta progressione ( fase accelerata) o rapidamente ( crisi blastica). Il passaggio della fase cronica a
quella accelerata si accompagna all’inattivazione di p53 e silenzia mento epigenetico ed ha una durata
mediana di 12 mesi mentre la fase balstica, della durata di 3-6 mesi, è data dalla presenza di progressivo
accorciamento dei telomeri, attivazione delle telomerasi con alterazioni cromosomiche addizionali. Per
calcolare il rischio dei pazienti ci basiamo su due sistemi:
SOKAL che valuta età, splenomegalia in cm, percentuale di blasti nel SVP e piastrine.
HASFORD che oltre ai precedenti tiene conto anche di percentuale di basofili ed eosinofili nel SVP.
Idrossiurea e busulfano usati all’inizio per ottenere una rapida riduzione dei globuli bianchi
Trapianto nel lungo termine
IFN alfa che aumenta il tempo per cercare un donatore
Inibitori di tirosin chinasi quali imatinib ma anche dasatinib, bustini e nitolinib. Hanno rivoluzionato
la prognosi, ma nonostante ciò la sospensione causa la ricomparsa delle cellule anomale.
Linfoadeniti acute in cui i linfonodi sono di consistenza aumentata, elastici, mobili e dolenti,
talvolta ricoperti da cute arrossata.
Pregresse affezioni infiammatorie in cui i linfonodi possono anche essere non dolenti. In
questo caso ci aiuta sia la semeiotica e l’ecografia, per valutare la vascolarizzazione del
linfonodo.
Linfonodi “neoplastici”: tutto ciò che è neoplastico tende ad essere duro, non dolente,
agglomerato, ridotto di mobilità ovvero linfomi e metastasi da tumori solidi.
Le linfoadenopatie possono essere:
Nel linfonodo distinguiamo la corteccia contenente i linfociti B, la zona paracorticolare con i linfociti T e la
zona midollare con le plasmacellule. Quando avviene il processo di presentazione all’antigene si hanno le
seguenti fasi:
Sono processi neoplastici che tendono a riprodurre le caratteristiche morfologiche, fenotipiche e funzionali
di una o più tappe nei processi di maturazione e trasformazione degli elementi linfoidi. Questi tipi di
linfoma nel corso della storia hanno avuto diverse classificazioni:
- Rappaport (1966): i linfomi non Hodgkin venivano suddivisi in base alla morfologia, alla
differenziazione cellulare, alla natura del tumore ed in base all'aspetto nodulare o diffuso
della neoplasia. In base a questa classificazione si distinguevano forme indolenti se
nodulari a piccole cellule e aggressivi se diffusi a larghe cellule.
- Collins and Kjel system, Riconosce la distinzione tra linfociti B e linfociti T, per il diverso tipo
di immunità mediata.
- Classificazione Working: Vi sono dieci tipi istologici principali , Per ognuno sono definiti tre
gruppi in base alla prognosi favorevole, intermedia, o sfavorevole, cui si aggiunge un
gruppo definito miscellaneo.
NOTA: Quindi considerano sia linfomi B che T non tenendo conto dell’atteggiamento molecolare, ma solo
dell’aspetto clinico. C’erano però degli elementi discordanti, ovvero il linfoma a piccoli linfociti ha
generalmente comportamento indolente ma può si evolvere in un linfoma a grandi cellule B (s. di Richter)
sia avere comportamento aggressivo in base ad alterazioni molecolari, cosi come per il linfoma mantellare
ha una variante indolente e una più aggressiva ed inoltre escludevano sia la variante a predominanza
linfocitaria del LH sia linfomi post germinal center, come il mieloma multiplo o il linfoma linfoplasmocitico.
- Real classification: nella REAL le definizioni delle sono basate sulla combinazione di caratteri
morfologici, immunofenotipici, derivanti da anomalie genetiche e riferiti al comportamento
clinico. I linfomi non-Hodgkin vengono distinti * in base al tipo cellulare B , T e NK; •In base
all’origine da precursori linfoidi o da cellule linfatiche periferiche.
- 14-18 presente nei linfomi follicolari e in una piccola quota di linfomi a grandi cellule del
gene BCL-2.
- 11-14 nei linfomi mantellari sul gene BCL-1.
- 8-14/8-22/2-8 nel linfoma di Burkitt con alterazione di c-myc.
- 2-5 linfoma a grandi cellule anaplastico.
Il linfoma si forma per processi di resistenza ad apoptosi o per iperproliferazione. L’ultima classificazione ed
attualmente usata che supera la REAL perché troppo complessa è la WHO che distingue i linfomi in cellule
Be T mature in relazione allo stadio di maturazione. Nella REAL/WHO non sono indicati gradi di malignità: i
soli criteri istologici non sono reali indicatori prognostici.
Alcuni agenti infettivi possono indurre la sintesi dei linfomi quali virus di Epstein-Barr ( linfoma di Hodking e
Burkitt), herpes virus-8, epatite B e C, helicobacter pylori ( Malt), campylobacter e chlamydia. Nei linfomi
non Hodking la diagnosi si basa su:
Una volta effettuata la diagnosi, il paziente deve essere sottoposto a differenti esami clinico-strumentali al fine di
stabilire lo stadio della malattia (cioè la sua estensione) e di individuare i fattori prognostici. Per tale motivo il
paziente sarà sottoposto a:
Esami ematochimici completi, compresi indici di flogosi (VES, Proteina C reattiva, beta2-microglobulina, ferritina,
funzionalità tiroidea, LDH);
Radiografia del torace standard in 2 proiezioni;
TC total body con mdc;
Tomografia ad emissione di positroni (PET);
Biopsia osteomidollare bilaterale (per escludere eventuale coinvolgimento del midollo osseo);
Rachicentesi diagnostica (solo nei linfomi aggressivi);
Visita ORL;
EGDS e colonscopia (solo nei casi di LNH extra-nodali
Marginali (CD20+, CD5-,CD10-): il linfoma della zona marginale si distingue in tre sottotipi quali della zona
marginale nodale, exranodale ( più frequente tra i tre) e splenico della zona marginale. La forma
extranodale è favorita dalla formazione di Malt in sedi atipiche quali lo stomaco a causa di infezioni di
H.Pylori ad esempio che induce una stimolazione immunitaria cronica nella quale i linfociti B sono
caratterizzati da proliferazione e sopravvivenza aumentata e caratterizzati da un BCR funzionante ma
mutato. La localizzazione nella milza fa si che si abbia frequente splenomegalia a margini netti induriti e alle
volte si presenta in forma leucemizzata ed in questo caso si fa diagnosi mediante il sangue periferico
evitando di fare una splenectomia. L’interessamento del midollo è frequente. I sintomi sono tardivi, alle
volte per una ripienezza post prandiale, perdita di peso. No0n presenta sintomi B. La diagnosi si fa con
sangue periferico ed esame del midollo, mentre la terapia è:
Una quota può trasformarsi in linfoma follicolare o a grandi cellule B con prognosi peggiore. La possibilità di
trasformazione dipende dai livelli di CD20, una non uniformità per presenza di cellule di diverse dimensioni,
presenza di sintomi come sudore e perdita di peso, PET elevata.
Dal centro germinativo, si distingue in tre gradi in base alle dimensioni delle cellule ( piccole,
medie e grandi) e al numero di cellule. Se grandi e numerose è detto a grandi cellule B. Tuttavia la
patogenesi è la medesima ovvero dall’alterazione di BCL2 con resistenza all’apoptosi. Si chiama
così perché sembra mantenere la struttura dei follicoli anche se sovvertiti. I soggetti saranno sani
con linfonodi aventi cellule con traslocazione 14-18 e la cellula può rimanere nel linfonodo o
uscirne e accumulare nuove mutazioni. Anche nell’ambito dello stesso paziente possiamo avere
cellule diverse e non solo quindi tra pazienti. Si notano:
- -linfoadenopatia: soprattutto linfonodi profondi. Avremo una disseminazione
prevalentemente ematica.
- -splenomegalia;
- -invasione e ostruzione di strutture quali gli ureteri e reni.
La localizzazione al midollo è frequente e indice di progressione, infatti rappresenta una forma avanzata. La
presenza dei sintomi B è indice di una trasformazione.
Diagnosi differenziale: con il mantellare include il Ki167; se alto è indice di trasformazione in linfoma a
grandi cellule B.
Diagnosi: emocromo ed esami ematochimici; esplorare la funzionalità renale perché temiamo sia la
sindrome da lisi tumorale, sia la compressione degli ureteri; pregresse infezioni virali.
Potremmo avere una gammopatia associata perché le cellule B che contengono la mutazione possono
maturare in plasmacellule e dare un clone di accompagnamento.
Possono presentarsi fenomeni autoimmuni, quali una anemia emolitica autoimmune che indaghiamo col
Combs diretto+.
Prognosi: Ci sono parametri che identificano i fattori prognostici (FLIPI 1 e FLIPI 2).
I criteri Gelf identificano chi deve iniziare il trattamento: chi ha anemia, interessamento di più stazioni
linfonodali o una bulky >7cm.
Trattamento: Stretto follow-up per capire quando trattarli. Lo schema che si segue è R-CHOP: Rituximab,
Ciclofosfamide, Doxorubicina, Vincristina e Prednisone. Dobbiamo intervenire lentamente ma
precocemente: se il linfoma è altamente sensibile si rischia una massiva lisi tumorale con aumento di K+ e
rischio di aritmie fatali, quindi si favorire l’escrezione con idratazione e allopurinolo. Inoltre si utilizzano i
PI3K inibitor, che inibiscono la proliferazione del clone favorendo l’apoptosi.
Parleremo di:
▪ Linfoma linfoblastico: se la mutazione della B naive avviene nel linfonodo e l’ha sovvertito;
▪ Leucemia linfoide acuta se avviene durante i segnali di homing e non riesce a entrare nel linfonodo;
▪ Linfoma diffuso a grandi cellule B se avviene nel centro germinativo. Ne esistono 2 tipi di diffuso con due
profili genici diversi: o Germinal center B cells (GCB)🡪 assomigliano alle cellule del centro germinativo;
quando la mutazione avviene precocemente avremo tale forma. Hanno la prognosi migliore.
o Activated B cells Like 🡪 assomigliano alle cellule che stanno per uscire dalla dark zone, se la mutazione
avviene successivamente. Prognosi pessima, andamento aggressivo, caratteristico negli anziani e non
rispondono alla chop, in generale alla CHT.
Patogenesi: Iperespressione di BCL2 e traslocazione 3-14. Possiamo anche avere mutazione di myc. In caso
di coesistenza di BCL6 e Myc parleremo di double hits; in caso della coesistenza di una terza mutazione
parleremo di triple hits e la aggressività sarà peggiore con l’aumentare delle mutazioni accumulatisi nella
cellula.
Diagnosi: esami ematochimici, valutazione di LDH, sierologia per infezioni, TC e PET e immunofenotipo
completo con ricerca delle mutazioni in caso di Ki167 >90%.
Trattamento: si trattano sempre e non necessitano di ricovero: CHT a cadenza ravvicinata, ogni 14-21
giorni. Essendo malattie sistemiche non dire mai all'esame che togliamo un linfonodo in questa patologia
perché dà compressione! Si tratta con CHT e si aspetta una riduzione delle dimensioni che avviene già nelle
prime 24h dalla prima somministrazione. Si basa su immunoterapia: stessi farmaci del linfoma follicolare,
perché tale linfoma rappresenta una sorta di continuum.
BURKITT: CD10+, 20+, CD19+.
È la versione linfomatosa della leucemia linfoide acuta, con accumulo di linfociti all’interno del linfonodo.
Presenta un peculiare aspetto a cielo stellato, per vacuoli nelle cellule, consentendo una diagnosi
morfologica.
Patogenesi: Traslocazione 8-14 con iperespressione di Myc. 🡪 aumentata proliferazione.
Non dire che la traslocazione di myc è caratteristica del Burkitt. No! Possiamo averla anche nel mieloma. La
8-14 è associata al linfoma di Burkitt.
Anche qui potremmo avere forme double o triple hitts. Clinica: Dopo poche settimane dalla traslocazione si
svilupperà una massa importante e sudorazioni profuse.
Diagnosi differenziale: col linfoma linfoblastico e per farlo dobbiamo escludere la TdT. Il Burkitt avrà CD10+,
CD20+, CD19+
Diagnosi: Tc, Pet esami ematochimici e del sangue. La puntura lombare è indicata per escludere la
localizzazione nei santuari immunologici, quando si sospetta un loro interessamento.
Trattamento: Sono altamente chemio-radiosensibili e dobbiamo fare CHT aggressiva e continua nelle 24h
per distruggere tutti i cloni neoplastici, per tale motivo è necessario il ricovero. Si utilizzano degli schemi
che sono delle modifiche del CHOP.
Possiamo anche ricorrere alla Target terapy e CAR-T.
La leucemia linfatica cronica (LLC) è una neoplasia ematologica che consiste in un accumulo di linfociti nel
sangue, nel midollo osseo e negli organi linfatici (linfonodi e milza). I linfociti sono cellule del sistema
immunitario che sorvegliano l'organismo e attivano le difese contro microorganismi o cellule tumorali. Più
comune nei maschi ed anziani, con insorgenza intorno ai 70 anni legato a stimolazione antigenica cronica
anche se non identificato. L’alterazione può avvenire:
1. Prima del centro germinativo per cui non si ha avuto il riarrangiamento VDJ delle catene pesanti per
cui sarà aggressivo dove prevale la proliferazione legate alla stimolazione antigenica cronica.
2. Dopo l’ingresso nel centro germinativo per cui si ha avuto il VDJ mutato ad andamento clinico
indolente con resistenza all’apoptosi.
La complessità di questa malattia è data dal fatto che le cellule neoplastiche hanno la caratteristica di uscire
dal linfonodo ed andare in circolo interessando più organi quali midollo e altri linfonodi, servendosi dei
classici segnali di homing linfocitario come quello di CCR7 che lega CCL19 e CCL21 per entrare nei linfonodi.
La sopravvivenza nei tessuti è garantita da BAFF, APRIL e CXCL12. Il passaggio tra i tessuti linfoidi è dato
mediante l’interazione CXCR4 e CXCL12. La maggior parte dei casi di LLC ha un decorso indolente che non
richiede trattamento e, in caso di necessità, risponde molto bene alla terapia. Esiste un sottotipo di LLC più
aggressivo e a prognosi più sfavorevole, che presenta la delezione del cromosoma 17 e/o
la mutazione del gene p53, le quali causano una resistenza alla chemioterapia. Tale sottotipo di LLC è molto
raro alla diagnosi ma aumenta con le successive ricadute per l’accumularsi di queste mutazioni. Occorre
specificare che queste mutazioni non sono ereditarie, ma acquisite, e sono proprie delle sole cellule
tumorali. In più della metà dei pazienti, la LLC viene diagnosticata per caso, nel corso di un esame del
sangue eseguito per un’altra ragione, oppure perché si nota un linfonodo ingrossato nel collo, nelle ascelle
o all'inguine. Infatti in circa due casi su tre la diagnosi avviene in uno stadio ancora senza sintomi. Il sintomo
più frequente è l'adenopatia generalizzata: i linfonodi appaiono di consistenza elastica e non sono dolorosi
al tatto; è frequente anche l'ingrossamento di milza (splenomegalia) e fegato (epatomegalia).
Con il progredire della malattia possono comparire altri sintomi comuni anche alle altre leucemie, provocati
dall'invasione del midollo osseo da parte delle cellule maligne che soppiantano le cellule ematiche normali.
Tali sintomi comprendono stanchezza, pallore e palpitazioni per via dell'anemia ed emorragie per la
riduzione delle piastrine. L'aumento dei linfociti impedisce, inoltre, la produzione nel midollo osseo delle
altre cellule di difesa: per questo i pazienti sono spesso immunodeficienti e per questo predisposti
a infezioni e sintomi come febbre non spiegata, sudorazione notturna, dolori articolari.
Circa 5 pazienti su 100 presentano anche disturbi autoimmuni, cioè producono anticorpi contro il proprio
organismo, in particolare contro le altre cellule del sangue, che vengono quindi distrutte (anemia emolitica
e piastrinopenia). Ora seguno due stadiazioni che trattano della prognosi
Stadiazione BINET (anemia e piastrinopenia che caratterizzano questa stadiazione non sono di tipo
autoimmune ma sono da infiltrato di malattia, da insufficienza midollare. Non necessita quindi di
chemioterapia ma solo immunoterapia. La chiede all’esame!)
In presenza di sintomi sospetti e di segni che fanno pensare a una possibile leucemia, il medico prescrive
come primo esame un prelievo di sangue dal quale è possibile valutare numero e aspetto delle diverse
cellule. Si sospetta una malattia leucemica se vi è una linfocitosi persistente, cioè un numero di linfociti nel
sangue superiore a 5.000/mmc che non diminuisce nel tempo; sono, però, necessari ulteriori esami per la
conferma finale. L’iter diagnostico procede con l'esame morfologico, cioè l’osservazione dello striscio di
sangue al microscopio, e l’immunofenotipo (sempre eseguito sul sangue periferico), che caratterizza le
molecole di superficie delle cellule di LLC per distinguerle dai linfociti normali e da altre forme di linfoma.
In una piccola percentuale di pazienti, il sospetto di LLC può prendere il via dal riscontro di
un'anemia (carenza di globuli rossi) o di una piastrinopenia (carenza di piastrine).
Una volta confermata la diagnosi gli esami necessari per definire lo stadio della malattia sono i seguenti:
La biopsia dei linfonodi può essere utile nei casi dubbi in cui non si riesce a formulare una diagnosi con il
solo esame del sangue. Inoltre viene eseguita di routine quando vi è un sospetto di evoluzione della LLC
verso linfoma aggressivo. Questa complicanza è più comune con le recidive successive al primo
trattamento.
Score immunofenotipico (Matute score) da fare su sangue periferico con pochi maturi per porre diagnosi
differenziale a parità di CD5 con il linfoma mantellare, se è tra 4-5 si tratta di LLC altrimenti è un linfoma
leucemizzato e si deve capire che tipo di linfoma è.
Non è necessario esame del midollo tranne che sospettiamo un linfoma aggressivo in quanto malattia
origina nel linfonodo e quindi già nel sangue periferico abbiamo le informazioni che ci interessano. RX
torace e eco addome ci permettono stadiazione ma si può comunque fare una TC con m.d.c, mentre non
fare la PET poiché è un processo indolente con resistenza ad apoptosi e quindi non è esame informativo.
NOTA: Vi sono in aggiunta molteplici fattori biologici che sono in grado di definire meglio la prognosi e la
risposta ai trattamenti, integrandosi con la stadiazione clinica:
- la presenza di delezioni, cioè la mancanza di una parte dei cromosomi, evidenziate dalla
tecnica FISH: delezione 13q, delezione 11p, delezione 17p, trisomia 12;
- le mutazioni a carico del gene p53, valutate mediante sequenziamento Sanger;
- l’analisi del riarrangiamento dei geni delle catene pesanti delle immunoglobuline,
valutato mediante PCR.
Esistono quindi due tipi di LLC: 1) ad alto rischio quella non mutata con alterazione molecolare prima di
entrare nel centro germinativo con iperespressione del CD38. 2) a basso rischio con VDJ mutato.
In entrambi i casi la mutazione di p53 aggrava prognosi, indica resistenza ad alchilanti e di norma si ha in
stati avanzati di malattia e nelle forme non mutate.
Primo Esame da fare è lo stato mutazionale del VDJ, poi ogni qualvolta si inizia nuova linea di terapia è la
mutazione di p53 per vedere se ci sono nuove mutazioni e perché questi pz non rispondono agli alchilanti
ma rispondono ad immunoterapia con ibrutinib.
La leucemia linfatica cronica è una malattia a crescita lenta e di conseguenza, una volta effettuata
la stadiazione, non è detto che tutti i pazienti debbano essere subito sottoposti alle terapie. In molti casi il
trattamento inizia solo quando la malattia diventa sintomatica, adottando la tecnica del "wait and watch"
(cioè si aspetta e nel frattempo si effettuano controlli periodici dell'andamento della malattia).
- il tempo di raddoppiamento del numero dei linfociti (indice della rapidità di diffusione
della malattia) in tempo minore a 6 mesi (valido come unico criterio solo in caso di
linfocitosi basale > 30000)
- presenza di anemia (emoglobina < 10) o piastrinopenia (< 100000)
- presenza di linfadenopatie > 10 cm o linfonodi che crescono rapidamente
- presenza di splenomegalia sintomatica o progressiva
- presenza di sintomi B quali febbre > 38°C, sudorazioni profuse notturne, calo di peso >
10kg in 6 mesi
- presenza di infezioni recidivanti
- presenza di anemia emolitica non responsiva al cortisone.
Si sottolinea che il valore assoluto dei linfociti non rappresenta da solo un criterio sufficiente per iniziare la
terapia, anche quando i linfociti raggiungono valori molto alti. Ciò che conta è la rapidità con cui i linfociti
aumentano. Una volta deciso che occorre trattare la malattia, oggi vi è un ampio spettro di terapie per la
LLC. La scelta viene fatta in base all’età del paziente, alle malattie concomitanti e alle caratteristiche della
LLC. La prima linea di trattamento consiste in un anticorpo monoclonale anti CD20 associato
a chemioterapia (ovvero la cosiddetta chemioimmunoterapia). Il rituximab è l’anticorpo monoclonale più
utilizzato, ma oggi vi sono anche altri anticorpi antiCD20, quali ofatumomab e obinotuzumab, che si
possono utilizzare in combinazione alla chemioterapia.
Se vi è la presenza di delezione 17p o mutazione p53, ovvero in caso di LLC solitamente resistente alla
chemioterapia, oggi esistono nuovi farmaci molecolari efficaci. È importante pertanto definire la presenza o
meno dei fattori di rischio biologici prima di iniziare qualsiasi trattamento.
I nuovi farmaci approvati in prima linea di trattamento sono l’ibrutinib e il venetoclax (quest’ultimo in caso
di controindicazioni o non risposta a ibrutinib). Per le linee di terapie successive è possibile utilizzare anche
idelalisib. Infatti, questi farmaci possono essere anche utilizzati nei casi di LLC in recidiva in assenza di
delezione 17p o mutazione p53, in particolare in caso di recidiva precoce dopo chemio-immunoterapia. I
nuovi farmaci, agendo su un bersaglio preciso ed essendo quindi più efficaci e meno tossici, hanno
completamente cambiato la prognosi e la fattibilità delle terapie nei pazienti con LLC e si attende un loro
più ampio e precoce utilizzo nel decorso della malattia. Il loro potenziale svantaggio risiede nel dover essere
presi continuativamente, come una terapia cronica, e la mancanza di dati numerosi nel lungo termine.
Oggi il trapianto di cellule staminali allogeniche è indicato in casi selezionati di pazienti giovani con recidiva
di LLC e con caratteristiche biologiche sfavorevoli.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
Leucemia prolinfocitica: altra patologie con cui fare d.d, ed è una leucemia costitutita da una forma
immatura della cellula B ovvero il pro-linfocita. Si tratta di cellule cerebri forme con aspetto frastagliato del
nucleo con nucleoli all’interno, arresto maturativo prima di ingresso del linfonodo e prognosi infausta.
Bisogna quindi ricercare i pro linfociti che dovranno essere almeno il 55% del totale.
La leucemia a cellule capellute (in inglese hairy cell leukemia, HCL) è una rara forma di tumore del
sangue a crescita molto lenta che è causata dalla trasformazione tumorale dei linfociti B, un tipo
particolare di globuli bianchi. I linfociti B maturi normalmente difendono l'organismo dagli agenti patogeni:
da queste cellule derivano infatti le plasmacellule che producono gli anticorpi. Nella leucemia a cellule
capellute, chiamata anche tricoleucemia, i linfociti mutati, divenuti cellule tumorali, crescono
eccessivamente e si accumulano nell'organismo (specialmente nel midollo osseo e nella milza)
sostituendosi alle cellule normali del sangue. La malattia prende il nome dai tanti prolungamenti che
ricordano capelli, e che si vedono sulla superficie di queste cellule quando si esaminano gli strisci di sangue
al microscopio. Non si ha leucocitosi ma si ha pan citopenia perché cellule B producono elevata quota di
TGF beta ed inoltre determinano anche l’espressione di fibre di collagene che portano all’aspetto di cellule
capellute e deposito di fibre di collagene nel midollo.
L’HCL è una malattia piuttosto rara, rappresenta circa il 2 per cento di tutte le leucemie linfoidi.
È tipica dell'età adulta, con un'età media dei pazienti al momento della diagnosi intorno ai 55 anni, ed è
cinque volte più comune negli uomini che nelle donne. A parte l’età avanzata e il sesso maschile, non sono
ancora stati identificati con certezza altri fattori di rischio.
Tipologie
- Poiché l’HCL deriva dai linfociti B, essa può essere definita una leucemia di origine linfoide.
- L’evoluzione della malattia è lenta, perciò l’HCL viene classificata tra le leucemie croniche.
La malattia ha uno sviluppo lento e i pazienti con HCL spesso non presentano alcun sintomo per lunghi
periodi o scoprono di avere la leucemia per caso, nel corso di esami effettuati per altri motivi.
Quando presenti, i sintomi sono di solito generici, lievi e comuni ad altre malattie: stanchezza, pallore,
fiato corto, infezioni e sensazione di pienezza dell'addome dovuto all’ingrossamento di milza che è
riscontrabile nell’85 percento circa dei pazienti.
Dal momento che i fattori di rischio per l’HCL non sono certi, non è possibile definire una strategia di
prevenzione della malattia.
Nella maggior parte dei casi, il percorso che porta alla diagnosi dell’HCL inizia con il riscontro, in un prelievo
di sangue di routine, della diminuzione del numero dei globuli rossi e/o globuli bianchi e/o piastrine.
Quando si osserva un decremento nei valori di tutti gli elementi del sangue periferico, si parla
di pancitopenia. Altri pazienti arrivano, invece, a consultare il medico perché in una ecografia dell’addome
di routine è stato riscontrato un aumento delle dimensioni della milza oppure perché lamentano sintomi
legati all’anemia e/o all’ingrandimento della milza.
In caso si sospetti l’HCL, si procede a valutare al microscopio l’eventuale presenza di cellule leucemiche
"capellute" nello striscio di sangue venoso periferico.
La diagnosi si ottiene dimostrando la presenza di specifiche molecole sulla superficie delle cellule
leucemiche sia nel sangue periferico (tipizzazione immunologica) sia nel midollo
osseo (immunoistochimica della biopsia osteomidollare). Una ulteriore conferma diagnostica può venire
dalla dimostrazione della presenza della mutazione del gene BRAF (BRAF-V600E), che è piuttosto specifica
per l’HCL.
L’evoluzione è in genere molto lenta. In alcuni pazienti la malattia rimane stabile per anni.
A differenza di quanto avviene per altri tumori ematologici, non esiste un sistema standardizzato per
classificare la leucemia a seconda della gravità (stadiazione).
Con il moderno armamentario terapeutico, la sopravvivenza media dei pazienti affetti da HCL appare solo
lievemente inferiore a quella della popolazione sana della stessa età.
Per le caratteristiche di lenta progressione dell’HCL e per il suo carattere spesso asintomatico, non è sempre
necessario iniziare il trattamento subito dopo la diagnosi. È possibile, infatti, ricorrere inizialmente a una
strategia di vigile attesa, che consiste nel tenere sotto controllo la malattia con visite mediche ed esami di
laboratorio periodici (esame del sangue ed ecografia addominale). Solo dopo la comparsa dei primi
sintomi e/o il significativo decremento di uno o più dei valori delle cellule del sangue si procede con la
terapia vera e propria.
In passato l'asportazione della milza (splenectomia) tramite chirurgia era l'approccio principale. Oggi,
invece, l'intervento chirurgico si effettua solo in rare circostanze.
L’interferone-alfa si è rivelato il primo farmaco veramente efficace nei confronti dell’HCL ma attualmente è
poco utilizzato. Il trattamento di elezione per l’HCL è oggi rappresentato dalla somministrazione
di chemioterapici definiti “analoghi delle purine” (cladribina e pentostatina), che permettono di
raggiungere una remissione completa della malattia nel 95-100 per cento dei casi. Tale remissione può
durare anche per molti anni, ma nel 50 per cento dei pazienti la malattia tende a ripresentarsi con
una recidiva. L'anticorpo monoclonale rituximab (diretto contro la molecola CD20 espressa dai linfociti B)
viene solitamente utilizzato in combinazione con la chemioterapia solo nei casi in cui la malattia si ripresenti
dopo un periodo di remissione superiore a due anni. Se l’HCL non risponde agli analoghi delle purine, se
dopo la somministrazione dei chemioterapici la recidiva è precoce (entro i primi due anni dall’inizio della
remissione) e nei pazienti dalla seconda recidiva in poi, si preferisce somministrare l’inibitore dell’enzima
BRAF (vemurafenib) in combinazione con il rituximab. Tale strategia terapeutica è stata sviluppata da
ricercatori italiani con il sostegno di AIRC e permette di raggiungere una remissione completa in più del 90
per cento dei pazienti che non rispondono agli analoghi delle purine. Negli USA è disponile anche
un anticorpo anti-CD22 (moxetumomab), tuttavia i risultati sono inferiori a quelli ottenibili con
vemurafenib + rituximab.
TRATTAMENTO
Se Hb<10, piastrinopenia <100000, neutrofili<1500, oppure splenomegalia fastidiosa per il pz con
ipersplenismo e precoce sazietà.
Non si usa più IFN. Terapia molecolare anti BRAF. Ci sono anti cd20 e anti cd22.
LINFOMA DI HODKING
l’eziologia del linfoma di Hodking non è nota. Osservazioni suppongono correlazioni con EBV, ma è tuttavia
probabile chel’evento trasformante richieda altri fattori quali l’espressione della BCL-2 o della p53
contribuendo alla formazione di un clone cineticamente in vantaggio rispetto agli altri e resistente nei
confronti della sorveglianza immunitaria. Si sviluppa soprattutto tra i 15 e i 30 anni e i maschi sono più
colpiti. Nel 50% dei pz non si hanno sintomi, con al massimo una tumefazione linfonodale sopraclaveare o
laterocervicale. Nei restanti casi si hanno sintomi quali:
- Febbre o febbricola
- Sudorazioni profuse
- Calo ponderale
- Prurito sine materia.
STADIO I interessamento di un solo linfonodo o di una sola stazione linfatica (uno o più linfonodi contigui)
STADIO II interessamento di due o più stazioni linfonodali sopra o sotto il diaframma o di un linfonodo e di un
organo attiguo
STADIO III interessamento di stazioni linfonodali sopra e sotto il diaframma
STADIO IV interessamento di strutture extra-linfonodali con o senza coinvolgimento linfonodali
Ogni stadio può inoltre essere classificato come A o B. Con B si intende la presenza di sintomi sistemici (perdita di
almeno 10% del peso negli ultimi 6 mesi, febbre alta inspiegabile, sudorazioni notturne), che indicano una
prognosi più sfavorevole. Se questi sintomi non sono presenti si appone allo stadio la lettera A.
La diagnosi si basa sull’esame istologico in quanto sono presenti delle cellule peculiari dette di Reed-
Sternberg, provviste di grandi dimensioni, citoplasma ampio, acidofilo e due o più nuclei caratterizzantesi
per membrana evidente con cromatina dispersa e nucleoli acidofili. Si distinguono 4 varietà di LH:
La possibilità di guarigione è oggi elevata, specie in giovane età, con ottenimento della guarigione in circa
l’80-85% dei pazienti. Normalmente la terapia non incide sulla possibilità di avere figli ma è opportuno
proporre ai pazienti giovani, prima di iniziare le cure, la preservazione mediante congelamento del liquido
seminale nei maschi e degli ovociti o del tessuto ovarico nelle femmine. La scelta del trattamento più adatto
per il linfoma di Hodgkin dipende da fattori come lo stadio e il tipo di malattia, l'età del paziente e le
condizioni di salute generali. La terapia può essere multidisciplinare, può avvalersi cioè della collaborazione
di diversi specialisti e può prevedere l'utilizzo di diversi trattamenti in combinazione. La chirurgia non è
utilizzata se non nel momento di eseguire la biopsia, mentre vengono utilizzate la polichemioterapia e
la radioterapia da sole o in combinazione. Lo schema di polichemioterapia più impiegato al mondo è stato
sviluppato da un ricercatore italiano, Gianni Bonadonna, e si chiama ABVD (dalle iniziali dei farmaci che lo
compongono). Esistono anche schemi di terapia più aggressivi e tossici, che possono essere utilizzati
soprattutto negli stadi più avanzati. L’analisi dei pazienti che sono sopravvissuti a lungo dopo la terapia ha
consentito di valutare la tossicità a distanza delle chemio-radioterapie eseguite, con un incremento del
rischio di sviluppare problemi cardiologici o neoplasie secondarie. È per questo che oggi, allo scopo di
diminuire la tossicità a distanza, si tende a limitare il più possibile il trattamento negli stadi iniziali e, nel
contempo, a usare la radioterapia in campi e dosi sempre più ridotte. Oggi sappiamo che una PET, eseguita
dopo i primi due cicli di ABVD, assume un importantissimo valore prognostico; se risulta negativa,
proseguendo il programma terapeutico, le possibilità di guarigione sono molto alte. Nella piccola quota di
pazienti che non ottiene la guarigione con la terapia di prima linea, per resistenza alla terapia, per ricadute,
o per la presenza di una PET positiva, è possibile ricorrere a trattamenti di seconda linea e anche al
trapianto di cellule staminali, autologo (con cellule prelevate dallo stesso paziente) o allogenico (con cellule
provenienti da un donatore). I recenti progressi della ricerca hanno permesso di sviluppare diversi nuovi
farmaci biologici come il Brentuximab-Vedotin (un anticorpo che riconosce la molecola CD30 sulle cellule
malate e che veicola una tossina al loro interno distruggendole in maniera selettiva) o come i cosiddetti
inibitori di PD-1 e PD-L1. Nel caso del linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitica è invece possibile
utilizzare anticorpi anti-CD20.
- Deposito o precipitazione, quindi per la natura biochimica della proteine. Possono essere depositi
organizzati (come l’amiloidosi AL) e non o Altri depositi che appaiono solo di immunocomplessi a volte
vengono tralasciati. Vengono visitati da dermatologo, neurologo o nefrologo che prescrivono solo un
trattamento sintomatico, ma bisogna fare una terapia eradicante il clone alterato che può portare alla
risoluzione della sintomatologia
L’organo che soffre di più è il rene, per cui utile è la biopsia renale per comprendere il tipo di deposito di
proteine ma anche per riconoscere la causa in sé. L’esame midollare in genere è poco significativo. In
genere, è utile riconoscere precocemente dell’amiloidosi in quanto presenza una sintomatologia sfumata e
riuscire a riconoscerla aiuta la prognosi del pz.
NOTA: Esistono molte forme di amiloidosi, le più comuni delle quali sono la AA e la AL:
Nella AA la proteina di accumulo è definita amiloide sierica A e la patologia è legata a infiammazione cronica.
Nella forma AL si riscontrano invece depositi derivanti da frammenti delle immunoglobuline, in particolare delle loro
catene leggere.
L’amiloidosi AL è una malattia di pertinenza ematologica e si associa alla presenza di malattie linfoproliferative, in
particolare il mieloma multiplo, talvolta anche in forma pre-sintomatica o di gammopatia monoclonale di significato
incerto (detta MGUS, monoclonal gammopathy of undetermined significance).
possiamo valutare il coinvolgimento cardiaco come esame più semplice è l’ECO con valutazione del setto
interventricolare. Più precoce di questa è l’esame doppler strain o RM cardiaco. Esistono altri esami
funzionali dove possiamo marcare le proteine che può depositarsi, ma non sono disponibile in tutti i centri.
O può aiutare la scintigrafia cardiaca.
Secondo gli studi una diagnosi precoce, porta ad una sopravvivenza più lunga. Il daratumumab anticd38) in
associazione a ciclofosfamide, bortezomib e desametasone è efficace nel 90% dei pazienti con amiloidosi AL, è
ben tollerato e raddoppia la probabilità che si riesca a migliorare la funzione degli organi colpiti da questa temibile malattia.
Altra patologia è la neuropatia IGm correlata con formazione di immunocomplessi che tendono a
legare i glicolipidi o in gangliosidi e quindi causare un danno a livello della mielina . Il 50% dei casi si
presenta con tremori e che venivano classificati come parkinsonismo che non rispondevano alla terapia ma
che hanno risposto alla terapia immunosoppressiva che ad evidenziato e risolto la neuropatia IgM mediato.
Sintomatologia di sospetto: neuropatie demielinizzanti, simmetriche e distali associati a tremori proviamo a
cercare anticorpi anti MAG o contro la membrana per riconoscere la componente monoclonare.
Approccio generale per il trattamento: eradicare il piccolo clone tramite l’immunoterapia, antiCD38; oppure
andare a modificare tramite strategie immunologiche, come il trattamento con immunoglobuline che da
una risoluzione temporanea perché riduce un po' l’equilibrio tra proteine prodotta e quella in circolo. Ma
quella preferita è quella eradicante il clone associata all’immunoterapia.
I sintomi però, oltre al danno degli anticorpi, può dipendere dal numero di plasmacellule circolanti. In
questo caso i sintomi sono indicati dall’acronimo CRAB:
• C -> ipercalcemia
• R -> insufficienza renale
• A -> anemia
• B -> lesioni osteolitiche
• Esiste una sorta di diagnosi differenziale per i differenti stadi dove basta la presenza di uno sei
sintomi CRAB per identificare il mieloma multiplo
• Dal 2016 sono stati introdotti il CRAB (s) leggeri perché è molto difficile fare la differenziale tra il
mieloma smuldering e il mieloma attivo e quindi sono stati inseriti (nella tabella in alto sono quelli con la
freccia rossa tratteggiata) la % di infiltrato del midollo osseo, se superiore al 60% indirizza al mieloma
multiplo come anche la quantità di catene leggere libere > 100 (FLC). Quindi ci sono dei marcatori che
permettono di differenziare lo smuldering ad alto rischio dal mieloma multiplo attivo
Tumore del plasmoblasto o Wladestrom
La macroglobulinemia, una neoplasia non frequente della linea B-cellulare, è clinicamente più simile a un
linfoma che a un mieloma multiplo o ad altre patologie plasmacellulari. La causa è sconosciuta, sebbene
alcune mutazioni geniche siano state associate alla malattia. Gli uomini sono colpiti più delle donne; l'età
mediana è di 65 anni.
Dopo il mieloma, la macroglobulinemia è il 2o disturbo maligno più diffuso associato a una gammopatia
monoclonale. Quantità eccessive di proteine M di tipo IgM (proteina monoclonale delle immunoglobuline,
che possono essere costituite sia da catene pesanti sia da catene leggere o da un solo tipo di catena)
possono anche accumularsi in altre patologie, causando manifestazioni simili alla macroglobulinemia.
Piccole componenti monoclonali IgM sono presenti nel siero del 5% dei pazienti con linfoma non-Hodgkin a
cellule B; questa situazione viene definita linfoma macroglobulinemico. Inoltre, proteine M di tipo IgM sono
presenti occasionalmente nei pazienti con leucemia linfatica cronica o altri disturbi linfoproliferativi.
Sintomatologia
La maggior parte dei pazienti è asintomatica, ma alcuni si presentano con anemia o con i sintomi di una
sindrome da iperviscosità: affaticabilità, astenia, depositi di pelle. emorragie della cute e delle mucose,
disturbi visivi, cefalea, sintomi da neuropatia periferica e altre manifestazioni neurologiche variabili. Un
aumentato volume plasmatico può causare un'insufficienza cardiaca. Possono comparire sensibilità al
freddo, sindrome di Raynaud o infezioni batteriche ricorrenti.
L'esame obiettivo può rivelare linfoadenopatie, epatosplenomegalia e porpora (che raramente può essere
la prima manifestazione). Una notevole congestione e un restringimento localizzato delle vene retiniche,
che assomigliano a catene di salsicciotti, suggeriscono una sindrome da iperviscosità. Nelle fasi avanzate
compaiono emorragie ed essudati retinici, microaneurismi e papilledema.
Diagnosi
• Emocromo con formula con piastrine, indici eritrocitari e striscio di sangue periferico
• Elettroforesi delle proteine del siero seguita da immunofissazione di siero e urine, livelli quantitativi
di immunoglobuline e livelli sierici di catene leggere libere
• Saggio della viscosità sierica
• Esame del midollo osseo, compresi i test per mutazioni specifiche come MYD88 e CXCR4
• Talvolta biopsia linfonodale
Si sospetta una macroglobulinemia in pazienti con sintomi di iperviscosità o altri sintomi tipici,
particolarmente in presenza di anemia. Tuttavia, essa viene spesso diagnosticata incidentalmente quando
l'elettroforesi proteica rivela una proteina M che si dimostra essere un'IgM all'immunofissazione. La
valutazione laboratoristica comprende esami utilizzati per valutare le patologie plasmacellulari
(vedi Mieloma multiplo) così come il dosaggio delle crioglobuline, del fattore reumatoide e delle
crioagglutinine; studi sulla coagulazione; e test diretti di Coombs.
ESAME DI LABORATORIO
Potrebbe verificarsi una moderata anemia normocromica normocitica, con marcata formazione di rouleaux
di globuli rossi e una velocità di eritrosedimentazione estremamente elevata. Occasionalmente si
riscontrano leucopenia, linfocitosi relativa e trombocitopenia. Possono essere presenti crioglobuline,
fattore reumatoide o crioagglutinine. Se queste ultime sono presenti, il test di Coombs diretto è in genere
positivo. Possono comparire varie anomalie coagulative e della funzionalità piastrinica. Gli esami ematici di
routine possono risultare errati se sono presenti agglutinine fredde, crioglobulinemia o iperviscosità
marcata. Le immunoglobuline normali sono ridotte nella metà dei pazienti.
L'elettroforesi con immunofissazione dell'urina concentrata mostra spesso la presenza di una catena
leggera monoclonale (più spesso kappa [κ]), ma una proteinuria di Bence-Jones macroscopica è
infrequente. Gli studi del midollo osseo mostrano un aumento variabile di plasmacellule, linfociti, elementi
linfo-plasmocitoidi e mastociti. Nelle cellule linfoidi può essere presente materiale positivo all'acido
periodico di Schiff. La biopsia linfonodale, eseguita se l'esame midollare è normale, è spesso interpretata
come un linfoma diffuso ben differenziato o linfoma linfo-plasmocitico. La viscosità ematica viene misurata
per confermare una sospetta iperviscosità ed è solitamente > 4,0 (normale, da 1,4 a 1,8 milliPascal-
secondo).
Trattamento
Altri farmaci, tra cui gli inibitori del proteasoma (bortezomib o carfilzomib) e gli agenti
immunomodulatori (talidomide, pomalidomide, o lenalidomide), gli inibitori della tirosin-chinasi di
Bruton (p. es., l'ibrutinib) da soli o in combinazione con il rituximab, gli inibitori di fosfoinositide 3-
kinasi (PI3) (p. es., l'idelasib), o un inibitore del bersaglio della rapamicina nei mammiferi (mTOR
[mammalian target of rapamycin]) (p. es., l'everolimus)
Il decorso è variabile, con una sopravvivenza mediana di 7-10 anni. Un'età > 60 anni, la presenza di anemia
e crioglobulinemia sono predittori di una sopravvivenza più breve (per la revisione, vedi [1, 2]).
Spesso i pazienti non necessitano di trattamento per molti anni (1). Se è presente iperviscosità, il
trattamento iniziale è la plasmaferesi (scambi plasmatici), che fa regredire rapidamente i sanguinamenti e
le alterazioni neurologiche. La plasmaferesi (scambi plasmatici) spesso deve essere ripetuta.
L'uso dei corticosteroidi può essere efficace nel ridurre il carico tumorale. Il trattamento con alchilanti orali
può essere indicato a scopo palliativo, ma può comportare tossicità midollare. Gli analoghi nucleosidici
(fludarabina e 2-clorodeossiadenosina) inducono una risposta in buona parte dei casi di nuova diagnosi, ma
sono stati associati a un elevato rischio di mielodisplasia e di leucemia mieloide.
Il rituximab può ridurre la massa tumorale senza sopprimere la normale emopoiesi. Tuttavia, durante i
primi mesi, i livelli di IgM possono aumentare, richiedendo plasmaferesi (scambi plasmatici). La
combinazione di questo anticorpo monoclonale con la bendamustina è altamente efficace.
Gli inibitori del proteasoma bortezomib o carfilzomib e gli agenti immunomodulanti, talidomide e
lenalidomide e pomalidomide, sono efficaci anche in questo tipo di tumore.
SMM
Il mieloma multiplo è una malattia neoplastica caratterizzata dalla proliferazione e accumulo di linfociti B e
di plasmacellule sintetizzanti Immunoglobuline monoclonali. Rappresenta circa l’1-2% dei tumori con età
media d’insorgenza a 65 anni ed è molto frequente tra gli afroamericani. In base all’epidemiologia, sembra
essere predisposto in soggetti che hanno avuto infezioni avvenute da bambini. Il passaggio da MGUS a MM
può richiedere 10-20 anni con percentuale dell’1% ad anno per i primi 10 anni mentre lo sMM progredisce
del 10% ogni anno ma non sempre è così. Fattori di rischio sono:
Familiarità
Razza afroamericana
Radiazioni
Malattie infiammatorie croniche
Agenti agricoli tossici/benzene e metalli pesanti
La mutazione coinvolge la cellule B matura che ha superato il centro germinativo intenta a divenire
plasmacellule. Le plasmacellule hanno lo scopo di produrre anticorpi che potranno riconoscere l’antigene
ma nel mieloma multiplo vengono prodotti anticorpi non funzionali. In base a ciò esistono alcune tipologie
di MM:
Dal punto di vista della gestione clinica del pz, una cosa è la quantità di plasmacellule neoplastiche ovunque
esse siano ed una cosa è il loro biomarcatore (CM) che nella maggior parte dei pazienti è direttamente
proporzionale al burden di plasmacellule neoplastiche ma non è sempre così quindi valutare sempre sia al
momento della diagnosi sia al momento della valutazione sia il burden tumorale (quante plasmacellule ci
sono nel midollo) e quanta componente monoclonale (CM) c’è. Una parte dei sintomi, così come nei MGUS,
è dovuta all’infiltrazione plasmacellulare ed una parte è dovuta a tipo e quantità della proteina prodotta.
Importante ricordare anche che la plasmacellula neoplastica HA UNO STRETTO RAPPORTO CON
MICROAMBIENTE E CON LE CELLULE STROMALI. All’interno del microambiente è molto importante
l’interazione tra osteblasto ed osteoclasto; normalmente sono in equilibrio tra loro e questo fa parte del
normale meccanismo di rimaneggiamento osseo (via RANK e RANK-L:RANK-L prodotto dall’osteoblasto
viene segnalato dal recettore RANK nell’osteoclasto per impedirne l’eccessiva crescita ossea ed attività
disfunzionale. MM ha bisogno di avere dei rapporti stretti con la nicchia osteomidollare (per vincere la
competizione con le plasmacellule normali) perciò deve farsi spazio: nel farsi spazio le plasmacellule
normali producono interleuchine (IL-6 e RANK-L) per favorire l’attività osteclastica e ridurre l’osteoblastica.
Ne deriva uno sbilanciamento di quantità ed attività di osteoblasti ed osteoclasti che porterà alla comparsa
di quadri che sono tipici di questa malattia ovvero le LESIONI OSTEOLITICHE. Gli elementi scheletrici
associati sono devastanti e sono uno dei sintomi principali della malattia, il pz è gravemente sofferente, il
dolore è intenso tanto quanto quello della lesione metastatica ossea del tumore a mammella e polmone.
Sono spesso ossa molto fragili che tendono a fratturarsi spontaneamente e questo provoca sia dolore per la
frattura che per l’infiltrazione ossea, dolore che già dopo 1 o 2 mesi sotto terapia si ha già una riduzione di
almeno il 50% delle plasmacellule neoplastiche i pz hanno immediatamente sollievo dalla terapia. Le
citochine più importanti che guidano spesso i sintomi sistemici sono IL-6 (la più importante), poi abbiamo
VEGF e TGF-beta associati questi ultimi al rimodellamento osseo. Ricapitolando: l’espansione delle
plasmacellule neoplastiche si associa a ridotta attività osteoblastica ed aumentata attività osteoclastica.
Questo spiega anche perché rimuovendo le cellule neoplastiche non necessariamente si risolve il danno
creato, almeno inizialmente, dal disequilibrio indotto tra osteoblasti ed osteoclasti. Per questo motivo
esiste un disaccoppiamento tra la malattia ossea del MM e la malattia midollare (alcuni pazienti non hanno
plasmacellule neoplastiche ma hanno ancora lesioni osteolitiche, per cui la loro terapia di supporto deve
prevedere non soltanto la prevenzione di fratture patologiche ma anche il riparo delle aree di osteolisi e
questo avviene in pz già di per loro fragili in funzione dell’età, quindi in alcuni casi già osteoporotici, o
dell’infiammazione (osteoartrosici che può creare confusione con i sintomi della malattia).
Le manifestazioni cliniche del MM sono, Alcune legate alla proliferazione delle plasmacellule neoplastiche
che porta
-Anemia
-Pancitopenia se associata a mielodisplasia
-Danno osseo
-Ipercalcemia -
Anoressia, cachessia (correlate al rilascio di IL-6)
-Insufficienza renale -
Iperviscosità -
ipoalbuminemia -
Sintomi neurologici
3) Immunodeficienza con - aumentato rischio infettivo e aumentato rischio autoimmune (sia anemia
emolitica relativamente rara e soprattutto la sindrome di von Willebrand acquisita dovuta allo sviluppo di
anticorpi diretti contro fattori della coaugulazione ad esempio contro il fattore XIII°).
Ricordiamo gli esami da richiedere per inquadrare correttamente il pz. - Esame del midollo con FISH è
necessario alla diagnosi così come al completamento di ogni linea di terapia ed alla ricomparsa di malattia,
includendo la morfologia, quantità di cellule neoplastiche e la loro valutazione genetica. Usiamo la FIHS e
non la citogenetica convenzionale in quanto le plasmacellule si duplicano molto lentamente (quelle
neoplastiche) o non si dividono (quelle fisiologiche), e proprio quelle neoplastiche nel farlo lentamente in
coltura proliferano molto poco determinando un insuccesso della citogenetica nel MM. Invece la FISH va a
marcare le alterazioni d’interesse (quali ad esempio delezione del 17). NB anche alterazioni a carico del
cromosoma 1 sono correlate ad una prognosi peggiore. -Esami sul sangue periferico precedentemente
visto. -Esame sulle urine. -Imaging per studiare il quadro della malattia ossea.
Possiamo fare una Radiografia delle ossa piatte, sede di midollo emopoietico (cranio, vertebre, bacino ed
ossa lunghe). Possiamo fare anche una radiografia dello scheletro ma così facendo si evidenziano lesioni
solo quando la massa ossea è ridotta di almeno il 50% quindi tardivamente. Possibile sottostima delle
lesioni per incapacità di identificare le lesioni piccole e basso potere risolutivo nella colonna vertebrale.
Nel caso del MM l’uso della PET è un po' controverso perché le plasmacellule neoplastiche non sono
uniformi dal punto di vista metabolico per cui non tutte le lesioni da MM sono captanti alla PET. Al
momento utilizziamo maggiormente l’uptake di glucosio marcato con FDG (il tracciante più importante).
Utile per valutare la qualità della risposta ottenuta e soprattutto per valutare sia in diagnosi che in followup
lo stato delle malattie extramidollari e paramidollari.
Alcuni casi piuttosto rari, che prendono il nome di PLASMOCITOMA SOLITARIO, in cui lo sviluppo della
malattia è o interamente midollare o interamente paraosseo. Questo è importante in quanto esclusa ad
esempio la localizzazione midollare o segni su siero (o urine) e se quella è l’unica localizzazione è possibile
trattarla con sola radioterapia a 50 Gray con prognosi eccellente e bassi tassi di ricaduta. In altre condizioni
il plasmocitoma si può associare a malattia sistemica stadiata con l’ISS, in questo caso non modifica la
prognosi ma potrebbe rendere la malattia più aggressiva la presenza di malattia extramidollare. Negli anni
è molto migliorata la prognosi da MM, oggi la sopravvivenza è triplicata (8-9 anni); è per oltre il 70% dei pz
una malattia non guaribile ma tende a CRONICIZZARE (secondo gli europei, secondo gli americani invece è
una patologia guaribile solo per il 30%, quindi a loro avviso stiamo andando verso una cura. I pazienti con
mieloma indolente, in cui il tumore non cresce attivamente e velocemente e non causa danni a ossa o altri
organi, in genere non vengono sottoposti a trattamento, ma solo ad attenta osservazione.
Per il trattamento dei pazienti con mieloma multiplo sintomatico, ossia che presentano segni di malattia
attiva, si utilizzano diverse classi di farmaci. Ai chemioterapici classici (melfalan, prednisone, ciclofosfamide,
vincristina, doxorubicina), in anni più recenti si sono aggiunti gli inibitori del proteasoma (bortezomib e
carfilzomib) e la talidomide e suoi derivati (lenalidomide, pomalidomide). Per i pazienti con mieloma
multiplo refrattario (che non risponde ai trattamenti standard) o ricorrente si utilizzano anche terapie più
innovative, nello specifico anticorpi monoclonali (elotuzumab, isatuximab, daratumumab) che stimolano
l’eliminazione delle cellule tumorali da parte del sistema immunitario. In genere si impiegano combinazioni
dei vari farmaci, talvolta somministrati assieme al desametasone, un corticosteroide.
Nei pazienti con meno di 70 anni che non presentano problemi cardiaci, polmonari o epatici o altre
controindicazioni possono essere usati trattamenti più intensi associati al trapianto di cellule staminali
ematopoietiche. Il trapianto serve a ripristinare il sistema ematopoietico, responsabile della produzione
delle cellule del sangue, danneggiato dalle terapie ad alte dosi. Le cellule staminali ematopoietiche vengono
prelevate dal sangue o dal midollo del paziente stesso (trapianto autologo o autotrapianto) o di un
donatore compatibile (trapianto allogenico o allotrapianto) e poi infuse nel paziente dopo il trattamento
farmacologico.
Nel caso di trapianto autologo il rischio che la malattia si ripresenti è piuttosto elevato, mentre nel caso
dell'allotrapianto tale rischio diminuisce. Di contro, con quest'ultima tecnica la mortalità, per via dei
fenomeni di rigetto, è assai più alta di quella che si registra in caso di autotrapianto.
Nel trattamento del mieloma multiplo la radioterapia e la chirurgia sono riservate a casi particolari, mentre
hanno un ruolo importante le terapie di supporto, come l’uso di fattori di crescita, per stimolare la
produzione dei globuli rossi e dei globuli bianchi, e di bifosfonati per contrastare il danno osseo
Ricordiamo una delle emergenze a cui il MM può educarci ovvero la SINDROME IPERCALCEMICA: Nel 30-
40% dei MM (specialmente all’esordio in pazienti andati incontro a frattura spontanea) il pz può presentare
ipercalcemia. Ricordiamo che i valori di calcemia devono essere sempre corretti con i VALORI DI ALBUMINA
mediante una formula . L’ipercalcemia in quanto disturbo elettrolitico presenta una modifica elettrolitica
percepita a livello centrale con obnubilamento del sensorio, nausea, vomito ed astenia quindi mai
sottovalutare questi sintomi apparentemente aspecifici. La terapia→consiste nell’allontanare il calcio il più
velocemente possibile, idratare bene il paziente ed usare il cortisone che è un farmaco piuttosto potente
per ridurre sia il quadro infiammatorio che il dolore che riferisce il pz, il cortisone che viene utilizzato
maggiormente è il DESAMETASONE che funziona ad alte dosi (40 mg al gg per 4 gg) controllando malattia
(con effetto apoptotico sulle plasmacellule), dolore, nausea e vomito.
L’incidenza è elevata: 4-5 nuovi casi/100.000 abitanti/annui, numeri che sono in crescita. Più o meno gli
stessi numeri li ritroviamo nella leucemia linfatica cronica, che è la leucemia più frequente nel mondo
occidentale.
L’età media è alta (>60 anni, con mediana tra 65-70 anni), lieve prevalenza nel sesso M (55% circa).
Il motivo per cui stanno aumentando tali patologie è direttamente correlato all’invecchiamento della
popolazione.
Dobbiamo distinguere le MDS da:
• ▪ Condizioni non clonali associate a emopoiesi displastica: o Condizioni di carenza, quali: anemie
megaloblastiche (B12 - ac. Folico);
• o alcolismo;
• o recenti terapie, come chemioterapia (CT) e radioterapia (RT);
• o infezioni, in particolare da HIV e parvovirus B19, quest’ultimo determina una eritroblastopenia
selettiva, cioè i soggetti producono un normale numero di globuli bianchi e piastrine, ma sono fortemente
anemici.
•
• ▪ Altre malattie ematologiche, per lo più clonali: o Sindromi mieloproliferative croniche;
• o Aplasia midollare;
• o Emoglobinuria parossistica notturna (EPN);
• o T-LGL, condizione rara in cui c’è una iperproliferazione di linfociti granulari T che producono
citochine infiammatorie che bloccano la produzione midollare e che nelle fasi iniziali può essere scambiata
per MDS. La diagnosi differenziale (DD) si effettua con biopsia ossea dove si ritrova un infiltrato di linfociti T
clonali.
•
Abbiamo delle sovrapposizioni cliniche delle caratteristiche delle MDS con altre patologie, specialmente
con: leucemia mieloide acuta (AML) - le MDS presentano un rischio di “passaggio” a tale patologia - e
anemia aplastica (AA), in cui dal punto di vista istologico si ritrova questo midollo “vuoto”; tale patologia è,
però, su base immunitaria.
MIELODISPLASIE
Sono caratterizzate da anomalie quantitative: citopenie periferiche che possono essere pan-, bi- o mono-
lineari.
▪Anemia (principalmente), divisa in base al valore di: - MCV: normale (~60%); aumentato (~40%);
diminuito (raro);
- RDW: quasi sempre aumentato, poiché la curva di distribuzione della dimensione dei globuli rossi (RBC) è
allargata. Sostanzialmente ci sono due popolazioni di RBC, una con MCV normale e l’altra con MCV
aumentato.
- Reticolociti: sono normali o poco aumentati per lo scarso compenso da parte del midollo e della
produzione midollare un po’ bloccata. Non vediamo mai reticolocitosi.
▪Leucopenia: essenzialmente è più una neutropenia, sono rari gli aumenti di eosinofili e basofili.
Raramente è possibile osservare una leucocitosi con monocitosi.
▪Piastrinopenia, in cui troviamo:
La differenza tra MDS ad alto rischio e AML è data dalla percentuale di blasti, con un cut-off del 20%.
Il rischio di passaggio da MDS a AML è possibile se i danni al DNA portano a un’evoluzione genetica in senso
peggiorativo e se i processi apoptotici si riducono, conducendo a un accumulo di blasti.
• o Aumento della suscettibilità alle infezioni, poiché i neutrofili, pur essendo aumentati, sono
disfunzionali;
• o Aumento dell’incidenza di neoplasie maligne; ciò ci fa pensare che sia ridotto il controllo
immunologico che il nostro organismo esercita sulla nascita di nuove neoplasie;
• ▪ Biologici, ovvero un difetto della funzionalità del sistema immunitario: o Disfunzioni dei linfociti
T/B/NK;
Esiste una teoria che sostiene che le MDS hanno una patogenesi su base autoimmune primaria e che solo
successivamente possano comparire le alterazioni genetiche. In realtà non si sa quale dei due processi
insorge prima nei singoli pazienti.
In queste cellule staminali, i danni al DNA possono portare ad alterazioni delle molecole di adesioni presenti
nella nicchia, ma anche a produzione di citochine e fattori di crescita, sia da parte della cellula neoplastica
sia dello stroma alterato, le quali possono favorire l’angiogenesi e avere anche un’attività autocrina o
paracrina sullo stesso clone neoplastico. Sono tanti i meccanismi che concorrono o possono concorrere
all’ematopoiesi inefficace.
Il modello patogenetico di MDS che va per la maggiore è quello secondo la quale ci sia una cellula staminale
emopoietica mielodisplastica in cui si ha un evento che scatena il tutto, quale: un’esposizione a prodotti
tossici, a CT o RT, ma anche una suscettibilità genetica (nelle forme ereditarie e non solo) che di solito va ad
impattare sulla ridotta capacità di riparare il DNA o di detossificare delle sostanze. Si passa poi ad una fase
precoce della MDS dove i cloni neoplastici sono difficilmente evidenziabili a livello periferico e il pz
raramente arriva all’attenzione dell’ematologo in tale fase; possiamo però avere un’ulteriore instabilità
genetica che causa l’accumulo di ulteriori danni genetici. A ciò fa seguito la fase avanzata, con riduzione
dell’apoptosi e un aumento della proliferazione del clone neoplastico (MDS ad alto rischio). I pz con MDS
hanno una storia naturale altamente variabile, ci sono, infatti, soggetti che riscontriamo nelle prime fasi con
patologia a basso rischio, che possono evolvere in patologia ad alto rischio, o pazienti che vengono
all’attenzione dell’ematologo già con patologia ad alto rischio.
▪ Evoluzione in AML.
Non abbiamo terapie farmacologiche in grado di guarire questi pazienti se non il trapianto di
midollo osseo allogenico, che, però, non è sempre praticabile vista l’età avanzata del soggetto,
nella maggior parte dei casi. Al momento della diagnosi si riscontrano:
▪Anemia è la condizione più frequente (90%; Hb<12 gr/dL); normocitica o lievemente macrocitica con
reticolociti non aumentati.
▪Neutropenia (<1800/μL; 25-40%), con neutrofili ipogranulati e mieloblasti circolanti.
▪Piastrinopenia (20-40%; <100.000/μL).
• Astenia
• Dispnea
• Fabbisogno di ferro
• Porpora, ecchimosi
• Ematomi ed epistassi
CLASSIFICAZIONI
Nel tempo sono state create delle classificazioni come la FAB, tramite la quale si cercò di dividere le MDS in
basso ed alto rischio in base al numero di blasti.
Il problema di tale classificazione è che era molto focalizzata sull’anemia e quindi non andava a considerare
varie condizioni di tale sindrome (MDS con fibrosi midollare, MDS ipocellulare, MDS con trombocitopenia
e/o neutropenia in assenza di anemia, MDS in età pediatrica). Inoltre, la classificazione FAB non considera
la citogenetica (per motivi storici).
È stata quindi generata la nuova classificazione della WHO: Si parla di mielodisplasia quando i blasti sono
<20%, addirittura si è pensato di ridurre tale cut-off al 10% per la diversa prognosi dei pazienti con
percentuale dei blasti ai due lati di tale valore, rispettivamente RAEB-1 (<10%) e RAEB-2 (>10%).
Sono state studiate le alterazioni cromosomiche negli adulti con MDS primaria. Di particolare interesse
sono le mutazioni del cromosoma 7 (a prognosi peggiore), 5, di entrambi contemporaneamente, del
cromosoma 11, del cromosoma Y (soprattutto nei soggetti anziani).
Le percentuali di queste mutazioni cambiano tra le mielodisplasie primarie e secondarie. In queste
ultime prevalgono quelle a prognosi peggiore, come quelle a carico dei cromosomi 5 e 7 (circa il
75% rispetto al 20% delle primarie); ciò spiegherebbe la peggiore prognosi delle MDS secondarie.
Tutto ciò è stato inserito in uno score prognostico (IPSS) al fine di andare a collocare il paziente in una fascia
a basso rischio o ad alto rischio.
Circa il 70% dei pazienti sono a basso rischio, mentre il 30% ad alto rischio.
Le curve di sopravvivenza e di rischio di trasformazione in AML sono importanti per quanto riguarda la
scelta dell’intensità del trattamento.
Il problema della sopravvivenza è correlato all’età di questi pz, che solitamente sono di età avanzata. È
stato visto che ci sono grandi differenze prognostiche, soprattutto per i pazienti a basso rischio, le quali si
mitigano parecchio nei pz ad alto rischio.
I problemi nei soggetti con età più avanzata sono dati anche dalle comorbidità presenti nei pazienti con
MDS. Tra le più comuni troviamo problematiche:
• • Cardiologiche;
• • Endocrinologiche (diabete);
• • Respiratorie (dispnea, polmoniti);
• • Infezioni ricorrenti;
Tutto ciò impatta, oltre che sulla qualità di vita, anche sulla possibilità di cura e terapia. A tal
proposito è stato istituito l’MDS comorbility index, per cercare di capire l’aspettativa di vita di tali
pazienti alla luce delle comorbidità associate. Assegnando un punteggio alle varie comorbidità, i pazienti
vengono suddivisi in tre fasce di rischio:
• • Basso;
• • Intermedio;
• • Alto.
Nel frattempo, si è andati avanti con le tecniche strumentali quali la citogenetica fino a porre delle
categorie prognostiche diversificate in base alle mutazioni cromosomiche ritrovate nei pazienti. Spesso,
però, le alterazioni non si ritrovano isolate, ma possono associarsi ad una o più mutazioni (in quest’ultimo
caso sono dette “complesse”).
Sono stati divisi 5 gruppi di rischio che hanno permesso di perfezionare l’IPSS-R (R=revised). In
questi nuovi score prognostici sono state inserite le alterazioni citogenetiche; il cut-off dell’Hb è rimasto
uguale; è stato però abbassato il cut-off dei globuli bianchi da 1800 a 800/μL, sotto tale valore la prognosi è
considerata sfavorevole;
il cut-off delle piastrine è 100.000/μL.
Si distinguono 5 gruppi sia per sopravvivenza che per rischio di trasformazione in leucemia acuta.
Oltre alla citogenetica, si sta tentando di valutare le mutazioni attraverso test di biologia molecolare. Oggi,
la metodica che va per la maggiore è una metodica di next generation sequencing, in cui tutto l’intero
genoma viene sequenziato e si riescono a valutare mutazioni a carico di numerosi geni, anche
contemporaneamente. Quindi, unendo le valutazioni molecolari e citogenetiche abbiamo ancor più
informazioni prognostiche.
Spesso le mutazioni più frequenti delle MDS sono mutuamente esclusive. Inoltre, si è visto che le
mielodisplasie con cariotipo complesso (che si associano a prognosi peggiore) presentano mutazioni a
carico di TP53.
Le mutazioni di TP53 nell’IPSS-R sono, infatti, associate ai soggetti con MDS ad alto rischio; solo raramente
alle forme a basso o intermedio rischio.
Nei pazienti a basso rischio, invece, si ritrovano altre mutazioni, quali: EZH2, ETV6, RUNX1, ASXL1.
La presenza di almeno una di queste mutazioni fa peggiorare di una classe il rischio prognostico dei
pazienti. Diventa, allora, importante conoscere la presenza di tali mutazioni, al fine di trattare sin da subito
con una terapia più intensa e mirata questi pazienti.
TERAPIA
Per quanto concerne la terapia, bisogna distinguere i pazienti in base al rischio.
Nei pazienti a basso rischio l’obiettivo è il miglioramento dell’ematopoiesi e della qualità di vita, tramite:
• • Watch and wait, cioè vedere come evolve la malattia nei soggetti asintomatici effettuando
eventualmente una terapia di supporto. Questo perché la storia clinica dei pazienti è più spesso influenzata
dalla loro età e dalle comorbidità; inoltre, spesso occorre migliorare la qualità di vita, agendo sulla
sintomatologia, più che perseguire gli obiettivi di risposta terapeutica.
• • Eritropoietina;
• • Trasfusioni RBC concentrati + chelanti del ferro, nei soggetti che non rispondono all’EPO;
• • Lenalidomide, nei pazienti con mutazioni 5q- (delezione braccio lungo cromosoma 5);
Nei pazienti ad alto rischio, invece, la terapia ha l’obiettivo di ritardare l’evoluzione in leucemia mieloide
acuta (AML), con l’utilizzo di:
• • Agenti ipometilanti;
• • Chemioterapia, come per le AML;
• • Trapianto di midollo osseo allogenico.
L’incidenza dell’anemia tra i pazienti con MDS è circa 87% (di cui il 37% con Hb≥10gr/dL - anemia lieve - e il
50% con Hb<10gr/dL – anemia moderato-grave).
NB: bisogna ricordare che con valori Hb<10.5 gr/dL si ha l’inizio del processo di rimodellamento cardiaco,
reversibile se si corregge l’anemia.
Trattamento anemie:
Trasfusioni; l’80% dei pazienti con MDS necessita prima o poi di tale trattamento. Il tipo di
emocomponente trasfuso è solitamente costituito da emazie concentrate standard (bisogna filtrare o
irradiare le sacche se i pazienti sono futuri candidabili a trapianto, al fine di azzerare il rischio di trasfondere
CMV al paziente); possono anche essere trasfuse le piastrine quando la conta piastrinica è <10.000/mmc o
20.000/mmc se è presente un’emorragia in atto o se necessita o ha in programma l’esecuzione di
procedure invasive (in tal caso la trasfusione va fatta in prossimità della procedura, avendo le piastrine
trasfuse una durata funzionale di 1-2 giorni).
È importante la valutazione dei sintomi per decidere quando cominciare la trasfusione.
Trasfusioni multiple possono portare a complicanze, quali: reazioni anafilattiche e sovraccarico di ferro.
Questo si verifica una volta che viene raggiunta la saturazione della transferrina, a ciò consegue che il ferro
non legato alla transferrina (NTBI) si va ad accumulare a livello di epatociti, ghiandole endocrine (ipofisi,
pancreas, gonadi, tiroide), midollo osseo e cardiomiociti.
Nelle mielodisplasie si hanno 3 meccanismi di sovraccarico di ferro: eritropoiesi inefficace, trasfusioni e
blocco iatrogeno dell’emopoiesi. Alti livelli di ferro in circolo, oltre ad accumularsi negli organi bersaglio,
portano ad aumento dei ROS, che causano instabilità genomica, la quale può anche favorire lo switch a
MDS ad alto rischio.
Un marker del carico di ferro nell’organismo è la ferritina, ma essa si presenta spesso aumentata nei
pazienti già alla diagnosi a causa dello stato infiammatorio presente. Ovviamente all’aumentare delle
sacche trasfuse aumentano anche i livelli di ferritina.
Sono stati calcolati degli score prognostici di sopravvivenza standardizzati sul numero di sacche trasfuse/4
settimane.
Le cause della morte dei pazienti con MDS sono dovute a 4 motivi principali:
▪ insufficienza cardiaca (51%);
▪ infezioni (31%), legate alle citopenie;
▪ emorragie (8%); legate a sovraccarico di ferro.
▪ cirrosi epatica (8%).
Nelle MDS vi sono mutazioni di geni (SF3B1) che codificano per proteine coinvolte nel processo di splicing e
si pensa che in futuro possano esserci farmaci target per tali mutazioni. Sono presenti anche mutazioni che
intervengono nei processi di metilazione cellulare. Nelle MDS è infatti importante anche il profilo
epigenetico, primo fra tutti lo stato di metilazione del DNA. Fisiologicamente la metilazione avviene a livello
di isole dette CpG, da parte di enzimi HMT (istone metil-transferasi) e DNMT (DNA metil-trasferasi). Se un
gene deve essere trascritto, si trova senza gruppi metilici legati alle isole CpG e con gruppi acetilici legati agli
istoni. Se, invece, il gene non deve essere trascritto si hanno i gruppi metilici su CpG con conseguente
compattazione della cromatina, che diventa inaccessibile alla DNA-pol.
Nei soggetti normali la metilazione avviene soprattutto in zone che si trovano al 3’ di geni, mentre la zona
del promotore e le zone iniziali dell’esone, dove si legano i fattori di trascrizione, non sono metilate.
Nel soggetto con MDS, vi è un’ipermetilazione delle isole CpG che non permette la trascrizione da parte
della DNA-pol sia dei geni che normalmente non vengono trascritti, ma anche a carico di quei geni che
fisiologicamente vengono trascritti. Questo avviene per un eccessivo reclutamento di DNMT e HDAC (istone
deacetilasi) che portano quindi al silenziamento genico.
Farmaci utilizzati sono gli analoghi citosinici ipometilanti, che sono inibitori di DNMT e causano
demetilazione portando ad una derepressione genica (gli inibitori di HDAC non sono più utilizzati).
Anemia aplastica
È una condizione di ipocellularità midollare che può essere secondaria a:
▪ Terapia citotossica (CT o RT);
▪ esposizione a prodotti chimici, quale il benzene, il cloramfenicolo;
▪ virus epatitici (di solito temporaneamente);
▪ sindromi autoimmuni;
▪ malattia di rigetto del trapianto;
▪ MDS;
▪ condizione di emoglobinuria parossistica notturna.
Una normale cellularità midollare nell’adulto, valutata tramite biopsia midollare è intorno al 30-40%,
mentre nelle condizioni di aplasia il patologo può riscontrare quadri di cellularità <10%.
Essendo una condizione molto spesso legata a problemi autoimmunitari, sono utilizzati farmaci
immunosoppressivi, che presentano una curva di sopravvivenza solo leggermente inferiore rispetto al
trapianto di midollo, il quale è preso in considerazione come prima linea nel soggetto giovane, soprattutto
se sono presenti familiari HLA identici.
La terapia immunosoppressiva è effettuata con la globulina anti-timociti (ATG), isolate da coniglio o cavallo,
associata alla ciclosporina.
Leucemie Acute
Una leucemia acuta è una neoplasia maligna che comincia da una cellula staminale emopoietica e conduce
alla proliferazione di blasti. Distinguiamo le leucemie acute da quelle croniche per due caratteristiche
tipiche delle prime:
1) la rapidità di proliferazione;
2) la presenza di cellule immature, che si accumulano.
Si possono distinguere, a seconda del momento e dello stato di maturazione della cellula staminale in cui si
verifica il danno al DNA, leucemie linfoidi (ALL) o mieloidi (AML), raramente possono essere presenti
condizioni bi-fenotipiche (miste) e questo sta a significare che il danno avviene a livello della cellula
staminale pluripotente e non a carico della cellula staminale parzialmente differenziata mieloide o linfoide
che sia.
La AML aumenta all’aumentare dell’età, viceversa la ALL è più frequente in età infantile, ma è osservabile
anche nelle fasce di età più avanzate, ma non tanti quanti nella fascia di età infantile/giovane-adulta.
Ci sono dei fattori noti che predispongono alla leucemia, quali:
• • condizioni genetiche: o gemello identico con leucemia acuta;
• o S. di Down;
• o S. di Bloom;
• o S. di Klinefelter;
• o Anemia di Fanconi;
•
• • Esposizione a: o Radiazioni ionizzanti;
• o Benzene e derivati;
• o Farmaci alchilanti;
•
Sono presenti anche fattori probabilmente predisponenti, quali:
• • Contaminanti ambientali (erbicidi; pesticidi);
• • Cloramfenicolo, dà più spesso anemia aplastica;
• • Fenilbutazone;
• • Campi elettromagnetici, ma mancano delle evidenze conclusive;
A seconda del bersaglio di questi fattori predisponenti, osserveremo un diverso tipo di leucemia acuta.
AML
Inizialmente troveremo la compresenza di blasti normali, da cui origineranno RBC, WBC e piastrine, e blasti
leucemici, da cui compariranno blasti circolanti. Questi, accumulandosi, daranno un quadro clinico della
iperleucocitosi e contemporaneamente andranno ad infiltrare gli organi fino a causarne la loro
insufficienza.
Fin quando l’organismo riesce ancora a produrre una quantità sufficiente di cellule ematiche funzionanti
potrà, in qualche modo, controbattere l’anemia, le infezioni e le emorragie.
Nel momento, però, in cui i blasti dovessero divenire prevalenti ed occupare tutto lo spazio del midollo
osseo, venendo a mancare le cellule staminali normali (o riducendosi in modo drastico di numero), sarà
inevitabile l’exitus.
È stato visto che i fattori di crescita della linea emopoietica, in condizioni normali, non si legano ai blasti, ma
svolgono la propria azione solo a livello delle cellule più immature della linea.
Viceversa, in condizione di leucemia, i fattori di crescita si vanno a legare ai blasti che cominciano ad
esprimere i recettori per i fattori di crescita, normalmente non espressi.
Questo causa una ridotta stimolazione delle cellule staminali pluripotenti, che esprimeranno una quantità
minore di recettori per i fattori di crescita rispetto ai blasti, i quali otterranno un vantaggio proliferativo.
Affinché ci sia la presentazione fenotipica dell’AML concorrono due mutazioni che:
• Danno un vantaggio proliferativo (cd. mutazione di classe prima), ma che non hanno effetti sulla
differenziazione;
• • Bloccano la maturazione (cd. mutazione di classe seconda);
l’insieme degli effetti di queste due tipologie di mutazione, concorrono allo sviluppo di un chiaro fenotipo
leucemico.
PATOGENESI
Abbiamo questo clone maligno caratterizzato da una scarsa risposta ai normali meccanismi regolatori (es
quello dei recettori) e da una ridotta capacità di differenziarsi, con accumulo di blasti nel midollo che
occupano tutto lo spazio, sopprimendo la formazione di cellule midollari normali.
Questo accumulo di blasti porta a:
• • Sostituzione delle normali serie con insufficienza midollare, con conseguente: o Anemia;
• o Neutropenia;
• o Piastrinopenia;
•
• • Infiltrazione dei parenchimi degli organi (i più frequenti dei quali sono: linfonodi, milza, fegato,
cute e SNC, in concomitanza con un danno della BEE), che porta a: o Organomegalie;
• o Deficit funzionale;
•
• • Liberazione di sostanze attive, in alte quantità, da parte dei blasti, che portano: o Febbre;
• o CID (coagulazione intravasale disseminata);
•
ITER DIAGNOSTICO
Quando abbiamo un paziente con sospetto di leucemia acuta( mieloide o linfoide che sia) dobbiamo
innanzitutto effettuare un esame obiettivo con la ricerca dei segni della patologia (linfoadenomegalia,
iperplasia gengivale, segni neurologici ed infettivi) seguito sempre da un esame emocromocitometrico ( con
anemia, blastosi, piastrinopenia e leucopenia/leucositosi). Un aspetto particolare che possiamo riscontrare
in questo esame è la leucopenia, che può essere presente qualora i blasti, prodotti dal clone neoplastico,
non riescano a fuoriuscire dal midollo. Questa eventualità può essere confermata dall’aspirato midollare,
tramite il quale è possibile anche eseguire gli esami di citogenetica e di biologia molecolare che possono
dare informazioni utili a livello terapeutico e prognostico.
La puntura lombare, infine, è effettuata qualora vi sia un sospetto di infiltrazione del SNC; nel liquor
prelevato bisogna a sua volta effettuare l’esame morfologico e, soprattutto, l’esame con il citofluorimetro.
Questo al fine di capire meglio che tipo di leucemia abbiamo davanti e quindi la prognosi e la terapia da
impostare. Questi di seguito sono gli esami e i sottotipi di esami da effettuare:
A livello dell’ematocrito, se una provetta di sangue viene lasciata a sedimentare, si viene a formare un
enorme strato di globuli bianchi.
Un ritrovamento nell’aspirato midollare che permette la diagnosi di AML, anche in assenza di una
percentuale di blasti >20%, è la comparsa nelle cellule immature di una sorta di “bastoncini” che prendono
il nome di corpi di Auer (da internet: I corpi di Auer sono raggruppamenti di materiale granulare azzurrofilo
che formano “aghi allungati” visibili nel citoplasma di blasti leucemici). Questi sono tipici di una particolare
forma di leucemia acuta detta leucemia promielocitica, però possono essere presenti anche in altri tipi di
leucemia acuta.
Sono varie le colorazioni che possono essere utilizzate per le cellule ematiche, ad esempio: la reazione di
Perls, per identificare i sideroblasti ad anello; la mieloperossidasi, che colora i granuli delle AML,
distinguendole dalle leucemie dove è prevalente la linea monocito-macrofagica, le quali si colorano con le
esterasi non specifiche. In realtà queste tecniche sono quasi cadute in disuso ed oggi si utilizzano il
citofluorimetro, gli anticorpi monoclonali e le proteine di membrana di questi blasti, che ci permettono di
fare diagnosi in maniera molto più rapida e precisa.
Ovviamente la citogenetica è un esame fondamentale per esempio in corso di ritrovamento di una
traslocazione 8-16.
Anche per le AML, come per le MDS, è presente la classificazione FAB, la quale è basata essenzialmente su
criteri morfologici. Pur essendo una classificazione superata, è, però, utilizzata nel linguaggio degli
ematologi quando si osserva sia lo striscio periferico che l’aspirato midollare, al fine di effettuare una prima
distinzione tra le leucemie a differenziazione granulocitica piuttosto che monocitica e ancora, identificare in
prima battuta la leucemia promielocitica (detta anche M3). Esistono poi anche le eritroleucemie (M6) e le
leucemie che coinvolgono il megacarioblasto (M7).
Le leucemie vengono anche divise in:
M0 - Leucemia mieloblastica acuta indifferenziata
M1 - Leucemia mieloblastica acuta con minima maturazione
M2 - Leucemia mieloblastica acuta con maturazione
M3 - Leucemia promielocitica acuta (LPA rappresenta il 10-15% di tuti i casi di LMA))
M4 - Leucemia mielomonocitica acuta
M4 eos - Leucemia mielomonocitica acuta con eosinofilia
M5 - Leucemia monocitica acuta
M6 - Leucemia eritroblastica acuta
M7 - Leucemia megacarioblastica acuta
I sottotipi da M0 a M5 hanno tutti origine da forme immature dei globuli bianchi. M6 origina da forme
estremamente immature di globuli rossi. M7 origina da forme immature di cellule che diventeranno poi le
piastrine.
M0 e M1 sono costituite da blasti molto grandi, che non mostrano maturazione e con poco citoplasma.
M2 si ha una certa maturazione e un citoplasma più grande in cui cominciano a comparire dei granuli.
M3, è la leucemia promielocitica, in cui si riscontra un citoplasma pieno di corpi di Auer e ipergranulato, in
cui il nucleo si distingue con molta difficoltà. Esiste una forma variante detta M3v che è agranulata.
M4 presenta un quadro misto con blasti simili a quelli di M1 e contemporanea presenza di blasti monocitici.
Esiste una variante della M4eo in cui sono prevalenti blasti eosinofili, associata all’inversione del
cromosoma 16 ed ha una prognosi più favorevole.
M5 in cui sono presenti solo blasti monocitici; a sua volta diviso in base alla grandezza in M5a e M5b. M4e5
inducono tipicamente iperplasia gengivale.
M6: i blasti prendono anche la colorazione degli eritroblasti e allo striscio di midollo le cellule della serie
rossa sono prevalenti.
M7: sono difficili da diagnosticare a livello morfologico; diventa più semplice utilizzando dei marker specifici
da ricercare con la citofluorimetria. ASPETTI CITOGENETICI
Tante informazioni prognostiche, ma soprattutto terapeutiche, vengono ottenute tramite la citogenetica. Le
alterazioni più frequenti sono: La t(8;21) (t=traslocazione) è tipica delle M2; la t(15;17) della M3;
inversione(16) tipica dell’M4eo; la presenza del cromosoma philadelphia [t(9;22)] si può ritrovare anche
nelle leucemie croniche. Però, l’informazione principiale che ci dà la citogenetica non è la distinzione tra
leucemia mieloblastica o linfoblastica, ma un’informazione prognostica importante che ci permette di
decidere anche l’aggressività del trattamento.
Grazie all’informazione sul cariotipo, i pazienti vengono divisi in tre gruppi a seconda della prognosi
favorevole, intermedia e sfavorevole. I primi due gruppi ottengono una remissione completa dopo
somministrazione della prima linea di terapia con percentuali molto simili, ma il gruppo intermedio ha una
più alta percentuale di ricaduta; mentre il gruppo a prognosi sfavorevole presenta un risultato
percentualmente più basso, rispetto agli altri due gruppi, di ottenere la remissione di malattia dopo
trattamento con terapia di prima linea. Lo studio dell’alterazione cromosomica e molecolare è utile sia per
la diagnosi perché:
Cosente un corretto inquadramento diagnostico
Riconosce entità biologiche e cliniche distinte all’interno di uno stesso citotipo FAB di LAM
Ma è anche utile per la terapia perché rappresenta un fattore prognostico indipendente e viene perciò
utilizzato per una corretta stratificazione terapeutica dei pazienti. In queste patologie le anomali
cromosomiche più frequenti sono traslocazioni (40%), anomali numeriche (10%) e delezioni (4%). I geni più
mutati in genere sono FLT3, RAS, CEBPA, MLL e c-kit ( posti in ordine di frequenza maggiore a minore di
mutazione). Oltre alla citogenetica,per le traslocazioni si possono usare FISH e PCR e Coinvolgono quattro
classi di geni:
Le delezioni cromosomiche sono frequenti nelle LAM dell’anziano, che presentano una stretta
somiglianza biologica con le Sindromi Mielodisplastiche. Determinano la perdita di “tumor
suppressor genes”, mappati nella regione deleta, e frequentemente la mutazione dell’allele
presente sul cromosoma omologo, apparentemente normale alla citogenetica. C’è un grosso
gruppo di pazienti cosiddetti a cariotipo normale. In tale gruppo è importante andare a cercare altri
marcatori. Geni e loro mutazioni che sono particolarmente importanti da ricercare sono:
• • flt-3 (si legge: flit3); la presenza di mutazioni di tale gene è prognosticamente negativa. Per tanto i
pazienti con questa caratteristica devono avvalersi da subito di terapie più aggressive e, laddove possibile,
effettuare un trapianto di midollo osseo allogenico. Più di una azienda farmaceutica, però, ha autorizzato
farmaci che riescono a bloccare i blasti con questa mutazione.
• • NPM1 (nucleofosmina); la presenza di mutazioni a tale livello sono, invece, prognosticamente
positive, a meno che non sia associata a mutazioni del flt-3, poiché in tal caso prevarrà l’effetto negativo di
questa mutazione.
NPM1
La mutazione dell’esone 12 del gene NPM1 porta alla formazione di una proteina troncata e, a causa di
questa troncatura, si ha un’alterazione del bilancio della proteina presente a livello nucleare e quella a
livello citoplasmatico. Di conseguenza si ha un’alterazione del profilo trascrizionale di queste cellule. Il 50%
circa dei pazienti con cariotipo normale presenta questa mutazione e questo ci fa escludere la presenza di
AML con traslocazioni tipiche (sono mutazioni mutuamente esclusive). Spesso queste leucemie sono
primarie, tipiche delle donne, con alta conta di WBC, rifacendosi alla classificazione FAB sono spesso M1 e
M4-M5 e sono CD-34 negativi.
Il problema è che l’altro 50% presenta la mutazione del flt-3.
Quindi alla citogenetica si va a vedere il cariotipo, se normale, si va a ricercare la mutazione di NPM1 e
dopo la mutazione di flt-3, per comprendere meglio la prognosi.
Normalmente la localizzazione della nucleofosmina è bilanciata tra nucleo e citoplasma, mentre nei pazienti
dove essa è mutata, si ha la perdita dei domini della proteina utili per passare attraverso la membrana
nucleare e di conseguenza tutta la nucleofosmina si ritroverà a livello citoplasmatico. Ciò porta ad
una non ottimale trascrizione di alcune proteine e ad una variazione del profilo trascrizionale.
FLT-3
La mutazione di flt-3 è particolarmente frequente in alcuni pazienti, in particolare in quelli con
cariotipo normale, ma anche nella leucemia promielocitica c’è un sottogruppo che presenta
questa mutazione. Tali pazienti sono ad alta conta di WBC e per questo a rischio di CID. È
considerata un’emergenza ematologica in cui bisogna prontamente intervenire. Superata la fase di
acuzie, questa è l’unica situazione in cui il flt-3 non determina un peggioramento della prognosi.
Quindi, nella leucemia promielocitica, prevale il fatto che abbiamo a disposizione un farmaco
capace di “sbloccare” la leucemia e far differenziare le cellule e non la prognosi sfavorevole del flt-
3.
La mutazione di flt-3 è visibile, seppur raramente, in pazienti con traslocazione (6; 9).
Il flt-3, fisiologicamente, codifica per una proteina recettoriale con attività kinasica, la quale
necessita della presenza del proprio ligando per dimerizzare ed attivarsi. In presenza della
mutazione di flt-3, si ha l’attivazione costitutiva del recettore, che non necessita più del suo
ligando. Di conseguenza si ha un segnale di proliferazione continuo che porta all’iperproliferazione
tipica della leucemia.
MLL
È una condizione che coinvolge il braccio lungo del cromosoma 11. La sua incidenza è del 4% delle
forme de novo e di circa il 60% nelle forme secondarie. Questo è infatti un altro motivo del perché
le forme secondarie presentano una prognosi peggiore. La traslocazione a carico di MLL è
prognosticamente sfavorevole. L’MLL stesso, però, non ha sempre un pattern specifico di
traslocazione, ma c’è MLL del cromosoma 11 che si riarrangia con una serie di geni pattern; per
tale motivo MLL è detto “gene promiscuo”.
In questo contesto, è il gene MLL che svolge un ruolo cruciale per la comparsa della patologia,
mentre il sottotipo della leucemia è dato dal gene pattern dell’MLL.
Classificazione WHO
Oggi all’interno della classificazione della WHO delle AML si ritrovano:
• Le “AML con anormalità genetiche ricorrenti”, in cui si ritrovano le AML con varie mutazioni
quali: o t(8; 21),
o inv(16),
o t(15; 17)
o MLL.
TERAPIA
Si effettua una chemioterapia (CT) di induzione a base di antraciclina + citarabina; con tale
combinazione di farmaci si ottiene una buona risposta in una percentuale di circa il 75% dei
pazienti. Ma anche se la terapia va a buon fine, non possiamo fermarci qui poiché la leucemia
tende a recidivare. Va, quindi, effettuata una terapia di consolidamento, la quale è una CT
intensificata a base di citarabina ad alte dosi oppure ripetendo lo stesso ciclo dell’induzione.
Successivamente, in base al profilo di rischio del paziente, si può decidere se continuare soltanto
con CT di consolidamento o se forzare tramite o autotrapianto o trapianto allogenico.
Viceversa, se il paziente già non risponde alla CT di induzione o presenta una ricaduta durante la terapia di
consolidamento, si può pensare ad una “terapia di salvataggio” a base di fludarabina e successivamente
indirizzare il paziente verso il trapianto allogenico. Con questa terapia, nel paziente giovane (<60 anni) e
senza co-morbosità, si è arrivati ad una sopravvivenza a lungo termine compresa tra 30-40%.
Mentre la prima linea di terapia può essere uguale per tutti i pazienti (tranne per quelli affetti da leucemia
promielocitica), la terapia di consolidamento può essere mirata a seconda del tipo di leucemia e della
disponibilità di farmaci mirati. Es. nelle leucemie con t(8; 21) è stato visto un miglioramento della
sopravvivenza con alte dosi con citarabina, rispetto al trapianto allogenico.
La sopravvivenza varia, però, molto a seconda dell’età del paziente, peggiorando in maniera direttamente
proporzionale all’età.
La leucemia acuta nel paziente anziano è bene trattarla con la stessa terapia delle mielodisplasie, cioè con
una terapia demetilante, cercando di favorire una differenziazione dei blasti piuttosto che voler eliminare a
tutti i costi tutti i cloni neoplastici, ma perdendo poi il paziente a causa della tossicità del trattamento.
LEUCEMIA ACUTA PROMIELOCITICA
Il problema principale di questa leucemia è che spesso i pazienti alla diagnosi presentano un rischio molto
elevato di CID, fibrinolisi, proteolisi e sanguinamenti, a causa del rilascio di numerose sostanze contenute
ne granuli dei promielociti.
È tipica la t(15; 17) che dà origine al trascritto di fusione: PML/RARα. PML è fisiologicamente coinvolto nel
processo di apoptosi cellulare, mentre RARα è coinvolto nella differenziazione terminale della linea
mieloide; ma la loro fusione è fondamentale nel ruolo oncogeno di questa leucemia.
Per la diagnosi l’esame iniziale è quello morfologico con la ricerca di promielociti ipergranulari e con corpi di
Auer, seguito da FISH e PCR (quindi biologia molecolare) per andare a ricercare il trascritto di fusione
PML/RARα.
Da un punto di vista clinico, il problema principale è costituito dalle emorragie come quelle di palato, cute,
retina e soprattutto intracerebrali.
La leucemia promielocitica già rispondeva bene alla classica terapia con antracicline, ma un’ulteriore svolta
è stata l’introduzione della terapia con i retinoidi (quindi vit. A).
La vitamina A, a dosi fisiologiche, si lega a RAR (recettore per l’acido retinoico) causando il distacco di un
complesso repressore “Nco-R”, fisiologicamente legato a RAR, rendendo libera la cromatina per l’attività
della DNA-pol.
Quando c’è la traslocazione PML/RARα, le dosi fisiologiche di vit. A non sono in grado di staccare il
complesso di repressione e di conseguenza il DNA non è accessibile alle polimerasi. La terapia che si fa in
questi casi è la somministrazione di dosi farmacologiche (molto più elevate di quelle fisiologiche) di acido
trans-retinoico che sono in grado di rimuovere il complesso repressore e permettere l’azione della DNA-pol.
Quindi, oggi la terapia si basa sull’utilizzo combinato di vit. A e antraciclina che ha portato ad una
percentuale di guarigione nei pazienti di circa l’80%. Nei pazienti a basso rischio si fa una terapia, detta
chemio-free, con acido retinoico combinato all’arsenico.
Il rischio dei pazienti è valutato in base ai valori cut-off di WBC e piastrine.
La trasfusione piastrinica (effettuata tramite piastrine da aferesi da singolo donatore) è indicata quando i
valori di piastrine sono <10.000/μL o <20.000/μL, se il paziente è sintomatico, ma i pazienti con leucemia
promielocitica acuta, visto l’elevato rischio emorragico cui sono esposti, costituiscono un’eccezione e
presentano un’indicazione alla trasfusione già per valori piastrinici <30.000/μL.
Nel corso di CID possiamo trasfondere plasma fresco-congelato; mentre se è presente un valore di
fibrinogeno <100, possiamo somministrare solo questo al paziente.
• Masse mediastiniche; solitamente le ALL non sono delle particolari urgenze, dando il tempo al
medico di effettuare la giusta diagnosi con stadiazione e vedere di che sottotipo si tratta, però se è
presente una sindrome della vena cava superiore, ovviamente siamo di fronte ad un’urgenza,
poiché mette a rischio di vita il paziente.
• Ingrossamento testicolare, a volte unilaterale e che non dà dolore.
CLASSIFICAZIONE
Anche per le ALL un ruolo è svolto dalla classificazione morfologica della FAB:
• • ALL L1: tipica morfologia dell’infanzia; blasti più piccoli con un alto rapporto
nucleocitoplasmatico.
• • ALL L2: cellule più grandi e più pleomorfe rispetto a quelle della classe L1.
• • ALL L3: cellule con importante citoplasma basofilico con vacuoli e si vedono parecchio i
nucleoli.
È presente anche una classificazione delle ALL basata sull’immunofenotipo, che distingue le
leucemie linfoblastiche in tipo B o in tipo T a seconda della cellula precursore. Le più frequenti
sono le ALL a cellule B.
In tabella è possibile osservare la frequenza dei sottotipi delle ALL. E si osserva che in età pediatrica quelle
di tipo B sono più frequenti, mentre in età adulta sono più frequenti quelle a cellule T. Esiste, però, un 20-
30% di adulti che presentano le varianti bifenotipiche (co-espressione aberrante di marker sia linfoidi che
mieloidi); in realtà le vere biofenotipiche sono <5% se si vuole considerare la presenza di tutti i
marker delle due linee. Ciò significa che questo 20% in realtà presentano i marker della leucemia
linfoide e solo un marker della linea mieloide. Comunque sia, vanno trattate come le altre ALL.
Abbiamo anche una classificazione della WHO, basata sui gruppi citogenetici, quali:
• • T(9; 22) (cromosoma philadelphia); BRC/ABL
• • T(v; 11) (v=pattern variabile); MLL
• • T(12; 21), più frequente in età pediatrica.
FATTORI PROGNOSTICI
Sono basati su indicatori prognostici:
• caratteristiche cliniche, quali: o l’età del paziente; minore è l’età, migliore è la prognosi.
o la presentazione clinica; decremento dei WBC con due cut-off differenti tra ALL B (<30.000/μL) e
ALL T (<10.000/μL);
TERAPIA
Essenzialmente possiamo ottenere delle risposte con alto tasso di remissione sia negli adulti che
nei bambini; però, per i bambini le recidive sono rare, mentre per gli adulti sono frequenti.
Nel tempo si è visto un continuo miglioramento della sopravvivenza e della percentuale di ricadute
nei bambini. Ciò è dovuto, da un lato al miglioramento della terapia di supporto (terapie
trasfusionali, terapie antinfettive e quindi antibiotici e antifungini, dall’altro al miglioramento dei
protocolli e della disponibilità di farmaci, fino all’utilizzo di farmaci target per le specifiche
alterazioni molecolari.
Visti gli outcome, sembrerebbe che i migliori protocolli siano quelli usati per i pazienti in età
pediatrica, caratterizzati dall’utilizzo di farmaci e trattamenti più aggressivi, meglio tollerati
dall’organismo giovane. Si è pensato, dunque, di trattare anche i soggetti adulti con tali protocolli,
ma, purtroppo, non sono stati ottenuti gli stessi risultati, a causa di una tolleranza inferiore a tali
terapie.
Grazie a questi protocolli si è riusciti a far aumentare la sopravvivenza nelle fasce di età <60 anni,
ma superata quest’età, il miglioramento è stato minimo e statisticamente non significativo.
Il tipico schema di trattamento prevede tre fasi:
• • 1) fase di induzione
• • 2) fase di consolidazione
• • 3) fase di mantenimento
All’inizio della fase di induzione e alla fine della fase di consolidamento, viene effettuata una
profilassi del SNC, poiché le ALL hanno un alto rischio di interessamento di tale sistema.
Uno dei farmaci più usati è L-asparaginasi, che è un antimetabolita. Esso è molto attivo perché le
cellule leucemiche non presentano l’enzima asparagina sintetasi. L’assenza di tale enzima
permette l’azione della L-asparaginasi, che blocca il processo di formazione dell’asparagina a
partire dall’aspartato e dalla glutamina. Le cellule leucemiche sono particolarmente sensibili a
questo farmaco, il quale è però molto tossico. Tra gli effetti collaterali della L-asparaginasi
troviamo:
• • Reazioni di ipersensibilità;
• • disfunzioni epatiche, (elevazione di bilirubina ed enzimi epatici e bassa albuminemia)
• • disfunzioni coagulative, sia in senso emorragico (per riduzione dei fattori della
coagulazione) che trombotico (per riduzione di antitrombina III e proteina S);
• • pancreatiti;
• • disturbi del SNC (letargia e sonnolenza);
• • raramente può causare diabete.
La terapia continua, infine, con la fase di mantenimento che dura mediamente 2/3 anni. È
costituita dall’assunzione giornaliera di una compressa di 6-mercaptopurina e una
somministrazione intramuscolare di MTX, settimanalmente. Nelle ALL con cromosoma
philadelphia, non è necessario effettuare questo tipo di mantenimento dal momento che in questi
casi si hanno a disposizione dei farmaci target.
I pazienti che non seguono questa terapia di mantenimento, è stato osservato un più alto rischio di
ricadute cerebrali (sebbene manchino degli studi formali a confermare ciò).
Nei pazienti philadelphia positivi viene effettuato, invece, un trattamento con inibitori-TK, quali
l’imatinib, che può anche essere aggiunto alla CT.
Sono disponibili, per la terapia della ALL, anche Ab-monoclonali, quale l’anti-CD22 (inotuzumab
ozogamicin). Questo recettore (il CD22) è espresso in tante leucemie linfoblastiche. All’Ab-
monoclonale sono state coniugate delle molecole di una tossina, detta calicheamicina. Quindi,
abbiamo il legame col recettore e successiva internalizzazione, seguita poi dal passaggio all’interno
dei lisosomi dove viene staccata la tossina, la quale passa nel nucleo avviando la via apoptotica.
È però presente una tossicità epatica, dovuta al fatto che parte della tossina passa in circolo.
Sappiamo che è presente un’anergia del sistema immunitario verso la neoplasia; proprio per
questo motivo sono stati progettati anticorpi per cercare di ingaggiare le cellule T contro il tumore.
In particolare, è stato progettato un anticorpo monoclonale bi-specifico (blinatumumab), che è
costituito da una parte dal CD-3, che si lega al linfocita, e dall’altra dal CD-19, che si lega alla cellula
tumorale della leucemia acuta di tipo B che esprime questo marcatore. Quindi l’azione di questo
anticorpo bi-specifico è quella di far si che la cellula T riconosca e attacchi la cellula tumorale.
Sono in progettazione anche altri tipi di anticorpi di questo genere.
Nella valutazione delle leucemie acute, in generale, è quella della malattia minima residua; cioè dopo la
terapia iniziale noi non siamo più in grado di vedere la malattia a livello morfologico, però non sappiamo se
la patologia è scomparsa o ne sono rimaste delle tracce. In questo caso vengono in nostro aiuto le tecniche
di biologia molecolare, poiché possiamo permetterci di ridurre o anche sospendere le cure in pazienti senza
malattia minima residua molecolare nascosta. Viceversa, dobbiamo continuare ad essere molto aggressivi
nella cura nei pazienti con malattia minima residua.
TROMBOCITOPENIA INDOTTA DA EPARINA
Talvolta, nei pazienti trattati con eparina, il farmaco si combina con una proteina prodotta dalle piastrine,
chiamata fattore piastrinico 4 (PF4), formando un complesso. In alcuni pazienti, il sistema
immunitario riconosce questo complesso PF4-eparina come "estraneo" e, di conseguenza, produce un
anticorpo diretto contro di esso (anticorpo anti-PF4-eparina). Questo complesso (anticorpo/PF4/eparina) è
in grado di attivare le piastrine, portando alla loro aggregazione e alla diminuzione del loro numero
(trombocitopenia). Questa sintomatologia clinica è nota con il nome di trombocitopenia indotta da eparina
(HIT). In corso di HIT è possibile anche sviluppare nuovi eventi trombotici o assistere ad un peggioramento
della trombosi in atto, una complicanza potenzialmente letale dell'assunzione di eparina.
Le piastrine sono frammenti cellulari e costituiscono una componente importante del sistema emostatico.
La rottura di un vaso sanguigno e la conseguente perdita di sangue comporta l’attivazione delle piastrine in
corrispondenza del sito della lesione e la successiva attivazione dei fattori della coagulazione, al fine di
promuovere la formazione del coagulo e l’interruzione dell'emorragia.
Non tutti i pazienti in trattamento con eparina producono anticorpi anti-PF4/eparina, e non tutti gli
anticorpi anti-PF4/eparina determinano la diminuzione del numero di piastrine. Infatti, questo si verifica in
circa l’1%-5% dei pazienti con anticorpi anti-PF4/eparina.
La trombosi (HIT+T) può risultare potenzialmente massiva, incontrollata ed ubiquitaria e si osserva nel 35-
75% dei pazienti con HIT. L'emorragia è molto rara e caratteristicamente coinvolge le arterie surrenali.
Le più frequenti complicanze legate alla trombosi sono:
Fisiopatologia dell'emofilia
Perché l'emostasi sia normale (vedi figura Meccanismi della coagulazione sanguigna ) i livelli di fattore VIII
e IX devono essere > 30%. La maggior parte dei pazienti affetti da emofilia ha livelli < 5%; i pazienti
gravemente affetti presentano livelli estremamente bassi (< 1%). Il livello funzionale (attività) del fattore
VIII o IX nell'emofilia A e B, e quindi la gravità del sanguinamento, varia a seconda della specifica
mutazione nel gene del fattore VIII o IX
Le portatrici in genere hanno livelli di circa il 50%; raramente, per inattivazione casuale del cromosoma X
normale durante le prime fasi della vita embrionale, una portatrice può avere livelli di fattore VIII o
IX < 30%.
La maggior parte dei pazienti affetti da emofilia che sono stati trattati nei primi anni '80 è stata infettata
da HIV a seguito di plasma contaminato o concentrato di fattore VIII o IX (prima dello sviluppo di
inattivatori virali efficaci). Occasionalmente, questi pazienti sviluppano una trombocitopenia
immunitaria, secondaria all'infezione da HIV, che può esacerbare il sanguinamento.
Sintomatologia dell'emofilia
I pazienti emofilici sviluppano emorragie tissutali (p. es., emartri, ematomi muscolari, sanguinamento
retroperitoneale). Il sanguinamento può essere immediato o verificarsi lentamente, a seconda dell'entità
del trauma e dei livelli plasmatici di fattore VIII o IX. Spesso il primo sintomo di sanguinamento è il
dolore, che talora è presente ancor prima che compaiano altri segni di sanguinamento. Emartri cronici o
ricorrenti possono portare a sinovite e artropatia. Anche un banale trauma al capo può causare
emorragia endocranica. Un sanguinamento alla base della lingua può causare una compressione delle vie
aeree, potenzialmente fatale.
Nell'emofilia lieve (livelli di fattore 5-25% del normale) può verificarsi eccessivo sanguinamento dopo
interventi chirurgici o estrazioni dentarie.
Un'emofilia moderata (livelli di fattore 1-5% del normale) in genere causa sanguinamento dopo traumi
minimi.
L'emofilia grave (livelli di fattore VIII o IX < 1% del normale) causa gravi emorragie a partire dalla nascita
(p. es., ematoma del cuoio capelluto dopo il parto o eccessivo sanguinamento dopo circoncisione).
Diagnosi dell'emofilia
Conta piastrinica, tempo di protrombina, tempo di tromboplastina parziale, dosaggio di fattore VIII
e IX
A volte, l'attività del fattore von Willebrand e l'antigene e sua composizione multimerica
Si sospetta l'emofilia in pazienti con sanguinamento ricorrente, emartri non spiegati o con un
prolungamento del tempo di tromboplastina parziale. Se si sospetta un'emofilia si valutano tempo di
tromboplastina parziale, tempo di protrombina, conta piastrinica e dosaggio del fattore VIII e IX.
Nell'emofilia il tempo di tromboplastina parziale è prolungato, ma tempo di protrombina e conta
piastrinica sono normali.
Il dosaggio del fattore VIII e IX permette di determinare il tipo e la gravità dell'emofilia. Poiché il livello di
fattore VIII può risultare ridotto anche nella malattia di von Willebrand , nei pazienti con emofilia A di
nuova diagnosi si devono valutare anche l'attività, l'antigene e la composizione multimerica del fattore di
von Willebrand, in particolare se la malattia è lieve e l'anamnesi familiare indica che sono affetti membri
della famiglia sia maschi che femmine. In alcuni casi è possibile determinare se una femmina è portatrice
vera di emofilia A misurando il livello di fattore VIII. Allo stesso modo, la misurazione del livello di fattore
IX spesso permette di identificare una portatrice di emofilia B.
L'analisi con PCR (Polymerase Chain Reaction) del DNA che comprende il gene per il fattore VIII,
disponibile in centri specializzati, può essere utilizzata per la diagnosi dello stato di portatrice di emofilia
A e per la diagnosi prenatale di emofilia A attraverso un campione di villi coriali alla 12a settimana
o amniocentesi alla 16a settimana. Queste procedure comportano un rischio di aborto dello 0,5-1%.
Dopo ripetuta esposizione a sostituzione di fattore VIII o IX, circa il 30% dei pazienti con emofilia grave A
e il 3% con emofilia B sviluppa fattore VIII o isoanticorpi fattore IX (alloanticorpi) che inibiscono l'attività
coagulante di qualsiasi fattore VIII aggiuntivo o fattore IX infuso. Quindi, i pazienti devono essere
sottoposti a screening per isoanticorpi (p. es., misurando il grado di accorciamento del tempo di
trombloplastina parziale immediatamente dopo aver mescolato il plasma del paziente con eguale volume
di plasma normale, e quindi ripetendo la misurazione dopo un'ora di incubazione), soprattutto prima di
una procedura chirurgica elettiva che richieda una terapia sostitutiva. Se sono presenti isoanticorpi, il
loro titolo può essere misurato determinando l'entità di inibizione del fattore VIII con diluizioni seriali del
plasma del paziente.
Consigli ed errori da evitare
Poiché il livello di fattore VIII può risultare ridotto anche nella malattia di von Willebrand, nei
pazienti con emofilia A di nuova diagnosi si devono valutare anche l'attività, l'antigene e la
composizione multimerica del fattore di von Willebrand.
Prevenzione dell'emofilia
I familiari che sono portatori devono essere identificati in modo che possano essere offerte consulenze
genetiche.
Per prevenire il sanguinamento, i pazienti devono evitare l'aspirina e i FANS (entrambi inibiscono la
funzione piastrinica). È essenziale una regolare igiene dentaria in modo da evitare estrazioni dentarie e
altri interventi odontoiatrici. I farmaci devono essere somministrati per via orale o EV; iniezioni IM
possono causare ematomi.
Ripetute iniezioni somministrando il 50% della dose iniziale calcolata devono essere somministrate ogni
8-12 h per mantenere il livello minimo > 50% per 7-10 giorni dopo una chirurgia maggiore o un'emorragia
che mette in pericolo la vita. Ogni unità/kg di fattore VIII aumenta il livello di fattore VIII di circa il 2%.
Così, per aumentare il livello dallo 0 al 50%, sono necessarie circa 25 unità/kg.
Il fattore VIII può essere somministrato sotto forma di concentrato purificato di fattore VIII, che è
ricavato da donatori multipli. Tale prodotto viene sottoposto a inattivazione virale, ma l'inattivazione non
è in grado di eliminare i parvovirus o il virus dell'epatite A. Il fattore VIII ricombinante è privo di virus e in
genere è preferibile, a meno che il paziente sia già sieropositivo per HIV o per i virus dell'epatite B o C.
Nell'emofilia B, il fattore IX può essere somministrato ogni 24 h, come prodotto purificato con
inattivazione virale o ricombinante. I livelli da raggiungere per correggere il deficit del fattore sono gli
stessi dell'emofilia A. Tuttavia, per raggiungere questi livelli, il dosaggio è più alto che nell'emofilia A
poiché il fattore IX è più piccolo rispetto al fattore VIII e, a differenza di questo, ha un'ampia distribuzione
extravascolare.
Il plasma fresco congelato contiene entrambi i fattori VIII e IX. Tuttavia, a meno che non si effettui
plasmaferesi (scambi plasmatici), non è possibile somministrare a un paziente con emofilia grave una
quantità di plasma intero sufficiente a elevare il fattore VIII o IX a livelli che prevengano o controllino il
sanguinamento. Il plasma fresco congelato, pertanto, deve essere utilizzato solamente se è necessaria
una rapida terapia sostitutiva e il concentrato di fattore non è disponibile o quando il paziente si presenta
con una coagulopatia non ancora precisamente definita.
È stato riportato che un fattore VIII ricombinante-proteina di fusione Fc (1), un fattore IX ricombinante-
proteina di fusione Fc (2), un fattore VIII ricombinante legato al glicole polietilenico (PEG) (3), ed un
fattore IX pegilato (4), hanno emivita in vivo più lunga e siano in grado di controllare il sanguinamento in
emofilia A e B.
Per l'emofilia A, l'emicizumab è un anticorpo monoclonale bispecifico ricombinante umanizzato che si
lega al fattore IX e al fattore X, li coniuga a un complesso attivo simile al fattore Xasi che ovvia alla
necessità del fattore VIII ed è un trattamento efficace per l'emofilia A (5).
I nuovi agenti terapeutici negli studi clinici per l'emofilia A o B comprendono il fitusiran e il concizumab
(6, 7). Il fitusiran è un piccolo RNA inibitorio che abbatte la produzione della proteina anticoagulante
naturale, l'antitrombina. Il concizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato che blocca l'inibitore
della via del fattore tissutale, un'altra proteina naturale anticoagulante e aumenta la produzione di
trombina nell'emofilia A e B.
La terapia genica mediante una somministrazione innocua associata al virus mediata dal gene del fattore
VIII o IX è in fase di valutazione in studi clinici per il trattamento dell'emofilia A o B ( 8).
Sia il fattore di von Willebrand che il fattore VIII sono contenuti all'interno dei corpi di Weibel-Palade
delle cellule endoteliali, e secreti in risposta alla stimolazione delle cellule endoteliali ( 9). La terapia
aggiuntiva per l'emofilia A lieve o moderata può, quindi, comprendere la stimolazione in vivo di cellule
endoteliali dei pazienti con l'analogo sintetico della vasopressina (il deamino-S-argininavasopressina,
noto anche come desmopressina). Come descritto per la malattia di von Willebrand , la desmopressina
può temporaneamente alzare i livelli di fattore VIII. Prima di utilizzare la desmopressina a scopo
terapeutico, bisogna documentare la risposta del paziente al farmaco. Il suo uso dopo traumi minori o
prima di chirurgia odontoiatrica elettiva permette di evitare la terapia sostitutiva. La desmopressina deve
essere usata solo per i pazienti con emofilia A moderata (livelli basali di fattore VIII ≥ 5%) e che siano
responsivi al trattamento.
L'uso di un'agente antifibrinolitico (acido aminocaproico 2,5-4,0 g per via orale 4 volte/die o acido
tranexamico 1,0-1,5 g per via orale 3 volte/die o 4 volte/die, per 1 settimana) può anche essere
impiegato come terapia aggiuntiva in emofilia A o B per sopprimere la fibrinolisi e per prevenire
sanguinamenti tardivi dopo estrazione dentaria o altri traumi alla mucosa orofaringea (p. es., lacerazione
della lingua).
TRAPIANTO DI MIDOLLO
Il trapianto di midollo osseo, detto anche trapianto di cellule staminali ematopoietiche, è il trattamento
terapeutico con il quale si sostituisce un midollo osseo malato con un'altro sano, allo scopo di ristabilire la
normale produzione di cellule del sangue.
La procedura è molto complessa e, affinché possa eseguirsi, richiede diverse condizioni: tra tutte, uno stato
di salute del paziente buono (a dispetto della malattia, che lo affligge) e l'impraticabilità di qualsiasi altro
intervento alternativo. I rischi, legati alla procedura, sono numerosi e per nulla trascurabili. Pertanto, prima
di procedere con un trapianto di midollo osseo, è bene accertarsi che ci siano tutte le condizioni ideali per
una sua attuazione. Le classiche situazioni, che possono richiedere l'esecuzione di un trapianto di midollo
osseo, sono:
Anemia aplastica
Leucemia
Linfoma non-Hodgkin
Malattie genetiche del sangue o del sistema immunitario
li stati patologici sopraccitati, non sempre, si risolvono con un trapianto di midollo osseo. Infatti, essendo
quest'ultimo un trattamento non esente da rischi e complicazioni, occorre che siano presenti determinate
condizioni, per poterlo mettere in pratica.
Il paziente, che necessita di un trapianto, deve stare bene, a dispetto della malattia che lo affligge (per
esempio, coloro che, colpiti da tumore, si trovano nella fase di remissione).
Il paziente ha un fratello o una sorella, che può fargli da donatore di midollo osseo. Come si vedrà poco più
avanti, i membri della stessa famiglia (o consanguinei) possiedono un tessuto midollare molto simile,
pertanto il rischio di rigetto è minore.
La malattia, che affligge il paziente, non ha risposto positivamente ad alcun trattamento alternativo e meno
pericoloso del trapianto di midollo osseo.
Il rapporto rischi/benefici propende a favore dei secondi.
TIPIZZAZIONE HLA
Da cosa si capisce se i tessuti e gli organi di due diverse persone sono simili? Come si identifica un donatore
ideale di midollo osseo?
Nei tessuti e negli organi di ciascuno di noi, c'è un marchio genetico, equivalente a un distintivo,
chiamato HLA (dall'inglese Human Leukocyte Antigen). Questo HLA, di solito, è estremamente diverso da
individuo a individuo, ma, in alcuni casi, può assomigliarsi molto. Quando c'è somiglianza tra HLA, si parla
di compatibilità. La compatibilità di HLA è una delle condizioni necessarie affinché un trapianto d'organo
vada a buon fine.
I donatori ideali di midollo osseo, pertanto, devono possedere, nelle cellule dei propri organi e tessuti, un
impianto HLA compatibile a quello dei riceventi.
In quali persone è più facile riscontrare compatibilità di HLA?
I consanguinei, specie i fratelli, possiedono, con buona probabilità, degli HLA simili, se non uguali.
Per averne la certezza, è sufficiente eseguire dei test specifici sui due fratelli (quello sano e quello malato) e
confrontare gli HLA risultanti.
RICHIESTA DI MIDOLLO OSSEO
Chi è figlio unico o non ha fratelli con un HLA compatibile può soltanto far richiesta di midollo osseo,
iscrivendosi a una lista d'attesa. In questo caso, il midollo osseo può provenire da qualunque persona con
un HLA simile e iscritta regolarmente al registro donatori.
L'attesa, purtroppo, può durare anche anni, con conseguenze più che drammatiche sul paziente
richiedente.
TUTTI POSSONO FARE I DONATORI DI MIDOLLO OSSEO?
Avere minimo 18 anni, per motivi legali, e non più di 40 anni, per motivi medici. Un donatore può essere
chiamato fino al compimento del 55esimo anno d'età.
Pesare più di 50 Kg
Godere di buona salute e non essere affetti da alcuna malattia infettiva
Preparazione e procedura
Il trapianto di midollo osseo è una procedura molto lunga e che può suddividersi in 5 fasi (o stadi). In ordine
cronologico:
Perché il trapianto di midollo osseo vada a buon fine, è fondamentale che il paziente stia bene, nonostante
la malattia che lo affligge.
Pertanto, con un esame fisico accurato, vengono analizzati gli organi interni più importanti, come
cuore, fegato e polmoni: il loro stato di salute fornisce, al medico, tutte le informazioni utili, per conoscere
come risponderà l'intero organismo ai farmaci per la fase di condizionamento.
Nel caso di infezioni. Dopo il trapianto, il paziente è esposto alle infezioni, in quanto deve assumere
degli immunosoppressori per ridurre la risposta del sistema immunitario e, con essa, la possibilità di un
rigetto. Per questo motivo, sapere se, già prima del trapianto, il paziente soffre di una qualche malattia
infettiva ha un valore essenziale.
Nel caso di patologie tumorali. In questo caso viene svolta una biopsia, ovvero il prelievo e l'analisi di un
campione di cellule tumorali. Se dall'esame risulta che la neoplasia è in remissione, allora è possibile
procedere con il trapianto e sperare in un successo di quest'ultimo; viceversa, se la neoplasia è ancora in
fase acuta, è sconsigliato il trapianto, perché potrebbe non aver alcun risultato valido.
RACCOLTA DEL MIDOLLO OSSEO
Se l'esame fisico ha dato responso positivo, si procede con la raccolta del midollo osseo da trapiantare.
Essa può avvenire in due modi: mediante un metodo classico o mediante un metodo di recente
introduzione.
Metodo classico (o donazione di midollo osseo tradizionale). Consiste nel prelievo diretto, tramite siringa,
del midollo osseo presente a livello delle creste iliache. Il donatore viene sottoposto ad anestesia generale e
l'intervento dura circa 45 minuti. Il contenuto di midollo osseo asportato varia in base all'età; tuttavia, in
genere, coincide a circa un litro. Terminato il prelievo, il donatore viene mantenuto sotto osservazione per
almeno 24 ore e gli viene consigliato di stare a riposo per i successivi 4-5 giorni. Gli unici pericoli ed effetti
indesiderati della procedura sono legati all'anestesia generale e alla sensazione dolorosa che si crea a livello
della zona di prelievo. È una metodo molto applicato tra i donatori di giovane età.
Metodo non tradizionale (o donazione di cellule staminali ematopoietiche da sangue periferico). Nei 5
giorni antecedenti la donazione del midollo osseo, il donatore viene sottoposto a un trattamento
farmacologico che favorisce la produzione di cellule staminali ematopoietiche e il loro passaggio nel sangue
circolante. Trascorso il tempo necessario, questo sangue viene prelevato da un braccio, passato attraverso
una macchina apposita, che separa le cellule staminali dal resto del sangue e le raccoglie a parte, e re-
infuso immediatamente nel donatore, attraverso l'altro braccio. È una procedura lunga circa 4 ore (si
esegue in day-hospital) e dai minimi effetti collaterali (cefalea, dolori ossei ecc), che viene messa in pratica
soprattutto tra i donatori adulti. Qualora le dosi di cellule staminali ematopoietiche prelevate fossero
insufficienti a un trapianto, è necessario effettuare un secondo prelievo dopo minimo 6 giorni.
A causa dell'estrema difficoltà nel trovare un midollo osseo idoneo a ciascun paziente, è stata messa a
punto una strategia di trapianto alternativa a quella cosiddetta allogenica, in cui il midollo osseo proviene
da un'altra persona. Si tratta del trapianto autologo, la cui esecuzione prevede che il midollo osseo venga
prelevato direttamente dal paziente da curare.
N.B: per una descrizione completa di cosa sono trapianto allogenico e trapianto autologo, si veda il
sottocapitolo dedicato alla procedura di trapianto vera e propria.
CONDIZIONAMENTO
Nausea
Vomito
Diarrea
Perdita di appetito
Ulcere buccali
Stanchezza
Rash cutaneo
Perdita di capelli
Disturbi polmonari
Disturbi epatici
TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE
L'operazione di trapianto deve eseguirsi uno o due giorni dopo la fase di condizionamento.
Le cellule staminali ematopoietiche, in qualsiasi modo siano state prelevate, vengono infuse nel paziente,
attraverso una grossa vena che affluisce verso il cuore (per esempio, la vena succlavia). Si sceglie questo,
come punto d'iniezione, per una questione di praticità.
L'intero processo può durare da un minimo di un'ora e mezza ad anche diverse ore, a seconda delle
condizioni del malato e del midollo osseo.
L'esecuzione del trapianto, in sé, non è dolorosa.
Di seguito, sono descritti il trapianto autologo e quello allogenico; ciò che contraddistingue queste due
metodiche, come si è anticipato, è unicamente la provenienza delle cellule staminali ematopoietiche.
Trapianto autologo. Il midollo osseo proviene direttamente dal paziente da trapiantare. Questa procedura
consente di eludere i lunghi tempi d'attesa e tutti i rischi legati alla compatibilità, in quanto si infonde una
sostanza che già appartiene al malato.
Per poter realizzare tale procedura, è necessario che il midollo osseo sia ancora funzionante o lo si possa
rendere tale. Per esempio, nei casi di leucemia, una volta prelevato, viene sottoposto a cicli
di radioterapia e chemioterapia, per ripulirlo dalle cellule tumorali presenti.
Vantaggi: riduce i tempi di attesa di un midollo osseo; compatibilità assoluta; rischio di rigetto minimo.
Svantaggi: nelle patologie tumorali, è necessario che la neoplasia sia in fase di remissione, altrimenti la
chemioterapia e/o la radioterapia hanno un effetto limitato.
Limite d'età: 60-70 anni.
Trapianto allogenico. Si procede con il trapianto allogenico, ovvero con il prelievo del midollo osseo da
un'altra persona, quando quello del paziente non è idoneo al trapianto autologo. Secondo una statistica
anglosassone, solo nel 30% dei casi, i malati hanno una sorella o un fratello compatibili, mentre nel restante
70% devono registrarsi a una lista d'attesa. La procedura di prelievo può essere sia quella classica sia quella
non tradizionale.
Vantaggi: il midollo osseo proviene da una persona sana.
Svantaggi: tempi d'attesa lunghi (se non si hanno fratelli compatibili) e rischio di rigetto.
Limite d'età: 55 anni.
Durante il periodo di ristabilimento, è previsto un ricovero ospedaliero di diversi mesi (anche più di tre, in
casi eccezionali).
Nei primi 15-30 giorni, avviene l'attecchimento del trapianto, ovvero la prima produzione, da parte del
nuovo midollo osseo, di cellule del sangue efficaci.
In questo lasso di tempo, il paziente riceve, regolarmente, delle trasfusioni di sangue; va mantenuto isolato
da qualsiasi possibile fonte di agenti infettivi e, infine, sottoposto a un trattamento a base di antibiotici, in
quanto possiede un bassissimo numero di leucociti (sono gli effetti della chemioterapia).
Ad attecchimento avvenuto, bisogna cominciare una cura a base di immunosoppressori (e, talvolta,
di corticosteroidi), i quali continuano a mantenere basse le difese immunitarie (leucociti ecc), per
scongiurare la possibilità di un rigetto del midollo.
Il trapianto di midollo osseo è un trattamento terapeutico rischioso e non privo di complicazioni. Ecco per
quale motivo, prima di procedere con la sua esecuzione, è bene informare il paziente di tutte le possibili
conseguenze che esso può avere.
I pericoli principali consistono in:
Il rigetto, ovvero l'aggressione da parte del sistema immunitario ai danni del nuovo midollo osseo
trapiantato, è, in assoluto, la complicanza più grave dell'intero trattamento.
Può essere di due tipologie:
Malattia da trapianto contro l'ospite di tipo acuto. Si sviluppa, di solito, nei primi tre mesi successivi
all'intervento e provoca febbre alta (38°C), diarrea, crampi allo stomaco, ittero e macchie rosse sulle mani,
sui piedi e sulla faccia (rash cutaneo).
Malattia da trapianto contro l'ospite di tipo cronico. È definita in tal modo quando i suoi disturbi si
protraggono per anni e compaiono, in genere, diversi mesi dopo (almeno tre) l'intervento. I disturbi più
frequenti sono prurito, indurimento della pelle, xerostomia, secchezza degli occhi e perdita di capelli.
Quando la malattia da trapianto contro l'ospite si fa molto grave, può alterare le funzioni epatiche (cioè del
fegato) e dei polmoni, con conseguenze drammatiche per il paziente trapiantato.
L'unico rimedio, messo in pratica per scongiurare il rigetto, è rappresentato, come si è già detto più volte,
da un trattamento farmacologico a base di immunosoppressori e corticosteroidi.
INFEZIONI
L'elevato rischio di contrarre delle infezioni è legato ai trattamenti per prevenire il rigetto.
Le infezioni più temute sono quelle polmonari (polmoniti).
QUANDO I PERICOLI SONO MINORI?
Il paziente è giovane. Da alcuni studi, è emerso che i trapianti di midollo osseo effettuati sui giovani hanno
maggiore successo, rispetto a quelli sulle persone più anziane.
Il donatore è un fratello o una sorella.
Il paziente sta bene, a dispetto della patologia che lo affligge.
Risultati
I risultati migliori si ottengono quando sono rispettati tutti i principali requisiti, descritti finora e necessari
all'attuazione del trattamento. Nonostante ciò, rimane comunque difficile, per chiunque, prevedere gli
effetti di un trapianto di midollo osseo, in quanto ogni paziente rappresenta un caso a sé stante.
TRASFUSIONI
Le trasfusioni consistono nel trasferimento di una certa quantità di sangue da un soggetto (donatore) a un
altro (ricevente), per via endovenosa. Questa procedura viene adottata in risposta a specifiche esigenze
cliniche.
Le trasfusioni sono utilizzate, in particolare, per reintegrare il sangue perso in caso di emorragie post-
traumatiche o chirurgiche, oppure nel trattamento di alcune malattie che causano una grave anemia. Il
ricorso alle trasfusioni di sangue è indicato, inoltre, per correggere i disturbi della coagulazione e
mantenere a livelli adeguati la volemia (massa del sangue circolante) e lo scambio dei gas respiratori
(ossigeno e anidride carbonica).
Le trasfusioni possono prevedere l'utilizzo di sangue intero, emocomponenti (concentrati di globuli
rossi, piastrine, plasma ecc.) e/o emoderivati. Le trasfusioni consistono nell'infusione di sangue (intero o di
alcuni suoi componenti) da un soggetto donatore a uno ricevente.
Le trasfusioni di sangue possono essere:
Omologhe, se donatore e ricevente sono due persone diverse. In tal caso, è fondamentale stabilire la
compatibilità, definendo il gruppo sanguigno di chi dona e di chi riceve, per evitare gravi conseguenze;
Autologhe, se donatore e ricevente sono la stessa persona. In quest'ultimo caso, ovviamente è necessario
procedere alla raccolta di sacche di sangue prima del momento del bisogno (per esempio, in preparazione a
un intervento chirurgico programmato).
Da cosa è composto il sangue
Emocomponenti: sono ricavati dal frazionamento del sangue con mezzi fisici semplici o con aferesi (tecnica
che consente di prelevare selettivamente una sola componente cellulare). Gli emocomponenti
comprendono: emazie concentrate, concentrati piastrinici, concentrati granulocitari, plasma fresco
concentrato, crioprecipitati ecc.
Emoderivati: si ottengono mediante frazionamento industriale del plasma; questi possono essere utilizzati
come farmaci plasmaderivati (cioè specialità medicinali estratte dal sangue) utilizzati per il trattamento di
patologie come l'emofilia di tipo A e di tipo B, immunodeficienze primarie, malattie emorragiche e altre
ancora.
Gli emoderivati possono comprendere: albumina (impiegata per pazienti affetti da gravi carenze
di proteine, ustionati o in stato di shock), immunoglobuline (per la ricerca di anticorpi specifici o quando è
in corso una malattia infettiva), concentrati dei fattori della coagulazione (per tutti i malati che hanno
carenze o per gli emofilici) ecc.
In linea generale, oggi si tende a limitare le trasfusioni di sangue intero ai soli casi in cui è indispensabile,
mentre si preferisce utilizzare singolarmente gli emocomponenti.
Le trasfusioni di sangue sono procedure alle quali viene dedicata la massima attenzione, allo scopo di
garantire sempre condizioni di qualità e sicurezza.
Il sangue viene raccolto da donatori volontari presso un centro trasfusionale nazionale; le sacche vengono
testate, poi, con metodiche avanzate per verificarne la conformità.
Esiste anche la possibilità di pre-depositare il proprio sangue nelle settimane che precedono un intervento
programmato e non particolarmente impegnativo: in tal caso, si parla di autotrasfusione.
Il sangue viene raccolto in un contenitore in cui è presente un liquido che ne impedisce la coagulazione, per
essere conservato e reso disponibile in caso di necessità.
Compatibilità, gruppo sanguigno e fattore Rh
In caso di trasfusione omologa, è fondamentale la compatibilità tra donatore e ricevente, per evitare gravi
reazioni di emolisi; per stabilirla, occorre definire il gruppo sanguigno di entrambi.
Sulla superficie dei globuli rossi sono presenti delle molecole chiamate antigeni: questi determinano il
gruppo sanguigno a cui si appartiene, quindi la compatibilità del sangue trasfuso. Gli antigeni sono definiti
dalle lettere A e B o dal numero 0.
Le possibili combinazioni sono:
Gruppo A: sono presenti l'antigene A sui globuli rossi e gli anticorpi IgM anti-antigene B nel plasma. Questi
pazienti possono ricevere globuli rossi di gruppo A e 0.
Gruppo B: queste persone hanno l'antigene B sui globuli rossi e gli anticorpi IgM anti-antigene A nel
plasma. Di conseguenza, possono ricevere globuli rossi di gruppo B e 0.
Gruppo AB: sono presenti sia l'antigene A sia l'antigene B sui globuli rossi e nel plasma non hanno alcun
anticorpo. I soggetti di gruppo AB sono riceventi universali, in quanto possono essere trasfusi con globuli
rossi di gruppo A, B, AB e 0.
Gruppo 0: i soggetti con gruppo sanguigno 0 non hanno alcun antigene sui globuli rossi e nel plasma hanno
gli anticorpi IgM anti antigene A e anti antigene B. I soggetti con gruppo 0 possono ricevere sangue solo di
gruppo 0, mentre possono donare a tutti i gruppi (donatori universali).
A questi si aggiunge il cosiddetto fattore Rh (Rhesus D) che può essere o meno presente sulla superficie dei
globuli rossi (Rh positivo o Rh negativo):
I soggetti con fattore Rh negativo possono ricevere sangue solo da soggetti con fattore Rh negativo, perché
la trasfusione di sangue Rh positivo può indurre la produzione di anticorpi anti-Rh;
I soggetti con Rh positivo possono ricevere sangue Rh positivo e negativo.
Le trasfusioni di sangue possono essere utilizzate a scopo profilattico (es. prima di una terapia citotossica o
di un intervento chirurgico) o terapeutico (es. emorragie in atto).
La terapia trasfusionale è necessaria e rappresenta una procedura salvavita in caso di:
Come si eseguono
Durante la trasfusione, il sangue del donatore, precedentemente raccolto in una sacca, viene infuso
nella vena del ricevente. La procedura può durare da una a quattro ore, in funzione di quanto sangue deve
essere trasfuso.
Le fasi del processo di trasfusione comprendono, in sintesi, i seguenti momenti:
Prelievo del campione di sangue per l'esecuzione dei test pre-trasfusionali (determinazione di gruppo,
ricerca di anticorpi irregolari e prova di compatibilità);
Richiesta degli emocomponenti, accettazione, registrazione, esecuzione dei test ed erogazione presso la
struttura trasfusionale;
Trasfusione in reparto, sala operatoria, terapia intensiva o domicilio.
Il prelievo per il pre-deposito a scopo autologo deve essere effettuato sotto il controllo di una struttura
trasfusionale. In genere, non si prelevano oltre 4 unità di sangue e, di solito, le sacche non utilizzate sono
eliminate. Dopo l'ultimo prelievo, è raccomandato un intervallo di almeno 3 giorni (in media da 7 a 15
giorni) prima di procedere all'intervento chirurgico.
Indagini pretrasfusionali
Per prevenire il maggior numero di complicanze, prima di effettuare la trasfusione di sangue, si seguono
procedure specifiche di tipizzazione e screening anticorpale che prevedono:
Determinazione del gruppo sanguigno (A, B, 0, AB) e del tipo Rh (positivo o negativo) del donatore e del
ricevente;
Test per rilevare eventuale presenza di malattie infettive;
Ricerca degli anticorpi irregolari;
Prove di compatibilità maggiore (cross-match).
Controindicazioni e rischi
Nella maggior parte dei casi, le trasfusioni di sangue non determinano effetti negativi o complicanze.
Tuttavia, essendo un prodotto biologico di derivazione umana, il sangue non sarà mai completamente privo
di rischi.
Durante il trattamento trasfusionale, in particolare, si possono verificare più comunemente (nell'1-2% circa
dei casi):
Reazioni allergiche: possono svilupparsi anche se il sangue del donatore è compatibile con quello del
ricevente. I sintomi associati a tale fenomeno comprendono: fatica a respirare, dolore al petto, riduzione
della pressione arteriosa e nausea. Quando si verificano tali disturbi occorre avvertire immediatamente gli
operatori sanitari. Ai primi segni di reazione allergica, infatti, la trasfusione deve essere sospesa e, in
funzione della gravità dei sintomi e della condizione, il medico valuterà il trattamento più appropriato.
Infezioni virali (epatite B o C, HIV): sono molto rare, in quanto la normativa attuale regola in modo molto
preciso e accurato la scelta dei donatori, valutati in base alla storia clinica e specifici test preliminari.
Inoltre, su ogni unità di sangue raccolta sono effettuate alcune analisi di laboratorio per escludere la
presenza di infezioni (AIDS, epatite B, epatite C, sifilide ecc.). Ciò riduce notevolmente i rischi per le persone
riceventi.
Febbre: è la conseguenza più frequente delle trasfusioni; va trattata con un comune antipiretico come nelle
comuni manifestazioni febbrili, ma deve essere sempre valutata, poiché potrebbe essere espressione di una
reazione da incompatibilità.
Altre reazioni meno frequenti sono:
Sovraccarico di liquidi;
Danno polmonare;
Reazioni emolitiche caratterizzate dalla distruzione degli eritrociti, dovute alla mancata corrispondenza tra
il gruppo sanguigno del donatore e del ricevente.
Alternative farmacologiche
Attualmente, non esiste un'alternativa alle trasfusioni. Tuttavia, è possibile cercare di sopperire le funzioni
di alcune componenti del sangue con farmaci specifici. In particolare, in presenza di certe problematiche
renali è possibile assumere l'eritropoietina, in grado di accelerare la produzione di globuli rossi.
Misure per ridurre i rischi
I rischi associati alle trasfusioni di sangue possono essere limitati con le opportune attenzioni:
Le trasfusioni di sangue omologo devono essere evitate in tutti quei casi (come per gli interventi di chirurgia
programmati e non in regime d'urgenza) in cui sia possibile attuare procedure autotrasfusionali.
Prima di prelevare e di trasfondere il sangue, il professionista sanitario deve identificare la persona che
deve ricevere la trasfusione, accertando specificatamente la sua identità.
I moduli di richiesta di esami e/o emocomponenti, comprese le etichette delle provette per la raccolta dei
campioni del ricevente, devono essere compilati in modo chiaro e completo.
I pazienti devono essere identificati con certezza sia nel momento in cui vengono eseguiti i prelievi per le
indagini pretrasfusionali, sia nel momento in cui si somministra il sangue.
Prima della trasfusione, gli emocomponenti vanno conservati a una temperatura adeguata e devono essere
valutati con un'ispezione per evidenziarne eventuali anomalie.
Al momento della trasfusione va controllata la corrispondenza dei dati riportati in cartella, sui moduli che
accompagnano l'emocomponente e sulle etichette apposte su di esso relativi a: età anagrafica del paziente
e compatibilità del gruppo sanguigno.
L'andamento della trasfusione deve essere costantemente monitorato; prima e durante la procedura
devono essere rilevati e registrati i parametri vitali del ricevente.
Il paziente deve essere istruito sui sintomi riconducibili ad una possibile reazione trasfusionale, quindi è
invitato a riferirli prontamente nel caso dovesse avvertirli.