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S: Albiero Filippo, Terrasi Veronica, Pitton Giacomo 31-03-2022

SV: Baiocchi Jacopo Malattie del metabolismo, lezione 9


Prof.ssa Lapolla

GOTTA
Per gotta si intende una malattia infiammatoria causata dalla precipitazione e dal deposito di cristalli di
acido urico nella forma di urato monosodico. Per comprendere la patogenesi della malattia è necessario ricordare
da dove deriva l’acido urico e come sono regolate le sue concentrazioni.

Regolazione dei livelli plasmatici di acido urico


L’acido urico è un metabolita normalmente presente nel sangue con variazioni fisiologiche legate a sesso (i
valori sono più alti nell’uomo che nella donna) ed età (i valori tendono ad aumentare nel corso della vita).
Tuttavia, se i livelli nel sangue di acido urico superano i 7 mg/dL questo raggiunge il punto di saturazione e
precipita, depositandosi e innescando quindi l’infiammazione che porterà alla gotta. Per capire cosa regola le sue
concentrazioni nel sangue è necessario analizzare cos’è l’acido urico e come arriva nell’organismo.

Origine dell’acido urico nel plasma


Nell’uomo, che non possiede l’enzima uricasi, l’acido urico è il prodotto terminale del metabolismo delle
purine (Adenina, Guanina, Ipoxantina) costituenti acidi nucleici, segnalatori intracellulari (AMP, GMP), fonti
energetiche (ATP, GTP) e messaggeri extracellulari (adenina). La via biochimica di formazione delle purine e
dell’acido urico è schematizzata in queste immagini. [NdS: La professoressa raccomanda di andare a ripassare tale via;
per una trattazione più approfondita si consigliano le sbobine 31 e 32 di biochimica del 19/05/2019 e 21/05/2019).]

Il pool miscibile (cioè che si trova nel sangue) di acido


urico presente nel corpo di un individuo dipende da:
− Apporto con la dieta attraverso le purine
introdotte con i cibi).
− Sintesi endogena: conseguenza della sintesi
delle purine e del catabolismo degli acidi
nucleici delle cellule che vanno in apoptosi.
− Efficienza dell’escrezione, che avviene
prevalentemente per via urinaria mentre la via
intestinale, che sfrutta reazioni di lisi da parte
dei batteri della flora intestinale, ne elimina
solo una piccola parte. Chiaramente
l’escrezione urinaria di acido urico dipende
dalla funzionalità renale e questo deve
essere tenuto presente in caso si vedano livelli
di acido urico più alti del normale.

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Escrezione renale di acido urico
La maggior parte dei pazienti con iperuricemia sono degli iposecretori più che degli iperproduttori, cioè l’acido
urico tende ad accumularsi nel plasma perché non viene escreto a sufficienza. Quindi la maggior parte dei pazienti
con iperuricemia e gotta hanno una ridotta escrezione renale di urati, fattore su cui si andrà ad agire nel
trattamento di queste condizioni. L’escrezione renale degli urati dipende dalla funzionalità dei tubuli renali e
dalla competizione a livello dei trasportatori tra acido urico e sodio, che può essere accentuata dall’utilizzo di
certi farmaci, come i diuretici dell’ansa.

Classificazione delle iperuricemie


Le iperuricemie sono condizioni in cui l’acido urico nel plasma supera i livelli di normalità (6 mg/dL da slide
successive). Queste vengono classificate in:

− Primarie, a loro volta suddivise in:


1) Dovute a difetti molecolari non definit: nel 90% dei casi questi difetti determinano una ridotta
escrezione di urati mentre nel 10% dei casi il problema è un’iperproduzione. In entrambi i casi si
tratta di condizioni poligeniche.
2) Associate a difetto enzimatico noto con effetto iposecretivo o iperproduttivo, ad esempio
aumentata attività della PRPP o deficit parziale di HPRT, entrambe patologie X-linked (da slide).
− Secondarie, molto più frequenti e associate ad altre patologie come:
1) Aumentato turnover degli acidi nucleici da eccesso di produzione (malattie mieloproliferative
e linfoproliferative, anemie emolitiche, sarcoidosi, ipossia tissutale, psoriasi, diete ricche in acidi
nucleici).
2) Ridotta escrezione renale di acido urico per ridotta filtrazione o secrezione renale (IRC,
ipertensione, rene policistico, acidosi, disidratazione, farmaci come salicilati e diuretici, tossine).
[NdS: La professoressa afferma che delle forme secondarie è importante ricordare le prime due cause soprastanti, le
altre sono più rare e meno importanti. Non è quindi fondamentale impararle ma sono riportate comunque per
completezza.]

3) Deficit completo di HPRT che porta a eccesso di sintesi de novo di purine (Sindrome di Lesch
Nyhan)
4) Deficit di glucosio-6-fosfatasi (glicogenosi di von Gierke) con ecessiva produzione e ridotta
escrezione di acido urico
5) Deficit di fruttosio-1-fosfato aldolasi
6) Aumentata degradazione dell’ATP

Condizioni associate all’iperuricemia


L’iperuricemia si può essere associata a: diabete, obesità, dislipidemia, sindrome metabolica, ipertensione,
aterosclerosi e lipomatosi multipla (malattia rara citata solo per completezza).
In generale in tutte le malattie metaboliche è
comune trovare un’iperuricemia associata.
L’associazione con la sindrome metabolica è
così forte che si era pensato di aggiungere i
livelli di acido urico ai 4 parametri che
definiscono la sindrome metabolica. Alla fine
ciò non è stato fatto ma, ogni volta che una
sindrome metabolica viene diagnosticata, si
misurano anche i livelli di acido urico perché
sono spesso fuori dal limite.
Il grafico a destra mostra come i livelli di acido urico
crescano gradualmente con la comparsa dei fattori
con cui si fa diagnosi di sindrome metabolica.

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Manifestazioni della gotta
La gotta si può manifestare in modi diversi a seconda dell’entità e del tempo di persistenza dell’iperuricemia.
Quando l’uricemia supera i 7 mg/dL si verificherà l’attacco acuto di gotta, se poi l’iperuricemia persiste nel
tempo determinerà una gotta cronica, dovuta alla deposizione nei tessuti dei tofi gottosi, depositi di cristalli di
urati sottoforma di noduli che si formano nei tessuti molli.
L’organo più colpito dalla gotta cronica è il rene nel quale si può manifestare una nefropatia ostruttiva acuta,
quando i cristalli di urato ostruiscono i tubuli renali, una nefropatia interstiziale cronica, dovuta alla deposizione
di cristalli di urato nell’interstizio che condurrà nel tempo all’insufficienza renale, oppure ancora i cristalli di
acido urico possono precipitare nelle urine creando calcoli al rene e alle vie urinarie (nefrolitiasi e urolitiasi
uratica).

Attacco acuto di gotta


Patogenesi
La gotta è stata considerata nei secoli scorsi come la malattia del benessere perché solo i ricchi potevano averla.
Infatti, la causa scatenante di un attacco acuto di gotta è spesso un pasto abbondante con consumo di alcol:
questo perché l’alcol causa un aumento di acido lattico, per via della formazione nel fegato di un elevato rapporto
NADH/NAD+, che nei tessuti periferici è riossidato a piruvato con liberazione di H+, che abbassa il pH locale
predisponendo alla precipitazione dell’urato [NdS: a questo c’è da aggiungere che la birra è molto ricca di purine.
Informazione ottenuta da una ricerca su internet in cui tutti i siti che espongono valori nutrizionali degli alimenti sono concordi.]
Oltre all’alcol un pasto abbondante di per sé comprende molto probabilmente un importante introito di purine e
ciò risulterà in un aumento dell’acido urico.
La concentrazione elevata di acido urico causa una sovrasaturazione dell’urato nel plasma, una impossibilità di
mantenerlo in soluzione e quindi un deposito sotto forma di cristalli di urato monosodico nelle cavità articolari.
Solitamente l’attacco compare di primo mattino dopo una cena abbondante e con alcol.
I cristalli formati precipitano tipicamente a livello delle articolazioni, dove la cartilagine ha grande affinità per gli
urati, in particolare nelle interfalangee dell’alluce. Il deposito dei cristalli innesca una reazione infiammatoria
[NdS, da sbobina 21 di patologia generale del 14/11/2020: i Toll like Receptor identificano i cristalli di urato come dei DAMP e
perciò fanno partire la via di NF-kB] con fagocitosi da parte dei neutrofili che poi liberano chemochine e leucotriene
B4 per attrarre i macrofagi, i quali a loro volta fagociteranno i cristalli e produrranno interleuchina 1 con innesco
della cascata infiammatoria che coinvolge anche l’endotelio, a cui segue la sua attivazione.

Segni e sintomi
La presentazione clinica dell’attacco acuto di gotta prevede la presenza di:
− Dolore e infiammazione: più frequentemente all’alluce, più raramente al tallone e alla caviglia (con
sensazione simile a una slogatura). La presentazione ha le classiche caratteristiche dell’infiammazione
(tumor, rubor, calor e dolor. Importante ricordarle perché all’esame ci potrà essere una domanda proprio sull’aspetto
delle articolazioni nell’attacco acuto di gotta e la prof vuole questa descrizione. )
− Brividi e febbre
− Aumento della VES
− Aumento dei leucociti neutrofili per via dell’infiammazione.

Gotta cronica
Trascorsi 10 giorni in condizione di iperuricemia il dolore diviene interarticolare e si cronicizza. Normalmente,
però, non si rimane a lungo con i livelli di acido urico che si hanno in presenza dell’attacco acuto ma si torna ad
una fase di iperuricemia asintomatica. Infatti, tra un attacco acuto e l’altro, così come prima del primo attacco
acuto, c’è una fase chiamata di gotta intercritica in cui non c’è sintomatologia di alcun tipo ma i livelli di acido
urico sono comunque sopra la media. Questa condizione borderline può degenerare in futuri attacchi acuti di gotta

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in presenza di una causa contingente che alza ulteriormente il livello dell’uricemia, come febbre o un pasto
abbondante in trigliceridi e alcol, oppure rimanere asintomatica. In entrambi i casi se l’iperuricemia non viene
trattata provocherà a lungo andare la gotta cronica tofacea. Nella gotta cronica i cristalli si depositano anche in
luoghi diversi da quelli colpiti nell’attacco acuto, non solo nelle articolazioni ma anche nei tessuti.
[NdSv, integrazione dalle slide: caratteristiche cliniche della gotta tofacea: età relativamente giovane (nei maschi), iperuricemia di
lunga durata, assenza di trattamento ipouricemizzante, livelli di uricemia > 10 mg/dl, predilezione per le estremità superiori,
frequenti episodi di artrite acuta e frequente interessamento poliarticolare. La frequenza dei tofi cambia in rapporto ai valori di
uricemia: assenti se l’uricemia è < 10 mg/dl, modesti se l’uricemia è di 10-11 mg/dl ed estesi se l’uricemia è > 11 mg /dl.]

A livello articolare la continua deposizione di urati causa degenerazione della cartilagine mentre negli altri
distretti si avrà la formazione di tofi (accumuli di urato extraarticolari) tipicamente a livello di elice e antelice
dell’orecchio, borsa olecranica (gomito), borsa prepatellare, dita delle mani e piedi, tendine d’Achille. In passato
queste masse, quando non veniva trattata la gotta, crescevano a tal punto da ulcerarsi facendo fuoriuscire
materiale dall’aspetto gessoso.
I depositi di urato possono formarsi anche nei visceri (gotta viscerale) con effetti importanti soprattutto nel rene
(distretto dove gli urati tendono particolarmente a depositarsi) in cui causano la nefropatia gottosa, che può
condurre a episodi di insufficienza renale acuta. Questa è una nefropatia caratterizzata da:
− nefrite interstiziale da accumuli di urato nell’interstizio, che danneggiano i tubuli molto più che i
glomeruli.
− nefrolitiasi, perché l’urato ad alte concentrazioni tende a formare calcoli, processo facilitato da basso pH
urinario e disidratazione, causando infine coliche renali.
È stato recentemente riconfermato che l’iperuricemia non provoca solo la nefropatia gottosa ma può provocare
anche una cardiopatia per via dei depositi di urato nella parete del cuore; sono a rischio di ciò soprattutto i
soggetti che hanno un’iperuricemia importante e che dura da anni, quindi i pazienti affetti da gotta cronica. Molto
spesso sono persone che hanno già una patologia renale o sono obesi, dislipidemici, diabetici o ipertesi, quindi
soggetti già fortemente a rischio per malattia cardiovascolare e che vedono ulteriormente aumentato questo
rischio sia per la cardiopatia in sé, sia per l’attivazione endoteliale dovuta all’infiammazione causata dal deposito
dei cristalli, sia per l’effetto vasocostrittivo che questi esercitano sui vasi cardiaci.
È opportuno ricordare che le manifestazioni viscerali della gotta non si vedono praticamente più nei paesi
industrializzati, perché l’iperuricemia viene trattata molto prima che possa dare quei problemi.

Diagnosi di gotta
Se si sospetta che una condizione di dolore e gonfiore articolare
possa essere un attacco acuto di gotta, per confermarlo sono
necessari:
− valutazione del livello di acido urico nel sangue e nelle
urine: si dovrebbe trovare iperuricemia (sempre >
7mg/dL) e anche uricuria a seconda che il paziente sia
una buon secretore o meno;
− emocromo: molto spesso mostra una leucocitosi
neutrofila (>10 000 cellule/mm3)
− RX: la compromissione articolare dà dei quadri caratteristici di ipertrasparenza ossea.
Nell’immagine è visibile chiaramente l’elevata trasparenza alle estremità delle falangi. A livello del pollice si può vedere una vera e
propria erosione ossea, segno che il processo infiammatorio si è cronicizzato

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Terapia
La terapia della gotta si basa innanzi tutto sulla riduzione dell’infiammazione durante l’evento acuto e
successivamente sul trattamento dell’iperuricemia per scongiurare la gotta cronica. Sia in acuto che in cronico è
opportuno impostare uno schema alimentare che riduca l’introito di purine con la dieta.
Per l’attacco di gotta acuto si usano in primis i FANS, successivamente si può usare la colchicina, un
antimalarico che riduce il dolore e che testimonia il fatto di stare facendo effetto se induce diarrea nel paziente,
come ultimo livello per il trattamento dell’infiammazione si usano i corticosteroidi.
Per trattare l’iperuricemia e la gotta cronica oltre alla modifica della dieta serve un approccio farmacologico che
dipende dalle caratteristiche del paziente: se è principalmente un iperproduttore si usa l’allopurinolo che blocca
la xantina ossidasi, enzima produttore dell’acido urico per la via endogena, oppure il febuxostat, una versione più
avanzata dell’allopurinolo che funziona allo stesso modo ma è più selettiva. Se il paziente è principalmente un
iposecretore si usano invece degli uricosurici, farmaci che aumentano la secrezione di acido urico nelle urine, ad
esempio probenecid e sulfinpirazone.

In questo studio clinico sono stati comparati pazienti con almeno un attacco di gotta acuto e uricemia maggiore di 8 mg/dL trattati
con la dose massima di allopurinolo, 300mg, e pazienti trattati con la dose minima, 80mg, di febuxostat. Si è visto che la percentuale
di pazienti che mantiene uricemia < 6 mg/dL sia maggiore in coloro che hanno preso febuxostat anche se in dosi minori.

Immagine che illustra il piano terapeutico nelle iperuricemie e nella gotta.

Principi di dieta
Nella dieta del paziente iperuricemico devono essere evitati l’alcol e tutti gli alimenti ricchi di purine come le
frattaglie (animelle, fegato, cuore, rene, cervello, ecc.), consumate poco spesso, ma anche molluschi, crostacei,
acciughe, estratti di carne rossa soprattutto se assunta insieme al suo grasso, tutti alimenti consumati più spesso.
Sono da evitare tutti gli alimenti ricchi di trigliceridi (lardo, trippa, strutto, burro) perché riducono la solubilità

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dell’acido urico predisponendo alla precipitazione e al deposito degli urati. Anche alla frutta bisogna fare
attenzione perché molto ricca di fruttosio che non si trova però solo lì ma anche in bevande zuccherate,
dolcificanti, miele, prodotti da forno dolcificati industrialmente.

Nel grafico in alto si vedono i risultati di uno studio condotto su 14761


soggetti che ha dimostrato una correlazione diretta tra l’assunzione di
bevande ricche di fruttosio e i livelli di acido urico sia negli uomini sia
nelle donne.
Nel grafico in basso si mostra come anche negli adolescenti c’è una
relazione diretta tra il consumo di bevande addizionate con fruttosio e
i livelli di acido urico.

Gli effetti metabolici del fruttosio sono


schematizzati nell’immagine a destra. Il
fruttosio entra mediante la fruttochinasi
nella via della glicolisi bypassando i
sistemi di controllo della via e quindi
generando grandi quantità di intermedi
metabolici, con due effetti principali.
L’eccesso di acetilCoA induce lipogenesi
mentre la deplezione di ATP che si genera
nella prima fase della via di degradazione
del fruttosio (che è molto veloce) porta a
generazione di molto AMP, il quale prende
la via della degradazione formando acido
urico. (NdS: Integrato con articolo “Recent
advances in fructose intake and risk of hyperuricemia” di ScienceDirect).

Come linea generale una buona dieta non prevede per forza l’eliminazione di questi alimenti a rischio ma una loro
riduzione, soprattutto se ci si accorge che alcuni di essi sono assunti molto spesso e in gran quantità.
[NdSv, integrazione da slide: le norme igienico-dietetiche dell’iperuricemia prevedono anche una abbondante idratazione (2-3
L/die), l’alcalinizzazione delle urine mediante bicarbonato di sodio (2-6 g/die), kalnacitrato, citropiperazina (2-6 bust/die) o
acetazolamide (0,25-1 g/die), la riduzione graduale del peso e il controllo della pressione e dei trigliceridi. Inoltre, la gotta non
guarisce semplicemente escludendo le purine dalla dieta in quanto la malattia non dipende dalle purine esogene: una dieta
apurinica consente al massimo una riduzione dell’uricemia di 0,5-1 mg.]

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Elezione al trattamento
Ci si è chiesti molto se i pazienti da trattare siano
coloro che hanno avuto un attacco di gotta acuto o
anche coloro che hanno semplicemente una
iperuricemia (livelli superiori a 6mg/dL) e anche
quale sia l’obiettivo del trattamento.
Da questo studio si mostra chiaramente che il
trattamento è molto efficace nel ridurre il rischio di
artrite gottosa e che dunque è sicuramente indicato
per pazienti con uricemia maggiore di 7 mg/dL.
Ma quest’altro grafico mostra come per ridurre
davvero il rischio di attacco gottoso acuto in una
persona che l’ha già avuto, i livelli di acido urico nel
sangue devono essere tenuti molto sotto i 7 mg/dL:
l’obiettivo corretto del trattamento deve essere portare
i livelli sotto i 6 mg /dL o addirittura sotto i 5,5
mg/dL.
Quindi il trattamento è indicato per tutti coloro che
hanno avuto attacchi di gotta acuta o che
manifestino segni o sintomi di gotta tofacea ma
anche semplicemente coloro che hanno uricemia maggiore di 6 mg/dL, a scopo preventivo. Il trattamento deve
avere l’obiettivo di mantenere l’uricemia al di sotto di 6 mg/dL e si basa su un approccio dietetico e, se questo
non basta, sull’utilizzo dei farmaci citati in precedenza. Nell’80% dei casi la terapia si basa sull’inibitore della
xantina ossidasi ed è efficace anche con lo Zyloric (allopurinolo).
In un paziente che ha avuto anche solo uno o due attacchi di gotta è opportuno controllare la funzionalità renale
per vedere se c’è la presenza di nefropatia gottosa e tenere conto di questa nell’impostazione della terapia.

Conclusioni
L’alterato metabolismo dell’acido urico determina la gotta, che è una patologia che si compone di diverse fasi ed è
strettamente associata alla sindrome metabolica, causando un aumento del rischio cardiocircolatorio già
normalmente presente in questa. È quindi necessario, in presenza di sindrome metabolica, dosare l’acido urico di
un paziente e se questo si trova sopra la media si dovrà iniziare un percorso di dieta atto a diminuire l’introito di
purine. Se l’approccio alimentare non riesce a far scendere i livelli di acido urico almeno del 10% si dovrà
iniziare una terapia farmacologica
In conclusione, i concetti chiave da tenere a mente sono:
- con livelli di acido urico > 7mg/dL il paziente è a rischio di attacco acuto di gotta e, per questo, deve
essere trattato per riportare i livelli di acido urico nel range di normalità; inoltre i livelli fisiologici di
acido urico devono mantenersi al di sotto di 6mg/dL, in modo da evitare una condizione di gotta cronica;
- eseguire sempre delle indagini per ricercare eventuali sindromi metaboliche alla base quando si rileva
uricemia alta. Viceversa, con una sindrome metabolica diagnosticata con i criteri classici, verificare i
livelli di acido urico, poiché rappresentano un fattore prognostico negativo di malattia cardiovascolare;
- in seguito ad attacco di gotta accompagnato da alti livelli di acido urico controllare la funzionalità renale
per verificare l’eventuale presenza di nefropatia gottosa, che se non trattata può evolvere in
insufficienza renale;
- ridurre l’assunzione di alcol, cibi ricchi di lipidi e cibi ricchi di fruttosio;
- la terapia cardine che inibisce la xantina ossidasi è efficacie nell’80% dei casi; tuttavia, per i pazienti
iposecretori che presentano una riduzione dell’escrezione di acido urico, si prescrive Probenecid, che
appunto aumenta l’escrezione di acido urico.

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OBESITÀ IN GRAVIDANZA
Questo grafico mette in evidenza la prevalenza di obesità
nei due sessi per ogni fascia d’età. In modo particolare,
viene evidenziata la prevalenza di obesità nelle donne in
età fertile, quindi nelle fasce d’età comprese tra 18-50
anni.
Come è noto, l'organo adiposo non è solamente un tessuto
di deposito di trigliceridi, ma rappresenta anche un tessuto
endocrino, che produce diversi ormoni (ad esempio,
adipsina, visfatina, resistina, adiponectina), citochine (ad
esempio, IL-6, TNF-α, TGF-β) e FFA (come già detto,
sono gli acidi grassi che determinano il fenomeno di
resistenza insulinica a livello tissutale).
Tuttavia, nella donna obesa in gravidanza si osserva che, attraverso i meccanismi di infiammazione a basso
grado e attraverso il meccanismo di resistenza insulinica tissutale, l’obesità determina delle alterazioni nello
sviluppo e nella crescita del feto a livello dell’oocita, quindi della cellula uovo non fecondata, e a livello di
blastocita, ovvero cellula uovo fecondata. Questo si verifica perché l’obesità determina nel feto dei cambiamenti
di tipo genetico, ma soprattutto di tipo epigenetico, che conducono allo sviluppo di un feto macrosomico. In
questa condizione, se non si interviene per mantenere il peso del bambino nel range di normalità dopo la nascita,
si determina una condizione di obesità insulino-resistente in fase adolescenziale e di obesità insulino-resistente
associata a diabete in fase adulta.
Quindi, l’obesità determina un imprinting obesogeno anche al nascituro, attraverso una serie di modifiche
epigenetiche. Questo è importante perché, se una donna obesa partorisse una femmina obesa, quest’ultima
potrebbe partorire a sua volta un feto altrettanto obeso, determinando così un circolo vizioso.

Rischi e complicanze della gravidanza


Nelle fasce di BMI comprese tra 18.5 e 40 le donne gravide presentano un aumento progressivo del rischio di
sviluppare ipertensione gestazionale e di ricorrere a taglio cesareo per via delle dimensioni del feto: un bambino
macrosomico presenta una testa fisiologica, ma le spalle e l’addome sono più sviluppati e grassi. Di conseguenza,
si potrebbe verificare un aumentato rischio di distocia di spalla, ovvero durante il parto la testa riesce a passare
mentre le spalle restano bloccate e il bambino potrebbe andare incontro a rottura della clavicola, oppure a lesione
del plesso brachiale. Tuttavia, la distocia di spalla è una condizione rara perché, quando si osserva una condizione
di macrosomia fetale all’ecografia, si esegue un parto cesareo per prevenire questa complicanza. Quindi, nella
donna obesa è meno frequente la distocia di spalla per il frequente ricorso a taglio cesareo.
L’obesità determina delle complicazioni sia materne che fetali molto gravi. Infatti, al momento della nascita, il
bambino macrosomico presenta ipoglicemia, ittero e, soprattutto, problemi di asfissia neonatale. Inoltre, aumenta
il rischio che il bambino presenti complicanze alla nascita, richiedendo più spesso un ricovero in terapia intensiva
pediatrica rispetto ad un bambino nato normopeso.
Nella madre, invece, si verificano un aumento
dell’ipertensione, sia in forma cronica che in forma
gestazionale, un aumento del diabete gestazionale e un
aumento del rischio di induzione del parto oppure di taglio
cesareo.
Inoltre, si osserva che il rischio di sviluppare complicazioni,
sia nella madre che nel feto, aumenta di pari passo con
l’aumentare del peso. Oltre ai rischi di ipertensione e di
diabete gestazionale, con l’aumento di peso si aggiunge la

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complicanza più temibile in caso di ipertensione non controllata, ovvero la pre-eclampsia. Si tratta di una
condizione di ipertensione grave che si accompagna a perdita di proteine nelle urine, cioè si accompagna ad una
nefropatia generalizzata, e aumenta il rischio di morte della donna, se non si induce tempestivamente il parto.
Per quanto riguarda il feto, aumenta il rischio di morte perinatale per asfissia e il rischio di nascita di neonato
LGA (large for gestational age). Un neonato con un peso superiore rispetto a quello del 90% dei bambini della
stessa età gestazionale (al di sopra del 90° percentile) si definisce grande per l’età gestazionale.
Grazie ad un ulteriore studio sull’obesità gestazionale, è stato studiato per la prima volta il rischio di sviluppo di
malformazioni congenite. Sono state prese in considerazione una serie di gravidanze, suddivise sulla base del
BMI, e si osserva come il rischio di avere malformazione congenita nel bambino di una donna obesa è molto
elevato. Inoltre, si osserva che le malformazioni congenite in caso di obesità gestazionale sono le stesse
malformazioni in caso di diabete gestazionale, che sono le malformazioni della spina caudale, le
malformazioni ossee, le malformazioni cardiache e, nei casi più gravi, le malformazioni cerebrali.
Purtroppo, nonostante l’impiego di ecografie moderne, come l’ecografia 3D, alcune malformazioni congenite non
vengono osservate e diagnosticate in tempo utile per l’interruzione volontaria di gravidanza. Infatti, lo spesso
pannicolo adiposo in una donna obesa riduce notevolmente la possibilità di diagnosticare tempestivamente la
malformazione.

Si osservano una serie di immagini, che mettono a confronto ecografie in donne normopeso (BMI < 25) ed ecografie in donne obese
(BMI > 35), ed è evidente la difficoltà di visualizzare chiaramente l’anatomia fetale nell’ecografia di donne obese.

L'obesità determina un aumento dell’infiammazione, tramite la secrezione a livello della placenta di leptina, di IL-
6 e di CRP. Quindi, si osserva il trasferimento di un pattern infiammatorio anche al feto attraverso la placenta.
Inoltre, l’infiammazione placentare determina anche un’alterazione funzionale del tessuto, che quindi non
funziona adeguatamente.
A lungo termine, aumenta il rischio di sviluppare obesità infantile nel bambino macrosomico alla nascita, con il
rischio di determinare un circolo vizioso. I neonati di donne obese presentano una percentuale di grasso più
elevato rispetto ai bambini nati da donne normopeso. In termini di peso e di massa magra, non si osserva una
notevole differenza, invece la percentuale di massa grassa è molto più elevata nel bambino macrosomico.

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Chirurgia bariatrica in gravidanza
Nelle donne gravide e obese, si potrebbe intervenire tramite un intervento di chirurgia bariatrica.
A questo proposito, si osserva una metanalisi condotta dalla professoressa Lapolla a Padova, nelle donne
sottoposte ad interventi di chirurgia bariatrica, che quindi hanno ridotto il loro peso, si riducono le frequenze di
ipertensione gestazionale, di diabete gestazionale, di taglio cesareo, di nascita di neonati LGA o macrosomici, ma
aumenta la frequenza di nascita di bambini SGA (small for gestational age).
Un neonato SGA, così come un neonato LGA, si potrebbe presentare asfittico (con asfissia) e, quindi, potrebbe
richiedere il ricovero in terapia intensiva neonatale. Per questa ragione, le donne che hanno subito interventi
bariatrici devono essere monitorate attentamente, in modo tale da rilevare l’eventuale deficit di sostanze utili,
come acido folico, ferro e vitamine. In queste situazioni devono essere monitorati i livelli di queste sostanze,
eventualmente anche prima della gravidanza, e le donne devono essere seguite in maniera stringente per
compensare l’eventuale introito di queste sostanze fondamentali.
In una review del 2012 si mette in luce che la procedura chirurgica più eseguita sulle donne obese è stata quella di
LAGB, ovvero intervento di resezione gastrica. Tuttavia, in fase di programmazione di gravidanza, l’intervento
più utile in queste donne sarebbe in realtà il posizionamento dell’anello gastrico. Questo, infatti, può essere
allargato nel secondo e nel terzo trimestre di gravidanza, in modo tale da fare assumere un maggiore apporto
calorico e nutritivo utile per la crescita adeguata del feto, prevendendo così la condizione di SGA.
Inoltre, interventi più restrittivi sono molto pericolosi per una donna in gravidanza. Ad esempio, un intervento
di bypass gastrico o un intervento di diversione bileopancreatica accrescono il rischio di complicanze dopo la
gravidanza, quindi le donne in queste situazioni vanno seguite più attentamente.
Una donna che intende avere una gravidanza dovrebbe attendere uno o due anni circa dall’intervento di chirurgia
bariatrica.
Nel 2010, il ministero della Salute ha incaricato la professoressa
Lapolla di eseguire una revisione delle linee guida e dei
quaderni della salute per la donna obesa in gravidanza. È stata
evidenziata una mancanza di linee guida internazionali in questo
ambito, ad eccezione delle linee guida canadesi. Inoltre, nel
2015, la SIO (società italiana dell’obesità) ha richiesto alla
professoressa di inserire le raccomandazioni per l’obesità in
gravidanza all’interno degli standard italiani per la cura
dell’obesità. Nel 2017, poi, queste raccomandazioni sono state
tradotte e rese accessibili anche in altri paesi. Infine, nel 2017,
AGENAS ha richiesto di aggiornare le linee di indirizzo clinico
organizzative per la prevenzione delle complicanze in
gravidanza.

Ad oggi, le principali indicazioni secondo le linee


guida attuali sono:
- Le donne in età fertile con BMI >30 kg/m2 devono essere informate dei rischi legati ad un’eventuale
gravidanza;
- Le donne che programmano una gravidanza devono essere indirizzate a centri specializzati per
raggiungere un peso ragionevole, prima di intraprendere una gravidanza;
- Le donne che programmano una gravidanza devono assumere acido folico, ancora prima della
gravidanza, per prevenire eventuali malformazioni;
- In gravidanza e dopo il parto, le donne devono assumere vitamina D. Infatti, essendo la vitamina D
liposolubile, tende a depositarsi nel tessuto adiposo mentre i suoi livelli ematici sono bassi, con il rischio
di problemi del tessuto scheletrico in gravidanza o in periodo peri-parto.

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- Le donne obese devono essere seguite da un’equipe multidisciplinare di cura, che comprende un
endocrinologo, un diabetologo, un ginecologo, un infermiere, un ostetrico e un dietista, in modo tale da
valutare che l’incremento di peso sia regolare;
- Se una donna è gravemente obesa il suo peso può aumentare non oltre i 5kg durante la gravidanza. In
aggiunta, deve essere prevenuta la perdita di peso in gravidanza, poiché questa comporta non solo la
perdita di massa grassa, ma anche la perdita di osso e di massa muscolare.
- È necessario eseguire uno screening di diabete gestazionale già nel primo trimestre di gravidanza;
- È importante la valutazione anestesiologica in queste pazienti. Infatti, ci possono essere difficoltà nel
trovare un accesso venoso, ma anche difficoltà nella somministrazione di anestetici, poichè è noto che
questi sono liposolubili e tendono, di conseguenza, a depositarsi nel tessuto adiposo e a determinare
effetti tossici. In queste condizioni è difficile l’esecuzione dell’intervento di taglio cesareo e il parto deve
essere eseguito in centri specializzati, dotati anche di terapia intensiva neonatale.
Uno studio danese ha analizzato i costi per seguire le donne obese in gravidanza, in relazione all’aumento del BMI, ma anche
valutando altre variabili come l’età o l’etnia. Oltre ai costi, aumentano anche il numero delle visite e la loro durata. La regione
Veneto ha trasformato le linee guida in PDTA e utilizza un PDTA per l’obesità in generale, all’interno del quale è presente un PDTA
relativo alla donna gravida obesa, di cui la professoressa Lapolla è incaricata.

DIABETE IN GRAVIDANZA

Classificazione del diabete gestazionale


In corso di gravidanza ci troviamo sostanzialmente di fronte a due condizioni:
− Donna diabetica prima della gravidanza, che presenta DMT1 o DMT2
− Donna a cui viene diagnosticata un’alterazione glicemica solo dopo che è iniziata la gravidanza.
In questo ultimo caso abbiamo due possibilità:
1) se nel primo trimestre, alla prima visita dopo 8-12 settimane, vengono riscontrati valori elevati di
glicemia tali da permettere una diagnosi di diabete preesistente, si parla di diabete manifesto.
2) Se nel secondo trimestre, alla seconda visita a 16-18 settimane, vengono riscontrati valori elevati di
glicemia si può fare diagnosi di diabete gestazionale vero e proprio, ovvero un’intolleranza al glucosio
di qualsiasi grado diagnosticata in gravidanza per la prima volta che non è un clearly over diabetes
(diabete manifesto).

Fisiopatologia del diabete gestazionale


Nella gravidanza dal secondo-terzo trimestre
aumentano fisiologicamente una serie di ormoni che
inducono insulino-resistenza, la quale provoca un
aumento del volume delle cellule β e un aumento della
secrezione di insulina per mantenere la glicemia nella
norma. Questa insulino-resistenza permette alla madre
di passare glucosio e proteine al feto: se tutto funziona
bene la madre avrà glicemia normale, un assetto
lipidico lievemente aumentato, ma non
eccessivamente, e un assetto proteico normale.
Se la cellula β non è in grado di sopperire
all’aumento di volume e di produzione di insulina allora insorge il diabete gestazionale. Come nel diabete di tipo
II è già presente un deficit di secrezione di insulina, che poi l’insulino-resistenza peggiora determinando
l’esaurimento cellulare.

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Quindi i meccanismi dell’insorgenza del diabete gestazionale sono simili a quelli del diabete tipo II ma si
sviluppano in un tempo ridotto, raramente nel primo trimestre e più spesso a partire dal secondo, quando gli
ormoni aumentano.

Implicazioni nello sviluppo fetale


L’iperglicemia è dannosa per gli organi nell’adulto e lo stesso vale per quelli del feto. Una glicemia molto elevata
già al momento del concepimento è tossica per l’embrione, determinando alterazioni nello sviluppo embrionale e
quindi malformazioni congenite, talvolta incompatibili con la vita.
A livelli meno elevati il bambino può nascere pretermine, ipoglicemico e/o macrosomico. Questo avviene
perché nell’iperglicemia vi è un flusso materno-fetale di glucosio più elevato del normale, che stimola la
secrezione di insulina nelle cellule beta del pancreas del feto per mantenere normali i livelli di glucosio: tuttavia,
l’insulina è anche un fattore di crescita che stimola la crescita del tessuto adiposo e muscolare e in generali
di tutti i tessuti, provocando quindi macrosomia fetale (il bambino avrà testa normale ma tutto il resto del corpo
molto sviluppato) che richiederà il ricorso a taglio cesareo se si riscontra un peso superiore ai 4kg.
Il bambino è ipoglicemico perché una volta tagliato il cordone ombelicale al feto non arriva più glucosio dalla
madre, ma il feto ha insulina alta e quindi la glicemia si abbassa. La prima cosa da vedere in un neonato che
nasce da mamma obesa o in generale con diabete gestazionale è che non presenti ipoglicemia.
Ricapitolando l’iperglicemia, quindi il controllo non ottimale del diabete in gravidanza, comporta:
− iperinsulinizzazione fetale;
− macrosomia fetale, intesa come aumentato peso alla nascita (maggiore di 4kg);
− ipoglicemia alla nascita;
− aumentato numero di parti cesarei;
− aumentata morbilità e mortalità;
− nascita pretermine.

Epidemiologia
Il diabete gestazionale con i vecchi criteri interessava circa il 10% delle donne gravide non diabetiche, ora con i
nuovi criteri di diagnosi del 2011 HAPO, il quale ha valutato in tutto il mondo 25.000 donne sottoponendole a
curva di carico orale con 75 grammi di zucchero, la prevalenza è aumentata al 18%. In Italia la prevalenza è
leggermente inferiore ed è del 14%.
L’Italia non ha partecipato allo studio HAPO, nonostante interpellati dagli americani per l’elevata frequenza di
taglio cesareo in donne non diabetiche: ogni anno l’Italia viene richiamata dall’OMS per l’elevata frequenza di
taglio cesareo, dovuta al fatto che i ginecologi vi ricorrono alla minima complicanza nel parto per evitare di
andare in tribunale e per la considerazione dei medici verso le richieste della donna, che non vuole soffrire
nonostante il rischio operatorio del cesareo (cosa non etica secondo la professoressa).
Le etnie a rischio di diabete di tipo 2 sono le etnie a rischio anche di diabete gestazionale.

Diabete gestazionale e PMA


La PMA, o procreazione medicalmente assistita, prevede
una terapia ormonale (“botta di ormoni”) per far impiantare
l’ovulo e quindi queste donne, spesso obese e/o attempate,
vengono sottoposte a una grossa dose di ormoni
controinsulinari: queste pazienti hanno un elevato rischio
di diabete gestazionale e hanno molto spesso una gravidanza
complicata.
Da uno studio del 2013 si può notare che le donne che hanno eseguito PMA hanno un rischio maggiore di diabete
gestazionale quando hanno età maggiore di 40 anni, soprattutto se hanno una gravidanza gemellare o hanno già

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avuto episodi di diabete gestazionale in passato. La PMA aumenta la frequenza di diabete gestazionale per
l’assunzione di ormoni, che provocano insulinoresistenza in quantità maggiori rispetto alla gravidanza fisiologia.
Spesso la prima stimolazione non conduce a una gravidanza ma bisogna farne due o tre, con possibile gravidanza
gemellare. Il rischio di diabete gestazionale aumenta in maniera proporzionale al numero di bambini e alla
dose di ormoni utilizzata.
Queste donne dovrebbero dimagrire prima di svolgere la PMA evitando di andare incontro ai rischi correlati
alla gravidanza, alla PMA e all’obesità. Inoltre, considerando che l’obesità grave provoca problemi di sterilità,
con un dimagrimento sarebbe possibile ottenere una maggiore fertilità non solo nella donna ma anche nell’uomo,
se obeso anche lui, e quindi la PMA potrebbe non essere necessaria. Anche il dimagrimento di “soli” 10-20 kg,
non per forza di 40 kg, aiuta molto: a Padova ci sono stati due casi di donne in reparto la cui perdita di peso ha
permesso una gravidanza spontanea. Proprio di recente la regione Veneto ha deciso che il percorso sanitario che
deve seguire una persona che va incontro a PMA sia legato fin da subito a quello dell’obesità in gravidanza.
I casi peggiori arrivano dai centri privati di PMA, in cui il ginecologo per un riscontro economico è poco
interessato alla salute della donna ma punta a indurre il maggior numero di stimolazioni per un maggior
guadagno. Stimolando più volte con alte concentrazioni di estrogeni si causano ipertensione e insulino-resistenza,
oltre a illudere e sottoporre a stress psicologico le future madri.

Complicanze a lungo termine


L’intolleranza ai carboidrati torna normale dopo il parto ma permane la predisposizione al diabete di tipo II.
Quindi il diabete gestazionale dà complicanze a distanza: nei primi 10 anni il 50% delle donne con diabete
gestazionale svilupperà diabete di tipo II, con un tasso di progressione del 10% nei primi 5 anni e del 5%
negli altri 5 anni, soprattutto se hanno altri fattori di rischio per il diabete, quali obesità, età avanzata e
familiarità.
I meccanismi di resistenza insulinica e riduzione della funzione β cellulare che conducono al diabete di tipo II nel
corso di diversi anni, nel caso del diabete gestazionale si sviluppano velocemente nei mesi della gestazione perché
lo stress ormonale provocante insulino-resistenza è molto alto.
Come mostrato nel grafico accanto, nelle donne che
non presentano diabete gestazionale la probabilità di
sviluppare diabete tipo II nei successivi 10 anni è del
2%, mentre le donne che manifestano diabete
gestazionale hanno una probabilità del 19%, quindi il
rischio di sviluppare diabete tipo II dopo una
gravidanza con diabete gestazionale è molto alto.
Il rischio di sviluppare diabete tipo II in seguito a
diabete gestazionale aumenta maggiormente se:
− il diabete gestazionale ha richiesto iniezioni
di insulina,
− l’etnia è asiatica (non sono state considerate
per lo studio le etnie che hanno normalmente
una predisposizione a diabete di tipo II)
− la donna ha una crescita fetale accelerata
− la donna ha una glicemia 1 ora dopo la curva elevata.
Anche nel bambino ci possono essere complicanze oltre alla macrosomia: svilupperà insulinoresistenza e
intolleranza ai carboidrati già da bambino o da adolescente e potrà sviluppare diabete tipo II in età adulta, se di
sesso femminile potrà essere affetta a sua volta da diabete gestazionale.
Risulta quindi importante identificare le pazienti con diabete gestazionale per prevenire sia le complicanze
materno-fetali della gravidanza, sia le complicanze a lungo termine.

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Diagnosi
Negli Stati Uniti le donne sono visitate dal ginecologo nel secondo trimestre mentre in Italia un po’ prima, già
dalla settima-ottava settimana, con un sistema sanitario che protegge e segue la gravidanza in maniera incredibile.
Alla prima visita in gravidanza tra le 8 e le 12 settimane di gestazione si fa la glicemia per identificare il diabete
manifesto (Overt), quella forma di diabete che la donna aveva e non sapeva di avere perché non aveva svolto
esami in precedenza: questo è frequente soprattutto nelle donne di provenienza da paesi extracomunitari dove non
si svolgono esami di routine. Queste donne con diabete manifesto vanno seguite attentamente perché le
complicanze possono essere più gravi di quelle di un diabete gestazionale.
I criteri per fare diagnosi di diabete manifesto o prima della gravidanza sono gli stessi che si usano per
diagnosticare un diabete in una persona qualsiasi: questo perché le misurazioni sono eseguite in un periodo
inferiore alle 12 settimane di gestazione, in cui non c’è un significativo incremento ormonale che modifica i
valori. I criteri sono espressi nell’immagine qui sotto; va ricordato che i test se positivi devono essere ripetuti due
volte, tranne la glicemia random, che in presenza di sintomi può essere fatta una volta sola.

Se tutti i criteri di diagnosi sono negativi a 16-18 settimane di gestazione si fa screening per diabete gestazionale
alle donne con grosso rischio di diabete in gravidanza, quindi se presentano fattori di rischio maggiori:
− pregresso GDM (diabete mellito gestazionale);
− BMI maggiore di 30 kg/m2;
− glicemia pregravidica o alla 12a settimana fra 100 e 125mg/dl a digiuno.
Se la curva di carico orale da glucosio è negativa va ripetuta per sicurezza alla 28a settimana di gestazione, in
quanto è un fattore di rischio importante.
Nelle donne con minori fattori di rischio la curva di carico orale da
glucosio (OGTT) viene svolta tra la 24a e la 28a settimana se:
− età maggiore di 35 anni;
− BMI maggiore di 25 kg/m2;
− bambino precedente macrosomico, con peso fetale maggiore
di 4kg secondo la letteratura internazionale e di 4,5 kg
secondo il ministero della sanità;
− precedente diabete gestazionale ma negatività alla curva
svolta nella 16a settimana;
− appartenenza ad etnia con alta prevalenza di diabete di tipo II
La curva di carico viene svolta con 75 g di glucosio, come al solito,
ma i limiti sono un po’ diversi e la valutazione si fa a 0, 60 e 120 minuti. Un solo valore di glicemia misurata in
quei tempi uguale o maggiore al limite è sufficiente a fare diagnosi di diabete gestazionale. (questa cosa va
saputa a menadito).

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Tabella che riassume l’iter diagnostico e di screening per diabete in gravidanza

Trattamento
Il trattamento si basa su una dieta che assicuri adeguato nutrimento materno fetale e mantenga la glicemia
normale: è possibile raggiungere un ottimale controllo della glicemia solamente attraverso la dieta, garantendo
allo stesso tempo un corretto apporto nutritivo alla madre e al feto.
Prima della gravidanza, a seconda del peso della paziente, viene consigliato
come devono essere l’introito giornaliero e l’incremento di peso in
gravidanza: appare dunque chiaro che una donna con un BMI basso potrà
andare incontro ad un incremento di peso maggiore rispetto ad una donna
che di partenza presenta un BMI elevato.
La madre deve mangiare 6 volte al giorno con 3 pasti e 3 spuntini per
mantenere un livello sempre regolare di glicemia. La dieta deve essere
abbinata ad esercizio fisico ed essere in accordo con stile di vita, lavoro, cibi
preferiti. È importante lo spuntino serale con 25 g di carboidrati e 10 g di proteine, in modo da stabilire anche
durante la notte un flusso regolare di glucosio materno-fetale.
I carboidrati sono in media il 45% della dieta (i grassi il 35% e le proteine il 20%), ma questa media può
variare dal 40% nella gravida obesa al 60% nella normopeso. Non è consigliabile scendere al di sotto del 40% di
carboidrati.
È importante svolgere esercizio fisico, che permette una armoniosa crescita fetale e aumenta il flusso materno-
fetale di tutti i nutrienti. Sono sconsigliate arti marziali, sport di squadra, esercizi anaerobici, esercizi con elevato
rischio di caduta e sport “emozionanti”, mentre vanno bene corsa, aerobica, nuoto (che lavora contro gravità),
cyclette e passeggiate. Le donne che non raggiungono gli obiettivi glicemici solamente attraverso la dieta devono
essere avviate a terapia insulinica.

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