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3 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Indice dei Capitoli e degli Atlanti

Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare


Capitolo 1. I Sintomi delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani
Capitolo 2. I Segni delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani

Sezione II. Le indagini strumentali


Sbob. .L’Elettrocardiogramma
Capitolo 4. L’Ecocardiogramma, Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso, Raffaele Calabrò

Sezione III. Malattie delle Valvole Cardiache


Capitolo 13. Malattia Reumatica, Luigi Meloni, Massimo Ruscazio
Capitolo 14. Stenosi Mitralica, Giuseppe Oreto, Francesco Saporito
Capitolo 15. Insufficienza Mitralica, Paolo Marino
Capitolo 16. Stenosi Aortica, Francesco Pizzuto, Francesco Romeo
Capitolo 17. Insufficienza Aortica, Corrado Vassanelli
Capitolo 18. Malattie della Tricuspide e della Polmonare, Ketty Savino, Sandra D'Addario, Elisabetta Bordoni, Giuseppe Ambrosio

Sezione IV. Scompenso Cardiaco


Capitolo 19. Fisiopatologia dello Scompenso Cardiaco, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali
Capitolo 20. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Acuto, Francesco Fedele
Capitolo 21. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Cronico, Batman, Mazzinga, Godzilla

Sezione V. Shock cardiogeno


Capitolo 22. Lo Shock Cardiogeno, Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno

Sezione VI. Cardiopatia Ischemica


Capitolo 23. Fisiopatologia dell’Ischemia Miocardica, Filippo Crea, Gaetano A. Lanza
Capitolo 24. Sindromi Coronariche Croniche, Mario Marzilli
Capitolo 25. Sindromi Coronariche Acute, Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone
Capitolo 26. Diagnostica Strumentale, Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi

Sezione VII. Cardiomiopatie


Capitolo 27. Definizione e Classificazione, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini
Capitolo 28. Cardiomiopatia Ipertrofica, Sandro Betocchi, Maria Angela Losi, Massimo Chiariello
Capitolo 29. Cardiomiopatia Dilatativa, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda
Capitolo 30. Cardiomiopatia Restrittiva, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani, Andrea Perkan
Capitolo 31. Cardiomiopatia/Displasia Aritmogena del Ventricolo Destro, Luciano Daliento, Barbara Bauce, Cristina Basso, Alessandra

Sezione VIII. Pericarditi, Miocarditi, Endocarditi


Capitolo 32. Pericarditi, Antonio Barsotti, Gian Marco Rosa
Capitolo 33. Miocarditi, Antonello Ganau, Pier Sergio Saba
Capitolo 34. Endocardite Infettiva, Sergio Dalla Volta

Sezione IX. Tumori del Cuore


Capitolo 35. I Tumori del Cuore, Gaetano Thiene, Cristina Basso, Marialuisa Valente
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Sezione XII. Ipertensione arteriosa


Capitolo 45. L’ipertensione Arteriosa, Massimo Volpe, Sebastiano Sciarretta

Sezione XIII. Arteriosclerosi


Capitolo 46. L’Aterosclerosi, Paolo Golino
Capitolo 47. La Valutazione del Rischio Coronarico, Salvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina Novo

Sezione XIV. Cuore Polmonare ed Embolia Polmonare


Capitolo 49. Il Cuore Polmonare Cronico, Cesare Fiorentini, Piergiuseppe Agostoni, Elisabetta Doria
Capitolo 50. L’Embolia Polmonare, Giuseppe Mercuro, Francesco Peliccia
Capitolo 51. L’Ipertensione Polmonare Primitiva, Carmine Dario Vizza, Roberto Badagliacca, Roberto Poscia, Francesco Fedele
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Capitolo 1
I SINTOMI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Mario Mariani

DEFINIZIONE

Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e
mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il
miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle
patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono,
per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico,
come il Giappone.
Più elevata è la vita media di un Paese, maggiore è il rischio di sviluppo delle malattie cardiovascolari.
Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza
determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato”
dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi.

I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono:

1) La Dispnea
2) L’Astenia
3) Il Dolore toracico
4) Il Cardiopalmo
5) La Nicturia

LA DISPNEA

Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può
insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue
manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto
(vedi più avanti).
Quando non imputabile a cause respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo polmonare da
parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della pressione
diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari
polmonari e nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari
provoca trasudazione di liquido, dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli
alveoli (edema alveolare).

La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica; la dispnea cardiaca è uno dei
sintomi più significativi insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la
valutazione clinica di gravità di uno scompenso.
Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.),
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Essa è così strutturata:


Classe I: il paziente con patologia cardiaca non ha alcuna limitazione della propria attività fisica. La dispnea
insorge solo per sforzi eccessivi (fisiologica)
Classe II: il paziente con patologia cardiaca accusa dispnea per sforzi di intensità moderata.
Classe III: il paziente con patologia cardiaca accusa dispnea per sforzi di intensità lieve.
Classe IV: il paziente con patologia cardiaca è incapace di effettuare qualsiasi attività fisica, la dispnea
insorge a riposo, anche nello svestirsi.

La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema polmonare acuto, che si
realizza quando la pressione all’interno dei capillari polmonari supera il valore della pressione colloido-
osmotica. Nel capillare, infatti, agiscono due forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far
fuoriuscire il liquido dal vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a
trattenere il liquido all’interno; il valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la pressione idrostatica nei
capillari polmonari supera tale valore, si verifica una ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture
microvascolari, ad alcuni globuli rossi. Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio
(edema interstiziale), da dove il sistema linfatico cerca di rimuoverlo; successivamente, quando la capacità
di drenaggio del sistema linfatico viene superata, il fluido invade gli alveoli polmonari (edema alveolare) e
mescolandosi all’aria forma una schiuma, talora rosata, che invade le vie aeree ed interferisce gravemente
con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto da poter portare a morte. All’ascoltazione del torace, in questa
situazione drammatica, quando dalla fase interstiziale si passa a quella alveolare, si assiste alla comparsa di
rantoli prima a piccole poi a grosse bolle, che iniziano dalle basi polmonari e giungono rapidamente a
coprire l’intero distretto respiratorio. Il soggetto è in posizione eretta e mette in funzione tutti i muscoli
respiratori accessori nella disperata ricerca di riuscire ad effettuare atti respiratori utili.

L’ASTENIA

E’ l’espressione di una ridotta portata cardiaca e si manifesta con la difficoltà a compiere le usuali attività
motorie (adinamia) o addirittura con un grave senso di spossatezza ancor prima di iniziare una qualunque
attività fisica.

IL DOLORE TORACICO

Il dolore ischemico presenta caratteristiche peculiari che vanno


dalla modalità di insorgenza, al tipo di dolore, alla sede dello stesso, alla sua irradiazione. E’ questo il
sintomo più importante nell’angina ed in genere delle sindromi coronariche acute, compreso l’infarto
miocardico.
Nei quadri clinici riferibili ad angina pectoris, la presenza di dolore è “condicio sine qua non” per definire il
quadro clinico. Nell’angina da sforzo stabile il dolore insorge durante uno sforzo fisico, è di tipo costrittivo
od oppressivo e nel 75% dei casi è localizzato alla regione retrosternale bassa, con varie possibili
irradiazioni, delle quali abbastanza comune è quella al lato ulnare del braccio sinistro, e in misura minore, al
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giugulo. Più raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o l’epigastrio. Il dolore
cessa di solito poco dopo la cessazione dello sforzo e recede rapidamente con l’assunzione di nitroderivati.
Nell’infarto miocardico acuto, il dolore con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere ben oltre i
pochi minuti e può durare addirittura diverse ore.
Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris, sindromi coronariche
acute) ma può essere indicativo di numerose altre patologie cardiovascolari quali la pericardite, la
dissezione aortica, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di
altri organi e sistemi, come lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o
flogistico) di nervi intercostali.

LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO

La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del cuore, infatti, decorre in
maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte, per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di
cardiopalmo: quello tachicardico, in cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello
extrasistolico, caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la “sensazione del
cuore che si ferma” (vedi Capitolo 33). Anche se in condizioni di impegno fisico od emozionale è frequente
sentire il proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la perdita di ritmicità è un fenomeno che
difficilmente sfugge. Talora tale sintomo viene vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso
di extrasistolia isolata o sporadica.
L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico, o al contrario
estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la fibrillazione ventricolare o l’asistolia,
possono portare a morte senza alcun sintomo premonitore, ma è innegabile che talora “salve di
extrasistoli” o brevi episodi di tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria
asistolia, possono risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere trattati con pacemaker o
defibrillatore, evitando eventi gravi o fatali.

LA SINCOPE

Può essere definita


come: “Perdita improvvisa e transitoria della coscienza e del tono posturale, dovuta ad una grave ipossia o
ad una anossia cerebrale acuta”. Talora può essere accompagnata da perdita di urine e/o di feci. Un tempo
si distingueva la lipotimia come perdita momentanea del tono posturale e talora anche dello stato di
coscienza, preceduta in genere da prodromi descritti come “senso di mancamento, nausea, appannamento
della vista, sudorazione, pallore”. Oggi si preferisce parlare di sincope e di presincope. La sincope può
riscontrarsi in varie situazioni di patologia cardiaca (vedi Capitolo 41).

LA NICTURIA

E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione della diuresi durante
il giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il fenomeno può essere dovuto al
riassorbimento notturno degli edemi soprattutto declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta
nel paziente con scompenso cardiaco congestizio, o anche perché durante il riposo notturno il fabbisogno di
sangue da parte dei muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata cardiaca può
giungere al rene, il quale aumenta la produzione di urina.
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Capitolo 2
I SEGNI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Mario Mariani

CONCETTI GENERALI

I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono rilevabili con un accurato
esame obiettivo: Ispezione, Palpazione, Percussione, Ascoltazione.
Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica Cardiovascolare,
grazie ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la determinazione delle dimensioni
cardiache. Gli altri tre capisaldi semeiologici (Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto
quest’ultima) conservano la loro validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche
diagnostiche strumentali.
I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato cardiovascolare
mediante le seguenti manovre:

1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi.


2) L’osservazione del polso venoso giugulare.
3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso.
4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale.
5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di pulsazioni abnormi.
6) La ricerca di eventuali edemi declivi.
7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di soffi o sfregamenti.

CIANOSI

Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili quando il contenuto di
emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 gr/dl.
La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla presenza di uno
shunt destro-sinistro o a gravi difetti dell'ossigenazione del sangue.
La cianosi periferica si realizza o a seguito di vasocostrizione locale con con conseguente maggiorata
desaturazione locale, ma può anche essere diffusa in caso di stasi circolatoria. La cianosi periferica può
evidenziarsi, fra l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle resistenze
periferiche.

OSSERVAZIONE DEL POLSO VENOSO

Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta, reclinato a 45°
Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive sono denominate
onde a, c e v, mentre le depressioni sono denominate x e y. Un’attenta osservazione del polso venoso
giugulare, può fornire precise indicazioni circa la funzione delle camere destre del cuore.
Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in atrio destro
(Stenosi tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione diastolica ventricolare destra,
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come si verifica nella Miocardiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi
Capitolo 32). Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale.

ISPEZIONE DELLE ARTERIE E PALPAZIONE DEL POLSO ARTERIOSO

Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio l’eccessiva
pulsazione delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza aortica o di altre situazioni di
circolo ipercinetico). Con l’ascoltazione possono evidenziarsi soffi vascolari. Con la palpazione del polso
arterioso si valuta:
a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto
b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni
c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa, carattere che è
direttamente correlato alla gittata sistolica
d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per sopprimere la pulsazione,
espressione anche del livello pressorio
e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai due lati
dell’organismo (per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc).
Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare indicativi di particolari
situazioni morbose. Ecco alcuni esempi.
A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra nella stenosi aortica
(vedi Capitolo 16).
B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) detto anche polso scoccante di Corrigan è presente
nell’insufficienza aortica (vedi Capitolo 17) o negli stati circolatori ipercinetici.
C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza nettamente ridotte) è
tipico dello shock (vedi Capitolo 22).
D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione durante una inspirazione
profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di
mercurio, mentre in presenza di pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione
del riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio. Un'aumentata
pressione negativa intratoracica, che in fase inspiratoria si accentua ulteriormente causa un aumento del
ritorno venoso alle sezioni destre del cuore: ne consegue una maggiore pressione di riempimento
telediastolica del ventricolo destro, con conseguente spostamento del setto interventricolare verso sinistra;
tale spostamento determina un ostacolo all'efflusso di sangue dal ventricolo sinistro in aorta, determinando
così una "decapitazione" della pressione sistolica.

ISPEZIONE E PALPAZIONE DELLA ZONA PRECORDIALE

L’ispezione e la palpazione possono consentire di localizzare l’itto della punta del cuore, cioè la sede della
massima pulsazione visibile o palpabile, che normalmente si trova al IV spazio intercostale sinistro circa 1
centimetro all’interno della linea emiclaveare. In condizioni patologiche, l’itto della punta può essere
dislocato anche in sedi molto diverse dal normale: nell’insufficienza aortica grave, per esempio, può essere
spostato in basso e a sinistra fino al VI spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore o anche media.
Possono essere apprezzabili alla palpazione della zona precordiale fremiti, i quali costituiscono il
corrispettivo palpatorio dei soffi particolarmente intensi (4/6 o più della scala Levine, vedi più avanti) o (più
di rado) degli sfregamenti pericardici in corso di pericardite.

PALPAZIONE DELL’ADDOME PER RICERCARE L’EVENTUALE PRESENZA DI EPATOMEGALIA O DI PULSAZIONI


ABNORMI
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Epatomegalia è presente nelle forme di scompenso che coinvolgono il cuore destro primitivamente o
secondariamente a difetti del cuore sinistro (per esempio valvulopatie mitraliche e/o aortiche). In genere
l’organo palpato risulta dolente e può sporgere di oltre tre dita dall’arcata costale. Alla palpazione
dell'addome si possono apprezzare pulsazioni abnormi riferibili alla presenza di aneurismi dell'Aorta
addominale.

EDEMI DECLIVI

Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali, etc.) nei soggetti che
rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti costretti a letto gli edemi sono più evidenti
nella regione pre-sacrale. Quando si ha un imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si
accompagnano anche a versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.).

ASCOLTAZIONE DEL CUORE

L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore, ed è basata
sull’analisi dei toni e sul riconoscimento di eventuali soffi.

I Toni
I toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di patologia nei bambini o in
giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile.

Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari, mentre il II si deve alla
chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1).
Il I tono può risultare rinforzato e ligneo in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di stenosi della
valvola tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza mitralica.

Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella maggior parte dei casi
sono così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la chiusura della valvola aortica precede di poco
quella della polmonare (Figura 1).

Figura 1 I e II tono cardiaco. A2 = componente aortica del II tono. P2 = componente polmonare del II tono.
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A volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono possono essere ascoltate
distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato (Tum-Tla). Tale sdoppiamento è
fisiologicamente presente in ispirazione, mentre A2 e P2 appaiono unite in espirazione(Figura 2A).

Figura 2 A: sdoppiamento variabile del II tono legato alle fasi del respiro.
B: Sdoppiamento paradosso del II tono in presenza di blocco di branca sinistra. A2 = componente aortica
del II tono. P2 = componente polmonare del II tono

Ciò dipende dal fatto che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per l’incremento della vis a fronte:
il ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente prolungata, dunque la
chiusura della semilunare polmonare è ritardata; con l’espirazione, invece, questo fenomeno non è più
presente, e la chiusura delle due valvole semilunari è simultanea.
Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso (Figura 3) in presenza di un difetto del setto interatriale,
che comporta uno shunt sinistro-destro (vedi Capitolo 51).

Figura 3 Sdoppiamento fisso del II tono nel difetto del setto interatriale.
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In questa situazione la gittata del ventricolo destro è sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato
ritorno venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt attraverso il setto interatriale.
Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si avverte uno sdoppiamento
in espirazione mentre il tono appare unico durante l’inspirazione (Figura 2B). Questo fenomeno è
causato da un eccessivo ritardo di A2, come accade nel blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 3) o
stenosi aortica grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la chiusura della valvola aortica è
ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la polmonare a chiudersi prima. Quando,
durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico ritardo della chiusura della polmonare, legato
all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2 diventano simultanee (perché anche A2 sarà rallentata), mentre in
espirazione non vi è il ritardo di P2, per cui il II tono appare sdoppiato (perchè A2 ritarda).
Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori sistemici nella sua
componente aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione polmonare, nella sua componente polmonare
(P2). In queste condizioni, il livello della pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del
normale, per cui le vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie.

Il III tono (Figura 4) corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e può risultare
ben evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in presenza di disfunzione ventricolare,
come nello scompenso cardiaco.

Figura 4 Oltre al I e al II tono, vengono rappresentati il III tono (protodiastolico) e il IV tono (presistolico o
telediastolico).

Normalmente il III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica particolarmente
sottile.

Il IV tono (Figura 4) corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle vibrazioni
provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel ventricolo. Normalmente questo
fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, sono
quasi in continuità con quelle del I tono, sia perché la loro ampiezza è molto bassa. Vi sono
essenzialmente due condizioni che favoriscono l’ascoltazione del IV tono: il blocco A-V di I grado e la
ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo caso si allunga l’intervallo P-R (vedi Capitolo 40), per cui la
sistole atriale non è seguita da quella ventricolare immediatamente, ma dopo un
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tempo più lungo del normale, per cui in IV tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta
distensibilità delle pareti ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva, fa
sì che aumenti l’ampiezza delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel ventricolo.
Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza cardiaca, si può generare un
ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la
frequenza cardiaca è aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione.

I Toni aggiunti
A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i seguenti toni aggiunti. 1)
I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico (Figura 5) (vedi Capitolo 15) e i click eiettivi
aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare.

Figura 5 A: click mesosistolico del prolasso mitralico.


B: il clock è seguito da un soffio mesotelesistolico.

2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al momento dell’apertura
di una valvola stenotica. Normalmente non si generano vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma
quando queste divengono stenotiche la loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto
appunto schiocco d’apertura (Figura 6).
14 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. Il I tono è di intensità aumentata, e dopo il secondo
tono compare lo schiocco d’apertura della mitrale (SAM) seguito dal soffio diastolico (SD)

I Soffi
Un soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e può essere ascoltato
col fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del
sangue dovrebbe essere laminare (in base al numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la
turbolenza marcata del flusso, tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari
motivi, inclusa la stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un ostacolo
al flusso, come per esempio per stenosi valvolare b) un flusso non fisiologico, come per esempio quello
che si genera nel difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un flusso “innaturale” del sangue da un
ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata quantità del flusso, come si verifica per
esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di stenosi valvolare, si può ascoltare sul focolaio
aortico un soffio sistolico quando la gittata sistolica ventricolare sinistra è notevolmente aumentata (vedi
Capitolo 17).

I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo cardiaco in cui si ascoltano),
al timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla irradiazione.
Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi ultimi occupano tutto il
ciclo cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due fasi. All’interno delle categorie dei soffi
sistolici e diastolici, poi, se ne trovano alcuni che occupano tutta la sistole (soffio olosistolico) o tutta la
diastole (soffio olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto, meso o
tele (protosistolici, protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte iniziale della fase (sistole o
diastole) in cui si ascoltano, oppure la parte intermedia o quella finale.

Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando termini
come dolce, rude, aspro,aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso quello di “rullio” per indicare il
soffio diastolico della stenosi mitralica, che viene assimilato a un rullio di tamburi.

La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha la massima intensità. I
quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono quello mitralico (alla punta del cuore- V spazio intercostale
Sx)
15 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

tricuspidalico (all’incirca alla base dell’apofisi ensiforme- IV spazio intercostale Dx), aortico (sulla margino-
sternale destro- II spazio intercostale Dx) e polmonare (sulla margino-sternale sinistra- II spazio
intercostale Sx).

L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile ascoltarlo bene. E’
caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza mitralica e l’irradiazione al giugulo del
soffio della stenosi aortica.

L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a 6 gradini proposta
da Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio è molto intenso, le vibrazioni
generate dalla turbolenza del flusso si possono non solo ascoltare, ma anche palpare come fremiti,
appoggiando la mano sul precordio.

 1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il cuore con grande
attenzione
 2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole
 3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito
 4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito
 5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il
fonendoscopio a 1 cm dalla cute
 6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si
solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute

I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Mentre i soffi eiettivi possono
essere sia organici, determinati cioè da una lesione anatomica (per esempio, una stenosi valvolare
aortica), che funzionali, legati a motivi differenti da un’alterazione strutturale (per esempio,
un’aumentata velocità del flusso), i soffi da rigurgito (insufficienza A-V) sono sempre organici,
espressione di un’alterazione anatomica.
I soffi sistolici eiettivi (Figura 7) iniziano a breve distanza dal I tono. Prendiamo come esempio il soffio
eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo sinistro si contrae e fa chiudere la valvola
mitrale, dando origine al I tono; in questa fase, che prende il nome di contrazione isometrica (o
isovolumetrica) l’eiezione del sangue dal ventricolo non è ancora iniziata.
16 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 7 Soffio sistolico eiettivo (SS).

Solo quando la pressione endoventricolare cresce e supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in
condizioni normali) la valvola aortica si apre e ha inizio il flusso attraverso la valvola e con esso il soffio,
assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò, inizierà a una certa distanza dal I tono,
non simultaneamente ad esso.
Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica (Figura 8).

Figura 8 Soffio sistolico da rigurgito nell’insufficienza mitralica. In B è anche presente il III tono
17 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
Questo inizia contemporaneamente al l I tono, infatti appena la valvola mitrale si chiude e si genera il I
tono inizia il rigurgito di sangue in atrio sinistro, ben prima che la pressione intraventricolare aumenti al
di sopra di quella aortica e la valvola aortica si apra. I soffi sistolici da eiezione (stenosi Aortica) hanno in
generale la caratteristica di essere in crescendo-decrescendo, assumendo una morfologia “a
diamante” (Figura 7), mentre i soffi da rigurgito (insufficienza mitralica) hanno un aspetto “a nastro”
conservando la stessa intensità per tutta la loro durata.
I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza tricuspidale, del
difetto del setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere organici, legati alla stenosi aortica
(Capitolo 16) o alla stenosi polmonare (Capitolo 18), ma possono anche essere soltanto di natura
funzionale, espressione di una stenosi relativa, dovuti non a riduzione dell’ostio valvolare, ma
semplicemente ad aumento del flusso con un’area valvolare normale.

I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico della stenosi
mitralica (Figura 6) (Capitolo 14), quello della stenosi tricuspidalica (Capitolo 18), il soffio dell’insufficienza
aortica (Figura 9) (Capitolo 17) e quello dell’insufficienza polmonare (Capitolo 18).

Figura 9 A: soffio diastolico in decrescendo dell’insufficienza aortica.


B: al soffio diastolico si associa un soffio sistolico eiettivo.

I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo arterioso e quello venoso,
con shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco. Il prototipo del soffio continuo è quello
generato dalla pervietà del dotto arterioso di Botallo (Figura 10) (Capitolo 51), che si ascolta in sede
sottoclaveare sinistra.
18 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 10 Soffio continuo nella pervietà del dotto arterioso. Il soffio copre tutto il ciclo cardiaco (sistole e
diastole) ed ha il suo acme il corrispondenza del II tono.

Gli Sfregamenti
Relativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni soggetti affetti da
pericardite (Capitolo 32). Normalmente i foglietti pericardici viscerale e parietale sono lisci e scorrono l’uno
sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi,
genera gli sfregamenti, che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole.
42 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 4
L’ECOCARDIOGRAMMA
Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso, Raffaele Calabrò

INTRODUZIONE

L’ecocardiografia è la metodica che permette di eseguire uno studio anatomico e funzionale del cuore
mediante gli ultrasuoni. L’ecocardiografia è una metodica di semplice esecuzione, sicura ed economica, i
risultati e l'interpretazione dei dati ottenuti, necessitano di una tecnica adeguata e solide basi culturali,
essendo dunque operatore-dipendente. In ogni caso, il risultato dell’esame ecocardiografico va
interpretato alla luce dei dati anamnestici e del contesto clinico.
Le principali informazioni che si possono ottenere dall’esame ecocardiografico sono:

 Informazioni sull’anatomia cardiaca inerenti dimensioni, spessori, cavità, valvole, pericardio,


aorta, arteria polmonare e suoi rami principali
 Studio della funzione degli apparati valvolari e della funzione sistolica e diastolica dei ventricoli
 Studio della funzione contrattile globale e segmentaria delle pareti ventricolari

PRINCÍPI DELL’ECOCARDIOGRAFIA

Il suono è una forma di energia che attraversa la materia comprimendo e rarefacendo alternativamente le
molecole. Il suono viene rappresentanto graficamente come una sinusoide la cui dimensione orizzontale è
il tempo, quella verticale l’intensità o ampiezza. Il suono si caratterizza per la lunghezza d’onda (che
rappresenta la distanza tra due fasi consecutive del ciclo) e per la frequenza (che esprime il numero di
compressioni ed espansioni che subiscono le particelle nell’unità di tempo). La frequenza del suono è
espressa in cicli al secondo o Hertz (Hz) (Figura 1). L’orecchio umano percepisce suoni tra i 16 e 20.000 Hz;
oltre quel limite si parla di ultrasuoni. Le frequenze attualmente utilizzate in cardiologia variano da 1
milione ad oltre 10 milioni di Hertz (MHz), tali da permettere l’attraversamento dei tessuti con una
velocità costante di 1540 m/sec. La velocità del suono è il prodotto della frequenza per la lunghezza
d’onda. Esiste dunque tra queste due componenti un rapporto inverso: all’aumentare di una diminuisce
l’altra.

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43 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

CARATTERISTICHE FISICHE DEGLI ULTRASUONI

Gli ultrasuoni possono essere utilizzati nell’imaging diagnostico poiché, sono orientabili e,
attraversando i tessuti, subiscono alcune modificazioni: attenuazione, riflessione e rifrazione

 Attenuazione: è un fenomeno di riduzione di intensità del raggio ultrasonoro e dipende


dall’assorbimento, dalla riflessione e dalla dispersione da parte del tessuto esaminato. Aumenta
all’aumentare della frequenza.
 Riflessione: una parte del raggio ultrasonoro viene riflesso a livello dell’interfaccia tissutale.
L’onda sonora che torna indietro, avvicinandosi alla sorgente, costituisce un’eco e viene utilizzata
per visualizzare l’immagine ultrasonora.
 Rifrazione: è la deviazione subita dall’onda quando passa da un mezzo ad un altro, cambiando
velocità di propagazione.

L’impedenza acustica (Z) è il prodotto della densità del mezzo che gli ultrasuoni attraversano (P) per la
velocità (C) dell’ultrasuono. A parità di velocità i tessuti molli essendo più densi hanno maggiore
impedenza acustica. La superficie di separazione tra due mezzi ad impedenza acustica diversa viene
chiamata interfaccia acustica. Ad ogni interfaccia acustica, una parte degli ultrasuoni viene riflessa e una
parte viene rifratta (Figura 2); l’intensità della componente riflessa dipende dalla differenza di impedenza
acustica dei mezzi e dall’angolo di incidenza: essa è, cioè, tanto maggiore quanto più la direzione del fascio
ultrasonoro è perpendicolare alla superficie. Se la superficie di contatto non è piana ma irregolare, una
parte dell’energia non sarà riflessa ma diffratta, cioè dispersa in tutte le direzioni.

Figura 2 Riflessione e rifrazione degli ultrasuoni.

Il potere di risoluzione è la capacità di distinguere fra loro due strutture distinte poste una dopo l’altra o
una accanto all’altra lungo la direzione del fascio ultrasonoro. E’ direttamente proporzionale alla frequenza
dell’ultrasuono.
44 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il potere di penetrazione del raggio ultrasonoro è, invece, inversamente proporzionale alla frequenza.
Perciò sonde che lavorano con ultrasuoni ad alte frequenze hanno un elevato potere di risoluzione ma una
bassa capacità di penetrazione nei tessuti.
La diagnostica ecocardiografica utilizza trasduttori che lavorano con frequenze di almeno 2MHz.
La qualità delle immagini ottenute migliora con la modalità “harmonic imaging” (seconda armonica),
caratterizzata dal fatto che la sonda invia ultrasuoni ad una certa frequenza e li riceve ad una frequenza
doppia. Ciò consente una migliore qualità delle immagini.

IL TRASDUTTORE
Gli ultrasuoni vengono prodotti da un trasduttore. Esso è costituito da elettrodi e da un cristallo
piezoelettrico la cui struttura ionica, sfruttando le capacità di alcuni materiali (come il quarzo o la
ceramica), si deforma se esposta al passaggio di corrente elettrica generando onde sonore. Lo stesso
cristallo piezoelettrico poi, per effetto dell’energia meccanica generata da onde sonore riflesse, subisce una
deformazione che genera un segnale elettrico rilevato da elettrodi. Ciò significa che il trasduttore riceve e
invia contemporaneamente segnali ultrasonori (Figura 3).

Figura 3 Schema di un trasduttore.

SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA

La ricostruzione dell’immagine ecocardiografica si basa sul calcolo della distanza tra una data struttura
anatomica ed il trasduttore. Il trasduttore emette un fascio ultrasonoro che si dirige verso il cuore e
procede in linea retta fino a quando non raggiunge un’interfaccia tra strutture con diversa impedenza
acustica. A questo punto parte dell’energia viene riflessa, parte viene dispersa, e la parte restante continua
il proprio percorso rifratta. Il sangue non genera echi riflessi.
Poiché la velocità di propagazione degli ultrasuoni nei tessuti molli è costante nel tempo (circa 1540 m/s),
il traduttore è in grado di calcolare la distanza tra esso e la struttura esaminata valutando l’intervallo

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45 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

temporale tra l’invio degli ultrasuoni e la ricezione dell’eco riflesso.

Figura 5 Sonde per ecocardiografia: A sinistra, sonda transesofagea. A destra, sonde transtoraciche.

I sistemi di rappresentazione dell’immagine con l’ecocardiografia transtoracica attualmente in uso sono:

 Sistema Mono-dimensionale (M-Mode)


 Sistema Bidimensionale

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46 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 ECOCARDIOGRAFIA MONODIMENSIONALE

Il sistema monodimensionale permette di visualizzare le modificazioni dell’impulso ultrasonoro nel tempo


(asse orizzontale) e la profondità della struttura che riflette gli ultrasuoni (asse verticale). Ad ogni
interfaccia strutturale, gli ultrasuoni vengono riflessi e visualizzati sotto forma di punti la cui intensità varia
al variare della composizione del tessuto esaminato. Poiché queste strutture sono in movimento, il
trasduttore ricostruisce il movimento della struttura nel tempo. Il sistema M-Mode è dotato di un elevato
potere di risoluzione temporale, e risulta molto utile per studiare il movimento delle valvole e per ottenere
misure di cavità e spessori.

In corrispondenza della valvola mitrale, la struttura cardiaca più vicina alla sonda è la parete libera del
ventricolo destro; seguono poi la cavità ventricolare destra (VD), il setto interventricolare (SIV), la cavità
ventricolare sinistra e la parete posteriore del ventricolo sinistro (Figura 6).

Figura 6 Ecocardiogramma M-mode che mostra il ventricolo destro, il setto interventricolare, il ventricolo
sinistro e la parete posteriore del ventricolo sinistro.

In questa proiezione è possibile valutare le dimensioni del ventricolo sinistro ed anche lo spessore del setto
(ECO 34) e della parete posteriore

Orientando il fascio ultrasonoro verso la valvola mitrale si valuta l’escursione dei lembi valvolari, l’anteriore
in corrispondenza del setto interventricolare, e il posteriore in corrispondenza della parete posteriore del
47 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ventricolo sinistro (Figura 7) .

Figura 7 Immagine ecocardiografica monodimensionale della valvola mitrale.

Il movimento del lembo anteriore mitralico presenta una forma a M con un massimo nel punto E
(l’apertura protodiastolica della valvola). La distanza dal punto E al setto interventricolare non deve
superare, nel soggetto normale, i 3 mm. La mobilità della valvola è rispecchiata dalla rapidità del
movimento di chiusura nella proto-mesodiastole fino al punto F (pendenza EF). In fase telediastolica i lembi
si riaprono, in corrispondenza della contrazione atriale (punto A). La valvola, quindi, si chiude e i lembi
coaptano (punto C).
Il movimento del lembo posteriore mitralico ha una forma a W, speculare rispetto al lembo anteriore.
Tra le principali anomalie ecocardiografiche descritte sono l’aumento dello spessore, della densità e del
numero di echi riflessi in conseguenza dell’ispessimento fibroso e/o calcifico dell’apparato valvolare; e
inoltre la scomparsa del caratteristico movimento di apertura a M e W dei lembi, sostituito da un plateau
più o meno rettilineo e parallelo ai due lembi (ECO 01).

Orientando il fascio ultrasonoro in senso supero-mediale si visualizza l’atrio sinistro, la valvola aortica, con
la cuspide coronarica destra e la non coronarica (posteriore), la radice ed il tratto prossimale dell’aorta
ascendente

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48 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(Figura 8).

Figura 8 Immagine ecocardiografica monodimensionale che raffigura la radice aortica, la valvola aortica e
l’atrio sinistro.

Le dimensioni dell’atrio sinistro si misurano in telesistole, quelle della radice aortica in telediastole. Il
movimento sistolico di apertura delle cuspidi aortiche si visualizza come un parallelogramma i cui lati
superiore e inferiore corrispondono rispettivamente al movimento della cuspide coronarica destra e di
quella non coronarica (posteriore).
Stenosi aortica: si nota un ispessimento dei lembi con aumento dell’intensità e del numero degli echi e
una riduzione dell’apertura sistolica delle cuspidi (ECO 15).

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49 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La Tabella I riporta i valori normali dei parametri ecocardiografici M-mode in soggetti adulti.

ECOCARDIOGRAFIA BIDIMENSIONALE

Il sistema bidimensionale permette di visualizzare l’immagine corrispondente ad una sezione delle cavità
cardiache sfruttando la capacità dei trasduttori di ricevere e trasmettere più linee di scansione in modo
indipendente.
Gran parte delle sonde attualmente in uso è costituita da una serie di cristalli (da 32 a 128), ciascuno dei
quali è in grado di ricevere e di trasmettere, allineati in una singola fila, sono attivati secondo una precisa
sequenza temporale in modo da provocare la fusione delle onde generate dai singoli elementi e ottenere
un unico fascio la cui direzione dipende dalla sequenza di attivazione dei singoli cristalli. L’immagine
ottenuta viene convertita in formato digitale: ad ogni punto, in base alla sua intensità, viene assegnato un
valore numerico che corrisponde a livelli di grigio per altrettanti elementi di visualizzazione (pixel) allineati
lungo assi cartesiani x ed y.
L’esame ecocardiografico si realizza con 4 posizioni standard del trasduttore: parasternale, apicale,
subxifoidea e soprasternale. Le prime due si realizzano con il paziente in decubito laterale sinistro, le altre
con il paziente supino.

SEZIONE ASSE LUNGO


In genere l’esame inizia dalla proiezione parasternale asse lungo: si posiziona il trasduttore a livello del
III-IV spazio intercostale sulla linea margino-sternale di sinistra con la scanalatura di repere rivolta verso
la spalla destra del paziente in modo tale che il piano di scansione sia parallelo ad una linea di
congiunzione tra la spalla destra con il fianco sinistro. L’immagine è orientata in modo tale che l’aorta sia
disposta a destra e l’apice cardiaco a sinistra, ed è ottimale quando si visualizza contemporaneamente

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50 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

l’apertura della valvola mitrale e della valvola aortica (Figura 9,Figura 10, Figura 11, Figura 12).

Figura 9 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo.

Figura 10 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse lungo e schema anatomico corrispondente.

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51 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Questa proiezione consente uno studio accurato dell’anatomia e del movimento delle valvole del cuore
sinistro, di cui è facile rilevare l’ispessimento e la calcificazione in caso di stenosi mitralica o aortica (ECO
13).
Mantenendo il trasduttore nello stesso spazio ed imprimendogli una inclinazione inferomediale e una
leggera rotazione in senso orario si ottiene una sezione asse lungo del ventricolo e dell’atrio destro (Figura

13, Figura 14)

Figura 13 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo dell’atrio e del
ventricolo destro.

Figura 14 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse lungo dell’atrio e del ventricolo destro.

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52 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

SEZIONE ASSE CORTO


Ruotando la testa del trasduttore in senso orario per 90 gradi, in modo tale che il piano di scansione sia
ortogonale a quello dell’asse lungo parasternale, si ottiene la proiezione parasternale asse corto a livello
dei grossi vasi. In questa posizione la scanalatura di repere è orientata verso la fossa sopraclaveare destra e
il piano di scansione è parallelo ad una linea che congiunge la spalla sinistra con il fianco destro del
paziente

(Figura 15, Figura 16)

Figura 15 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse corto.

Da questa posizione si visualizza al centro la valvola aortica con le sue tre cuspidi, l’atrio sinistro e
quello destro separati dal setto interatriale, la valvola tricuspide, il tratto di efflusso del ventricolo
destro, la

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valvola polmonare, il tronco dell’arteria polmonare con i suoi due rami, destro e sinistro (Figura 17, Figura

18).

Figura 17 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse corto e schema anatomico corrispondente

Questa proiezione è utile per studiare la valvola aortica, in particolare per determinare se questa ha, come
di norma, 3 cuspidi, oppure è bicuspide (ECO 20) o quadricuspide (ECO 21).
Alzando la coda del trasduttore, è possibile visualizzare la sezione asse corto a livello della valvola mitrale.
Sono ben evidenti i lembi valvolari con il classico aspetto “a bocca di pesce” in diastole e le rispettive
commissure. Da questa posizione è possibile calcolare l’area planimetrica della mitrale in caso di stenosi

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54 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(Figura 19, Figura 20, Figura 21,Figura 22, ECO 05).

Figura 19 Ecocardiogramma bidimensionale in asse corto a livello della valvola mitrale.

Un ulteriore movimento verso l’alto della coda della sonda, e si visualizzano i due muscoli papillari del
ventricolo sinistro (Figura 20, Figura 22), e quindi l’apice del ventricolo.

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55 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 20 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse corto a livello dei muscoli papillari e
schema anatomico corrispondente.

SEZIONE APICALE
Il trasduttore viene posto in corrispondenza dell’itto della punta, con la scanalatura di repere orientata
verso il fianco sinistro del paziente. Il fascio ultrasonoro è diretto superiormente e medialmente verso la
scapola destra del paziente.
Da questa posizione si visualizzano le quattro camere cardiache (proiezione apicale quattro camere). Alla
destra dello schermo si visualizzano le sezioni sinistre, e alla sinistra quelle destre. Il ventricolo destro, di
forma triangolare, si riconosce per l’impianto più alto della tricuspide, per la presenza della banda
moderatrice all’apice e per il muscolo papillare.
Gli atri, separati dal setto interatriale, sono visualizzati in basso; i ventricoli, separati dal setto
interventricolare, in alto (Figura 23, Figura 24, Figura 25).

Figura 23 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 4 camere apicale.

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56 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 24 Schema anatomico della proiezione 4 camere apicale.

Da questa posizione riusciamo a visualizzare il SIV posteriore.


Inclinando la coda del trasduttore verso il basso visualizziamo la valvola aortica, il tratto di efflusso del
ventricolo sinistro e il setto interventricolare anteriore (proiezione apicale cinque camere (Figura 26).

Ruotando la testa del trasduttore di 90 gradi circa si ottiene la sezione due camere apicale da cui è possibile

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57 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

studiare la parete inferiore e quella anteriore del ventricolo sinistro e a volte visualizzare l’auricola sinistra

(Figura 27, Figura 28, Figura 29).

Figura 27 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 2 camere apicale.

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58 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 28 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione 2 camere apicale e schema anatomico


corrispondente.

Con un’ulteriore minima rotazione del trasduttore si ottiene la sezione tre camere apicale in cui si visualizza
la parete postero-laterale del ventricolo sinistro, il setto interventricolare anteriore, la valvola aortica
(Figura30).
L’ecocardiografia bidimensionale dalle sezioni apicali permette di valutare la funzione sistolica globale del
ventricolo sinistro attraverso la misurazione della Frazione di Eiezione (FE) espressa dalla formula:

FE(%) = Volume telediastolico –Volume Telesistolico/Volume telediastolico x 100

Sono diverse le metodiche correntemente utilizzate per la stima della FE; il più utilizzato è il metodo di
Simpson in base al quale, dopo che l’operatore ha accuratamente delineato il bordo endocardico del
ventricolo sinistro , la macchina suddivide automaticamente il ventricolo stesso in un numero noto di
cilindri di uguale altezza. Il volume di ogni cilindro è calcolato automaticamente e poi sommato a quello
degli altri per ottenere il volume totale che corrisponde al volume totale del ventricolo. Tale stima viene
effettuata in sistole ed in diastole in sezione apicale 4 e 2 camere, permettendo di ottenere il valore della

FE (Figura31).

Figura 31 Schema del metodo di Simpson per il calcolo della frazione d’eiezione.

Dalle sezioni apicali è possibile, inoltre, valutare la cinetica segmentaria del ventricolo sinistro e, in caso di
cardiopatia ischemica, ricercare e documentare alterazioni morfofunzionali causate dall’ischemia, definire
la sede e l’estensione del danno ischemico, valutare la funzione cardiaca regionale e globale.
L’analisi segmentaria della cinetica ha lo scopo di quantificare l’estensione del danno ischemico e di
identificare la coronaria interessata in base al territorio in cui si verifica l’anomalo movimento della parete.
L’American Society of Echocardiography ha proposto un modello a sedici segmenti, nel quale il ventricolo
sinistro è diviso in 3 regioni in senso longitudinale (basale: dall’anello mitralico all’estremità dei papillari;
media: dall’estremità alla base dei papillari; apicale: distalmente all’inserzione dei muscoli papillari). Le
regioni basali e medie sono ulteriormente suddivise in 6 segmenti: anteriore, laterale, posteriore,
inferiore,

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59 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

setto inferiore e setto anteriore. L’apice è diviso in 4 segmenti (anteriore, laterale, inferiore e settale). Per
una valutazione semiquantitativa l’analisi della cinetica segmentaria può essere integrata attribuendo un
punteggio da 1 a 4: 1 = normale o ipercinesia, 2 = ipocinesia, 3 = acinesia, 4 = discinesia. Sommando i singoli
punteggi e dividendo per il numero di segmenti analizzati, si ottiene un indice di cinesi globale definito
“Wall Motion Score Index” (WMSI) o un punteggio indicizzato della cinetica parietale che combina la stima
della gravità del danno con quella della sua estensione spaziale (Figura32, Figura33).

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60 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 33 Rappresentazione schematica della relazione fra arterie coronarie e segmenti del ventricolo
sinistro.

SEZIONE SOTTOCOSTALE O SUBXIFOIDEA


E’ particolarmente utile nei pazienti con elevata impedenza acustica del torace, come obesi e
broncopneumopatici. Si ottiene con il paziente in decubito supino posizionando il trasduttore
immediatamente al di sotto della linea sottocostale con la scanalatura di repere orientata verso il
fianco sinistro del paziente e la testa del trasduttore inclinata lievemente in basso (Figura34).

Figura 34 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella


proiezione 4

A volte, per ottenere un’immagine ottimale del cuore, è


necessario invitare il paziente a fare un respiro profondo e a
trattenere l’aria.
Da questa posizione si ottiene un’immagine simile a quella
apicale, con le sezioni destre al di sotto del fegato, gli atri in
basso e i ventricoli in alto ma, poiché il fascio ultrasonoro è
maggiormente perpendicolare al setto interventricolare ed
interatriale, tale approccio è particolarmente utile per lo
studio di queste strutture
62 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(Figura35).

Figura 35 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione 4 camere sottocostale e schema anatomico


corrispondente.

Ruotando il trasduttore in senso orario e inclinandolo verso l’alto si visualizza l’aorta e i rapporti di essa con
la mitrale ed il ventricolo sinistro. Un’ulteriore rotazione in senso orario ed inclinazione verso l’alto, e si
ottiene una sezione in asse corto simile a quella ottenibile in parasternale asse corto; angolando
opportunamente la sonda si visualizzano il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’arteria polmonare, la
vena cava inferiore e le vene sovraepatiche. Da questo approccio può essere, inoltre, studiata l’aorta
addominale.

SEZIONE SOPRASTERNALE
Si ottiene ponendo il trasduttore nella fossetta soprasternale con la scanalatura di repere rivolta verso la

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63 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

testa del paziente o verso la regione sovraclaveare destra (Figura36).

Figura 36 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione soprasternale.

Si possono studiare : l’aorta ascendente, l’arco, l’origine dei tronchi brachiocefalici, l’aorta toracica
discendente (Figura37) ed il ramo destro dell’arteria polmonare visualizzato in asse corto al di sotto
dell’arco; ancora più in basso c’è l’atrio sinistro.

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64 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 37 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione soprasternale.

Ruotando il trasduttore in senso orario si visualizza l’aorta in asse corto, il ramo destro della polmonare
immediatamente sotto, nel suo asse lungo, e ancora più in basso l’atrio sinistro con le vene polmonari

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65 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(Figura38,Figura39).

Figura 38 Schema delle strutture visualizzabili dalla proiezione soprasternale.

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66 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 39 Proiezione soprasternale. E’ visualizzabile l’aorta in asse corto (A), il ramo destro dell’arteria
polmonare (APD) nel suo asse lungo e l’atrio sinistro. Le frecce indicano le vene polmonari.

Con una ulteriore rotazione in senso orario può essere visualizzata la vene cava superiore a destra dell’
aorta.

In sintesi, l’Ecocardiografia bidimensionale consente un approccio approfondito all’anatomia e alla funzione


del cuore, permettendo non solo di valutare lo spessore delle pareti cardiache e la loro cinetica, le
dimensioni delle cavità, la struttura e il movimento delle valvole, ma anche di riconoscere masse
intracardiache (trombi, vegetazioni, tumori), che non di rado sarebbero decorse sconosciute senza
l’indagine ultrasonica (ECO 39, ECO 41, ECO 42, ECO 43, ECO 45), come pure di rilevare un versamento
pericardico (ECO 46, ECO 47). Nel campo delle Cardiopatie congenite, infine, l’Ecocardiografia
bidimensionale, insieme all’Ecocardiografia Doppler, ha segnato un tale progresso nella diagnostica da
mettere spesso in secondo piano il Cateterismo cardiaco e l’Angiocardiografia, che avevano rappresentato
per decenni il “gold standard” nello studio di queste malattie.

ECOCARDIOGRAFIA DOPPLER

Le misurazioni Doppler della velocità dei flussi ematici nel cuore e nei grossi vasi si basano sull’effetto
Doppler. Il principio Doppler afferma che quando un segnale sonoro (o luminoso) colpisce un oggetto in
movimento, la frequenza del segnale si modifica in modo proporzionale alla velocità e alla direzione
dell’oggetto in movimento.
Quindi, quando un fascio ultrasonoro a frequenza nota viene inviato verso il cuore o i grossi vasi, è riflesso
dai globuli rossi. La frequenza degli ultrasuoni riflessi aumenta all’avvicinarsi dei globuli rossi alla sorgente
sonora e viceversa si riduce quando le emazie si allontanano. Il cambiamento di frequenza tra suono
emesso e suono riflesso dipende dalla frequenza degli ultrasuoni emessi, dalla velocità del bersaglio e
dall’angolo tra direzione del fascio e direzione del movimento delle emazie.
Se il fascio ultrasonoro è parallelo alla direzione del flusso ematico si ottiene la massima velocità; se il fascio
ultrasonoro è perpendicolare alla direzione del flusso, non si misura alcuna velocità. La visualizzazione dello
spettro Doppler è ottenuta attraverso un analizzatore di velocità (Fast Fourier Trasform) con
rappresentazione delle velocità dei flussi ematici sull’asse delle Y e del tempo sull’asse delle X. Tutti i flussi

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67 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

in avvicinamento al trasduttore vengono visualizzati in alto, quelli in allontanamento in basso

(Figura40).

Figura 40

Lo studio dei flussi può essere effettuato mediante tre sistemi:


-Doppler ad onda pulsata
-Doppler ad onda continua
-Color Doppler

DOPPLER AD ONDA PULSATA


Lo stesso cristallo piezoelettrico invia e riceve impulsi (Figura41).

Figura 41

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68 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’invio di un nuovo impulso è possibile solo dopo l’analisi di quello precedentemente inviato. La frequenza
di emissione degli ultrasuoni è definita PRF (pulse repetition frequency). La massima variazione di
frequenza e dunque la massima velocità determinabile con il Doppler ad onda pulsata è la metà del PRF
ed è chiamata limite di Nyquist. L’esaminatore ha la possibilità di definire il punto esatto dell’analisi
Doppler. Tale punto viene chiamato volume campione. La PRF varia inversamente al volume campione: più
il volume campione è vicino al trasduttore, più elevate saranno la PRF ed il limite di Nyquist; in altri termini
sarà possibile registrare velocità più alte.
Quando la velocità dell’onda riflessa è maggiore di quella inviata (quando, cioè, si supera il limite di
Nyquist) si ottiene un fenomeno noto come aliasing: lo spettro Doppler si interrompe, e una parte di esso
compare sul lato opposto della linea di base, cosicché sembra che il flusso sia contemporaneamente in
avvicinamento ed in allontanamento (Figura42). L’impossibilità di analizzare alte velocità rappresenta
dunque il principale limite del Doppler pulsato.

Figura 42 Aliasing. Il flusso appare sia sopra (in avvicinamento) che sotto allontanamento la linea di base.

IL DOPPLER PIULSATO NELLO STUDIO DELLA FUNZIONE DIASTOLICA VENTRICOLARE SINISTRA


La valutazione dei diversi quadri velocimetrici del flusso transmitralico con il Doppler pulsato ha permesso
di comprendere che in diverse forme di cardiopatia si realizza, accanto alla disfunzione sistolica o anche in
assenza di questa, una disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Il pattern flussimetrico normale
(Figura43) è caratterizzato da un’onda E, espressione del riempimento rapido protodiastolico, e da un’onda
A che corrisponde al flusso transmitralico telediastolico legato alla sistole atriale. La velocità del flusso

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69 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

protodiastolico è maggiore di quella telediastolica, per cui il rapporto E/A è maggiore di 1.

Figura 43 Pattern flussimetrico transmitralico normale

Negli stadi precoci di disfunzione, l’alterato rilasciamento del ventricolo sinistro causa, in condizioni di
riposo, una riduzione del riempimento diastolico precoce a parità di pressioni di riempimento. Questo
effetto si traduce in un iniziale riduzione della velocità dell’onda E, in un prolungamento del tempo di
decelerazione dell’onda E ed in un incremento della percentuale di riempimento ventricolare dovuto alla
contrazione atriale; il rapporto E/A diviene, perciò, minore di 1 (Figura44).

Figura 44 Pattern flussimetrico transmitralico da anomalo rilasciamento (Disfunzione diastolica di 1°


grado). E’ evidente un rapporto E-A inferiore a 1, ed un tempo di decelerazione dell’onda E (DT) = 240
mm/sec

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70 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Con il progredire della disfunzione diastolica, la pressione atriale sinistra aumenta, aumentando a sua volta
il gradiente pressorio attraverso la valvola mitrale. A questa mutata situazione emodinamica si accompagna
un graduale incremento della velocità dell’onda E ed una ridotta durata dell’effettivo rilasciamento
ventricolare attivo: ne conseguono un accorciamento del tempo di decelerazione dell’onda E ed un
aumento del rapporto E/A. Negli stadi più avanzati della disfunzione, gli ulteriori incrementi delle pressioni
di riempimento, determinano più alti rapporti E/A e ad ancor più ridotti tempi di decelerazione dell’onda E

(Figura45).

Figura 45 Pattern flussimetrico transmitralico di tipo restrittivo (disfunzione diastolica di 3° grado) E’


evidente un rapporto E/A maggiore di 2 ed un tempo di decelerazione dell’onda E mitralica (DT) inferiore a
140 mm/sec.

DOPPLER A ONDA CONTINUA


Il trasduttore ha due cristalli: uno invia continuamente impulsi e l’altro li riceve sempre (Figura46).

Figura 46

Non esiste quindi il limite di Nyquist, e può essere misurata qualsiasi velocità. L’analisi viene effettuata
sull’intera linea del fascio ultrasonoro esplorante e non in un punto preciso come nel caso del Doppler
pulsato

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71 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

COLOR DOPPLER
Si basa sui principi del Doppler ad onda pulsata e misura le velocità in diversi punti per molteplici linee di
scansione su tutto il settore dell’immagine, al fine di creare una rappresentazione dinamica e spazialmente
corretta del sangue in movimento nel cuore e nei vasi. Usando speciali filtri, viene analizzata solo la velocità
del flusso ematico, che poi viene trasformata, mediante il confronto con linee adiacenti, (autocorrelazione)
in segnali colorati (Figura47).

Figura 47

I flussi in avvicinamento al trasduttore vengono codificati in rosso, quelli in allontanamento in blu


(Figura48, Figura49) e l’aliasing ha in genere un aspetto a mosaico di colore, caratterizzato dalla
commistione di pixel con colore e tonalità diverse in rapporto alla velocità e alla turbolenza del flusso (ECO
02, ECO 08). L’Ecocardiogramma Color Doppler è estremamente utile nell’identificare i rigurgiti valvolari
(ECO 06, ECO 08, ECO 18, ECO 24, ECO 35) o gli shunt intracardiaci (ECO 30, ECO 50), così come per
evidenziare il flusso turbolento attraverso valvole stenotiche (ECO 02,ECO 14)

IL CALCOLO DEI GRADIENTI


Una delle applicazioni più importanti dell’ecografia Doppler è rappresentata dal calcolo dei gradienti
pressori attraverso l’equazione di Bernoulli. Quest’ultima afferma che il gradiente di pressione attraverso
una stenosi è dovuto alla perdita di energia causata da tre fenomeni: accelerazione del flusso che
attraversa l’orifizio (accelerazione convettiva), intervento delle forze inerziali (accelerazione di flusso), e
resistenza al flusso all’interfaccia tra sangue ed orifizio (attrito viscoso). Pertanto il gradiente pressorio a

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72 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

livello di qualunque orifizio può essere calcolato come somma di queste tre variabili (Figura50).

Figura 50 Calcolo di un gradiente di pressione con l’Equazione di Bernoulli.

Nella maggior parte dei casi è possibile trascurare l’accelerazione di flusso e l’attrito viscoso, per cui il
gradiente pressorio può essere calcolato conoscendo la velocità del sangue prossimalmente all’orifizio
attraverso la formula:

gradiente = 4 x (velocità prossimale )2- (velocità di picco)2.

Se la velocità del sangue prossimalmente alla stenosi è ridotta (<1m/s) anche questa componente può
essere ignorata, per cui a formula diventa:

gradiente: 4 x velocità di picco2.

Tale metodo viene utilizzato per il calcolo dei gradienti in caso di stenosi mitralica, aortica (ECO 16, ECO 17)
o polmonare. Può essere applicato, se c’è insufficienza tricuspidale, per il calcolo della pressione sistolica in
arteria polmonare. La velocità del flusso di rigurgito tricuspidalico permette di calcolare il gradiente fra
ventricolo e atrio destro (Figura51); se a questo si aggiunge la pressione telediastolica in ventricolo destro,
che corrisponde alla pressione atriale destra, si ottiene la pressione arteriosa polmonare. La pressione in
atrio destro viene stimata indirettamente in base alle dimensioni della vena cava e al suo grado di

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73 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

collassabilità con l’inspirazione.

Figura 51 Calcolo del gradiente pressorio fra ventricolo e atrio destro attraverso la velocità del flusso di
rigurgito tricuspidale.

La formula per il calcolo della pressione in arteria polmonare è:

PAPS: 4 x (velocità del rigurgito attraverso la tricuspide)2+ pressione in atrio destro

Tale calcolo, tuttavia, non è possibile se è presente un ostacolo all’efflusso ventricolare destro, come in
presenza di stenosi valvolare polmonare.

ECOCARDIOGRAFIA TRANSESOFAGEA

L’ecocardiografia transesofagea studia il cuore attraverso l’esofago.


Il trasduttore è posto alla punta di una sonda flessibile che, introdotta attraverso l’orofaringe raggiunge la
parte medio-distale dell’esofago dove entra in diretto contratto con le strutture cardiache, permettendone
uno studio più completo ed accurato (Figura52, ECO 09, ECO 22, ECO 23, ECO 40, ECO 44, ECO 49). Non
necessita di anestesia ma solo di una blanda sedazione. Questa tecnica è particolarmente utile in caso di:

 Studio delle valvole native e delle valvole protesiche


 Sospetta endocardite
 Cardiopatie congenite
 Difetti interatriali
 Ricerca di fonti emboligene di natura cardica

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74 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 NUOVE TECNOLOGIE

Negli ultimi anni l’ecocardiografia si è arricchita di tecniche in grado di effettuare una valutazione
quantitativa della funzione miocardia e di studiare fenomeni che si sviluppano anche all’interno del
miocardio. Una delle nuove tecniche è il Doppler Tissutale (Figura53), che studia le velocità
intramiocardiche.

Figura 53 Doppler tissutale (tissue Doppler inaging), con a destra schema.

Tuttavia, esso è influenzato dal movimento cardiaco globale, dalla rotazione cardiaca e dal trascinamento di
segmenti adiacenti. Da qui lo sviluppo di metodiche (Figura54) in grado di studiare la deformazione
miocardica regionale: lo Strain (quantità totale di deformazione,Figura55), lo Strain rate (la velocità con cui
la deformazione avviene) e lo Strain 2D (che non è una metodica Doppler dipendente e dunque è angolo-

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75 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

indipendente)

Figura 54

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76 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 55

Altre metodiche sono il Backscatter Integrato (che analizza le variazioni della reflettività miocardica in
decibel ) e l’ Ecocontrastografia Miocardica (Figura56), che studia la cinetica delle microbolle del contrasto
ultrasonico a livello intramiocardico.
La più recente metodica ecocardiografica introdotta in Clinica è l’ecocardiografia tridimensionale (Eco 3D)
(Figura57,ECO 10, ECO 11)
L’eco 3D supera gli attuali limiti dell’ecocardiografia bidimensionale, permettendo un’analisi accurata e
riproducibile della morfologia e della funzione delle strutture cardiache.
I pricipali campi applicativi dell’Eco 3D sono: patologie valvolari, cardiopatie congenite, endocardite
infettiva, masse cardiache, cardiomiopatie

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107 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 13
MALATTIA REUMATICA
Luigi Meloni, Massimo Ruscazio

DEFINIZIONE

La malattia reumatica è un processo morboso infiammatorio multifocale, a patogenesi autoimmune, che si


manifesta in seguito ad un’infezione faringea da streptococco emolitico del gruppo A. La malattia interessa
principalmente le articolazioni, il cuore, il sistema nervoso centrale, la cute e il sottocutaneo. Il 50 % circa
dei pazienti colpiti dalla malattia reumatica sviluppa negli anni un danno cardiaco permanente,
responsabile delle varie forme di valvulopatia reumatica cronica.

EPIDEMIOLOGIA

L’incidenza della malattia reumatica è diminuita drasticamente nei paesi industrializzati grazie soprattutto
alle migliorate condizioni socio-economiche e alla disponibilità della penicillina per il trattamento della
faringite streptococcica. La malattia è ancora presente in forma endemica nei paesi in via di sviluppo e tra
le popolazioni in cui sussistono condizioni ambientali e socio-sanitarie precarie.
Sebbene possa interessare tutte le fasce di età, la malattia reumatica colpisce principalmente i bambini e
gli adolescenti. La prevalenza della valvulopatia reumatica, al contrario, aumenta con l’età e raggiunge un
picco tra i 25 e i 34 anni.

PATOGENESI

La faringo-tonsillite da streptococco emolitico del gruppo A, non adeguatamente trattata con antibiotici, è
l’evento che precipita la malattia reumatica.
La malattia reumatica è considerata il risultato di una esagerata risposta immunitaria alle componenti
antigeniche dello streptococco. Le similitudini molecolari e immunologiche tra gli antigeni batterici e i
tessuti dell’organismo (mimetismo antigenico) sarebbero poi responsabili della successiva risposta crociata
di tipo autoimmune che scatena l’attacco acuto di malattia reumatica (Figura 13.1). L’interesse nei
confronti della patogenesi autoimmune è riemerso recentemente con la dimostrazione che diversi antigeni
della superficie batterica condividono affinità strutturali con le componenti tessutali degli organi e dei
sistemi coinvolti nella malattia reumatica. L’acido ialuronico contenuto nella capsula dello streptococco
possiede una struttura chimica identica a quella dell’acido ialuronico presente nel tessuto articolare
dell’uomo. Un’altra componente della parete cellulare dello streptococco, la N-acetilglucosamina, si
ritrova in alte concentrazioni nelle valvole cardiache; gli anticorpi diretti contro la proteina-M della
membrana cellulare batterica interagiscono anche con la miosina cardiaca; altre proteine umane, la
vimentina (tessuto sinoviale) e la cheratina (tessuto cutaneo), mostrano una reattività crociata con la
proteina-M streptococcica. Infine, esistono evidenze a sostegno dell’affinità strutturale tra gli elementi
somatici dello streptococco e alcune componenti del tessuto nervoso dell’uomo (gangliosidi). Pertanto, i
principali quadri clinici associati alla malattia reumatica sarebbero espressione di un danno infiammatorio
locale, indotto da una abnorme risposta immunologica di tipo crociato.

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108 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 13.1

ANATOMIA PATOLOGICA

Sul versante istopatologico, la fase acuta della malattia si caratterizza per una reazione essudativa e
proliferativa del tessuto connettivo. La cardite reumatica è una vera e propria pancardite perché interessa
l’endocardio, il miocardio e il pericardio. Nel miocardio si osserva edema ed infiltrazione cellulare del
tessuto interstiziale con frammentazione delle fibre collagene (miocardite). Successivamente, nella fase
proliferativa compaiono i noduli di Aschoff (Patologia 07), lesioni granulomatose patognomoniche della
malattia, riscontrabili anche nelle valvole cardiache e nel pericardio. Si riscontra una pericarditedi tipo
sierofibrinoso che si risolve solitamente senza complicazioni. La componente più significativa del danno
cardiaco è l’infiammazione delle valvole cardiache (valvulite), responsabile della manifestazione clinica più
importante dell’attacco acuto di malattia reumatica, l’insufficienza valvolare. La valvulite reumatica
colpisce prevalentemente la valvola mitrale e la valvola aortica, raramente la valvola tricuspide e quasi mai
la valvola polmonare. Il tessuto valvolare è interessato da edema ed infiltrazione cellulare. Si possono
osservare piccole formazioni verrucose sulla superficie valvolare, in prossimità delle aree di coaptazione
dei lembi valvolari (Patologia 40). Il processo cicatriziale della valvulite porta lentamente, negli anni, a
fibrosi dei lembi e a fusione delle commissure e delle corde tendinee, a cui corrispondono sul piano
funzionale stenosi o insufficienza valvolare
(valvulopatia reumatica).
Pertanto, il coinvolgimento del cuore durante la fase attiva della malattia reumatica (cardite reumatica),
deve essere distinto dal danno valvolare residuo che fa seguito alla risoluzione dell’episodio acuto
(valvulopatia reumatica).

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109 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Patologia 07. Granuloma di Aschoff nel miocardio in soggetto con miocardite reumatica.

Patologia 40. Endocardite reumatica:

-valvulite verrucosa tipica;

-istologia delle vegetazione trombotica antibatterica.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

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110 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Dal quadro clinico della malattia emergono 5 elementi fondamentali per la diagnosi: la cardite,
la poliartrite, la corea, l’eritema marginato e i noduli sottocutanei. Questi elementi possono
presentarsi singolarmente o in combinazione tra loro e costituiscono nel loro insieme i
cosiddetti criteri maggiori di Jones. Altri reperti, come la febbre, le artralgie, la positività dei test
ematochimici di flogosi acuta, l’allungamento dell’intervallo PQ all’ECG, sono considerati invece
manifestazioni minori della malattia (Tabella I).

Secondo lo schema proposto da Jones, la presenza di 2 manifestazioni maggiori oppure di una


manifestazione maggiore e 2 minori in un paziente con evidenza di infezione streptococcica recente
(positività del tampone faringeo, titolo antistreptolisinico elevato) indica un’alta probabilità di malattia
reumatica acuta.
Il periodo di latenza tra la faringite streptococcica e l’inizio dei sintomi varia da 1 a 5 settimane. Nel 75 %
dei casi, la febbre e la poliartrite rappresentano i segni clinici iniziali dell’attacco di malattia reumatica.
L’artrite interessa prevalentemente le grandi articolazioni degli arti (ginocchia, gomiti, polsi e anche) in
modo asimmetrico e migrante, risponde prontamente all’aspirina e si risolve senza reliquati. A differenza
dell’artrite reumatoide, sono risparmiate le piccole articolazioni delle mani e dei piedi. Al quadro clinico
della poliartrite si sovrappone spesso quello della cardite, e in generale la gravità dei sintomi articolari è
inversamente proporzionale all’interessamento cardiaco: nei pazienti con forme gravi di artrite, le
manifestazioni cliniche della cardite tendono ad essere attenuate e viceversa.
La cardite, presente nel 50% circa dei pazienti con malattia reumatica acuta, è associata quasi sempre ad
un soffio cardiaco secondario alla valvulite. Il reperto ascoltatorio più frequente è un soffio olosistolico
apicale di insufficienza mitralica, ad alta frequenza, irradiato all’ascella. Il soffio dell’insufficienza valvolare
aortica, se presente, si associa quasi sempre a quello dell’insufficienza mitralica.
Le ripercussioni emodinamiche della valvulite sono di entità variabile. Nelle forme più gravi di insufficienza
mitralica, compaiono i segni e i sintomi dello scompenso cardiaco. Tuttavia più spesso, gli effetti acuti della
valvulite sono poco rilevanti sul piano clinico, e talora può essere difficile, all’ascoltazione cardiaca, cogliere
i segni delle lesioni valvolari. In questi casi, l’indagine ecocardiografica, coadiuvata dall’esame color
Doppler, può essere utile per confermare il sospetto di malattia reumatica.
La pericardite è confermata daglili sfregamenti pericardici e dal rilievo ecocardiografico di versamento
pericardico. L’interessamento flogistico del tessuto miocardico (miocardite) e del pericardio
(pericardite) non compare mai isolatamente, ma è sempre associato alle manifestazioni della valvulite.

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111 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Pertanto, un quadro clinico di pericardite o di miocardite con disfunzione sistolica del ventricolo sinistro
difficilmente potrà avere una patogenesi reumatica se l’ascoltazione cardiaca e l’ecocardiogramma
escludono la presenza di un’insufficienza della valvola mitrale o aortica.
La corea, secondaria all’interessamento flogistico del sistema nervoso centrale, è la terza manifestazione
clinica della malattia reumatica (15-30 % dei casi). Chiamata anche corea di Sydenham o ballo di San Vito,
esordisce più tardivamente, quando le altre manifestazioni della malattia sono scomparse o in via di
risoluzione, e si caratterizza per la presenza di movimenti irregolari e involontari, senza finalità, che
scompaiono con il sonno e con la sedazione. I sintomi neurologici hanno una durata variabile e, in genere, si
risolvono spontaneamente.
Le manifestazioni cutanee della malattia reumatica sono decisamente più rare (meno del 10% dei casi).
I noduli sottocutanei compaiono a distanza di diverse settimane dalla cardite, si localizzano in
corrispondenza delle articolazioni principali e delle prominenze ossee, sono indolori, mobili e si risolvono
spontaneamente. L’eritema marginato è un rash cutaneo caratterizzato da margini rosati e serpiginosi che
circoscrivono aree centrali di aspetto normale. Si osserva prevalentemente sul tronco e sulle porzioni
prossimali degli arti, migra da una sede all’altra e non risponde alla terapia antinfiammatoria.

ESAMI DI LABORATORIO

La diagnosi di malattia reumatica è spesso difficile per la variabilità del quadro clinico e per la mancanza di
un test diagnostico sicuro e definitivo.
Gli indici di flogosi appaiono costantemente alterati nella fase acuta della malattia. La velocità di
eritrosedimentazione (VES) e la proteina-C reattiva (PCR) sono marcatori affidabili, ma aspecifici, della
risposta autoimmune e dell’infiammazione associata alla cardite o alla poliartrite.
In tutti i casi di sospetta malattia reumatica è indispensabile documentare, ai fini diagnostici, una recente
infezione streptococcica (vedi criteri di Jones). I test più utilizzati sono la ricerca di anticorpi diretti contro
alcune componenti dello streptococco (streptolisina O, desossoribonucleasi B) e l’esame colturale faringeo
(tampone faringeo).
La positività del tampone faringeo deve essere interpretata con cautela perché molti individui normali
possono ospitare streptococchi del gruppo A nelle vie aeree superiori. D’altra parte, la negatività
dell’esame colturale non permette di escludere in modo assoluto un episodio antecedente di infezione
streptococcica. L’aumento del titolo anticorpale antistreptococcico, specie se progressivo, è invece un
reperto provvisto di maggiore affidabilità nell’evidenziare una recente infezione streptococcica. A tal
proposito, giova ricordare che il titolo antistreptolisina O (ASLO) e antidesossiribonucleasi aumenta entro 1
mese dall’inizio dell’infezione streptococcica, raggiunge un plateau per 3-6 mesi, quindi si riduce
progressivamente.
Oltre alla tachicardia sinusale, l’ECG può mostrare un BAV di I grado(PQ allungamento fisso), secondario
all’infiammazione dei tessuti perinodali. Il BAV non è da solo diagnostico di cardite reumatica (Tabella I),
non influisce sulla prognosi né predice lo sviluppo di sequele valvolari (valvulopatia reumatica).

DECORSO E PROGNOSI

La malattia si risolve spontaneamente entro 3 mesi dall’esordio acuto. Sebbene siano stati descritti casi
isolati di edema polmonare acuto fulminante, la mortalità della fase acuta è bassa e la prognosi dipende
fondamentalmente dalla gravità delle lesioni valvolari che fanno seguito al primo episodio della malattia
reumatica e/o alle recidive.
La malattia reumatica tende a recidivare. I pazienti che hanno sofferto di un precedente attacco di malattia
reumatica e che sviluppano successivamente nuovi episodi di faringite streptococcica sono ad alto rischio
di una recidiva della malattia. L’infezione streptococcica ricorrente, specie se sostenuta da ceppi virulenti,

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112 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riattiva la risposta autoimmune dell’organismo, favorendo così l’instaurarsi o il peggioramento del danno
anatomico valvolare (Figura 13.1).

CENNI DI TERAPIA E PREVENZIONE

Non esiste un trattamento specifico della malattia reumatica. Gli agenti anti-infiammatori sopprimono
rapidamente il dolore articolare e altri segni e sintomi della flogosi acuta, ma non curano la malattia né
prevengono la sua successiva evoluzione. Anche la terapia antibiotica con penicillina, obbligatoria nella fase
acuta per sradicare l’infezione streptococcica, non modifica il decorso dell’attacco acuto della malattia
reumatica né impedisce lo svilupparsi della cardite.
L’aspirina ad alte dosi è indicata nella poliartrite acuta, mentre l’impiego dei corticosteroidi è riservato ai
casi con cardite grave complicata da insufficienza cardiaca.

PREVENZIONE
La prevenzione primaria della malattia reumatica acuta si identifica nella diagnosi precoce e nel
trattamento antibiotico della faringo-tonsillite streptococcica. Il trattamento antibiotico se tempestivo e
mirato (penicillina) elimina quasi completamente il rischio di malattia reumatica.
La prevenzione secondaria è rivolta agli individui che hanno già avuto un attacco documentato di malattia
reumatica acuta o che soffrono di recidive dopo un’infezione streptococcica. Il caposaldo è rappresentato
dalla profilassi antibiotica continua delle recidive di infezione streptococcica, potenzialmente capaci di
innescare nuovi attacchi di malattia reumatica. La profilassi antimicrobica continua è necessaria perché il
trattamento antibiotico di una nuova infezione streptococcica, anche se ottimale, non protegge il paziente
con precedenti anamnestici di malattia reumatica dal rischio di una recidiva reumatica.
Lo schema terapeutico più efficace è costituito dalla benzilpenicillina somministrata in dose singola per via
intramuscolare ogni 4 settimane. La durata della profilassi antibiotica deve essere adattata nel singolo
paziente a seconda del rischio di recidiva. Il rischio di ricorrenze reumatiche diminuisce con l’aumentare
dell’età e con l’aumentare del tempo trascorso dall’ultimo attacco. I pazienti che non sviluppano la cardite
durante il loro primo attacco sono meno esposti al rischio di recidive reumatiche, e quando queste si
verificano hanno minori probabilità di manifestare una cardite. I pazienti che hanno sviluppato una cardite
nel corso dell’attacco acuto sono invece ad alto rischio di recidiva di cardite, con possibilità di ulteriore
danno valvolare in occasione di ogni ricorrenza (Figura 13.1).

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113 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 14
STENOSI MITRALICA
Giuseppe Oreto, Francesco Saporito

DEFINIZIONE

La stenosi mitralica è una malattia caratterizzata da alterazioni della valvola mitrale (fusione e retrazione
delle corde, ispessimento e adesione dei lembi) che determinano una riduzione dell'area valvolare. La
valvola stenotica rappresenta un ostacolo al passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro, per cui la
pressione atriale sinistra aumenta, e tale aumento si riflette a monte sul circolo polmonare, ed infine sul
ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La malattia reumatica rappresenta la più importante e pressoché l'unica causa di stenosi mitralica. Per
quanto, infatti, esistano forme congenite di stenosi mitralica, i casi ad eziologia non reumatica sono
talmente rari da risultare trascurabili. La malattia reumatica consegue ad infezione da streptococco ß-
emolitico del gruppo A, agente responsabile di infezioni spesso localizzate nelle tonsille; qualche settimana
dopo l’inizio del processo infettivo compaiono, nelle forme tipiche, manifestazioni infiammatorie a carico di
numerosi organi, comprendenti le grandi articolazioni, il cuore e il rene. Tali alterazioni non dipendono da
localizzazione dello streptococco negli organi bersaglio, ma conseguono ad un processo autoimmunitario. Il
cuore viene solitamente interessato in toto, e si manifesta un’endocardite associata spesso a miocardite e
pericardite.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il reperto anatomico prevalente durante la fase acuta dell'endocardite reumatica è rappresentato da piccoli
noduli verrucosi osservabili lungo la linea di chiusura dei foglietti, sul versante atriale di essi. Queste
formazioni infiammatorie scompaiono con la risoluzione del processo carditico, ed occorrono diversi anni
prima che si determinino le alterazioni caratteristiche della stenosi mitralica. Al danno valvolare iniziale
segue un'alterazione del flusso transvalvolare, che determina nel tempo ispessimento, fibrosi, saldatura e
calcificazione dei lembi e dell'apparato sottovalvolare. In altri termini, la lesione reumatica iniziale avvia un
processo automatico di lenta e graduale alterazione della valvola; il trauma provocato dal flusso turbolento
rappresenta verosimilmente il principale responsabile delle lesioni evolutive.
La valvola mitrale stenotica presenta corde fuse e retratte, mentre i foglietti sono ispessiti e parzialmente
aderenti fra loro, nella maggior parte dei casi coesistono calcificazioni sia dei lembi che delle corde
(Figura 14.1, Patologia 08, Patologia 09). L'area valvolare, che nel normale misura da 4 a 6 cm2, è più o
meno significativamente ridotta sia per l'adesione dei foglietti che per l'obliterazione dei cosiddetti «orifici
secondari» (gli spazi compresi fra le corde tendinee), conseguente alla fusione delle corde. Nel complesso,
la valvola stenotica ha un aspetto a imbuto con la base rivolta verso l'atrio, che si presenta dilatato e
spesso sede di trombi, particolarmente a livello dell'auricola. Le vene polmonari sono dilatate e possono
coesistere alterazioni ostruttive delle arteriole polmonari, caratterizzate da iperplasia della media e
dell'intima. In diversi casi si rileva dilatazione del ventricolo e dell'atrio destro, e segni di stasi venosa
sistemica cronica, particolarmente a carico del fegato. Queste modificazioni portano all'ipertensione
polmonare, che induce sovraccarico e dilatazione del ventricolo destro, insufficienza tricuspidale, ed infine
scompenso congestizio.
114 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 14.1 Valvola mitrale con stenosi reumatica: si osservi la grave riduzione dell’orifizio per fusione delle commissure nonché
l’ispessimento e la calcificazione dei lembi. (Immagine gentilmente concessa dal Prof. Gaetano Tiene)

Patologia 08. Stenosi mitralica da valvulopatia reumatica cronica. Si noti l’ispessimento dei lembi e la fusione delle commessure con
focale trombosi dell’endocardio valvolare e apparato sottovalvolare pressoché indenne.

Patologia 09. Stenosi mitralica da valvulopatia reumatica cronica valvolare e sottovalvolare:

-rappresentazione schematica della fusione dell’apparato sottovalvolare mitralico;

-corrispondente immagine anatomica.

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115 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

FISIOPATOLOGIA

Quando l'area valvolare mitralica si riduce, la progressione del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro è in
qualche modo ostacolata. Per consentire un normale riempimento ventricolare durante la diastole diventa
allora necessario un aumento della pressione atriale, così che il sangue riesca a passare dall'atrio al
ventricolo nonostante l'impedimento rappresentato dalla valvola stenotica. Nel normale non esiste alcuna
differenza significativa fra la pressione diastolica del ventricolo sinistro e quella vigente in atrio sinistro
(Figura 14.2 A ). Il flusso diastolico atrioventricolare, infatti, avviene senza un'apprezzabile differenza di
pressione fra le due camere perché la valvola mitrale normale non offre alcuna resistenza alla progressione
del sangue. Nella stenosi mitralica, invece, si realizza per tutta la fase diastolica un gradiente di pressione
fra atrio e ventricolo sinistro, ed è in virtù di questo gradiente che il flusso può essere mantenuto (Figura
14.2 B ).

Figura14. 2 Curve pressorie simultanee nell’atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione normale) non è
presente alcun gradiente pressorio, durante la diastole, fra l’atrio e il ventricolo, mentre in B” (Stenosi mitralica) la pressione atriale
è aumentata, ed è presente un gradiente atrio-ventricolare (area grigia) per tutta la durata della diastole.

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116 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’entità del gradiente transvalvolare dipende da due fattori: l'area mitralica e la velocità del flusso
attraverso la valvola. Quanto minore è la superficie valvolare e quanto maggiore è la velocità del flusso,
tanto più elevato sarà il gradiente. L'area valvolare misura nel normale da 4 a 6 cm2; la riduzione di essa
fino a 2,5 cm2 non comporta alterazioni emodinamiche di rilievo. In rapporto all'entità della riduzione
dell'area valvolare, si definisce la stenosi lieve quando l’area è compresa tra 2,5 e 1,5 cm2, moderata se
l’area è tra 1,5 e 1 cm2, e severa (serrata) se l'area è minore di 1 cm2.
La velocità del flusso attraverso la valvola è in relazione diretta con la portata cardiaca e la frequenza.
Aumentando la portata, infatti, una maggior quantità di sangue deve attraversare l'orificio valvolare
nell'unità di tempo, per cui è richiesta una maggiore velocità di flusso. Invece la tachicardia incrementa la
velocità di flusso, poiché aumentando la frequenza cardiaca si riduce la durata della diastole, cioè il tempo
disponibile per il passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo.*
Più è breve il periodo diastolico, maggiore deve essere la velocità del flusso per permettere ad una
determinata quantità di sangue di attraversare l'ostio valvolare stenotico.
L’aumento della pressione atriale sinistra genera un incremento pressorio a monte, cioè in tutte le
sezioni del circolo polmonare: vene, venule, capillari, arteriole, arterie. L’anello più debole di questa
catena è il capillare; quando la pressione s’incrementa oltre 25 mm Hg, viene superata la capacità che le
proteine plasmatiche hanno di trattenere i fluidi all’interno del vaso (pressione oncotica), e inizia la
trasudazione: il liquido invade dapprima l’interstizio polmonare e successivamente l’alveolo, generando
disturbi respiratori che vanno dalla dispnea da sforzo fino all’edema polmonare acuto.
In molti soggetti con stenosi mitralica lieve o moderata, la pressione nell’arteria polmonare non è di solito
molto elevata a riposo, e l'incremento di essa è direttamente correlato all'aumento della pressione
capillare. In alcuni pazienti, invece, la pressione in arteria polmonare è molto più alta di quanto ci si
aspetterebbe in base alla pressione vigente in atrio sinistro, per via di un incremento delle resistenze
precapillari (arteriolari) polmonari: in casi del genere è possibile riscontrare in arteria polmonare pressioni
elevate fino a 100 mm Hg o più. In una fase precoce della malattia, questa ipertensione polmonare
dipende da vasocostrizione delle arteriole polmonari, ed è perciò un fenomeno funzionale, ma
successivamente consegue ad alterazioni anatomiche obliterative del letto vascolare polmonare
(vasculopatia polmonare).
Lo sviluppo dell'ipertensione polmonare modifica il quadro della stenosi mitralica: un eccessivo carico di
pressione grava sul ventricolo destro, che non è assuefatto a lavorare contro elevate resistenze, e per
sopperire al maggior lavoro si ipertrofizza e quindi si dilata. Alla dilatazione ventricolare consegue
insufficienza tricuspidalica, dilatazione dell'atrio destro e congestione venosa sistemica. In questa
situazione, la presenza di un significativo ostacolo al deflusso ventricolare destro (aumento delle
resistenze precapillari) riduce la portata cardiaca, ed impedisce il raggiungimento di una pressione
capillare troppo elevata. Di conseguenza il paziente andrà incontro meno facilmente a dispnea da sforzo
ed edema polmonare acuto (fenomeni dipendenti dall'ipertensione capillare), mentre prevarranno i segni
della ridotta gittata (astenia) e le manifestazioni della stasi venosa sistemica (turgore giugulare,
epatomegalia, edemi declivi, ascite).

(* La durata della fase sistolica è fissa (intorno a 0,3 secondi) e indipendente dalla frequenza cardiaca.
Perciò per una frequenza cardiaca di 60 al minuto ciascun ciclo cardiaco dura 1 secondo (0,3 secondi di
sistole e 0,7 secondi di diastole): la durata complessiva della diastole sarà, perciò, 0,42 secondi. Se la
frequenza si raddoppia (120/m’) ciascun ciclo durerà 0,5 secondi (0,3 secondi di sistole e 0,2 di diastole),
per cui la durata della diastole sarà 0,24 secondi.)

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117 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 14.3 Regime pressorio nelle varie sezioni dell’apparato cardiocircolatorio in condizioni normali (A), nella stenosi mitralica (B)
e nella stenosi mitralica con vasculopatia polmonare (C). Nello schema B la valvola mitrale è fortemente ispessita e aumenta la
pressione in atrio sinistro e nel circolo polmonare. Nello schema C coesistono alterazioni obliterative del letto vascolare polmonare
(ispessimento della parete delle arteriole) che induce aumento della pressione arteriosa polmonare.

SINTOMI

I sintomi più precoci e più evidenti di stenosi mitralica sono quelli determinati dalla congestione
polmonare: dispnea da sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare acuto. Tutte
queste manifestazioni dipendono da ipertensione capillare polmonare, con trasudazione di liquido
nell’interstizio e negli alveoli. Quando la capacità del sistema linfatico di drenare il trasudato diventa
insufficiente, si determina la congestione polmonare. La compliance polmonare è allora ridotta, ed il lavoro
respiratorio aumenta, cosicché il soggetto va incontro a dispnea, particolarmente quando si trova in
posizione supina. La trasudazione massiva di liquido negli alveoli provocata da un improvviso aumento
della pressione capillare è responsabile dell'edema polmonare; questa manifestazione viene spesso
scatenata da incremento della portata e/o della frequenza cardiaca (fibrillazione atriale parossistica,
malattie febbrili acute, interventi chirurgici, gravidanza, etc.).
Un altro sintomo con cui può presentarsi la stenosi mitralica è l'emoftoe, la quale dipende da ipertensione
nelle vene bronchiali: le comunicazioni fra sistema venoso polmonare e sistema venoso bronchiale fanno sì
che l'aumento pressorio nelle vene polmonari si rifletta anche sulle vene bronchiali, nelle quali possono
determinarsi piccole dilatazioni, la cui rottura produce emissione attraverso la bocca di sangue proveniente
dalle vie respiratorie. La congestione delle vene bronchiali, con la conseguente iperemia della mucosa
bronchiale è anche responsabile dell'iperproduzione di muco, da cui deriva la suscettibilità alla bronchite
dei pazienti con stenosi mitralica.
Il decorso della malattia è pressoché inevitabilmente caratterizzato dall'insorgenza della fibrillazione
atriale. L'aritmia consegue alla dilatazione dell'atrio sinistro ed alle alterazioni strutturali della parete
atriale, consistenti in un aumento del connettivo fino alla fibrosi. La disorganizzazione della muscolatura
118 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

atriale che ne deriva si traduce in disomogeneità dei periodi refrattari: un impulso prematuro in fase
vulnerabile può, perciò, scatenare la fibrillazione atriale. L'aritmia può avere inizialmente andamento
parossistico, e in questo caso è responsabile di palpitazioni, ma poi diviene cronica. L'insorgenza della
fibrillazione atriale è legata alle dimensioni dell'atrio sinistro, e dipende anche dall’età: l'aritmia è più
frequente quando l'atrio è dilatato e nei pazienti in cui la malattia dura da maggior tempo.
Alla fibrillazione atriale è legata anche l'embolia sistemica, la quale consegue a formazione di trombi
parietali in atrio sinistro, specialmente nell’auricola, con successiva immissione di materiale trombotico nel
circolo sistemico. L'embolia non è correlata con la gravità della stenosi, potendosi osservare anche nelle
forme lievi, e rappresenta a volte la prima manifestazione della malattia. Nel 50-75% dei casi la
localizzazione dell'embolo è nelle arterie cerebrali.

SEGNI CLINICI

I pazienti con stenosi mitralica rilevante e bassa portata cardiaca possono presentare la cosiddetta «facies
mitralica», caratterizzata da cianosi alle labbra con rossore ai pomelli.

Il quadro ascoltatorio comprende un soffio a rullo di tamburo con schiocco d'apertura mitralico
protodiastolico, (Figura 14.4 A); in presenza di ipertensione polmonare importante, il II tono può essere
aumentato d’intensità. Si tratta di un soffio a bassa frequenza, che viene denominato “rullio” perché
ricorda il rullare di un tamburo. Il rinforzo presistolico del soffio è dovuto all’aumento del flusso
transvalvolare causato dalla contrazione dell’atrio; poiché nella fibrillazione atriale l’attività meccanica
dell’atrio è praticamente assente, con l’insorgenza dell’aritmia scompare il rinforzo presistolico del soffio
della stenosi mitralica. Alcuni o anche tutti i segni ascoltatori caratteristici della stenosi mitralica possono
non essere apprezzabili: il segno ascoltatorio più importante per la diagnosi clinica di stenosi mitralica è lo
schiocco d'apertura protodiastolico, il timbro a tonalità elevata, la sede di ascoltazione alla punta ed al
mesocardio.
Nei pazienti con scompenso del ventricolo destro, infine, si manifestano i caratteristici segni della
congestione venosa sistemica, rappresentati da edemi declivi, epatomegalia, ascite, idrotorace, ecc.

Figura 14.4 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. A: Ritmo sinusale. B: Fibrillazione atriale. I: primo tono. II: secondo tono.
A2: componente aortica del secondo tono. P2: componente polmonare del secondo tono. SAM: schiocco d’apertura della mitrale.
Rullio: soffio diastolico.
119 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi mitralica l'Elettrocardiogramma mostra i segni dell'ingrandimento atriale
sinistro, fra i quali spicca l’onda P mitralica bifida, con durata aumentata ( 0.11 sec) (Figura 14.5);nei
soggetti con ipertensione polmonare si può anche riscontrare il quadro elettrocardiografico dell'ipertrofia
ventricolare destra.

Figura 14.5 Elettrocardiogramma caratteristico di stenosi mitralica. Le onde P sono bifide in DII e in V2, mentre in V1 la P è
difasica positivo/negativa con componente negativa ampia e rallentata. Il quadro è indicativo di ingrandimento atriale sinistro (Vedi
Capitolo).

L'esame radiologico fornisce una serie di elementi caratteristici, fra i quali particolarmente importanti
sono i segni di ingrandimento dell'atrio e dell'auricola sinistra, e quelli che testimoniano le modificazioni
del circolo polmonare. L'Ecocardiografia ha rivoluzionato la diagnostica della stenosi mitralica:
l'ecocardiogramma bidimensionale permette non solo un'accurata valutazione dell’anatomia e del
movimento valvolare (Figura 6, Figura 7), ma anche lo studio dell'apparato sottovalvolare ed il calcolo
dell'area mitralica; l'ecocardiogramma Doppler (Figura 8) fornisce dati emodinamici riguardanti sia il
gradiente pressorio attraverso la valvola che l'area valvolare, ed anche informazioni indirette sulla
pressione polmonare; l’ecocardiogramma tridimensionale, di recente introduzione, consente una visione
quasi «anatomica» della mitrale; l’ecocardiogramma transesofageo, eseguito collocando il transduttore
nell’esofago, in immediata prossimità del cuore, senza l’interposizione del tessuto polmonare, che rende
difficile il passaggio degli ultrasuoni, consente di studiare la morfologia valvolare nei dettagli e di analizzare
anche parti del cuore di difficile approccio con la tecnica transtoracica. Nei pazienti con stenosi mitralica,
l’esplorazione transesofagea può svelare la presenza di trombi in atrio, particolarmente nell’auricola,
elemento che riveste grande rilevanza clinica perché è associato ad elevato rischio di embolia
sistemica. Il cateterismo cardiaco fornisce numerosi dati fisiopatologici, in particolare l’area valvolare, il
gradiente transvalvolare (Figura 14.2), e la pressione polmonare; questi parametri, tuttavia, possono essere
ottenuti anche attraverso metodiche non invasive, per cui in molti pazienti, soprattutto giovani, il
cateterismo cardiaco non è indispensabile per stabilire l'indicazione all'intervento, e neppure per
determinare il tipo di intervento da preferire. Il cateterismo conserva, tuttavia, ancora un ruolo molto
importante nei pazienti con stenosi mitralica, per la possibilità di eseguire una valvuloplastica
tranacatetere.

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120 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

CENNI DI TERAPIA

Il trattamento dei pazienti con stenosi mitralica può essere farmacologico, cardiologico interventistico o
chirurgico.
La terapia farmacologica della stenosi mitralica si basa sui seguenti principi: 1) profilassi delle recidive di
reumatismo; 2) prevenzione delle embolie sistemiche; 3) terapia della fibrillazione atriale; 4)
mantenimento di una frequenza ventricolare accettabile in presenza di fibrillazione atriale cronica; 5)
terapia dei disturbi legati alla congestione venosa polmonare.
La profilassi delle recidive di reumatismo prevede la somministrazione prolungata di antibiotici e
antinfiammatori. La prevenzione delle tromboembolie sistemiche va effettuata nei pazienti con atrio
sinistro dilatato e in tutti quelli con fibrillazione atriale. I farmaci di scelta sono gli anticoagulanti orali
dicumarolici.
Se insorge la fibrillazione atriale, è opportuno tentare di ripristinare il ritmo sinusale somministrando
farmaci antiaritmici, o, in alternativa, con la cardioversione elettrica. Restaurato il ritmo sinusale, si può
eventualmente proseguire un trattamento profilattico a lungo termine con farmaci antiaritmici, per evitare
possibili recidive. Se l’insorgenza della fibrillazione non è recentissima, la cardioversione deve essere
preceduta da una valutazione dell'atrio sinistro, e in particolare dell’auricola, mediante ecocardiografia
transesofagea, perché la presenza di trombosi atriale controindica qualunque manovra volta a convertire la
fibrillazione, per il rischio che, al ripristino del ritmo, si verifichi un’embolia. Se la fibrillazione dura da
diversi giorni o mesi, è necessario un lungo periodo di anticoagulazione (almeno 1 mese) prima di
procedere alla cardioversione.
Nei pazienti con fibrillazione atriale cronica è spesso necessaria una terapia volta a mantenere una
frequenza cardiaca non troppo elevata; per questo scopo viene spesso utilizzata la digitale, oppure i ß-
bloccanti o i calcioantagonisti. Questi farmaci aumentano il periodo refrattario del nodo A-V, diminuendo
la risposta ventricolare alla fibrillazione atriale, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli.
In casi particolari, nei quali risulti impossibile ottenere con i farmaci un accettabile controllo della
frequenza ventricolare, si può eseguire l’ablazione del nodo A-V associata all’impianto di un pacemaker
ventricolare. L’ablazione si ottiene erogando, attraverso un apposito elettrocatetere, energia a
radiofrequenza in corrispondenza del nodo: l’energia aumenta la temperatura del tessuto, provocando una
lesione irreversibile cui consegue il blocco A-V; l’attivazione dei ventricoli diviene così indipendente da
quella degli atri, governata solo dal pacemaker artificiale o da un segnapassi di scappamento posto a valle
del blocco.
I sintomi legati a congestione polmonare (dispnea, ortopnea, edema polmonare acuto) vanno trattati con i
diuretici e la limitazione dell’apporto dietetico di sodio. I pazienti che presentano questi disturbi, tuttavia,
sono quasi sempre in III classe NYHA, per cui vanno quasi sempre avviati alla terapia chirurgica o alla
valvuloplastica percutanea. Questo intervento si esegue inserendo nell’atrio destro attraverso la vena
femorale un catetere con palloncino: dopo puntura del setto interatriale, eseguita con apposito ago, il
catetere viene spinto per via transettale in atrio sinistro ed attraversa la valvola mitrale, in maniera tale che
il palloncino si trovi a cavallo della valvola. Gonfiando quindi ripetutamente il palloncino per brevi periodi si
esercita sui lembi della valvola stenotica una pressione sufficiente a separarne i foglietti, fusi in
corrispondenza delle commissure, così da ridurre significativamente l’ostacolo al flusso ematico.
La stenosi mitralica può essere corretta chirurgicamente sia mediante un intervento conservativo
(commissurotomia) che sostituendo la valvola con una protesi. La commissurotomia viene ormai eseguita
in circolazione extracorporea, mentre l’intervento “a cielo coperto”, che si esegue senza arrestare il cuore,
è una procedura ormai non più impiegata.

(*Il trattamento interventistico prevede un intervento, cioè un’azione volta a modificare l’anatomia o
lastruttura del cuore; l’intervento viene, però, eseguito senza ricorrere alla chirurgia tradizionale, ma
agendosull’organo attraverso cateteri introdotti nel sistema vascolare e guidati fino al cuore sotto controllo
radioscopico o ecografico
122 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 15
INSUFFICIENZA MITRALICA
Paolo Marino

DEFINIZIONE

L’insufficienza mitralica è una malattia caratterizzata da perdita della coordinazione di una o più delle
componenti (anulus, lembi valvolari, corde tendinee, muscoli papillari) dell’apparto valvolare, con esito in
imperfetto collabimento dei lembi in sistole. La valvola insufficiente comporta un reflusso di sangue, in
sistole, dal ventricolo all’atrio sinistro, capace di causare aumento della pressione atriale dipendente dalla
quantità di sangue rigurgitato e dalle caratteristiche fisiche della parete atriale. Se l’aumento della
pressione atriale non viene compensato da un corrispondente aumento di volume dell’atrio, l’ipertensione
si riflette a monte sul circolo polmonare ed infine sul ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La degenerazione mixomatosa della valvola (nota anche con il termine di prolasso valvolare mitralico,
vedi più avanti) rappresenta la causa più frequente di insufficienza mitralica. Essa provoca incontinenza
poiché i lembi valvolari allungati e ridondanti protrudono eccessivamente all’interno dell’atrio sinistro
durante la sistole ventricolare, piuttosto che opporsi reciprocamente come fanno normalmente. La
malattia coronarica rappresenta un’altra causa importante di insufficienza mitralica, poiché può generare
disfunzione temporanea o permanente di un muscolo papillare, interferendo con la chiusura valvolare.
L’endocardite infettiva può causare insufficienza mitralica poiché l’infezione può indurre perforazione
valvolare o rottura delle corde infette. Anche la malattia reumatica rientra nell’eziopatogenesi
dell’insufficienza mitralica, se si accompagna ad eccessivo accorciamento e retrazione delle corde. Infine la
cardiomiopatia ipertrofica, malattia caratterizzata da un’abnorme ed asimmetrica ipertrofia ventricolare
(vedi Capitolo…), provoca una ostruzione dinamica endoventricolare cui corrisponde imperfetta chiusura
valvolare e significativa insufficienza mitralica.
Anche la significativa dilatazione ventricolare, comunque generata, può causare insufficienza mitralica
funzionale attraverso 2 meccanismi che interferiscono con la chiusura dei lembi valvolari: 1) la separazione
spaziale tra i due muscoli papillari è aumentata e 2) l’anulus mitralico è sovradisteso. Altra causa di
insufficienza mitralica è la calcificazione dell’anulus, che immobilizza la porzione basale dei lembi valvolari,
interferendo con la loro normale escursione e la coaptazione sistolica.

ANATOMIA PATOLOGICA

Nel prolasso valvolare mitralico le cuspidi sono iperdistese e le corde allungate. Nelle forme più gravi c’è
espansione dei lembi che assumono conformazione cupoliforme (Patologia 10). Vista dal lato atriale, la
valvola con degenerazione mixomatosa dimostra un variabile interessamento delle cuspidi: nella maggior
parte dei casi sono coinvolti uno o più segmenti del lembo posteriore o, meno frequentemente, entrambi i
foglietti. L’esame istologico rivela la sostituzione della struttura fibrosa con tessuto mixomatoso, ricco di
mucopolisaccaridi acidi e mastociti. La rottura delle corde (Patologia 11), nei pazienti affetti da
insufficienza mitralica, può essere il risultato dell’eccessivo stress meccanico a cui le stesse sono sottoposte
(come nel caso della degenerazione mixomatosa dei lembi) o la conseguenza di un insulto infettivo, come
nell’endocardite (Vedi Capitolo 34, Patologia 12). In questo caso, si possono anche notare lembi perforati e
frastagliati, con frequenti formazioni vegetanti. La calcificazione anulare rappresenta un’altra condizione
causa di insufficienza mitralica, con un’incidenza che tende ad aumentare con il crescere dell’età del
soggetto, ma che raramente si manifesta, macroscopicamente, prima dei 70 anni. La dilatazione anulare è
un’altra delle cause di insufficienza mitralica. Tale fenomeno può essere primario o secondario a condizioni
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123 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

di sovraccarico volumetrico. Infine, nei pazienti con un grave deficit ventricolare sinistro, il rigurgito
mitralico può essere presente indipendentemente dallo sfiancamento valvolare o da alterazioni dell’anulus.
In questi casi, la conformazione globosa del ventricolo sposta l’asse di trazione dei muscoli papillari rispetto
alle cuspidi (Figura 15.1); la correzione del deficit ventricolare comporta il recupero della conformazione
fisiologica che, a sua volta, ripristinando il normale asse di trazione, risolve il rigurgito.

Patologia 10. Insufficienza mitralica da degenerazione mixoide con prolasso dei lembi. Si noti la ridondanza del tessuto valvolare
(visione dall’altrio sinistro).

Patologia 11. Insufficienza mitralica da degenerazione mixoide con rottura spontanea di corde tendinee. Si notino il flail della
scallop centrale del lembo murale e le corde rotte (visione dall’atrio sinistro)

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124 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Patologia 12. Insufficienza mitralica acuta da endocardite infettiva ulcero-vegetante:

-rappresentazione schematica che evidenzia la perforazione e la rottura delle corde tendinee;

-reperto anatomico con ampia perforazione del lembo posteriore mitralico;

-evidenza di germi Gram positivi nella vegetazione settica.

Figura 15.1 Dilatazione del ventricolo sinistro, che assume una configurazione globosa, a causa della quale l’asse di trazione dei
muscoli papillari si sposta rispetto alle cuspidi, inducendo insufficienza mitralica.
125 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
FISIOPATOLOGIA
Nell’insufficienza mitralica una frazione della gittata sistolica è eiettata, in via retrograda, nella cavità
atriale, la quale è una camera a bassa pressione (Figura 15.2). La gittata anterograda in aorta, perciò, risulta
minore della gittata ventricolare, costituita dalla somma della gittata anterograda normale più quella,
patologica, retrograda. All’insufficienza mitralica consegue un incremento della pressione e del volume
atriale sinistro, una riduzione della gittata anterograda in aorta ed un sovraccarico di volume ventricolare
poiché in diastole il volume rigurgitato ritorna in ventricolo assieme al sangue refluo proveniente dalle
vene polmonari. Per far fronte alla normale domanda ed espellere il volume addizionale, la gittata sistolica
ventricolare aumenta grazie al meccanismo di Frank-Starling dove l’aumentato stiramento miofibrillare,
causato dall’aumentato volume ventricolare in diastole, determina un aumento del volume eiettato.
Ovviamente, la conseguenza emodinamica dell’insufficienza mitralica varia a seconda della severità del
rigurgito e dalla sua durata nel tempo. L'entità del rigurgito dipende dalla dimensione dell’orifizio
rigurgitante in sistole, dal gradiente di pressione sistolico tra atrio e ventricolo sinistro e dalle Resistenze
periferiche che si oppongono alla gittata anterograda ventricolare. L’ipertensione o la presenza di una
coartazione aortica (stenosi dell'istmo aortico) aumenteranno le Resistenze periferiche e dunque la
frazione di rigurgito aumenterà. L’entità dell’incremento della pressione atriale sinistra in risposta al
volume rigurgitante dipende dalla compliance atriale sinistra (definibile come variazione di volume per
una data variazione in pressione). Nell’insufficienza mitralica acuta (dovuta, ad esempio, all’improvvisa
rottura di una corda) la compliance (distensibilità) atriale sinistra subisce un’improvvisa riduzione perché
l’atrio sinistro è una camera relativamente rigida, e l'improvviso rigurgito, e dunque l’aumento del volume
atriale si estrinseca con un importante aumento della pressione endocavitaria atriale (Figura 15.3).
Questo aumento in pressione contribuisce a prevenire l’ulteriore incremento del rigurgito, ma l’elevata
pressione atriale sinistra si trasmette alla circolazione polmonare, provocando rapida congestione fino
all’edema. Nell’insufficienza mitralica cronica il ventricolo accomoda gradualmente il sovraccarico
volumetrico grazie al meccanismo di Starling e dunque al rigurgito segue una progressiva dilatazione delle
pareti atriali, che possono dunque accogliere l'aumentato volume senza aumento della pressione
endocavitaria. In questo modo lo svuotamento sistolico del cuore sinistro è favorito dal fatto che il cuore
stesso può “sfiatare” in una cavità a bassa impedenza, e cioè l’atrio, rispetto alla grande resistenza offerta
dall’aorta. Inoltre la compliance atriale aumentata, grazie alla proliferazione parietale, consente all’atrio di
accogliere un volume aumentato di sangue senza un corrispettivo aumento di pressione. In questo modo
l’effetto sulla pressione polmonare viene ad essere in parte neutralizzato, e l’atrio diventa una sorta di
serbatoio a bassa pressione dove gran parte del volume eiettato si accumula. In tale processo di
cronicizzazione, con l’aumentare del grado di rigurgito, i sintomi lamentati dal paziente passano da quelli
dettati dalla congestione polmonare a quelli legati alla bassa portata. La progressiva, cronica dilatazione
dell’atrio predispone, inoltre, allo sviluppo della fibrillazione atriale. Nell’insufficienza mitralica cronica
anche il ventricolo, come l’atrio, va incontro ad una graduale dilatazione compensatoria in risposta al
sovraccarico di volume. Rispetto all’insufficienza mitralica acuta l’aumentata compliance ventricolare
accomoda il sovraccarico volumetrico pur mantenendo delle pressioni relativamente normali. Nel corso
degli anni, però il sovraccarico cronico induce un progressivo deterioramento della funzione sistolica, con la
comparsa, in fase terminale, di un quadro di insufficienza ventricolare sinistra.

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126 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 15.2 Nel soggetto normale, la valvola mitrale è continente e tutta la gittata ventricolare sinistra si
dirige in aorta. Nell’insufficienza mitralica moderata la gittata anterograda (in aorta) e quella
retrograda (in atrio) sono pressoché equivalenti, mentre nell’insufficienza mitralica severa il volume
rigurgitante eccede la gittata anterograda.

Figura 15.3 Curve pressorie simultanee nell’atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione normale) l’onda v è
modesta, mentre in B, in presenza di insufficienza mitralica acuta, si osserva un’onda c+v molto ampia, che corrisponde ad una
pressione atriale di circa 70 mmHg.

SINTOMI

I sintomi dell'insufficienza mitralica acuta sono i sintomi di congestione polmonare. (dispnea, ortopnea
tosse, emoftoe)
I sintomi dell’insufficienza mitralica cronica, invece, sono prevalentemente i sintomi della bassa portata,
particolarmente durante lo sforzo. I soggetti nei quali la funzione contrattile tende a scadere lamentano
dispnea fino all’ortopnea ed alla dispnea parossistica notturna, miastenia, ipoafflusso cutaneo (cute
pallida e fredda) congestione venosa sistemica, ipoafflusso renale. Nell’insufficienza mitralica cronica
grave possono comparire anche i sintomi legati all’insufficienza ventricolare destra.
127 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

SEGNI CLINICI
Nell’insufficienza mitralica, l’ascoltazione del cuore rivela un soffio olosistolico apicale da rigurgito,
Figura 15.4) che si irradia all’ascella sinistra. Oltre al soffio sistolico, la presenza di un III tono è
frequente nell’insufficienza mitralica rilevante, così come il poter palpare un itto lateralizzato a causa
dell’ingrandimento cardiaco.

Figura 15.4 Soffio sistolico da rigurgito nell’insufficienza mitralica. In B è anche presente il III tono.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE

L’ECG dimostra segni di ingrandimento atriale sinistro con P mitralica (bifida e allungata) e segni di
ipertrofia ventricolare sinistra con voltaggi elevati del QRS nelle precordiali sinistre, tratto ST
sottoslivellato e onda T negativa asimmetrica nelle derivazioni in cui il QRS è positivo; anche la
radiografia del torace può mostrare l’ingrandimento delle camere cardiache sinistre, e a volte rivela
calcificazioni anulari. L’ecocardiogramma può rivelare la causa strutturale dell’insufficienza mitralica e
graduarne la severità mediante l’impiego del Color-Doppler (ECO 06), ed anche mettere in luce sia la
dilatazione atriale e ventricolare che l’ipercinesia delle pareti ventricolari. (->video)
Il cateterismo cardiaco è utile per identificare una causa ischemica di insufficienza mitralica e per
graduarne la severità. La caratteristica alterazione emodinamica è rappresentata dalla presenza, nella
curva di pressione atriale, di una onda v, la cui ampiezza dipende dall’entità del rigurgito e dalla compliance
dell’atrio (Figura 15.3).

PROLASSO VALVOLARE MITRALICO


Il prolasso valvolare mitralico rappresenta una condizione ereditaria o può verificarsi come manifestazione
cardiaca nel contesto di malattie connettivali, più frequentemente riscontrabile nelle donne giovani, specie
quelle con habitus longilineo. Esso rappresenta una condizione frequentemente asintomatica, ma che
talora può accompagnarsi a precordialgie e cardiopalmo. Viene identificato anche con il termine della
sindrome del click e del soffio mesotelesistolico. L’apparato valvolare ridondante, messo in tensione dalla
sistole ventricolare, è responsabile del click (Figura 15.5), mentre l’incontinenza della valvola è causa del
soffio che caratteristicamente occupa la mesotelesistole.
128 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 15.5 A: click mesosistolico del prolasso mitralico. B: il click è seguito da un soffio mesotelesistolico.

Tra le indagini strumentali l’ecocardiografia è la diagnostica più importante, e può evidenziare la


ridondanza di uno od entrambi i lembi valvolari, che prolassano in atrio sinistro durante la mesotelesistole.
A poco serve invece l’elettrocardiogramma, che risulta, così come la radiografia del torace,
sostanzialmente normale, a parte l’eventuale presenza di battiti ectopici e/o, se l’insufficienza mitralica è
importante, dei segni di ingrandimento atriale e ventricolare sinistro.
Il decorso clinico è sostanzialmente benigno, giacché la condizione non richiede trattamento specifico, a
parte la necessità della profilassi dell’endocardite batterica in caso di prolasso con rigurgito significativo od
in presenza di strutture valvolari e cordali particolarmente ridondanti ed ispessite. Tra le complicanze, oltre
alla già citata infezione della valvola, va segnalata la possibile rottura di una o più corde, con il generarsi di
una insufficienza mitralica acuta, ed il rischio tromboembolico, legato alla deposizione di piastrine sulla
superficie valvolare. Da ultimo va ricordata la possibile presenza di manifestazioni aritmiche, che
raramente mostrano carattere di malignità.

CENNI DI TERAPIA
La storia naturale dell’insufficienza mitralica è legata alla sua eziopatogenesi, con un decorso molto lento
come nel caso dell’eziologia reumatica o molto rapido come nel caso di un improvviso aggravamento di
una forma cronica a causa della rottura di una o più corde tendinee.
Lo scopo della terapia è quello di ridurre l’entità del rigurgito e di accrescere la portata anterograda,
attenuando i sintomi ed i segni di congestione polmonare e quelli legati alla bassa portata. I diuretici ed i
vasodilatatori trovano spazio nel trattamento dell’insufficienza mitralica acuta. L’uso dei vasodilatatori,
come gli inibitori del sistema renina-angiotensina è limitato, nell’insufficienza mitralica cronica, ai casi
caratterizzati da un concomitante incremento dei livelli tensivi in aorta.
L’insufficienza mitralica può subdolamente sconfinare in un quadro di scompenso cardiaco legato al
cronico, inarrestabile deterioramento della funzione contrattile associato alla persistenza del sovraccarico
di volume. La chirurgia cardiaca appare indicata prima che un tale evento possa verificarsi. A più di 30 anni
dai primi impianti valvolari, l’esatto timing dell’intervento sostitutivo valvolare mitralico nell’insufficienza
mitralica rimane una tra le decisioni cliniche più difficili per il cardiologo clinico. Una strategia interessante
è l’atteggiamento chirurgico conservativo, capace cioè di riparare (e non sostituire) la valvola eliminando
molti dei problemi propri delle protesi valvolari. Nei pazienti così trattati la sopravvivenza postoperatoria
appare nettamente migliore rispetto al paziente non operato. In generale l’intervento riparativo appare
particolarmente indicato per i pazienti giovani, con malattia degenerativa della valvola, mentre l’intervento
sostitutivo trova indicazione principalmente negli anziani, con malattia valvolare estesa e non suscettibile
di riparazione.
130 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 16
STENOSI AORTICA
Francesco Pizzuto, Francesco Romeo

DEFINIZIONE

La stenosi della valvola aortica è il restringimento dell'orifizio valvolare conseguente a processi patologici
che colpiscono i lembi, le commissure o l'anello valvolare. La valvola ristretta ostacola lo svuotamento del
ventricolo sinistro in sistole, e rende necessario che aumenti la pressione intraventricolare perché si
instauri fra il ventricolo sinistro e l’aorta un gradiente pressorio sufficiente a garantire un normale flusso
anterogrado. Come conseguenza del sovraccarico di pressione, il ventricolo sinistro va incontro ad
ipertrofia.

EZIOLOGIA

La stenosi valvolare aortica può essere congenita ed evidenziarsi già alla nascita (vedi Capitolo 51) o
acquisita; anche in quest’ultimo caso la malattia, pur manifestandosi nell’adulto o nell’anziano, dipende a
volte da un’anomalia congenita, la valvola aortica bicuspide (Figura 16.1). La bicuspidia aortica è presente
nel 2% della popolazione, e di per sé non comporta un significativo ostacolo all'efflusso ventricolare
sinistro. I lembi valvolari anomali, tuttavia, determinano una turbolenza del flusso, che nel tempo può
provocare una fibrosi valvolare, con esito in progressivo restringimento dell’ostio. Anche la normale valvola
a tre cuspidi può andare incontro a processi degenerativi, legati soprattutto all’invecchiamento ma anche a
processi degenerativi: la stenosi aortica degenerativa (o senile) è caratterizzata dalla presenza di cuspidi
rese ipomobili dal deposito di calcio lungo le commissure (Figura 16.2).
L’eziologia reumatica della stenosi aortica è relativamente rara, ed è più frequente nei casi di un vizio
combinato mitro-aortico. La stenosi aortica reumatica risulta dall’adesione e fusione delle commissure e
delle cuspidi, con retrazione e irrigidimento dei bordi liberi e presenza su entrambe le superfici delle cuspidi
di noduli calcifici che riducono l’orificio (Figura 16.3).

Figura 16.1 Cause di stenosi aortica in rapporto all’età. L’incidenza di stenosi aortica secondaria a valvola aortica bicuspide è
maggiore al di sotto dei settanta anni, mentre la stenosi aortica su base degenerativa è maggiormente presente al di sopra dei
settanta anni (modificata da Braunwald E: A text Book of Cardiovascular Disease, 1997).

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131 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 16.2 Valvola aortica stenotica, diffusamente calcifica, asportata ad un paziente ultrasettantenne. Si noti l’estrema
calcificazione dei lembi valvolari (per gentile concessione del Prof Pietro Gallo)

Figura 16.3 Stenosi valvolare aortica post-infiammatoria. Si nota l’ispessimento delle cuspidi valvolari, associato alla presenza di
noduli di Ashoff, caratteristici della malattia reumatica (per gentile concessione del Prof Pietro Gallo).

FISIOPATOLOGIA

Il progressivo restringimento valvolare rappresenta un ostacolo all’eiezione del sangue dal ventricolo
sinistro. Per vincere questa resistenza e mantenere un flusso anterogrado normale, la pressione sistolica
nel ventricolo sinistro deve sempre superare quella presente in aorta; la differenza pressoria tra ventricolo
sinistro ed aorta, definita gradiente pressorio, è proporzionale all’entità dell'ostruzione (Figura 16.4). L’area
valvolare aortica normale nell'adulto è compresa tra 1.6 e 2.6 cm2. Quando l’ostio della valvola si riduce a
meno di un quarto del normale, il gradiente supera 50 mmHg. Il sovraccarico pressorio che grava sul
ventricolo sinistro stimola, come meccanismo compensatorio, l’ipertrofia ventricolare, e induce un
aumento più o meno marcato dello spessore delle pareti e del setto interventricolare, mentre la cavità
ventricolare non si dilata. L’ipertrofia ventricolare che si realizza in seguito al sovraccarico di pressione,

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132 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

come nella stenosi aortica, è concentrica, caratterizzata dalla replicazione dei sarcomeri “in parallelo”
all’interno della fibra, per cui questa aumenta il suo spessore ma non diviene più lunga. Al contrario, il
sovraccarico di volume quale si realizza, per esempio, nell’insufficienza aortica, induce
un’ipertrofia eccentrica, poiché i nuovi sarcomeri si dispongono “in serie” e la fibrocellula si allunga anziché
ispessirsi. Nella stenosi aortica, l’ipertrofia concentrica consente al ventricolo sinistro di compiere un
maggior lavoro, e anche di mantenere a valori quasi normali lo stress di parete.
Secondo la legge di Laplace, lo stress di parete o postcarico (omega) è uguale al prodotto della pressione
endocavitaria (P) per il raggio della cavità (r), diviso per il doppio dello spessore della parete (h), secondo la
formula:

omega=Pr/2h.
Nella stenosi aortica, il ventricolo sinistro va incontro ad un aumento dello stress di parete per aumento
della pressione, mentre l’incremento dello spessore parietale riduce lo stress e quindi il postcarico. Il
meccanismo di compenso rappresentato dall’ipertrofia, però, comporta degli svantaggi perchè:

 l’aumento della massa muscolare determina un aumento del consumo miocardico di O2;
 l’incremento della pressione endocavitaria ostacola la perfusione miocardica, esercitando un’aumentata
compressione sui vasi coronarici;
 la distensibilità (compliance) del ventricolo sinistro diminuisce, alterando il rilasciamento del ventricolo
sinistro ed ostacolandone il riempimento diastolico, che diventa pertanto sempre più dipendente dal
contributo della sistole atriale.

Lo sforzo può mettere in crisi questi precari meccanismi di compenso in quanto produce:

 un aumento del consumo di O2 da parte del miocardio, non controbilanciato da una corrispondente
aumento della perfusione miocardica, con possibile comparsa di angina;
 un notevole aumento della pressione ventricolare sinistra necessaria per mantenere il flusso richiesto
dall’esercizio muscolare, con una accentuata stimolazione dei meccanocettori ventricolari (recettori
sensibili alle variazioni dello stiramento) che possono innescare a loro volta una vasodilatazione
periferica riflessa, provocando una sincope. Un aumento del postcarico, con conseguente aumento della
pressione ventricolare sinistra sotto sforzo cosicché il ventricolo sinistro, che già in condizioni di riposo
lavora a pressioni superiori alla norma, riduce la sua funzione contrattile e non riesce ad espellere il
sangue ricevuto in diastole. Si produce così un aumento della pressione in atrio sinistro, che a sua volta
determina un aumento della pressione a monte, nel circolo polmonare, con conseguente congestione
polmonare fino all’edema polmonare.

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133 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Misurazione contemporanea della pressione in ventricolo sinistro ed in aorta ascendente, ottenuta mediante
cateterismo cardiaco. La pressione massima in ventricolo sinistro è di 220 mm Hg, la pressione massima in aorta ascendente è di
138 mm Hg. Il gradiente di picco VS-AO e di 82 mm Hg, il gradiente istantaneo massimo è di 110 mm Hg.

QUADRO CLINICO

Sintomi. Il paziente con stenosi aortica è asintomatico per molti anni, nonostante la malattia si aggravi
progressivamente. Quando la valvulopatia diviene critica compaiono i sintomi: dispnea (scompenso
cardiaco),angina e sincope. Se, da quando insorgono i sintomi, la malattia decorre non trattata, il
peggioramento è progressivo e la sopravvivenza media è 2 anni nei pazienti con scompenso, 3 nei soggetti
con sincope e 5 anni in quelli con angina.
Nella maggior parte dei casi il primo sintomo è la dispnea da sforzo, seguita eventualmente da ulteriori
manifestazioni di insufficienza ventricolare sinistra (ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema
polmonare). L’angina è presente in circa 2/3 dei casi, ed è simile a quella dei pazienti con coronaropatia,
venendo scatenata dallo sforzo e scomparendo con il riposo. La sincope insorge tipicamente
durante sforzo (per la risposta inappropriata dei barocettori del ventricolo sinistro), ma può anche essere la
conseguenza di aritmie.
Segni Fisici. La palpazione della zona precordiale può evidenziare un fremito sistolico, espressione di un
flusso aortico particolarmente turbolento, dovuto a un notevole gradiente tra ventricolo sinistro ed
aorta. L’ascoltazionerivela un soffio sistolico eiettivo con epicentro al 2° spazio intercostale destro sulla
linea marginosternale (focolaio d’ascoltazione aortico) ed irradiazione verso i vasi del collo, cioè nel senso
del flusso.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi aortica, la radiografia del torace può mostrare un allargamento del margine
sinistro dell’ombra cardiaca, dovuto all'ipertrofia del ventricolo sinistro, ma anche un ingrandimento del
primo arco di destra (dilatazione dell’aorta ascendente) e una congestione degli ili polmonari (soprattutto
nelle fasi avanzate della malattia, in presenza di scompenso cardiaco). L'elettrocardiogramma rappresenta
il test diagnostico non invasivo maggiormente utilizzato per confermare la diagnosi clinica. Il segno

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134 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

elettrocardiografico principale è l’ipertrofia ventricolare sinistra, presente nell'80% circa dei pazienti con
stenosi aortica severa (Figura 16.5). L'ecocardiogrammaintegrato (M-mode, bidimensionale e Doppler)
rappresenta il test diagnostico non invasivo più utile e completo per la valutazione dei pazienti con stenosi
aortica (Figura 16.6). Permette, infatti, di quantificare l'entità del vizio aortico, determinando sia il grado di
ipertrofia del ventricolo sinistro e la sua funzione (ecocardiografia M-mode e bidimensionale) che l'entità
del gradiente transvalvolare aortico e l'area valvolare (ecocardiografia Doppler).
Il Cateterismo Cardiaco ha rappresentato per molti decenni l’accertamento diagnostico più importante per
valutare la stenosi aortica, consentendo la misurazione di tutti i parametri utili per diagnosticare e
quantizzare la valvulopatia, come il gradiente aortico, l'area valvolare e le pressioni polmonari. Tuttavia,
l'introduzione dell'ecocardiografia Doppler ha notevolmente ridotto la necessità di ricorrere allo studio
invasivo per la valutazione della stenosi aortica, limitando il cateterismo cardiaco ai casi dubbi, oppure
quando è possibile effettuare una terapia non chirurgica della valvulopatia (valvuloplastica aortica o
impianto percutaneo di una protesi valvolare).

Figura 16.5 Elettrocardiogramma di un paziente con stenosi aortica severa: ipertrofia ventricolare sinistra (onde R alte nelle
precordiali sinistre, sottolivellamento del tratto S-T in I, II, aVL, V5, V6).

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135 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 16.6 Registrazione contemporanea del velocitogramma Doppler transaortico (ottenuto con ecocardiografia transtoracica) e
delle pressioni invasive in ventricolo sinistro (225 mm Hg) ed in aorta ascendente (160 mm Hg), registrate durante cateterismo
cardiaco. Il gradiente massimo Doppler-derivato (88 mmHg) coincide con il gradiente istantaneo massimo emodinamico (90 mm
Hg), che rappresenta il momento in cui il gradiente sistolico fra il ventricolo sinistro e l'aorta è il più elevato. Il gradiente
emodinamico picco ventricolo sinistro-picco aorta è più basso perchè il picco di pressione in aorta è più tardivo rispetto al picco di
pressione in ventricolo sinistro.

CENNI DI TERAPIA

 I pazienti con stenosi aortica asintomatica non necessitano di trattamento; nei sintomatici la
terapia è chirurgica e consiste nella sostituzione della valvola aortica con protesi meccanica o
biologica (vedi Capitolo 62). La sostituzione valvolare aortica con trattamento percutaneo (tramite
cateterismo cardiaco) è ancora in fase iniziale, e benché i risultati ottenuti finora siano
incoraggianti, necessita di ulteriori conferme ed al momento attuale viene riservata soltanto a quei
pazienti che, pur necessitando della sostituzione valvolare, non possono essere sottoposti
all’intervento chirurgico.

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136 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 17
INSUFFICIENZA AORTICA
Corrado Vassanelli
DEFINIZIONE
L'insufficienza aortica è una malattia della valvola aortica, la quale diviene incontinente per anomalie dei
lembi valvolari, delle strutture di supporto (radice aortica ed annulus) o di entrambi. Si verifica, di
conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dall'aorta al ventricolo sinistro durante la diastole.

EZIOLOGIA E ANATOMIA PATOLOGICA


L'insufficienza aortica può essere provocata da anomalie congenite dei lembi (valvola aortica bicuspide,
stenosi subaortica con difetto del setto interventricolare e prolasso di una cuspide), oppure da alterazioni di
origine infiammatoria o degenerativa, fra cui quelle determinate dalla malattia reumatica (Figura 1),
dall'endocardite infettiva (Figura 2) o dalle malattie del connettivo. I lembi valvolari, inoltre, possono essere
danneggiati da traumi chiusi della parete del torace o da lesioni da getto conseguenti a stenosi subaortica
dinamica o fissa. Le patologie dell'annulus o della radice aortica comprendono la dilatazione idiopatica della
radice aortica, l'ectasia annuloaortica, la sindrome di Marfan, la sindrome di Ehlers-Danlos, l'osteogenesi
imperfetta, la dissezione aortica, l'aortite luetica, e varie malattie del connettivo, fra cui la spondilite
anchilosante. Una valvola aortica bicuspide si accompagna spesso a dilatazione della radice aortica e a
conseguente insufficienza (Tabella I). Una causa non infrequente della malattia è la degenerazione
strutturale di una bioprotesi valvolare.
L'insufficienza aortica cronica grave, di qualsiasi eziologia, può provocare dilatazione della radice aortica,
che esita in progressivo peggioramento del rigurgito valvolare. Le cause più frequenti di insufficienza
aortica acuta (più rara, ma a prognosi peggiore) sono l'endocardite infettiva, la dissezione aortica o un
trauma chiuso del torace.

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137 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

FISIOPATOLOGIA
Le conseguenza fisiopatologiche della valvulopatia variano a seconda che il rigurgito si stabilisca
improvvisamente e sia massivo (insufficienza aortica acuta) o sia inizialmente lieve e progredisca
lentamente nel tempo. Nell'insufficienza aortica acuta grave, un notevole volume ematico di rigurgito
diastolico va a sovraccaricare improvvisamente un ventricolo sinistro di normali dimensioni, che non ha
avuto il tempo per adattarsi. L' aumento del volume telediastolico fa incrementare drammaticamente la
pressione telediastolica ventricolare sinistra e la pressione atriale sinistra: poiché la camera ventricolare
non è in grado di dilatarsi in modo compensatorio, ne consegue una riduzione della gittata sistolica
anterograda. La tachicardia riflessa, che si instaura nel tentativo di mantenere una portata cardiaca
adeguata, è spesso insufficiente, ed i pazienti possono andare incontro a edema polmonare o shock
cardiogeno. L'insufficienza aortica acuta è particolarmente mal tollerata nei pazienti con ventricolo sinistro
ipertrofico piccolo e poco distensibile, come accade quando il rigurgito consegue a dissezione aortica in
pazienti ipertesi, o ad endocardite infettiva in soggetti con stenosi aortica preesistente. Questi pazienti
possono anche manifestare segni e sintomi di ischemia miocardica, poiché si riduce la pressione di
perfusione nel letto coronarico a causa del progressivo incremento della pressione telediastolica
ventricolare sinistra, che tende a eguagliare la pressione diastolica aortica e quella coronarica.
Nell'insufficienza aortica cronica grave, il sovraccarico al ventricolo sinistro è sia di volume che di pressione.
Il ventricolo sinistro aumenta di volume perché deve accogliere non solo il sangue che proviene dalle vene
polmonari, ma anche quello che refluisce dall’aorta durante la diastole. Il sovraccarico di volume è
conseguenza della quota rigurgitante, ed è direttamente correlato alla gravità del rigurgito. Nelle fasi
precoci, il ventricolo sinistro si adatta al sovraccarico di volume con una ipertrofia eccentrica, in cui i
sarcomeri si allineano in serie ed i miofilamenti si allungano: ne consegue un incremento della forza di
contrazione, in accordo alla legge di Starling. La gittata sistolica è aumentata, e con essa la pressione
sistolica. L'ipertensione sistolica può contribuire alla progressiva dilatazione della radice aortica che a sua

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138 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

volta peggiora l'insufficienza aortica. Nelle fasi più avanzate, la progressiva dilatazione del ventricolo
sinistro può produrre una grave disfunzione ventricolare, peggiorata dalla progressiva riduzione della
distensibilità del ventricolo, causata dall’ipertrofia e dalla fibrosi.

SINTOMI
I sintomi dell'insufficienza aortica dipendono dalla velocità con cui si realizza il danno valvolare, e sono tipici
dello scompenso cardiaco sinistro. Se il rigurgito aortico si instaura acutamente, non vi è tempo perché il
ventricolo sinistro possa mettere in atto i meccanismi compensatori dell'ipertrofia e della dilatazione, per
cui l’insufficienza ventricolare sinistra si manifesta rapidamente, anche con l’edema polmonare acuto.
I pazienti con insufficienza aortica cronica, invece, sono solitamente asintomatici ed hanno una buona
tolleranza allo sforzo per anni, fino a che, con il deficit del ventricolo sinistro, compaiono dispnea da sforzo,
astenia e talora ortopnea e dispnea parossistica notturna. Il paziente può anche avvertire palpitazioni a
causa della percezione dell'attività cardiaca dovuta all'ingrandimento del ventricolo. Anche in assenza di
malattia coronarica, le aumentate richieste di ossigeno da parte del ventricolo sinistro possono causare
angina pectoris, soprattutto nelle ore notturne.

SEGNI CLINICI
L'esame obiettivo nell' insufficienza aortica cronica è caratterizzato dallo stato iperdinamico della malattia.
La pressione arteriosa sistolica è aumentata, per l’incremento della gittata sistolica ventricolare sinistra,
mentre la pressione diastolica è ridotta sia per la vasodilatazione periferica, ma soprattutto per il flusso
retrogrado verso il ventricolo sinistro; la pressione differenziale, perciò, risulta notevolmente più ampia del
normale. Queste variazioni dipendono grossolanamente dall’entità della insufficienza: si ritiene che, in
assenza di scompenso cardiaco, questo vizio valvolare sia poco significativo quando la pressione diastolica
non è <70 mm Hg.
Alla palpazione, il polso è scoccante (ampio e celere), poiché da un lato la gittata sistolica è aumentata, e
dall’altro la valvola aortica insufficiente non trattiene il sangue nel letto arterioso: l'effetto è una pulsazione
che sembra schioccare bruscamente contro le dita e scomparire altrettanto rapidamente (polso a martello
pneumatico). L'impulso apicale è ipercinetico, di ampia superficie, spesso dislocato in basso ed a sinistra
rispetto al normale.
Il rigurgito diastolico del sangue attraverso la valvola aortica provoca un soffio: poiché il flusso retrogrado è
elevato quando la pressione nella radice aortica è al suo massimo, e declina quando la pressione aortica
cade, il soffio dell’insufficienza aortica è massimo in protodiastole e quindi decresce (Figura 3). Il soffio ha
timbro dolce, aspirativo, e si ascolta meglio con il paziente seduto, durante espirazione forzata; la sua
intensità è massima lungo la parte inferiore della linea margino-sternale sinistra. La durata del soffio indica
grossolanamente la gravità della malattia: nei casi lievi esso si ascolta solo quando il gradiente tra aorta e
ventricolo sinistro è elevato, cioè in protodiastole; con l’aumentare della gravità, il soffio diventa
olodiastolico. Con la comparsa dello scompenso, poi, l'incremento della pressione telediastolica
ventricolare sinistra e il rapido calo della pressione diastolica aortica riducono il gradiente di rigurgito, e il
soffio torna ad accorciarsi. Nell'insufficienza aortica acuta, il soffio diastolico può essere addirittura assente
a causa del rapido equilibrio tra le pressioni aortica e ventricolare sinistra.
Sul focolaio aortico è rilevabile quasi sempre un soffio sistolico eiettivo, dovuto all'eccessivo flusso
anterogrado, che può mimare una stenosi aortica (Figura 3B).
Il secondo tono è di solito singolo. Un tono aggiunto eiettivo aortico (click da eiezione) può essere ascoltato
soprattutto in presenza di valvola aortica bicuspide

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139 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 13 A: soffio diastolico in decrescendo dell'innsufficienza aortica. B: al soffio diastolico si associa un soffio sistolico eiettivo, che
non è necesariamente indicativo di concomitante stenosi della valvola

DIAGNOSTICA STRUMENTALE
L'ECG mostra spesso ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da onde R alte nelle derivazioni
precordiali sinistre ed S profonde nelle destre, sottoslivellamento di ST e T invertite in I , aVL e V5-V6. (vedi
Capitolo 3). La radiografia del torace mostra cardiomegalia che, associata alla dilatazione dell'aorta
ascendente e dell'arco aortico, conferisce al cuore la caratteristica configurazione “a scarpa”.
L'esame diagnostico più importante nella valutazione dell' insufficienza aortica è l'ecocardiogramma che
permette di: 1) valutare l'anatomia dei lembi valvolari e della radice aortica, 2) rilevare la presenza e
stimare la gravità del rigurgito (con il color-Doppler) (ECO 18), 3) caratterizzare la dimensione, la massa e la
funzione del ventricolo sinistro. Il cateterismo cardiaco, l'aortografia e l'angiografia coronarica sono
raramente necessari, soprattutto nei casi acuti, e dovrebbero essere eseguiti solo quando la diagnosi non
può essere fatta altrimenti o nei pazienti con coronaropatia nota o elevata probabilità di malattia
coronarica.

ECO18

CENNI DI TERAPIA
In caso di insufficienza aortica acuta, l'intervento cardiochirurgico immediato è necessario poiché il
sovraccarico improvviso di volume è potenzialmente fatale. In questi casi la correzione chirurgica è urgente
poiché la terapia medica usuale fallisce: i vasodilatatori utilizzati per incrementare il flusso anterogrado
peggiorano l'ipotensione, l'ischemia e la disfunzione ventricolare sinistra, ed i farmaci che incrementano la
pressione aumentano le resistenze periferiche e peggiorano il rigurgito.
La terapia medica non è in grado di ridurre significativamente il volume di rigurgito nell' insufficienza

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140 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

aortica cronica grave poiché l'area di rigurgito è relativamente fissa e la pressione diastolica già bassa: una
ulteriore riduzione di questa peggiorerebbe la perfusione coronarica. L'obiettivo principale della terapia
medica è quindi quello di ridurre l’ipertensione sistolica, al fine di diminuire lo stress parietale e migliorare
la funzione del ventricolo sinistro. Per questo possono essere usati farmaci vasodilatatori quali ACE-inibitori
o calcio-antagonisti diidropiridinici (vedi Capitolo 57).
Nei pazienti con insufficienza aortica isolata cronica, la sostituzione valvolare (o a volte la plastica valvolare
) è indicata solo nei casi gravi, mentre nei soggetti sintomatici ma con insufficienza aortica lieve devono
essere escluse altre cause di disfunzione ventricolare come coronaropatia, ipertensione o cardiomiopatia. I
migliori risultati chirurgici si ottengono prima che il diametro telediastolico del ventricolo sinistro superi i 55
mm e che la frazione di eiezione scenda al di sotto del 55%.
In presenza di concomitante malattia della radice aortica, alla sostituzione valvolare dovrebbe essere
associata la ricostruzione della radice e dell'aorta prossimale se il diametro dell'aorta supera i 5.0 cm.

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141 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 18
MALATTIE DELLA TRICUSPIDE E DELLA POLMONARE
Ketty Savino, Sandra D'Addario, Elisabetta Bordoni, Giuseppe Ambrosio

STENOSI TRICUSPIDALE
Definizione. La stenosi tricuspidale consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un
ostacolo al passaggio del sangue dall’atrio al ventricolo destro. Si viene, perciò, a creare un gradiente di
pressione tra atrio e ventricolo, e l’aumento della pressione atriale determina una dilatazione dell’atrio
destro.
Eziologia ed anatomia patologica. La stenosi tricuspidale riconosce varie cause ma la più frequente è
la malattiareumatica (vedi Capitolo 13), una sindrome infiammatoria acuta sistemica che coinvolge
l’endocardio valvolare. In genere la malattia tricuspidale non è isolata ma si associa ad una valvulopatia
mitralica ed aortica. Gli esiti sono la fibrosi e la retrazione delle strutture coinvolte. Il quadro anatomo-
patologico ricorda quello della stenosi mitralica con fibrosi e retrazione delle cuspidi valvolari, fusione delle
commissure e delle corde tendinee.
I tumori dell’atrio destro, se di cospicue dimensioni, possono provocare un’ostruzione al flusso trans-
valvolare e simulare una stenosi tricuspidale. In questi casi la stenosi è “funzionale”, cioè non sono presenti
alterazioni dell’anatomia valvolare. La sindrome da carcinoide (vedi oltre) può determinare una stenosi
tricuspidale anche se, in genere, è causa di insufficienza valvolare.
Fisiopatologia. La riduzione dell’area valvolare tricuspidale ostacola il riempimento ventricolare destro, che
tende ad essere mantenuto normale da un aumento della pressione atriale destra. Data l’assenza di valvole
tra vene cave e atrio, l’incremento della pressione atriale si ripercuote immediatamente sul circolo cavale,
determinando un’ipertensione venosa sistemica.
Sintomi e segni clinici. La stenosi tricuspidale è in genere ben tollerata: frequentemente i pazienti adulti
sono asintomatici e la patologia viene identificata esclusivamente in base ai reperti ascoltatori. L’esame
obiettivo evidenzia i segni dell’ipertensione venosa sistemica: edemi declivi, turgore giugulare,
epatomegalia ed ascite. L’ascoltazione cardiaca è simile a quella della stenosi mitralica, caratterizzata da
schiocco d’apertura e da rullio diastolico tricuspidale (vedi Capitolo 2). A differenza di quanto si verifica
nella stenosi mitralica, i reperti acustici si ascoltano in corrispondenza del focolaio tricuspidale (IV spazio
intercostale lungo la margino-sternale destra) e si accentuano durante l’inspirazione profonda (segno di
Rivero-Carvallo). Quest’ultima caratteristica consegue all’aumento del ritorno venoso indotto
dall’inspirazione: durante tale fase, l’incrementato passaggio di sangue attraverso la valvola induce un
aumento del gradiente trensvalvolare e quindi del rullio. Altro reperto obiettivo importante è la pulsazione
della vena giugulare, soprattutto a destra, per la presenza di un’ampia onda “a” che corrisponde alla sistole
atriale (vedi Capitolo2).
Diagnostica strumentale
ECG: All’esame elettrocardiografico l’ingrandimento atriale destro si evidenzia per la presenza di onde P
ampie e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF e V1 (vedi Capitolo 3); quando l’atriomegalia diventa severa,
insorge la fibrillazione atriale.
Rx torace: L’esame radiologico del torace evidenzia una marcata atriomegalia con prominenza del profilo
cardiaco destro (secondo arco). Diversamente da quanto si osserva nella stenosi mitralica, il tronco
polmonare è di normali dimensioni e non vi sono segni di congestione polmonare.
Ecocardiografia: L’esame bidimensionale transtoracico consente un accurato studio anatomo-funzionale
dell’apparato valvolare tricuspidale. Valuta lo spessore dei lembi, la ridotta motilità valvolare,
l’ispessimento e la retrazione delle corde tendinee e la dilatazione dell’atrio destro. L’esame color-Doppler
consente di definire la presenza e l’entità della stenosi valvolare attraverso la valutazione del gradiente
pressorio tra atrio e ventricolo destro e le variazioni del gradiente durante l’inspirazione profonda. Un
gradiente medio superiore a 5 mmHg identifica una stenosi valvolare di severa entità.

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142 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Cateterismo cardiaco: Poiché lo studio dell’emodinamica valvolare tricuspidale è fattibile con elevata
sensibilità e specificità mediante ecocardiografia, il ricorso al cateterismo cardiaco è limitato solo a pochi
casi.
Cenni di Terapia. Il trattamento del vizio valvolare è influenzato sia dall’eziologia che dalla gravità della
valvulopatia: se questa è secondaria (per esempio ad endocardite infettiva o sindrome da carcinoide) deve
essere trattata la patologia di base. Se la stenosi tricuspidale ha eziologia reumatica generalmente si associa
ad una valvulopatia mitralica, per cui l’intervento chirurgico è volto principalmente alla sostituzione
valvolare mitralica ed alla riparazione tricuspidale (vedi Capitolo 63). Nei casi in cui la valvola tricuspide sia
particolarmente compromessa e le corde tendinee retratte è possibile dover ricorrere alla sostituzione
tricuspidale.

INSUFFICIENZA TRICUSPIDALE
Definizione. L’insufficienza tricuspidale è caratterizzata dalla incapacità dei lembi valvolari a collabire fra
loro, per occludere completamente l’ostio valvolare quando il ventricolo si contrae. Si verifica, di
conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dal ventricolo all’atrio destro durante la sistole.
Eziologia e anatomia patologica. L’insufficienza tricuspidale è, al contrario della stenosi, una patologia
frequente, determinata da numerose cause: la più frequente è
la dilatazione del ventricolo destro e dell’anello tricuspidale. Questo tipo di valvulopatia è “funzionale”,
poiché i lembi valvolari sono morfologicamente integri, e si instaura anche per lievi dilatazioni, dal
momento che l’area di coaptazione dei lembi tricuspidali è molto più limitata di quella che si osserva per la
valvola mitrale. Queste forme sono più spesso la conseguenza di ipertensione polmonare primitiva o
valvulopatie mitro-aortiche, cuore polmonare ed infarto ventricolare destro.
La causa più frequente di insufficienza tricuspidale organica è l’endocardite, che può essere infettiva o non
infettiva.L’endocardite infettiva del cuore destro si riscontra principalmente nei tossico-dipendenti, nei
portatori di shunt sinistro-destro (es. fistole, dialisi) e, molto più raramente, nei pazienti sottoposti a
cateterismo cardiaco (vedi Capitolo34). Gli agenti microbici principali sono gli stafilococchi, i gonococchi, i
funghi. È patognomonica la presenza di vegetazioni di consistenza friabile, composte da microorganismi e
detriti trombotici. Le lesioni possono complicarsi con perforazioni ed erosioni dei lembi valvolari o ascessi
anulari.
L’endocardite non infettiva si può riscontrare in corso di Lupus Eritematoso Sistemico (endocardite di
Libman-Sachs) ed è di tipo trombotico-abatterico. Essa è caratterizzata dalla deposizione di piccole
masserelle sterili, costituite da fibrina e da altri elementi del sangue, su lembi valvolari in genere indenni.
Altra causa di insufficienza tricuspidale è rappresentata dalla sindrome da carcinoide: questa condizione è
secondaria alla produzione di sostanze serotoninergiche da parte di tumori carcinoidi che favoriscono la
comparsa di ispessimenti localizzati di endocardio murale e valvolare (placche carcinoidi), con conseguente
alterazione della morfologia valvolare.
Quadri anatomo-patologici simili alla sindrome da carcinoide associati ad insufficienza tricuspidale possono
essere indotti da assunzione di una grande varietà di farmaci e tossici che fungono da agonisti
serotoninergici, condividendo quindi con la sindrome da carcinoide non solo il quadro anatomo-patologico
ma anche il meccanismo eziopatogenetico. Tra queste sostanze annoveriamo derivati dall’amfetamina quali
farmaci anoressizzanti (fenfluoramina e fentermina), ormai ritenuti pericolosi e quindi non più in uso,
agenti tossici (ecstasy e metilendiossimetamfetamina o MDMA), ma anche farmaci dopaminergici
comunemente utilizzati per il trattamento del morbo di Parkinson (pergolide e cabergolina) e dell’emicrania
(metisergide ed ergotamina). Fungendo da agonisti della serotonina e stimolando in particolare i recettori
5HT 2b, queste sostanze, attraverso l’attivazione di protein-chinasi, indurrebbero un’inappropriata
stimolazione mitogenica a livello valvolare (“overgrowth valvulopathy”) che esiterebbe nella formazione di
placche morfologicamente indistinguibili da quelle che caratterizzano la sindrome da carcinoide.
Cause più rare di insufficienza tricuspidale con alterazioni anatomiche valvolari sono i traumi toracici e

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i tumoricardiaci; vi sono anche forme iatrogene secondarie ad impianto di pacemaker o defibrillatore


cardiaco.
Infine, il prolasso valvolare tricuspidale e la disfunzione dei muscoli papillari del ventricolo destro possono
indurre insufficienza tricuspidale con le stesse modificazioni anatomiche e meccanismi eziopatogenetici
riconosciuti per la valvola mitrale ed il ventricolo sinistro.
Fisiopatologia. Il rigurgito di sangue in atrio destro durante la sistole ventricolare provoca aumento della
pressione atriale e dilatazione dell’atrio. Come nella stenosi tricuspidale, l’ipertensione atriale destra si
ripercuote immediatamente a monte, nel circolo cavale, instaurando una congestione venosa sistemica fino
a determinare, nelle forme severe, un’inversione del flusso venoso.
Sintomi e segni clinici. Le insufficienze valvolari del cuore destro sono in genere ben tollerate fino ad una
fase avanzata, e diventano clinicamente manifeste solo in presenza di ridotta portata cardiaca o di
ipertensione polmonare. Il quadro clinico è caratterizzato dai segni di congestione sistemica quali astenia,
facile affaticabilità, calo ponderale; si associano inoltre i sintomi e i segni di stasi venosa del sistema portale
quali senso di peso addominale, nausea, vomito, ascite ed epatomegalia dolente e, in caso di scompenso
ventricolare destro, da tutti i segni e sintomi ad esso correlati. Nell’insufficienza tricuspidale si apprezza alla
palpazione il margine debordante del fegato, con pulsazione epatica. Il polso venoso giugulare presenta
un’ampia onda “a” sistolica. La pulsazione (analogo dell’onda v al flebogramma) dipende dal rigurgito
sistolico in atrio destro che inverte il flusso nella vene cave. All’ascoltazione, sulla margino-sternale destra
lungo il IV spazio intercostale, si rileva un soffio olosistolico dolce, ad alta frequenza, che si accentua con
l’inspirazione per aumento del ritorno venoso (segno di Rivero-Carvallo). Spesso sono udibili un terzo tono
destro e, se è presente ipertensione polmonare, un’accentuazione della componente polmonare del
secondo tono.
Diagnosi strumentale
ECG: Non sono presenti peculiarità del tracciato elettrocardiografico, ma è possibile a volte rilevare segni di
ingrandimento atriale destro, ipertrofia ventricolare destra o blocco di branca destra. Spesso è presente
fibrillazione atriale.
Rx torace: L’esame radiologico del torace mostra una cardiomegalia con accentuazione del secondo arco
destro del cuore (da dilatazione atriale destra).
Ecocardiografia: L’indagine bidimensionale consente uno studio accurato della morfologia della tricuspide,
evidenzia la dilatazione dell’atrio e del ventricolo di destra, valuta la contrattilità del ventricolo destro e
l’eventuale movimento paradosso del setto interventricolare, espressione del sovraccarico di volume del
ventricolo destro. Segni di ridotta funzione ventricolare sono rappresentati da una riduzione dell’escursione
dell’anello tricuspidale (TAPSE), della frazione di eiezione ventricolare destra, e dalla riduzione
dell’ampiezza dell’onda sistolica (S’) dell’anello tricuspidale al Tissue Doppler Imaging (Vedi Capitolo 4). Il
color-Doppler permette di effettuare la stima dell’entità del rigurgito tricuspidale (ECO 24) e di valutare la
pressione in arteria polmonare, (Figura 1).
Cateterismo cardiaco: Attualmente lo studio dell’emodinamica valvolare tricuspidale è fattibile con elevate
sensibilità e specificità mediante ecocardiografia, per cui il ricorso al cateterismo cardiaco è limitato solo a
quei pochi casi in cui l’indagine ultrasonografica non risulta di qualità tecnica sufficiente.
Cenni di Terapia. Per l’insufficienza tricuspidale non è frequente il ricorso al trattamento chirurgico.
Tuttavia, se il vizio valvolare è importante è possibile ricorrere alla valvuloplastica tricuspidale nei casi di
insufficienza tricuspidale funzionale, mentre gravi alterazioni dell’anatomia tricuspidale necessitano di
sostituzione della valvola.

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144 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Esame ecocardiografico color CW della tricuspide. In alto esame 2D color, in basso analisi spettrale dell'insufficienza
tricuspidale.

STENOSI POLMONARE

Definizione. La stenosi polmonare consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un
ostacolo al passaggio del sangue dal ventricolo destro all’arteria polmonare.
Eziologia e anatomia patologica. La stenosi polmonare è quasi esclusivamente una malattia congenita
(Patologia57) e solo eccezionalmente può riconoscere come causa la malattia reumatica o la sindrome da
carcinoide. A volte può essere un reperto isolato ma, più spesso, fa parte di cardiopatie congenite
complesse quali la tetralogia di Fallot (vedi Capitolo 52). I lembi valvolari sono fibrotici, ispessiti ed a
superficie liscia e regolare.
Fisiopatologia. Il restringimento dell’orifizio valvolare polmonare determina un gradiente ventricolo-
arterioso; l’incremento dei valori pressori in ventricolo destro induce ipertrofia ventricolare. Con l’andar del
tempo, l’aumento della pressione ventricolare si ripercuote per via retrograda a livello atriale ed al circolo
cavale, determinando infine un ostacolo al ritorno venoso sistemico.
Sintomi e segni clinici. La stenosi isolata della polmonare è una valvulopatia ben tollerata e asintomatica o
paucisintomatica. La diagnosi viene sospettata dalla presenza di un soffio sistolico da eiezione in area
polmonare.
Diagnosi strumentale.
ECG: Il tracciato elettrocardiografico presenta di solito un quadro di ipertrofia del ventricolo destro, e
spesso anche di ingrandimento dell’atrio destro (ECG 04).
Ecocardiografia: L’ecocardiografia è la tecnica diagnostica più utilizzata per la diagnosi di stenosi
polmonare. All’esame bidimensionale è possibile rilevare la presenza di un anello polmonare di dimensioni
minori di quello aortico, i lembi valvolari sono ispessiti ed ipomobili con movimento di apertura a “cupola”
(doming). Se la stenosi è severa si riscontra dilatazione post-stenotica dell’arteria polmonare ed ipertrofia
del tratto di efflusso ventricolare destro. Al color-Doppler è possibile determinare il gradiente ventricolo-
arterioso e graduare la severità della valvulopatia.
Cenni di Terapia. La valvuloplastica polmonare con palloncino (vedi Capitolo 52) è la tecnica più utilizzata
per la correzione di questa valvulopatia (Figura 13/52). Il ricorso all’intervento chirurgico è giustificato solo

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145 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

se la stenosi polmonare è severa o quando fa parte di una cardiopatia congenita complessa (es. tetralogia
di Fallot).

4 - Ingrandimento atriale destro. Ipertrofia ventricolare destra.


La diagnosi d’ingrandimento dell’atrio destro è suggerita dalle onde P alte (0,35 mV in II) e appuntite nelle derivazioni inferiori.
L’ipertrofia ventricolare destra viene dimostrata dalla deviazione assiale destra, e dall’nda R alta in V1.

INSUFFICIENZA POLMONARE

Definizione
L’insufficienza polmonare è caratterizzata dalla incapacità delle cuspidi valvolari a collabire
sufficientemente durante la diastole, per cui si verifica un rigurgito di sangue dall’arteria polmonare al
ventricolo destro.
Eziologia e anatomia patologica
L’insufficienza polmonare è, di solito, secondaria a dilatazione dell’anello polmonare provocata
dall’ipertensione polmonare; solo eccezionalmente viene indotta da endocardite infettiva o malattia da
carcinoide. Nella forma secondaria a dilatazione dell’anello la morfologia della valvola è normale.
Fisiopatologia
Nell’insufficienza polmonare il rigurgito di sangue provoca sovraccarico di volume e dilatazione del
ventricolo destro, che va incontro ad ipertrofia eccentrica. Il vizio valvolare può essere ben tollerato anche
per molti anni.
Segni clinici
Il rigurgito provoca un soffio diastolico che inizia subito dopo la componente polmonare del II tono e
termina, abitualmente, in mesodiastole. Il soffio è ad alta tonalità, di timbro alitante e in decrescendo, si
percepisce meglio nella regione parasternale, tra il II ed il IV spazio intercostale, e aumenta di intensità
durante l’inspirazione. In caso di coesistenza di ipertensione polmonare, associata ad insufficienza
tricuspidale e/o polmonare, è possibile apprezzare altri segni quali un rinforzo della componente
polmonare del II tono, un tono di eiezione polmonare e un soffio sistolico di accompagnamento. Quando il
ventricolo destro si dilata è possibile palpare un itto iperdinamico.
Diagnosi strumentale
ECG: In genere l’ECG risulta normale ma, se l’insufficienza è significativa, sono presenti i segni del
sovraccarico di volume del ventricolo destro fino al blocco di branca destro.
Ecocardiogramma: La tecnica bidimensionale consente di visualizzare la dilatazione del ventricolo destro e
la vivacità della cinesi ventricolare destra. Il color-Doppler consente di visualizzare il rigurgito polmonare e
graduare l’entità dell’insufficienza.
Terapia
In genere l’insufficienza polmonare è una valvulopatia ben tollerata e non è necessario ricorrere a
correzione chirurgica.

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146 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 19
FISIOPATOLOGIA DELLO SCOMPENSO CARDIACO
Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali

DEFINIZIONE
Lo scompenso cardiaco è una condizione avanzata lenta e progressiva che rappresenta l'end point di gran
parte delle malattie cardiovascolari non curate. La definizione fisiopatologica di scompenso cardiaco è
"sindrome in cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle richieste dei
tessuti" oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di riempimento
ventricolari.

EPIDEMIOLOGIA
A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte
delle malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza
di scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da
scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe
portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da
scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è
spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i
soggetti di età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a
morire in un tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un
solo anno per il 50% dei pazienti con scompenso severo.

CAUSE
Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione
cardiaca. Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da
valvulopatie, malattie del pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente
l’anemia, la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi
possono peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco.
Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato
da una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante
ipertensione arteriosa, ne è la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più
frequente l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una
storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica.
Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la
cardiomiopatia dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco.

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147 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’ALTERATA FUNZIONE MIOCARDICA


Determinanti della funzione cardiaca. I principali determinanti della funzione cardiaca sono la frequenza
cardiaca, il precarico, il postcarico e la contrattilità.
Il precarico è il carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’iniizio della contrazione (telediastole). Viene
misurato dal volume o, meglio, dallo stress telediastolico. L’aumento del precarico causa un aumento della
forza di contrazione miocardica (legge di Starling) per migliore sovrapposizione tra actina e miosina
(Quando il ventricolo lavora in condizioni di riposo, cioè riceve un ritorno venoso intorno ai 5 L/minuto, la
lunghezza dei sarcomeri è di 1,6 micron. Se aumenta il ritorno venoso aumenta anche l’allungamento delle
cellule e di conseguenza i sarcomeri si avvicinano alla lunghezza ottimale: alla quale si ha la massima
capacità contrattile, e pari a 2.3 micron). Il cuore insufficiente è generalmente dilatato a tal punto da avere
un esaurimento della riserva di precarico così che le variazioni di quest’ultimo non comportano più
variazioni della gittata cardiaca.
Il postcarico è il carico a cui è sottoposto il cuore durante la contrazione. Viene misurato dallo stress
sistolico, ed è correlato all’impedenza aortica ed alle resistenze periferiche. Lo stress sistolico è
direttamente proporzionale al raggio ed alla Pressione ed inversamente proporzionale allo spessore
parietale (legge di Laplace). L’aumento della pressione arteriosa comporta quindi un aumento del
postcarico. Il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal postcarico.
La contrattilità è la capacità del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle condizioni di carico. Il
deficit di contrattilità miocardica è l’alterazione fondamentale dello scompenso. Spesso questa non
comporta alterazioni della portata cardiaca e delle pressioni di riempimento ventricolari a riposo, grazie ai
meccanismi di compenso di cui sopra. Sotto sforzo, tuttavia, il cuore insufficiente presenterà sempre una
ridotta capacità di far fronte alle aumentate richieste dei tessuti periferici con insufficiente incremento
della contrattilità e della portata cardiaca ed aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari.
Vengono qui di seguito riassunti i principali meccanismi responsabili del deficit di contrattilità.
Ipertrofia Miocardica
L’ipertrofia miocardica si verifica in risposta ad un aumento dello stress parietale. Questo può essere
dovuto sia a sovraccarico pressorio (per esempio, ipertensione, stenosi aortica) che di volume (per
esempio, rigurgito mitralico oppure aortico).
L’ipertrofia comporta modificazioni di tutte le componenti del miocardio che ne favoriscono, a loro volta, la
degenerazione con dilatazione ed ipocinesia ventricolare. A livello dei miociti, si verifica un aumento del
numero dei sarcomeri, che avviene in parallelo, con ispessimento delle fibre miocardiche, nel caso di un
sovraccarico pressorio (ipertrofia concentrica) o in serie, con loro allungamento (ipertrofia eccentrica), nel
sovraccarico volumetrico. In ogni caso, il volume delle fibre miocardiche aumenta in misura maggiore
rispetto al numero dei capillari, e all’interno di ciascuna cellula il numero dei sarcomeri aumenta in misura
maggiore rispetto ai mitocondri, così che il miocita viene a trovarsi in una condizione di relativa carenza di
ossigeno e di energia.
L’ipertrofia comporta, inoltre, un’accelerazione dei processi di morte cellulare (apoptosi) ed alterazioni
qualitative, con aumento della sintesi di proteine di tipo fetale che contribuiscono alla genesi della
disfunzione cardiaca. La fibrosi miocardica viene a compromettere ulteriormente l’apporto di ossigeno e
substrati alle cellule miocardiche e la capacità delle arteriole coronariche a dilatarsi.
Accelerata morte cellulare
Può verificarsi con i meccanismi sia della necrosi che dell’apoptosi. La necrosi si realizza nei pazienti affetti
da cardiopatia ischemica sia sotto forma di infarto clinicamente evidente che di microinfarti. E’ infatti
possibile rilevare un aumento della troponina plasmatica in pazienti con scompenso cardiaco ma senza
sindrome coronarica acuta. Questa evenienza può verificarsi anche in pazienti senza coronaropatia, a causa
del relativo deficit di apporto di ossigeno ai miociti favorito dall’ipertrofia, aumento dello stress miocardico
e della pressione telediastolica ventricolare.

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148 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in cui l’attivazione di
uno specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi con esito in degradazione del DNA
cellulare. Questo processo, normalmente presente solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è
attivato in corso di scompenso cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità.
Alterato rapporto fra le isoforme della miosina
Esistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin heavy chain). Una
rapida, ad elevata attività ATPasica, ed una lenta, a bassa attività ATPasica, prevalente nella vita fetale. Nel
cuore insufficiente si verifica la riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale. Queste
alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono antagonizzate, nella
maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante.
Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico
Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e di substrati alla cellula miocardica
ed a compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad alto contenuto energetico. Vi è anche
un’importante compromissione dell’immagazzinamento di energia sotto forma di creatin-fosfato (CP). Il
rapporto CP/ATP è un indice della disponbilità di energia a livello miocardico e la sua riduzione in corso di
scompenso, valutabile mediante risonanza magnetica nucleare e spettroscopia, predice un’elevata
mortalità nei pazienti.
Alterato metabolismo del calcio
Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente del reticolo
sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio durante la diastole. Viene quindi
compromesso il rilasciamento miocardico in diastole e si riscontra un ridotto accumulo di calcio all’interno
del reticolo sarcoplasmatico. Ciò determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole
successiva, con conseguente riduzione della contrattilità.
Fibrosi interstiziale
A carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a livello sia della
componente cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti vanno incontro ad iperplasia, con un
aumento di sintesi di collagene sproporzionato rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si
verificano anche modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene tipo I,
più rigido, con maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento delle fibre miocardiche le
une sulle altre, disorganizzazione della normale architettura del ventricolo sinistro, che assume una
conformazione sferica. Questa comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile.

ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE
Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti i sistemi simpato-adrenergico e renina-
angiotensina-aldosterone determinando vasocostrizione periferica, ritenzione idro-salina ed ipertrofia e/o
iperplasia cellulare. Questi meccanismi favoriscono la progressione dello scompenso cardiaco.

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149 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Attivazione simpato-adrenergica--> Beta-bloccanti


L'incremento dell'attività simpatica non interessa in modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica
soprattutto a livello renale e cardiaco. L'attivazione simpatoadrenergica è un fenomeno precoce
nell'evoluzione dello scompenso, ed è già presente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra
asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino interessa globalmente tutto il sistema neurovegetativo, poiché
all'aumento dell'attività simpatica è associata la riduzione di quella parasimpatica.
Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere effetti dannosi sulla
cellula miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del numero dei beta1 recettori miocardici, ciò
causa una ridotta risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al ridotto
incremento della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti.
La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando apoptosi ed alterazioni
dell’espressione genica nei cardiomiociti. Essa può favorire l’ischemia e la necrosi miocardica attraverso
l’aumento della frequenza e della contrattilità, condizioni entrambe in grado di incrementare il consumo di
ossigeno.
Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione periferica, sia diretta che
indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina, con conseguente aumento del postcarico e
riduzione della gittata sistolica; 2) l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3)
l’attivazione del sistema renina-angiotensina.

Sistema renina angiotensina aldosterone Ace-inibitori e anti-aldoteronici


L'angiotensina II causa vasocostrizione periferica, con aumento del postcarico e calo della gittata sistolica.
In secondo luogo, stimola la secrezione di aldosterone causando ritenzione idro-salina e quindi aumento
del precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente alla norepinefrina, anche
l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi).
L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare ritenzione idro-salina ed
ipokaliemia, provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica, aumento della stimolazione simpatica cardiaca e
disfunzione endoteliale. Tutti questi effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono
conto degli effetti favorevoli dei farmaci antialdosteronici sulla prognosi.

Vasopressina
La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1 determina
vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2
provoca ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale.

Fattori natriuretici
In corso di scompenso cardiaco l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni
attivi nella vita fetale con conseguente produzione di ANP e BNP. L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti
sia a livello atriale che ventricolare: la concentrazione di ANP è maggiore a livello atriale mentre quella di
BNP è maggiore a livello ventricolare. I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono
l’attivazione simpatica e la secrezione di renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro
secrezione si verifica precocemente nello scompenso cardiaco. È quindi probabile che i fattori natriuretici
abbiano un ruolo importante nel mantenere un normale equilibrio idro-salino. Nelle fasi inziali dello
scompenso cardiaco, essi riuscirebbero a controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi
simpatoadrenergico e renina-angiotensina-aldosterone.

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150 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Ossido nitrico
L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della
vasodilatazione NO-dipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo
scompenso cardiaco.

Endotelina
Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente più
importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività
vasocostrittrice, le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia
miocardica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce.
Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle loro
concentrazioni.

Stress ossidativo
Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a livello
vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità
di dilatazione vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e
l’apoptosi.

Citochine
I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con
scompenso cardiaco, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con la prognosi. Gli effetti
negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e comprendono un’attività
inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei cardiomiociti, la cachessia e
l’ipotrofia della muscolatura scheletrica.
151 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

RITENZIONE IDRO SALINA E AUMENTO DEL PRE CARICO


La ritenzione idro-salina è dovuta, nello scompenso cardiaco, alle modificazioni dell'emodinamica renale e
all’attivazione neuro-ormonale.

Flusso ematico renale e filtrazione glomerulare


Nello scompenso cardiaco, l’attivazione simpatica determina una redistribuzione della portata cardiaca
con riduzione del flusso ematico renale così da consentire una adeguata perfusione cerebrale. La bassa
perfusione renale viene interpretata dal rene come un abbassamento dei livelli di liquidi circolanti. Viene
dunque attivato il sistema renina-angiotensina-aldosterone, cui segue un maggior riassorbimento di sodio
cui consegue, per osmosi, anche un maggior riassorbimento idrico. Il riassorbimento di acqua può
verificarsi in misura maggiore del riassorbimento di sodio con conseguente iposodiemia da diluizione. Con
la ritenzione idro-salina l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in condizioni in cui la
portata cardiaca e la pressione di perfusione tessutale tendono a calare per effetto della ridotta
contrattilità miocardica. Queste modificazioni sono, tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso
cardiaco e rappresentano la principale causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre
che delle ospedalizzazioni per peggioramento dello scompenso.

Aumento del precarico


La ritenzione idro-salina è alla base della formazione di edema e comporta, a livello cardiaco, un aumento
del precarico. L’aumento di precarico può inizialmente comportare una maggior gittata sistolica attraverso
il meccanismo di Frank-Starling. Tuttavia, il cuore insufficiente esaurisce ben presto la propria riserva di
contrattile. L’aumento del volume ventricolare continua, invece, a determinare un aumento dello stress
parietale miocardico e quindi, per la legge di Laplace, anche del postcarico e del consumo miocardico di
ossigeno.

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152 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

VASOCOSTRIZIONE PERIFERICA E AUMENTO DEL POST CARICO


Nello scompenso cardiaco, l’aumento delle resistenze vascolari periferiche è dovuto all’attivazione dei
meccanismi neuroumorali ad azione vasocostrittrice ed alle alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina,
etc). Questi fenomeni determinano vasocostrizione arteriolare e riduzione del diametro e della compliance
delle grosse e medie arterie.
Il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal post-carico, così che anche minime variazioni dello
stesso comportano un’importante riduzione della gittata sistolica. Questo motivo ha guidato l’introduzione
della terapia vasodilatatrice nello scompenso cardiaco.

RIDUZIONE DELLA TOLLERANZA ALLO SFORZO


La ridotta tolleranza allo sforzo è uno dei sintomi fondamentali del paziente con scompenso cardiaco.

Flusso ematico muscolare scheletrico


La riduzione della portata cardiaca e della vasodilatazione muscolare fanno sì che il muscolo si venga a
trovare, sotto sforzo, in una condizione di relativa ipoperfusione responsabile, a sua volta, di più precoce
comparsa di metabolismo anaerobio e di riduzione della tolleranza allo sforzo.
A questa ridotta capacità di dilatazione dei vasi della muscolatura scheletrica contribuiscono sia
l'attivazione neuroumorale che alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, citochine).
Caratteristiche biochimiche e funzionali della muscolatura scheletrica
Il 25-40% dei pazienti con scompenso cardiaco può presentare una riduzione della capacità funzionale, con
precoce comparsa di metabolismo muscolare anaerobio nonostante un normale incremento del flusso
ematico durante sforzo.
In corso di scompenso cardiaco, i muscoli scheletrici vanno incontro a modificazioni morfologiche
(ipotrofia, fibrosi interstiziale, depositi lipidici, riduzione della densità dei capillari) e biochimiche (riduzione
degli enzimi responsabili del metabolismo aerobio, con normale o aumentata attività degli enzimi della
glicolisi anaerobia).
Diffusione alveolo-capillare
Nello scompenso cardiaco, una riduzione della capacità di diffusione alveolo-capillare può determinare
incremento dello spazio morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e capacità vitale (Vd/
Vt).
Risposta ventilatoria allo sforzo
I pazienti con scompenso cardiaco presentano, durante sforzo, un respiro più rapido e più superficiale, con
maggiore incremento della ventilazione (VE), a parità di carico lavorativo, rispetto ai soggetti normali.

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154 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 20
QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO ACUTO
Francesco Fedele

DEFINIZIONE

L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è incapace di pompare sangue in quantità adeguata
alle esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle
pressioni di riempimento (vedi Capitolo 19).
L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a
disfunzione cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad
anomalie del ritmo o ad un “mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una
minaccia per la vita e necessita di un trattamento di emergenza.
L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza
disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca
cronica. Perciò, l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con
un’insufficienza cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso
infarto del miocardio o un improvviso aumento della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo
sinistro deficitario; 2) pazienti con peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica;
3) pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e vanno rapidamente
incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla
terapia medica e necessità di trattamenti non farmacologici. Lo scompenso cardiaco NON è sinonimo di
scompenso cardiocircolatorio, sindrome in cui pur il cuore funzionando bene (anzi inizialmente lavora di
più), non riesce a soddisfare le esigenze dell'organismo, come ad esempio negli Shunt o nelle anemie.

EPIDEMIOLOGIA

L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più
comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%).
I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è particolarmente
elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad insufficienza cardiaca grave. Circa la
metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza cardiaca acuta vengono nuovamente ricoverati almeno
una volta entro un anno. In questi soggetti ogni evento acuto contribuisce alla progressiva disfunzione
ventricolare sx, per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di cardioprotezione.
155 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

QUADRI CLINICI

I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1) alla diminuzione della
portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale;
2) all’aumento delle pressioni di riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione
sistemica e polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri clinici,
correlati anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla rapidità di insorgenza e alla gravità
(Figura 2).

LA DISPNEA
Consiste in una sensazione di sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria. È la
conseguenza della congestione polmonare, dovuta alle aumentate pressioni intracavitarie nelle sezioni
sinistre del cuore, che provoca aumento del contenuto idrico extravascolare polmonare, riducendo la
distensibilità polmonare e aumentando il lavoro dei muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta
la dispnea assume spesso le caratteristiche di ortopnea e dispnea parossistica notturna.
L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea
o ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la
congestione polmonare. La dispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali,
durante le quali il paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto a sedersi sul letto
con i piedi penzoloni o a portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In alcuni casi compare tosse stizzosa e
respiro sibilante dovuto a broncostenosi (asma cardiaco).

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156 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’EDEMA POLMONARE
L’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene provocato dall’accumulo
di liquido nello spazio extravascolare polmonare. Quando la pressione all’interno dei capillari polmonari
aumenta al di sopra dei 25 mmHg, si realizza dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido
nell’interstizio (edema interstiziale); il sistema linfatico si adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma
quando la sua capacità di drenaggio viene superata il liquido invade gli alveoli (edema alveolare),
compromettendo la funzione polmonare, sia da un punto di vista meccanico che degli scambi gassosi.
La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore
peggioramento della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare
polmonare. La riduzione della portata cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la
vasocostrizione cutanea, muscolare e splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e
cardiaca, ma d’altro canto induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento
delle Resistenze vascolari periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un cuore già
insufficiente, e peggiora la performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si
innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per
mantenere una normale perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno(vedi
Capitolo 22).
Il paziente affetto da edema polmonare acuto sta seduto sul letto, fortemente agitato, madido di sudore,
dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e sudata, e può essere
presente cianosi alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari rantoli crepitanti, che
con l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto l’ambito polmonare,
accompagnati da escreato schiumoso ed eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento
tempestivo, l’edema polmonare tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure
evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e l’arresto di circolo, con esito fatale.
L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato
cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni.
La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione
arteriolare. Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori pressori sistemici si riducono, sino a
raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si
può valutare osservando il grado di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a
45°).
La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo
compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi.
I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore)
unitamente all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente
ridotta, si può arrivare fino all’anuria (< 100 ml nelle 24 ore).
L’edema periferico è presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica; esso è
dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina.
L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La
frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso
presente un ritmo di galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi
Capitolo 2). Può essere presente un soffio olosistolico alla punta da insufficienza mitralica acuta. All’esame
del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei capillari polmonari provoca trasudazione di
liquido nel tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare rumori umidi (rantoli crepitanti) . Il reperto
obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali, diffondendosi progressivamente ai campi
superiori in seguito all’aggravarsi della condizione clinica ed in assenza di adeguato trattamento.
157 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è stata formulata
la classificazione di Killip, che suddivide i pazienti in quattro classi in base alla presenza di segni di
congestione polmonare e periferica, segni di bassa portata, e segni di aumentato volume telediastolico
ventricolare. La classe I è caratterizzata dall’assenza di segni clinici di insufficienza cardiaca. I criteri
diagnostici per la II classe includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore dei campi polmonari, terzo
tono e ipertensione venosa polmonare. La classe III include pazienti con insufficienza cardiaca severa
(rantoli estesi a tutti i campi polmonari o edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in
shock cardiogeno, con pressione arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e
cianosi. Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul reperto
ascoltatorio toracico (il paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda che presenti rantoli o no),
distingue quattro gruppi di crescente gravità clinica: il gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il
gruppo B pazienti “caldi e umidi”, il gruppo L pazienti “freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e
umidi” (Figura 3).

Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la
fase terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata
cardiaca scende al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi
Capitolo 22)

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta, bisognerà ricercare gli
indici di necrosi miocardica. Può essere, inoltre, dosato il peptide natriuretico di tipo B (Brain Natriuretic
Peptide-BNP, vedi Capitolo 14), che viene rilasciato dai ventricoli in risposta allo stiramento delle pareti e
al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per escludere o identificare la presenza di scompenso
cardiaco congestizio.
Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo stato metabolico del
paziente.
158 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia cardiaca, ma soprattutto
sulla distribuzione del flusso polmonare.
L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni dipendenti dalla
cardiopatia di base.
L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta è l’ecocardiogramma,
che valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli spessori parietali, la cinesi globale e
segmentale, la frazione di eiezione e la contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli
apparati valvolari e di altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava
inferiore. Inoltre si può esaminare la funzione diastolica, impiegando la registrazione con il Doppler pulsato
del flusso transmitralico (Figura 4).

PRINCIPI DI TERAPIA

Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca acuta sono migliorare i
sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e proteggendo il tessuto miocardico. La terapia
dell’ insufficienza cardiaca acuta si prefigge, quindi, di ridurre la congestione, ridurre il postcarico,
migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5).

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159 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò riducono la massa liquida
circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida,
(furosemide e torasemide), spesso in associazione con i risparmiatori di potassio.
Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che ridistribuendo il volume ematico
aumentano la capacità del distretto venoso, e sequestrano in questa sede parte della massa circolante,
riducendo il riempimento cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il
nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso.
Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una minor ritenzione di
acqua e sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati nello scompenso acuto. Al contrario, i
farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono
essere di grande aiuto nella fase acuta.
Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui recettori beta-
adrenergici, migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina, precursore naturale della noradrenalina,
è utile nel trattamento degli stati ipotensivi; a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e
mesenterici, per stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di
sodio. A dosaggi più elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando una modesta
tachicardia riflessa, mentre a dosaggi elevati stimola anche i recettori a-adrenergici, innalzando i valori
tensivi sistemici. La dobutamina agendo sui recettori ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo,
abbassa le resistenze periferiche e determina un aumento di gittata cardiaca.
I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle fibre miocardiche,
con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò,
riducono la frequenza cardiaca e rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del
tono vagale), per cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di
fibrillazione atriale.
Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come il levosimendan, che agisce
tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame
con la troponina C, determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo
miocardio di ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti, provocando una
vasodilatazione periferica.
160 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 21
QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO
Batman, Mazzinga, Godzilla

QUADRI CLINICI

Bisogna distinguere lo scompenso cardiaco acuto da quello cronico. Lo scompenso cardiaco cronico, si
sottoclassifica in scompenso anterogrado e retrogrado, sinistro e destro, sistolico e diastolico.
Secondo la teoria anterograda dello scompenso, sintomi e segni nascono da un'inadeguata portata
cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda, la causa
dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli, che causa un aumento della
pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi venosi tributari ed,
infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa trasudazione di liquido ed edema
interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema alveolare.
La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della precedente teoria
retrograda. Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da accumulo di fluidi a monte del ventricolo
sinistro con congestione ed edema polmonare. Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa
sistemica ed epatica.
La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata sul riscontro o meno
di bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche
nei pazienti con frazione d’eiezione normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica
ventricolare sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti anche
nei pazienti con bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce usare il termine
di scompenso cardiaco con normale frazione d’eiezione piuttosto che quello di scompenso diastolico. I
pazienti con normale frazione d’eiezione possono corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per
scompenso cardiaco e la loro prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei
pazienti con bassa frazione d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più spesso anziani,
di sesso femminile ed affetti da ipertensione arteriosa.

SINTOMI

Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco.
Nelle fase iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta
anche a riposo con le caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema
polmonare acuto.
La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente
avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso
cardiaco vi è una riduzione del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità
dello scompenso cardiaco, tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la
classificazione della New York Heart Associaton (Tabella I).

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161 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La dispnea del paziente con scompenso cardiaco è causata dall’aumento delle pressioni capillari polmonari
con edema interstiziale ed alveolare. Meccanismi che contribuiscono a causare dispnea nei pazienti con
scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione
dei muscoli scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed ipoperfusione dei muscoli respiratori, ridotta compliance
polmonare, aumento della resistenza delle vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo.
Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione
sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della
posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del
precarico e congestione polmonare.
Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il
risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono
con la posizione seduta, spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori
da broncospasmo per edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema
interstiziale.
Edema polmonare acuto (vedi Capitolo 20)
Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari alla bassa portata cardiaca sotto
sforzo.
Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta
all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi
avanzate dello scompenso cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale.
Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è
disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula
epatica e dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza
dopo i pasti. Questi pazienti possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea.
Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare
vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti
anziani con coesistente aterosclerosi cerebrale.
162 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

SEGNI CLINICI

La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi
giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico.
Aspetto generale: normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico; nelle fasi più
avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni
di attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica.
Obiettività cardiaca. Il reperto di un III tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di un
aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo
sinistro immediatamente dopo la fase di riempimento rapido. Un soffio olosistolico da insufficienza
mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche
evidenziare un’accentuazione della componente polmonare del 2° tono.
Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione
differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata
cardiaca.
Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si
evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra.
Nei casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare.
Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base
destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua
comparsa è frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambi i circoli (piccolo circolo e circolo
sistemico).
Stasi giugulare. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena giugulare interna ed
anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo la trasmissione
delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare, la testa del paziente deve
essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45°.
Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in
ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro
a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso.
Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione
dell’ipocondrio destro.
Ascite È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione
nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità
dei capillari peritoneali.
Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare
l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono
simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi
venosi (piedi, caviglie, zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente
è rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto
compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca).
Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La
genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento
intestinale per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio,
aumento del consumo miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine.

ESAMI STRUMENTALI

Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso cardiaco cronico,
ma non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per sé, la presenza di scompenso; tuttavia
un QRS con durata >120 ms, specialmente associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la
probabilità di una disfunzione ventricolare .
163 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare cardiomegalia, congestione
polmonare ed eventuali patologie polmonari associate.
Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici, creatininemia,
glicemia, enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può essere valutata se indicata in base ai
reperti clinici.
L’anemia è presente in un 20-30% dei pazienti, ed è più frequente nei pazienti con scompenso cardiaco più
grave . La sua patogenesi è multifattoriale: insufficienza renale, terapia con ACE inibitori, attivazione
infiammatoria cronica, etc. L’iposodiemia è dovuta a dililuizione con ritenzione idrica maggiore di quella
salina. E’ almeno parzialmente dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia può
verificarsi come conseguenza della terapia con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre che per aumentata
secrezione di aldosterone. Va corretta in quanto possibile causa di aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può
svilupparsi per insufficienza renale e/o terapia con antagonisti del sistema renina-angiotensina-
aldosterone.
L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad ipoperfusione renale.
Può essere favorita dalla terapia medica (diuretici, antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del
sistema renina-angiotensina-aldosterone).
Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di scompenso cardiaco.
Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non trattato rendono la diagnosi di scompenso
poco probabile. Oltre allo scompenso cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare
sinistra, l’ischemia miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli
plasmatici di peptici natriuretici.
Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare una disfunzione
cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la frazione d’eiezione ventricolare sinistra,
misurata sottraendo dal volume telediastolico il volume telesistolico, ottenendo così la gittata sistolica, e si
divide questa per il volume telediastolico. La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti
con disfunzione ventricolare sinistra sistolica da quelli con conservata funzione sistolica. L’aumento dei
volumi telesistolico e telediastolico ventricolare sinistro è un’altra caratteristica dei pazienti con
scompenso cardiaco dovuto a disfunzione ventricolare sistolica.
La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento dell’anulus mitralico
mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una valutazione della severità della disfunzione
diastolica ventricolare sinistra. I tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-
normale e restrittivo, corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado lieve,
moderato e grave.
Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di evidenziare un’eventuale
insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente presenti in questi pazienti, o anche altre
alterazioni (es. una stenosi aortica) che possono avere causato lo scompenso cardiaco.
Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e riproducibile per la
valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione ventricolare sinistra globale e regionale,
dello spessore miocardico, della rigidità di parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi
Capitolo 7). E’ limitata dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore
automatico.
Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari della dispnea e nel
valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante.
Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni d’ischemia
miocardica.
Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e nella valutazione
prognostica. (vedi Capitolo 9)

PRINCIPI DI TERAPIA
164 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di migliorare la prognosi
(riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro fondamentale obiettivo è la prevenzione della
disfunzione cardiaca nei pazienti a rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc)
e la prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti con disfunzione
cardiaca.
Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi per migliorare la
prognosi e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima categoria appartengono gli inibitori del
sistema renina-angiotensina-aldosterone ed i beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale.
ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei pazienti con disfunzione
ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi. Agiscono bloccando l'attivazione dell'angiotensina II con
conseguente caduta del tono dei vasi sanguigni e la diminuzione della pressione arteriosa
Beta-bloccanti riducono l'attività simpatica
Antialdosteronici. riducono il riassorbimento di liquidi
Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. Possono essere usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di
intolleranza a questi

o Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso cardiaco in presenza
di ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto
che nelle forme di scompenso cardiaco lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i
diuretici dell’ansa (furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime necessarie
per mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro somministrazione favorisce
l'attivazione dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e simpatoadrenergico, il peggioramento della
funzione renale ed alterazioni elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il
paziente con scompenso cardiaco.
I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono essere associati agli
altri diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia.
Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso cardiaco sintomatico. Nei
pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in
particolare quelle per scompenso cardiaco.
Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso cardiaco sono i nitrati,
per il trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei
pazienti con concomitante fibrillazione atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici,
nei casi con cardiopatia ischemica.
L’impianto del defibrillatore automatico e la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker
biventricolare sono indicati in pazienti selezionati.
166 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 22
LO SHOCK CARDIOGENO

DEFINIZIONE

Con shock si intende una situazione clinica in cui si ha ipoperfusione tissutale con ipossia, esso può avere
differenti cause: Ipovolemico, (ridotto volume intravascolare,es emorragia), cardiogeno (riduzione
funzionalità cardiaca, es infarto), anafilattico, settico etc. L'insufficienza cardiaca può portare allo shock
cardiogeno: La riduzione della portata cardiaca che seguita allo scompenso cardiaco, attiva il sistema
adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea, renale, e muscolare, cerca di mantenere un’adeguata
perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della
diuresi. L’aumento delle Resistenze vascolari periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un
cuore già insufficiente, e peggiora la performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si
innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per
mantenere una adeguata perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno
Lo shock cardiogeno è una condizione di ipotensione arteriosa e inadeguata perfusione tissutale con ipossia
CAUSATA da disfunzione cardiaca, più frequentemente di natura ischemica, in presenza di un adeguato
volume intravascolare. L'ipossia tissutale va distinta in una forma transitoria, cui consegue il rapido ripristino
di normali valori di pressione sistemica, chiamata collasso cardiocircolatorio, e una forma che si protrae a
lungo, con danni ipossici più marcati, che rappresenta lo shock cardiogeno vero e proprio.
I criteri diagnostici per lo shock cardiogeno comprendono:

 pressione sistolica inferiore a 80 mm Hg per almeno 30 minuti, non incrementata dalla somministrazione
di liquidi endovena;
 segni di ipoperfusione (estremità fredde), alterato stato di coscienza, agitazione psico-motoria;
 diuresi oraria inferiore a 20 ml;
 indice cardiaco (Gittata sistolica rapportata alla superficie corporea) inferiore a 1,8 l/min/m2;
 pressioni di riempimento ventricolare sinistro elevate (pressione capillare polmonare > 18 mm Hg).


EPIDEMIOLOGIA
 Lo shock cardiogeno rappresenta la causa più comune di morte per causa cardiovascolare dopo
l’infarto miocardico.
L’incidenza di shock cardiogeno negli anni precedenti la diffusione delle metodiche di
rivascolarizzazione (farmacologica e meccanica) era pari al 20% di tutti gli infarti miocardici acuti
con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Dalle più recenti casistiche si stima che lo shock si
verifichi oggi nel 7% dei pazienti con STEMI e nel 3% dei pazienti con infarto miocardico acuto senza
sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI).
Quando lo shock cardiogeno non è secondario ad un fattore modificabile (per esempio aritmie,
bradicardia, alterazioni meccaniche) la mortalità a breve termine è dell’80%.

EZIOLOGIA

Lo shock cardiogeno può essere dovuto alle seguenti condizioni (Tabella

I):

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167 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 deficit di eiezione ventricolare: può derivare dalla compromissione grave di una grande parte della massa
miocardica. Tra le cause principali di questa situazione va menzionato innanzitutto l’infarto esteso del
miocardio; tuttavia, anche infarti miocardici di piccole dimensioni, soprattutto quando si verificano in
pazienti con preesistente compromissione del ventricolo sinistro, possono evolvere in shock cardiogeno.
Un deficit di eiezione può essere, peraltro, sostenuto anche da aritmie ventricolari o da insufficienze
valvolari ad insorgenza acuta;
difetti di riempimento ventricolare: possono essere dovuti a:
 cause estrinseche, quali tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva

 cause intrinseche, quali trombi o mixomi atriali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata.

FISIOPATOLOGIA

La brusca riduzione della pressione sistolica al di sotto di 80 mm Hg induce la stimolazione dei barocettori

aortici e carotidei, determinando:

 vasocostrizione delle arteriole e delle meta-arteriole attraverso stimolazione Simpatica


 aumento della frequenza cardiaca attraverso l’inibizione del sistema nervoso parasimpatico.

La caduta della pressione sistemica induce inoltre la stimolazione dei chemocettori determinando:

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168 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 iperventilazione, per migliorare l’ossigenazione del sangue. La quale induce tachicardia riflessa
 aumento dei livelli di catecolamine determinando vasocostrizione arteriosa e venosa
 attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, quale risposta renale all’ipoperfusione sistemica,
con conseguente ritenzione di sodio e di liquidi.

Tali risposte hanno come effetto l’aumento della pressione telediastolica e dei volumi del ventricolo
sinistro. Sebbene ciò compensi parzialmente la riduzione della funzione ventricolare sinistra, un’elevata
pressione telediastolica del ventricolo sinistro determina edema polmonare, con alterazione degli
scambi gassosi polmonari. Seguita quindi acidosi respiratoria che peggiora ulteriormente l’ischemia
miocardica, la disfunzione ventricolare sinistra e la trombosi intravascolare (Figura 1).

Se la causa che ha provocato il collasso cardiocircolatorio è reversibile e agisce per breve tempo, la crisi può

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169 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

risolversi con il ripristino di normali valori di pressione sistemica. Quando, invece, questa reazione
compensatoria è insufficiente a far fronte all’ipotensione, si innesca una spirale discendente che conduce,
attraverso il perpetuarsi di una condizione di ischemia miocardica, ad un progressivo peggioramento della
funzione cardiaca, fino alla morte (Figura 2).

In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, le porzioni di miocardio non ischemiche
diventano ipercontrattili ed aumentano il loro consumo di ossigeno. Le conseguenze di questa risposta
dipendono dall’estensione del danno e dal precedente stato del miocardio, dalla gravità della patologia
coronarica sottostante, dalla presenza di altre patologie valvolari.
Si possono verificare tre condizioni:

 compenso: ripristino della normale pressione arteriosa e normale pressione di perfusione miocardica
 compenso parziale: stato di pre-shock con portata cardiaca e pressione arteriosa moderatamente ridotte
e conseguente aumento della frequenza cardiaca ed elevata pressione telediastolica ventricolare sinistra
 shock: si sviluppa rapidamente e determina una marcata ipotensione e peggioramento dell’ischemia
miocardica globale. Senza un’immediata riperfusione, i pazienti in questa condizione presentano una
limitata possibilità di sopravvivenza.

SINTOMI E SEGNI CLINICI

 A fronte di un elevato numero di segni clinici, lo shock cardiogeno può teoricamente manifestarsi in
assenza di sintomi avvertiti dal paziente; quando questi sono presenti, si tratta per lo più dei
sintomi di un infarto miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, cardiopalmo, nausea, vomito,
astenia).
Il paziente in shock cardiogeno presenta solitamente alterazioni dello stato di coscienza, come
risultato della ridotta perfusione cerebrale; altri segni di ipoperfusione d’organo conseguenti alla
ridotta gittata cardiaca sono la contrazione della diuresi, l’insufficienza epatica, la cianosi. Queste
alterazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano abitualmente sino a che l’indice
cardiaco (cioè la gittata cardiaca rapportata alla superficie corporea) non scende sotto il valore di
2,2 l/min/m2.
L’esame obiettivo mostra cute pallida ipotermica e sudata, distensione giugulare, aumentata
frequenza cardiaca. Il polso arterioso è iposfigmico, irregolare in presenza di aritmie; un polso
paradosso compare se la causa dello shock è il tamponamento cardiaco (ostacolo al riempimento
ventricolare). L’ascoltazione del torace rivela rantoli se è presente edema polmonare alveolare.
Spesso è presente un ritmo di galoppo (terzo e/o quarto tono); se lo shock
170 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

cardiogeno deriva dalle complicanze meccaniche di un infarto miocardico, possono essere udibili
anche i soffi da insufficienza mitralica (vedi Capitolo 15) o da difetto del setto interventricolare.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Per la diagnosi di shock cardiogeno è necessario confermare la presenza di disfunzione cardiaca o di


eventuali ostacoli meccanici al riempimento ventricolare (per esempio tamponamento cardiaco, pericardite
costrittiva, trombi o mixomi striali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata). E’ altresì
importante escludere altre potenziali cause di grave ipotensione come l’ipovolemia, l’emorragia e la sepsi.
L’iter diagnostico, partendo dall’anamnesi e dall’esame obiettivo del paziente, procede considerando i
seguenti esami diagnostici:

 Elettrocardiogramma:

Può mostrare segni di infarto miocardico acuto o di precedenti cardiopatie, o mettere in luce aritmie. Un
ECG normale, tuttavia, non esclude la diagnosi di shock cardiogeno.

 Radiografia del torace

E’ utile nel valutare le dimensioni cardiache, la presenza di congestione polmonare o di altre eventuali
patologie polmonari. Fornisce inoltre una stima approssimativa delle dimensioni del mediastino e della
radice aortica, utili per escludere una dissezione dell’aorta.

 Esami ematochimici

La determinazione dei marker di necrosi miocardica può essere fondamentale per diagnosticare un infarto
miocardico acuto quale causa di shock cardiogeno nei casi in cui il tracciato elettrocardiografico non sia
interpretabile. E’ anche utile misurare la concentrazione dei gas ematici nel sangue arterioso
(emogasanalisi arteriosa), dal momento che la presenza di acidosi può avere effetti particolarmente
dannosi sul miocardio.
4. Ecocardiogramma
Permette di ottenere informazioni circa la funzione sistolica globale e segmentaria dei ventricoli e consente
di giungere rapidamente al riconoscimento delle cause meccaniche di shock, quali rottura di un muscolo
papillare con insufficienza mitralica acuta, rottura acuta del setto interventricolare o della parete libera
ventricolare con tamponamento cardiaco, malfunzionamento di apparati valvolari protesici.
5. Monitoraggio invasivo e cateterismo cardiaco destro.
L’incannulamento di un’arteria permette il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa, mentre quello
di una vena, incuneando un catetere a livello dei capillari polmonari, permette di ottenere parametri
emodinamici fondamentali per la diagnosi, quali la portata cardiaca e le pressioni di riempimento
ventricolare.

GESTIONE INIZIALE DEL PAZIENTE

Il trattamento dello shock cardiogeno ha innanzitutto lo scopo di migliorare la funzione cardiaca.


L’approccio iniziale al paziente con shock cardiogeno dovrebbe includere:
1) Gestione delle vie aeree
Il paziente in stato di shock ha spesso un diminuito livello di coscienza che lo rende incapace di proteggere
adeguatamente le proprie vie aeree e di provvedere spontaneamente alla respirazione. In questi casi
l’intubazione endotracheale e la ventilazione meccanica sono provvedimenti obbligati. Se il paziente è
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171 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ancora in grado di ventilare in maniera adeguata è comunque indispensabile fornirgli ossigeno ad alti flussi,
utilizzando maschere, per avvicinarsi quanto più possibile al 100% di ossigeno inspirato.
2) Reperimento di un accesso venoso
Può essere un accesso venoso periferico o, meglio, un accesso venoso centrale (vena femorale, giugulare o
succlavia). Attraverso questa via possono essere somministrati liquidi e farmaci. L’introduzione dei fluidi
deve essere effettuata con attenzione, in modo da assicurare un adeguato precarico e ottimizzare la
funzione ventricolare (specialmente in presenza di infarto ventricolare destro), evitando l’eccessiva
somministrazione di liquidi, che potrebbe condurre all’edema polmonare.
3) Monitoraggio elettrocardiografico
Tachicardie e blocchi atrioventricolari possono ridurre in maniera significativa la gittata cardiaca. Il loro
tempestivo riconoscimento e trattamento è un elemento di estrema importanza.
4) Monitoraggio emodinamico
Consente il controllo continuo della pressione di riempimento (pressione diastolica ventricolare sinistra)
attraverso la misurazione della pressione atriale sinistra “indiretta”, ottenibile mediante misurazione della
pressione polmonare con catetere di Swan Ganz (vedi Capitolo 11).
5)Posizionamento di un catetere vescicale
E’ di estrema importanza il monitoraggio della diuresi oraria, essendo la contrazione della diuresi uno dei
primi segni di bassa portata cardiaca.

CENNI DI TERAPIA

Terapia farmacologica

 Morfina: nell’infarto miocardico può alleviare l'intenso dolore toracico, contribuire a ridurre gli elevati
livelli di catecolamine circolanti e diminuire il precarico e il postcarico. La risposta deve essere
attentamente monitorata perché la morfina causa depressione respiratoria, provoca dilatazione venosa e
può ridurre la pressione arteriosa.
 Agenti inotropi: se la pressione arteriosa sistemica è inferiore a 80-90 mm Hg, è necessario infondere un
agente pressorio come la dopamina. A dosi relativamente basse, 2-5 µg/kg per minuto, il farmaco induce
aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, mediato dalla stimolazione ß-adrenergica, e
incremento del flusso renale mediato da recettori specifici dopaminergici. Gli effetti vasocostrittori a-
adrenergici si manifestano a dosi superiori ai 5 µg/kg per minuto.

Se si rendono necessarie alte dosi di dopamina per mantenere una perfusione adeguata, si deve prendere
in considerazione il passaggio all’infusione di noradrenalina. Questo farmaco è un potente costrittore
arteriolare e venoso, la cui azione è mediata attraverso una stimolazione a-adrenergica, mentre la
stimolazione ß-adrenergica è relativamente modesta.
Quando la pressione arteriosa sistemica è 90 mm Hg o superiore, il farmaco di scelta è la dobutamina, che
può produrre un aumento della pressione sistemica attraverso l’incremento della gittata cardiaca.

 Vasodilatatori: visto che questi farmaci riducono la pressione arteriosa, il loro impiego deve essere
associato a quello di un agente inotropo.
 Diuretici: il loro impiego è riservato ai casi di shock cardiogeno con edema polmonare acuto. I diuretici più
utilizzati sono quelli dell’ansa (per esempio, furosemide), associati ai risparmiatori di potassio (per
esempio, spironolattone).

Supporto meccanico
La stabilizzazione del paziente in shock cardiogeno può essere ottenuta mediante un supporto circolatorio
meccanico, cioè con l’impiego del contropulsatore aortico. Questo consiste in un palloncino montato su un

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172 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

catetere vascolare e collegato tramite un tubo ad una consolle di comando che è in grado di monitorizzare
l'ECG e la curva di pressione arteriosa, sincronizzando l'insufflazione e la desufflazione del palloncino con il
ciclo cardiaco. Il catetere viene inserito per via percutanea attraverso l'arteria femorale, e la sua punta è
posizionata in aorta discendente 1-2 centimetri sotto l'emergenza della arteria succlavia di sinistra e sopra
l'origine delle arterie renali (Figura 3).

Il gonfiaggio del pallone del contropulsatore avviene precocemente in diastole, determinando un notevole
aumento della pressione aortica diastolica fin quasi ai livelli della pressione aortica sistolica, e aumentando
di conseguenza il flusso sanguigno coronarico. Inoltre, lo sgonfiaggio del pallone all’inizio della sistole
riduce la pressione aortica, con conseguente diminuzione del consumo di ossigeno da parte del miocardio e
delle resistenze periferiche (postcarico). La contropulsazione aortica è generalmente riservata ai pazienti in
shock cardiogeno dovuto a una condizione potenzialmente reversibile, o nei quali si prenda in
considerazione il trapianto cardiaco (Tabella II).

Tali condizioni comprendono l’infarto miocardico ancora in evoluzione e l’infarto associato a una grave
complicanza meccanica (insufficienza mitralica o difetto del setto interventricolare).
In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, il ripristino del flusso ematico coronarico
è la terapia più efficace per salvare i pazienti che non rispondono all’infusione di liquidi o al trattamento
farmacologico. Le possibilità comprendono l’angioplastica e il by-pass aorto-coronarico. Nei casi in cui,
invece, lo shock cardiogeno è causato da una complicanza meccanica dell’infarto miocardico, la terapia
chirurgica di riparazione della lesione e/o sostituzione valvolare è la sola strada percorribile.

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174 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 23
FISIOPATOLOGIA DELL’ISCHEMIA MIOCARDICA

METABOLISMO DELLE CELLULE MIOCARDICHE

Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un apporto continuo di
ossigeno. Il loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e già di base comporta l’estrazione di circa
il 70% dell'ossigeno dal sangue durante il suo passaggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento
significativo della richiesta di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso
coronarico. Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel
processo di contrazione, la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale del consumo
miocardico di ossigeno. Di fatto, un raddoppio della sola frequenza comporta un raddoppio del consumo
miocardico di ossigeno.
Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno sono la pressione
arteriosa (postcarico), la pressione e il volume ventricolare in diastole (precarico) e l’inotropismo
cardiaco.
Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del ritorno venoso
(precarico) contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di ossigeno, e quindi la richiesta di
un aumento del flusso coronarico.
Mentre la misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi invasivi, una
valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA
sistolica.
LA CIRCOLAZIONE ARTERIOSA CORONARICA
Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta in tre principali
compartimenti, collegati in serie (Figura 3).

Arterie di capacitanza epicardiche: il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza


epicardiche, che hanno funzione conduttiva e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la
pressione rimane sostanzialmente costante lungo il loro decorso. Le arterie coronarie di conduttanza
modificano il loro tono in risposta a variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-
dipendente dei vasi, e per effetto di sostanze vasoattive locali o circolanti e di stimoli neurogeni.
176 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Prearteriole hanno dimensioni di 100-500 µm la loro funzione principale è di mantenere la pressione di


perfusione all'origine delle arteriole a livelli ottimali. A tale scopo vanno incontro a vasocostrizione
miogena in presenza di un aumento, e a vasodilatazione in caso di riduzione, della pressione arteriosa
sistemica.
Arteriole hanno dimensioni <100 µm di diametro sono la sede della regolazione metabolica del flusso
coronarico. Per la loro posizione, infatti, esse risentono dell’attività metabolica delle cellule miocardiche,
modificando il loro tono vasale in modo da adattare il flusso coronarico alle richieste energetiche. Così, le
arteriole si dilatano in caso di un aumento del metabolismo cardiaco, che comporta un’aumentata
richiesta di ossigeno. Nei casi di maggiore richiesta di ossigeno miocardico, la riduzione massimale della
resistenza coronarica consente un aumento anche di 4-5 volte del flusso coronarico, e quindi dell’apporto
di ossigeno, come nel caso di sforzi intensi. La capacità di aumento massimale del flusso coronarico
rispetto al basale costituisce la cosiddetta riserva coronarica. Oltre che dallo stato metabolico delle cellule
miocardiche, comunque, il tono delle arteriole è anch’esso modulato da fattori autacoidi locali, da sostanze
vasoattive circolanti e da stimoli neurogeni.

CONTROLLO DEL FLUSSO CORONARICO

Diversi fattori contribuiscono alla regolazione del flusso coronarico.

Forze meccaniche extravascolari


Durante la sistole i vasi intramiocardici vengono schiacciati dalla contrazione muscolare e il sangue in parte
è addirittura spinto verso i vasi epicardici. Il flusso anterogrado è quindi praticamente abolito durante la
sistole, soprattutto negli strati subendocardici, che ricevono quindi sangue esclusivamente in diastole
(Figura 4).

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177 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Regolazione del tono vascolare coronarico


I fattori che contribuiscono a regolare il tono vascolare coronarico, e quindi il flusso coronarico, sono
numerosi e possono variare nei diversi compartimenti arteriosi.

a) La regolazione miogenica fa sì che il tono vasale arterioso aumenti quando la pressione arteriosa
aumenta, mentre si riduce quando la pressione decresce, ed ha, quindi, lo scopo di mantenere costante il
flusso in proporzione alle variazioni della pressione di distensione del vaso. Essa sembra esplicarsi
soprattutto nelle prearteriole.
b) La regolazione metabolica del tono vascolare avviene a livello delle arteriole. L’aumento della
domanda di ossigeno causa il rilascio, da parte dei miocardiociti, di sostanze vasodilatatrici che
determinano dilatazione arteriolare, consentendo così l’aumento del flusso. Tra le sostanze implicate
nella regolazione del flusso coronarico, vi sono l'adenosina, che, con l'aumento del metabolismo
energetico, viene prodotta in maggiori quantità dai miocardiociti, in seguito alla maggiore scissione delle
molecole di adenosin trifosfato (ATP). L’adenosina agisce sui recettori adenosinici A2 delle cellule
muscolari lisce vascolari, attivando l'adenilato-ciclasi intracellulare, che determina la produzione di AMP
ciclico. Altri fattori, tuttavia, possono contribuire alla vasodilatazione metabolica (pressione tissutale di
ossigeno, pH, concentrazione di potassio, pressione osmotica, attivazione dei canali ATP-sensibili del
potassio, bradichinina).
c) Regolazione neurogenica del tono vasale è dovuta agli effetti esplicati sui vasi dal sistema nervoso
autonomo simpatico e parasimpatico.
In teoria una stimolazione ortosimpatica dovrebbe determinare una coronaro-costrizione, ma il cuore
sempre sotto lo stimolo noradrenergico verrebbe spinto a lavorare di più, avremmo quindi, in teoria, un
aumento della richiesta di ossigeno, ma una diminuzione della sua fornitura, per via della vasocostrizione!
In realtà l’effetto vasocostrittore viene mascherato ampiamente dall’effetto del NO che induce
vasodilatazione Il ruolo del sistema nervoso parasimpatico nella regolazione del circolo coronarico non è
completamente chiaro: invivo la stimolazione vagale tende a determinare un aumento del tono
vasomotore, soprattutto come effetto secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del
consumo miocardico di ossigeno.
d) Regolazione endotelio-mediata del circolo coronarico.
Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto attività vasodilatatrice, e
comprendono l'endothelium-derived relaxing factor (EDRF) identificato come il monossido di azoto, la
prostaciclina (PGI2) e l'endothelium-derived hyperpolarizing factor (EDHF). L'EDRF ha emivita breve (5
secondi) agisce attivando la guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, vasodilatando. Molte sostanze
vasoattive (ad esempio, acetilcolina, serotonina, bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore
determinando il rilascio di NO da parte delle cellule endoteliali.

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179 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall'acido arachidonico. Ha anch’essa emivita breve (10 secondi) ed
è rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a diverse sostanze, sembra contribuire anch'essa al tono
vasale basale e alla vasodilatazione flusso mediata. L'EDHF non è stato ancora ben identificato
chimicamente; probabilmente deriva anch'esso dall'acido arachidonico ed ha emivita breve causa
vasodilatazione mediante apertura dei canali del potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule
muscolari lisce.
Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in particolare l'endotelina-1
(ET-1), l'angiotensina II, l'endothelium-derived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai
radicali liberi dell'ossigeno (Figura 5, Figura 6). Viceversa, l’attività vasocostrittrice
dell’endotelio (attivazione dell’endotelio) può aumentare in alcune condizioni patologiche (per esempio,
ipertensione arteriosa, diabete, aterosclerosi, ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai
loro effetti negativi.
L’ET-1, in particolare, è il più potente vasocostrittore conosciuto nell'uomo, agisce su due tipi di recettori
principali, ETAed ETB. L’azione vasocostrittrice è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule
muscolari lisce. La stimolazione di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce rilascio di NO
ed inibisce quello di ET-1, tendendo a contrastare così gli effetti vasocostrittori dell’ET-1.

Integrità della parete vasale


L'endotelio ha inoltre un ruolo chiave nel preservare la fluidità del sangue, in quanto il suo rivestimento
interno con proteoglicani forma una barriera elettronegativa che previene l'adesione delle piastrine e delle
altre cellule circolanti. La sintesi di NO e PGI2, inoltre, ostacola l'adesione e l'aggregazione piastrinica.
Infine, le cellule endoteliali secernono diverse sostanze con attività anticoagulante, come l'eparan-solfato,
che catalizza l'inattivazione della trombina da parte dell'antitrombina III, e sostanze in grado di attivare il
plasminogeno, e quindi la fibrinolisi.

FISIOPATOLOGIA DELL’ISCHEMIA MIOCARDICA


Filippo Crea, Gaetano A. Lanza

DEFINIZIONE

L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare le richieste di
ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule miocardiche per svolgere le proprie funzioni.
Quando sufficientemente grave e prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa,
in caso di occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati
subendocardici, più sensibili al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più tardivamente quelli
subepicardici. Tutte le Sindromi Coronariche Acute (SCA) sono accomunate dalla stessa patogenesi:
occlusione coronarica acuta su placca trombotica, dalla rottura della placca si forma la trombosi. A seconda
di come avviene l'ostruzione avremo un elevazione dell'intervallo ST e parliamo di STEMI se l'occlusione è
completa e persistente, e di NSTEMI e di Angina Instabile se l'occlusione è parziale o intermittente e non
avremo l'elevazione del ST. Se all'ECG abbiamo una Non elevazione dell'intervallo ST, per distinguere un
NSTEMI da Angina instabile, valutiamo gli enzimi cardiaci (mioglobina, CPK-MB, Troponine T ed I), che si
innalzano nello NSTEMI, e che rimangono normali nell'Angina Instabile.
DOLORE NELLE SCA
Insorge nel 40% dei casi durante uno sforzo fisico o in occasione di forti emozioni. Insorge nel restante 60%
dei casi a riposo, alle 5 del mattino per l'aumentato tono adrenergico, per l'iperaggregazione piastrinica e
per gli elevati livelli di glucocorticoidi. Il dolore è gravativo, oppressivo, dura oltre i 20 minuti, non è
reversibile a riposo o con i nitrati. Può essere atipico in donne, anziani e diabetici.
180 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

STENOSI CORONARICHE EPICARDICHE

Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il substrato più frequente
dell’ischemia miocardica. Quando il diametro del lume viene ridotto del 50%, oltre questa riduzione critica,
ogni ulteriore aumento della stenosi causa una sempre maggiore riduzione della pressione a valle, con una
relazione di tipo esponenziale.
Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua riduzione a valle di una
stenosi tende a ridurre il flusso, tuttavia, in corrispondenza di una stenosi non si osserva riduzione del
flusso coronarico, in quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione della resistenza
coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche. Questa vasodilatazione
compensatoria, tuttavia, riduce la riserva coronarica, vale a dire la capacità di aumento massimo del
flusso in risposta all’aumento del fabbisogno metabolico del miocardio. Il livello di lavoro cardiaco oltre il
quale non è più possibile incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per cui si sviluppa
ischemia, è definito soglia ischemica.
L'ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente limitata agli strati
subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore riserva coronarica, e sono quindi più
suscettibili all’ischemia, rispetto agli strati subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule
subendocardiche è di base maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress
sistolico parietale cui sono soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 15-20%
superiore a quello subepicardico, nonostante sia sottoposto a maggiori forze compressive extramurali,
con conseguente minore capacità di incremento relativo durante aumento della domanda di ossigeno.
Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito dal furto coronarico transmurale: in
presenza di un vaso con una stenosi, in genere molto critica, una volta che si è raggiunto il grado di
vasodilatazione massimale dei vasi subedocardici, dato che la riserva coronarica di questi è inferiore a
quella dei vasi subepicardici, un'ulteriore vasodilatazione epicardica comporterà un’ulteriore caduta della
pressione post-stenotica, il flusso ematico si ridistribuisce dunque dal subendocardio al subepicardio con
conseguente riduzione della perfusione subendocardica.

Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata all’angiografia coronarica

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182 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè, variazioni del lume sono in grado di
modificare il grado di stenosi, e quindi la riserva coronarica. La dinamicità di una stenosi può essere
valutata saggiando la risposta vasomotoria alla somministrazione intracoronarica di sostanze vasodilatatrici
e vasocostrittrici.
Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi coronarica è lo sviluppo di
una circolazione coronarica collaterale verso il territorio ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da
vasi anastomotici preesistenti, sia, più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione.

TROMBOSI CORONARICA

I fenomeni trombotici costituiscono il meccanismo fisiopatologico principale dell’ischemia miocardica nelle


sindromi coronariche acute (Figura 10).

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183 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Quando transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea; se prolungata o persistente, tuttavia,
essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di tessuto miocardico.
I trombi si formano in genere a livello di placche aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura,
fissurazione o emorragia), che espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare
efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e procoagulanti.
Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a livello di stenosi), e
possono essere causate da molteplici fattori, meccanici, chimici (LDL ossidate), infettivi (virus, batteri), e
immunologici (anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati).
Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è costituita dall’adesione
di piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una serie di meccanismi che portano alla
formazione di un trombo piastrinico, che, in presenza di stenosi critiche, può di per sé causare
subocclusione o occlusione del vaso (e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale).
Più frequentemente, soprattutto in presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale piastrinico viene
seguito dalla formazione di un trombo più stabile, per l’attivazione del sistema emostatico, che porta a
deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina, globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale
occlusione del vaso.
Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da quanto esso riduce il
lume, dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti, variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in
poco tempo, per cui causa solo un'ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo
parzialmente, rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della
preesistente stenosi con successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte, infine, subisce una rapida
crescita che causa l'occlusione totale del vaso, con grave ischemia e necrosi miocardica. I trombi, sia
ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a microembolie distali che causano aree di ischemia o
necrosi miocardica circoscritta. Va infine ricordato come una trombosi può localmente complicare uno
spasmo coronarico, facilitando l'occlusione e l'infarto miocardico in pazienti con angina vasospastica.

SPASMO CORONARICO

Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle cellule muscolari lisce di un
segmento di un’arteria coronaria epicardica, che occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con
conseguente ischemia miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia in vasi
completamente normali

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184 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La causa del vasospasmo coronarico è da imputare probabilmente ad una o più alterazioni delle vie di
signaling della contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una loro iperreattività agli
stimoli vasocostrittori.

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185 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

DISFUNZIONE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO

Alterazioni del flusso coronarico a livello dei piccoli vasi coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole),
che non sono visibili all’angiografia coronarica, possano essere responsabili di un’ischemia miocardica.
In pazienti con stenosi isolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazione
percutaneo, la persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG durante sforzo, a
dispetto del successo della procedura, suggerisce una causa microvascolare.
In pazienti con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in genere attribuita
all'aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi perivascolare, ipertrofia della
media) associate ad eventuali malattie sistemiche concomitanti (ad es., ipertensione, diabete).

COMPLICANZE IMA
Distinguiamo complicanze Acute e complicanze Croniche.
Acute: a loro volta divise in emodinamiche ed aritmiche
Emodinamiche
a) Shock: l'insufficienza ventricolare Sx si manifesta con ipoperfusione
b)Rottura di cuore: con compromissione emodinamica per lesione meccanica
c) edema polmonare acuto: se si seguita nello scompenso cardiaco con accumulo di liquidi nel piccolo circolo

Aritmiche
a)fibrillazione ventricolare: va cardiovertito
b) Blocco AV
c) Bradicardia: se vi è un'occlusione della coronaria di destra vi sarà un infarto posteriore. La coronaria destra irrora
sia il nodo del seno che il nodo AV

Croniche:
a) pericardite
b)aneurisma cardiaco: se vi è un infarto anteriore nell'aneurisma apicale
c)scompenso cardiaco: si riscontra una riduzione della frazione di eiezione
186 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 24
SINDROMI CORONARICHE CRONICHE
DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche croniche si identificano con l’angina stabile o angina cronica, una sindrome
caratterizzata da attacchi di ischemia miocardica che si producono in circostanze simili, relativamente
prevedibili e riproducibili, generalmente associate a sforzo fisico.
Meno del 50% degli episodi ischemici si accompagna a sintomatologia dolorosa e la gran parte degli
attacchi ischemici è quindi silente.
L'angina pectoris può essere distinta in angina stabile ed angina instabile. Per definizione l'angina di nuova
insorgenza è definita instabile, se però l'insorgenza dell'angina non evolve verso eventi coronarici
maggiori, e non insorge per sforzi sempre meno intensi, l'angina verrà successivamente definita stabile.
L’aggettivo stabile che caratterizza questa sindrome coronarica deve essere inteso:
 come espressione della costanza e ripetibilità delle condizioni in cui si produce l’episodio ischemico
 come espressione della stabilità nel tempo della frequenza e della severità degli episodi di angina.
Questa sindrome ischemica è caratterizzata da una bassa incidenza di eventi maggiori (morte improvvisa,
infarto miocardico) a breve e medio termine.
Il livello di attività a cui compare l’angina o l’ischemia viene definito soglia del dolore o dell’ischemia. La
soglia del dolore può essere calcolata empiricamente, dal racconto del paziente, sulla base della
comparsa dei sintomi e del momento di inizio e del tipo di attività fisica che ha provocato l’angina,
oppure può essere definita da parametri ergometrici (minuti di esercizio, doppio prodotto, carico di
lavoro) al momento della comparsa di ischemia elettrica (sottoslivellamento di ST) o del dolore.
Quando le variazioni della soglia sono particolarmente evidenti, l’angina perde la sua caratteristica di
stabilità sintomatica (angina a soglia variabile) ma può mantenere la stabilità clinica e la scarsa incidenza
di eventi maggiori nel follow up a breve e medio termine.
Per definizione una cardiopatia ischemica cronica è " una pataologia dovuta ad aterosclerosi stabile delle
coronarie con una placca stabile. Grazie alla riserva coronarica una occlusione fino al 80-90% può risultare
asintomatica a riposo. L'angina stabile dunque compare quando si ha uno squilibrio tra la richiesta di
Ossigeno e l'offerta di Ossigeno."

Classificazione CCS dell'Angina Stabile


Possiamo classificare l'Angina Stabile in 4 classi, sulla base dello sforzo necessario per fare insorgere
Angina.
Classe I: il dolore compare per uno sforzo intenso
Classe II: il dolore compare per uno sforzo moderato
Classe III:il dolore compare per uno sforzo lieve, si ha marcata limitazione nelle attività quotidiane.
*Classe IV: inabilità a vestirsi.

*La classe IV è definita come angina a bassa soglia, sebbene appartenga alla classe IV delle angine stabili,
viene in realtà considerata come angina Instabile poiché si ha un'arteria subocclusa (circa 99 del lume)
187 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PATOGENESI

Il meccanismo patogenetico più comune dell’angina stabile è l’aumento del consumo miocardico di
ossigeno, per lo più dovuto ad esercizio fisico, non accompagnato da un parallelo aumento del flusso
coronarico. Pertanto l’angina cronica stabile è generalmente una angina da sforzo.
L’incapacità di aumentare il flusso coronarico in maniera adeguata all’aumento delle richiesta metaboliche
del miocardico può dipendere da una molteplicità di fattori tra cui: presenza di una stenosi coronarica
severa che riduce marcatamente la riserva coronarica, risposta vasocostrittiva del microcircolo distalmente
ad una placca aterosclerotica, alterazioni del metabolismo energetico miocardico, etc
In qualche caso, l’angina può comparire in condizioni di riposo muscolare, quando, per altri meccanismi, si
verifica comunque un aumento della frequenza cardiaca e/o della pressione arteriosa.

DIAGNOSI CLINICA

Il dolore anginoso
Un dolore toracico può aver origine da numerose strutture (cuore, pericardio, grossi vasi, polmone, pleura,
esofago, stomaco) e dipendere da patologie osteo-articolari, nervose o muscolo-cutanee della parete
toracica. L’anamnesi rappresenta il primo e spesso anche il più utile approccio nella diagnosi di angina
pectoris.
Il dolore anginoso tipico è definito coi termini di costrizione, oppressione, peso, bruciore, ed è
frequentemente associato a malessere generale ed ansia. La sede tipica è retrosternale con irradiazione
lungo il lato ulnare dell’avambraccio sinistro e la mano, oppure alla mandibola, al collo, ad entrambe le
braccia ed ai polsi o al dorso. Altre sedi del dolore sono l’epigastrio o l’emitorace destro con irradiazione
all’avambraccio omolaterale. Tipicamente il dolore insorge gradualmente, raggiunge la massima intensità
entro un minuto e recede spontaneamente dopo 2-10 minuti con la cessazione del fattore scatenante o con
la somministrazione sub-linguale di nitrati. Altre condizioni che possono determinare l’insorgenza di angina
sono il rapporto sessuale, gli stress emotivi, l’esposizione al freddo, un pasto abbondante o una
associazione di questi fattori (Figura 1).
188 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Pertanto in alcune condizioni l’attacco anginoso può


manifestarsi anche indipendentemente da uno sforzo
fisico.
Anche se un dolore anginoso tipico si associa
generalmente ad una o più stenosi coronariche, è
importante tener presente che si può avere angina da
sforzo anche in pazienti con valvulopatia, miocardiopatia
ipertrofica, ipertensione, miocardiopatia dilatativa ed in
soggetti senza evidenti anomalie miocardiche o
coronariche (sindrome X).
In ciascun paziente, in caso di recidiva anginosa, la
sintomatologia tende a riprodursi sempre con le stesse
caratteristiche di sede, irradiazione, etc, anche a distanza
di molto tempo.
Pur essendo la sintomatologia anginosa il cardine della

diagnosi di angina, bisogna sempre tener presente che gli episodi ischemici possono manifestarsi con
sintomi diversi dal dolore come dispnea e facile stancabilità, e che oltre la metà degli episodi ischemici
possono essere privi di sintomi (ischemia silente).
Le più comuni forme morbose da considerare in diagnosi differenziale con l’angina stabile sono:
l’aneurisma dell’aorta toracica, l’ernia iatale con esofagite da reflusso, lo spasmo o reflusso esofageo da
sforzo, la distensione diaframmatica, l’ipertensione polmonare, lo pneumotorace, le patologie osteo-
articolari o neuro-muscolari della parete toracica.

Esame obiettivo
L’esame obiettivo di un paziente con angina stabile non evidenzia di solito reperti diagnostici. Tuttavia,
alcuni elementi aumentano la probabilità di coronaropatia, come la vasculopatia aterosclerotica sistemica,
l’ipertensione arteriosa, i depositi lipidici cutanei. L’esame obiettivo eseguito durante un episodio
ischemico può evidenziare reperti significativi come la comparsa di 3° o 4° tono, di soffio da rigurgito
mitralico, uno sdoppiamento paradosso del 2° tono (vedi Capitolo II) per BAV, o di rantoli basilari
(congestione polmonare) che scompaiono poco dopo la cessazione dell’episodio anginoso.

DIAGNOSI STRUMENTALE

In un paziente con bassa probabilità (donna giovane, dolore toracico atipico, assenza di fattori di rischio)
un test diagnostico positivo modifica di poco la probabilità di malattia, ma può innescare una interminabile
e spesso inutile serie di esami aggiuntivi.

Metodiche strumentali per la diagnosi di angina stabile

ECG basale
L’elettrocardiogramma a riposo è generalmente non diagnostico nei pazienti con angina stabile, anche se
nell’inquadramento clinico e prognostico del paziente è importante il rilievo di pregresso infarto
miocardico, ipertrofia ventricolare sinistra o anomalie della ripolarizzazione ventricolare.
189 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
ECG da sforzo
Il criterio elettrocardiografico più significativo di ischemia miocardica è rappresentato dalle modificazioni
del tratto ST.
Una prova da sforzo è considerata positiva quando induce dolore tipico e/o sottoslivellamento
discendente o orizzontale di ST uguale o superiore a 1 mm. Il sopraslivellamento del tratto ST di almeno
0.5 mm, raro nel test da sforzo nei pazienti senza pregressa necrosi, è di solito espressione di ischemia
transmurale per ostruzione organica o per vasospasmo. Al contrario, il sopraslivellamento di ST da sforzo
nei pazienti con pregressa necrosi deve essere considerato non specifico per ischemia.
È importante ricordare che talora un test ergometrico mostra alterazioni significative di ischemia non
durante o al picco dello sforzo, ma in fase di recupero.

ECG dinamico.
La registrazione Holter è di scarsa utilità diagnostica nella angina stabile. L’ECG dinamico può essere
riservato alla determinazione, in pazienti già noti, del carico ischemico totale quotidiano, in considerazione
della frequente sovrapposizione di attacchi sintomatici e non.

Metodiche di imaging
Stimoli diversi dall’esercizio fisico impiegati per indurre ischemia in laboratorio sono rappresentati dal test
al dipiridamolo, all’adenosina o alla dobutamina (vedi Capitolo 26). Presentano un’accuratezza
diagnostica per malattia coronarica comparabile a quella ottenuta con test da sforzo.

Coronarografia.
Sebbene l’angiografia coronarica (vedi Capitolo 11) non rappresenti una metodica utile per la diagnosi di
angina stabile, una coronarografia è indicata quando ogni tentativo diagnostico strumentale per
confermare o escludere un sospetto clinico sia risultato inefficace.
La coronarografia si rende indispensabile anche quando, una volta raggiunta la diagnosi di angina stabile, il
paziente, sulla base dei dati raccolti, sia definito ad alto rischio e quindi siano indicate procedure di
rivascolarizzazione oppure queste si rendano necessarie per inefficacia della terapia.

STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA

Premessa
Nei pazienti con angina stabile il rischio di andare incontro a eventi cardiovascolari gravi è basso: in questi
pazienti l’incidenza di morte cardiaca è fra l’1,5 e il 2% ad un anno, e quella dell’infarto non fatale intorno
all’1% per anno.

La clinica
Nei pazienti con sindromi coronariche croniche, il rischio aumenta con l’aumentare della gravità dell’angina
e con il peggiorare della funzione ventricolare sinistra secondo la classe NYHA, con la comparsa di sintomi
e segni di insufficienza di pompa durante sforzo o angor, e se sono presenti episodi sincopali,
eventualmente associati allo sforzo o all’angina.
La prognosi peggiora inoltre con l’età avanzata, se il paziente ha nella storia un infarto miocardico, se
soffre di ipertensione arteriosa, se continua a fumare.
190 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
ECG ed Ecocardiogramma di base
La presenza di un ECG di base alterato è considerata segno prognostico sfavorevole. Un esame
ecocardiografico in condizioni di base è utile per definire l’eventuale presenza e grado di disfunzione
ventricolare sinistra, segno prognostico rilevante.

ECG da sforzo
L’entità del sottoslivellamento di ST si correla con la gravità della coronaropatia: maggiore è il grado di
sottoslivellamento di ST più alta è la prevalenza di stenosi del tronco comune o di malattia trivasale. Anche
il sottoslivellamento asintomatico di ST è prognosticamente importante, indipendentemente dalla
presenza o assenza di angina: la gravità della coronaropatia e la mortalità a distanza dei pazienti con
sottoslivellamento asintomatico di ST sono analoghe a quelle dei pazienti che manifestano angina durante
sforzo.
Il mancato incremento della pressione arteriosa o la sua riduzione durante esercizio individua pazienti con
coronaropatia estesa ed è indicativo di un rischio elevato di eventi cardiaci gravi. La comparsa di sintomi e/
o segni di ischemia per bassi carichi di lavoro identifica pazienti a rischio elevato.

Coronarografia
La prognosi è peggiore nei pazienti con malattia del tronco comune dell’arteria coronaria sinistra, nei
pazienti con malattia coronarica multivasale o con lesione critica sul tratto prossimale dell’arteria
discendente anteriore, nei pazienti con depressa funzione ventricolare sinistra.

CENNI DI TERAPIA
Gli obiettivi della strategia terapeutica nell’angina stabile sono il miglioramento della qualità della vita
attraverso la riduzione dei sintomi, l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico e il prolungamentro della
sopravvivenza attraverso la riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto miocardico non
fatale). Il trattamento aggressivo dei fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità,
tabagismo, dislipidemia) e la profilassi antiaggregante si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità e
di prevenire gli eventi coronarici maggiori nel follow-up.
Il trattamento farmacologico classico dell’angina stabile si basa sull’impiego di nitrati, betabloccanti e
calcioantagonisti (vedi Capitolo 57).
I nitrati sono vasodilatatori endotelio-indipendenti che riducono il consumo d’ossigeno miocardico e
migliorano la perfusione miocardica.
I nitrati sono farmaci di prima scelta nel trattamento dell'attacco anginoso (nella formulazione
sublinguale) e sono raccomandati nel trattamento cronico dell'angina stabile, particolarmente nei pazienti
con disfunzione ventricolare sinistra.
I betabloccanti sono farmaci che agiscono bloccando gli effetti della stimolazione beta-adrenergica sul
cuore e sui vasi. Ne deriva una riduzione della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della
contrattilità miocardica, ovvero dei maggiori determinanti il consumo di ossigeno miocardico.
I calcioantagonisti sono farmaci che inibiscono la contrazione delle cellule muscolari lisce attraverso il
blocco dei canali lenti del Ca . Il risultato è una vasodilatazione arteriosa (sia coronarica che periferica). Gli
effetti antianginosi sono principalmente legati alla vasodilatazione dei vasi coronarici epicardici e del
microcircolo coronarico con riduzione delle resistenze ed aumento del flusso coronarico. L'azione
vasodilatante arteriosa periferica determina una riduzione del post-carico.
Un’alternativa ai farmaci tradizionali sono quelli che modulano il metabolismo energetico della cellula
miocardica interferendo con la betaossidazione degli acidi grassi.

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192 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 25
SINDROMI CORONARICHE ACUTE
Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone

DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche acute (SCA) sono un gruppo di manifestazioni cliniche imputabili ad ischemia
miocardica acuta, la cui causa è generalmente la rottura di una placca aterosclerotica coronarica
“vulnerabile” con successiva aggregazione piastrinica, sovrapposizione trombotica e riduzione o arresto del
flusso.
In base all’entità della stenosi/occlusione ed alla sua persistenza, si determina uno dei seguenti quadri
clinici.

 Angina instabile: ischemia miocardica acuta senza significativa necrosi miocardica.


 Infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (non ST-
segment elevation myocardial infarction, NSTEMI): ischemia miocardica acuta associata a
necrosi miocardica subendocardica.
 Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (ST-
segment elevation myocardial infarction,STEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi
miocardica transmurale.

SEGNI E SINTOMI

 Il sintomo principale è il dolore anginoso oppressivo o costrittivo. Il malato descrive in genere il


dolore come una sensazione di pesantezza, di compressione, di soffocamento o di costrizione
toracica. Il dolore ha tipicamente sede retrosternale, più raramente è avvertito all’epigastrio o solo
nelle sedi di irradiazione (il lato ulnare dell’avambraccio sinistro, il braccio e la spalla sinistra,
l’epigastrio, il collo, la mandibola, il braccio destro, il dorso).
Il dolore insorge spesso a riposo, e se compare durante uno stress psico-fisico non regredisce con il
cessare dell’attività. Nell’angina instabile il dolore ha di solito durata inferiore a 20 minuti; se
persiste per oltre 20 minuti è verosimile che si associ anche necrosi del miocardio, cioè che si
determini un infarto. Nello STEMI, in assenza della riapertura del vaso occluso, il dolore si protrae
per diverse ore, con intensità variabile.
La sintomatologia dolorosa si associa frequentemente a sudorazione fredda, sensazione di
angoscia, nausea e vomito. Tali sintomi (detti neurovegetativi) possono essere talvolta gli unici
presenti; il dolore, infatti, è assente in oltre il 30% dei casi, soprattutto nei soggetti in età avanzata
e nei diabetici. Alcuni pazienti hanno una SCA in assenza di qualsiasi sintomo; in questi la malattia
viene diagnosticata a posteriori mediante ECG, scintigrafia o ecografia, oppure in seguito ad una
complicanza acuta, la più temibile delle quali è la morte improvvisa per fibrillazione ventricolare.
ELETTROCARDIOGRAMMA

L'ECG è un’indagine chiave nella diagnosi delle sindromi coronariche acute. I reperti variano notevolmente
in base a quattro fattori principali:
1) durata del processo ischemico (acuto, in evoluzione, cronico);
2) estensione del processo ischemico (transmurale o subendocardico);
3) localizzazione del processo ischemico (parete anteriore, laterale, infero-posteriore, o ventricolo
destro);
4) presenza di altre alterazioni che possono mascherare o modificare il classico quadro ECG (per esempio:
blocco di branca sinistra, preeccitazione).
Il segno iniziale e caratteristico di una SCA è il sottoslivellamento o il sopraslivellamento del segmento ST.
Tuttavia, un ECG completamente normale in un paziente con dolore toracico non esclude la possibilità di
SCA, poiché dall’1% al 6% dei pazienti con SCA hanno un ECG normale.
193 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Elettrocardiogramma nello STEMI- infarto trasmurale


L’alterazione ECG caratteristica dell’infarto transmurale è il sopraslivellamento del tratto ST >1 mm con
convessità in genere rivolta verso l’alto (onda di lesione subepicardica). L’evoluzione del tracciato ECG
può essere sintetizzata nelle seguenti fasi (Figura 1):

 Fase acuta: tratto ST sopraslivellato, con entità che tende a ridursi progressivamente (schemi a,b,c).
 Fase subacuta: comparsa di onda Q patologica; persistenza del sopraslivellamento del tratto ST; onda T
difasica (positivo/negativa) o negativa (schemi d,e).

 Fase cronica: normalizzazione del tratto ST; persistenza dell’onda Q patologica (schema f).

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194 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Elettrocardiogramma nel NSTEMI e nell’angina instabile


L’alterazione dell’ECG caratteristica in caso di angina instabile o NSTEMI è il sottoslivellamento del tratto ST
>1 mm, di tipo orizzontale o discendente (ECG 18, ECG 19).

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195 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Questa alterazione della ripolarizzazione ventricolare deve essere sempre valutata nel contesto clinico; in
particolare, per essere considerata espressione di ischemia miocardica deve essere transitoria e/o associata
a dolore toracico. Il sottoslivellamento di ST, infatti, si riscontra spesso in condizioni diverse dall’ischemia
miocardica, per esempio nell’ipertrofia ventricolare o nel blocco di branca.

Elettrocardiogramma e prognosi
Oltre ad avere un ruolo centrale nella diagnosi di SCA e a condizionarne la terapia, l’ECG fornisce importanti
informazioni prognostiche. La mortalità dei pazienti con infarto anteriore è maggiore di quella dei pazienti
con infarto inferiore; in quest’ultimo gruppo la mortalità aumenta quando l’infarto coinvolge anche il
ventricolo destro. In generale, maggiore è il numero di derivazioni con il sotto- o sopraslivellamento del
segmento ST, maggiore è il rischio di morte per il paziente.
I pazienti con SCA che presentano anche aritmie (per esempio, tachicardia ventricolare sostenuta o blocco
atrioventricolare di III grado oppure di II grado tipo Mobitz 2 ) hanno una prognosi peggiore di quelli in cui
non si manifestano aritmie.

MARKER DI NECROSI MIOCARDICA


196 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Per la diagnosi di infarto miocardico acuto è necessario un aumento, seguito da una diminuzione graduale,
dei marcatori biochimici di necrosi associato ad una delle seguenti condizioni: 1) sintomi suggestivi di
ischemia miocardica, 2) alterazioni ECG indicative di ischemia, 3) comparsa di onde Q patologiche.
I miociti che vanno incontro a necrosi liberano alcune sostanze (enzimi o proteine) il cui riscontro nel siero
è indispensabile per porre diagnosi di infarto miocardico acuto; le più utilizzate sono la troponina e la
creatinchinasi.
Troponina (Tn). La Tn è una proteina ad alto peso molecolare presente specialmente nel tessuto
muscolare, ed è costituita da 3 sub-unità. La TnC si trova sia nel muscolo cardiaco che nel muscolo
scheletrico, mentre TnT e TnI sono presenti solo nel cuore e rappresentano marcatori sensibili e specifici
per il riconoscimento del danno miocardico. Sono dosabili nel sangue dopo 2-4 ore dall'inizio dei sintomi,
ed il picco è raggiunto dopo 8-12 ore. La curva enzimatica di questo marker è simile a quella della CK-MB
(Figura 2).

Creatinchinasi (CK). La CK è un enzima costituito da due monomeri, M e B. L’isoenzima MB è contenuto in


maggior quantità nel cuore, l’isoenzima BB nel rene e nel cervello, l’isoenzima MM nel muscolo scheletrico.
Il dosaggio del CK-MB è considerato patologico, quando è maggiore del 6-10% del CK totale, che a sua volta
deve essere almeno il doppio del normale. La Figura 2 rappresenta le concentrazioni dei marker di
miocardio-necrosi in relazione al tempo.
La latticodeidrogenasi (LDH) è utile nella diagnosi di infarto miocardico, quando il paziente giunge
all’osservazione tardivamente, in quanto è dosabile fino a 14 giorni dall’evento acuto.

COMPLICANZE DELL’INFARTO MIOCARDICO ACUTO

Le complicanze di un infarto possono essere suddivise in tre gruppi:

 Complicanze aritmiche.
 Complicanze emodinamiche (compromissione della funzione di pompa; rottura di muscoli papillari, setto,
o parete libera del ventricolo sinistro; aneurisma ventricolare).
 Complicanze ischemiche (estensione della necrosi, angina precoce postinfartuale).

COMPLICANZE ARITMICHE
Le complicanze aritmiche sono estremamente comuni durante una SCA ed in particolare durante le prime
ore dell’infarto acuto. Extrasistoli ventricolari o sopraventricolari si osservano pressoché nel 100% dei
pazienti, ma nella maggior parte dei casi non hanno significato sfavorevole. Alcune aritmie
(tachicardia ventricolare sostenuta,fibrillazione ventricolare, BAV di III grado) mettono a serio rischio la
vita del paziente e richiedono un intervento terapeutico immediato.
La fibrillazione e il flutter atriale sono frequenti, e possono determinare, se la risposta ventricolare è
elevata, una riduzione della gittata cardiaca ed un aumento del consumo miocardico di O2.
La tachicardia ventricolare non sostenuta è comune ed in genere ben tollerata, e non richiede
necessariamente un trattamento, mentre la tachicardia ventricolare sostenuta può degenerare in
fibrillazione ventricolare. In questi casi la lidocaina è abitualmente il farmaco di prima scelta se non vi è
compromissione emodinamica, nel qual caso è necessaria la cardioversione elettrica; in alternativa alla
lidocaina si può usare l’amiodarone.
La fibrillazione ventricolare è l’aritmia più temuta, e porta al decesso il paziente in pochi minuti, se non si
interviene immediatamente con la defibrillazione (vedi Capitolo 44).
Un blocco atrioventricolare di I grado o di II grado tipo Wenckebach (Mobitz 1) è comune nell’infarto
inferiore, ma raramente causa compromissione emodinamica, e può essere trattato, se necessario, con
atropina. Il bloccoatrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2 (vedi Capitolo 41) ed
il blocco atrioventricolare di III grado rappresentano indicazioni all’inserimento di un elettrocatetere per
197 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

eseguire la stimolazione ventricolare con un pace-maker esterno.

COMPLICANZE EMODINAMICHE
Insufficienza ventricolare sinistra
In corso di SCA, numerose condizioni possono indurre un’insufficienza del ventricolo sinistro, che può
essere strettamente legata all’estensione dell’area ischemica (un’area ischemica vasta determina un
marcato deficit di contrazione), o anche essere la conseguenza di aritmie o della disfunzione valvolare
mitralica provocata dall’infarto. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza ventricolare sinistra consistono
in dispnea, tachicardia sinusale, comparsa di terzo tono e di rantoli polmonari inizialmente localizzati alle
basi. L’esame obiettivo consente di classificare la gravità dell’insufficienza ventricolare utilizzando le classi
di Killip: la classe 1 si caratterizza per l’assenza di rumori umidi polmonari, la classe 2 per la presenza di
rantoli in meno del 50% dei campi polmonari, nella classe 3 i rantoli si ascoltano in più del 50% dei campi
polmonari, e i pazienti in classe 4 presentano il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22),
caratterizzato da ipoperfusione generalizzata: il soggetto ha una pressione sistolica <90 mmHg, oligo-anuria
(diuresi <20 ml/ora), agitazione psico-motoria, tachicardia sinusale, pallore, sudorazione e cianosi.

Rottura del cuore


Questa complicanza dell’infarto acuto può interessare la parete libera del ventricolo sinistro, il setto
interventricolare o i muscoli papillari. In genere si verifica nelle prime 24 ore dall’esordio dell’infarto, ma
può avvenire anche a distanza di giorni, ed è più frequente nelle donne anziane con infarto anteriore.
La rottura della parete libera provoca un emopericardio con tamponamento cardiaco (vedi Capitolo 32).
Clinicamente esordisce con dolore toracico, shock cardiogeno e dissociazione elettromeccanica (persistenza
per qualche minuto di un’attività elettrica ordinata e regolare in assenza di attività meccanica del cuore).
Non risponde alle misure di rianimazione cardiopolmonare, e la mortalità è quasi del 100%. Raramente la
rottura può determinare uno pseudoaneurisma, quando si manifesta non un emopericardio massivo ma
uno stillicidio ematico nel cavo pericardico, con tendenza all’autolimitazione.
La rottura del setto interventricolare è generalmente apicale ed avviene in corso di infarto antero-settale o
infero-posteriore; il difetto acquisito del setto interventricolare provoca, così come accade nelle forme
congenite, uno shunt sinistro-destro, poiché la pressione è maggiore nel cuore sinistro. Questa condizione
provoca la comparsa di un soffio mesocardico rude accompagnato da fremito, dispnea e rapida evoluzione
verso l’edema polmonare e lo shock. L’ecocardiogramma color Doppler consente di riconoscere
rapidamente la perforazione settale.
La rottura totale o parziale di un muscolo papillare determina una grave insufficienza mitralica acuta,
rivelata da un soffio olosistolico puntale irradiato all'ascella (vedi Capitolo 15). Si manifesta tipicamente
come un peggioramento improvviso del quadro, spesso con edema polmonare e shock. A parte la rottura,
anche una disfunzione ischemica del muscolo papillare può provocare un’insufficienza mitralica.

COMPLICANZE ISCHEMICHE
Il paziente con infarto miocardico acuto può andare incontro ad angina postinfartuale precoce (nuovo
ripresentarsi del dolore dopo che questo era cessato, ma senza segni biochimici o ECG di necrosi) o anche
ad estensione dell’infarto, con ulteriore incremento dei marker dopo che questi erano già in diminuzione, e
modificazioni dell’ECG tali da suggerire un’ischemia ulteriore sovrapposta al quadro infartuale (per
esempio, aumento del sopraslivellamento di ST a distanza di qualche giorno dalla fase iperacuta).
Probabilmente in questa situazione l’arteria coronaria che dopo un’occlusione transitoria si era riaperta è
tornata ad occludersi, provocando una nuova ischemia, oppure si è verificata l’occlusione di un ramo
coronarico precedentemente non interessato. Questi pazienti vanno immediatamente avviati a
coronarografia ed angioplastica.

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198 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ALTRE COMPLICANZE DELL’INFARTO ACUTO


Pericardite. Nell’infarto miocardico acuto si possono riscontrare due forme di interessamento pericardico:
una è la conseguenza diretta della necrosi transmurale, dovuta a deposizione di fibrina all’interno del
pericardio che ricopre la zona infartuale, mentre l’altra dipende da una reazione autoimmune post-
infartuale (pericardite di Dressler). Nel primo caso i segni e i sintomi compaiono in 2 -6 giornata. Il paziente
lamenta una ripresa del dolore toracico, che però varia con i movimenti del torace e/o gli atti respiratori, e
l’ascoltazione del cuore mette in evidenza sfregamenti pericardici. L’ECG può mostrare un persistente
sopraslivellamento del tratto ST in più derivazioni, l’ecocardiogramma evidenzia talvolta un versamento
pericardico, in genere di lieve entità. La pericardite di Dressler si manifesta dopo 2-4 settimane
dall’episodio acuto. Ai segni e sintomi sopra descritti possono associarsi febbre e versamento pleurico.
Tromboembolia. In pazienti con infarto esteso, specialmente anteriore, l’acinesia della zona infartuata
può favorire il formarsi di un trombo intracavitario, il quale può, a sua volta, provocare un’embolia
sistemica. L’incidenza di questo evento si è drasticamente ridotta da quando si impiega la terapia
anticoagulante ed antiaggregante nei pazienti con SCA.

CENNI DI TERAPIA

Numerosi farmaci possono essere impiegati nelle Sindromi Coronariche Acute: fra questi l’ossigeno, gli
antiaggreganti piastrinici, gli anticoagulanti, i fibrinolitici, i betabloccanti, gli ACE-inibitori, i calcioantagonisti, gli
analgesici. La distinzione fra STEMI, e NSTEMI/angina instabile è di primaria importanza per il trattamento
d’emergenza. In particolare, nei pazienti con STEMI, il rapido ripristino del flusso nell'arteria occlusa, tramite
terapia fibrinolitica o mediante interventi percutanei di rivascolarizzazione coronarica è determinante per la
prognosi. Nei pazienti con NSTEMI/angina instabile, invece, la terapia fibrinolitica è controindicata.
Ossigeno
La somministrazione di O2 è utile durante la fase iniziale di una SCA, in particolare nei pazienti con STEMI
Aspirina a basse dosi
Numerosi studi hanno dimostrato i potenti benefici dell’aspirina nelle SCA; il farmaco inibisce l’aggregazione
piastrinica, contrastando il meccanismo della trombosi endoluminale attraverso il blocco irreversibile della
formazione di trombossano A2.
Altri anti-aggreganti
Le tienopiridine sono farmaci antiaggreganti il cui meccanismo d’azione consiste nell’antagonizzare i recettori
dell’adenosina difosfato a livello piastrinico. L’effetto antiaggregante è irreversibile, e si realizza dopo 2-3 giorni di
terapia.
Il clopidogrel è una tienopiridina entrata solo recentemente nella pratica clinica. Il suo maggiore impiego è nei
pazienti con SCA, in associazione all’aspirina. La doppia antiaggregazione piastrinica (aspirina e clopidogrel) riduce
maggiormente gli eventi cardiovascolari rispetto alla sola aspirina.
La ticlopidina è tra le tienopiridine quella da più tempo in commercio; è usata con successo nei pazienti che non
tollerano l’aspirina.
Eparina
La terapia anticoagulante è un punto fondamentale nella terapia delle SCA: si esegue con l’eparina non frazionata
o l’eparina a basso peso molecolare. L’effetto anticoagulante dell'eparina non frazionata si esplica mediante il
potenziamento dell’attività dell’antitrombina (conseguente all’inattivazione del fattore IIa) e parzialmente
mediante l'inattivazione del fattore Xa. Il farmaco richiede il monitoraggio dell'effetto anticoagulante mediante la
determinazione del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT).
L'eparina a basso peso molecolare accelera l'azione di un enzima proteolitico che inattiva i fattori Xa, IXa, e IIa.
Questo farmaco offre il vantaggio di non dover monitorare l’effetto anticoagulante.
199 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Nitrati
La nitroglicerina è un vasodilatatore ed è tra i farmaci di prima scelta nel sospetto di una sindrome coronarica
acuta, soprattutto per ridurre o far cessare il dolore toracico. La vasodilatazione venosa che essa determina
comporta un aumento del sequestro (pooling) di sangue in periferia, e quindi una riduzione del ritorno venoso al
cuore e, in definitiva, del precarico. In accordo con la legge di Laplace, la diminuzione del diametro ventricolare
riduce la tensione (stress) parietale, e anche il consumo di O2, che allo stress parietale è direttamente correlato. La
nitroglicerina ha effetti modesti sul post-carico; diminuisce, però, la pressione arteriosa sistemica, ed anche con
questo meccanismo riduce il consumo di O2.
Beta-bloccanti
I beta-bloccanti antagonizzano gli effetti delle catecolamine sui recettori beta delle membrane cellulari.
L'inibizione dei recettori beta-1 riduce la contrattilità miocardica (effetto inotropo negativo), la frequenza di
scarica dell’impulso da parte del nodo del seno (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione dello
stimolo (effetto dromotropo negativo). Queste azioni consentono una riduzione del consumo di O2 da parte del
miocardio.
ACE-Inibitori
Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I in angiotensina II sono in grado di ridurre la mortalità nei
pazienti con SCA. L'inibizione dell'enzima di conversione ha come conseguenza una diminuita concentrazione
dell’angiotensina II, la quale è il più potente costrittore delle arteriole. Per effetto del farmaco cade il tono
arteriolare, cioè si riduce il post-carico, ovvero la pressione arteriosa, con conseguente riduzione del consumo di
ossigeno.
Calcio-antagonisti
I calcio-antagonisti non diidropiridinici (verapamil e diltiazem) possono essere utilizzati, in assenza di insufficienza
ventricolare sinistra, nei pazienti con angina instabile/STEMI che presentino ischemia ricorrente ed in cui è
controindicato l’uso dei beta-bloccanti.
Terapia fibrinolitica
I farmaci fibrinolitici trasformano il plasminogeno in plasmina, la quale degrada la fibrina e disgrega il trombo, con
conseguente ricanalizzazione dell’arteria coronarica occlusa. Il ripristino di un flusso normale varia in base alla
precocità del trattamento (inizio ideale entro 2 ore), alla risposta del paziente e al farmaco utilizzato.
Angioplastica primaria
Sebbene la trombolisi sia un trattamento semplice, rapido e consolidato, non sempre è pienamente efficace nel
ricanalizzare il vaso occluso, per cui si è diffusa l’angioplastica primaria, cioè la ricanalizzazione meccanica, con o
senza impianto di stent, del vaso responsabile dell’infarto nei pazienti con STEMI (vedi Capitolo 59). Numerose
ricerche hanno dimostrato che l’angioplastica primaria offre notevoli vantaggi rispetto alla trombolisi in termini di
eventi (mortalità, reinfarto, stroke, angina). Inoltre, maggiore è il rischio dei pazienti, maggiore è il beneficio
osservato.
200 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 26
DIAGNOSTICA STRUMENTALE NELL'IMA
Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi

DEFINIZIONE

L’Elettrocardiografia, l’Ecocardiografia, la Scintigrafia miocardica, la Coronarografia, la Tomografia


computerizzata, la Risonanza magnetica, La TC coronarica, etc possono mettere in luce diversi fenomeni
suggestivi o dimostrativi dell’ischemia. Vengono impiegati test volti a provocare un’ischemia miocardica, in
particolare il test ergometrico e l’eco-stress.

IL TEST DA SFORZO

E’ basato sulla registrazione dell’ECG prima a riposo e poi mentre il soggetto compie uno sforzo;
l’eventuale ischemia viene suggerita dalle modificazioni caratteristiche dell’ECG, associate o meno a
sintomi, che si verificano durante l’attività fisica. Questa indagine è in grado di identificare un’ischemia
miocardica assente a riposo e di stratificare il rischio in pazienti con angina stabile da sforzo.
Il test ergometrico viene effettuato di solito al cicloergometro o al treadmill (tappeto rotante). Il protocollo
più utilizzato per quest’ultimo test è quello di Bruce, che prevede un aumento di velocità e di inclinazione
del tappeto ogni tre minuti.
Lo scopo dello sforzo è quello di incrementare gradualmente la frequenza cardiaca fino a raggiungere la
frequenza massimale (220 - età del soggetto); in caso di test ergometrico effettuato dopo infarto
miocardico, tuttavia, viene solitamente utilizzato un protocollo sottomassimale (85% della frequenza
massima teorica). Un test da sforzo positivo identifica il paziente ad alto rischio e rappresenta
un’indicazione ad eseguire un esame coronarografico.
I parametri più importanti deducibili dal test ergometrico sono la massima capacità di esercizio, l’entità del
sottoslivellamento o del sopraslivellamento del tratto ST, il tempo di recupero delle alterazioni
elettrocardiografiche (tempo necessario affinché le alterazioni dell’ECG indotte dallo sforzo regrediscano),
il numero di derivazioni in cui compaiono le anomalie del tratto ST, la soglia a cui compare il dolore
anginoso e le aritmie che si manifestano durante l’esercizio.

L’esercizio fisico provoca una complessa serie di eventi:

 Aumenta il ritorno venoso al cuore destro per l’azione di pompa dei muscoli delle gambe e l’aumentata
pressione negativa intratoracica nell’inspirazione profonda, con conseguente aumento della portata
cardiaca).
 Aumenta la frequenza cardiaca.
 Aumenta la gittata sistolica.
 Aumenta sia la forza di contrazione miocardica (per l’aumento del ritorno venoso, cioè del precarico, in
accordo con la legge di Frank-Starling) che la contrattilità, per l’incremento delle catecolamine circolanti.
201 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’ischemia miocardica è dovuta ad uno squilibrio fra apporto e richiesta miocardica di ossigeno. Questa è
principalmente influenzata dalla frequenza cardiaca, dalla tensione di parete e dallo stato contrattile. In
presenza di stenosi coronariche, il flusso si mantiene costante almeno fino ad un certo grado di stenosi,
grazie al meccanismo di autoregolazione coronarica. In condizioni di riposo, il flusso coronarico si riduce
drasticamente solo quando la stenosi diventa molto serrata (> 90 %), mentre una stenosi del 75% non
riduce il flusso in condizioni basali. L’esercizio fisico provoca un incremento del consumo miocardico di
O2, e fa sì che il flusso coronarico divenga insufficiente a mantenere un normale metabolismo già in
presenza di una stenosi del 50%. Per tale motivo, lo sforzo può essere utilizzato per diagnosticare una
stenosi coronarica.

INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI AL TEST DA SFORZO

Il test da sforzo può essere indicato per motivi diagnostici, prognostico-valutativi o di screening.

 Indicazioni Diagnostiche:

- cardiopatia ischemica sospetta in base ai dati clinico-anamnestici;


- pazienti con angina instabile a basso rischio (12-24 ore dall’ultimo sintomo);
- pazienti con angina instabile a rischio intermedio (2-3 giorni dall’ultimo sintomo);
- diagnosi differenziale in soggetti con sintomi da sforzo quali sincope, palpitazioni o vertigini;
- aritmie ricorrenti durante lo sforzo;
- diagnosi di ipertensione precoce borderline.

 Indicazioni prognostico-valutative:
 dopo infarto miocardico acuto (alla dimissione del paziente colpito da infarto, per la stratificazione del
rischio);
 angina cronica stabile dopo rivascolarizzazione miocardica (angioplastica o by-pass aortocoronarico);
 nell’insufficienza cardiaca cronica;
 nella valutazione dell’efficacia della terapia antianginosa ed antiaritmica.
 Indicazioni per screening:
 follow-up nei pazienti con cardiopatia ischemica nota;
 maschi oltre i 40 anni con attività lavorativa ad elevata responsabilità sociale, oppure con due o più fattori
di rischio coronarico maggiore, o che intraprendono attività fisica intensa;
 ipertesi asintomatici che intraprendono attività fisica intensa;
 per scopi assicurativi.

Sono controindicazioni all’esecuzione di un test ergometrico:

 L’infarto miocardico acuto.


 La miocardite o pericardite acuta.
 L’angina instabile.
 Le tachicardie ventricolari o atriali osservate subito prima dell’esecuzione del test.
 Il blocco AV di secondo o terzo grado.
 La stenosi severa, già nota, del tronco comune della coronaria sinistra.
 I tumori cardiaci.
 Lo scompenso cardiaco acuto.
 La sospetta embolia polmonare.
 L’ anemia severa, le infezioni gravi, l’ipertiroidismo.
 I disturbi importanti della deambulazione.
202 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Controindicazioni relative sono: la stenosi aortica (se di grado severo il test è controindicato, se di grado
moderato deve essere eseguito con cautela); l’ipertensione grave (il test può essere eseguito se
l’ipertensione è controllabile farmacologicamente); l’ostruzione rilevante del tratto di efflusso del
ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica nelle sue varie forme); il marcato sottoslivellamento del
tratto ST già in condizioni basali; gli squilibri elettrolitici.

CRITERI DI INTERRUZIONE DEL TEST DA SFORZO

Il test da sforzo deve essere interrotto quando si verifica:

 Angina ingravescente.
 Associazione del dolore con alterazioni significative del tratto ST.
 Aritmie minacciose (extrasistoli ventricolari con carattere di ripetitività (coppie) o tachicardia
ventricolare).
 Fibrillazione o flutter atriale.
 Blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado.
 Riduzione della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa nonostante la prosecuzione dello sforzo (in
particolare repentina diminuzione della pressione sistolica > 10 mmHg).
 Dolore muscolo-scheletrico importante.
 Sintomi da bassa gittata (pallore, vasocostrizione e sudorazione).
 Estremo aumento della pressione arteriosa .
 Raggiungimento della frequenza cardiaca massimale (220 meno l’età).

INTERPRETAZIONE DEL TEST DA SFORZO

Il test ergometrico viene interpretato in relazione a parametri clinici e strumentali. I parametri clinici sono i
sintomi (dolore toracico, dispnea, sincope) e i segni (pallore, cianosi, terzo tono, rantoli) dell’ischemia
miocardica da sforzo. Altri parametri importanti sono la capacità funzionale, cioè la capacità massima di
compiere lavoro muscolare, la risposta cronotropa, espressa dall’incremento della frequenza cardiaca
correlato allo sforzo, la risposta pressoria, e il doppio prodotto, rappresentato dal prodotto della
frequenza cardiaca per la pressione arteriosa sistolica.
L’analisi dell’elettrocardiogramma si concentra sulle alterazioni del tratto ST. Sono indicative di ischemia le
seguenti alterazioni:

 Il sottoslivellamento del tratto ST. Indica positività della prova da sforzo un sottoslivellamento orizzontale
del tratto ST > 1mm (0.1 mV) in almeno tre complessi consecutivi (Figura 1B).

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203 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il sottoslivellamento discendente (Figura 1C)

è un indicatore più netto di positività, mentre il sottoslivellamento ascendente (Figura 1D), viene considerato
diagnostico di ischemia in caso di depressione persistente a 80 msec.

 Il sopraslivellamento del tratto ST è diagnostico se > 1 mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre
complessi consecutivi (Figura 1E).

 L’ECO-STRESS
 L’ecocardiografia da stress è una metodica alternativa al tradizionale ECG da sforzo. Il paragone fra la
cinetica ventricolare in condizioni basali e quella osservata durante stress può suggerire
la presenza di una stenosi coronarica, se lo stress si accompagna a un peggioramento contrattile. Lo
stress può essere fisico (in genere effettuato al cicloergometro) o farmacologico; in questo caso è
possibile impiegare farmaci inotropi come la dobutamina, che aumenta il consumo miocardico di
ossigeno attraverso l’incremento della frequenza e della contrattilità, o farmaci vasodilatatori come il
dipiridamolo e l’adenosina, che aumentano la perfusione dei tessuti irrorati da coronarie sane e
riducono la perfusione dei territori irrorati da coronarie stenotiche: un fenomeno definito “furto
coronarico”.
L’eco-stress trova indicazione soprattutto nei pazienti con alterazioni dell’ECG a riposo, (blocco di
branca sinistra, sottoslivellamento del tratto ST>1mm, ritmo da pacemaker o sindrome di Wolff-
Parkinson-White) e in quelli con ECG da sforzo non dirimente.
208 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
LA TOMOGRAFIA ASSIALE COMPUTERIZZATA MULTISTRATO
È una metodica non invasiva per la diagnosi di coronaropatia. Un’applicazione emergente della TC è la
valutazione del paziente con dolore toracico, in particolare nella diagnosi differenziale tra sindrome
coronarica acuta, dissezione aortica e trombo-embolia polmonare, nonché nella distinzione di queste dalle
malattie pleuriche o polmonari. La TC è in grado di identificare le placche coronariche, specialmente quelle
calcifiche, e di valutarne la morfologia; in caso di occlusioni coronariche croniche, può dare informazioni
sulla lunghezza dell’occlusione, e sulla presenza di calcificazioni.

CARATTERISTICHE TECNICHE
La “sfida” nella TC è rappresentata essenzialmente dalle dimensioni delle arterie coronarie (2-4 mm), dal
loro decorso complesso, tortuoso, e soprattutto, dal loro continuo movimento. Requisiti fondamentali ed
imprescindibili di una metodica diagnostica non invasiva nello studio del circolo coronarico sono l’elevata
risoluzione spaziale e temporale, l’elevata velocità di esecuzione, tale da consentire l’acquisizione dei dati
durante una singola apnea e ridurre così gli artefatti da movimenti respiratori, e la corretta sincronizzazione
delle immagini ricostruite con il ciclo cardiaco. Nel caso di frequenze cardiache superiori a 65 battiti per
minuto, è possibile impiegare algoritmi multi-segmentali, ottenendo i dati necessari per la ricostruzione
delle immagini da cicli cardiaci contigui e non da un singolo ciclo.
E’ consigliabile, pertanto, studiare pazienti con frequenza cardiaca <65, impiegando in caso di frequenze
superiori ed in assenza di controindicazioni farmaci ß-bloccanti, somministrabili per os 45-60 minuti prima
dell’esame TC o per via endovenosa poco prima dell’acquisizione TC.

LIMITI ATTUALI

 Le aritmie, la capacità di apnea del paziente ed il tempo necessario per il post-processing e


l’adeguata valutazione delle immagini costituiscono, sino ad ora, le principali limitazioni della TC
coronarica.
A tali limitazioni vanno aggiunte quelle che riguardano la valutazione del lume coronarico in caso di
marcata ateromasia calcifica, e la valutazione della pervietà/stenosi dei bypass e delle loro
anastomosi distali in caso di elevato numero di clip chirurgiche lungo il decorso dei graft arteriosi; la
valutazione del lume degli stent è invece legata in parte alle loro dimensioni: è difficile analizzare
stent con diametro inferiore ai 3 mm, come accade per la maggior parte di quelli impiantati in
segmenti coronarici non prossimali.

 In attesa delle imminenti innovazioni, è possibile ipotizzare per la TC un ruolo diagnostico concreto
come:
- alternativa all’angiografia in pazienti con precedente stress-test equivoco;
- alternativa a stress-test o all’angiografia in pazienti con rischio basso-intermedio di malattia
ischemica;
- follow-up in individui con sintomatologia atipica e precedentemente sottoposti ad intervento
chirurgico di rivascolarizzazione miocardica per lo studio dei by-pass;
- definizione delle anomalie coronariche.
Lo studio dei by-pass aortocoronarici rappresenta attualmente la più indiscussa applicazione
della tomografia assiale computerizzata cardiaca.

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210 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 27
CARDIOMIOPATIE: DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini

INTRODUZIONE

1) Le Cardiomiopatie (CMP) sono Malattie del Muscolo Cardiaco “associate a disfunzione cardiaca”
sia sistolica che diastolica. Le CMP sono sottoclassificate in 4 tipi : la CMP dilatativa (CMPD), la
CMP ipertrofica (CMPI), la CMP restrittiva (CMPR) e la CMP/displasia aritmogena del ventricolo
destro (CMP/DAVD).
La sottoclassificazione delle CMP viene operata sulla base di quadri morfo-funzionali di semplice
riconoscimento (in tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’indagine ecocardiografica), quali
la dilatazione/ipocinesia ventricolare sinistra (CMPD), l’ipertrofia ventricolare sinistra (CMPI), la
severa compromissione di tipo “restrittivo” del riempimento diastolico (CMPR), il prevalente
coinvolgimento del ventricolo destro associato a spiccata aritmogenicità (CM/DAVD).

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211 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
Capitolo 28
CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA OSTRUTTIVA
Sandro Betocchi, Maria Angela Losi, Massimo Chiariello
DEFINIZIONE
 La cardiomiopatia ipertrofica è definita come ipertrofia ventricolare sinistra non spiegata da cause
comuni d'ipertrofia, come l'ipertensione arteriosa o alcune valvulopatie (ad esempio, stenosi
aortica). La definizione si basa, clinicamente, sul rilievo ecocardiografico di aumentato spessore
parietale del ventricolo sinistro: ciò non significa necessariamente che ci sia ipertrofia (aumento
della massa muscolare da prevalente aumento delle dimensioni dei miocardiociti), perché
situazioni in cui c'è, ad esempio, accumulo intra- o extracellulare di sostanze (come nell'amiloidosi,
in alcune glicogenosi etc.) ricadono, impropriamente, in questa definizione. Con questa definizione,
la cardiomiopatia ipertrofica è malattia relativamente frequente, con una prevalenza di 1/500, che
la rende la più comune cardiopatia su base genetica.
213 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

EZIOLOGIA E PATOGENESI

 La cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva è una malattia autosomica dominante a penetranza


incompleta. Le forme tipiche, a cui andrebbe riservato il nome di cardiomiopatia ipertrofica, sono
dovute a mutazioni di geni codificanti per proteine sarcomeriche. I geni più frequentemente
interessati sono quelli delle catene pesanti della beta-Miosina, della proteina C legante la Miosina, e
della Troponina T, ma tutti i geni codificanti per proteine sarcomeriche (contrattili, modulatrici o
strutturali) possono determinare la malattia.
La penetranza è incompleta, cioè possono esserci individui genotipo+ e fenotipo-. Individui
appartenenti alla stessa famiglia (e dunque portatori della stessa mutazione) possono avere fenotipi
molto diversi per morfologia del ventricolo sinistro e per quadri clinici. L'incorporazione di una
proteina mutata nel sarcomero determina una ridotta efficienza contrattile; aumenta lo stress
sarcomerico con conseguente attivazione del signaling responsivo allo stress e sintesi di fattori
trofici. I fattori trofici agiscono sui miocardiociti, determinandone ipertrofia, sui fibroblasti
inducendo fibrosi interstiziale, e sulle cellule muscolari lisce della media delle arteriole coronariche,
provocandone l'iperplasia. Questa ipotesi spiega le tre fondamentali caratteristiche morfologiche
della cardiomiopatia ipertrofica: ipertrofia e malallineamento (disarray) dei cardiomiociti, fibrosi
interstiziale ed ispessimento della media delle arteriole.
FISIOPATOLOGIA
 Le tre principali caratteristiche fisiopatologiche della cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva sono la
disfunzione diastolica, l'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro e l'ischemia.
La disfunzione diastolica dipende da alterata affinità per il Ca++ delle proteine mutate, e da
rallentato re-uptake del Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico. Ne deriva un incompleto
rilasciamento ed un'aumentata rigidità del muscolo. Un'altra causa di disfunzione diastolica è
secondaria all'ipertrofia ed alla fibrosi interstiziale, che determinano una ridotta distensibilità del
ventricolo sinistro (cioè è richiesta una maggiore pressione atriale per riempirlo).
L'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro. Il setto ipertrofico sporge nel tratto
d'efflusso del ventricolo sinistro, e lo restringe progressivamente durante la sistole. Il sangue è
costretto ad accelerare fino al punto in cui si genera l'effetto Venturi, cioè lo sviluppo di forze
centripete che attirano il lembo della mitrale nel tratto d'efflusso. Ciò provoca un'ulteriore
riduzione della sezione del tratto di efflusso e lo sviluppo di ostruzione (Figura 1), ovviamente, ciò
provoca anche insufficienza mitralica. In conseguenza del meccanismo di generazione, l'ostruzione
al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro è meso-sistolica e dinamica (cioè l'entità dell'ostruzione
varia a seconda del volume ventricolare e dello stato inotropo).
Segni d'ischemia, anche in assenza di stenosi coronariche epicardiche sono conseguenti
dell'ispessimento della media arteriolare, dell'ipertrofia (a causa dell'aumentato spessore non
seguito da analogo aumento della densità capillare), e dell'aumento della pressione telediastolica
del ventricolo sinistro (che determina un aumento delle resistenze coronariche estrinseche in
diastole).

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214 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

QUADRO CLINICO

La cardiomiopatia ipertrofica ha un decorso clinico benigno nella maggioranza dei pazienti. I pazienti
sintomatici lamentano soprattutto dispnea (dovuta a disfunzione diastolica e/o ad ostruzione al tratto
d'efflusso), palpitazioni, angina pectoris (anche in assenza di malattia coronarica, vedi sopra), e sincope (in
circa 1/3 dei pazienti).
La caratteristica clinica più temuta di questa malattia è la morte improvvisa. Si definisce come tale la morte
entro 24 ore dall'esordio di sintomi, ed è tipicamente dovuta a fibrillazione ventricolare. I bambini sono
maggiormente interessati, con un'incidenza più che doppia di quella degli adulti.

La tachicardia ventricolare sostenuta è considerata equivalente di morte improvvisa abortita e non un


fattore di rischio.
Il paziente adulto con cardiomiopatia ipertrofica ha un rischio 6 volte maggiore rispetto alla popolazione
generale di sviluppare fibrillazione atriale parossistica o permanente, ed infatti circa 1/3 dei pazienti soffre
di questa aritmia.

DIAGNOSI

La cardiomiopatia ipertrofica è generalmente sospettata per la presenza di un soffio cardiaco o di anomalie


elettrocardiografiche. L’ostacolo all’eiezione ventricolare sinistra dipendente dall’ipertrofia settale genera
215 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

un soffio sistolico eiettivo, che si ascolta soprattutto al mesocardio, lungo la margino-sternale sinistra. Il
soffio è tanto più intenso quanto più il contenuto di sangue nel ventricolo si riduce, permettendo di
diagnosticare all’ascoltazione del cuore la cardiomiopatia ipertrofica e di distinguerla dalla stenosi valvolare
aortica. Facendo eseguire al soggetto la manovra di Valsalva, il soffio della stenosi valvolare aortica si
riduce d’intensità mentre quello della cardiomiopatia ipertrofica aumenta. La manovra di Valsalva
(espirazione forzata a glottide chiusa), riduce la pressione negativa endotoracica, cioè la forza
“aspirativa” (vis a fronte) che favorisce il ritorno venoso: diminuisce quindi il riempimento diastolico dei
ventricoli e con esso la gittata sistolica. La riduzione del volume ventricolare fa sì che nella cardiomiopatia
ipertrofica il soffio aumenti di intensità con la manovra di Valsalva, mentre diminuisce nella stenosi aortica,
dove l’intensità del soffio è proporzionale alla gittata sistolica, cioè alla quantità di sangue che attraversa la
valvola.
L’ECG è anormale nella quasi totalità dei casi, anche se le anomalie presenti non sono patognomoniche e
possono essere diverse: più comunemente si osserva ipertrofia ventricolare sinistra, onde Q anomale e
segni di ischemia ventricolare.
L'ecocardiogramma è esame fondamentale, che mostra ipertrofia generalmente asimmetrica, coinvolgente
il setto interventricolare (Figura 2).

La distribuzione dell’ipertrofia è eterogenea e in una piccola percentuale di pazienti è localizzata al solo


apice ventricolare. Una stima dell'ipertrofia è data dallo spessore parietale massimo, particolarmente
rilevante poiché quando è particolarmente aumentato (>= 30 mm) rappresenta un fattore di rischio per
morte improvvisa. In circa 1/3 dei pazienti è presente ostruzione al tratto di efflusso del ventricolo sinistro
a riposo.
216 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Vista l'eziologia di questa malattia, dopo aver identificato un probando (primo paziente identificato in una
famiglia) si deve procedere ad uno screening familiare con ECG, ecocardiogramma e, se disponibile, analisi
genetica.

TRATTAMENTO

Ai pazienti con almeno 2 fattori di rischio per morte improvvisa va consigliato l'impianto di un defibrillatore
(ICD). I pazienti con un solo fattore di rischio costituiscono una zona grigia, e l'impianto di un ICD va
valutato caso per caso.
I pazienti senza fattori di rischio per morte improvvisa ed asintomatici non richiedono trattamento. I
pazienti sintomatici vengono posti in terapia con beta-bloccanti e/o Ca++-antagonisti non diidropiridinici
(verapamil o diltiazem o gallopamil). La terapia ha la finalità di ridurre i sintomi, ma non ha effetto sulla
prognosi.
Se la terapia medica non è efficace nella riduzione dell'ostruzione, questa può avvalersi di intervento
chirurgico di miotomia-miectomia (asportazione di un cuneo di setto sottoaortico per allargare in tratto
d'efflusso), o dell'ablazione alcoolica (iniezione di etanolo in uno o più rami perforanti settali in modo da
indurre infarto chimico della porzione alta del setto, sempre allo scopo di allargare in tratto d'efflusso).
I pazienti che hanno fibrillazione atriale persistente o cronica debbono essere riportati in ritmo sinusale. Il
ripristino del ritmo sinusale si ottiene mediante cardioversione elettrica o farmacologica.
217 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 29
CARDIOMIOPATIA DILATATIVA
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda

DEFINIZIONE

La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo Cardiaco caratterizzata da
dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme
alle forme ipertrofica, restrittiva ed alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro
sottotipi principali di Cardiomiopatia.

EPIDEMIOLOGIA

La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso ogni 2.500 abitanti e
l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia, la sua reale frequenza è certamente
superiore, considerando che la maggior parte dei soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate”
della malattia (dilatazione e disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non
compaiono i primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della conduzione.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è rappresentato dalla dilatazione


di una od entrambe le camere ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi avanzate della malattia,
sono dilatati. La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza contrattile del
miocardio comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di trombi endocavitari,
documentabili prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di sinistra. La dilatazione delle camere
cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente concorrono anche a determinare l’allargamento
degli osti atrio-ventricolari e lo stiramento delle corde tendinee da diastasi dei muscoli papillari, con
conseguente insufficienza valvolare funzionale mitralica e/o tricuspidale.
Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di stenosi “critiche” a
carico dei grossi vasi epicardici.
Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali sono: degenerazione miocellulare e
diminuzione del numero delle miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed interstiziale,
infiltrati flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio.
218 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

EZIOPATOGENESI

Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare con precisione la
causa. Le forme familiari di CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). L'analisi del tipo di
trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di genetica molecolare ha importanza
non solo conoscitiva, ma anche clinica perché le differenti forme possono non solo avere differente quadro
clinico, ma anche differente prognosi e differente rischio di malattia per i familiari. Fattori infettivi/
immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel determinismo della CMPD. I virus possono indurre
un effetto citolitico diretto correlato alla loro virulenza oppure determinare l'instaurarsi di una reazione
autoimmune secondaria a “mimetismo molecolare" tra epitopi virali e costituenti normali del miocardio ad
essi simili.

QUADRO CLINICO

La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi l’esordio avviene tra i
20 ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso maschile, con un rapporto maschi/femmine di
circa 3:1.
Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso cardiaco (oltre 50% dei
casi scompenso sinistro) od aritmie ventricolari o sopraventricolari.
Le aritmie, il dolore toracico, per lo più da sforzo e talore con caratteristiche anginose sono un’evenienza
frequente nella CMPD e costituiscono le prime manifestazioni cliniche, solo raramente sincope e morte
improvvisa rappresentano l'esordio della malattia.
Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione ventricolare e marcata
cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da un episodio embolico sistemico o polmonare
Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi scoperti fortuitamente in
occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di un soffio cardiaco) o di un’indagine
strumentale (ad esempio, per il riscontro di blocco di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di
cardiomegalia alla radiografia del torace) effettuate per altri motivi.
220 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

DIAGNOSI

Elettrocardiogramma Si riscontrano allargamenti del QRS oltre i 12 msec, comuni i segni di blocco di
branca Sx (ViLLelM), fibrillazione atriale. Anche onde Q di “pseudo-necrosi” in sede anteriore, in
associazione con estesa fibrosi di questa regione. Anche le alterazioni della ripolarizzazione sono di
frequente riscontro.
Radiogramma toracico La cardiomegalia (rapporto cardio-toracico > 0.5) ed i segni di redistribuzione a
carico del circolo polmonare( congestione interstiziale ed alveolare) sono di comune riscontro.
Ecocardiogramma La CMPD è classicamente caratterizzata, da un punto di vista ecocardiografico, dalla
presenza di una dilatazione globale del ventricolo sinistro associata a diffuse alterazioni della cinetica
parietale con ridotta funzione di pompa (frazione di eiezione < 45%). Nei casi in fase avanzata, il ventricolo
sinistro, oltre che essere di volume notevolmente aumentato, assume una geometria caratterizzata da una
morfologia più globosa. L’ecocardiogramma è anche in grado di documentare eventuali asincronie nella
contrazione inter- ed intra-ventricolare (conseguenti a disturbi di conduzione, in particolare il blocco di
branca sinistra), che possono contribuire a peggiorare la funzione di pompa cardiaca.
Un’insufficienza mitralica “funzionale”, cioè in assenza di alterazioni strutturali dei lembi, è un reperto
frequente nella CMPD, e l’ecocardiogramma rappresenta l’indagine di elezione per confermarne la
presenza e quantificarne la rilevanza emodinamica.
Metodiche invasive La coronarografia rimane un’indagine di fondamentale importanza per la diagnosi
differenziale tra CMPD e cardiopatia ischemica in fase dilatativo-ipocinetica. E’ indicata soprattutto nei
pazienti di sesso maschile ed età > 35 anni, con uno o più fattori di rischio coronarico e/o indicatori clinico-
strumentali suggestivi di coronaropatia (angina, alterazioni segmentarie della cinetica ventricolare
all’ecocardiogramma, ischemia miocardica alla scintigrafia miocardica od all’ecocardiogramma da stress). Il
cateterismo cardiaco consente uno studio emodinamico dettagliato con la misurazione delle pressioni di
riempimento ventricolare e della portata cardiaca, e mantiene un ruolo importante nella valutazione della
gravità e nella stratificazione prognostica dei pazienti con CMPD.

DIAGNOSI DI CMPD FAMILIARE

Lo studio di una famiglia con CMPD si basa su un’accurata costruzione dell’albero genealogico e della storia
familiare (volta ad individuare il possibile pattern di trasmissione della malattia) e sullo screening clinico-
strumentale (ECG, ecocardiogramma) di tutti i parenti di primo grado (genitori, fratelli/sorelle, figli) del
probando (primo individuo affetto di una famiglia che giunge all’osservazione). La valutazione clinico-
strumentale andrebbe ripetuta periodicamente non solo nei familiari affetti anche in quelli sani per
escludere un’evoluzione tardiva della malattia dovuta alla bassa penetranza.
La CMPD viene definita familiare: 1) in presenza di due o più individui affetti in una famiglia o 2) in presenza
di un parente di primo grado di un paziente con CMPD che abbia avuto una morte improvvisa,
documentata ed inaspettata, ad una età inferiore di 35 anni.

PROGNOSI

La prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità, risultando in linea di massima tanto
peggiore quanto maggiori sono le alterazioni morfo-funzionali a carico del ventricolo sinistro (marcata
dilatazione, bassa frazione di eiezione) e quanto più severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Una
diagnosi precoce ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come gli ACE-inibitori ed i
betabloccanti possono significativamente contribuire a modificare favorevolmente la storia naturale dei
pazienti con CMPD (sopravvivenza libera da trapianto cardiaco del 60% a 10 anni dalla diagnosi).
221 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

CENNI DI TERAPIA

Gli obiettivi principali del trattamento consistono nel limitare la progressione dello scompenso cardiaco e
nel controllare le aritmie. Tra le misure generali sono incluse l’educazione del paziente, la restrizione
dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con limitazione dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e
l’esecuzione di un moderato esercizio fisico aerobico.
Terapia medica La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente impiegati nel
trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco. Fra questi, i più importanti sono gli
ACE-inibitori gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o
dell’ansa, gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone.

I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il fenomeno della ritenzione
idro-salina, modulando le dosi in funzione del grado di congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti
recettoriali dell’aldosterone sono indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo.
La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con fibrillazione atriale e in quelli
in ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante la terapia con antagonisti neuro-ormonali e
diuretici.
Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via endovenosa,
particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto predominante beta1-agonista) o
gli inibitori delle fosfodiesterasi che sono allo stesso tempo inotropi e vasodilatatori.
Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene raccomandato nei
pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con trombosi endocavitaria e/o pregressa
embolia, e anche nei soggetti con marcata dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%. Terapia
meccanica L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con CMPD, sia per quanto riguarda
la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile) che per il ripristino della sincronia della
contrazione cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker biventricolare), trova
indicazione in selezionati sottogruppi di pazienti.
Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia Sono state proposte procedure chirurgiche
complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto” od a questo alternative. In
pazienti selezionati, è possibile limitare la progressione della malattia correggendo l’insufficienza mitralica
mediante valvuloanuloplastica.
Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in attesa di trapianto, giunti
allo stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono
temporaneamente la funzione di pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza
ventricolare meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione tissutale
adeguata sostituendo la funzione di pompa del cuore con dispositivi meccanici di vario tipo. Sono in corso
di valutazione nuove prospettive per un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa
alla sostituzione cardiaca.
Trapianto cardiaco La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile rimane allo stato
attuale la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di
terapia medica (vedi Capitolo 66). La sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata
rispettivamente intorno all’80, 68 e 56%.
223 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 30
CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVA

DEFINIZIONE

Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del muscolo cardiaco
accomunate dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado, entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern
di riempimento diastolico di tipo restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti
incostantemente aumentate di spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta. L’espressione
“pattern restrittivo” indica che durante la diastole vi è un ostacolo al riempimento del ventricolo, il quale
non riesce ad accogliere il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la
pressione diastolica ventricolare aumenta e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta
ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie dell’atrio, nei capillari, ecc.
Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in cui il pattern
restrittivo costituisce l'elemento caratterizzante il quadro fisiopatologico. Le CMPR vanno in diagnosi
differenziale con le pericarditi costrittive (della diagnosi differenziale si parlerà dopo)

EZIOPATOGENESI ED ANATOMIA PATOLOGICA

Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la cosiddetta CMPR idiopatica
(talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico dominante), e la fibrosi endomiocardica. Le forme
secondarie comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e quelle da accumulo
(emocromatosi, ecc).
Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Il reperto macroscopico è quello di un
cuore con atri marcatamente dilatati e spesso sede di trombi, mentre i ventricoli appaiono normali

QUADRO CLINICO

Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da sintomi e segni di
scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia, dispnea da sforzo, dispnea parossistica
notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite. La fibrillazione atriale è un evento frequente nei
224 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

soggetti con forme idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare
episodi tromboembolici. Nonostante la bassa frequenza di aritmie minacciose (BAV di III grado o
tachicardia ventricolare), la morte improvvisa rappresenta comunque un evento possibile.
I valori di pressione arteriosa sono normali o ridotti con tendenza all'ipotensione ortostatica in una
significativa percentuale di pazienti. E' spesso presente tachicardia a riposo. Il I ed il II tono sono in genere
normali, ma si ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E' possibile rilevare un soffio olosistolico da rigurgito
mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il fegato si presenta aumentato di volume e le
vene giugulari sono distese.

DATI DI LABORATORIO E STRUMENTALI

In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei parametri ematochimici.
Il riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle
forme da amiloidosi possono essere presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della
VES e della PCR, ipofibrinogenemia, iposideremia, monoclonalità all’immunoelettroforesi proteica o segni
di compromissione della funzione renale ed epatica.
La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca, segni
di congestione interstiziale od alveolare e versamento pleurico.
ECG si riscontrano bassi voltaggi dei complessi QRS nelle derivazioni periferiche, le onde Q di
“pseudonecrosi” nelle derivazioni antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST; sono frequentemente
descritti anche segni di ingrandimento atriale (P polmonare o P mitralica), di ipertrofia ventricolare sinistra
ed aritmie di vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non sembrano
particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso documentabili BAV e blocchi
intra-ventricolari.

L’ecocardiogramma è l’indagine diagnostica cardine, mediante la quale è possibile evidenziare un


ventricolo sinistro non ingrandito, con spessori parietali normali o solo lievemente aumentati e con
funzione di pompa normale o quasi. L'ispessimento e l’aspetto granulare delle pareti del ventricolo
sinistro ed in particolare del setto interventricolare ("a vetro smerigliato") è caratteristico delle forme
amiloidosiche. Il ventricolo destro può presentarsi dilatato, specie nei casi con ipertensione polmonare. E’
pressoché costante una dilatazione biatriale. Le valvole atrio-ventricolari appaiono frequentemente
ispessite, e spesso si associa un rigurgito mitralico e/o tricuspidale. Lo studio del
225 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riempimento ventricolare sinistro mediante analisi Doppler del flusso a livello della valvola mitrale
documenta un pattern di tipo “restrittivo” (ECO Figura45).

L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in modo più accurato l’eventuale presenza
di trombi endocavitari.
In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il segno della radice quadrata:
nella curva della pressione ventricolare si osserva una ripida discesa della pressione ventricolare all’inizio
della diastole seguita da un brusco incremento e da un plateau in protodiastole. La pressione sistolica e la
pressione di riempimento ventricolare destro possono essere elevate. Le pressioni di riempimento nelle
sezioni di sinistra sono usualmente maggiori di 5 mmHg rispetto alle sezioni di destra, e la pressione
capillare polmonare (“pressione di incuneamento”) è in genere elevata.
La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica, immunoistichimica ed
ultrastrutturale delle diverse CMPR.
Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia cellulare e fibrosi
interstiziale in assenza, tranne che per quel che riguarda la sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari.
La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo, che conferisce al
tessuto una tipica birifrangenza all'esame con luce polarizzata. L'indagine immunoistochimica consente di
differenziare i vari tipi di amiloide (catene leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina,
lisozima, beta2 microglobulina, fattori natriuretici).
La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno frequenti di CMPR da
accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è facilmente evidenziabile con la colorazione di
Pearls; nella sindrome di Löffler, la biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione
eosinofila dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la presenza di ampie
deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano l’endocardio, il subendocardio ed il
miocardio.

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con problemi di diagnosi
differenziale difficili da risolvere. Una storia di pericardite acuta, pregressa infezione tubercolare, trauma
toracico, intervento cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare verso la diagnosi di
pericardite costrittiva. Il rilievo di una pressione telediastolica del ventricolo sinistro inferiore di almeno 5
mmHg rispetto alla pressione telediastolica del ventricolo destro, di una pressione sistolica del ventricolo
destro < 50 mmHg ed di un rapporto pressione telediastolica/pressione sistolica del ventricolo destro
>0.33 orienta verso una pericardite costrittiva.
La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire informazioni più complete
su eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della parete miocardica.
226 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

CENNI DI TERAPIA

In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una terapia sintomatica della
congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei diuretici deve essere stabilito
con cautela, per evitare una sindrome da bassa portata conseguente ad eccessiva riduzione del precarico.
Nei pazienti affetti da amiloidosi cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti in quanto
questi farmaci possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici.
In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché l’assenza del
contributo atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale peggioramento della disfunzione
diastolica. A questo scopo, sono indicati sia la cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante
l’impiego di agenti antiaritmici. In casi di difetti di conduzione atrio-ventricolare di grado avanzato può
rendersi necessario l’impianto di un pace-maker.
Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio tromboembolico, in particolare
in quelli con riscontro ecocardiografico di trombi endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi
ricorrenti di fibrillazione atriale parossistica o fibrillazione atriale cronica.
Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con trattamenti
farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta l’unica valida opzione
terapeutica.

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227 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 31
CARDIOMIOPATIA/DISPLASIA ARITMOGENA DEL VENTRICOLO DESTRO

DEFINIZIONE
La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è una malattia caratterizzata, dal punto di vista
morfologico, da una sostituzione fibro-adiposa di tratti più o meno estesi del ventricolo destro (Figura 1).
Le alterazioni anatomiche sono responsabili di modificazioni morfofunzionali delle pareti ventricolari,
riconoscibili mediante le tecniche di imaging (Figura 2), e fungono da substrato per l’instaurarsi di aritmie
da rientro (Figura 3). La malattia è di origine genetica, nella maggior parte dei casi con trasmissione
autosomica dominante. L’espressione clinica può essere diversa da soggetto a soggetto, sia per quanto
riguarda le modificazioni morfo-funzionali cardiache che per il grado di instabilità elettrica, anche in
pazienti portatori di un’identica mutazione.

Figura 5 Episodi di tachicardia ventricolare registrati durante un ECG dinamico (Holter) delle 24 ore.

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229 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
QUADRO CLINICO
La presenza, in giovani adulti, di aritmie ventricolari con morfologia tipo blocco di branca sinistra
(ViLLelM), associate ad alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro, soprattutto delle zone che
definiscono il cosiddetto “triangolo della displasia” (la regione sottotricuspidale, la punta e la regione
dell’infundibolo) caratterizzano il quadro clinico e rendono possibile la diagnosi. Prevalgano in genere le
forme di malattia con estensione lieve, e raramente il processo di sostituzione fibro-adiposa è così diffuso
da provocare importante cardiomegalia o severa riduzione della funzione di pompa. Il fatto che venga
interessato soprattutto il ventricolo destro spiega perché i pazienti affetti siano capaci, nella maggior parte
dei casi, di ottime prestazioni funzionali; molti di essi, anzi, svolgono attività sportiva e spesso gli eventi
aritmici maggiori si avverano proprio durante una intensa attività fisica. Non è raro, infatti, che la morte
improvvisa sia la prima manifestazione clinica nei giovani pazienti.

DIAGNOSI
La presenza di aritmie ventricolari, anamnesi familiare positiva per morti precoci ed inattese o episodi
sincopali, sono ottime basi su cui impostare una ipotesi diagnostica. Le metodiche di imaging
(ecocardiogramma, risonanza magnetica cardiaca ed angiografia) sono le più valide per la definizione
diagnostica delle alterazioni morfo-funzionali delle pareti ventricolari; l’elettrocardiogramma, l’esame
Holter delle 24 ore e l’elettrocardiogramma ad alta amplificazione, assieme allo studio elettrofisiologico e
alla ricostruzione della mappa elettroanatomica ventricolare destra, sono utili soprattutto per la
stratificazione del rischio aritmico.

Elettrocardiogramma
L’ECG è normale in circa il 20% dei soggetti con diagnosi clinica di cardiomiopatia aritmogena; in questi è
generalmente presente una scarsa sostituzione fibro-adiposa. La maggior parte dei pazienti, invece,
presentano onde T negative nelle precordiali destre, piccole deflessioni nel tratto ST o nell’onda T che
esprimono la depolarizzazione estremamente ritardata di alcune zone del ventricolo destro.
Extrasistoli ventricolari o tachicardia ventricolare con morfologia tipo blocco di branca sinistra sono
molto comuni. La morfologia dei complessi ectopici somiglia a quella del blocco di branca sinistra poiché
l’impulso ectopico genera un’attivazione non simultanea dei ventricoli: dapprima si depolarizza il
ventricolo destro, sede in cui l’impulso nasce, e poi il processo passa al ventricolo sinistro; questa sequenza
di diffusione dell’impulso nei ventricoli è identica a quella che si realizza nel blocco di branca sinistra. In
quest’ultimo caso, però, il meccanismo da cui essa dipende è l’incapacità della branca sinistra a condurre
l’impulso, per cui il processo di depolarizzazione si realizza prima nel ventricolo destro, la cui branca è
integra, e solo tardivamente il fronte d’onda si trasmette anche al ventricolo sinistro.
All’elettrocardiogramma amplificato si registrano potenziali tardivi nella quasi totalità dei pazienti che
presentano forme severe di cardiomiopatia aritmogena, nel 70-80 % dei pazienti con forme moderate e in
poco più del 50% dei pazienti con forme lievi.
Il test ergometrico viene utilizzato non tanto per misurare la capacità funzionale, quanto per osservare il
comportamento delle aritmie e la loro eventuale scomparsa o insorgenza durante lo sforzo.
230 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
Metodiche di imaging
L’ecocardiografia (Figura 7), la risonanza magnetica nucleare (Figura 8) e la cineventricolografia sono
metodiche idonee alla diagnosi anche nelle forme con scarsa compromissione parietale. La presenza di un
rigonfiamento diastolico o di discinesie sistoliche della parete infero-basale del ventricolo destro, giusto
sotto la inserzione del lembo posteriore della valvola tricuspide, la disomogeneità della architettura
trabecolare, la dilatazione dell’infundibolo, l’alterata configurazione dei margini della parete libera e
dell’apice, sono segni caratteristici della malattia.
Riguardo la risonanza magnetica (Figura 8), si dà ormai più importanza al riscontro di alterazioni della
cinetica dei ventricoli che all’aumento del segnale riferibile a grasso. Dati incoraggianti stanno arrivando
dall’utilizzo del mezzo di contrasto gadolinio, capace di identificare le aree miocardiche che presentano
fibrosi.
Al momento attuale, l’indagine di imaging a maggior grado di sensibilità e specificità rimane la
cineventricolografia (Figura 9). La presenza di bulging diastolici della parete anteriore e sottotricuspidale,
associata a trabecole disposte trasversalmente, ispessite e intervallate da profonde fessure, raggiungono la
più elevata sensibilità e specificità diagnostica. L’interessamento del ventricolo sinistro è più frequente di
quanto non si ritenesse in passato e solitamente lo si ritrova nei soggetti adulti.

Biopsia endomiocardica
La biopsia endomiocardica rappresenta un valido supporto sia per la diagnosi, quando è presente nel
prelievo sostituzione fibro-adiposa, sia per la stratificazione del rischio aritmico, la presenza di una
significativa componente infiammatoria o necrotica o di elementi apoptosici sono in relazione con una fase
attiva della malattia, in cui l’instabilità elettrica è particolarmente spiccata.
232 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 Elettrocardiogramma di un paziente con sospetto clinico di cardiomiopatia aritmogena. In tutte le derivazioni si osserva
una riduzione delle ampiezze del QRS; le onde T sono invertite nelle precordiali destre.

Figura 7 Complesso QRS con evidenti alterazioni all’inizio della fase di ripolarizzazione (tratto ST)
GENETICA
Sulla base delle conoscenze genetiche, si può ipotizzare che la patogenesi molecolare di questa malattia
risieda nel fatto che il danno della parete ventricolare con successivo processo riparativo sia la conseguenza
di una debolezza del sistema delle giunzioni desmosomiali. Dato che i desmosomi sono presenti in tutto il
miocardio, le alterazioni della proteine desmosomiali nei soggetti con mutazione genica sono espresse sia a
livello del miocardio ventricolare destro che sinistro. Il fatto che in questa malattia siano prevalenti le
alterazioni morfologiche a carico del ventricolo destro è verosimilmente dovuto al diverso spessore della
parete ventricolare, molto più sottile a destra rispetto al versante sinistro.

CENNI DI TERAPIA

L’intervento terapeutico è rivolto alla prevenzione della morte improvvisa attraverso il controllo delle
aritmie ventricolari. In presenza di aritmie complesse, soprattutto se queste sono polimorfe o si aggravano
sotto sforzo, il primo provvedimento è quello di limitare l’attività fisica ed iniziare un trattamento
antiaritmico farmacologico. In presenza di episodi ripetuti di tachicardia ventricolare sostenuta o di
importanti sintomi aritmici si ricorre all’impianto di un defibrillatore automatico. Esiste inoltre l’opzione
dell’ablazione con radiofrequenza in presenza di una lesione localizzata.

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239 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 32
PERICARDITI

DEFINIZIONE
Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale del pericardio, la cui
eziologia può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica, immunitaria. Tra le malattie del pericardio
possono essere enucleate le forme seguenti :
 Pericarditi acute e subacute
 Pericardite cronica essudativa
 Tamponamento cardiaco
 Pericardite cronica costrittiva

PERICARDITI ACUTE E SUBACUTE


Sono processi infiammatori del pericardio a decorso acuto o subacuto, distinguibili in forme fibrinose,
caratterizzate da abbondante formazione di fibrina e scarso versamento e forme essudative, caratterizzate
da formazione di versamento.

Eziologia
Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o tubercolari; le forme virali
sono le più frequenti (virus Coxackie A e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes simplex,
varicella, adenovirus, epstein barr e virus influenzali). (Tabella I)
Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione diretta del pericardio da
parte di una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie polmonari, della mammella o linfomi), o a seguito di
patologie metaboliche (uremia o mixedema), collagenopatie (LES, sclerodermia, AR, dermatomiosite,
poliartrite nodosa). Sono state segnalate pericarditi da farmaci, su base verosimilmente immunitaria. L’IMA
può essere complicato dalla pericardite epistenocardica (II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler,
pericardite autoimmune ad insorgenza più tardiva. Altre forme di infiammazione asettica del pericardio
sono le post-pericardiotomiche, che si osservano dopo interventi cardiochirurgici.
Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da raccolta di liquido di tipo
trasudatizio, come accade nello scompenso cardiaco e nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può
formare una raccolta ematica (emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche
la terapia radiante ad alte dosi può essere associata a interessamento pericardico, quando le radiazioni
siano dirette sul mediastino.

Fisiopatologia
Normalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al suo interno vige una
pressione negativa. Quando un agente patogeno di tipo chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità
funzionale dei foglietti pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere sieroso,
siero-fibrinoso, ematico, purulento, colesterolico, chiloso (Tabella II).
Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il trasudato presenta bassa densità,
basso contenuto proteico, e scarse cellule mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior
quantità di proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del versamento, la
pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il rilasciamento delle camere cardiache,
aumentano le pressioni di riempimento ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione
intrapericardica dipende dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il versamento
240 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pericardico si forma lentamente, senza che si realizzi un tamponamento cardiaco, la pressione


intrapericardica subisce solo un modesto incremento, e la gittata sistolica, la portata cardiaca, e la
pressione arteriosa sono mantenute nei limiti della norma. Se la pressione intrapericardica aumenta
ulteriormente, il riempimento diastolico e la gittata sistolica diminuiscono.

Quadro clinico
Il quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla quantità di liquido e dalla
velocità con cui questo si accumula. In genere, dopo due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale,
compaiono i sintomi della pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici:
presenta irradiazione verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e verso la spalla sinistra; talvolta
può avere localizzazione epigastrica tanto da simulare un addome acuto. La sua intensità può variare,
esacerbandosi con l’ inspirazione, la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in alcune
posizioni antalgiche (la posizione seduta o quella genupetturale oppure flettendo il torace in avanti). Il
dolore ha di solito durata protratta (giorni), e si riduce o scompare quando compare il versamento.
Esame obiettivo
Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite acuta: essi originano dall’attrito
tra i foglietti pericardici, resi scabri dalla deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente
variabili, transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di pericardite; possono
accentuarsi con la compressione esercitata dal fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il
paziente .
Indagini di laboratorio
Sono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione della PCR, rialzo della VES. I
reperti di laboratorio possono essere utili per la diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia)

o per la diagnosi di mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del titolo
anticorpale contro il virus responsabile. L’intradermoreazione alla tubercolina è utile nella diagnosi di
pericardite tubercolare. La determinazione del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va
eseguita nel caso si sospetti una malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la
pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere molto indicativo: si tratta di un trasudato nelle sindromi
edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di un liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi,
sindrome di Dressler.

Esami strumentali
Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento del tratto ST, generalmente
a concavità superiore, nelle derivazioni con QRS positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può
risultare sottoslivellato (Figura 1). Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T
diventa negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi differenziale elettrocardiografica con
le alterazioni in corso di infarto miocardico è l’assenza di onde Q di necrosi. Quando la pericardite si
accompagna ad abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte le onde
dell’ECG, e a volte alternanza elettrica (vedi Capitolo 3).
Esame radiologico: le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso versamento, non sono
evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali standard. L’RX del torace può essere utile solo se
la raccolta di liquido è superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale
configurazione ed assume aspetto a “fiasca” (Figura 2).
Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento pericardico.
L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno spazio ecoprivo compreso tra il pericardio posteriore
e la parete posteriore del ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente uno spazio
analogo tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del ventricolo destro.
241 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’indagine bidimensionale permette di visualizzare in modo più completo il pericardio (Figura 3).
Risonanza magnetica nucleare: la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici sullo stato del pericardio,
permettendo una miglior evidenziazione dei recessi pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso
misconosciuti.

Diagnosi differenziale
Il quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il dolore precordiale e per la
presenza di alterazioni elettrocardiografiche. Gli sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici,
l’assenza di aumento nel siero dei marker di necrosi miocardica permettono di dirimere il dubbio.

Complicanze
Si dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive e pericardite costrittiva). La
più importante complicanza dei versamenti pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti).

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242 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tabella 1

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243 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tabella II

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244 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 15 – ECG registrato in un paziente di 35 anni con pericardite acuta. In tutte le derivazioni in cui i complessi ventricolari sono
positivi, è presente un netto sopraslivellamento del tratto ST con concavità superiore. Le onde T sono appuntite e di voltaggio
relativamente elevato. Il tratto PR appare sottoslivellato nelle derivazioni inferiori e da V3 a V6, e sopraslivellato in aVR. Queste
alterazioni sono indicative di pericardite acuta: la diagnosi è suggerita dalla mancanza di alterazioni reciproche del tratto ST, che
sono, invece, di comune riscontro nel sopraslivellamento di ST dovuto a ischemia miocardica.

Figura 16 – Radiografia del torace di un paziente con versamento pericardico. Si noti la presenza dell’aspetto a “fiasca” dell’ombra
cardiaca.
245 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 17 – Proiezione subxifoidea 4 camere sottocostale: evidente versamento pericardico.

PERICARDITE CRONICA ESSUDATIVA

Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei mesi. Tutti i processi
infettivi cronici, le collagenopatie, le malattie metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori
pericardici possono provocare versamenti pericardici ad andamento cronico.

Quadro clinico
I pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista cardiaco, pur presentando
versamento pericardico all’ecocardiogramma. I principali sintomi consistono in ridotta tolleranza
all’esercizio fisico e nella dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come
tosse, disfagia, disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche. All’ascoltazione cardiaca
i toni risultano ovattati e si possono apprezzare a volte sfregamenti pericardici. Il decorso clinico della
pericardite cronica essudativa dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di
cardiopatia sottostante. E’ possibile l’evoluzione verso la forma costrittiva.

Diagnosi
L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica essudativa.
L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso evidenzia QRS di basso voltaggio e alterazioni
aspecifiche della ripolarizzazione. Il radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra
cardiaca.

TAMPONAMENTO CARDIACO
246 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si
verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre
una grave limitazione del riempimento del cuore in diastole.

Eziologia:
Le cause più frequenti sono:

 pericardite acuta o recidiva

 sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco,


impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante;

 rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;

 versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica

Fisiopatologia
Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di
distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva
riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo
sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione
dell’afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la
rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste
quantità di liquido (per esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza.
Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono:
1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole.
2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la pressione
venosa a monte degli atri.
Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico:
tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione
della portata, e l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella
norma. Quando i meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a
ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).

Quadro clinico
E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con
obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del
liquido (pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso,
sudorazione fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano
ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso
paradosso, cioè l’accentuazione patologica della riduzione di ampiezza del polso e della pressione
arteriosa durante l’inspirazione.

Esami strumentali
L’ECG mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia un versamento
pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un collasso
diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del ventricolo
destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco.
247 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PERICARDITE CRONICA COSTRITTIVA

Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche, caratterizzata da un addensamento
sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di molto la compliance del sacco pericardico, interferisce
con il normale riempimento diastolico del cuore.

Eziologia
Una pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite acuta o cronica. Le
principali cause di pericardite cronica costrittiva sono: le pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma
tubercolare, le neoplasie, la terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio.

Fisiopatologia
Alcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose, hanno come esito la
formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò, un involucro rigido che avvolge il cuore e
ostacola gravemente il riempimento dei ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano
essenzialmente in fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale. In
protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente perché l’afflusso del
sangue ai ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il cuore. La curva pressoria di entrambi i
ventricoli, perciò, assume un aspetto a radice quadrata (dip and plateau) (Figura 4). Il riempimento
ventricolare avviene principalmente in protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la
pressione telediastolica tende ad essere equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg nelle forme
più gravi). Gli effetti della costrizione pericardica sono più marcati a carico delle sezioni destre. Il
meccanismo di Frank Sktarling non è operante, essendo il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre
le modificazioni della gittata cardiaca dipendono quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza
cardiaca.

Figura 18 – Pressione ventricolare sinistra (VS) e ventricolare destra (VD) registrate simultaneamente in corso di pericardite
costrittiva. Si noti l’aspetto a “radice quadrata” (dip-and-plateau) delle curve pressorie durante la fase diastolica.

Quadro clinico
La malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il quadro clinico della
pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco congestizio, da deficit del ventricolo destro.
I sintomi sono la dispnea da sforzo e l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre
raramente si verificano dispnea a riposo e ortopnea. I toni cardiaci sono di intensità normale o ridotta, si
può a volte ascoltare un tono aggiunto protodiastolico (pericardial knock), da attribuirsi al brusco
impedimento diastolico dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione pericardica). Sono presenti
segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica: epatosplenomegalia, edemi
declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere presente polso paradosso.
248 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Diagnosi
Non sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i complessi QRS sono di basso
voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare ingrandimento atriale, e nel 20-30 % dei casi si può
riscontrare una fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali
dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma si nota un
ingrandimento atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del pericardio, la dilatazione delle
vene epatiche e della vena cava inferiore; l’esame doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare.
Il cateterismo cardiaco si rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una
diagnosi certa. La TAC e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard per la
diagnosi.

Diagnosi differenziale
La pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai ecocardiografici, dallo
scompenso cardiaco congestizio secondario a valvulopatie acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi
differenziale con la cardiomiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: tuttavia nella cardiomiopatia
restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni sinistre che in quelle destre, mentre nella
pericardite costrittiva tende ad essere uguale in entrambe le camere ventricolari. La diagnosi differenziale
con il cuore polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’infarto del ventricolo destro è semplice, e si basa
sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali.

CENNI DI TERAPIA DELLE PERICARDITI

La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro eziologia: per esempio,
nelle forme uremiche il trattamento necessario è quello dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico
con farmaci chemioterapici. Nelle pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio
terapeutico è dato dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per
impedire la comparsa di recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace ma aumenta in maniera
significativa la frequenza delle recidive entro un anno dalla risoluzione del versamento. Nelle forme lievi
con versamento modesto si consiglia l’utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento
pericardico importante si possono utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono
controindicati i farmaci corticosteroidei, che possono indebolire la formazione della cicatrice infartuale. Il
trattamento del tamponamento cardiaco è costituito dalla rimozione del liquido pericardico mediante
pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con creazione della finestra pleuropericardica.

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249 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 33
MIOCARDITI
Antonello Ganau, Pier Sergio Saba

DEFINIZIONE
Le miocarditi sono malattie infiammatorie del tessuto miocardico, hanno frequentemente una evoluzione
benigna. Le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della cardiomiopatia dilatativa in circa il 10%
dei casi.

EZIOLOGIA
Gli agenti eziologici delle miocarditi sono numerosi, la causa più frequente è una infezione virale, spesso
enterovirus ed in particolare da virus Coxsackie del serotipo B, adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e
HIV. Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e parassiti possono agire come agenti patogeni.
Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i diuretici, la digossina,
possono indurre miocardite mediante reazioni da ipersensibilità. Tra le malattie autoimmunitarie, anche la
celiachia può determinare una miocardite.
251 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

o PATOGENESI
Prima fase si verifica l’invasione diretta del miocardio da parte di virus cardiotropidi altri agenti infettivi.
Seconda Fase: dopo la risoluzione o l’attenuazione della infezione virale si attiva la risposta immunitaria,
nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che determina ulteriore miocitolisi,
aggravamento della infiammazione locale e produzione di anticorpi circolanti anti-muscolo cardiaco.
Terza fase: a seguito del danno virale e autoimmunitario si verifica l'infiltrazione miocardica da parte di
cellule infiammatorie, compresi i macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente espressione di citochine
pro-infiammatorie come la IL-1, la IL-2, il TNF, e l’IFN-gamma. Il TNF, in particolare, attiva le cellule
endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la produzione di citochine e ha un effetto
inotropo negativo diretto.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie elettrocardiografiche
asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una
infezione virale, quali febbre, mialgie, sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi
e segni di insufficienza cardiaca acuta. La manifestazione clinica più drammatica è la dilatazione cardiaca ad
insorgenza acuta, con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e rapida insorgenza di scompenso.
Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un aumento dei
marcatori di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni elettrocardiografiche tipiche
dell’ischemia miocardica, quali sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q
patologiche o sottoslivellamento diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della
cinetica ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni.
Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul ritmo cardiaco, e
sono in grado di provocare blocchi di branca, blocco A-V, battiti ectopici o tachicardie. La tachicardia
ventricolare si presenta raramente all’esordio della malattia, ma si osserva frequentemente durante il
follow-up a lungo termine di questi pazienti.

VALUTAZIONE DIAGNOSTICA

La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi, dell’elettrocardiogramma, di valori
elevati della PCR e dei marker di danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle IgM specifiche
per virus a tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia. Elettrocardiogramma
I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione dell’onda T, ma può
anche comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto nelle forme di miocardite con
interessamento pericardico (Figura 1).
Marcatori di infiammazione e di necrosi.
La VES, la PCR ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in caso di miocardite, ma sono del tutto
aspecifici. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con sospetta miocardite, anche
se la loro sensibilità diagnostica è bassa.
Ecocardiogramma il reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni della cinetica parietale del
ventricolo sinistro, ma senza una significativa dilatazione della camera. La disfunzione del ventricolo
destro è meno frequente.
252 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
Risonanza magnetica nucleare con gadolinio
Tale tecnica è in grado di individuare le aree miocardiche interessate dall’infiltrazione infiammatoria e
consente l’effettuazione di biopsie mirate per la conferma della diagnosi.
Biopsia endomiocardica
La biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di certezza della
miocardite. Il tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico occupato da edema e infiltrato
infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi, e la presenza di quadri di necrosi focale di miociti.

Figura 19 – Elettrocardiogramma di un giovane paziente di 25 anni affetto da miopericardite acuta. Sono presenti tachicardia e
sopralivellamento del diffuso tratto ST.

Figura 21 – Interstizio miocardico con abbondante edema ed infiltrato infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi con distruzione
focale di miociti.

STORIA NATURALE

La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le miocarditi che simulano
un infarto del miocardio evolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I
254 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pazienti che esordiscono con scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione
miocardica (frazione di eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi. Tuttavia,
la miocardite può avere inizio con una funzione sistolica gravemente depressa (frazione di eiezione del
ventricolo sinistro minore del 35%) e in tal caso la metà circa dei pazienti evolve verso lo scompenso
cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo nel rimanente 25% si assiste ad un
progressivamente miglioramento della funzione ventricolare.
Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni nelle forme che alla
biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La presentazione clinica caratterizzata da sincope,
disturbo della conduzione intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è
gravata da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto.

TERAPIA

La terapia della miocardite è principalmente di supporto. Solo i pazienti che si presentano con un quadro di
scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci
inotropi positivi, diuretici, e vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia
dovrebbe includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica (III e IV
classe funzionale NYHA), un diuretico.

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255 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 34

ENDOCARDITE INFETTIVA

DEFINIZIONE
Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già precedentemente leso, per lo più
sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano
attraverso la lesione stessa (endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di
microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle piastrine (endocardite
infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie.
Oltre che sulle valvole, le colonie si localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di
Botallo o sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di
dispositivi intracardiaci come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti. Particolari condizioni, come
la tossicodipendenza, le diminuite resistenze immunitarie, e l’emodialisi favoriscono la malattia, la cui
frequenza è oggi stimabile tra il 2,5 ed il 6,0 per 100.000 persone.

EZIOLOGIA

Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere causa della malattia,
non più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi.
Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi, pneumococchi o
enterococchi; nei tossicodipendenti lo S.Aureus è presente nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la Candida.
I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali. Essi aderiscono ai trombi
nella quasi totalità dei casi, eccetto lo stafilococco aureo che può colpire direttamente l’endotelio sano.
Una patologia cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi, ma la frequenza di
complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è variabile: il rischio è massimo
nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite dalla persistenza del dotto arterioso e dai difetti del
setto ventricolare, mentre è minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola mitralica. Nei
portatori di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia che ha richiesto
l’inserzione della protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti che fanno uso di siringhe non sterili
con trasferimento della droga a più persone, la sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più gravi
sono la localizzazione mitralica od aortica. I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre
strumentali sulla bocca (estrazioni dentarie) o dopo endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie,
cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a permanenza nelle vene, raramente a causa di infezioni cutanee o
ustioni.

ANATOMIA PATOLOGICA
I germi si localizzano in presenza di endotelio alterato (quello intatto è assai resistente all’impianto di
microrganismi) dal lato della cavità a minore pressione (per esempio, sulla faccia atriale dei lembi mitralici).
Si depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che formano le “colonie”, mescolati a
globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del tessuto valvolare. A volte i germi si moltiplicano
in modo violento, formando vere e proprie ulcerazioni, ma più spesso la moltiplicazione è lenta.
Poiché le vegetazioni sono costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente, comportando la
reimmissione in circolo del materiale che comprende i microrganismi (batteriemia), e provocando nuove
localizzazione in vari organi e tessuti: cute, mucose, reni, milza, cervello.
256 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PATOGENESI

Le manifestazioni della malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre meccanismi attivi
simultaneamente: 1) le conseguenze della infezione; 2) le metastasi trombo-emboliche; 3) le alterazioni
immunologiche. Le conseguenze dell’infezione sono legate alla tossicità dei microrganismi ed alla
intensità della loro propagazione ai vari organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità
delle vegetazioni, colpiscono in modo particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la
conseguenza della stimolazione del sistema immunitario da parte dei germi, con formazione di
autoanticorpi.

QUADRO CLINICO

I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici: tra quelli generali la
febbre di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori a 39°, compare nell’80-90% dei casi,
mancando solo negli immunocompromessi o nei grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza,
perdita di peso e malessere; meno comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare
la comparsa di nuovi soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, a carico della valvola
interessata. La tachicardia è presente nella metà dei casi. La splenomegalia, oggi che la terapia antibiotica è
disponibile, è rilevabile in non più del 50% dei casi, essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi,
sono riscontrabili petecchie nelle congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno
frequentemente si osservano i noduli di Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili alle
estremità delle dita e di durata da molte ore a pochi giorni. Le conseguenze emboliche della malattia
comprendono: le macchie di Janeway, manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o
le piante dei piedi (7-10% dei malati), l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria
retinica; più rari gli ascessi embolici cerebrali con sindrome neurologica di focolaio.
Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali (insufficienza renale da
glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o
di anticorpi antisarcolemmatici ed antiendocardio. Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da
rottura di corde tendinee, l’emorragia cerebrale da rottura di emboli micotici, lo shock settico,
l’insufficienza renale, che può riconoscere più meccanismi, compresa la terapia antibiotica in eccesso o con
farmaci nefrotossici.

Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi neutrofila, aumento della
velocità di sedimentazione. L’emocultura conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e
permette di iniziare una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della
emocultura, ma in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso poco patogeni,
l’emocultura può non essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo.

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259 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’ecocardiografia, per via transtoracica e sopratutto transesofagea è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto
di endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle vegetazioni aderenti alle valvole o alle altre sedi
della infezione, sotto forma di ammassi translucidi. L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei
casi, per cui è la prima ricerca da eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è
obbligatoria nel sospetto fondato di endocardite se l'ecocardiografia transtoracica è negativa. Il significato
prognostico delle vegetazioni è piuttosto controverso, anche se il rischio embolico è particolarmente
frequente se le vegetazioni sono voluminose. Quando la malattia tende alla guarigione le vegetazioni
mostrano una riduzione, sino alla loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate, anche a
lungo termine, negli altri.

Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono di solito dati utili alla
diagnosi dell’endocardite infettiva.

I criteri della Duke University (Tabella I), che classifica i dati disponibili in maggiori e minori, sono seguiti
quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e tre minori o, in modo meno attendibile,
cinque minori, sono considerati necessari per la diagnosi definiva. Il postulato di Osler recita “qualsiasi
processo febbrile che dura più di 5 giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva”.

Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e nella prognosi
dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia cardiaca. In assenza di
trattamento, l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il 90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può
guarire se la terapia, medica o chirurgica, è ben condotta.

CENNI DI TERAPIA
La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e sulla dimostrazione
della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto con i dosaggi
massimi del farmaco e per via endovenosa, in modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le
24 ore. In caso di risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è
possibile il trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può iniziare una terapia
empirica a largo spettro, che comprenda un macrolide ed un antibiotico attivo sui gram negativi a dosi
elevate e, possibilmente, sostituito dalla terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il
microrganismo responsabile.
La terapia chirurgica può essere impiegata nelle seguenti condizioni:

1) infezioni non controllate dai farmaci, dopo 2 settimane, in presenza di germi particolari, quali S.aureo
nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo Pseudomonas o talune infezioni fungine;

2) mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca;

3) lesione valvolare mitralica aortica o di entrambe le valvole con decorso tempestoso;

4)ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie ricorrenti;

5)vegetazioni molto grandi in sede valvolare.

Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti batteriemia, queste
dovrebbero essere precedute e seguite immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram positivi
o negativi secondo le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del rischio,
ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui la possibilità di una
batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato respiratorio o dentario, l’amoxacillina è
abitualmente adeguata, ma può essere sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di
intolleranza: per le manovre comportanti il rischio di gram negativi, la gentamicina è il farmaco più
largamente impiegato.
260 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 35

I TUMORI DEL CUORE

I TUMORI DEL CUORE

Anche il cuore, seppur raramente, può essere colpito da tumori, ma la loro malignità è legata più a fattori
emodinamici che biologici.

Va detto innanzitutto che le neoplasie secondarie (metastasi al cuore) sono molto più frequenti che le
neoplasie primitive, con un rapporto di circa 10:1. I tumori maligni che più frequentemente metastatizzano
al cuore sono il cancro del polmone, seguito da quello renale, del laringe, della mammella, del fegato e dai
linfomi-leucemie. L’interessamento del cuore nel carcinoma polmonare avviene per lo più sotto forma di
diffusione pericardica (“carcinosi pericardica”) e la diagnosi può essere fatta con un esame citologico del
liquido pericardico.

Per quanto concerne i tumori primitivi del cuore, le forme benigne sono di gran lunga più frequenti (90%)
rispetto a quelle maligne (10%).

MIXOMA: 3 su 4 neoplasie benigne del cuore e del pericardio sono costituite da mixomi.

Il mixoma è una neoformazione endocardica a crescita endocavitaria, di origine da una cellula


indifferenziata che tende a produrre una matrice mixoide e strutture vascolari (“endotelioma
mixomatoso”). Sede prediletta è l’atrio sinistro (75%), seguito dall’atrio destro (20%), è per questa ragione
che è conosciuto anche con il nome di mixoma atriale.

Colpisce le donne nei due terzi dei casi, per lo più in una fascia d’età fra i 40 e i 70 anni.

La presentazione clinica è varia. Prevalgono i sintomi di ostruzione al transito ematico, con dispnea e
sincope nei mixomi atriali sinistri e perfino morte improvvisa in quelle masse che si impegnano e si
intrappolano nell’orifizio mitralico. La superficie friabile, specie nelle forme villose, può dar luogo ad
embolie, che possono essere il sintomo di esordio anche in neoplasie di piccole dimensioni. Il peso può
variare da una decina a oltre 100 grammi, e le dimensioni essere tali da occupare quasi tutta la cavità
atriale.

La produzione da parte del tumore di interleuchina rende ragione dei cosidetti sintomi costituzionali:
febbricola, astenia, dolori osteo-articolari, malessere.

Infine, esistono i mixomi cosiddetti “silenziosi” che non danno segni di sé e rappresentano un reperto
occasionale autoptico o, oggi molto più frequentemente, ecocardiografico incidentale. L’evoluzione
naturale di questi mixomi silenziosi può essere con gli anni la trasformazione calcifica (“litomixoma”).

La diagnosi di mixoma è facilmente e rapidamente eseguibile con l’ecocardiografia transtoracica. Possono


simulare un mixoma atriale sinistro i trombi complicanti le valvulopatie reumatiche della mitrale
(compreso il cosiddetto “trombo a palla”) e neoplasie maligne, primitive o secondarie, a prevalente
crescita endocavitaria.
261 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La terapia è costituita dalla resezione chirurgica in circolazione extracorporea. L’asportazione della base di
impianto del setto interatriale previene la possibilità di recidive.

PAPILLOMA ENDOCARDICO: detto anche fibroelastoma papillare, rappresenta la seconda più frequente
neoplasia cardiaca benigna. Tumore prevalentemente di piccole dimensioni (1-2 cm), è costituito da papille
con asse fibroelastico, per cui a differenza del mixoma non è friabile. Cresce più spesso dall’endocardio
delle valvole cardiache, ma anche da quello murale, ed ha una crescita endocavitaria. La sintomatologia è
dovuta alla potenzialità emboligena, soprattutto per le stratificazioni trombotiche che si sovrappongono.
Se localizzato nelle cuspidi sigmoidi aortiche, può incunearsi negli osti coronarici e dare morte improvvisa.

La diagnosi è ecocardiografica, ma può non essere visibile se di piccole dimensioni. Se situato nel settore
sinistro del cuore, l’asportazione chirurgica è d’obbligo per la potenzialità emboligena.

RABDOMIOMA: tumore cardiaco benigno tipico dell’infanzia presenta una crescita più frequentemente
intramurale ma anche endocavitaria con sintomatologia ostruttiva neonatale ed è da considerarsi un
amartoma, in quanto costituito da cardiomiociti carichi di glicogeno. Diagnostica è la cosiddetta “spider
cell”, ovvero l’aspetto a ragno del cardiomiocita con accumulo di glicogeno e dispersione a ragnatela dei
miofilamenti. Frequente è l’associazione del rabdomioma con la sclerosi tuberosa.

FIBROMA: l fibroma è un’altra tipica forma di tumore cardiaco benigno. È classicamente a crescita
intramurale e può assumere anche dimensioni gigantesche, che possono impedire la sua enucleazione
chirurgica e imporre un trapianto. Trattasi di una fibromatosi del cuore in quanto la proliferazione
connettivale ingloba i miociti residui. Caratteristiche all’istologia sono le calcificazioni. La sintomatologia
può anche essere ostruttiva quando le grosse dimensioni obliterano la cavità. Frequenti le aritmie da
circuito di rientro, con rischio di morte improvvisa elettrica.

Da segnalare, fra gli altri tumori benigni del cuore, il lipoma del setto interatriale e il tawarioma, ovvero il
tumore cistico del nodo atrioventricolare (nodo di Tawara), di derivazione celomatica pericardica, che si
può manifestare con blocco atrioventricolare.

Le neoplasie maligne primitive del cuore (sarcomi) sono rare e si originano sia dalla componente
parenchimale che mesenchimale. Sono per lo più a crescita intramurale infiltrante (angiosarcoma,
rabdomiosarcoma), ma possono anche avere una prevalente crescita endocavitaria e simulare un mixoma
(leiomiosarcoma, fibroistiocitoma). Si impone in questi casi l’esame istologico di tutte le masse resecate
chirurgicamente, anche quelle che mimano un mixoma, perché possono riservare sorprese con aspetti di
malignità ed avere pertanto una prognosi infausta. Nelle neoplasie a crescita endocavitaria, la diagnosi può
essere conseguita senza toracotomia chirurgica, attraverso la biopsia endomiocardica.

Il controllo istologico delle masse resecate chirurgicamente o prelevate con la biopsia può rivelare una
natura diversa da quella neoplastica: trombi (compresa la endocardite fibroplastica parietale di Loeffler
della sindrome eosinofila) o infezioni (batteriche, fungine, protozoarie quali le cisti da echinococco).
326 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 45
L’IPERTENSIONE ARTERIOSA

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

Definizione ed epidemiologia
Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata da un aumento
anomalo stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli di pressione arteriosa. Tale
aumento riguarda più frequentemente entrambe le pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di
ipertensione caratterizzate da aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata),
condizione più frequente negli anziani, o più raramente solo della diastolica.
La presenza di ipertensione arteriosa viene definita da valori di pressione arteriosa sistolica > 140 mmHg e
di pressione arteriosa sistolica > 90 mmHg. Sulla base dei livelli pressori inoltre, la malattia ipertensiva può
essere classificata in 3 diversi gradi di severità clinica (grado I: 140-159/90-99 mmHg; grado II:
160-179/100-109 mmHg; grado III: > 180/>110 mmHg) che, come è intuibile, possono avere un diverso
impatto sulla storia naturale della malattia.
L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad una eziologia chiara,
l'ipertensione essenziale costituisce il 90% dei casi totali di ipertensione. Quando l’aumento dei valori
pressori è secondario a disordini d’altra natura, l’ipertensione arteriosa viene definita “secondaria”.
Nella maggioranza dei casi l'ipertensione essenziale, interessa soggetti adulti con prevalenza direttamente
correlata all’età. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma sale ad oltre il 50% nella
popolazione over 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, la prevalenza d’ipertensione è maggiore nei maschi
quando si considerano soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è uguale tra i 2 sessi per età superiori.
In termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone urbane rispetto a quelle rurali, in
particolare nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati, mentre per quanto riguarda la razza,
la prevalenza d’ipertensione è maggiore in quella nera. In base a queste considerazioni si prevede che
entro il 2025 vi saranno nel mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di ipertesi.

EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA

Eziopatogenesi e fisiopatologia
Mentre l’ipertensione secondaria riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella malattia primitiva a cui è
associata, l’ipertensione arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale, dove
elementi di tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e
metabolici che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i più importanti sono
legati allo stile di vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo stress psichico, l’abitudine tabagica,
una dieta ipersodica ed iperlipidica, ed il frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori
genetici, vanno annoverati quelli determinanti una maggiore attività del sistema renina-angiotensina-
aldosterone, un aumento costituzionale del tono adrenergico, un aumento della risposta vascolare a
sostanze vasocostrittrici quali l’endotelina, una ridotta escrezione renale di sodio ed infine una ridotta
sintesi endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…).
327 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle Resistenze periferiche per la
gittata cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto della frequenza cardiaca per la gittata
sistolica. Pertanto è proprio sulle Resistenze periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che
agiscono i differenti meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze
periferiche e la frequenza cardiaca sono condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare e
la frequenza cardiaca, mentre la gittata sistolica è prevalentemente regolata dalla contrattilità miocardica e
dal precarico, a sua volta correlato alla volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della
pressione arteriosa possono essere distinti in meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi
a breve termine possono essere annoverati i sistemi baro- e chemo-recettoriali, che modificano in pochi
secondi il tono simpatico modulando l’attività cardiaca, il tono arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a
medio termine sono invece quelli di tipo umorale mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-
aldosterone, dalla vasopressina e dal sistema delle chinine. I meccanismi a lungo termine sono invece
controllati dal rene deputato al controllo a lungo termine della pressione arteriosa, principalmente
attraverso la regolazione della volemia.
Tra i meccanismi responsabili dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli maggiormente
implicati sono legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al rimodellamento
vascolare, ad un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una ridotta sensibilità
insulinica e ad una funzione endoteliale alterata.
Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella genesi della malattia
ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume plasmatico ed un aumento delle resistenze
periferiche. Tuttavia solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi una riduzione dell’introito di sodio
determina una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla base di tale risposta individuale alla riduzione
dell’introito di sodio è stata coniata la definizione di ipertensione arteriosa sodio-sensibile.
Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il potassio ed il calcio, le
cui concentrazioni sono inversamente associate ai valori pressori.
L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle resistenze periferiche,
e se nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso secondario ad una vasocostrizione arteriolare
di origine funzionale, dipendente da un aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali
catecolamine, angiotensina II o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca,
successivamente un rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori
pressori. Infatti l’incremento della pressione ed il costante insulto meccanico sulle pareti dei vasi stimolano
lo sviluppo di un’ipertrofia delle cellule muscolari lisce vascolari, con ulteriore riduzione del lume
arteriolare, ed il conseguente aumento delle resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od
anche il peggioramento dello stato ipertensivo, anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a
mancare.
Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema renina-angiotensina-
aldosterone, il quale esercita azioni regolatorie sulla pressione arteriosa anche attraverso la regolazione
dell’omeostasi elettrolitica e del riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre, in alcuni tessuti
l’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e
favorisce lo sviluppo di fibrosi tissutale, in particolare a livello vascolare, determinando un incremento dei
valori pressori, e modificazioni strutturali cardiaci.
L’insulina a livello endoteliale aumenta la sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale catalizza la
produzione di ossido nitrico, potente vasodilatatore ed anti-infiammatore.
328 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
Nel diabete insulino resistente a livello vascolare si assiste ad una riduzione della sintesi di ossido nitrico
con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori pressori. Inoltre, l’aumento
compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulino-resistenza si associa ad un incremento
del tono simpatico con un ulteriore aumento del tono vascolare ed una riduzione della funzionalità
endoteliale. L’endotelio, svolge importanti azioni protettive a livello vascolare, attraverso la produzione di
sostanze vasodilatanti quali l’ossido nitrico, le prostacicline e l’endothelium-derived relaxing factor (EDRF),
ed anche attraverso la produzione di sostanze antitrombotiche. Quando viene danneggiato, dai diversi
fattori di rischio quali fumo e diabete, l'infiammazione che seguita al danno vascolare porta ad uno
squilibrio funzionale. Venendo meno le funzioni protettive collegate ad un endotelio integro aumenta la
reattività vascolare, aumenta l'espressione di molecole d’adesione leucocitaria che portano al perpetuarsi
dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo aumenta la suscettibilità alla evoluzione aterosclerotica e alla
formazione di trombosi.

IMPATTO CLINICO

Impatto clinico
Nella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di sintomi o disturbi, né di
complicanze a breve termine, bensì può decorrere asintomatica per molti anni, determinando progressive
e sempre più gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e
cerebrale. Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico, possono
palesarsi improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e lo
scompenso cardiaco.
In una popolazione di uomini di 45 anni, valori pressori di 130/90 mmHg erano in grado di determinare una
riduzione dell’aspettativa di vita di 3 anni, e, se ci si spingeva fino a valori pressori di 140 su 95 mmHg
l’aspettativa di vita si riduceva di 6 anni. Se si consideravano uomini con valori pressori di 150 su 100 mmHg
l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5 anni. L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un
classico fattore di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari.

La relazione tra ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare aumentato non è comunque secondaria
solo alla presenza di elevati valori pressori, bensì è una conseguenza anche di altri fattori di rischio
cardiovascolari che sono frequentemente presenti nel paziente iperteso, quali la dislipidemia, il diabete
mellito, l’obesità ed il fumo. La presenza isolata d'ipertensione arteriosa si osserva solo nel 20% dei
pazienti, mentre nel 50% dei casi all'ipertensione si associano 2 o 3 fattori di rischio concomitanti.
La dislipidemia più frequentemente associata all'ipertensione è l’ipercolesterolemia, presente in oltre il
40% dei pazienti ipertesi. Dislipidemia ed elevati valori pressori sono inoltre elementi costitutivi della
cosiddetta sindrome metabolica, condizione clinica frequentemente associata alla presenza di
ipertensione arteriosa. Questa sindrome è caratterizzata clinicamente dalla presenza di più fattori di rischio
associati, mentre da un punto di vista fisiopatologico dalla presenza di un’obesità viscerale,
particolarmente aterogena, di insulino-resistenza, ed infine da uno stato infiammatorio cronico subclinico.
Anche il diabete mellito di tipo 2 risulta associato frequentemente all’ipertensione arteriosa con la quale
condivide la responsabilità di una significativa quota della mortalità e morbilità cardiovascolare, nonché
alcuni importanti tratti fisiopatologici.
Le conseguenze patologiche dell’ipertensione arteriosa possono essere di tipo preclinico e clinico; le prime
sono caratterizzate da modificazioni strutturali e funzionali a carico degli organi bersaglio senza che queste
si manifestino con sintomi o segni clinici, le seconde consistono invece in alterazioni organiche più gravi
che si palesano con dei quadri clinici ben definiti, soprattutto l’infarto del miocardio, lo scompenso
cardiaco e l’ictus cerebri.
In generale la conseguenza patologica classica della malattia ipertensiva è lo sviluppo di aterosclerosi, che
vede maggiormente coinvolti il cuore con i vasi arteriosi, il rene ed il sistema nervoso centrale.
Le principali alterazioni precliniche cardiache associate all’ipertensione sono legate al rimodellamento
ventricolare sinistro in risposta allo stato ipertensivo che sebbene asintomatiche, configurano comunque
una condizione clinica fortemente predittiva di eventi cardiovascolari futuri, condizione identificata con il
termine di “cardiopatia ipertensiva”.
330 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

46 - Cardiopatia ipertensiva
Cardiopatia ipertensiva sezione lungoassiale: si noti l’ipertrofia concentrica con dilatazione atriale.

Le alterazioni cardiache conseguenti ad ipertensione sistemica consistono nell’ipertrofia ventricolare


sinistra e nella disfunzione diastolica. L'ipertrofia ventricolare Sx è caratterizzata dall’aumento della
massa cardiaca soprattutto in risposta all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione
elevata, e può essere di tipo concentrico (sarcomeri in parallelo) od eccentrico (in serie). L’ipertrofia
ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente fattore di rischio indipendente per
eventi avversi cardiovascolari maggiori.
Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa camera cardiaca,
durante la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di riempimento, per cui il ventricolo può
raggiungere un volume telediastolico tale da garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di
un’aumentata pressione diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio
sinistro e nelle vene polmonari.
Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere causata da alterazioni funzionali
della fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole, o da alterazioni della geometria
ventricolare sinistra o dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche proprietà elastiche
del ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico.
331 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al 25%, ed è stato
dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di eventi cardiovascolari avversi.

Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa sono identificate invece
nella cardiopatia ischemica, che è la più frequente causa di mortalità nel paziente iperteso. Le
manifestazioni ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di placche
aterosclerotiche coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da una disfunzione del
microcircolo subendocardico che determina una riduzione della riserva coronarica.
La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico o diastolico. Il primo
si verifica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica insorta secondariamente alla presenza
di una cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta attraverso lo sviluppo di una
disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa invece ad una normale funzione
contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla presenza di una disfunzione diastolica.
In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le aritmie, in particolare la
fibrillazione atriale (la disfunzione diastolica determina un aumento cronico delle pressioni atriali).
Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono precipitare in una morte
improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un ruolo fenomeni di rientro elettrico
ventricolare causati da un progressivo disarrangiamento dell’architettura miocardica, caratterizzato
soprattutto da un aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle alterazioni della
geometria ventricolare sinistra.
L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il 20% degli ipertesi è
affetto da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione dall’ipertensione non complicata
all’insufficienza renale non è rapida, bensì dura anni.
Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la presenza di
microalbuminuria, (>300 mg/die). Un aumento dell’escrezione di albumina può semplicemente
rappresentare una conseguenza dell’aumento della pressione idrostatica intraglomerulare, ma può anche
derivare da un danno della barriera glomerulare.
Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione inesorabile del danno
renale, particolarmente quando si associa al diabete, verso una riduzione significativa del filtrato
glumerulare con lo sviluppo d’insufficienza renale cronica, alla cui insorgenza partecipa anche
l'incremento delle resistenze vascolari renali, che spinge i valori pressori ad aumentare ulteriormente
rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento.
Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo significativo
l’encefalo, in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi. Alterazioni relativamente precoci
sono osservate a carico del distretto carotideo, e possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento
del complesso intima-media carotideo, o da lesioni aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche
che determinano stenosi di variabile severità del lume vascolare. Tutte queste alterazioni, anche quando
ancora nello stato preclinico, sono associate ad un rischio aumentato di sviluppare eventi acuti
cerebrovascolari, e per tal motivo una loro precoce individuazione permette una migliore stratificazione
del rischio del paziente iperteso e di conseguenza la scelta corretta della strategia terapeutica più efficace.
Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere caratterizzata da un
quadro di emorragia cerebrale, o più frequentemente dall’ictus ischemico o da un attacco ischemico
transitorio (TIA), da un infarto lacunare, od in ultimo da un’encefalopatia acuta ipertensiva.

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332 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

VALUTAZIONE CLINICO-STRUMENTALE E STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Valutazione clinico-strumentale e stratificazione del rischio cardiovascolare


La classificazione dell'ipertensione arteriosa basata sulla sola valutazione dei valori pressori non permette
un'adeguata rappresentazione del rischio individuale della patologia, che è invece la risultante
dell'interazione tra incremento pressorio e profilo di rischio concomitante.
Nell'approccio razionale al rischio cardiovascolare nel paziente iperteso, uno degli elementi essenziali è
rappresentato dalla possibilità di quantificare il rischio del paziente attraverso una valutazione integrata
del contributo relativo di ciascuno dei fattori di rischio prima elencati (Tabella I). Secondo questa logica, in
un paziente con un aumento lieve dei valori di pressione arteriosa, la presenza di altri fattori di rischio
associati determina una probabilità di sviluppo di complicanze cardiovascolari comparabile o addirittura
maggiore rispetto a quella che caratterizza i pazienti con un aumento pressorio più marcato, ma isolato
(Figura 45.1).

 Anamnesi. Nella raccolta della storia clinica occorre porre particolare attenzione ad individuare
tutti quegli elementi che possono indicare un aumento del rischio cardiovascolare.
Anzitutto è importante una raccolta di informazioni sui fattori che possono determinare un aumento della
pressione arteriosa del soggetto in esame, quali l’età, il sesso, l’ereditarietà, la razza, il consumo di alcool e
di caffè e lo stress. Successivamente è fondamentale chiedere informazioni sulla presenza di altri elementi
che possono influenzare il profilo di rischio, quali il diabete, la dislipidemia, il fumo di sigaretta, lo stile di
vita e la familiarità per malattie cardiovascolari.
Durante la raccolta anamnestica si deve porre attenzione inoltre all’eventuale uso di farmaci che possono
determinare un aumento dei valori pressori, quali i FANS, gli spray nasali ed i cortisonici, ed escludere
l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare i simpatico-mimetici indiretti come la cocaina e
l’anfetamina. Bisogna infine indagare se già si sono verificati degli eventi cardiovascolari maggiori, quali
l’angina o l’infarto, o l’ictus, perché in tal caso il rischio cardiovascolare del soggetto è molto elevato
(Tabella II).

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333 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 Esame obiettivo.

Anche se la maggior parte dei pazienti risulta normale all’esame fisico, un’attenta valutazione del paziente
iperteso è necessaria al fine di scoprire se vi sono segni che facciano sospettare un’ipertensione secondaria
e per valutare l’eventuale presenza di complicanze cardiovascolari (Tabella III).

Tabella 45. 3 Fattori di rischio e condizioni cliniche associate da valutare nella stratificazione del rischio cardiovascolare, come
suggerito dalle Linee Guida ESC/ESH.

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334 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Un momento importante nella raccolta dei dati obiettivi durante la visita medica è la misura della pressione
arteriosa. Grande attenzione deve essere posta nell'ottenere una misurazione corretta, focalizzandosi in
particolare sui seguenti aspetti:

 il paziente non deve aver fumato o assunto caffeina nei 30 minuti precedenti la misurazione;
 il paziente deve essere seduto comodamente con il bracciale posto a livello del cuore;
 la misurazione deve essere effettuata dopo almeno 5 minuti di riposo;
 si devono misurare le pressioni sistolica e diastolica utilizzando rispettivamente il I e il V tono di
Korotkoff; va quindi effettuata la media fra due o più misurazioni, separate da un intervallo di almeno 2
minuti;
 devono essere impiegati sfigmomanometri a mercurio (tipo Riva-Rocci) o in alternativa apparecchi
aneroidi tarati di recente; i bracciali devono essere di dimensioni appropriate, cioè con un manicotto che
circondi il braccio del paziente completamente o almeno per l'80%; nei bambini e negli obesi è opportuno
utilizzare bracciali specifici.

Nella valutazione del paziente in esame, oltre all’ esame obiettivo generale e cardiovascolare, è importante
rilevare il peso e la distribuzione del grasso corporeo, in particolare mediante la misurazione della
circonferenza addominale. L'obesità addominale rappresenta, infatti, un riconosciuto fattore di rischio
cardiovascolare. Inoltre tra massa corporea e ipertensione arteriosa vi è una correlazione significativa che è
indipendente dall'età e dal sesso, e tale relazione è confermata anche quando vengono impiegate le
tecniche più raffinate per lo studio del grasso corporeo. A tal proposito i normotesi obesi hanno maggiori
probabilità di diventare ipertesi e gli ipertesi magri di diventare obesi. Infine, a conferma dell'importanza di
questo fattore, è stato dimostrato che diminuzioni del peso corporeo di 12 kg e 3 kg indurrebbero riduzioni
pressorie sistolica e diastolica rispettivamente di 21/13 mmHg e di 7/4 mmHg.

 Esami ematochimici e strumentali. Anche nelle recenti Linee Guida è stato raccomandato di effettuare
una serie di esami bioumorali e strumentali, allo scopo non solo di definire la presenza di danno d'organo
nel paziente, ma anche di identificare altri eventuali fattori di rischio associati. Alcune di queste indagini
devono essere orientate da informazioni desunte dall'anamnesi e dall'esame obiettivo.

- Esame emocromocitometrico: studia la crasi ematica, gli stati anemici, gli stati infettivi, etc…
- Creatininemia e clearance della creatinina: studio della funzione renale. Queste analisi permettono di
scoprire alterazioni renali che possono concorrere allo sviluppo di ipertensione o esserne una conseguenza.
Se la creatininemia inizia a elevarsi quando la funzione renale scende sotto i 50-45 ml/min, il calcolo della
clearance invece, fornisce informazioni più precise.
- Glicemia basale, colesterolemia totale e le sue frazioni LDL ed HDL, la trigliceridemia e l’uricemia: quando
alterati, questi parametri amplificano gli effetti lesivi dell'ipertensione costituendo ulteriori fattori di rischio
cardiovascolare.
- Potassiemia: in genere è marcatamente alterata (ipopotassiemia) nella sindrome di Conn, nella sindrome
di Cushing, nell'ipertensione nefrovascolare e durante l'assunzione non controllata di diuretici.
- Esame delle urine: può mostrare una microalbuminuria od una proteinuria franca, oppure la presenza di
cilindri, leucociti, emazie, etc.
- Elettrocardiogramma (vedi Capitolo 3): può evidenziare un sovraccarico o un'ipertrofia del ventricolo
sinistro mediante i criteri di Sokolow- Lyon (SV1+RV5 o V6 = 3,8 mV) o di Cornell-voltaggio (SV3+Ra Vl = 2,8
negli uomini e 2,0 mV nelle donne). Rispetto all'ecocardiogramma è comunque un test molto meno
sensibile anche se specifico.
- Ecocardiogramma (vedi Capitolo 4): fornisce dati più affidabili su un'eventuale presenza di ipertrofia e

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335 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

sulla geometria e funzionalità del ventricolo sinistro. Consente inoltre di determinare la presenza di una
disfunzione diastolica e di classificarla nei suoi 3 pattern di disfunzione a gravità crescente.
- Eco-Doppler arterioso (vedi Capitolo 12): per lo studio dei distretti arteriosi epiaortico e degli arti inferiori.
Particolarmente importante lo studio ecoDoppler delle arterie carotidi, per la quantificazione dello
spessore del complesso intima-media carotideo.
- Monitoraggio dinamico della pressione arteriosa per 24 ore (ABPM): consiste nella registrazione per 24 h
dei valori di pressione arteriosa campionati circa ogni 30 minuti. Può fornire importanti informazioni
quando vi sono marcate differenze fra i valori pressori riscontrati in più visite, o quando ci sono discordanze
tra i livelli riscontrati dal medico e quelli registrati dal paziente; è inoltre utile per verificare il ritmo
circadiano della pressione e l’efficacia della terapia antiipertensiva.
- Automisurazione della pressione arteriosa a domicilio dal paziente: consente la raccolta di valori pressori
per diversi giorni e offre la possibilità di ottenere la loro media anche su molti mesi, coinvolgendo il
paziente nella gestione del suo problema. La Tabella IV propone i valori di riferimento della popolazione
normale con le differenti tecniche di misurazione della pressione arteriosa.
- Esame del fondo dell'occhio: rileva le alterazioni delle arterie retiniche legate allo stato ipertensivo.
Secondo le ultime Linee Guida assume un valore specifico solo in forme gravi di ipertensione, in grado di
determinare la comparsa di essudati ed emorragie della retina (III-IV stadio della classificazione della
retinopatia secondo Keith e Wegener).

Tabella 45.4 Dati anamnestici da raccogliere durante la valutazione del paziente iperteso, secondo le Linee Guida ESC/ESH 2007.

IPERTENSIONE ARTERIOSA SECONDARIA

Ipertensione arteriosa secondaria


L’ipertensione arteriosa secondaria rappresenta circa il 5% dei casi di ipertensione ed è la conseguenza di
un disordine primitivo soprattutto di tipo renale od endocrinologico.
La ricerca di un'ipertensione secondaria dev'essere attuata con massimo scrupolo, soprattutto nei soggetti
giovani, in quanto nella maggior parte dei casi la sua causa può essere rimossa ed in questi casi
l’ipertensione può essere curata evitando una terapia per il resto della vita. Per tal motivo, quando vi è il
sospetto di un’ipertensione arteriosa secondaria è necessario procedere con la valutazione strumentale del
paziente con l’ausilio di esami specifici.

 Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una riduzione
dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone
provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a malattie renali acute quali
l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche, o a disordini di tipo
cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica. Cause più rare di ipertensione
nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina.

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336 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici per valutare la
funzionalità renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale.

 Ipertensione nefrovascolare. Questa frequente causa di ipertensione secondaria è associata ad una


stenosi mono o bilaterale dell’arteria renale dovuta ad un processo aterosclerotico, o, nel caso di soggetti
giovani soprattutto se donne, alla presenza di una displasia fibro-muscolare. La riduzione del flusso renale
secondaria alla stenosi determinerà un’aumentata e non regolata secrezione di renina e la successiva
formazione di angiotensina II con un aumento della vasocostrizione periferica, aumento del
riassorbimento di acqua e sodio, e incremento rapido dei valori di pressione arteriosa. Ed è proprio uno
sviluppo rapido di uno stato ipertensivo non controllabile con la terapia medica, od insorto in un paziente
giovane, che deve assolutamente porre il sospetto di un’ipertensione nefrovascolare.

Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un aumento combinato dei
livelli di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler
dell’arterie renali nel caso di stenosi prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La
metodica “gold standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia delle
arterie renali. Nel sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna prescrivere con estrema cautela ed a
bassi dosaggi i farmaci ACE-inibitori, per il rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della
perfusione renale con lo sviluppo di insufficienza acuta.

 Iperaldosteronismo primitivo. Le sindromi da eccesso primitivo di mineralcorticoidi sono rappresentate


nel 30% dei casi da un adenoma surrenalico, più frequente nelle donne e nei bambini, e nel 70% dei casi
da un’iperplasia surrenalica. Condizioni più rare sono secondarie al carcinoma surrenalico o
all’iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi. Un iperaldosteronismo va sospettato in presenza di
un’ipertensione resistente alla terapia, eventualmente associata ad astenia, crampi muscolari, poliuria,
polidipsia e palpitazioni. Il dato ematochimico più importante è l’ipopotassiemia associata ad
un’aumentata potassiuria, con un pH ematico che risulta aumentato per incremento dei bicarbonati. I
livelli di aldosterone sono aumentati, mentre quelli di renina soppressi, per cui il rapporto aldosterone
plasmatico/attività reninica plasmatica è generalmente aumentato. Per la diagnosi definitiva di
iperaldosteronismo primario ci si può avvalere di test dinamici di conferma. Tra questi il più diffuso è
quello del ”carico salino”: se i livelli sierici di aldosterone non risultano soppressi dopo il test si può fare
diagnosi di iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi di iperaldosteronismo può essere confermata anche
dal test di soppressione al fludrocortisone. In presenza di iperaldosteronismo primario la
somministrazione per 4 giorni di fludrocortisone non determina la soppressione dei livelli plasmatici di
aldosterone.
 Feocromocitoma. Il feocromocitoma è un tumore del tessuto cromaffine della midollare del surrene o del
tessuto paragangliare, e si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata increzione di adrenalina e
noradrenalina. Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di ipertensione arteriosa, ma se non
riconosciuta mette seriamente in pericolo la vita del paziente. Uno stato ipertensivo è presente in tutti i
soggetti affetti, più frequentemente a crisi o talora cronico. I sintomi più comuni sono l’ansietà, le
palpitazioni, la cefalea, l’arrossamento improvviso del viso (flushing) e le sudorazioni profuse.

La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle catecolamine plasmatiche ed
urinarie e dei loro metaboliti, più facilmente se i campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I
dosaggi dell’acido vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli
esami più attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di test farmacologici di
inibizione o stimolazione, con clonidina e glucagone rispettivamente, o utilizzare subito metodiche
d’”imaging” quali l’ecografia, la TC o la RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore.

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337 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita dell’aorta
generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad altre anomalie quali
la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa rara di ipertensione arteriosa
secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi è di solito clinica ed è legata al
riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti superiori e di un ipotensione a livello degli
arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un
soffio continuo al dorso, nella regione interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle
arterie intercostali. La diagnosi di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un
angio-TC del torace ed un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea,
mediante l’apposizione di stent, o chirurgica.
 Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare un’ipertensione
arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i contraccettivi orali, i FANS, i
corticosteroidi, la ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso
di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi rapida.

TRATTAMENTO

Trattamento
La finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto nella prevenzione
dello sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali benefici terapeutici possono essere
raggiunti non solo mediante la riduzione dei valori pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di
alcune complicanze, ma anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente
associati all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento
antiipertensivo, una valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al meglio il suo profilo di
rischio cardiovascolare, sia sulla base dell’entità della malattia ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di
rischio associati.
Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non farmacologico, basati
sulle modifiche dello stile di vita e delle abitudini comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico,
basati sull’impiego di diverse classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime
Linee Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione arteriosa, nei pazienti a
rischio cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato iniziare solo un trattamento non
farmacologico rivalutando dopo pochi mesi i soggetti, ed associando successivamente un trattamento
farmacologico qualora i valori pressori non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in
genere opportuno un approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici
con una terapia farmacologica (monoterapia o terapia di associazione) (Figura 45.2).

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338 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 45.2 Strategie di approccio terapeutico raccomandate dalle Linee guida ESC/ESH 2007.

 Interventi di tipo non farmacologico

Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il rischio cardiovascolare
globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più contenuto alla terapia farmacologica.
Sebbene siano spesso di non facile attuazione pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera
completa gli effetti a lungo termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non
farmacologici non presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di impiego.
Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti antipertensivi: il calo
ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare.
Considerata l'evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo, distribuzione anatomica
del grasso corporeo e pressione, non sorprende che una restrizione dell'apporto calorico si sia dimostrata in
grado di ridurre i valori pressori, essendo l'entità dell'effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione
di circa 1,5 mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di peso
corporeo perso.
Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di numerose meta-analisi,
che complessivamente hanno evidenziato un’azione antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la
sistolica e 2-3 per la diastolica). La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero
<2 grammi NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e stimoli il
sistema renina-angiotensina ed il sistema nervoso adrenergico.
Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4 grammi NaCI) è indicata
nel trattamento del paziente iperteso, specie considerando come questo intervento non farmacologíco si
sia dimostrato in grado di potenziare l'efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica.
Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che l'esercizio fisico regolare di
moderata intensità (rappresentato da un incremento pari a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a
riposo) è in grado, dopo un congruo periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8
mmHg a seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni si
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339 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

accompagnano ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù degli effetti emodinamici
(vasodilatazione) e metabolici favorevoli (miglioramento dell’ insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un
training fisico costante.

 Interventi antiipertensivi di tipo farmacologico

Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso quando non si ottengono
risultati sufficienti con gli interventi non farmacologici, o quando i valori pressori basali ed il rischio
cardiovascolare del paziente sono molto elevati.
L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di valori pressori ottimali,
e se questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è consigliabile adottare un’associazione tra
due o, se necessario, più molecole. La scelta del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non
è però basata solo sulla efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del
danno d’organo cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle alterazioni metaboliche
concomitanti, quali il diabete o la dislipidemia, ed in ultimo, deve tener conto della tipologia del paziente
(età, sesso, comorbidità), degli effetti collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze
terapeutiche e di aspetti socio-economici (Tabella V).

Le principali classi di farmaci anti-ipertensivi (vedi Capitolo 58) sono:

 Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata da
effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia ischemica,
disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per rallentare la progressione del
danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo metabolico sostanzialmente neutro.
Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da prima dose e raramente l’angio-edema della
glottide. Le principali controindicazioni sono l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi
bilaterale delle arterie renali.
 Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore (non
diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori periferici
(diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione anti-ipertensiva e si sono
dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in prescrizione singola od in
associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
 Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben tollerati anche in
quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei recettori AT-1
dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione arteriosa, in particolare nei
pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza di diabete o sindrome metabolica.
 Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono
particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono inoltre
spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina. Le
controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance” del paziente legata ad
effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio elettrolitico, in particolare
l’ipopotassemia, l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo glico-lipidico.
 Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia ischemica,
disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono controindicati nei
pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con asma o con broncopneumopatia
cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulino-resistenza.

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340 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere associati tra loro
specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e complementari, se l’efficacia ipotensivante è
superiore quando associati rispetto a quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è
ben tollerata.
Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano raggiunti gli obiettivi,
includono glialfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con ipertrofia prostatica, gli anti-
ipertensivi ad azione centrale, soprattutto alfa-metildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che
trovano indicazione soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o
resistente.

URGENZE ED EMERGENZE IPERTENSIVE


Urgenze ed emergenze ipertensive
Le urgenze ed emergenze ipertensive sono forme cliniche caratterizzate da un notevole rialzo pressorio
(solitamente PAD >130 mmHg) che richiedono un abbassamento rapido della pressione. Queste condizioni
possono essere distinte in urgenze ed emergenze ipertensive. Per urgenza ipertensiva s’intende un marcato
e rapido rialzo pressorio peraltro non associato a segni di danno d’organo acuto cardiaco o neurologico e
possono essere risolte nell’arco delle 24 ore. Le emergenze ipertensive sono invece quelle situazioni nelle
quali, per la presenza di segni di danno d'organo collegati al rialzo pressorio, e per grave pericolo di vita, è
indispensabile una riduzione della pressione arteriosa entro 1 ora.
Le alterazioni d’organo che possono essere riscontrate nell’emergenza ipertensiva sono l’infarto miocardico
acuto o l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, la dissezione aortica e l’emorragia cerebrale. Un
altro tipo particolare ed altrettanto grave di emergenza ipertensiva è l’encefalopatia ipertensiva,
caratterizzata da disturbi neurologici reversibili come la cefalea, alterazioni visive e dello stato di coscienza,
nausea e vomito. Questa, se non trattata può evolvere rapidamente in uno stato di coma e
successivamente in exitus. La fisiopatologia dell’encefalopatia ipertensiva è legata alla presenza di una
necrosi fibrinoide arteriolare generalizzata e di una dilatazione sproporzionata delle arterie cerebrali con un
conseguente iperafflusso sanguigno.
Nelle emergenze ipertensive il trattamento deve essere iniziato il più rapidamente possibile con l'obiettivo
non di ottenere l'immediato ripristino di livelli pressori normali, ma di arrivare a limiti di "sicurezza" senza
indurre, nello stesso tempo, complicanze cerebrali, coronariche o renali legate all’induzione di ipotensione
troppo rapida.
I farmaci di elezione nell’emergenza ipertensiva somministrati per via endovenosa sono la clonidina, il
nitroprussiato o nitroglicerina ed il labetalolo. Di solito è sempre consigliabile embricare alla terapia
endovenosa una terapia per via orale.

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341 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
Capitolo 46
L’Aterosclerosi

DEFINIZIONE

L’aterosclerosi, dal greco atére (sostanza pastosa) e sclerosis (indurimento), è un processo degenerativo
che si sviluppa a carico della parete delle arterie di grosso e medio calibro. La lesione anatomo-patologica
fondamentale dell’aterosclerosi è rappresentata dall’ateroma o placca, una deposizione rilevata, focale,
fibro-adiposa della parete arteriosa. L’ateroma è costituito da un centro, o core, composto
prevalentemente da lipidi matrice extracellulare, e da una componente cellulare (cellule muscolari lisce,
macrofagi, linfociti); il core lipidico è rivestito da un cappuccio fibroso che lo separa dal sangue circolante

ANATOMIA PATOLOGICA
Considerazioni introduttive
L’aterosclerosi è la causa principale di numerose importanti malattie del sistema cardiovascolare, quali
l’infarto miocardico, l’angina pectoris, e l’ictus cerebrale. Fino a venti anni or sono, l'aterosclerosi veniva
interpretata come una patologia lenta da accumulo di lipidi, che si venivano a depositare sulla superficie
delle arterie, sporgendo all’interno del lume fino a compromettere ed eventualmente bloccare
completamente il flusso ematico, causando la necrosi ischemica dei tessuti a valle. Questa teoria è stata
oggi soppiantata, in quanto sappiamo che la parete arteriosa non possiede un ruolo passivo ma, al
contrario, è una struttura complessa formata da numerosi tipi cellulari che partecipano attivamente al
processo aterosclerotico. Sappiamo inoltre che l’infiammazione gioca un ruolo chiave in tutti gli stadi di
sviluppo dell’aterosclerosi, dalla formazione della lesione iniziale, allo sviluppo della placca, fino alla sua
complicanza (erosione, ulcerazione, etc) con conseguente formazione di un trombo intravascolare. E’
proprio il trombo che, causando una improvvisa ostruzione al flusso ematico, si rende responsabile delle
conseguenze più gravi e temibili dell’aterosclerosi, come l’infarto miocardico e l’ictus cerebrale. Negli ultimi
anni, data la difficoltà a tenere separati il processo aterosclerotico da quello trombotico, si preferisce
parlare di aterotrombosi, a sottolineare la presenza di un continuum fisiopatologico che unisce i due
fenomeni

Le fasi dell’aterosclerosi

Fase di inizio.
In condizioni normali, il monostrato di cellule endoteliali che riveste tutto l’albero vascolare si oppone
all’adesione dei leucociti. Tuttavia, la presenza di alcuni elementi induttori, quali una dieta ad alto
contenuto di grassi saturi, il fumo di sigaretta, l’ipertensione e l’iperglicemia possono favorire l’espressione
da parte delle cellule endoteliali di alcune proteine di adesione, come VCAM-1 che lega un recettore
presente sulla membrana dei monociti e dei linfociti T, due tipi cellulari presenti pressoché costantemente
nelle lesioni aterosclerotiche iniziali. Una volta che i leucociti hanno aderito all’endotelio, le chemochine
(IFN-gamma, Il-8), prodotte a seguito delle lesioni endoteliali (lipoproteine ossidate), li inducono a
penetrare nello spazio sottoendoteliale. I leucociti, soprattutto i macrofagi, una volta raggiunto lo spazio
sottoendoteliale, sono in grado di fagocitare le lipoproteine qui presenti ed eventualmente trasformarsi in
cellule schiumose, determinando la formazione della stria lipidica, la lesione aterosclerotica iniziale.
Focalità delle lesioni aterosclerotiche
Le lesioni aterosclerotiche tendono a crescere con maggior frequenza in zone specifiche dell'albero
coronarico, come ad esempio le biforcazioni, probabilmente a causa del tipo di flusso ematico che in
queste aree si forma. Un ruolo importante nella regolazione delle funzioni endoteliali è infatti svolto dallo
“shear stress”, cioè dalle forze tangenziali che il sangue esercita sulla parete vasale.
344 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Uno shear stress laminare ed uniforme induce l’aumento di espressione di una serie di geni, quali la SOD,
la COX e la NO-sintetasi, enzimi che possiedono attività antiossidanti, antitrombotiche ed antiadesive nei
riguardi delle piastrine e dei leucociti e quindi, in definitiva, svolgono attività di protezione nei riguardi
del vaso rispetto all’aterogenesi. Lo shear stress turbolento o comunque non laminare non induce i
suddetti geni ateroprotettivi, per cui l’endotelio per flussi lenti e turbolenti, che si formano in
corrispondenza delle biforcazioni, è meno protetto dagli agenti aterogeni.

Formazione delle strie lipidiche


Una volta giunti nello spazio sottoendoteliale, i monociti si trasformano in macrofagi, esprimono elevate
quantità di recettori “spazzini” sulla loro membrana, soprattutto nei confronti delle lipoproteine
modificate dallo stress ossidativo, e cominciano a fagocitare le lipoproteine, fino a riempire gran parte
del citoplasma, diventando cellule schiumose, cellule di grosse dimensioni il cui citoplasma è
letteralmente stipato di lipidi, esteri del colesterolo e lipoproteine ossidate. Allo stesso tempo, i
macrofagi proliferano, aumentando di numero, e producono numerosi fattori di crescita e citochine che
agiscono sostenendo e amplificando i segnali pro-infiammatori. A questo stadio, la lesione aterosclerotica
è rappresentata dalla cosiddetta stria lipidica che macroscopicamente appare come una stria giallastra
(dato l’alto contenuto in lipidi) sulla superficie della tonaca intima. Non tutte le strie lipidiche però
evolvono verso la formazione di una placca avanzata e, d’altra parte, esse vengono evidenziate all’esame
autoptico molto frequentemente anche in soggetti giovani e sani. La stria lipidica, quindi, non possiede
necessariamente un significato patologico. Tuttavia, nella società moderna dove prevale uno stile di vita
caratterizzato da una elevata sedentarietà e da un eccesso di disponibilità di cibo, la progressione della
lesione aterosclerotica dalla stria lipidica alla formazione della placca conclamata è purtroppo un evento
frequente che può verificarsi precocemente nel corso della vita.
Formazione della placca conclamata
Da un punto di vista istologico la stria lipidica è principalmente caratterizzata dalla presenza di macrofagi
che hanno fagocitato elevate quantità di lipidi (cellule schiumose). Caratteristiche più complesse, come la
fibrosi, la necrosi del core lipidico, la trombosi e l’elevato grado di calcificazione, sono tipicamente assenti
nelle strie lipidiche, che rappresentano lesioni iniziali e largamente reversibili.
Nella fase precoce della formazione dell’ateroma, il macrofago-cellula schiumosa reclutato all’interno della
parete vasale serve non solo come deposito dei lipidi in eccesso ma anche come promotore di fenomeni
infiammatori. Infatti, tale cellula è in grado di produrre una grande quantità di citochine e chemochine pro-
infiammatorie, leucotrieni e prostaglandine. Inoltre, i macrofagi sono in grado di produrre elevate quantità
di specie molecolari altamente ossidanti, come l’anione superossido, che contribuisce ad ossidare
ulteriormente le lipoproteine presenti all’interno della lesione, aumentando quindi i fenomeni di
infiammazione locale e contribuendo alla formazione di un circolo vizioso che culmina con la progressione
della lesione aterosclerotica.
Oltre all’immunità innata, numerose evidenze hanno ampiamente dimostrato l’importanza dell’immunità
acquisita nel modulare i fenomeni aterosclerotici.

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347 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

E’ stato poi osservato che componenti cellulari costitutivi della parete vasale, come le cellule muscolari
lisce, possono, in determinate condizioni, aumentare l’espressione delle molecole HLA di classe II che sono
coinvolte nel processo di riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti T.
Se da un lato esistono pochi dubbi circa l’importanza dell’immunità acquisita nella formazione e
nell’evoluzione della lesione aterosclerotica, dall’altro le ipotesi riguardo l’identità dell’antigene(i)
coinvolto(i) in tale fenomeno rimangono largamente speculative. Possibili candidati sono le lipoproteine
ossidate che, esposte ad un microambiente altamente ossidante quale lo spazio sottoendoteliale, vengono
modificate nella loro struttura terziaria in modo da renderle estranee (“non-self”) al sistema immunitario.
Un’altra possibilità è rappresentata dalla presenza di antigeni batterici

o virali che risultano simili ad alcune sostanze dell’organismo. E’ stato osservato che alcune HSP batteriche,
in particolare quelle della Clamidia Pneumoniae, hanno una forte somiglianza antigenica con la HSP 45
umana, ed è quindi possibile che una infezione da Clamidia con successiva localizzazione dell’agente
patogeno all’interno della placca aterosclerotica possa portare alla attivazione del sistema immunitario nei
confronti di antigeni “self”. In ogni caso, una volta che l’antigene viene riconosciuto come estraneo, si
verifica l’attivazione delle cellule T che, a loro volta, secernono una grande quantità di citochine che vanno a
modulare i vari processi dell’aterosclerosi.
Mentre gli eventi iniziali della formazione dell’ateroma coinvolgono primariamente la disfunzione
endoteliale e il reclutamento dei leucociti, la successiva evoluzione verso la formazione di una placca
complessa coinvolge anche le cellule muscolari lisce della parete arteriosa. Le cellule muscolari lisce
presenti nella lesione aterosclerotica provengono per migrazione da quelle normalmente presenti nella
tonaca media; lo stimolo chemiotattico è in questo caso rappresentato principalmente dal “platelet-derived
growth factor” (PDGF), secreto dalle piastrine e dai macrofagi, che possiede anche potenti effetti mitogeni.
Infatti, all’interno della lesione, le cellule muscolari lisce vanno incontro sia a fenomeni proliferativi,
aumentando di numero, che di aumento della produzione e secrezione della matrice extracellulare. I due
fenomeni, proliferazione cellulare e secrezione della matrice, sommati insieme contribuiscono in questa
fase dell’aterogenesi alla crescita della placca.
E’ importante sottolineare che la crescita della placca non è un fenomeno lineare e costante, accelerazioni
improvvise si alternano a periodi di relativa quiescenza. Queste crisi proliferative possono essere messe in
relazione ad episodi di danno meccanico della placca stessa, con attivazione delle piastrine circolanti e della
cascata coagulativa e successiva esposizione delle cellule muscolari lisce a mitogeni potenti quali la stessa
trombina.

La lesione avanzata: necrosi e calcificazione


Le placche avanzate spesso sviluppano aree di calcificazione al loro interno. Alcuni sottotipi di cellule
muscolari lisce, sotto l’effetto di citochine particolari con effetti osteogenetici come il TGF-ß, sono in grado
di produrre zone di intensa calcificazione della placca. Inoltre, nelle placche avanzate vi sono proteine
contenenti numerosi residui di acido glutammico carbossilato in posizione gamma specializzate nel
sequestro di ioni calcio e quindi nel favorire i fenomeni di calcificazione.
Un’altra caratteristica delle placche avanzate è la presenza di aree di necrosi, nelle quali si è avuto la morte
delle cellule muscolari lisce per apoptosi, che quindi possono contribuire all’indebolimento della placca
favorendone la rottura.
348 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

FISIOPATOLOGIA

I fattori di rischio
Non esiste una causa unica dell’aterosclerosi. Sono però noti da lungo tempo diversi fattori, denominati
fattori di rischio, che aumentano il rischio di sviluppare la malattia e predispongono l’organismo ad
ammalare. Tra quelli modificabili e parzialmente modificabili vi sono l’abitudine al fumo di sigaretta, il
diabete, l’obesità, i valori elevati della colesterolemia, l’ipertensione arteriosa e la scarsa attività fisica, tra
quelli immodificabili vi sono la familiarità, l’età e il sesso.

PRESENTAZIONE CLINICA
L’aterosclerosi è una malattia cronica che progredisce lentamente rimanendo asintomatica per molti anni,
spesso anche per decadi. Tuttavia, la velocità con cui la lesione aterosclerotica evolve dalla semplice stria
lipidica alla placca conclamata è estremamente variabile da un individuo all’altro.

Le stenosi arteriose
Anche quando l’aterogenesi è nella sua fase “florida”, la crescita della placca può essere compensata da
fenomeni di rimodellamento positivo, cioè di crescita della placca verso l’esterno. Tuttavia, da un certo
punto in poi la crescita della placca eccede la capacità di rimodellamento positivo del vaso e la placca
stessa comincia a sporgere all’interno del lume arterioso riducendolo in maniera più o meno significativa.
Anche questa fase può rimanere per un certo periodo di tempo asintomatica, fino a quando la placca
diventa emodinamicamente significativa. Con questo termine intendiamo definire quelle placche che
restringono il lume del vaso colpito, causando un ostacolo al flusso ematico. Il principale meccanismo di
compenso mediante il quale viene mantenuto un adeguato flusso ematico a riposo è rappresentato dalla
vasodilatazione delle arteriole di resistenza sottostanti al vaso malato. Le manifestazioni cliniche
dell’aterosclerosi cronica sono quindi conseguenti al restringimento dell'arteria colpita, che rende il flusso
ematico relativamente fisso, cioè incapace di aumentare quando le condizioni funzionali lo richiedono,
come ad esempio durante gli sforzi fisici. Di conseguenza la sintomatologia, in particolare il dolore
ischemico, tende ad essere assente a riposo e a presentarsi in occasione di esercizio fisico più o meno
intenso, a seconda della gravità dell'ostruzione arteriosa. Tipiche sindromi croniche sono: l’angina pectoris
stabile, l’angina abdominis, la claudicatio intermittens, nella quale il dolore insorge durante la
deambulazione e scompare tipicamente dopo pochi minuti di riposo.
La rottura della placca e la trombosi
L’aterosclerosi, esclusivamente intesa come formazione e sviluppo delle placche aterosclerotiche, è una
malattia relativamente benigna. Infatti, anche in quei casi in cui l’ateroma progredisce fino ad occludere
completamente il lume del vaso interessato, generalmente ciò accade in un arco di tempo piuttosto lungo.
In queste circostanze, il letto vascolare interessato ha il tempo di adattarsi alla nuova condizione
sfavorevole attraverso la neoangiogenesi, mediante il quale si formano circoli collaterali vicarianti che
sostituiscono funzionalmente il vaso occluso. Il risultato finale è quello di evitare la necrosi ischemica del
tessuto interessato che invece accadrebbe se l’occlusione arteriosa fosse improvvisa. Al contrario,
l’occlusione acuta di natura trombotica rappresenta la complicanza più temibile dell’aterosclerosi: poiché
l’organo interessato non ha il tempo sufficiente per stimolare lo sviluppo di un adeguato circolo collaterale,
l’inevitabile conseguenza della trombosi arteriosa è di solito la necrosi del tessuto ischemico. Tale processo
si può localizzare a livello del circolo coronarico, causando l’insorgenza di una cosiddetta sindrome
coronarica acuta (infarto miocardico o angina instabile), o a livello del circolo cerebrale, causando un ictus,
o in un qualsiasi tessuto periferico, causando la necrosi dello stesso.
La complicanza (rottura, ulcerazione, erosione) di una placca aterosclerotica è la causa più frequente di
trombosi arteriosa. Quando la placca si complica (ulcerazione, rottura, etc), viene a perdersi il rivestimento
endoteliale con esposizione di numerose sostanze pro-trombogene presenti nel sottoendotelio, che
attivano la cascata della coagulazione e le piastrine circolanti e che culminano quindi con la formazione di
un trombo intrarterioso
351 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La severità della stenosi causata dalla placca aterosclerotica non si correla con l’insorgenza clinica di un
evento acuto. Molti studi hanno dimostrato che le placche vulnerabili, cioè quelle maggiormente prone alla
rottura, causano in genere stenosi non significative, in molti casi addirittura meno del 50% del diametro
luminale. Queste placche vulnerabili e instabili, poiché non sono significative dal punto di vista
emodinamico, sono di solito silenti sul piano clinico, fino a quando vanno incontro a rottura e, attraverso
l’ostruzione trombotica del flusso ematico coronarico, causano l’insorgenza di un evento acuto.
La complicanza della placca (rottura, ulcerazione) è un fenomeno multifattoriale. In passato grande
importanza è stata data a fattori meccanici quali l’aumento dello shear stress. Tuttavia, attualmente
l’ipotesi più accreditata è rappresentata dai fenomeni immuno-infiammatori che vengono attivati
all’interno della placca instabile. Infatti, la sintesi e la degradazione della matrice extracellulare sono in
continuo equilibrio tra loro. Quando però un linfocita T incontra il suo antigene specifico si attiva e produce
una serie di citochine in grado di attivare i macrofagi presenti all’interno della placca. Questi producono e
rilasciano le metalloproteasi (collagenasi, gelatinasi, elastasi) che aumentano la velocità di degradazione
della matrice, indebolendola e favorendone la rottura.

Cenni di Terapia

Modificazione dei fattori di rischio.


La riduzione dei livelli medi dei fattori di rischio riduce l’incidenza delle complicanze dell’aterosclerosi, sia
diminuendo l’incidenza delle malattie cardiovascolari che la mortalità a loro correlata. La prevenzione
dell’aterosclerosi consiste nell’adozione di stili di vita salutari: alimentazione sana, esercizio fisico, non
dipendenza dal fumo di tabacco.

Terapia farmacologica
Usando le statine diminuiamo i livelli circolanti di colesterolo; tali farmaci bloccano la tappa limitante della
sintesi del colesterolo bloccando la HMG-CoA reduttasi. Come conseguenza di tale inibizione, le cellule
dell’organismo e quelle epatiche in particolare, si “impoveriscono” di colesterolo endogeno. Poiché il
colesterolo costituisce un elemento fondamentale per la vita della cellula, la cellula reagisce aumentando
l’espressione dei recettori di membrana per le LDL, che a sua volta causa l’abbassamento dei livelli ematici
di colesterolo fino al 50%. E’ stato dimostrato che l’uso delle statine nei soggetti a rischio particolarmente
elevato di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori non solo abbassa il loro livello di rischio ma, in alcuni
casi, porta ad un rallentamento della crescita delle lesioni aterosclerotiche e talvolta addirittura alla loro
regressione.

CONCLUSIONI E POSSIBILI SVILUPPI FUTURI

L’aterosclerosi è una malattia degenerativa e progressiva delle arterie di grande e medio calibro a grande
componente infiammatoria: l’infiammazione è infatti in grado di modulare fortemente tutte le fasi
dell’aterogenesi, dalla formazione della lesione iniziale alla complicanza della placca con occlusione
trombotica del lume vasale.

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354 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 47
La Valutazione del Rischio Coronarico
DEFINIZIONE

La probabilità di coronaropatia aumenta in presenza dei fattori di rischio cardiovascolare i quali, se in


numero > 1, potenziano il rischio in maniera esponenziale.
FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI
Distinguiamo fattori di rischio non modificabile e modificabile, cioè correggibile con modifiche
comportamentali o con trattamenti farmacologici. I non modificabili sono l’età, il sesso e la familiarità. Tra i
modificabili i più importanti sono sicuramente la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito e il
fumo di sigaretta. Vanno menzionati, come fattori di rischio minori, anche: l’inattività fisica, l’alcool,
l’obesità, lo stress, la frequenza cardiaca elevata.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI NON MODIFICABILI

Età
Il rischio di coronaropatia aumenta con l’età, in particolare dopo i 65 anni, essendo la malattia
aterosclerotica una patologia cronico-degenerativa. Con l’età aumenta l’attivazione del sistema renina-
angiotensina-aldosterone e la produzione di radicali dell’ossigeno che favoriscono la disfunzione
endoteliale e l’innesco di fenomeni apoptotici.

Genere
L’incidenza di coronaropatia è più elevata negli uomini rispetto alle donne in età fertile, in quanto sembra
che gli estrogeni svolgano un ruolo protettivo. Dopo la menopausa tale differenza si annulla, poiché la
carenza di estrogeni comporta variazioni sfavorevoli dell’assetto lipidico, con aumento delle LDL e
riduzione delle HDL, modificazioni dell’emostasi in senso procoagulante e disfunzione endoteliale.
Familiarità
Si considera a rischio un individuo in cui un familiare di primo grado abbia presentato un evento coronarico
ad un’età < 55 anni se uomo e < 60 anni se donna.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI MODIFICABILI

Dislipidemia
Elevati livelli di colesterolo totale si associano ad un’aumentata incidenza di malattia aterosclerotica,
mentre una loro riduzione mediante dieta e/o terapia farmacologica, rallenta la progressione della stessa e
favorisce la stabilizzazione delle placche. Particolarmente importante è il

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355 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riscontro di elevati livelli di colesterolo-LDL, essendo queste lipoproteine ricche in colesterolo e capaci di
infiltrare la parete vasale, quando ossidate. Elevati livelli di trigliceridi sono anche un fattore di rischio. Le
lipoproteine HDL, invece, riescono a mobilizzare il colesterolo dagli ateromi trasportandolo al fegato per la
metabolizzazione; inoltre, esplicherebbero azioni protettive quali l’inibizione dell’adesione dei monociti
all’endotelio, la riduzione della proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’induzione della vasodilatazione
endotelio-mediata e l’inibizione dell’ossidazione delle LDL. Pertanto, elevati livelli di HDL-C esplicano
un’azione protettiva, mentre bassi livelli di HDL-C sono un fattore di rischio. Per qualunque livello di
colesterolo totale o LDL il rischio aumenta se contemporaneamente vi sono bassi livelli di HDL-C.
Soltanto l’esercizio fisico e il consumo moderato di vino rosso aumentano il livello di HDL-C, mentre
l’obesità e il fumo lo riducono.

Diabete
Il diabete costituisce un importante fattore di rischio, tanto che è stato considerato dalle Linee Guida una
condizione di “cardiopatia ischemica equivalente”. Nel paziente diabetico coesistono in genere multipli
fattori di rischio, essendo comuni l’obesità viscerale, alterazioni del metabolismo lipidico, con elevazione
dei trigliceridi, riduzione di HDL-C e presenza di LDL piccole e dense, aumento dei radicali liberi dannosi per
l’endotelio, iperaggregabilità piastrinica e iperfibrinogenemia.
Nel paziente con diabete la riserva coronarica è spesso diminuita, e la malattia coronarica è severa e
plurivasale, con lesioni prevalentemente distali, tali da rendere difficoltoso sia l’approccio interventistico
che quello chirurgico. I pazienti diabetici hanno anche un maggiore rischio di sviluppare insufficienza
cardiaca a causa della cardiomiopatia diabetica.

Ipertensione arteriosa
Molti studi epidemiologici hanno dimostrato la correlazione lineare tra ipertensione arteriosa e malattie
cardiovascolari, in particolare ictus cerebrale e infarto del miocardio. Da un lato l’ipertensione favorisce la
disfunzione endoteliale attraverso l’aumento dello shear-stress, dall’altro si associa spesso ad elevati livelli
di angiotensina II, che esercita un’azione vasocostrittrice e proinfiammatoria e stimola la proliferazione
delle cellule muscolari lisce.

Fumo di sigaretta
Il fumo aumenta il rischio di cardiopatia ischemica, proporzionalmente con il numero di sigarette fumate e
gli anni di fumo; sembra che anche il fumo passivo sia un fattore di rischio.
La nicotina attiva il sistema simpatico adrenergico con conseguente aumento della frequenza cardiaca, del
lavoro cardiaco, della pressione arteriosa e possibile riduzione del flusso coronarico per vasocostrizione. Il
CO agisce con un meccanismo tossico diretto sull’endotelio che diventa più permeabile alle lipoproteine, e
provoca ipossia relativa secondaria all’aumento della carbossiemoglobina. Il fumo, inoltre, aumenta
l’aggregabilità piastrinica e la viscosità ematica.
I benefici della cessazione del fumo sono già evidenti dal primo anno, e dopo circa tre-cinque anni, il rischio
relativo dell’ex-fumatore diviene simile a quello del non fumatore.

Obesità
L’obesità, e soprattutto l’accumulo di grasso viscerale, si associano a dislipidemia e resistenza


insulinica, con livelli elevati di trigliceridi, bassi di HDL-C e ridotta tolleranza al glucosio; tale cluster di fattori
di rischio è comunemente indicato come sindrome metabolica.

Inattività fisica la vita sedentaria e la mancanza di attività fisica regolare costituiscono un fattore di rischio.
Viceversa, l’attività fisica svolta con regolarità riduce significativamente il rischio cardiovascolare, sia in
prevenzione primaria sia in prevenzione secondaria. Essa determina una riduzione della frequenza cardiaca
e della pressione arteriosa sotto sforzo, e quindi del consumo di ossigeno del miocardio; favorisce, inoltre,
l’aumento del colesterolo HDL, la riduzione dei trigliceridi, della glicemia (nel diabete) e dell'obesità, e
diminuisce l'aggregabilità piastrinica.
356 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Alcool
Recenti studi hanno messo in evidenza un possibile ruolo dell’abuso di alcool come fattore di rischio
cardiovascolare. Al contrario, un uso controllato e limitato di vino rosso, sembra favorire l’aumento del
colesterolo HDL e svolgere azione antiossidante grazie alla presenza di polifenoli e resveratrolo.

Frequenza Cardiaca
Negli ultimi anni è stato dimostrato un ruolo dell’incremento della frequenza cardiaca
e della riduzione della sua variabilità, anche in soggetti sani, nel predire eventi patologici cardiovascolari.

Pattern comportamentale Una particolare condizione comportamentale, definita come personalità di


“tipo A” e caratterizzata da atteggiamenti caratteriali quali fretta, impazienza, eccessiva competitività ed
ostilità verso l'ambiente sociale, lavorativo e familiare, possa aumentare il rischio coronarico. Il
meccanismo imputabile è verosimilmente un’aumentata reattività cardiovascolare secondaria ad una
maggiore liberazione di catecolamine e all’ipercortisolemia. Tuttavia, in tali soggetti il rischio
aumenterebbe solamente quando non si realizzino gli obiettivi prefissati.

FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI


Sindrome Metabolica
La sindrome metabolica è costituita da una combinazione di fattori di rischio che, coesistendo, conferiscono
un rischio elevato di sviluppare cardiopatia ischemica. Esistono diverse classificazioni della malattia: la
sindrome è definita dalla coesistenza di almeno tre dei seguenti fattori di rischio: 1) circonferenza vita >
102 cm nell’uomo e di 88 cm nella donna, 2) trigliceridemia =150 mg/dL, HDL-C < 40 mg/dL nell’uomo e <
50 mg/L nella donna, 3) pressione arteriosa = 130/85mmHg, 4) glicemia a digiuno = 100 mg/dl. La
prevalenza della sindrome metabolica aumenta con l’età con maggiore frequenza nel sesso maschile fino a
45 anni di età e successivamente nel sesso femminile.
Infiammazione
Le lesioni aterosclerotiche sono il frutto di un processo infiammatorio cronico, la stessa flogosi contribuisce
alla rottura e/o all’erosione della placca predisponendo allo sviluppo di una sindrome coronarica acuta
Alcune noxae (LDL ossidate, ipertensione, fumo, diabete, agenti infettivi, etc.) sono in grado di alterare la
funzione dell’endotelio inducendo la produzione di citochine proinfiammatorie (IL1, TNFalfa, IL6, sCD40L,
etc.) e rendendolo suscettibile all’infiltrazione di lipidi e cellule infiammatorie. Queste amplificano il
processo infiammatorio producendo altre citochine, fattori di crescita e fattori chemiotattici. Più una placca
è ricca di lipidi e cellule infiammatorie (in particolare macrofagi in grado di produrre proteasi capaci di lisare
il cappuccio fibroso, come le metalloproteinasi) più è incline alla rottura e quindi all’insorgenza di una
sindrome coronarica acuta (SCA). I livelli plasmatici di PCR costituiscono un marker di rischio in pazienti
asintomatici con fattori di rischio e un predittore prognostico in pazienti con angina instabile e SCA. La PCR
è in grado di attivare il complemento e di attivare la cascata coagulativa.
Esiste anche un’associazione forte fra livelli di fibrinogeno ed eventi cardiovascolari. Il fibrinogeno aumenta
la viscosità ematica, incrementa la trombogenicità del sangue ed esalta l’aggregazione piastrinica
favorendo la trombosi e, infine, incrementa la formazione di fibrina portando conseguentemente ad un
aumento delle dimensioni dei trombi e ad una riduzione della loro suscettibilità alla lisi.

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357 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Iperomocisteinemia
L’omocisteina è un composto intermedio del metabolismo della metionina. L’assenza genetica dell’enzima
metilentetraidrofolatoreduttasi (MTHFR) che trasforma l’omocisteina in metionina rappresenta una delle
cause di iperomocisteinemia e si associa ad aterosclerosi accelerata ed a trombosi arteriosa e venosa.
L’omocisteina sembrerebbe indurre il danno vascolare interferendo con la produzione di NO da parte
dell’endotelio, e con la funzione piastrinica e incrementando la tendenza alla trombosi.

Microalbuminuria
Il termine microalbuminuria indica l’aumento subclinico dell’escrezione urinaria di albumina, con valori di
compresi tra 30 e 300 mg/24 h, in assenza di macroproteinuria e di nefropatia conclamata. L’aumento
della permeabilità dei capillari glomerulari favorirebbe il passaggio transmembrana di albumina ma anche
di lipoproteine aterogene nella parete vascolare, e sarebbe un indice di disfunzione endoteliale. La
microalbuminuria rappresenta un marker di danno vascolare globale utile principalmente nella
stratificazione del rischio di pazienti diabetici e ipertesi.

Infezioni
Vi sono evidenze che alcuni microrganismi come cytomegalovirus, herpes virus, chlamydia pneumoniae,
helicobacter pylori, possano contribuire all’insorgenza della malattia aterosclerotica, nonché rendere
instabili le placche aterosclerotiche.

MARKER STRUMENTALI DI DANNO VASCOLARE PRECLINICO


Nella stratificazione del rischio coronarico oltre alla valutazione dei fattori di rischio è utile la ricerca di
segni di aterosclerosi preclinica, oggi possibile mediante lo studio ultrasonografico delle arterie carotidi, la
misurazione dell’Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI) e la valutazione non invasiva della funzione
endoteliale.

Ispessimento Intima-Media (IMT) e Placca Asintomatica Carotidea (PCA)


Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato un’associazione tra l’incremento dello spessore medio-
intimale carotideo o la presenza di placche aterosclerotiche asintomatiche delle carotidi e l’incidenza di
malattia cerebro- e cardiovascolare (ictus ed infarto miocardico)

Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI


Normalmente misurando la pressione arteriosa sistolica alla caviglia (tibiale posteriore) o alla tibiale
anteriore e rapportandola alla pressione sistolica brachiale il rapporto è > 1 (mentre le succlavie si
staccano ad angolo retto dall'aorta, le iliache si staccano dall'aorta quasi parallele, ecco perché la
pressione dei polsi brachiali è minore di quelli tibiali). Se tale rapporto è < 0.9 questo significa che il
paziente è portatore di aterosclerosi preclinica a livello dell’albero arterioso iliaco-femoro-popliteo, che
spesso si associa ad aterosclerosi cerebrale e coronarica.

Disfunzione Endoteliale
La disfunzione endoteliale rappresenta il primum movens nella patogenesi dell’aterosclerosi e può essere
dimostrata dalla vasocostrizione conseguente all’iniezione intrarteriosa di acetilcolina, in arteria brachiale
o durante angiografia coronarica. Invece, se l’endotelio è integro, tale sostanza provoca vasodilatazione
stimolando la liberazione di Nitrossido (NO) da parte dell’endotelio.

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358 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE E CARTE DEL RISCHIO

Il rischio cardiovascolare è un processo complesso, influenzato da fattori genetici, ambientali, sociali e


culturali. Pertanto, al fine di valutarlo in maniera obiettiva si è reso necessario introdurre il concetto di
Rischio Cardiovascolare Globale (RCVG) e formulare le carte del rischio. Queste, mediante algoritmi e/o
sistemi a punteggio che valutano una serie di parametri, consentono di stimare il rischio di eventi
cardiovascolari nei successivi 10 anni. La prima carta del rischio è stata quella di Framingham, che si basa
sul calcolo del risk score ottenuto dalla somma del punteggio attribuito ai singoli fattori di rischio presenti.
La carta europea del rischio utilizza per il calcolo una mappa di mortalità cardiovascolare a codifica di
colore e distingue in Europa 2 zone, una ad alto ed una a basso rischio, di cui fa parte l’Italia. Per stimare il
rischio di presentare un evento cardiovascolare maggiore a 10 anni, è stata elaborata una carta italiana,
che distingue 4 categorie di soggetti: uomo diabetico e non diabetico, donna diabetica e non diabetica.

Figura 1 Carta italiana del rischio (uomo diabetico)

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359 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Carta italiana del rischio (uomo non diabetico)

Figura 3 Carta italiana del rischio (donna diabetica)

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360 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Carta italiana del rischio (donna non diabetica)

Il rischio è dunque attribuito in base alla presenza o meno e al valore crescente di: età, genere, diabete,
abitudine al fumo, valori di pressione arteriosa sistolica e colesterolemia. Il RCVG è calcolabile per uomini e
donne esenti da precedenti eventi cardiovascolari, di età compresa fra 40 e 69 anni. Il livello di rischio a 10
anni è distinto in: < 5%; tra 5 e 10%; tra 10 e 15%; tra 15 e 20%; tra 20 e 30%; > 30%.
La stratificazione del rischio coronarico non costituisce un mero calcolo matematico, ma ha delle ovvie
implicazioni di ordine pratico nella prevenzione di eventi cardiovascolari (Tabella I.

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362 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PREVENZIONE PRIMARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA


Per prevenzione primaria s’intende la messa in atto di una strategia d’intervento sulla popolazione mirata a
prevenire un evento mai manifestatosi in precedenza.
Il fulcro della prevenzione primaria è la correzione dei fattori di rischio ovvero l'abolizione dell'abitudine al
fumo, la dieta alimentare (ridurre l'assunzione di zuccheri semplici, di alcool, di proteine animali, di sale e di
colesterolo, prediligendo gli acidi grassi insaturi), il controllo del peso corporeo, l’attività fisica regolare, il
trattamento dell’ipertensione, delle dislipidemie e dell’iperglicemia. I pazienti ipertesi ad alto rischio
dovrebbero mirare a raggiungere una pressione arteriosa < 130/80 mm Hg, mentre valori < 140/90 mm Hg
sono accettabili per l’ipertensione non complicata. Inoltre, se il rischio globale è > 20% va istituito un
trattamento farmacologico dell’ipercolesterolemia anche lieve. Nella Tabella II

sono riportati i target raccomandabili per il colesterolo-LDL, per categoria di rischio e le indicazioni ad
instaurare una terapia.
Per quanto riguarda le HDL-C il valore desiderabile dovrebbe essere > 40 mg/dl per gli uomini e > 50 mg/dl
per le donne, per i trigliceridi < 150 mg/dl.
Le modificazioni dello stile di vita prima discusse comportano un aumento del 10-20% dei livelli plasmatici
delle HDL-C ed una riduzione dei trigliceridi. Nelle ipertrigliceridemie elevate > 500 mg/dl, l’intervento
farmacologico è necessario.
Nel paziente diabetico, per il rischio particolarmente elevato è fondamentale l'ottimale controllo glicemico
e lo stretto controllo di tutti i concomitanti fattori di rischio.
Prevenzione nei pazienti a rischio intermedio, con aterosclerosi preclinica
I soggetti con almeno 2 fattori di rischio (rischio intermedio). Necessitano di una strategia di prevenzione
più aggressiva e di misure farmacologiche. In realtà se coesistono segni strumentali di aterosclerosi
preclinica (IMT > 1 mm o PCA, o ABI < 0.9 o ridotta FMD) si collocano ad un livello di rischio molto più
elevato.

PREVENZIONE SECONDARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA


Per prevenzione secondaria si intende l’attuazione di una strategia terapeutica in soggetti che hanno avuto
un evento cardiovascolare. Si basa sull’interazione tra modifiche dello stile di vita ed uso ragionato dei
farmaci. Utili le statine sia per il controllo dell'assetto lipidico sia per gli effetti di stabilizzazione sulla placca.
Nel controllo dei valori pressori vanno considerati di prima scelta gli ACE-inibitori, i sartani e i beta-
bloccanti; questi ultimi hanno effetto cardioprotettivo, riducono il consumo di ossigeno e la mortalità.
Inoltre, un ruolo fondamentale è svolto dai farmaci antitrombotici, in particolare dall’acido acetilsalicilico,
che assunto con dosaggio da 75 a 325 mg/die riduce del 33% il rischio di reinfarto e del 25% la mortalità.

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386 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 49
Il Cuore Polmonare Cronico

DEFINIZIONE

Si definisce “cuore polmonare” la dilatazione e/o l’ipertrofia del ventricolo destro per aumento del
postcarico dovuto a malattie dei polmoni, della parete toracica, dei vasi polmonari o dei centri del controllo
della ventilazione. Sono escluse dalla definizione di cuore polmonare le patologie del cuore destro dovute
a cardiopatie congenite o a malattie del cuore sinistro.

FISIOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

La circolazione polmonare è interposta tra il ritorno venoso sistemico e l’atrio sinistro; oltre a rivestire un
ruolo chiave negli scambi dei gas, il circolo polmonare concorre alla regolazione biochimica, termica ed
umorale del sangue. In condizioni normali, la forza che guida il sangue attraverso il polmone dipende in
ugual misura dal ventricolo destro e dalla respirazione. La funzione di pompa del ventricolo destro,
tuttavia, diviene rilevante solo in condizioni patologiche. In alcune procedure cardiochirurgiche (ad
esempio l’intervento di Fontan), infatti, si esegue un by-pass del ventricolo destro, mettendo in
comunicazione diretta l’atrio destro con l’arteria polmonare, senza che il ritorno venoso al cuore sinistro
venga compromesso; ciò dimostra come la circolazione polmonare possa avvenire normalmente anche
senza il contributo del ventricolo destro.
La caratteristica principale del circolo polmonare è che le pressioni sono basse. Per generare ed aumentare
il flusso del sangue occorre superare la pressione di apertura dei vasi, reclutare progressivamente nuovi
vasi e dilatare quelli già aperti. La relazione tra la pressione guida (differenza tra pressione arteriosa
polmonare media e pressione atriale sinistra) e il flusso, perciò, è curvilinea e non origina dallo zero degli
assi cartesiani.

La pressione polmonare a catetere incuneato o “wedge” si misura occludendo con la punta del catetere un
ramo periferico dell’ arteria polmonare. Quella che si registra è la pressione del punto più lontano dal
catetere in cui vi è ripresa di flusso.
388 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Schema di pressione polmonare a catetere incuneato. Occludendo il vaso in A si registra una
pressione equivalente a B; occludendo il vaso in C si registra una pressione equivalente in D.

L’occlusione in A legge la pressione in B mentre l’occlusione in C legge la pressione in D. In clinica, però, non
siamo in grado di percepire la differenza tra la pressione ottenuta occludendo A o C.
La distribuzione del flusso di sangue nel polmone dipende dal rapporto tra pressione arteriosa polmonare,
pressione venosa polmonare e pressione alveolare. Le camere del cuore destro sono cavità ad alta
compliance, che possono accettare grandi volumi di sangue con piccole variazioni di pressione. Il sistema va
“in crisi” in presenza di ipertensione polmonare, che si definisce presente se la pressione polmonare media
è, a riposo e a livello del mare, > 20 mm Hg.

FISIOPATOLOGIA DEL CUORE POLMONARE CRONICO

Il ventricolo destro non è in grado di tollerare pressioni di 60-80 mm Hg, ma se il sovraccarico di pressione si
instaura gradualmente, il ventricolo si ipertrofizza e si dilata, riuscendo a mantenere pressioni molto più
alte, in alcuni casi addirittura superiori a quelle del ventricolo sinistro.
Ci può essere ipertensione polmonare in caso di: a) malattie cardiache congenite, b) malattie a carico del
cuore sinistro (atrio, valvola mitrale, ventricolo, valvola aortica), c) malattie respiratorie, e d) malattie che
interessano il circolo polmonare. Per definizione solo le ultime due condizioni possono essere causa di
cuore-polmonare.

Vasocostrizione ipossica
In presenza di ipossia alveolare, i vasi che portano sangue agli alveoli interessati dalla ipossia si
vasocostringono. Se localizzato, questo è un meccanismo di difesa utile perché riduce la perfusione di
alveoli poco efficienti, favorendo la perfusione di alveoli normossici. Se il fenomeno è generalizzato, o
comunque interessa una grossa parte del polmone, si sviluppa ipertensione polmonare ipossica
(vasocostrizione--> aumenta la Resistenza--> aumenta la pressione per mantenere il flusso). L’ipossia
alveolare può essere acuta (apnee del sonno), subacuta (ARDS, edema polmonare da alta quota) o cronica
(patologia polmonare, della parete toracica o del controllo della ventilazione). In presenza di ipossia
cronica, le arterie polmonari sviluppano uno strato muscolare che aumenta progressivamente, in rapporto
alla durata ed all’entità dell’ipossia alveolare. Alcuni fattori aumentano la risposta ipertensiva all’ipossia
alveolare, quali l’aumento della PaCO2, l’aumento dell’ematocrito che incrementa la viscosità del sangue,
l’aumento o la riduzione importante del volume polmonare ed, infine, la riduzione anatomica o funzionale
del letto vascolare polmonare (diminuendo la sezione totale aumenta la Resistenza). Bisogna ricordare che
la resistenza vascolare polmonare dipende dal volume polmonare: per i vasi alveolari aumenta con
l’aumento del volume aereo polmonare, mentre per i vasi extra-alveolari si riduce con l’aumento del
volume aereo polmonare. La somma dà la effettiva resistenza vascolare alla Capacità Funzionale Residua
(Figura 3).

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389 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Relazione tra volume polmonare e resistenza vascolare polmonare totale nei vasi alveolari e nei
vasi extra-alveolari (VR = volume residuo, CFR = capacità funzionale residua, CPT = capacità polmonare
totale, RVP = resistenze vascolari polmonari).

Episodi di ipossia alveolare, come quelli associati alle apnee notturne, possono causare o concorrere a
causare cuore polmonare. Un esempio classico di questo è il cuore polmonare della sindrome di Pickwick
(obesità, sonnolenza, policitemia) o quello dei “russatori” per alcool, bronchite cronica, obesità. L’ipossia
alveolare cronica si sviluppa in corso di ipoventilazione alveolare e si associa ad ipercapnia. Le cause
includono enfisema, fibrosi polmonare, patologia polmonare restrittiva e bronchite cronica.

Restringimento meccanico dei vasi


In presenza di malattia polmonare ostruttiva, il volume del polmone aumenta. Inoltre si può sviluppare il
fenomeno del “air-trapping” per l’insufficiente flusso espiratorio. Se la ventilazione aumenta, questo
fenomeno diviene sempre più rilevante con zone di polmone che per l’insufficiente espirazione sono ad
alta pressione e comprimono i vasi. In questo caso, per mantenere il flusso deve esserci un ulteriore
aumento della pressione vascolare. Anche la riduzione del volume polmonare si associa ad aumento della
resistenza vascolare polmonare (Figura 3).

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390 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Sovraccarico pressorio attorno al cuore destro
Il cuore è circondato in gran parte dal polmone. Nel cuore
polmonare la rigidità del polmone è significativamente aumentata, e ciò aumenta il lavoro esterno, quello
soprattutto del ventricolo destro, le cui pareti sono sottili e meno potenti di quelle del ventricolo sinistro. Il
movimento del cuore in sistole e diastole è a maggiore costo energetico in presenza di polmone rigido.

Aumento della portata cardiaca


L’ipossia alveolare riduce il contenuto arterioso di ossigeno. Questa riduzione è compensata da un
aumento dell’emoglobina e dall’aumento della portata cardiaca. Quest’ultima è un ulteriore elemento di
sovraccarico per il cuore destro.

QUADRO CLINICO

In presenza di scompenso del cuore destro si ha un aumento della pressione venosa sistemica, per cui
avremo edemi declivi, turgore giugulare, epatomegalia ed ascite.
Le sindromi che possono essere alla base del cuore polmonare cronico sono: a) malattia polmonare
ostruttiva, b) malattia polmonare restrittiva, c) malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva) e
d) malattie vascolari polmonari.

Malattia polmonare ostruttiva


Il quadro clinico è quello del fumatore, con frequenti episodi di bronchite soprattutto nei mesi invernali. Il
paziente riferisce a volte sintomi correlati all’incremento della CO2, quali confusione mentale e
disorientamento. I segni più frequenti sono quelli legati all’aumento della pressione venosa (turgore
giugulare, epatomegalia, edemi declivi) e quelli dipendenti dall’ipossia, come la cianosi labiale e delle
estremità; è quasi sempre presente tachicardia sinusale e non di rado fibrillazione atriale.
La radiografia del torace mostra un cuore ingrandito, salienza del secondo arco di sinistra per dilatazione
dell’arteria polmonare ed aspetto ad albero potato della vascolatura polmonare in periferia.
I test di funzione respiratoria dimostrano riduzione di FEV1, FEV1/FVC e capacità vitale, ed aumento
consistente del Volume Residuo. La diffusione alveolo-capillare è ridotta.
L’emogasanalisi dimostra ipossiemia e ipercapnia. La somministrazione incongrua di ossigeno può
peggiorare il quadro emogasanalitico.
L’ECG (ECG 03)

3 - Ingrandimento atriale destro. Ipertrofia ventricolare destra. Enfisema polmonare. Cuore Polmonare cronico
391 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’ingrandimento dell’atrio destro è suggerito dalle P alte (0,35 mV in II) e appuntite, con durata
normale (0,09 secondi), nelle derivazioni II, III e aVF. Vi sono, inoltre, onde P appuntite in tutte le
derivazioni precordiali; in V1 la P è positivo/negativa. L’ecocardiogramma rivela l’ipertrofia e la
dilatazione del ventricolo destro, ed anche l’ipertensione polmonare, valutata con metodica Doppler
(Figura 4).
La terapia è la sospensione del fumo, la riduzione del rischio di recidiva delle infezioni delle vie aeree e
dei polmoni, l’uso di broncodilatatori e mucolitici, l’impiego congruo di ossigeno

Malattia polmonare restrittiva


Le malattie restrittive che portano al cuore polmonare cronico hanno prognosi infausta. Si possono
riconoscere due gruppi di malattie restrittive: il primo comprende le alveoliti fribrotizzanti, le
pneumoconiosi, le malattie della gabbia toracica e del suo apparato neuro-muscolare. Tutte queste
malattie portano ad insufficienza ventilatoria con iperventilazione.
Il secondo gruppo di malattie restrittive che portano a cuore polmonare è caratterizzato fin dall’ inizio da
ipoventilazione. La terapia delle fasi più avanzate è solo il supporto ventilatorio.

Malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva)


I due quadri possono essere presenti: l’aspetto clinico più tipico è quello del fumatore obeso.

Malattie vascolari polmonari


L’ostruzione o la distruzione del letto vascolare polmonare può causare ipertensione polmonare che, a sua
volta, porta a cuore polmonare. In questo caso la pressione polmonare può essere molto elevata, più che
nelle forme ipossiche.
L’ipertensione polmonare può essere post-embolica, di solito successiva a molti episodi embolici più o
meno sintomatici e spesso clinicamente non riconosciuti, oppure causata da vasculopatia per ipertensione
polmonare primitiva.
L’incidenza dell’ipertensione polmonare post-embolica è minore di quanto ci si potrebbe aspettare dal
numero di embolie ritrovate all’autopsia: ciò dipende verosimilmente dall’estensione del letto vascolare
polmonare e dai potenti meccanismi trombolitici dell’endotelio polmonare.

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393 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 50
L’Embolia Polmonare

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

L’embolia polmonare è l’occlusione acuta del tronco o di un ramo dell’arteria polmonare, che determina
un ostacolo allo svuotamento del ventricolo destro e un’interruzione del flusso ematico nel distretto
polmonare a valle dell’occlusione. Il grado di compromissione emodinamica e respiratoria dipende dalla
dimensione dell’embolo, che può interessare la biforcazione dell’arteria polmonare (embolo a sella) o un
suo ramo (Figura 1).

L’incidenza dell’EP è dello 0.5-1‰, con un rapido incremento dopo i 60 anni di età. La mortalità per EP è > 15% nei
primi 3 mesi dalla diagnosi.

EZIOLOGIA

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394 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La causa principale di EP, nella quasi totalità dei casi, è la mobilizzazione di un trombo venoso dalla sua
sede di formazione periferica, usualmente le vene degli arti inferiori: il trombo percorre il circolo venoso
refluo, l’atrio ed il ventricolo destro ed embolizza la circolazione arteriosa polmonare. Circa la metà dei
pazienti con trombosi venosa profonda (TVP) pelvica o prossimale delle gambe subiscono un’EP, che
rimane assai spesso asintomatica. Emboli a partenza dalle vene del polpaccio sono più raramente causa di
EP, ma rappresentano la sorgente più probabile di emboli paradossi, che possono raggiungere la
circolazione arteriosa sistemica attraverso un forame ovale pervio o un difetto del setto interatriale.
Gli stati di ipercoagulabilità che possono causare un’EP, i fattori di rischio e le condizioni cliniche associate
che possono favorirla sono gli stessi coinvolti nel determinismo della TVP. Una predisposizione congenita
deve essere considerata nei rari casi in cui l’EP colpisce soggetti <40 anni, con storia di ricorrenti TVP o con
anamnesi familiare positiva. I difetti genetici più frequentemente sono la resistenza alla proteina C attivata,
la mutazione factor II 20210A, l’iperomocisteinemia e le carenze di Antitrombina III, proteina C e proteina S.
In una minoranza di casi (<5%) l’embolo non deriva da un trombo, ma è di natura gassosa, neoplastica,
grassosa (trauma o frattura), amniotica o settica.
FISIOPATOLOGIA

Un aumento della Resistenza arteriosa polmonare è l’effetto dell’ostruzione del vaso da parte dell’embolo
e, in parte, della liberazione di serotonina dalle piastrine del trombo. Sul versante respiratorio si verifica
una diminuzione degli scambi gassosi – con ipossiemia nelle forme più gravi – derivante da:
A. dissociazione tra ventilazione e perfusione polmonare, con estensione dello spazio morto respiratorio
all’area interessata dall’EP
B. shunt di circolo a livello polmonare, per apertura di anastomosi artero-venose
C. ridotta compliance polmonare, dovuta a perdita di surfactante e ad edema alveolare.

Il subitaneo innalzamento del postcarico per l’ostruzione vascolare polmonare può produrre dilatazione del
ventricolo destro e rigurgito tricuspidale. La dilatazione del ventricolo destro determina una deviazione del
SIV (setto interventricolare) verso sinistra, limitando il riempimento diastolico del ventricolo sinistro.
Questo evento, insieme con il ridotto precarico ventricolare sinistro secondario all’insufficienza ventricolare
destra può causare diminuzione della gittata sistolica, della pressione arteriosa sistemica e della perfusione
coronarica.

QUADRO CLINICO

La dispnea è il sintomo più frequente dell’EP (Tabella I)


395 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Un dolore toracico tipico è presente in caso di ischemia miocardica, specie in soggetti con precedente
cardiopatia. Altri sintomi comuni sono la tosse, la sincope e l’emottisi. L’esame clinico mostra tachicardia, e
a volte distensione delle vene del collo, accentuazione della componente polmonare del II tono e cianosi. E’
utile classificare l’EP in diversi quadri clinici, per attuare la migliore strategia terapeutica e determinare la
prognosi.
Un’EP massiva interessa almeno il 50% del circolo arterioso polmonare, è spesso bilaterale e induce
facilmente cianosi, ipotensione arteriosa sistemica, sincope e shock cardiogeno.
I pazienti con EP da moderata a sub-massiva, che interessa all’incirca 33% del circolo polmonare,
mostrano una PA sistemica normale, che maschera l’instabilità emodinamica del ventricolo destro
(ipocinesia, insufficienza tricuspidale).
Nell’EP lieve un trombo di modeste dimensioni si disloca nella periferia del parenchima polmonare e può
interessare il foglietto pleurico con comparsa di dolore pleuritico e tosse. Un infarto polmonare può
prodursi in questa sede entro 3-7 giorni, associandosi a febbre, leucocitosi, emottisi ed un quadro
radiologico tipico. La pressione arteriosa è normale e la funzione del ventricolo destro conservata.

DIAGNOSI

Peculiare dell’EP è la rapida insorgenza dei sintomi, inaspettata rispetto alle preesistenti condizioni cliniche
del paziente. Occorre poi integrare questi dati con l’esame fisico e con gli esiti delle indagini di laboratorio
e strumentali.
Test clinici e di laboratorio.
Il test semi-quantitativo a punti di Wells, rappresentato da 7 domande da porre al paziente (Tabella II),
396 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ha un valore diagnostico di esclusione dell’EP quando rivela un punteggio =4.


Il dosaggio del D-dimero nel plasma è molto sensibile ma poco specifico, perché esso può aumentare nel
decorso post-chirurgico come pure in caso di IMA, sepsi, cancro e patologie sistemiche in generale.
Elevatissimo è il suo potere predittivo negativo (>99%): virtualmente, nessun paziente con EP in atto risulta
negativo al dosaggio del D-dimero. Elevati valori ematici di biomarker cardiaci, quali troponina e BNP
correlano con il grado di compromissione funzionale del ventricolo destro e rappresentano un indice
predittivo di eventi e di morte cardiaca. La troponina si libera in presenza di microinfarti; il BNP è secreto
dai cardiomiociti in risposta all’aumentato stress di parete.
La misura dell’ipossiemia non appare discriminante per la diagnosi di EP poiché il 20% dei pazienti mostra
una PaO2 normale. Inoltre, per quanto la maggior parte dei pazienti con EP siano ipocapnici a causa
dell’iperventilazione, la differenza in O2 alveolo-arteriosa è normale nel 15-20% dei casi.

Tecniche strumentali e di imaging.
 Pazienti con EP possono mostrare un ECG del tutto normale, ovvero
con manifestazioni di interessamento ventricolare destro (blocco di branca incompleto o completo), un
aspetto S1Q3T3 (onda S in D1, onda Q e T invertita in D3), sopraslivellamento di ST in V1-V2 e T negative da
V1 a V4 (ECG 50).

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397 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

50 - Embolia Polmonare

Nell’ECG 50-A si osserva tachicardia sinusale 120 bpm e blocco incompleto della branca destra,
testimoniato dai complessi rSr’ in V1 e dalle onde s terminali piuttosto larghe in I, II e V6. Nelle derivazioni
da V1 a V3 il tratto ST è sopraslivellato a convessità superiore, mentre l’onda T è negativa, ampia ed a
branche tendenzialmente simmetriche da V1 a V4.
Nell’ECG 50-B, registrato il giorno precedente, si rileva l’assenza di onda s in I derivazione; non vi è, inoltre,
onda r’ in V1, e la morfologia del complesso in III è rs, non qs come nell’ECG 50-A. Il tratto ST nelle
precordiali destre è normale, e le onde T sono positive da V2 a V6 e in III derivazione.
Il carattere repentino delle modificazioni, unitamente ai segni rilevati nel tracciato della Figura A,
depongono per un’embolia polmonare.
In particolare, l’associazione di: 1) tachicardia sinusale 2) blocco di branca destra di recente insorgenza 3)
tratto ST sopraslivellato nelle precordiali destre 4) inversione pressoché generalizzata delle onde T nelle
derivazioni precordiali e in III 5) scomparsa dell’onda r in III derivazione, con trasformazione di un rs in un
qs, assume alta sensibilità diagnostica nei confronti dell’embolia polmonare.
398 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

inoltre, l’ECG serve ad escludere un infarto miocardico acuto.


La radiografia del torace presenta anormalità in non più del 25% dei casi; il reperto più comune è la
cardiomegalia. In taluni casi l’esame identifica aspetti patognomonici, quali l’oligoemia zonale, indice di
un’EP massiva e centrale, una densità periferica a forma di cuneo, indice di infarto polmonare, o una
distensione dell’arteria polmonare discendente destra

L’ecocardiografia transtoracica (ETT) è una tecnica aspecifica, poiché l’esame risulta nella norma in circa la
metà dei pazienti con EP. Data l’elevata sensibilità nell’apprezzare la dilatazione e la disfunzione del
ventricolo destro, la ETT è utile per la stratificazione del rischio in pazienti con EP già diagnosticata. Segni di
EP deducibili con l’ETT sono la rara visualizzazione diretta del trombo, il movimento anormale del setto
interventricolare, il rigurgito tricuspidale, la dilatazione dell’arteria polmonare, il mancato collasso
inspiratorio della vena cava inferiore. Infine, l’ETT può escludere altre patologie, quali infarto miocardico
acuto, dissezione aortica o pericardite. La TC del torace con contrasto e.v. è divenuta il test di imaging
elettivo nella maggior parte dei pazienti con fondato sospetto di EP (potere predittivo negativo >99%;

La scintigrafia polmonare rappresenta oggi un’indagine di seconda scelta in caso di sospetta EP, mentre è
riservata a pazienti in gravidanza, oppure con insufficienza renale o allergia al contrasto.
La risonanza magnetica (RM) angiografica utilizza un mezzo di contrasto non nefrotossico e pressoché
esente da reazioni allergiche. Sensibilità e specificità diagnostiche sono paragonabili a quelle della TC di
prima generazione, consentendo l'identificazione di EP segmentarie. La RM è in grado di valutare anche la
funzione del ventricolo destro.

Tecniche invasive
L’angiografia polmonare è idonea a riconoscere emboli di 1–2 mm quali difetti di riempimento vasale
intraluminale. Segni secondari di EP sono la netta interruzione di un vaso, l’oligoemia segmentale o una
totale mancanza di circolo ed una fase arteriosa prolungata. L’angiografia è riservata ai pazienti con TC non
diagnostica o che devono essere sottoposti ad embolectomia transcatetere o trombolisi mirata.

TERAPIA

Una rapida stratificazione della gravità dell’EP è fondamentale per il corretto inquadramento clinico del
paziente e per la scelta della terapia più appropriata. A questo scopo può essere utilizzato l’indice a punti di
Ginevra che si basa su parametri anamnestici, clinici e strumentali facilmente ottenibili (Tabella III).

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399 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

l trattamento dei pazienti con EP può essere farmacologico, interventistico o chirurgico. La scelta tra
queste tre strategie dipende soprattutto, dal grado di compromissione clinica e funzionale determinato
dall’EP. Supporti terapeutici immediati sono la somministrazione di 02 e la sedazione del dolore toracico
con FANS. In soggetti a basso rischio, con pressione sistemica normale e senza evidenza di disfunzione
ventricolare destra, il trattamento è mirato alla prevenzione di ricorrenti EP e/o TVP e si basa sulla sola
anticoagulazione. Caposaldo di tale trattamento è l’eparina non frazionata (ENF), la cui somministrazione
previene l’ulteriore formazione di trombi e consente alla fibrinolisi endogena di dissolvere il trombo già
formato. Una valida alternativa all’ENF è oggi rappresentata dalle eparine a basso peso molecolare,
frammenti di eparina con migliore biodisponibilità e più lunga emivita dell’ENF e che, a differenza di
questa, non richiedono un monitoraggio della terapia con determinazione del aPTT. Insieme all’eparina
occorre iniziare la somministrazione di un anticoagulante orale (AO), warfarin o acenocumarolo, il cui
pieno effetto si manifesta in genere dopo 5 giorni. L’eparina garantisce l’effetto anticoagulante finché l’AO
non abbia prodotto valori di INR superiori a 2 per almeno 2 giorni consecutivi. In seguito, la dose di AO va
scelta con l’obiettivo di mantenere l’INR tra 2 e 3.
In caso di emorragia in atto, di controindicazione all’uso degli anticoagulanti ovvero di EP ricorrente
nonostante l’AO. è possibile ricorrere al posizionamento di un filtro nella vena cava inferiore.
Pazienti con EP massiva e shock cardiogeno o portatori di vasta trombosi ileo-femorale, sono candidati alla
trombolisi, al fine di ridurre la mortalità e prevenire la ricorrenza di EP. Ciò avviene attraverso la
dissoluzione sia del trombo occludente l’arteria polmonare, con rapido miglioramento dello scompenso
cardiaco destro, sia dei trombi emboligeni presenti nella periferia del sistema venoso.
Quando un’EP massiva determina una grave compromissione delle funzioni cardiorespiratorie, imponendo
la ventilazione assistita e il supporto cardiocircolatorio, oppure quando la trombolisi non abbia avuto
successo o sia controindicata, è appropriata l’embolectomia, con rimozione meccanica del materiale
trombotico dall’arteria polmonare. Questa tecnica è stata eseguita per molti anni solo chirurgicamente, a
torace aperto, in arresto di circolo o a cuore battente, costituendo un intervento efficace, ma gravato da
una significativa mortalità. Attualmente, è invece possibile l’embolectomia per via percutanea in sala di
emodinamica. La procedura non necessita di anestesia generale, richiede solo un accesso venoso, in genere
a livello femorale e si esegue con speciali cateteri che frammentano e aspirano il trombo occlusivo.
In considerazione della difficoltà di diagnosticare l’EP e di contenere il danno clinico che essa produce, è
fondamentale attuare un’efficace prevenzione del tromboembolismo venoso. Tutti i soggetti ospedalizzati
sono a rischio di EP. Per i pazienti a rischio più elevato la terapia anticoagulante (eparine a basso peso
molecolare o AO) ed i presidi meccanici (calze elastiche o compressione pneumatica intermittente) che
incrementano il flusso venoso e stimolano la fibrinolisi endogena, rappresentano una profilassi con un
rapporto costo/beneficio assai vantaggioso.

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