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Prof.

re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

Infarto del miocardio e tecniche di imaging


Oggi completiamo il capitolo della cardiopatia ischemica facendo riferimento all'ultima
classificazione della Società Europea di Cardiologia per quanto riguarda proprio la definizione delle
diverse tipologie di infarto miocardico acuto.

Questa classificazione dell'infarto miocardico è abbastanza recente, risalente a due anni fa, ed è una
classificazione prevalentemente clinica.
Le precedenti classificazioni che erano state fatte a partire dal 1970 erano di tipo epidemiologico,
mentre dal 2012 in poi sono state fatte sostanzialmente delle classificazione di tipo clinico che
hanno una grande importanza in quanto ci permettono di inquadrare ancora meglio il nostro
paziente dal punto di vista della gestione clinica del pz stesso.

Abbiamo detto cosa è il danno miocardico acuto ischemico, il quale si caratterizza per un
incremento dei markers bioumorali. La troponina T ha un andamento di tipo bimodale in quanto
tende a crescere, raggiunge un acme e poi va oltre il 99° percentile, dopo di che decresce lentamente
fino a tornare a valori normali.
Affinché tutta questa curva si possa normalizzare ci vuole del tempo, anche delle settimane (ritorno
della troponina a valori basali).
Se parliamo della troponina ad alta sensibilità l'acme viene raggiunto prima rispetto alla troponina
che utilizzavamo fino a qualche anno fa, ma ad oggi quando si parla di troponina si parla di
troponina ad alta sensibilità che ha la capacità di intercettare molto più rapidamente il danno
miocardico. E questo è un andamento che proprio ci identifica un danno acuto cardiaco, al contrario
in presenza di un danno cronico si ha una curva quasi piatta (quasi a plateau), non vi è un picco e
non vi è una discesa.

Quando parliamo di sofferenza miocardica c’è un incremento della troponina C. Vi sono diverse
cause che possono causare questa sofferenza, ovviamente la causa di cui noi abbiamo parlato
soprattutto è l’ISCHEMIA MIOCARDICA, cioè l’evento ischemico acuto, che è la causa principale
della sofferenza miocardica e ha l'andamento tipico detto poc’anzi.
Accanto a questo dato dell’ischemia acuta vi sono tante altre situazioni che possono causare una
sofferenza miocardica e spesso si tratta di condizioni sistemiche, non sono situazioni
fisiopatologiche che interessano solo ed esclusivamente il cuore.
Parliamo appunto di una situazione di anemia marcata, di una ipossiemia marcata, legata
sostanzialmente ad una desaturazione di ossigeno nel sangue, secondaria ad una crisi respiratoria
acuta, parliamo di situazioni aritmiche, di aritmie ventricolari in cui c’è un aumento marcato della
frequenza ventricolare con un ridotto riempimento delle coronarie, quindi una discrepanza tra la
richiesta metabolica del miocardio e l’apporto di ossigeno col circolo coronarico, l’insufficienza
cardiaca, l’insufficienza renale, l’ipotensione e lo shock.
Abbiamo visto ieri quelle 4 classi di pz in fase di scompenso dove sostanzialmente ipotensione e
shock comportano, oltre al danno della perfusione periferica, un danno della perfusione coronarica.
Sono tutte condizioni che noi dobbiamo assolutamente valutare e differenziare tra di loro. Quindi
quando noi parliamo di ingiuria miocardica secondaria dovuta ad una ischemia miocardica abbiamo
sempre davanti ai nostri occhi l’arteriosclerosi coronarica, quindi la placca aterosclerotica
coronarica che è andata incontro ad una complicanza, il che vuol dire fissurazione e rottura della
capsula fibrosa, il che determina un’attivazione della coagulazione con la formazione di un trombo
(trombosi acuta) e quindi l’occlusione del vaso.

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Se andiamo ad analizzare le condizioni che determinano una sofferenza miocardica con incremento
della troponina, vediamo che anche condizioni che apparentemente non hanno nulla a che fare con
il cuore possono essere alla base di questa sofferenza, vedi la presenza di uno stato settico, quindi
un fatto infettivo sistemico, o anche una condizione neurologica quale l’emorragia subaracnoidea
che può dare alterazioni elettrocardiografiche simili-infartuali con incremento della troponina, o
condizioni tipo l’embolia polmonare che può determinare anch’essa una sofferenza miocardica,
soprattutto in questo caso ventricolare dx con sovraccarico importante di pressione che può
determinare appunto una dismissione di troponina.
Poi abbiamo tutte le malattie che interessano il muscolo cardiaco in senso stretto, come le
cardiomiopatie infiltrative, vedi l’amiloidosi in cui vi è un incremento della troponina oppure anche
l’utilizzo di farmaci cardiotossici, come i chemioterapici, pensate ai farmaci che si utilizzano in
ambito oncologico che sono molto potenti, ma che purtroppo sono dotati di un effetto cardiotossico,
per esempio le antracicline sono farmaci con una cardiotossicità ben studiata, e bisogna fare molta
attenzione a questi pazienti, non solo dal punto di vista della malattia primaria oncologica, ma
bisogna seguire e monitorizzare l’andamento di eventuali alterazioni cardiotossiche, legate al
farmaco utilizzato e questo è estremamente importante mettendo il pz sotto monitoraggio attento
per slatentizzare un’eventuale cardiotossicità, mettendo in atto dei presidi terapeutici di
cardioprotezione in maniera tale che il pz possa entro i limiti del possibile continuare la sua terapia
chemioterapica, però controbilanciata da questo effetto cardioprotettivo dei farmaci che andremo ad
utilizzare.

Se l’incremento e la discesa della troponina sono associati ad un evento ischemico che ovviamente
possiamo diagnosticare dal punto di vista clinico, caratterizzato da dolore tipico, motivo per il quale
il pz è andato in ospedale, a cui si associano le alterazioni elettrocardiografiche ed eventualmente
ecocardiografiche siamo di fronte ad una diagnosi di infarto miocardico acuto e come tale
dobbiamo sostanzialmente cercare di trattare nel miglior modo possibile il nostro pz, quindi
stabilire che tipo di infarto può avere.
Al contrario possiamo avere un andamento di incremento e riduzione senza un’ischemia acuta, e
questo può essere legato ad una miocardite o ad un’insufficienza cardiaca acuta che ha determinato
una sofferenza miocardica legata alle acuzie dello scompenso cardiaco, e questo va ben distinto da
un evento ischemico acuto.

Poi vi sono i casi in cui l’andamento della troponina non è bimodale, ma stabile nel tempo, in
questo caso parliamo di una sofferenza miocardica cronica e gli esempi tipici di questa sofferenza
miocardica cronica sono l’insufficienza renale cronica, dall’altra parte le cardiomiopatia infiltrativa
tipo l’amiloidosi. Quindi sono situazioni che noi dobbiamo discernere perché è estremamente
importante stabilire se si tratta di un fatto acuto, se è legato ad un fatto ischemico o meno.

Se dovessimo dare una definizione di INFARTO MIOCARDICO ACUTO la definizione più


semplice e più razionale che si possa dare è questa: ‘Per infarto miocardico acuto si definisce una
morte cellulare dovuta ad una prolungata ischemia miocardica’.
Le cause possono essere molteplici, ma il meccanismo patogenetico è dato sempre da un evento
ischemico prolungato e non transitorio quale quello che si ha nell’angina, nella quale abbiamo
sempre un’ischemia, ma la differenza è la durata nel tempo.
Nell’angina l’ischemia è transitoria, dura poco nel tempo, così da non creare il danno miocardico
irreversibile , quindi la morte cellulare, mentre nell’infarto l’ischemia è prolungata nel tempo, sì da
determinare la necrosi cellulare.

L’infarto miocardico di tipo I secondo la Società Europea di Cardiologia è l’infarto classicamente


aterotrombotico, cioè l’infarto che è legato alla rottura della placca per un’erosione della capsula,
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con la formazione di una trombosi occlusiva, e quindi l’occlusione del vaso e una mancata
irrorazione del miocardio da parte del vaso in questione.
Quindi immaginate se si viene a rompere un placca e si forma una trombosi acuta nell’arteria
discendente anteriore che irrora il setto interventricolare anteriore e l’apice, avremo una necrosi
anteriore che interessa la parte di miocardio correlata all’arteria occlusa.
Spesso questo è un infarto transmurale, con sopraslivellamento del segmento ST, che poi nella sua
evoluzione naturale comporta la formazione delle onde Q di necrosi all’ECG con la comparsa delle
onde T negative, segno di ischemia subepicardica. Questo fa parte dell’evoluzione dell’ECG, il
concetto fondamentale è che siamo di fronte in questi casi ad un infarto transmurale che interessa
tutto lo spessore della parete del ventricolo sinistro. E questo è un infarto che noi identifichiamo dal
punto di vista elettrocardiografico clinico come infarto STEMI -> ST elevation.
In questi pz possiamo anche fare un’imaging: se accanto all’elettrocardiografo abbiamo un
ecocardiografo, facciamo un’eco fast e possiamo identificare anche le alterazioni della cinetica del
ventricolo sinistro, cioè del movimento delle pareti del ventricolo sx, e quindi se non erano presenti
in esami precedenti sono ovviamente anche queste patognomoniche dell’evento ischemico acuto.

L’infarto di tipo II dal punto di vista fisiopatologico è molto più complesso rispetto all’infarto di
tipo I, perché i meccanismi che sottendono questo tipo d’infarto sono molteplici e bisogna essere
molto attenti ad identificarli in quanto con la correzione di questi ultimi non facciamo nient’altro
che gestire in maniera più corretta possibile il nostro pz.
Ci troviamo di fronte ad uno sbilanciamento tra quelle che sono le richieste metaboliche del
miocardio (ossigeno, metaboliti) e quello che è possibile che il circolo porti, quindi tra la richiesta e
l’apporto.
Le condizioni possono essere per esempio una placca aterosclerotica, in questo caso non si
complica come un infarto di tipo I, ma è una placca che ostruisce in maniera importante, severa:
quindi si tratta di una stenosi critica del vaso che in condizioni normali può non determinare un
grosso problema di perfusione miocardica, ma se la frequenza cardiaca aumenta (come ad esempio
durante un’aritmia) aumenta in maniera significativa il consumo miocardico di ossigeno: è chiaro
dunque che l’apporto dell’ossigeno non può essere tale da soddisfare l’aumento delle richieste
perché in questi casi quando c’è una stenosi così severa abbiamo una riduzione significativa di
quella che è la riserva coronarica, che è la capacità di vasodilatazione massima del circolo
coronarico, e quindi la quantità di sangue che viene distribuita al miocardio è sicuramente inferiore
a quella richiesta. E quindi si crea questa discrepanza che dà questa sofferenza acuta miocardica su
base ischemica.

Un altro meccanismo può essere uno spasmo coronarico, che si verifica quasi sempre su delle
placche aterosclerotiche non significative da un punto di vista angiografico, che determinano una
stenosi non superiore del 70% (quindi del 30-50%) che però in quella zona più reattiva può dare
uno spasmo, una reazione significativa funzionale del circolo coronarico che può determinare una
sofferenza miocardica.

Poi abbiamo la dissecazione: può essere non aterosclerotica, altre volte può anche essere iatrogena,
la possiamo causare col catetere mentre facciamo un’angioplastica coronarica e in questi casi
interveniamo subito apponendo uno stent, limitando i danni della dissecazione.

Poi possiamo essere anche in una situazione in cui abbiamo un vaso apparentemente normale, però
nello stesso momento abbiamo un’alterazione, uno sbilanciamento tra quelle che sono le richieste e
l’apporto di ossigeno: nonostante il vaso sia normale, questo si può verificare perché la situazione è
sistemica, quindi al di fuori del funzionamento delle coronarie (per esempio un’anemia importante)
in cui le coronarie sono buone, non hanno una grossa patologia, però l’ossigeno non arriva al
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miocardio perché l’emoglobina è bassissima, la quantità di ossigeno presente nel sangue è molto
ridotta.
Oppure un pz con crisi respiratoria con importante desaturazione, quindi una grossa ipossiemia:
ovviamente questo, nonostante una coronaria normale, determina una quantità di ossigeno che
arriva al miocardio ridotta.

Un’altra situazione potrebbe anche essere che nonostante il vaso anatomicamente appaia normale ci
può essere una disfunzione endoteliale con ridotta produzione di nitrossido, e sappiamo che esso è
molto importante perché è un potente vasodilatatore, per cui in condizioni di aumentata richiesta se
c’è una disfunzione endoteliale il microcircolo non riesce a vasodilatarsi in maniera ottimale e
quindi può determinare una discrepanza tra la richiesta e l’offerta.

Questi sono tutti concetti fisiopatologici estremamente importanti, però molto diversi tra loro,
quindi quando parliamo di infarto di tipo II parliamo di popolazioni di pazienti diversi che
richiedono anche un management diverso l’uno dall’altro, e quindi è molto importante in questi casi
andare ad identificare in maniera più precisa possibile la causa per poterlo correggere e ottimizzare
la gestione del pz. Anche nell’infarto miocardio di tipo II abbiamo alterazioni elettrocardiografiche
oltre al dolore. Queste alterazioni elettrocardiografiche sono caratterizzate dalla comparsa di
un’ischemia miocardica nuova che non era presente nei tracciati precedenti, spesso questi
elettrocardiogrammi non hanno un S-T sopra, anche se in alcuni casi è possibile avere uno STEMI
anche nel tipo II, però spesso si ha un S-T sotto, quindi una sofferenza prevalentemente
subendocardica.
Qualora la sofferenza sia transparietale, quindi S-T sopra, l’evoluzione elettrocardiografica evolve
verso la formazione delle Q di necrosi con l’inversione più tardiva delle onde T, cioè dell’ischemia
subepicardica.

Quindi sostanzialmente nell’infarto di tipo II abbiamo diverse situazioni che noi dobbiamo
discernere tra di loro per cercare di capire qual è il meccanismo che ha sotteso quella sofferenza
ischemica miocardica, il quadro è sempre clinico: la presentazione del pz con dolore toracico (chest
pain) e poi vi sono diversi meccanismi analizzati:

- Aterosclerosi coronarica fissa, quindi stenosi coronarica severa che in condizioni normali non dà
problemi ma se aumenta la frequenza cardiaca (es. tachiaritmia) può slatentizzarsi e dare una
sofferenza ischemica acuta del miocardio.
- Spasmo coronarico
- Disfunzione microcircolatoria: coronarica apparentemente normale dal punto di vista anatomico,
ma non funzionalmente in quanto vi è una disfunzione endoteliale con difetto di produzione di
nitrossido.
- Embolismo coronarico
- Dissecazione del vaso
- Insufficienza respiratoria acuta con importante desaturazione
- Severa anemia
- Ipotensione, shock

L’infarto miocardico di tipo III è l’infarto miocardico associato alla morte cardiaca improvvisa: si
tratta di pz che muoiono improvvisamente nel giro di circa 1 ora, che hanno avuto come sintomo di
esordio il dolore, l’oppressione retrosternale ma che purtroppo si complicano per l’insorgenza di
un’aritmia ventricolare minacciosa di vita, quale può essere appunto la fibrillazione ventricolare, e
quindi sostanzialmente è un infarto miocardico che noi deduciamo a posteriori.

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Cioè il pz ha avuto dolore, una morte cardiaca improvvisa, verosimilmente ha avuto un infarto
miocardico, perché spesso non c’è stato il tempo per fare il dosaggio dei markers bioumorali, quindi
della troponina.
Alcune volte per motivi medico legali questi pz vanno incontro ad un’autopsia che può slatentizzare
oltre che la zona miocardica di necrosi anche la trombosi coronarica, e quindi è una diagnosi anche
autoptica oltre che anamenstico-clinica.
Non è un infarto raro, purtroppo ancora oggi nonostante l’ottimizzazione della rete dell’infarto , la
mortalità pre-ospedaliera e quindi tanto per intenderci quella a casa o comunque fuori dall’ospedale
è elevata.

L’infarto di tipo IV ha a sua volta tre sottotipi: IV A, IV B e IV C.


L’infarto di tipo IV A non è altro che l’infarto che si viene a creare quando si fa un’angioplastica
coronarica: non facciamo nient’altro che determinare uno schiacciamento della placca ateromasica
sulla parete della coronaria, quindi gonfiamo il palloncino che sta nell’estremità del catetere, il
quale gonfiandosi schiaccia la placca lungo la parete, dopo di che inseriamo lo stent.
Spesso diciamo che il delivery, cioè la liberazione dello stent è contestuale alla dilatazione con il
palloncino, quindi sono due momenti sincroni tra di loro.
Questo schiacciamento della placca può determinare una microembolizzazione di frammenti della
placca stessa che vanno più perifericamente del circolo coronarico e possono andare a ostruire dei
piccoli vasi coronarici posti distalmente alla placca che abbiamo dilatato e questo può determinare
un’occlusione di questi piccoli vasi, e quindi delle ischemie parcellari miocardiche che sono
contemplate durante la procedura di un’angioplastica.
Non si tratta di un’angioplastica sbagliata, sono degli infarti molto piccoli che non determinano una
grossa perdita di muscolo miocardico, e che sono comunque perfettamente monitorizzati durante la
degenza del pz.
In questi casi ovviamente facciamo il prelievo dei markers prima di fare l’angioplastica, la facciamo
dopo per vedere qual è l’andamento della troponina in questi pazienti, fermo restando che i benefici
dell’angioplastica con l’applicazione dello stent sono nettamente superiori al problema legato a
questi infarti parcellari, legato alla disseminazione embolica di questi frammenti della placca.

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Poi abbiamo l’infarto di tipo IV B, è sostanzialmente un infarto legato ad una trombosi dello stent,
cioè noi applichiamo lo stent, il quale può andare incontro ad un processo di occlusione per la
formazione di un trombo, nonostante la terapia antiaggregante che facciamo quando applichiamo
uno stent.
La trombosi dello stent la possiamo definire:
• Acuta: se avviene tra 0 e 24 ore, quindi nella prima giornata di applicazione dello stent.
• Sub-acuta: se la trombosi si verifica tra 1 e 30 giorni, entro un mese.
• Tardiva: oltre 1 mese, ma entro 1 anno dell’applicazione dello stent.
• Molto tardiva: dopo oltre 1 anno dall’applicazione dello stent.

L'infarto miocardico di tipo IV C è una restenosi dello stent, quindi non abbiamo un’occlusione
completa del lume coronarico laddove abbiamo messo uno stent, ma abbiamo una stenosi a quel
livello, che può creare uno sbilanciamento tra l'offerta e la richiesta e quindi dare una sofferenza
ischemica in determinate situazioni in funzione dell'entità della stenosi. Sono tutti tipi di infarto che
bisogna identificare perché soprattuto per quanto riguarda alcuni di essi è fondamentale perché ne
va di mezzo il trattamento.

L'infarto di tipo V è un infarto che abbiamo durante l'intervento di bypass aortocoronarico e può
essere determinato da un'occlusione acuta del bypass, un'occlusione di un'arteria coronarica nativa e
questo si associa anch'esso ad un incremento della troponina con la comparsa di alterazioni della
cinetica del ventrocolo sx, quindi in parole povere l'infarto di tipo V è quello legato alla
rivascolarizzaizone chirurgica.

Quindi andiamo a valutare l'impatto della sofferenza ischemica acuta, andiamo a fare l'ECG e
valutiamo attentamente il segmento S-T che viene alterato in maniera significativa se l'infarto è
transmurale con sopraslivellamento del segmento S-T o sottoslivellamento se l'infarto è non
transmurale, un infarto non Q.
Il segmento S-T va misurato dalla linea isoelettrica, nel sopraslivellamento il tratto S-T è sollevato
verso sopra, mentre nel sottoslivellamento va verso sotto.
Quindi la differenza è proprio su questa parte qui dell'ECG: S-T sopra -> sopraslivellato o al
contrario sottoslivellato in funzione a quella che è la linea isoelettrica.
Ci sono tutta una serie di entità di sopraslivellamento o sottoslivellamento per dire con certezza se
l'S-T è alterato in maniera patologica o meno: dipende dal sesso, dall'età dei pz, e quindi per
esempio un nuovo S-T sopraslivellato deve essere necessariamente presente in due derivazioni
contigue tra di loro con un cut-off uguale/superiore a 1 mm in tutte le derivazioni ad eccezione di
V2 e V3, perché generalmente l'S-T in queste due derivazioni è normalmente lievemente
sopraslivellato.
Allora in questi casi abbiamo un cut-point che per essere significativo deve essere maggiore/uguale
a 2 mm negli uomini con età superiore a 40 anni, e addirittura maggiore/uguale a 2,5 mm negli
uomini con età inferiore a 40 anni, quindi vedete come i cut-point variano anche in funzione nel
sesso perché anche nelle donne, indipendentemente dall'età, deve essere superiore a 1,5 quindi
meno che nell'uomo. Dunque bisogna prendere in considerazione queste variabili che possono di
per sé fisiologicamente alterare l'ECG.

Quali sono i criteri per definire un infarto miocardico precedente o silente?


Noi possiamo dire che un infarto miocardico il pz lo ha avuto precedentemente quando in anamnesi
non lo riferisce perché o è stato silente, quindi senza dolore oppure il dolore è stato mal interpretato
dal pz.
Quindi quando noi vediamo un ECG di un pz che ha onde Q patologiche, e quindi onde Q di
''necrosi'' in quanto esse sono espressione della necrosi, con o senza sintomi, in assenza di cause non
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ischemiche bisogna ovviamente pensare che può anche essere un qualcosa di pregresso, se non vi è
un evento acuto in quel momento, e quindi come tale bisogna indagare bene in maniera più
approfondita ed in questi casi è molto utile fare una tecnica di imaging come l'ecocardiografia che ci
permette di vedere se vi sono anche delle alterazioni della cinetica del ventricolo sx che sono
compatibili con la diagnosi di un precedente infarto miocardico.
Ieri nel caso clinico affrontato sul pz scompensato su base ischemica (era un pz trivascolare)
abbiamo detto che il pz poi ha fatto la RMN per vedere se c'era vitalità miocardica o meno.

Queste immagini sono con il ''late


gadolinium enhancement'', cioè
riusciamo a vedere la distribuzione
del gadolinio (mdc) che va ad
impregnare l'interstizio dove c'è
fibrosi, lo colora di bianco.
E vedete che se noi abbiamo delle
lesioni ischemiche che si
caratterizzano per una transmuralità
in questo caso il gadolinio si
distribuisce dall'endocardio
all'epicardio, vuol dire che c'è la
cicatrice ''scar'' dall'endocardio
all'epicardio: quindi si tratta di un
infarto miocardico transmurale
(interessa totalmente lo spessore
parietale).

Un'altra lesione ischemica che


possiamo identificare sempre con la RMN è l' ischemia subendocardica, nella quale il bianco si
distribuisce solamente nella zona subendocardica, quindi un infarto NON STEMI.

Poi vi sono le distribuzioni non ischemiche, quindi quelle legate a ingiurie miocardiche però non su
base ischemica perfusionale, e ad esempio ci troviamo la distribuzione del gadolinio a livello
subepicardico.
Quando è solo a livello subepicardico (tipico della miocardite) non può essere su base ischemica
oppure quando è mesocardico (sempre tipico della miocardite) o quando il gadolinio si distribuisce
nei punti di inserzione del ventricolo dx sul setto interventricolare (questo è tipico della
cardiomiopatia). Grazie all'imaging riusciamo a identificare se l'infarto è subendocardico, se è
transmurale, riusciamo a vedere tutte queste situazioni che sono di estrema importanza.

Il reinfarto e l'infarto ricorrente sono la stessa cosa? No, dal punto di vista temporale non sono la
stessa cosa, perché il reinfarto è un infarto miocardico acuto che avviene entro le 4 settimane dal
precedente episodio infartuale, quindi è un nuovo infarto entro 1 mese dall'episodio iniziale, mentre
l'infarto ricorrente è quell'infarto che avviene oltre le 4 settimane.
Per infarto miocardico silente definiamo un pz asintomatico che non riferisce dal punto di vista
anamnestico la comparsa di dolore ma che ha all'ECG delle onde Q patologiche suggestive per fare
diagnosi di pregressa necrosi miocardica, e allora a questo punto l'imaging può esserci di estremo
aiuto: una RMN con il late gadolinium enhancement ci fa vedere proprio la cicatrice, va ad
intercettarla in maniera assolutamente sensibile e specifica oppure anche se non è possibile fare una

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RMN si può pensare di fare un'ecocardiogramma in cui vediamo l'alterazione cinetica della parete
del ventricolo sx colpita dalla necrosi miocardica.
Quindi come vedete l'integrazione tra i dati clinici da una parte e i dati strumentali
elettrocardiografici, ecocardiografici e la RMN è estremamente importante perché ci permette di
fare una diagnosi di certezza di infarto miocardico pregresso o meno.

Una volta definite le diverse tipologie di infarto, con i diversi sottotipi nell'ambito dello stesso tipo,
vediamo quali possono essere le complicanze dell'infarto.
Cosa ci possiamo aspettare da un pz che ha un infarto miocardico acuto? Tenete conto che questi pz
li ricoveriamo in unità coronarica e li monitorizziamo h 24 non solo col monitor
elettrocardiografico, ma con tutte le valutazioni di quelli che sono i parametri vitali più importanti
(P arteriosa, diuresi, attività respiratoria, EGA), dunque una valutazione multiparametrica
fondamentale perché dobbiamo ovviamente prevenire eventuali complicanze o problematiche che
possono insorgere durante la stessa degenza nella nostra unità coronarica.
Le complicanze dobbiamo dividerle in due grossi gruppi: le complicanze precoci e le complicanze
tardive.

Le complicanze precoci sono


quelle legate sostanzialmente al
danno miocardico e che possono
essere determinate da un'importante
perdita dell'attività contrattile,
ovviamente la perdita è tanto
maggiore, quanto maggiore è
l'estensione dell'aria infartuata
necrotica, tanto più miocardio
abbiamo perso tanto maggiore è la
probabilità che quel ventricolo
possa avere un'alterazione della
funzione e questo avviene quando
perdiamo oltre il 25-30% della
massa miocardica. Se perdiamo
oltre il 30-40% il pz va incontro
allo shock cardiogeno, e questo è
un dato estremamente importante.
Questa perdita di contrattilità, di efficienza del muscolo miocardico può determinare
un'insufficienza cardiaca acuta, che dal punto di vista clinico si realizza con l'edema polmonare
acuto, e quindi dobbiamo assolutamente intervenire subito in questi casi nel cercare di ottimizzare
l'emodinamica del pz, dando un supporto inotropo se necessario, cercando di ridurre il postcarico, la
pressione arteriosa e il precarico con terapia vasodilatatrice, o terapia diuretica per ridurre il
precarico e la congestione polmonare, anche se quest'ultima la possiamo anche ridurre sicuramente
utilizzando i diuretici come la furosemide, i diuretici dell'ansa ad alto dosaggio, ma si può fare
anche con altre modalità farmacologiche e non.

Poi nell'ambito delle complicanze precoci è da citare sicuramente la disfunzione ischemica dei
muscoli papillari della valvola mitralica. Sapete che l'apparato valvolare mitralico è abbastanza
complesso, c'è un apparato sottovalvolare che è costituito dai muscoli papillari, dalle corde
tendinee, dalla parete su cui i muscoli papillari sono inseriti, e sappiamo che i muscoli papillari
hanno una loro irrorazione e spesso durante un infarto possono andare incontro anch'essi ad un
problema ischemico con insorgenza di un'insufficienza mitralica acuta, cioè una incontinenza della
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valvola che durante la sistole non si chiude bene e si viene a creare un rigurgito di sangue dal
ventricolo verso l'atrio sx in maniera acuta, improvvisa.
Nella peggiore delle ipotesi (ed è una complicanza molto temibile perché mette a rischio la vita del
pz se non si interviene in maniera rapidissima in quanto è un'emergenza) si ha la rottura completa di
un papillare: cioè il papillare ischemico si rompe e questo determina un'insufficienza mitralica
severa e se non si interviene subito il pz purtroppo spesso non ce la fa perché si crea un quadro di
insufficienza cardiaca acuta che con la sola terapia medica spesso è difficile da poter affrontare,
sono pz che spesso vanno anche con il cardio-team dove c'è anche la figura del cardiochirurgo che
diventa importante in queste situazioni.

E poi abbiamo un'altra situazione sempre meccanica, importantissima perché se non viene
diagnosticata in maniera corretta può essere mortale, che è la rottura del cuore, può essere del setto
interventricolare, quindi del setto che sta tra il ventricolo dx e quello sx con la comparsa di un soffio
sistolico che prima non c'era, e ovviamente questa rottura di setto può determinare l'insorgenza di
uno scompenso cardiaco che può anche essere importante, dove il pz deve essere gestito con terapia
medica mirata, ma in questi casi bisogna anche pensare a qualcosa di alternativo oltre la terapia
medica, come la terapia chirurgica ove possibile farla, o anche qualcosa di cardiologico
interventistico con l'applicazione di device, quindi un'ombrellino (tanto per intenderci) a livello
della rottura del setto interventricolare.
Alte volte la rottura può essere a carico della parete libera del ventricolo sx, e creandosi questa
rottura a parete libera si crea un emopericardio, uno stravaso di sangue dalla cavità del ventricolo
verso il pericardio, il che rappresenta anch'esso un'evenienza cardiologica dove spesso bisogna
operare urgentemente il pz per riparare il punto di rottura.
La rottura a volte può essere anche tardiva, non legata proprio all'acuzia dell'infarto, se viene
interessata la zona necrotica che si assottiglia, diventa molto fragile e quindi può essere un punto di
minore resistenza e ciò determina una fissurazione a quel livello. Quindi sono tutte situazioni dove
bisogna essere pronti ad intervenire perché sono EMERGENZE cardiovascolari, non urgenze.

Alle volte possiamo avere anche delle complicanze aritmiche, oltre che meccaniche, la più
temibile delle quali è la fibrillazione ventricolare, cioè l'arresto ipercinetico del cuore, e questo lo
intercettiamo subito perché la prima cosa che facciamo al pz che ricoveriamo in unità coronarica
con infarto miocardico è la monitorizzazione h24 dell'ECG con gli allarmi messi nei monitor, in
maniera tale che se la frequenza cardiaca sale oltre un certo limite cominciano a suonare e mettono
in allarme il personale sanitario che lavora nell'unità coronarica.
Questi allarmi funzionano non solamente se la frequenza supera il limite che stabiliamo, ma anche
se la frequenza scende oltre un certo limite: cioè se il pz dovesse andare incontro a un blocco
atrioventricolare sempre legato all'infarto, in questo caso il pz va subito stimolato se la F cardiaca è
molto bassa e come tale il trattamento è di supporto con elettrostimolatore temporaneo.
Dipende ovviamente dal tipo di blocco e anche dal contesto clinico in cui questo avviene, parliamo
in questo caso di blocco avanzato.

Il professore mostra e descrive un filmato sull'insufficienza mitralica ischemica acuta, dove la


valvola mitralica non si chiude bene in sistole perché c'è un'ischemia del papillare che determina
uno stiramento del lembo mitralico, quindi non lo fa opporre in maniera corretta al lembo posteriore
e la valvola mitrale rimane come tale; ha un difetto di chiusura legato alla disfunzione ischemica del
papillare, quindi un'insufficienza mitralica ischemica.
Quindi abbiamo parlato delle complicanze precoci dell'infarto:
• Meccaniche (rottura, disfunzione del papillare)
• Elettriche (aritmie ipercinetiche mortali -> fibrillazione ventricolare che dà un arresto cardiaco
ipercinetico, blocchi atrioventricolari).
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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

Ora vediamo le complicanze


tardive, legate alla
trasformazione in cicatrice
dell'aria necrotica che determina
sostanzialmente una dilatazione
della zona infartuata con la
formazione di un'aneurisma post
infartuale, cioè immaginate un
infarto anteriore dove l'apice del
cuore col passare del tempo si
dilata sempre di più sì da
formare una sacca aneurismatica
ad alto rischio per la formazione
di trombi all'interno di essa.
Infatti una delle complicanze
dell'aneurisma post infartuale è
proprio la trombosi intra-
aneurismatica, che spesso può
anche complicarsi con eventi
tromboembolici sistemici, il che vuol dire con ictus cerebri o con embolie periferiche per esempio
agli arti inferiori, e quindi dare un'ischemia acuta di un arto, un organo pelvico e così via.
E' chiaro che questo rimodellamento del ventricolo può essere un rimodellamento molto
svantaggioso che può dare una grossa compromissione della funzione ventricolare, la quale può
essere alla base di uno scompenso cardiaco, ed ecco il concetto di come la cardiopatia ischemica nel
75% dei casi è alla base di uno scompenso cardiaco perché spesso questi ventricoli vanno incontro a
un rimodellamento svantaggioso del ventricolo.
Ovviamente poi possiamo avere le aritmie ventricolari che possono anche essere tardive e non solo
legate all'ischemia acuta (precoci), poi parliamo ancora dell'angina post infartuale, del reinfarto e
così via.

Il rimodellamento cardiaco è un
processo estremamente complesso
dove vengono ad essere coinvolti
meccanismi neuro-ormonali,
meccanismi di stress ossidativo,
meccanismi legati a problemi di
ischemia, tutte situazioni che
comportano una dilatazione del
ventricolo sx, un suo
rimodellamento che si caratterizza,
come vedremo in alcune situazioni,
in un ventricolo più dilatato che
perde la sua normale morfologia e
funzione e quindi va incontro col
passare degli anni allo scompenso
cardiaco. Quindi il ventricolo, oltre
che essere più dilatato, è anche meno
efficiente, quindi disfunzionante, ed è questa la base dello scompenso cardiaco post infartuale.
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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

La catena di eventi che porta all'End-stage heart disease, cioè alla malattia cardiaca avanzata parte
dai fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito, fumo) quindi fattori modificabili, non
modificabili, parzialmente modificabili i quali sono alla base dell'aterosclerosi coronarica, ma
accanto a questo, danno anche ipertrofia ventricolare se parliamo di ipertensione arteriosa.
Quindi vedete com'è importante andare a correggere questi fattori di rischio affinché si blocchi
questa catena di eventi, e se noi abbiamo solo fattori di rischio senza alterazioni anatomiche o
funzionali del cuore siamo nello stadio A dello scompenso cardiaco se il pz è asintomatico, secondo
la classificazione dell'American Heart Association e dell'American Collegue of Cardiology, al
contrario se compare l'ipertrofia ventricolare sx e il pz ancora è asintomatico siamo nello stadio B.
E' chiaro che questa aterosclerosi coronarica determina la comparsa di una CAD (malattia
coronarica aterosclerotica) che si può estrinsecare con un'angina, con un infarto miocardico che
determina la morte della cellula, quindi comporta la perdita di miocardio, un rimodellamento di
tutto il ventricolo sx, che abbiamo detto essere un processo fisiopatologico complesso in cui ci sono
diverse componenti (dalle neuro-ormonali a ossidative a fenomeni ischemici di apoptosi) che sono
alla base del rimodellamento del ventricolo sx, che si conclude con una dilatazione e spesso
disfunzione del ventricolo sx. Il rimodellamento, danno dell'insufficienza cardiaca cronica, è quello
che spesso conclude quella che è l'evoluzione delle complicanze croniche post infartuali.

TRATTAMENTO: non è
argomento di vostro interesse, però
è bene che qualcosa la si dica.
Prima ovviamente ricoveriamo il
pz, possibilmente attiviamo la rete
del 118, quindi la rete dell'infarto,
prima il pz arriverà al centro, andrà
in sala di emodinamica per aprire il
vaso occluso e questo è
estremamente importante perché ci
permette di limitare la perdita di
miocardio, è importante riuscire a
trattare il prima possibile il nostro
pz (entro 1h sarebbe l'ideale), infatti
si parla di golden hour, perché se lo
operiamo entro 1 ora dall'insorgenza
del dolore il danno del miocardio è
assolutamente minimo e quindi tutte le complicanze, soprattutto tardive, sono notevolmente ridotte.
E' chiaro che se non riesce ad arrivare entro 1 h il tempo ottimale sono 90-120 minuti per poter
effettuare un'angioplastica primaria che abbia un effetto positivo nei confronti della prognosi del pz.

Un'altra alternativa, se non è possibile avviare il pz in tempo ottimale presso il centro HUB e ci
troviamo in un ospedale in cui non c'è il laboratorio di emodinamica, è quella di fare la fibrinolisi:
cioè utilizzare dei farmaci che determinano una fibrinolisi del trombo, cioè lisano il trombo e creano
una ricanalizzazione farmacologica del vaso, e questo è estremamente importante farlo se non è
possibile fare nei tempi previsti la disostruzione meccanica. Poi questo è un pz che viene
stabilizzato e successivamente dovrà comunque fare una coronarografia per vedere, studiare
l'eventuale stenosi residua rimasta dopo l'utilizzo della fibrinolisi.

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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

In questa diapositiva vedete come si


effettua l'angioplastica: vedete la
placca, il catetere col pallone che
viene gonfiato, e vedete che questo
determina uno schiacciamento della
placca sulla parete del vaso, e
questo step comporta sicuramente
uno sgretolamento della placca
stessa con dei microemboli che si
possono formare e vanno
perifericamente, i quali possono
occludere qualche vaso più
periferico e dare anche quell'infarto
di tipo IV A legato alla procedura
dell'angioplastica stessa. E' chiaro
che alcune volte, quando dilatiamo
il vaso, la placca si può espandere
lungo la parete del vaso e può anche occludere una diramazione, un ramo coronarico che emergeva
in quelle vicinanze che però essendo occluso può determinare la comparsa dell'ingiuria miocardica
ischemica e quindi la comparsa della troponina post-procedurale.
Queste sono cose che vediamo nel pz in cui effettuiamo l'angioplastica ed è una cosa che
monitorizziamo in maniera del tutto tranquilla.
Poi possiamo mettere lo stent, il pallone è rivestito dallo stent, quando noi gonfiamo il pallone esso
va a comprimere la placca, poi ritiriamo sostanzialmente il catetere, lo stent rimane adeso alla
parete coronarica, quindi nella sede in cui l'abbiamo liberato. E' molto importante perché ci
permette una maggiore sicurezza nella durata dell'angioplastica, ma anche nell'efficacia.
Questi stent sono spesso rivestiti di un materiale che viene dismesso e ha un potere antiaterogeno, e
come tale sono dei cosiddetti ''stent medicati'' che hanno sostanze che vengono dismesse nella
parete della coronarica e come tale riducono l'effetto aterotrombotico della zona e quindi le
complicanze della trombosi intrastent.
Poi vi è il bypass aortocoronarico, l'arteria mammaria interna, ramo della succlavia sx, viene
trattata e inserita mediante un'anamostosi dopo la stenosi del vaso, quindi tutta la parte che sta al di
sotto dell'anastomosi viene irrorata in maniera assolutamente adeguata.
Poi vi sono i graft arteriosi, oltre la mammaria interna si possono utilizzare altri graft tipo l'arteria
radiale, in associazione ai quali spesso vengono utilizzati anche graft venosi, come la vena safena
che viene prelevata dalla gamba, viene preparata dal cardiochirurgo e dopo di che viene utilizzata
come graft.
In questo caso l'anastomosi prossimale si fa a livello dell'aorta e l'anastomosi distale viene fatta sul
vaso coronarico sempre dopo la stenosi che noi vogliamo bypassare (bypass = saltare l'ostacolo,
saltare la stenosi). Quindi l'anastomosi distale la dobbiamo fare in una zona che sta sostanzialmente
sotto la stenosi coronarica, e questo è estremamente importante perché è un problema tecnico che è
di tipo squisitamente cardiochirurgico, i quali sono molto preparati in quanto la rivascolarizzazione
coronarica chirurgica è un intervento ormai che viene fatto da molti anni e ha raggiunto dei livelli di
precisone moto elevati.

Entriamo in un altro capitolo importante, quello dei MINOCA: ''infarto miocardico in assenza di
malattia coronaria ostruttiva aterosclerotica''.
La diagnosi di minoca la possiamo fare solo dopo aver fatto un'angiografia coronarica in cui
escludiamo che ci sia una patologia aterosclerotica coronarica.

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E' una diagnosi di esclusione, in parole povere il pz arriva al PS con sintomi e segni
elettrocardiomiografici di ingiuria acuta, anche con movimento della troponina, ma la clinica non è
tipica di un infarto miocardico acuto o se vi è il dolore tipico, il tracciato non lo è.
Quindi sono dei casi in cui noi abbiamo l'obbligo comunque di effettuare un esame angiografico e
vedere se realmente esiste o meno una patologia coronarica che sottende l'ischemia acuta.
Noi facciamo diagnosi di patologia non ostruttiva coronarica quando abbiamo delle stenosi
coronariche che non sono superiori o uguali al 50% nell'arteria che potrebbe essere responsabile
dell'evento acuto, quindi è un albero coronarico in cui non vi sono stenosi angiograficamente
significative e quando ovviamente non vi sono manifestazioni cliniche tipiche in cui la diagnosi
sembra quasi scontata, di infarto miocardico di tipo I per intenderci.

Quindi quando noi abbiamo un sospetto di minoca, dopo aver fatto la coronarografia (esame
d'urgenza a cui sottoponiamo i pz e se noi non abbiamo stenosi coronariche superiore/ uguale al
50%) ma abbiamo i sintomi dell'infarto miocardico o comunque di una sindrome ischemica acuta e
abbiamo alterazioni elettrocardiografiche presenti anche se non molto suggestive, allora dobbiamo
fare diagnosi di infarto miocardico senza patologia ostruttiva coronarica.
E allora a questo punto diventa molto importante andare a vedere se ci sono alterazioni della
cinetica miocardica del ventricolo sx e se queste sono acute, legate allo stato clinico del pz.
Quindi una volta che abbiamo il sospetto della diagnosi, dobbiamo fare delle indagini non invasive
che passano attraverso l'ecocardiogramma, il quale ci deve escludere o meno una presenza di
perdicardite, quindi la presenza di versamento pericardico.
Questo è estremamente importante perché la pericardite può dare: dolore retrosternale, alterazioni
elettrocardiografiche, anche una minima dismissione di troponina se c'è un coinvolgimento
miocardico (quindi una perimiocardite) oppure possiamo essere di fronte ad una miocardite vera e
propria in cui abbiamo movimento di troponina, in cui possiamo avere alterazioni della cinetica
ventricolare o, se la miocardite è molto estesa, ci possono essere alterazioni importanti della
cinetica, ma se siamo di fronte ad una miocardite focale, parcellare le alterazioni cinetiche possono
anche mancare.

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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

Dopo di che un'altra indagine non invasiva importante dopo l'ecocardiografia, è la RMN, che ci
permette di studiare l'edema miocardico, e quindi la fase acuta della miocardite, come anche
l'edema del pericardio, eventualmente anche la presenza di fibrosi in fase più tardiva, e questo è
molto importante perché in caso di risonanza se vediamo edema e se il contesto clinico ci sta con
l'infarto infiammatorio ci permette di concludere la diagnosi.
Altre volte possiamo avere una disfunzione microcircolatoria, abbiamo i vasi epicardici che non
sono molto ammalati (non hanno stenosi superiore al 50%) però abbiamo il microcircolo che non
funziona, non vi è una vasodilatazione ottimale ed in questi casi l'ECO è estremamente importante
per vedere se vi sono alterazioni della cinetica regionale.
Dobbiamo eventualmente vedere se vi sono alterazioni emboliche che possono aver determinato un
microembolismo coronarico, ad esempio se il trombo si è sciolto e non l'abbiamo visto con
l'angiografia coronarica.
Con la risonanza magnetica in questi casi possiamo anche vedere se vi è un piccolo infarto
miocardico, con l'ecocardiografia con molta più difficoltà.
Però se parliamo di microcircolo lo possiamo studiare molto bene con l'ecocontrastografia, con la
quale possiamo anche studiare la presenza o meno di un forame ovale pervio, facendo iniezioni di
micro bolle possiamo vedere se c'è eventualmente un passaggio di queste dall'atrio dx a quello sx e
quindi ipotizzare eventualmente se il pz ha avuto un evento ischemico miocardico, ipotizzare anche
un embolo che è partito dal distretto venoso sistemico che con un meccanismo di embolia paradossa
è passato alla cavità sx per poi andare a finire a livello coronarico. Non è molto comune, ma
nemmeno così raro.
Ci sono pz che hanno un forame ovale pervio e hanno avuto contemporaneamente un evento
embolico polmonare, un evento embolico cerebrale e anche coronarico. Ovviamente sono situazioni
molto rare, ma non rarissime che in clinica alcune volte le vediamo, e in questi casi bisogna
ipotizzare un meccanismo di tipo embolico.

Poi abbiamo le INDAGINI INVASIVE, di cui ci serviamo nei pz in cui pensiamo sia utile fare una
biopsia endomiocardica, nel pz in cui vi è una diagnosi di miocardite per ottimizzare la gestione
terapeutica del pz, anche se la diagnosi l'abbiamo già fatta con la risonanza magnetica.
Altre volte possiamo fare gli ultrasuoni intracoronarici (IVUS) per vedere se vi sono delle
placche che con la coronarografia non riusciamo a vedere, in quanto è un luminogramma del circolo
coronarico, mentre facendo gli ultrasuoni intracoronarici riusciamo a vedere bene se vi sono
placche, ne valutiamo l'entità e ne vediamo la costituzione, se si può complicare ed è a rischio o
meno.
Possiamo anche effettuare dei test durante coronarografia, come il test all'ergonovina maleato, che
è un vasocostrittore, quindi elicitare uno spasmo coronarico, che è uno dei meccanismi che abbiamo
visto che può dare infarto miocardico a coronarie angiograficamente apparentemente sane.
In più possiamo fare una valutazione invasiva della riserva coronarica, mediante la quale valutiamo
l'entità funzionale di una stenosi coronarica.
Quindi vedete che abbiamo diverse possibilità diagnostiche che ci permettono di definire in base a
quella che è l'eziologia del MINOCA e quale tipo di indagine è più appropriata.

Ovviamente nell’ambito delle indagini non invasive, le facciamo quando ipotizziamo che il
problema del minoca sia una delle malattie miocardiche, quali per esempio cardiomiopatie in cui
abbiamo sostanzialmente un paziente che viene con dolore, tracciato alterato e facciamo un'eco e/o
una risonanza magnetica per studiare meglio il miocardio ed escludere che vi possano essere delle
situazioni tipo una ''tako tsubo'' che è una sindrome molto particolare dove troviamo delle coronarie
indenni dal punto di vista angiografico, ma il paziente ha grosse alterazioni elettrocardiografiche e
meccaniche. E’ anche chiamata cardiomiopatia da stress perché spesso insorge dopo stress ed è

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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

reversibile, cioè queste alterazioni ritornano poi nella normalità e questo lo possiamo vedere solo
con l’imaging in associazione alla clinica e ai dati bioumorali.
Un’altra situazione che dobbiamo sicuramente escludere in questi pazienti è l’embolia polmonare:
un pz con embolia polmonare può avere un quadro di alterazioni elettrocardiografiche che possono
simulare un infarto ischemico acuto, tipo le onde T invertite in tutte le derivazioni precordiali, il
paziente può avere dolore al petto quindi simulare clinicamente un infarto, però grazie all’eco e
all’imaging ci accorgiamo che il paziente non ha l’infarto, ma un problema legato ad un
sovraccarico di pressione del ventricolo dx che appare dilatato e ipocinetico. E’ chiaro che in questi
pazienti, oltre i markers tipici dell’infarto (per esempio la troponina), facciamo il D-dimero che è
un marker molto importante di embolia polmonare e facciamo anche tutto quello che è il work up
della diagnostica dell’embolia polmonare che prevede anche l’esecuzione di un’angiografia
polmonare (angioTC polmonare) per individuare la presenza di trombi all’ interno delle arterie
polmonari per esempio in seguito a una trombosi della vena femorale che ha embolizzato a livello
polmonare. Molte volte queste trombosi agli arti inferiori sono paraneoplastiche e quindi bisogna
indagare se il paziente è portatore o meno di una neoplasia, ma se non si riesce a trovare una causa
precisa bisogna valutare l’assetto coagulativo del paziente che comunque lo si fa indipendentemente
anche se il paziente è neoplastico per studiare le alterazioni trombofiliche: se non c’è nessuna causa
sono di tipo ereditario, se c’è una causa neoplastica sono acquisite e bisogna quindi capire bene e
correggere l’assetto coagulativo del paziente. Quindi effettuiamo una serie di step diagnostici
nell’ambito del paziente con minoca (pazienti che hanno un infarto del miocardio senza patologie
coronariche ostruttive) che sono di estrema importanza e ci permettono sostanzialmente di
differenziare le diverse cause.

Noi abbiamo parlato di cardiopatia


ischemica, abbiamo parlato di diagnostica
della cardiopatia ischemica , ora vediamo
nell’ambito di quest’ultima il ruolo che
ricoprono le tecniche di imaging.
Sostanzialmente le tecniche sono
molteplici: oggi parliamo di imaging
multimodale, noi abbiamo fatto cenno
soprattutto all’ecocardiografia, abbiamo
parlato di risonanza magnetica ma
l’imaging è anche nucleare.
L’imaging nucleare ha un ruolo
estremamente importante nello studio
della cardiopatia ischemica e quando
parlo di imaging nucleare parlo di PET
(tomografia a emissione di positroni), di
SPECT quindi di scintigrafia perfusionale, parlo di TAC (lo studio non invasivo delle coronarie
oggi è possibile farlo con la TAC, con la angioTC del torace).
Ci sono oggi una serie infinite di opportunità dove l’imaging multimodale sicuramente ricopre un
ruolo molto importante. Qual è sostanzialmente la sua applicazione?
E’ molto importante innanzitutto per l’identificazione dell’ischemia nel paziente che ha un’angina
stabile, ma anche nel paziente che ha una sospetta malattia coronarica. Poi ha un ruolo importante
anche nel paziente con dolore toracico acuto e qui ci permette di fare insieme alla clinica e
all’elettrocardiogramma la diagnosi di sindrome coronarica acuta (quando riusciamo a vedere le
alterazioni cinetiche all’ecocardiografia o quando vediamo l’alterazione coronarica alla TAC) e
quindi questo è un supporto diagnostico estremamente importante. Ma è importante anche per
valutare la prognosi dei pazienti soprattutto nei pazienti post infartuati. Quindi sia nei pazienti post
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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

infartuati sia nei pazienti non post infartuati le tecniche di imaging hanno un valore non solo
diagnostico, ma anche prognostico e ci permettono di selezionare i pazienti che devono essere
sottoposti a rivascolarizzazione coronarica.
Ci permettono di vedere anche se il paziente ha una vitalità miocardica e quindi vedere se c’è
tessuto vitale in sofferenza ischemica che se noi andiamo a rivascolarizzare con l’angioplastica o
con la chirurgia riprende a contrarsi e quindi lo studio della vitalità miocardica per noi è un dato
molto importante.
Poi un altro settore estremamente importante è la valutazione che noi facciamo, con tecniche di
imaging non invasive, nei pazienti che devono essere sottoposti ad interventi di chirurgia non
cardiaca (quindi chirurgia generale o anche chirurgia vascolare). Sono pazienti che noi valutiamo
pre-operatoriamente per calcolare il rischio intraoperatorio e postoperatorio del paziente stesso.
Poi ci permette anche di valutare le procedure di rivascolarizzazione sia esse chirurgiche che non
chirurgiche. Inoltre ci permette di studiare i pazienti che sono nella fase finale della cardiopatia
ischemica quindi pazienti scompensati (stadio D) in cui dobbiamo sicuramente cercare di
identificare altre opzioni terapeutiche non solo mediche, vedi per esempio l’impianto di device che
ci permette di sincronizzare l’attività elettrica del cuore, l’impianto di un defibrillatore intracavitario
per la prevenzione della morte cardiaca improvvisa e anche per selezionare i pazienti che dovranno
essere sottoposti a trapianto cardiaco.
L’applicazione dell’imaging multimodale è quindi molto importante perché va dalla diagnosi della
sindrome stabile alla diagnosi della sindrome instabile, alla prognosi e alla selezione dei pazienti da
sottoporre ad ulteriori gestioni terapeutiche non solo mediche per esempio l’impianto di device o il
trapianto cardiaco.
Sicuramente ci sono diverse tecniche di imaging che sono estremamente importanti,
l’ecocardiografia come già detto riveste un ruolo sicuramente importantissimo, sia l’ecocardiografia
standard sia l’ecocardiografia più avanzata ovvero lo studio della deformazione miocardica, quindi
lo studio della deformazione spaziale della cellula miocardica durante la fase sistolica e durante la
fase diastolica e questa deformazione la possiamo valutare lungo il piano longitudinale, radiale e
circonferenziale e quando parliamo di cardiopatia ischemica valutiamo soprattutto la deformazione
longitudinale e quella radiale del ventricolo.
Quindi abbiamo sostanzialmente la possibilità di studiare la deformazione a livello dell’endocardio,
mesocardio e subepicardio e quindi valutare la deformazione miocardica nelle 3 diverse lamine del
miocardio (parte subendocardica, la parte mesocardica e la parte subepicardica) e, sicuramente per
studiare l’ischemia miocardica lo studio della deformazione subendocardica è quella che ha una
maggiore sensibilità e una maggiore specificità.
Un altro dato importante è la diagnosi differenziale tra un infarto miocardico transmurale e un
infarto miocardico non transmurale.
L’imaging di un infarto miocardico transmurale con RM mostra un’ampia cicatrice bianca che
corrisponde alla fibrosi (infarto STEMI), mentre in quello non transmurale ci può essere un
interessamento subendocardico con la cicatrice presente solo a questo livello mentre il mesocardio e
il subepicardio sono risparmiati (infarto NON STEMI).

Con la SPECT valutiamo l’esame in condizioni di stress e in condizioni di riposo e se c’è un difetto
di perfusione manca la captazione del radioisotopo per cui si crea un buco che è espressione di
un’ischemia.
Con la SPECT si può studiare molto bene anche la funzione del ventricolo sinistro: permette di
studiare sia la contrattilità che la perfusione contemporaneamente.
Una delle applicazioni che abbiamo detto dell’imaging multimodale è lo studio della vitalità,
abbiamo visto che la risonanza è importante ma anche la dobutamina: la dobutamina a basso
dosaggio ha una specificità più alta delle tecniche radioisotopiche e questo è un esame che facciamo
routinariamente nei pazienti post infartuati in associazione alle tecniche radioisotopiche o alla
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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

risonanza magnetica. Tutto questo ci permette di verificare se ci sono delle aree che possono essere
vascolarizzate o meno e se ci troviamo, durante una risonanza magnetica, di fronte ad una parete
tutta bianca è chiaro che sostanzialmente la possibilità che possa recuperare è bassa, mentre se la
distribuzione della fibrosi è più limitata la possibilità di recupero è più elevata quindi dipende molto
dall’estensione della cicatrice.

Con l’angioTC riusciamo a valutare molto bene l’estensione del calcio delle coronarie (tanto più
calcio c’è, tanto maggiore è il rischio di eventi), quindi l' angioTC la utilizziamo sia per valutare
eventuali stenosi coronariche ma anche per valutare lo score del calcio.
L’angioTC ha un valore predittivo negativo molto alto: cioè se noi non vediamo delle stenosi
coronariche, quindi vediamo un albero coronarico pulito nel 98/100% dei casi ci possiamo fidare, al
contrario se noi abbiamo la presenza di placche il valore predittivo positivo è più basso intorno al
90%.
La tac delle coronarie quindi è un esame non invasivo che si effettua in 2-3 minuti, ci sono
ovviamente delle controindicazioni in quanto si usa il mezzo di contrasto iodato che è nefrotossico,
quindi il paziente non deve avere un’insufficienza renale in atto e inoltre non deve essere allergico
al mezzo di contrasto. Bisogna prendere delle precauzioni perché ovviamente il paziente viene
sottoposto a radiazioni ionizzanti e quindi bisogna fare molta attenzione perché certi esami a lungo
andare possono essere nocivi (sapete che le radiazioni ionizzanti hanno un effetto teratogeno,
oncologico quindi bisogna effettuare questi esami solo nei pazienti in cui è appropriato farlo e in
questi pazienti sicuramente danno delle informazioni estremamente importanti e utili nella loro
gestione).
Oggi con la tac delle coronarie oltre alle informazioni anatomiche (per esempio l’entità della stenosi
o la composizione della placca) possiamo avere anche informazioni funzionali cioè calcolare l’FFR
(FRACTIONAL FLOW RESERVE), cioè la valutazione funzionale delle stenosi, che facciamo in
maniera routinaria per via invasiva durante angiografia coronarica, ma ci sono dei software che
permettono di farla anche in maniera non invasiva con la TAC delle coronarie e questo è un
ulteriore passo in avanti nella gestione non invasiva di questi pazienti.
Un’altra evoluzione della tac è la tac con sottrazione di immagini, cioè togliere le immagini che non
ci interessano e dare precedenza alle immagini delle coronarie, quindi migliorare la sensibilità e la
specificità della diagnosi.
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Prof.re Scipione Carerj Cardiologia 19/11/2020

Esistono anche tecniche imaging di fusione dove utilizziamo per esempio la tac con la scintigrafia
miocardica e possiamo valutare insieme sia l’anatomia che la perfusione, anche se ci sono dei
software che si stanno sviluppando con cui è possibile studiare la perfusione anche con la sola tac,
ma queste tecniche di imaging sono molto interessanti e, fuse tra di loro, ci permettono di sommare
i vantaggi diagnostici di una tecnica con i vantaggi diagnostici dell’altra e avere una maggiore
sensibilità e specificità nella diagnosi che facciamo e nella stratificazione prognostica dei nostri
pazienti.
L’imaging è essenziale nei pazienti con cardiopatia ischemica perché ci permette di identificare
l’ischemia, di stratificare la prognosi dei pazienti, di selezionare i pazienti da sottoporre a
rivascolarizzazione, ci permette una stratificazione prognostica preoperatoria dei pazienti sottoposti
a chirurgia non cardiaca, ci permette di valutare le procedure di vascolarizzazione sia esse
chirurgiche che non chirurgiche, ci permette di selezionare i pazienti per un coretto posizionamento
di device e ci permette di selezionare attentamente i pazienti da sottoporre al trapianto cardiaco.

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