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CARDIOLOGIA

CENNI DI SEMEIOTICA
1. ISPEZIONE: possono essere rilevati i seguenti segni → turgore delle giugulari (nell’ipertensione
polmonare nello scompenso cardiaco destro); danza delle carotidi (nell’insufficienza aortica);
pulsazione epigastrica (nell’ipertrofia cardiaca destra e nell’aneurisma dell’aorta addominale).
Utile rilevare anche alterazioni dello scheletro toracico e della forma del torace.
2. PERCUSSIONE: non serve nella pratica clinica ad un cazzo, ma è bene ricordare che l’aia cardiaca
corrisponde → base maggiore 5° spazio intercostale sx fino alla 6° cart. costale dx e corrisponde
al ventr. dx; margine dx va dalla 6° cart. costale dx alla 3° cart. costale dx e corrisponde all’atrio
dx; margine sx va dalla punta del cuore al 3° spazio intercostale sx e corrisponde al ventr. dx;
base minore tra manubrio e corpo sternale e corrisponde alla vena cava superiore + tronco
polmonare.
3. PALPAZIONE non frega un cazzo a nessuno.
4. AUSCULTAZIONE: a) focolaio mitralico → 5° spazio intercost. sx sull’emiclaveare;
b) focolaio tricuspidale → 4° spazio intecost. sx sulla marginosternale;
c) focolaio polmonare → 2° spazio intercostale sx sulla marginosternale;
d) focolaio aortico → 2° spazio intercostale dx sulla marginosternale.

Come faccio a trovare gli spazi intercostali? Trovo l’angolo del Louis: angolo convesso nella
superficie anteriore formato all'unione del manubrio con il corpo dello sterno; tale angolo
corrisponde al SECONDO SPAZIO INTERCOSTALE; da lì in poi è semplice regolarsi.
SCOMPENSO CARDIACO
Incapacità del cuore a fornire un’adeguata quantità di sangue per far fronte alle esigenze
dell’organismo.
Tralasciando le definizioni di scompenso a bassa/alta gittata (tanto quelle clinicamente più
rilevanti ad alta gittata sono gli scompensi in seguito ad anemia ed ipertiroidismo);
destro/sinistro/globale (che tanto non frega un cazzo a nessuno perché è inevitabile che se il cuore
dx ad es. si scompensa, anche il sx prima o poi si scompenserà); acuto/cronico (lo scompenso
acuto te lo trovi nell’infarto miocardico ad es., oppure nel grave tamponamento cardiaco oppure
nelle gravi aritmie che insorgono d’emblée; ovvio che il più delle volte è cronico);
sistolico/diastolico/sisto-diastolico (il più delle volte la limitazione è sistolica, ma è inevitabile che
anche la funzione diastolica viene ad essere compromessa, ossia la funzione di riempimento delle
camere cardiache); quello che a tutti (specie al prof.) interessa è la classificazione funzionale
NYHA, che distingue 4 gradi di scompenso cardiaco (che da ora in poi chiameremo per comodità
SC):
1. Pazienti senza limitazione dell’attività fisica (in soldoni, il paziente scompensato ma
completamente asintomatico);
2. Pazienti con minime limitazioni dell’attività fisica (es. notevoli sforzi fisici);
3. Pazienti con marcate limitazioni dell’attività fisica (es. sforzi inferiori all’ordinario);
4. Pazienti sintomatici ANCHE a riposo.
Tale classificazione sarà importante anche per quanto riguarda la terapia.

EZIOLOGIA
1) INSUFFICIENZA DELLA FUNZIONE CARDIACA (INSUFF. DI POMPA) → Quella più frequente, te
la ritrovi ad es. in:
a) Infarto e Cardiopatia Ischemica, per perdita di tessuto contrattile (anatomica o funzionale
che sia poco importa);
b) Sovraccarico pressorio, come nell’ipertensione arteriosa oppure nella stenosi aortica;
c) Sovraccarico di volume, come nelle insufficienze valvolari (aortica e mitralica), nelle
anemie oppure nell’ipertiroidismo;
2) AUMENTI NOTEVOLI DEL CARICO DI LAVORO CARDIACO IN CUORE SANO → Come nel caso di:
a) Infarto, quando ad es. si rompono i lembi valvolari o le corde tendinee;
b) Nel tamponamento cardiaco.
In soldoni, la causa più frequente in assoluto in Italia è lo scompenso in seguito a cardiopatia
ischemica, seguita dalla cardiopatia ipertensiva. I pazienti affetti da insufficienza cardiaca sono
attorno ad 1 milione in Italia, in particolare colpisce la fascia d’età fra 70-79 e 80-89 anni. I pazienti
con scompenso cardiaco cronico presentano inoltre un’ alta incidenza di comorbidità quali la
BPCO, la patologia ipertensiva, il diabete mellito, la insufficienza renale, le vasculopatie cerebrali.

FISIOPATOLOGIA
Nello scompenso, le conseguenze fisiopatologiche si sviluppano perché il cuore sostanzialmente
non svolge più la funziona di pompa e quindi l’organismo ne soffre. Ovviamente il cuore non è che
se ne sta a guardare mentre tutto va a puttane e quindi cerca di adattarsi; tali adattamenti sono
importanti da conoscere perché, se in un primo momento servono a compensare, in un secondo
momento saranno del tutto controproducenti, contribuendo ad aggravare il quadro clinico, tant’è
vero che oggi si considera lo SC una sorta di “malattia neuroendocrina” (perché i meccanismi di
adattamento principali, che porteranno poi ad effetti negativi, sono appunto di tipo
neuroendocrino).
Il cuore adatta costantemente la propria gittata ai bisogni metabolici dell’organismo grazie alla
combinazione di vari fattori che determinano la Gittata Sistolica, ossia la quantità di sangue
pompata dai ventricoli ad ogni sistole e che è pari a 70 mL in un uomo di 70 kg) e che sono
rappresentati da: pre-carico (ossia il riempimento ventricolare, quindi la quantità di sangue che
riempie il cuore e per essere precisi il riempimento telediastolico, ossia quello alla FINE della
diastole), dall’inotropismo (la contrattilità); la frequenza cardiaca; il post-carico (ossia le resistenze
vascolari periferiche contro le quali il cuore pompa).
Noi sappiamo che la gittata cardiaca è il prodotto della Frequenza Cardiaca* Gittata Sistolica (in un
uomo di 1,70 m per 70 kg avremo: 70 bpm * 70 mL=4900 mL/min, quindi circa 5 L/min).
Elenchiamo i vari adattamenti:
1. Principio di Frank-Starling: il muscolo cardiaco regola la sistole in relazione alla quantità di
sangue presente nel ventricolo alla fine della diastole: più sangue sarà entrato più ne sarà
eiettato, garantendo l'equilibrio tra il precarico (ritorno venoso) e la gittata cardiaca. Nel
momento in cui però la distensione del muscolo aumenta oltre un certo limite, le fibre si
disallineano, perdendo il rapporto reciproco e non potendo più garantire la contrazione.
2. Aumento estrazione di ossigeno dal sangue arterioso (tant’è vero che si riduce la SatO2
venosa, passando dal normale 70% al 55% e meno nelle forma NYHA avanzate);
3. Attivazione del sist. simpatico: attraverso la vasocostrizione arteriolare dei distretti periferici
meno nobili (quindi muscoli, cute, distretto splancnico, rene), in modo da privilegiare quelli
più nobili (cuore, cervello); inoltre, porta ad un aumento della FC (ricordando
precedentemente che la gitt. cardiaca=FC*Gs, ne consegue logicamente che aumentando la
FC non faccio altro che aumentare la GC). Attenzione che il rene non viene salvato, pertanto
ciò comporta ad attivazione di un altro sistema (vedi punto 4); ricordiamo inoltre che il sist.
simpatico ha azione, oltre che cronotropa positiva (ossia aumenta la frequenza cardiaca),
anche positiva sull’inotropismo (ossia contrattilità), dromotropismo (ossia aumenta la velocità
di conduzione cardiaca) e batmotropismo (ossia aumenta l’eccitabilità delle cellule cardiache).
4. Attivazione del sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone (RAA): la ridotta gittata cardiaca a
livello renale (pertanto con riduzione della pressione nelle arteriole glomerulari) porta ad
attivazione di tale sistema che ha come conseguenze un aumento della ritenzione di sodio ed
acqua, oltre che mantenere la vasocostrizione arteriolare. A che pro tutto questo?
Aumentando acqua e sodio non facciamo altro che aumentare il pre-carico, ossia il ritorno
venoso al cuore (ricordando il principio di Frank-Starling, aumentando la quantità di sangue
che torna al cuore aumenta la distensione delle fibre miocardiche e pertanto la quantità di
sangue eiettata) e sappiamo che aumentando il pre-carico ripristiniamo un’adeguata portata
cardiaca in quanto agiamo sulla gittata sistolica aumentandola (portata cardiaca e gittata
cardiaca sono sinonimi ti ricordo); il sistema RAA è implicato anche nei processi di
rimodellamento del cuore (vedi successivamente “ipertrofica miocardica).
5. Rilascio di ADH da parte dell’ipofisi: per sollecitazioni osmotiche (la ritenzione idrica porta ad
aumento della pressione osmotica del liquido extracellulare) e non osmotiche (i barocettori
carotidei riconoscono nello SC una diminuzione pressoria e questo porta al rilascio
dell’ormone), il tutto sempre con lo scopo di aumentare il precarico.
Questi sono i meccanismi neuroendocrini di adattamento, che intervengono in prima battuta, più
o meno rapidamente, ma abbiamo un altro meccanismo di compenso che tuttavia è molto più
lento in quanto si attiva solo in condizioni di cronico aumento di lavoro: l’ipertrofia miocardica, in
modo da migliorare la sua efficienza contrattile. Questo carico di lavoro extra può essere:
1. Di tipo PRESSORIO: con ipertrofia concentrica (aggiunta in parallelo di sarcomeri);
2. Di tipo VOLUMETRICO: con ipertrofia eccentrica (aggiunta in serie di sarcomeri).
L’ipertrofia nasce come risposta di adattamento: infatti nell’ipertrofia concentrica per Legge di
Laplace aumentando lo spessore di parete viene compensato l’aumento pressorio (questo per non
far aumentare troppo il post-carico) mentre nel sovraccarico volumetrico l’aumento di spessore
compensa l’aumenta del raggio (per legge di Laplace).
Ok, fin qui tutto molto bello indubbiamente; i meccanismi di compenso fanno sì che l’organismo
riceva una quantità di sangue sufficiente alle sue esigenze. Tuttavia a lungo andare tali meccanismi
diventano del tutto controproducenti: la redistribuzione della gittata cardiaca, l’aumento della
frequenza e della contrattilità cardiaca, unitamente all’ipertrofia cardiaca, non fanno altro che
aumentare il post-carico, quindi la tensione di parete, quindi si ha un’ulteriore impennata del
carico di lavoro del cuore (determinata anche dal fatto che in sistole i vasi coronarici
subendocardiali vengono compressi e se aumenta la frequenza cardiaca dimunisce l’apporto di O 2,
oltre che aumentare il lavoro cardiaco) che porta ad un circolo vizioso che peggiora il quadro
clinico. Inoltre, avremo come conseguenza dell’aumento del pre-carico un aumento della
pressione venosa nelle grandi vene a monte delle cavità cardiache (circolo polmonare e circolo
sistemico): questo perché quando il cuore pompa meno sangue del normale, rimane una certa
quantità alla fine della sistole (telesistole) e questo sangue non fa altro che aumentare la pressione
a monte dei due ventricoli (circolo polmonare a sx, circolo sistemico a dx).
Per riassumere: le conseguenze fisiopatologiche dello scompenso cardiaco sono rappresentate
dall’IPOPERFUSIONE TISSUTALE e dalla CONGESTIONE VENOSA; i meccanismi di compenso, se in
un primo momento cercano di supplire alle varie mancanze, a lungo termine sono essi stessi
deleteri per il cuore e l’organismo in toto.

CLINICA
Tutti i sintomi sono conseguenza appunto di ipoperfusione tissutale+congestione venosa:
 DISPNEA: il sintomo cardine dello SC, dovuto alla congestione venosa polmonare che porta
dapprima ad edema interstiziale (con riduz. della distensibilità polmonare e riduz. degli scambi
alveolo-capillari). In base alla gravità della dispena ricaviamo la classif. NYHA (dapprima sotto
sforzi intensi, poi anche a riposo). Correlati i sintomi quali ortopnea (perché in posizione
supina si riduce il ritorno venoso al cuore) e asma cardiaco (tosse stizzosa e respiro sibilante
sempre per congestione polmonare).
 DEBOLEZZA MUSCOLARE: per ipoperfusione.
 SINTOMI URINARI: nicturia (perché durante la notte migliora la perfusione renale in posizione
supina); nelle forme avanzate oliguria fino alla franca anuria
 SINTOMI CEREBRALI: dovuti all’ipoperfusione cerebrale, in genere vaghi nello scompenso
cronico e cmq nelle forme avanzate, visto che il circolo cerebrale tende ad autoregolarsi
(insonnia, difficoltà di concentrazione).

SEMEIOTICA
 ISPEZIONE
 Cute fredda e pallida per ipoperfusione cutanea;
 Edemi periferici (ricercare il segno della fovea), per insuff. renale; dapprima nelle
porzioni declivi (piedi, caviglie, sacro nei soggetti allettati), poi sempre più diffuso;
 Nelle fasi avanzate anche segni di insuff. d’organo (ittero, spider nevi ecc.).
 PALPAZIONE
 Epatomegalia e splenomegalia per congestione venosa (con positività del segno del
reflusso epatogiugulare);
 Polso alternante (alternarsi di pulsaz. deboli e forti a ritmo ventricolare regolare, per
insuff. di pompa del cuore).
 AUSCULTAZIONE
 Tachicardia;
 Comparsa di un III° tono (tono protodiastolico, quindi che noi sentiamo ad inizio della
diastole a bassa frequenza, quindi lo sentiremo dopo il 2° tono, ossia dopo la chiusura
delle semilunari aortiche/polmonari; ricordo invece che il 1° tono segna l’inizio della
sistole ed è dovuto alla chiusura della mitrale/tricuspide). Il 3° tono porta al cosiddetto
ritmo di galoppo o galoppo protodiastolico (“TUM-TA-TA… TUM-TA-TA...”). Si può
accentuare anche la componente polmonare del 2° tono (segno di stasi polmonare).
 Possiamo avvertire rantoli crepitanti alle basi polmonari (segno di edema interstiziale).

DIAGNOSI STRUMENTALE E DI LABORATORIO


 Il laboratorio in genere riflette dati correlati alle varie insuff. d’organo (es. iperkaliemia
nell’insuff. renale con aumento creatinina).
 RX torace → Aumento delle dimensioni del cuore, segni di stasi polmonare (maggiore evidenza
della trama venosa nei campi polmonari superiori, allargamento dell’opacità dell’ilo, opacità
parenchimali).
 ECG non mostra segni specifici di scompenso, tutt’al più segni di ipertrofia ventricolare (QRS
slargato, segni di blocco di branca).
 ECOCARDIOGRAMMA più sensibile e specifico, in particolare per ricavare la frazione di
eiezione (nei soggetti normali la frazione di eiezione sinistra è sempre superiore al 50%, in
genere compresa fra 60 e 75%).

TERAPIA
In base a ciò che abbiamo detto fino ad adesso, se vogliamo intervenire in pazienti con scompenso
cardiaco in fase iniziale per bloccare/rallentare il peggioramento, cosa possiamo fare?
Obiettivi:
1. Migliorare la contrattilità miocardica;
2. Ridurre il carico di lavoro del cuore
a. Riducendo il sovraccarico pressorio del ventricolo sx (post-carico)
b. Riducendo la pressione di riempimento ventricolare (pre-carico)
3. Agire sulla ritenzione di acqua e sodio (non è altro che la riduzione del precarico);
4. Terapia eziologica e prevenzione delle cause scatenanti.
Per quanto riguarda il punto 4, la correzione ad es. di valvulopatie (stenosi aortica…), trattamento
medico delle anemie, delle tiroidopatie, obesità ecc. è ovvia e scontata. Il riposo e la riduzione
degli sforzi fisici eccessivi, associati ad una buona dieta iposodica (3-4 g/die), sono ovviamente
auspicabili.
Per quanto riguarda gli altri punti, non sono in ordine di importanza perché il miglioramento della
contr. cardiaca non è fondamentale per un semplice ed unico motivo: l’aumento della
contrattilità non farebbe altro che aumentare il consumo di O2 miocardico e questo ovviamente
sarebbe del tutto deleterio per un cuore che già di per sé è spompato, tuttavia ricorreremo a
questi farmaci quando avremo esaurito tutte le possibilità. Sarebbe pertanto meglio cercare di
ridurre il più possibile il carico di lavoro del cuore, invece che aumentare l’inotropismo.
Fatta questa premessa, vediamo quali sono le opzioni terapeutiche:

1. AGENTI SULLA CONTRATTILITA’


1.1. Digitalici;
1.2. Inotropi non adrenergici (dopamina, dobutamina);
1.3. Inotropi adrenergici (adrenalina e noradrenalina).
2. AGENTI SUL PRECARICO
2.1. Diuretici;
2.2. Vasodilatatori venosi.
3. AGENTI SUL POSTCARICO
3.1. Vasodilatatori arteriosi.
4. FARMACI AD AZIONE MISTA SU PRECARICO E POSTCARICO

1) Gli inotropi (adrenergici e non adrenergici) si utilizzano soltanto in condizioni di scompenso


acuto e pertanto non ci interessano: a noi, quando parliamo di scompenso cronico, interessa
soltanto la digitale. Sappiamo che i digitalici (digossina, nome commerciale Lanoxin, gli altri
non si utilizzano ormai più), per blocco sulle pompe Na+/K+, hanno azione inotropa positiva
(perché bloccando la pompa sodio-potassio non fa altro che facilitare lo scambio sodio-calcio
e sappiamo che il calcio è fondamentale per la contrazione); hanno azione anche batmotropa
positiva (aumentano cioè l’eccitabilità delle cellule miocardiche), pertanto dobbiamo stare
attenti perché la digossina potrebbe indurre aritmie; infine, da ricordare che i digitalici hanno
azione cronotropa e dromotropa negativa (pertanto riducono la FC e la conduzione atrio-
ventricolare, tant’è vero che nello scompenso cardiaco con associata fibrillazione atriale
possono essere molto utili). Qual è il problema però e perché non li utilizziamo come primo
farmaco? Per il motivo anzidetto: aumentando la contrattilità non facciamo altro che
aumentare il consumo di ossigeno in un cuore che è già di per sé spompato, ergo non
facciamo altro che facilitare l’insorgenza di cardiopatia ischemica! Quando invece può
andare bene come primo step la digitale? Quando ad es., come dicevamo poc’anzi, ci
troviamo di fronte ad un soggetto con fibrillazione atriale: in questi casi sfruttiamo l’effetto
dromo tropo negativo e prendiamo due piccioni con una fava (anche se ormai esistono i β-
bloccanti ed il problema non sussiste, meglio dare questi quando possibile invece che la
digitale). Comunque, la letteratura è concorde nell’affermare che la digitale, pur migliorando i
sintomi di scompenso, non determina un aumento della sopravvivenza del paziente (lo dice
Saitta, lo dice il Bartoccioni, lo dicono le linee guida europee, lo dice il Conn di terapia
medica… insomma lo dicono tutti) pertanto è un farmaco che ha perso la sua importanza,
anche perché il rischio di intoss. digitalica è sempre dietro l’angolo. DA QUANTO DETTO
FINORA QUINDI I FARMACI CHE AUMENTANO LA CONTRATTILITA’ DEL CUORE NON VANNO
UTILIZZATI COME PRIMO STEP, SEMMAI COME ULTIMA SPIAGGIA! Effetti collaterali dei
digitalici: bradicardia, extrasistoli (soprattutto bigeminismi), nausea, vomito.
Controindicazioni: BAV, cardiopatia ischemica, sindrome di Wolff-Parkinson-White (perché se
rallenti la conduzione A-V faciliti la conduzione nel circuito aberrante), ipokaliemia (aumenta il
rischio di intossicazione digitalica), cardiopatie ipertrofiche ostruttive (stenosi aortica,
tetralogia di Fallot). Dosaggio: da 0,125 mg/die, senza cercare di eccedere i 0,375 mg/die (min
0,0675 mg/die, max 0,25 mg/die). Come facciamo a regolarci se ci sta intossicazione
digitalica? Dalla frequenza cardiaca: cerchiamo di non farla scendere sotto i 70, se va troppo
giù allora sospendiamo.
2) I diuretici sono classe di farmaci più utilizzata nel trattamento dello SC, con il razionale di
ridurre il precarico (perché facciamo pisciare il paziente). I tiazidici hanno un’azione più
graduale e lenta e pertanto sono utili nei casi piuttosto lievi, ma ricordiamo che non vanno
utilizzati nelle forme gravi o in presenza di insuff. renale con filtrato renale < 30 mL/min: in
questi ultimi casi meglio ricorrere ai diuretici dell’ansa ed in particolar modo alla furosemide
(nome commerciale Lasix), che hanno tra l’altro il vantaggio di poter essere utilizzati anche
nei pazienti con insufficienza renale (dose Lasix min 0,25 mg/die, fino ad un max di 400-500
mg/die). La letteratura comunque non si pronuncia per quanto riguarda la sopravvivenza dei
pazienti, ma sono cmq efficaci per il trattamento dei sintomi e noi li diamo senza problemi.
Sarebbe opportuno cmq utilizzarli in associazione agli ACE-Inibitori, per contrastare
l’attivazione del sistema RAA. Ricordiamo che esiste una terza classe di diuretici, oltre ai
tiazidici ed i diuretici dell’ansa: i risparmiatori di potassio. Su questi dobbiamo fare una
considerazione importante: PER QUANTO SIA VERO CHE I RISPARMIATORI DI POTASSIO NON
DIANO UNA DIURESI IMPORTANTE, SONO FARMACI CHE DETERMINANO UN AUMENTO DI
SOPRAVVIVENZA NEI PAZIENTI CON SCOMPENSO CARDIACO CRONICO (specialmente nei
pazienti con disfunzione ventricolare post-infartuale). Ma tutti i risparmiatori di potassio? A
NOI NELLO SCOMPENSO CARDIACO INTERESSANO SOLO GLI ANTAGONISTI
DELL’ALDOSTERONE, tipo spironolattone (nome commerciale Aldactone) oppure eplerenone
[n.b esistono infatti, oltre agli antagonisti dell’aldosterone, gli agenti sulle pompe sodio a
livello dei dotti distali e tubuli collettori, tipo triamterene]. Come mai proprio dei diuretici così
blandi sono così importanti? La risposta è semplice: GLI ANTAGONISTI DELL’ALDOSTERONE
AGISCONO BLOCCANDO L’IPERATTIVAZIONE DEL SISTEMA RENINA-ANGIOTENSINA-
ALDOSTERONE, OSSIA UNO DEI SISTEMI DI COMPENSO CHE, A LUNGO ANDARE, SONO
DELETERI PER L’ORGANISMO STESSO (rivedi la fisiopatologia). I dosaggi in genere utilizzati
sono tra l’altro bassi: bastano 25 mg/die; possono essere già utilizzati a partire da un NYHA II
(per Saitta meglio darli ai NYHA III… ripeti come dice lui e amen, ma ricorda che nelle linee
guida si parla di NYHA II). Abbiamo anche parlato, parlando di azione sul precarico, dei
vasodilatatori venosi, ossia i nitroderivati. Il nitroderivato in realtà non va considerato come
farmaco da usare nel paziente con scompenso cardiaco cronico, a meno che non abbia una
cardiopatia ischemica associata (perché è per questo motivo che si utilizzano i nitroderivati):
tutt’al più lo possiamo utilizzare nelle fasi più avanzate dello scompenso cardiaco, quando
abbiamo esaurito tutte le possibili opzioni (né più né meno come per la digitale).
3) Per quanto riguarda il post-carico, cerchiamo di agire riducendo le resistenze periferiche,
quindi parliamo di vasodilatatori arteriosi. Ma ci sta un razionale? Se noi riducessimo le
resistenze periferiche vasodilatando le arterie, per compenso otterremmo un aumento della
FC (ricordiamo per l’ennesima volta: la GC è il prodotto di FC*GS e la GS ricordiamo essere
influenzata anche dal postcarico e se riduco la GS per compenso il nostro organismo
aumenterà la FC, principalmente mediante attivazione del sist. simpatico) quindi saremmo dei
grandissimi coglioni a vasodilatare, tant’è vero che i Calcio-antagonisti, che noi spesso
utilizziamo nella terapia antipertensiva, non andrebbero considerati nei soggetti con
scompenso cardiaco cronico, con l’eccezione di pazienti che stanno facendo di tutto e sono
cmq ipertesi o ad es. non possono usare i betabloccanti (ad es. gli stiamo dando
betabloccanti, diuretici ed ACE-I e hanno ancora la pressione alta). In questa categoria a noi
invece interessa moltissimo parlare di ACE-I e sartani: GLI ACE-I ED I SARTANI SONO FARMACI
CHE MIGLIORANO LA SOPRAVVIVENZA DEI PAZIENTI ED ANDREBBERO SEMPRE UTILIZZATI
COME FARMACI DI PRIMA SCELTA NEL PZ. CON SCOMPENSO CARDIACO CRONICO. Qual è il
razionale dietro l’utilizzo degli ACE-I? Tutto parte dalla renina che agisce sull’angiotensinogeno
(precursore epatico), si forma l’angiotensina I sulla quale agisce l’ACE e si forma l’angiotensina
II che si lega ai suoi specifici recettori per svolgere le sue funzioni (vasocostrizione, secrezione
di aldosterone, ecc); gli ACE-inibitori bloccano pertanto la cascata a questo livello (passaggio
angiotensina I-angiotensina II); ricordiamo tuttavia che l’ACE è un enzima proteolitico non
specifico per l’angiotensina I, potendo agire anche su altre sostanze come la bradichinina, che
è vasodilatante ma determina tosse (principale effetto collaterale degli ACE-I). Da quanto
detto quindi l’ACE-I ha azione vasodilatante sia perché riduce la conversione dell’angiotensina
II, sia perché fa sì che la bradichinina, che è sostanza vasodilatante, non venga toccata. I
sartani non sono altro che antagonisti dell’angiotensina II (quindi hanno lo stesso razionale
degli ACE-I, con il vantaggio di non dare tosse) ed agiscono precisamente bloccando i recettori
AT-1 dell’angiotensina II, che sono quelli che ci interessano in quanto sono i principali
mediatori dello scompenso cardiaco. Possiamo associare ACE-I e sartani, visto che hanno
stessi effetti ma farmacodinamica diversa? In genere non vengono associati perché i risultati
degli studi sono stati contrastanti, quindi secondo il Ministero o dai uno o dai l’altro (inizia con
gli ACE-I; se ha tosse, dai il sartano); sarebbe cosa buona e giusta iniziare con un’associazione
diuretico+ACE-I/sartano (ce ne stanno a bizzeffe in commercio, alcuni esempi sono TRIATEC,
FEMIPREX, ACEDIUR…). Ricordiamo che gli ACE-I determinano una vasodilatazione non
soltanto a livello dell’arteriola afferente ma anche di quella efferente e quindi la pressione di
filtrazione glomerulare si riduce e questo, nei pazienti con insufficienza renale, è un problema.
Diventa pertanto importante il monitoraggio della funzione renale (semplicemente
controllando la creatinina e la sua clearance) in questi pazienti: è lecito aspettarsi un
peggioramento della funzionalità renale durante i primi 3 mesi di terapia, ma dopo il terzo
mese possiamo o raggiungere una certa stabilità oppure un peggioramento. Allora come ci
regoliamo? Diamo l’ACE-inibitore e sorvegliamo la creatinina: se ad es. partiamo da 0,8 di
creatinina e questa sale di 0.9/1, aumentando a 1.2/1.5, questo aumento non ci deve
interessare, perché tanto poi si stabilizza nel tempo; se invece noi vediamo che poi il paziente
a cui diamo L’ACE inibitore raddoppia i suoi livelli di creatinina e improvvisamente da 1 passa a
2, poi 3 ecc. (quindi aumenti notevoli!), allora in questi casi la situazione inizia a diventare più
seccante. Lo stesso ragionamento detto per gli ACE inibitori ovviamente vale anche per i
sartani. Un altro concetto importante da tenere a mente è questo: quando noi con L’ACE
inibitore blocchiamo l’enzima di conversione c’è la possibilità che ci sia prima uno shunt, e
cioè che l’angiotensina I può essere degradata da altri enzimi proteolitici diverse dall’ACE, che
possono comunque portare all’attivazione dell’angiotensina II (quindi noi blocchiamo l‘ACE
però l’angiotensina II continua a formarsi). Allora cosa si è visto in tutto ciò? Che per ottenere
un blocco efficace del sistema regina-angiotensina-aldosterone l’ACE-I deve essere utilizzato
alla maggior dose possibile e deve essere somministrato non in una somministrazione (perché
L’ACE durante la giornata torna ad aumentare) ma in doppia somministrazione: quindi mentre
nell’ipertensione utilizziamo l’ACE-I in mono-somministrazione (o la mattina o la sera) e a dosi
inferiori, nel paziente con scompenso cardiaco deve essere dato in doppia dose (mattina e
sera) e alla dose più alta sopportata dal paziente. Es. pratico: Enalapril nell’ipertensione si dà
una compressa da 20mg, invece nel paziente con scompenso cardiaco si deve arrivare a una
dose ben piú alta , cioè arrivare ai 40 mg giornalieri , cioè 20 la mattina e 20 la sera (è chiaro
che se il paziente ha 100 di pressione e non è sintomatico possiamo provare a continuare a
dargli la dose maggiore ma se poi il paziente va incontro ad elevazione marcata, tipo 160 -170
e diventa sintomatico, è chiaro che non possiamo mantenere questa dose). Quello che noi
dobbiamo fare è cercare di incrementare il dosaggio dell’ACE-I in misura progressiva fino ad
arrivare alla più alta dose sopportabile dal paziente con doppia somministrazione, mattina e
sera. Controindicazioni: ipertensione nefrovascolare da stenosi BILATERALE delle art. renali o
MONOLATERALI IN PZ. CON MONORENE, (è ovvio, sapendo che gli ACE-I riducono la pressione
di filtrazione e in un pz. con stenosi bilat. la pressione di filtrazione è ridotta di per sé, non
facciamo altro che mandarlo in insuff. renale acuta!!); patologie in cui è presente una
compressione dell’arteria renale (es. tumore compressivo, rene policistico, sempre per lo
stesso motivo detto prima…); gravidanza (si è visto che gli ACE-I hanno effetti teratogeni, in
particolare sul rene).
4) Sappiamo come bloccare il sist. RAA, ma ricordiamo che esiste un altro sistema attivo nello
scompenso cardiaco, ossia il sist. simpatico. Possiamo bloccarlo? Certo, ricorrendo ai β-
bloccanti, anche questi farmaci che determinano un aumento della sopravvivenza dei pz.
con scompenso cardiaco. La loro azione sul cuore si esplica sul blocco dei recettori β1 (il cui
effetto, a livello cardiaco, è inotropo e cronotropo positivo, pertanto determinano un
aumento della frequenza e della contrattilità), riducendo quindi il cronotropismo e
l’inotropismo e pertanto riducendo il carico di lavoro sul cuore. È pur vero che all’inizio della
terapia assisteremo ad una certa riduzione della fraz. di eiezione (tant’è vero che il paziente
potrebbe cominciare ad accusare un certo peggioramento dei sintomi ed è normale), ma nel
giro di 2-4 settimane assisteremo ad un netto miglioramento (unica raccomandazione:
rassicurare il paziente ed informarlo!). Per il β-bloccante vale lo stesso ragionamento degli
ACE-I: bisogna utilizzarlo alla massima dose sopportata dal paziente per avere benefici.
Iniziamo con una bassa dose e vediamo la risposta clinica: se non ci sono segni di
peggioramento particolare a distanza di due settimane, iniziamo ad incrementare il dosaggio,
che va aumentato progressivamente per due settimane fino a raggiungere il livello massimo di
beta bloccante. Per regolarci con la dose massima sopportabile dal paziente, basta valutare la
FC: finché si mantiene > 70 va tutto bene, quando scende troppo riduciamo la dose, fino a che
non controlliamo i sintomi. Ricordiamo le controindicazioni principali dei β-bloccanti: asma,
BPCO, bradiaritmie, diabete (alterano il metabolismo glucidico).
Ricapitolando quindi (dalle linee guida ESC 2016):
 E’ buona norma iniziare con gli ACE-I se non controindicati, associarli ai diuretici e poi, se
non controlliamo in sintomi, aggiungere β-bloccanti ;
 Sarebbe cosa buona e giusta non dare i diuretici da soli, ma in associazione ad ACE-I oppure
β-bloccanti in quanto, sebbene migliorino i sintomi, non sembrano determinare un
miglioramento della sopravvivenza;
 Possiamo anche iniziare con i β-bloccanti, anche questi volendo associati ai diuretici e poi
aggiungere successivamente gli ACE-I/sartani;
 Secondo Saitta, gli antagonisti dell’aldosterone andrebbero utilizzati in NYHA III, ma per le
linee guida si possono utilizzare già in NYHA II, in associazione a β-bloccanti e/o ACE-I;
 Come ultima spiaggia, digitalici (digossina, gli altri non si usano più ormai) e nitroderivati;
 Esiste anche la terapia chirurgica/interventistica: resincronizzazione tramite Pace-maker
biventricolare (non molto utilizzata, consiste nell’impiantare elettrodi in atrio e ventricoli in
modo da resincronizzare le attività dei due ventricoli alterate dall’anormale conduzione
intraventricolare; la inserisco nella terapia perché Saitta l’ha citata); impianto di
defibrillatore; contropulsatore aortico; trapianto cardiaco.

Esiste un altro farmaco, oltre a quelli citati, che viene nominato nelle linee guida (Saitta non ne ha
parlato a lezione, io lo cito perché non si sa mai, casomai gli girasse… ), che è l’ivabradina,
bloccante delle correnti If lenti del Ca2+ a livello cardiaco, con effetto di rallentamento della FC,
senza influenzare l’inotropismo. Saitta inoltre ha citato a lezione l’aliskiren, che è un inibitore della
renina, ma ha affermato che non è utilizzato in quanto non migliora la prognosi (infatti anche le
linee guida ESC 2016 dicono così).
Domande possibili di Saitta:
1. Da cosa dipende la prognosi? Dalla frazione di eiezione (se si mantiene buona o no) e dalla
possibile insorgenza di aritmie cardiache.
2. Scompenso ACUTO (non cronico, ACUTO), che determina edema polmonare: cosa fai?
Dobbiamo ridurre il precarico ed il postcarico nel minor tempo possibile. Attacchiamo
l’ossigeno, dopodiché dobbiamo ridurre il volume, quindi diuretico endovena (ossia
furosemide ev). Inoltre, qui c’è l’indicazione al vasodilatatore immediato, ossia il nitroderivato
(ecco, qui lo usiamo), in modo da ridurre il ritorno venoso. Quindi: OSSIGENO, DIURETICO
(FUROSEMIDE EV, NON ALTRI!), NITRODERIVATI, OSSIGENOTERAPIA, DIGITALE E MORFINA
(per l’effetto venodilatatore transitorio quindi riusciamo a ridurre il ritorno venoso, così come
per ridurre l’ansia da dolore). Ma dobbiamo anche dare gli INOTROPI ADRENERGICI E NON
che si utilizzano in emergenza.

CARDIOPATIA ISCHEMICA
Termine che racchiude diversi quadri clinici che hanno in comune lo sviluppo di ischemia
miocardica, ossia inadeguato apporto di ossigeno al miocardio, che si verifica in seguito a
squilibrio tra richiesta e apporto di ossigeno.
È di gran lunga la cardiopatia con maggiore incidenza nei Paesi sviluppati; soltanto in Italia la
prevalenza della cardiopatia ischemica nella è verosimilmente intorno al 4%, con una prevalenza
simile di infarto miocardico pregresso e storia di angina pectoris. In Italia, quindi, vivono più di 2
milioni di soggetti affetti da cardiopatia ischemica nelle sue varie forme.

EZIOPATOGENESI
Aterosclerosi, pochi cazzi: questa è la principale causa di CI nella popolazione. Ma non
dimentichiamo anche anche: spasmi coronarici (responsabili dell’angina di Prinzmetal), arteriti,
embolie coronariche (rarissime! Perché? Perché l’emergenza delle coronarie dall’aorta è ad angolo
retto), anomalie congenite.

FISIOPATOLOGIA
Le arterie che irrorano il cuore sono due, l’arteria coronaria destra e l’arteria coronaria sinistra,
che nascono dall’aorta, immediatamente dopo la sua origine. Il cuore è un organo completamente
aerobio e, in condizioni fisiologiche, la maggior parte della richiesta energetica deriva dall’attività
meccanica del muscolo cardiaco.
Come conseguenza, i principali determinanti del consumo di ossigeno sono:
• la FC;
• il post-carico;
• il pre-carico;
• la contrattilità (inotropismo).
Inutile parlare di frequenza, perché è logico: maggiori i battiti, maggiore il consumo di ossigeno. Il
post-carico corrisponde alla tensione delle pareti delle camere cardiache durante la contrazione e
dipende principalmente dalla pressione sviluppata al loro interno, che, a sua volta, è determinata
dalle resistenze all’eiezione del sangue. Nel caso del ventricolo sinistro, in assenza di ostruzioni
all’efflusso, un indice attendibile del post-carico è fornito dalla pressione arteriosa.
Il pre-carico non è altro che il ritorno venoso, ossia nei dettagli la pressione endocavitaria
sviluppata dal sangue che riempie le cavità cardiache.
Infine, un aumento dell’inotropismo cardiaco aumenta il lavoro cardiaco, e quindi il consumo di
ossigeno.
In clinica non è possibile rilevare tutte queste variabili; alcune di esse tuttavia sono facilmente
misurabili, come la frequenza cardiaca (FC) e la pressione arteriosa (PA). Poiché questi due
parametri determinano gran parte della richiesta metabolica miocardica, il prodotto FC*PA
sistolica, detto comunemente doppio prodotto, è ritenuto un indice affidabile, semplice e non
invasivo, per la valutazione del consumo di ossigeno miocardico.
L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare il
consumo miocardico di ossigeno, quindi in tutte quelle situazioni in cui il lavoro del cuore
aumenta perché aumenta uno di quei quattro parametri citati prima.
L’ischemia causa importanti alterazioni miocardiche che si presentano di solito secondo una
sequenza temporale tipica, nota come cascata ischemica, che coinvolge, in breve tempo, dapprima
l’attività metabolica, poi quella meccanica e poi quella elettrica delle cellule miocardiche; infine,
nel paziente può comparire, ma non sempre, il dolore ischemico cardiaco.
Queste alterazioni sono reversibili se l’ischemia è transitoria; se essa si prolunga oltre i 15-20 min
le alterazioni cellulari diventano irreversibili e ne consegue la necrosi dell’area ischemica, cioè
l’infarto del miocardio, tant’è vero che è per questo motivo che noi abbiamo non uno ma tanti
quadri clinici (angina, sindromi coronariche acute, IMA e sue complicanze ecc.) propri della
cardiopatia ischemica, tutti dipendenti appunti dal tempo (ma anche dal modo) in cui si sviluppa
questa ischemia.
L’ischemia acuta del miocardio è caratterizzata all’ECG principalmente da modificazioni del tratto
ST. Il tipo e la sede di queste modificazioni dipendono dalla sede e/o dal grado di ischemia:
 nella classica necrosi transmurale, tu avrai il sopraslivellamento dell’ST, con T negativa;
possono comparire anche le onde Q di necrosi (questo è il classico infarto come lo vedi
all’ECG);
 oppure potremmo avere un’ischemia subendocardica ed in quel caso non vedremmo un cazzo
di niente.
Nel caso dell’infarto, bisogna ricordare anche le complicanze (domanda di Saitta): nelle prime 48
ore vi è un'alta probabilità di aritmie da riperfusione, generalmente ventricolari. Altra evoluzione è
l'insufficienza cardiaca, che può evolvere in edema polmonare acuto e nel più pericoloso shock
cardiogeno. Altra temibile complicanza è la rottura della parete laterale del cuore, che porta alla
morte in pochi secondi. Ricordiamo l'embolia da frammentazione del trombo coronarico, le
trombosi venose profonde da allettamento, l'embolia polmonare da possibile trombo apicale. La
pericardite e le recidive ischemiche sono sempre da tener presenti, come le aritmie
sopraventricolari (fibrillazione atriale e flutter atriale).

CLINICA
Il sintomo cardine della CI è il dolore.
Il dolore ischemico cardiaco è tipico quando si presenta come oppressivo o costrittivo, ma in alcuni
casi può essere di tipo urente o come un senso di peso. Esso è tipicamente caratterizzato da inizio
e cessazione graduali e, elemento importante, non è influenzato dagli atti respiratori, dalla
posizione del corpo e dalla digitopressione sulla parete toracica. Tipicamente il dolore ischemico
cardiaco è localizzato in sede retrosternale e il paziente lo indica spesso ponendo la mano sulla
regione sternale. Può irradiarsi verso varie sedi, che in rare occasioni possono essere la
localizzazione principale, o anche unica, del dolore stesso. Le irradiazioni più tipiche del dolore
anginoso sono la superficie ulnare dell’arto superiore sinistro, le spalle e il collo. Tuttavia, sedi non
rare di irradiazione sono mandibola, epigastrio, regione interscapolo-vertebrale e anche braccio
destro. L’insorgenza del dolore ischemico cardiaco è, nella forma più tipica, ricollegabile a una
causa scatenante, anzitutto l’esercizio fisico, ma anche condizioni di stress emotivo, l’esposizione a
una temperatura rigida, il pranzo, una crisi ipertensiva. Tipicamente l’angina pectoris dura solo
pochi minuti (da 1-2 a 5-10 min). Tuttavia, nelle forme più gravi, la durata può arrivare anche a 20-
30 min, ma diciamo che un dolore che dura per più di 15 minuti è un dolore dovuto a necrosi,
quindi sintomo di infarto. La somministrazione di nitrati per via sublinguale o buccale (spray) ha la
capacità di determinare una regressione più rapida del dolore anginoso rispetto al decorso
spontaneo, con risposta entro 2-5 min dall’assunzione, ma ricorda che sono inefficaci sul dolore
infartuale, quindi sul dolore da necrosi.
Ma il paziente può anche non sentire dolore, bensì improvvisamente avere una dispnea. La
comparsa di aritmia è un’altra modalità con cui si può presentare l’angina. Esistono ancora le
insidiose forme asintomatiche, cioè soggetti che si fanno l’angina o un infarto in assenza di
sintomatologia (i cosiddetti infarti silenti, frequenti soprattutto nei pz anziani e nei diabetici affetti da
neuropatia).

QUADRI CLINICI DELLA CI


 ANGINA STABILE O DA SFORZO → Dolore TRANSITORIO secondario ad ischemia miocardica
che compare in seguito a sforzi fisici; l’alterazione anatomo-patologica fondamentale
dell’angina stabile è rappresentata dalla presenza di placche aterosclerotiche che provocano
stenosi di uno o più vasi coronarici epicardici. L’esame obiettivo e l’ECG in questi casi non è
diagnostico, perché appunto si manifesta solo dopo sforzi (ECG sotto sforzo tutt’altra cosa,
vedrai un sottoslivellamento dell’ST; meglio ancora ECG Holter).
 ANGINA VARIANTE (DI PRINZMETAL) → Si verifica esclusivamente o prevalentemente a
riposo e si associa a sopraslivellamento, anziché a sottoslivellamento, del tratto ST all’ECG,
segno, come visto, di ischemia miocardica transmurale. Dovuta a vasospasmi di arterie
coronariche epicardiche (NON A PLACCHE ATEROSCLEROTICHE DUNQUE!!).
 SINDROMI CORONARICHE ACUTE (SCA) → Gruppo di manifestazioni della CI imputabili a
rottura di placca aterosclerotica instabile, con successiva aggregazione piastrinica,
sovrapposizione trombotica e diminuzione/arresto di flusso. Quindi in questo gruppo il
concetto fondamentale da tenere in considerazione è l’instabilità della placca. Il substrato
anatomopatologico alla base della trombogenesi è rappresentato da complicanze a livello di
una placca aterosclerotica che determinano l’esposizione del tessuto subendoteliale della
placca al sangue circolante; ciò causa attivazione e aggregazione piastrinica a livello della
placca complicata, e la successiva formazione di un trombo piastrinico più o meno grande. Le
complicanze in grado di promuovere lo sviluppo di questo processo sono la rottura o
l’ulcerazione della placca aterosclerotica, spesso favorite da un’emorragia intraplacca. Anche
la semplice erosione della superficie endoteliale, comunque, può innescare i meccanismi
trombogeni. In questo gruppo rientrano:
 ANGINA INSTABILE → Sindrome caratterizzata dalla presenza di dolore toracico a riposo
non dovuto a vasospasmo coronarico. L’angina instabile è caratterizzata da un recente
peggioramento del quadro clinico anginoso, che può essere costituito da un aumento della
frequenza e/o durata dell’angina, dalla sua comparsa per sforzi meno intensi (angina in
crescendo) o a riposo (quando prima essa insorgeva solo da sforzo), o anche da una minore
risposta alla terapia con nitrati sublinguali. Una forma di angina instabile è anche l’angina di
recente insorgenza (angina de novo), comparsa, cioè, negli ultimi 2 mesi in un paziente
precedentemente del tutto asintomatico e caratterizzata da angina a riposo e/o da sforzi
lievi. Un’altra forma di angina instabile, infine, è l’angina postinfartuale (che si presenta,
cioè, entro poche settimane da un infarto miocardico acuto). L’esame obiettivo al di fuori
dell’episodio ischemico (come già visto per l’angina stabile) può essere normale, mentre
anche in questo caso durante un episodio anginoso è importante valutare se compaiono
segni di scompenso cardiaco (dispnea, III tono cardiaco, rumori umidi alle basi polmonari)
che suggeriscono la presenza di un esteso territorio ischemico a rischio. In accordo con il
quadro clinico, anche le alterazioni ECG associate all’angina sono transitorie e reversibili.
Queste consistono abitualmente in un transitorio sottoslivellamento del tratto ST,
indicativo di ischemia subendocardica, o di alterazioni, meno specifiche, dell’onda T
(negativizzazione). Lievi alterazioni del tratto ST e/o dell’onda T possono talora persistere
tra le crisi. È da sottolineare che in qualche caso, in coincidenza con l’angina, può aversi
sopraslivellamento del tratto ST, che suggerisce un’occlusione trombotica coronarica
completa, che si risolve in modo rapido spontaneamente. Da notare che questo quadro,
sebbene caratterizzato da riscontro di sopraslivellamento del tratto ST all’ECG, è incluso tra
le sindromi coronariche senza sopraslivellamento del tratto ST per la transitorietà
dell’evento, che non sfocia nello sviluppo di un infarto miocardico.
 INFARTO STEMI (ST-Elevation Miocardial Infarction) → Il classico infartino con
sopraslivellamento del tratto ST, con onde Q di necrosi, T negative ecc. Interessa una
regione del miocardio per tutto il suo spessore, una condizione indicata comunemente
anche come infarto miocardico transmurale. Il meccanismo responsabile dell’ischemia
prolungata che porta alla necrosi miocardica è rappresentato come al solito dalla trombosi
acuta di un vaso coronarico epicardico, che in questo caso è totalmente occlusiva e
persistente. L’enzima utilizzato come riferimento nella diagnosi di infarto miocardico acuto
è la creatin-chinasi (CK), o meglio ancora la sua forma cardio-specifica CK-MB: questo inizia
ad aumentare apprezzabilmente dopo circa 6 ore dall’esordio dei sintomi, raggiunge il
picco a 24 ore o poco più tardi, e ritorna a valori normali entro 72 ore. Le troponine
cardiache (T e I) sono più specifiche di necrosi miocardica rispetto alla CK-MB, cominciano
ad aumentare 4-6 ore dopo l’esordio dei sintomi e raggiungono il picco a 24 ore o poco più.
Contrariamente alla CK e alla CK-MB, tuttavia, le troponine possono rimanere elevate nel
sangue per diversi giorni, e anche fino a 2 settimane dopo l’infarto.
 INFARTO NON STEMI → Nel caso dell’infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento
del tratto ST, la necrosi interessa abitualmente solo gli strati subendocardici di un distretto
miocardico, per cui questo tipo di infarto è anche detto comunemente infarto
subendocardico. L’ECG durante il dolore toracico consiste principalmente nella comparsa di
un sottoslivellamento del tratto ST più o meno marcato e diffuso, anche se in alcuni casi è
possibile che si abbiano solo alterazioni meno specifiche dell’onda T (negativizzazione); la
CK-MB e le troponine saranno cmq alterate.

TERAPIA
Obiettivi della terapia:
 Risoluzione della sintomatologia anginosa/infartuale;
 Prevenzione dell’infarto miocardico;
 Aumento della sopravvivenza.
Quali sono le opzioni terapeutiche a disposizione? In ordine di efficacia:
 Bypass aorto-coronarico;
 Angioplastica coronarica;
 Terapia medica.
Le procedure chirurgiche di by-pass aorto-coronarici si basano sull’utilizzo di innesti con vena
safena o con arterie autologhe tipo l’arteria mammaria. L’indicazione alla chirurgia coronarica è
attualmente accettata per tutti i pazienti con episodi anginosi non controllati dalla terapia medica
e giudicati non trattabili con interventi tramite angioplastica, ma logicamente non possiamo
mandare tutti i pazienti dal cardiochirugo e pertanto si preferiscono gli interventi di
rivascolarizzazione per via percutanea, ossia l’angioplastica coronarica.
Nell’angioplastica coronarica si introduce nell’arteria coronaria da trattare un apposito catetere
munito all’estremo distale di un palloncino gonfiabile. Il palloncino, sgonfio al momento
dell’introduzione del catetere in coronaria, viene posizionato nella sede della stenosi e viene
quindi gonfiato a pressione elevata in modo da schiacciare contro la parete del vaso la placca
aterosclerotica che determina la stenosi, dilatando così il vaso e ripristinando una normale
capacità di flusso. Attualmente, nella quasi totalità dei casi, alla dilatazione della stenosi viene
associato l’impianto di uno o più stent, strutture cilindriche della lunghezza di pochi centimetri e
larghezza di pochi millimetri, con parete metallica a rete. Gli stent vengono espansi all’interno
delle coronarie e fatti aderire alla parete del vaso, dove, nel giro di alcune settimane, vengono
rivestiti da endotelio e diventano parte integrante della parete arteriosa. Cosa può succedere
quando viene fatta l’angioplastica? La superficie della placca viene schiacciata, pertanto viene
alterata, traumatizzata, e l’endotelio in quel punto diventa quindi un terreno in cui la trombosi e
quindi riocclusione. Anche l’utilizzo degli stent medicati non risolve del tutto tale possibile
complicanza dell’angioplastica, così come l’utilizzo della terapia antiaggregante post-angioplastica.
La DAPT, acronimo inglese per DUPLICE TERAPIA ANTIAGGREGANTE, viene sempre fatta nei
pazienti che hanno subito un’angioplastica coronarica in modo da prevenire tali riocclusioni: tale
terapia consiste nell’associare l’aspirina con un inibitore del recettore piastrinico P2Y12 per l’ADP,
rappresentanti dalla ticlopidina (che non si usa più sia perché i nuovi farmaci sembrano più
efficaci, sia perché si utilizzava in doppia somministrazione, sia perché dava effetti collaterali
severi quali porpora e agranulocitosi), dal clopidogrel, dal plasugrel e dal più recente ticaglelor;
attualmente si utilizza come standard il clopidogrel (nome commerciale Plavix). DOSI: per il
clopidogrel si fa una dose di carico da 300 a 600 mg, dopodiché si continua alle dosi di 75 mg/die;
per l’aspirina si consigliano dosi da 75 a 150 mg/die (nelle ultime linee guida ESC pubblicate ad
agosto 2017, si consiglia da 75 a 100 mg/die; in ogni caso sono dosi molto più basse rispetto alle
tipiche dosi che si utilizzano per l’emicrania). Ulteriore chicca: per minimizzare il rischio di effettii
gastrointestinale, si dà a chi fa DAPT anche un inibitore di pompa. In ogni caso il rischio di
riocclusione post-angioplastica è sempre dietro l’angolo, quindi il pensiero di aver risolto tutto con
l’angioplastica non esiste.
Il trattamento medico consiste nell’applicare un certo numero di farmaci tenendo conto del
meccanismo determinante l’angina. Dobbiamo pertanto conoscere: i meccanismi fisiopatologici
dell’angina e i farmaci che abbiamo a disposizione, perché in base alle modalità di presentazione
dell’angina, alcuni farmaci andranno bene e altri no.
Le strade che possiamo seguire sono:
1. Cercare di ridurre il consumo di ossigeno miocardico e ciò può essere fatto in 2 modi: ridurre la
frequenza cardiaca e ridurre la forza contrattile, oppure far lavorare il cuore più
tranquillamente riducendo post-carico e pre-carico.
2. Se il paziente presenta una brusca riduzione del flusso quello che noi dovremmo fare
essenzialmente è cercare di aumentare il flusso coronarico e cercare di aumentare la
possibilità di un flusso attraverso vie collaterali, quindi due meccanismi che possono essere
associati.
Normalmente i farmaci che noi utilizziamo nei pz con angina sono:
 Farmaci utilizzati per aumentare il flusso coronarico: nitroderivati, calcioantagonisti;
 Farmaci che riducono la frequenza e l’inotropismo: β-bloccanti, calcioantagonisti;
 Antiaggreganti e statine (per prevenire l’insorgenza dell’infarto).
1) I nitroderivati agiscono attraverso liberazione di NO, per via endotelio-indipendente (non c’è
necessità che l’endotelio produca ossido nitrico, quindi indipendentemente dall’endotelio, che
sia integro o alterato, si forma NO che determina vasodilatazione). Sono dei farmaci
prevalentemente venodilatatori, però aumentando il dosaggio sono anche dilatatori arteriosi.
Per il legame tra nitroderivato e recettore nelle cellule muscolari lisce sia indispensabile la
presenza di gruppi sulfidrilici, tanto che la depressione di gruppi sulfidrilici possa portare ad un
ridotto effetto dei nitroderivati, con innesco di meccanismi di tolleranza o di assuefazione da
nitroderivati: man mano che si impiega il farmaco la sua efficacia tenda a ridursi. Per ridurre
quest’effetto della tolleranza bisogna cercare di lasciare una piccola finestra che servirebbe a
ricostituire i gruppi sulfidrilici e che è di 6-8 ore (questo è il motivo per cui quando si fa il
nitroderivato trans-dermico si trova scritto “mettere la mattina e togliere la sera”). Il
nitroderivato va sempre bene? Certamente nell’angina che insorge a riposo il nitroderivato è
un farmaco di prima scelta, ma non nella classica angina che insorge dopo sforzo (in questi
casi non è che il nitroderivato non vada bene, ma semplicemente lo utilizziamo non come
primo step). Sono farmaci che utilizziamo per via sublinguale oppure come preparati
transdermici (cerotti). Generalmente la posologia più comune è quella 10 mg. Essendo
vasodilatatore la frequenza cardiaca può tendere un pochino ad aumentare, si comincia da 5
poi si passa a 10, si può arrivare a 20. Poi ci sono i preparati per os, tra cui l’isosorbide dinitrato
(nome commerciale Carvasin), ci sono dei preparati a formulazione pronta, cioè che iniziano
dopo mezz’ora dall’assunzione, durano 4-5 ore quindi si devono somministrare più volte al
giorno. l’effetto indesiderato più comune che si ha in una % abbastanza alta di pz è la cefalea
(2-3 pz su 10 ce l’hanno). Ora se il pz non ha una cefalea particolarmente eclatante si continua
il trattamento, pian piano la cefalea tende a ridursi. Però se il pz ha una cefalea micidiale è
chiaro che il pz è intollerante ai nitroderivati, si può cambiare il tipo e vedere se lo sopporta, se
non lo sopporta non si può fare. Essendo vasodilatatore può dare aumento della frequenza e
abbassamento della pressione, però per il resto altri effetti collaterali eclatanti non ne
abbiamo. Una raccomandazione che si deve fare ai pz è questa: se ha il dolore deve prendere
subito il farmaco, perché un atteggiamento tipico dei pz con l’angina è quello di aspettare 5-10
minuti per vedere se il dolore passa, ma bisogna dire al paziente di PRENDERLO SUBITO!
Nell’angina da sforzo invece, abbiamo detto, non va fatto come primo farmaco perché se è da
sforzo il pz si ferma e dopo 2-3 minuti il dolore scompare: in questo caso si usano farmaci che
riducono il consumo d’ossigeno del cuore, ossia i β-bloccanti.
2) Dei β-bloccanti non devo dirti come agiscono e perché li utilizziamo in cardiologia, perché lo sai
già avendo studiato lo scompenso: riducendo la FC non facciamo altro che ridurre il carico di
lavoro del cuore, quindi si riduce il consumo di ossigeno. Tuttavia non sono indicati
nell’angina da vasospasmo coronarico, perché potrebbe peggiorare il vasospasmo. I
betabloccanti sono quindi i farmaci di prima scelta nell’angina da sforzo.
3) Il razionale dietro l’utilizzo dei calcio-antagonisti nella CI sta nel favorire la diminuzione del
lavoro cardiaco e del consumo di ossigeno dato che sono dei vasodilatatori. Sono utili quando i
β-bloccanti non possono essere utilizzati (es. tizio con asma) oppure i nitrati (es. tizio con
cefalea o tizio con FC troppo alta). Ti ricordi che noi abbiamo 2 gruppi (o meglio 3) di calcio-
antagonisti? Diidropiridinici (es. nifedipina, nicardipina), benzotiazepine (es. diltiazem),
fenilalchilamine (unico rappresentante è il verapamil). Questo te lo devi ricordare in quanto
non esiste il calcio-antagonista ideale nel trattamento della CI, perché ogni gruppo ha i suoi
vantaggi e svantaggi, pertanto ci si deve regolare in base al paziente. A livello vascolare
periferico tutti e 3 danno vasodilatazione arteriosa, però le diidropiridine la danno di più, tanto
che vengono usate di più nella terapia dell’ipertensione; al secondo posto il verapamil che da
vasodilatazione periferica ma in misura un po’ minore rispetto alla diidropiridina; al terzo
posto il diltiazem, che ha modesti effetti vasodilatanti. La diversità maggiore è a livello
cardiaco, soprattutto sul tessuto di conduzione: le diidropiridine non hanno effetto sul tessuto
di conduzione, né a livello del nodo del seno né livello del nodo atrioventricolare (quindi se dò
una diidropiridina, si ha vasodilatazione periferica e quindi la frequenza cardiaca aumenta, cioè
l’effetto è di riduzione della pressione arteriosa, vasodilatazione e aumento della frequenza.
Per il verapamil e il diltiazem la storia è diversa perché l’effetto vasodilatante è inferiore
rispetto alle diidropiridine ma entrambi riducono l’attività del nodo del seno, in particolare ciò
vale per il diltiazem (quindi dando verapamil e diltiazem riduco la FC). Da ciò si intuisce come le
diidropiridine (tipo nifedipina o nicardipina) non sono ottime per la terapia dell’angina da
sforzo perché sono tachicardizzanti, semmai andremo ad utilizzare verapamil o diltiazem!
Ma se abbiamo di fronte un paziente con un’angina vasospastica le diidropiridine sono
invece ottimali in quanto avrei bisogno di una vasodilatazione maggiore! Le diidropiridine
sono ottimali anche in caso di un’eventuale associazione con i β-bloccanti in quanto essendo
tachicardizzanti contrastano l’azione bradicardizzante di questi ultimi (i non diidropiridinici
non sono ottimi perché sono bradicardizzanti, quindi correremmo il rischio di ridurre troppo la
FC).
4) Esistono anche altri farmaci che andrò a citare brevemente perché sono in commercio da
pochissimi anni, oltre a questi principali:
a) Ivabradina → farmaco inibitore delle correnti If lente del calcio, con effetto
bradicardizzante (pertanto riduce il consumo di ossigeno miocardico perché riduce il lavoro
del cuore). I dosaggi non superano i 7,5 mg/12 h. Il nome commerciale è Corlentor.
Ovviamente è controindicato nei pazienti bradicardici.
b) Ranolazina → agisce inibendo la corrente tardiva in entrata del sodio, con effetto sempre
di bradicardia e quindi riduzione del consumo di ossigeno. Il nome commerciale è Ranexa.
Anche questo non puoi darlo al paziente bradicardico.

IPERTENSIONE ARTERIOSA
Inutile parlare di menate sull’ipertensione perché dovresti saperla già di tuo (in caso, te la fai da
sola). Qui parleremo solo dei concetti più importanti e della terapia.
Innanzitutto, tieni bene a mente i concetti di organi bersaglio dell’ipertensione: CUORE (ipertrofia
ventr. sx, con rischio di scompenso cardiaco), VASI SANGUIGNI (aterosclerosi), RENE (il danno
renale presente nell’ipertensione arteriosa abbraccia un ampio spettro di manifestazioni cliniche
che vanno inizialmente dalla microalbuminuria, definita come proteinuria compresa tra 30-300
mg/24 ore e ricordiamo essere il PRIMO MARKER DI DANNO RENALE, fino all’insufficienza renale
conclamata), CERVELLO (manifestazioni tipiche del danno cerebrale sono le alterazioni a carico dei
piccoli vasi dell’encefalo). Inoltre, IPERTENSIONE AUMENTA RISCHIO DI DIABETE.
Ricorda inoltre la classificazione dell’ipertensione:

CLASSIFICAZIONE SECONDO LE LINEE GUIDA JNC, più semplice da ricordare


Quando Saitta chiede l’ipertensione, in genere si fissa con le forme 2 arie per vedere se uno se le
ricorda. Te le elenco brevemente (poi sarà compito tuo ripetere la fisiopatologia di queste forme)
in ordine di importanza epidemiologica: ipertensione nefroparenchimale (per danno renale che
determina una riduzione dell’escrezione di acqua e sodio ed un’attivazione del sistema Renina-
Angiotensina-Aldosterone, in genere per malattie renali acute quali l’insufficienza acuta
secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche da glomerulonefriti, oppure a
disordini di tipo cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica da nefropatia
diabetica); ipertensione nefrovascolare (ipertensione dovuta ad ipoafflusso renale per
aterosclerosi dell’arteria renale, che determina per compenso iperattivazione del sistema Renina-
Angiotensina-Aldosterone); da iperaldosteronismo primitivo (in caso di adenoma del surrene o
iperplasia della corticale); feocromocitomi (tumore della midollare del surrene o del tessuto
paragangliare, si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata increzione di adrenalina e
noradrenalina con picchi pressori in conseguenza di stimolazione meccanica della massa
tumorale). Altre cause: ipertiroidismo, ipercortisolismi (Cushing, perché il cortisolo ad alte dosi ha
azioni simil-mineralcorticoidi), sindromi adrenogenitali (si accumulano metaboliti intermedi ad
azione mineralcorticoide), iperassunzione di contraccettivi orali (la componente estrogenica
stimola la sintesi epatica di angiotensinogeno causando così un aumento dell'angiotensina II),
congenite (come ad esempio nella coartazione dell'aorta, con aumento pressorio agli arti superiori
e ipotensione a quelli inferiori), iatrogene (paziente trattati con cortisonici), alimentare (eccesso
di liquirizia, che ricordiamo avere azione simile al cortisolo). Come facciamo a distinguere le forme
primitive da quelle secondarie? Nelle forme secondarie in genere l’aumento pressorio e spiccato e
repentino (nell’essenziale meno spiccato e più “diluito” nel tempo); rispondono poco alla terapia
“classica” (richiedono infatti terapia specifica, che si estrinseca ossia nella rimozione della causa);
in genere sono soggetti più giovani e non anziani come nel’ipertensione essenziale.
Detto questo, passiamo alla terapia, che per regola mnemonica puoi ricordare come ABCD, ossia
ACE-I/sartani, B-bloccanti, Calcio-antagonisti, Diuretici, da soli o in associazione. Il problema è solo
capire come, dove e quando. Inutile parlare del meccanismo d’azione perché tanto lo hai già visto
nello scompenso cardiaco e posso dirti che ci sono delle belle similitudini, cambia solo la dose. Ma
prima di parlare di terapia farmacologica, la prima cosa da dire è che bisogna cambiare stile di vita:
togli il fumo, togli la panza, riduci il sale (domanda di Saitta: la dieta iposodica è la dieta con un
quantitativo di sale pari a max 4-5 g/die, per ottenerla basta dire al paziente di non aggiungere
sale). Quando si inizia la terapia farmacologica?
1. nei soggetti con pressione normale-alta con evidenza di tre o più fattori di rischio e/o
sindrome metabolica e/o danno d’organo e/o diabete mellito e/o pregresso evento cardio- o
cerebrovascolare e/o malattia renale;
2. nei pazienti con ipertensione di grado I e II, in assenza o in presenza di uno-due fattori di
rischio cardiovascolare, dopo il fallimento delle modifiche dello stile di vita per il controllo
della pressione arteriosa;
3. nei pazienti con ipertensione di grado I e II con evidenza di tre o più fattori di rischio e/o
sindrome metabolica e/o danno d’organo e/o diabete mellito e/o pregresso evento cardio- o
cerebrovascolare e/o malattia renale;
4. in tutti i pazienti con ipertensione di grado III;
5. in tutti i soggetti con pregresso evento cardio- o cerebrovascolare e/o malattia renale.
Quali sono i fattori di rischio cardiovascolari? Sesso, età, colesterolo totale (mantenere <200
mg/dl) o meglio ancora il livello di LDL (valore ottimale inferiore a 115 mg/dl), Press. art. sistolica,
abitudine al fumo, presenza/assenza di diabete.
Scelta del farmaco ideale in base alla situazione:
• ipertrofia ventricolare sinistra: sartani, ACE-inibitori, calcioantagonisti;
• aterosclerosi asintomatica: ACE-inibitori, calcio-antagonisti;
• malattia renale cronica o microalbuminuria: sartani, ACE-inibitori;
• pregresso infarto del miocardio: β-bloccanti, sartani, ACE-inibitori;
• angina pectoris: β-bloccanti, calcio-antagonisti;
• insufficienza cardiaca: β-bloccanti, AT1-antagonisti, ACE-inibitori, diuretici, antialdosteronici;
• fibrillazione atriale parossistica: sartani, ACE-inibitori;
• fibrillazione atriale permanente: β-bloccanti, calcio-antagonisti fenilalchilaminici;
• insufficienza renale: sartani, ACE-inibitori, diuretici dell’ansa;
• arteriopatia periferica: calcio-antagonisti;
• ipertensione sistolica isolata: calcio-antagonisti, diuretici;
• sindrome metabolica: sartani, ACE-inibitori, calcio-antagonisti;
• diabete mellito: sartani, ACE-inibitori;
• gravidanza: calcio-antagonisti, metildopa, β-bloccanti;
• razza nera: calcio-antagonisti, diuretici.
La terapia dovrebbe essere iniziata con monoterapia o con terapia di associazione tra due farmaci
a basso dosaggio; la monoterapia dovrebbe essere utilizzata in pazienti con ipertensione di grado I
e con rischio cardiovascolare basso o moderato; la terapia di associazione tra due farmaci a basso
dosaggio dovrebbe essere utilizzata in pazienti con ipertensione di grado II e III e con rischio
cardiovascolare alto o molto alto; nei casi in cui non venga raggiunto il target terapeutico
pressorio con due farmaci, si rende necessario l’utilizzo di tre o più farmaci; nei pazienti a elevato
rischio cardiovascolare, il target pressorio deve essere raggiunto rapidamente preferendo una
terapia di associazione.

FIBRILLAZIONE ATRIALE
Tachiaritmia sopraventricolare caratterizzata da un’attivazione atriale scoordinata, irregolare e
frammentaria, con la contemporanea presenza di più fronti d’onda che circolano in modo
imprevedibile, così che la diffusione dell’impulso negli atri è continuamente variabile.
Rappresenta la principale aritmia cronica sostenuta; l’incidenza è dello 0,2% per anno, pertanto si
può stimare che il numero di nuovi casi di FA in Italia sia di 120.000 persone ogni anno, in
particolare nei soggetti > 65 anni. Se adattiamo alla popolazione italiana attuale (60 milioni) i dati
disponibili nella letteratura internazionale (prevalenza di FA di circa 1,0% nella popolazione
generale) si può calcolare che il numero dei pazienti affetti da FA nel nostro paese sia di circa
600.000 persone.
Esistono diversi tipi di classificazione della FA, anche se nessuna di esse sembra in grado di
comprendere pienamente i meccanismi dell’aritmia. La classificazione più semplice tiene conto
della durata degli episodi:
1) Parossistica: FA che termina spontaneamente o tramite cardioversione entro 7 giorni dalla
sua insorgenza;
2) Persistente: FA la cui durata è > 7 gg.;
3) Persistente di lunga durata: comprende le forme di FA che durano ininterrottamente da più
di 1 anno; tale definizione è importante soprattutto in funzione di un’eventuale procedura di
ablazione transcatetere o chirurgica della FA, le cui probabilità di successo sono strettamente
correlate alla durata dell’aritmia;
4) Permanente: comprende le forme di FA nelle quali non sono stati effettuati tentativi di
cardioversione o, se effettuati, non hanno avuto successo o per recidive precoci dell’aritmia che
sconsigliano ulteriori tentativi di cardioversione; la FA permanente è, in sostanza, quella accettata
“tacitamente” dal medico e dal paziente;
5) Non valvolare: FA in pz in assenza di patologia mitralica di qualsiasi tipo.
La classificazione puoi cmq lasciarla fottere: basta tenere in mente il concetto di parossistica,
persistente e permanente.

EZIOLOGIA
Possiamo anche distinguerla in primaria o secondaria (associata a patologie cardiache strutturali).
In passato la patologia sottostante più frequente era rappresentata da patologie valvolari
(soprattutto a carico della valvola mitrale), mentre nell’ultimo ventennio tra le cause prevalgono le
malattie che più frequentemente determinano un aumento della pressione in atrio sx (con
conseguente aumento di volume atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA) tra cui
l’ipertensione arteriosa e le cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna
patologia (FA isolata).

FISIOPATOLOGIA
Diversamente da altre aritmie, la FA non ha un meccanismo elettrogenetico unico, ma più fattori
concorrono a determinare la sua genesi e il suo mantenimento. Sono stati identificati,
specialmente nelle vene polmonari, pace-makers capaci di emettere impulsi a frequenza molto
elevata, ed inoltre si realizzano negli atri multipli circuiti di rientro, che operano indipendente gli
uni dagli altri.
Nella FA non esiste un unico fronte di attivazione che, partendo dal nodo del seno, invada
progressivamente in maniera ordinata tutta la massa atriale in un tempo relativamente breve,
ma si realizzano multipli fronti d’onda che, disordinatamente e in maniera continuamente
variabile, attivano ciascuno una regione più o meno limitata dell’atrio.
Mentre nel ritmo sinusale la depolarizzazione degli atri occupa solo una piccola parte del ciclo
cardiaco (circa 70-90 millisecondi, come espresso dalla durata dell’onda P normale), nella FA
l’atrio si attiva ininterrottamente: in ogni momento del ciclo cardiaco, infatti, vi sono aree atriali
che si depolarizzano mentre altre zone si stanno ripolarizzando. Ciò spiega la presenza di onde
atriali (onde F all’ECG) per tutto il ciclo cardiaco. Da un punto di vista meccanico, la FA corrisponde
pertanto ad una paralisi atriale: le singole fibrocellule si contraggono, ma la loro contrazione non
è efficace nel favorire la progressione del sangue perché non vi è sincronismo nell’attività delle
diverse aree atriali, ciascuna delle quali si contrae in un momento diverso. La mancanza della
spinta atriale non necessariamente compromette il riempimento diastolico ventricolare,
soprattutto se la frequenza ventricolare non è elevata e se non vi è disfunzione ventricolare:
anche quando il ritmo è sinusale, infatti, la maggior parte del sangue passa dall’atrio al ventricolo
durante la proto- e mesodiastole, cioè passivamente, e la contrazione dell’atrio interviene solo in
telediastole a completare il riempimento ventricolare. Quando, invece, la funzione diastolica del
ventricolo sinistro è compromessa (per esempio, per via dell’ipertrofia ventricolare) il ruolo
della contrazione atriale, specie se parliamo di persone anziane, diviene preminente nel favorire
il riempimento ventricolare, per cui la FA, con la perdita dell’attività meccanica atriale, può
provocare una importante riduzione della gittata cardiaca, ed essere causa determinante dello
scompenso cardiaco.
In ogni caso, il principale problema della FA non è la compromissione del riempimento ventricolare
(a meno che per l’appunto non coesistano importanti cardiopatie, tipo scompenso cardiaco,
ipertensione arteriosa, grave stenosi mitralica).
La perdita della contrazione atriale determina un rallentamento del flusso ematico che facilita la
formazione di trombi all’interno degli atri, specialmente nelle auricole. I trombi sono
generalmente adesi alla parete atriale, ma possono anche staccarsi, specialmente quando, col
ripristino del ritmo sinusale, l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi nell’atrio sinistro
può quindi, attraverso la circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto periferico: non
di rado viene colpito l’encefalo e si manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma soprattutto
le complicanze tromboemboliche, sono la causa dell’aumentata mortalità nei pazienti con FA.
Altra possibile complicanza a lungo termine, specie nel pz. con FA e FC alta, è lo sviluppo di una
tachicardiomiopatia, forma di cardiomiopatia dilatativa secondaria ad una tachiaritmia sostenuta.
Consideriamo che, di tutti i numerosi impulsi che originano a livello atriale, non tutti riusciranno
attraversare il nodo AV, in quanto quest’ultimo, per la refrattarietà del nodo, è come se facesse da
filtro, ma gli impulsi che passano non passeranno in maniera ritmica, regolare (alcuni dopo un
secondo, altri dopo 50 centesimi di secondo ecc): per questo motivo non c’è la stessa distanza
all’ECG tra i complessi QRS e ognuno di questi dà luogo al battito che si trasmette in periferia e dà
luogo ai toni cardiaci e ai polsi periferici: ecco perché in un pz. con FA il polso è totalmente
aritmico e il battito del cuore è irregolare.

VALUTAZIONE CLINICA
L’indagine anamnestica è rivolta a stabilire i sintomi legati alla FA, l’eventuale presenza di sintomi
di natura cardiaca al di fuori dell’accesso tachiaritmico (per esempio dispnea, dolore precordiale) e
di sintomi di altra natura. Debbono, inoltre, essere definiti, nei limiti del possibile, il pattern
aritmico (primo episodio, FA parossistica, persistente, persistente di lunga durata o permanente),
la data del primo episodio (o la data del riscontro se il paziente è asintomatico), la frequenza degli
episodi, la loro durata, l’eventuale presenza di fattori scatenanti, la modalità di interruzione della
tachiaritmia (spontanea, mediante farmaci o cardioversione elettrica), la risposta alla
somministrazione di farmaci, la presenza di una cardiopatia sottostante e di fattori extracardiaci
potenzialmente responsabili (specie ipertiroidismo) e l’eventuale familiarità per FA.
La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza ventricolare media
generalmente elevata (ma ricordiamo che la FC può essere anche del tutto normale), ed è
rappresentata dalle palpitazioni.
In corso di FA vi è la perdita della contrazione atriale con conseguente possibile riduzione della
gittata cardiaca (specie nel cardiopatico) e per tale ragione essa può anche manifestarsi con
dispnea, affaticabilità, dolore toracico.
In circa il 20% dei casi la FA è completamente asintomatica: questo avviene frequentemente in
soggetti con condizioni fisiologiche (ipertono vagale) che rallentino la conduzione A-V.
Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa irregolarità del
ritmo e la variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo fenomeno esprime il rapporto tra
gittata sistolica e durata della diastole: durante una diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di
ricevere una elevata quantità di sangue, per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio;
dopo una diastole breve, invece, il ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e
di conseguenza la gittata sistolica è modesta e il polso piccolo. Quando la diastole diventa
brevissima, come in caso di elevata risposta ventricolare, in alcune (o in molte) delle contrazioni il
ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire provocare l’apertura delle cuspidi aortiche; in
questo caso non si genera un’onda sfigmica e al polso il battito è del tutto assente. In questa
situazione, la frequenza cardiaca valutata al polso è minore di quella reale (deficit cuore-polso): in
pazienti con FA, perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso ma anche mediante
ascoltazione cardiaca sul focolaio della punta. La frequenza ventricolare durante FA è influenzata
in modo significativo dal tono del sistema nervoso autonomo: può diventare molto rapida quando
aumenta il tono simpatico e diminuisce il tono parasimpatico, come accade durante esercizio
fisico.

VALUTAZIONE STRUMENTALE E DI LABORATORIO


All’ECG la caratteristica principale è l’assenza delle onde P, che possono essere o meno sostituite
dalle onde F, espressione di un’attivazione atriale troppo caotica e rapida, le quali appaiono come
irregolari e continue ondulazioni della linea isoelettrica, durando per tutto il ciclo cardiaco. La loro
frequenza varia tra 380 e 600 al minuto; l’ampiezza e la morfologia mostrano notevole variabilità
da momento a momento. Le onde fibrillatorie possono essere di basso voltaggio e quindi
scarsamente visibili (FA ad onde fini) oppure di voltaggio più elevato (FA ad onde grossolane). Gli
intervalli fra i complessi ventricolari (intervalli R-R) sono irregolari, essendo molti stimoli bloccati a
livello del nodo AV che funge da “filtro” nel passaggio degli impulsi elettrici tra atri e ventricoli. LA
DIAGNOSI VA SEMPRE FATTA TRAMITE ECG, DIMOSTRANDO APPUNTO L’ASSENZA DELL’ONDA
P.
L’ecocardiografia TTE è di estrema utilità per valutare l’esistenza di una cardiopatia sottostante;
tale indagine consente infatti di definire la presenza di una valvulopatia e la sua gravità, le
dimensioni degli atri, ipertrofie o dilatazioni ventricolari, la funzione ventricolare sx e dx, le
pressioni polmonari e un eventuale versamento pericardico.
Gli esami di laboratorio da eseguire sono gli ormoni tiroidei (TSH, FT4), gli elettroliti sierici,
l’emocromo e gli esami che esplorano la funzionalità renale ed epatica, anche ai fini dell’eventuale
scelta di un farmaco antiaritmico.
L’Rx torace è utile in presenza di dispnea per valutare se tale sintomo è di origine cardiaca,
attraverso l’analisi del circolo polmonare; consente inoltre di svelare patologie polmonari che in
qualche modo possono essere in rapporto con la FA (es. BPCO).
L’ecocardiografia TEE è invece indicata qualora si volesse eseguire una cardioversione dopo 48
ore dall’inizio della FA, in pazienti che non sono già in terapia anticoagulante orale, al fine di
identificare formazioni trombotiche in atrio sx.

TERAPIA
Quali sono gli obiettivi terapeutici in caso di FA?
1) PREVENZIONE DEL RISCHIO TROMBO-EMBOLICO
 Come abbiamo detto, i pazienti che hanno una FA hanno un rischio 4-5 volte maggiore di
sviluppare un evento tromboembolico rispetto alla popolazione generale. In base a questo
si deve intervenire chiaramente con farmaci anticoagulanti, quindi ci sarà il rischio di
emorragia; a proposito di questo si ha una tabella, la HAS-BLED (acronimo di Hypertension,
Abnormal renal/liver function, Stroke, Bleeding history or predisposition, Labile INR, Elderly,
Drugs/Alcohol), dove ci sono i fattori che favoriscono i fenomeni emorragici e permettono
di bilanciare i pro e i contro della terapia anticoagulante. Il rischio trombo-embolico viene
calcolato utilizzando l’apposito score CHA2DS2-VASc, che tiene conto dei seguenti fattori di
rischio: C (Congestive heart failure, scompenso cardiaco congestizio); H (Hypertension,
ipertensione); A2 (Age, età > 75 anni), D (Diabete mellito); S2 (Stroke, precedenti
anamnestici di TIA/ictus/tromboembolismo); V (Vascular, precedenti anamnestici di SCA,
IMA, arteriopatia obliterante degli arti); A (Age, età 65-74); Sc (Sexual Conformation,
Sesso; se pz. donna vale 1 altrimenti 0) [N.b.: per ogni fattore presente si aggiunge 1 al
punteggio, tranne dove è presente il 2 (quindi ad es. per over-75 si aggiunge 2, se ha
precedenti di ictus sempre 2)]. Se il pz ha un punteggio di 0 (1 per le donne; essere donne
è già un fattore di rischio, quindi per le donne si deve arrivare a 3 perché 1 già è insito), è
un pz. a basso rischio, che non richiede terapia anticoagulante; se il pz. ha un punteggio
di 1 (solo maschi) è un pz. a rischio medio; se il punteggio è ≥ 2 (maschietti, femminucce è
≥ 3) il pz. è ad alto rischio di episodi tromboembolici. Quindi dobbiamo dare sempre gli
anticoagulanti? Non sempre, dipende appunto dal rischio sia di eventi tromboembolici
che di sanguinamento! Se lo score CHADS-VASc è pari ad 1 oppure il pz. non tollera la
TAO perché è ad alto rischio di sanguinamento, posso limitarmi alla terapia con con la
classica aspirina (325 mg/die). Quali sono i farmaci a nostra disposizione?
a) Dicumarolici: come la classica warfarina (Coumadin per gli amici da casa) oppure
l’acenocumarolo (Sintrom); agiscono comportandosi come antagonisti competitivi
della vit. K, inibendo a livello epatico la sintesi dei fattori K-dipendenti (fattori VII, IX, X
e protrombina) ed inibendo la carbossilazione delle proteine C ed S, tappa biochimica
necessaria per la loro attivazione. Rappresentano in particolare la prima scelta nei pz.
portatori di valvole cardiache e nei pz. con stenosi mitralica. La dose ovviamente
andrà aggiustata in base all’INR, che va attentamente monitorato (MANTENUTO TRA
2 e 3 nella FA).
b) NAO (Nuovi anticoagulanti orali): agiscono comportandosi come inibitori diretti del
fattore Xa (come il dabigatran, nome commerciale Pradaxa) oppure della trombina
(come nel caso del rivaroxaban o dell’apixaban). Cos’hanno di bello questo farmaci e
perché sono stati tanto pubblicizzati? Prima di tutto per la loro rapidità d’azione; in
secundis per la loro efficacia, che pare essere maggiore al warfarin (perché inibiscono
sia la trombina libera circolante che quella legata al coagulo di fibrina e sono anche in
grado di ridurre l'aggregazione piastrinica stimolata dalla trombina); ultimo ma non
l’ultimo [anzi andrebbe per primo, ma le cose migliori sono come i dessert: sono
l’ultima portata ] non richiedono il monitoraggio di laboratorio di routine della
coagulazione del sangue come i dicumarolici, in quanto l’effetto anticoagulante che
si ottiene è meno variabile di quello prodotto dal warfarin e dagli altri antagonisti
della vitamina K [ovviamente c’è sempre il rischio di terapia inefficace e nulla vieta di
farsi controllare l'INR con l'assunzione di dabigatran per sapere se stia facendo effetto,
ma l'analisi del sangue è a pagamento e non a carico del SSN…] né di aggiustamenti
posologici e le interazioni farmacocinetiche sono praticamente minime [non mi devo
preoccupare di dire al pz. di evitare ad es. le verdure rosse perché ricche di vit. K… puoi
mangiarti anche la polenta di mia nonna che tanto non ti succede nulla, a parte
intossicarti ]. La dose consigliata di dabigatran è di 150 mg/12h [credo siano dosi un
po’ altine in un anziano, specie over-80]. Ma qual è il problema principale dei NAO
che ne limita l’uso? I NAO non possono essere dati a pz. con insufficienza renale,
dato che l’80% del loro catabolismo si realizza a questo livello: infatti i pz. con livelli di
clearance della creatinina tra 15-30 ml/min vedranno i loro dosaggi ridotti della metà
(75 mg/12h) [ma IMHO eviterei proprio i NAO, visto che una clearance tra 15 e 30 mi
configura un’insufficienza di 4° grado, praticamente quella pre-terminale… io non solo
non gliela darei proprio… non gliela farei neanche odorare ]. Importante quindi il
controllo della funzionalità renale prima di iniziare la terapia con qualsiasi NAO! Ma
qual è l’altro problema dei NAO? Non abbiamo antidoti specifici (per il warfarin
l’antidoto è la vit. K): l’unica cosa che possiamo fare in caso di emorragia è dare plasma
fresco congelato o sangue intero oppure ancora, visto che il loro catabolismo è
prettamente renale, tentare la dialisi per rimuovere quanto più farmaco possibile [per
il dabigatran è in corso di studio come antidoto l’idarucizumab]. Quando possiamo
quindi scegliere i NAO? Quando il pz. ha i reni che funzionano; quando ad es. si inizia
la terapia con warfarin e si raggiunge un INR ottimale ed a quel punto possiamo dargli
il dabigatran; quando hai un pz. che per qualsiasi motivo (es. viaggia molto, poco
collaborante) non ha voglia di monitorare l’INR ogni settimana; quando la FA non è di
tipo valvolare (nella FA valvolare il warfarin è molto più efficace). Ricorda però che
attualmente i NAO sono sottoposti a Piano Terapeutico, per cui soltanto gli specialisti
possono prescriverli.
2) RIDUZIONE DEI SINTOMI
3) RIPRISTINO RITMO SINUSALE (CARDIOVERSIONE)
 Il rischio della FA in acuto è la formazione del trombo, tuttavia ripristinando il ritmo
sinusale se si è formato il trombo aumenta il rischio che il trombo si frantumi (per
fenomeni meccanici). Inoltre IN ACUTO è importante sapere il momento di insorgenza ed
esserne certi così da poterlo cardiovertire (ma facciamo lo stesso un farmaco
anticoagulante, quali eparina o i NAO che agiscono velocemente, mentre i vecchi
anticoagulanti non li possiamo usare perché agiscono nell’arco di giorni, non hanno
indicazione neppure le eparine a basso peso molecolare): infatti prima di 48h difficilmente
si è formato il trombo e pertanto è consigliabile la cardioversione, soprattutto
considerando pazienti che hanno bassi fattori di rischio e basso CHADS-VASC; se sono
passate più di 48h c’è il rischio che il paziente abbia formato un trombo dunque la
dunque la cardioversione può essere particolarmente pericolosa e non viene effettuata
(meglio avere il paziente fibrillante senza ictus e non un paziente con ritmo sinusale ma con
un ictus). In quest’ultimo caso si deve effettuare una scoagulazione immediata con eparina
o con i NAO, oppure iniziare con il warfarin e fare un trattamento per un mese così da
assicurarsi di aver sciolto il trombo o quella porzione di trombo friabile che può
frammentarsi e dare luogo all’embolo. Se si riesce a fare un ecocardiogramma
transesofageo, è possibile valutare la presenza del trombo, specialmente controllando a
livello delle auricole, e se assente si può effettuare la cardioversione (ma non tutti
accettano un eco TEE). Un’altra cosa importante è che una volta che si è effettuata la
cardioversione si deve lo stesso eseguire la terapia anticoagulante in quanto il cuore
potrebbe ancora non aver ripreso la normale attività meccanica, quindi persiste ancora il
rischio tromboembolico e questo è tanto più vero quanto più il paziente è stato in
fibrillazione: se il paziente è stato un mese in fibrillazione , dovrà fare un mese di terapia
anticoagulante e, dopo la cardioversione, un altro mese di terapia anticoagulante. Nel caso
in cui si sia verificata l’assenza del trombo con un transesofageo allora la terapia
anticoagulante si farà per due o tre giorni. Se l’epoca non è precisata, ad esempio in caso di
FA paucisintomatica e riscontro casuale della FA, non si può dedurre quanto tempo prima è
insorta, lo si deve considerare come se fossero passate più di 48h.
a) Cardioversione elettrica: con defibrillatore e può essere urgente e può essere elettiva.
Nel primo caso si deve intervenire immediatamente quando si ha un deterioramento
emodinamico, quando il paziente è in edema polmonare. Si cerca prima di trattarlo
farmacologicamente, ma se non sono efficaci e non gli passa la fibrillazione atriale, si
deve fare la cardioversione elettrica. Elettiva significa programmata: la si programma
quando i farmaci sono stati inefficaci, si è tentata una cardioversione farmacologica ma
è risultata inefficace. L’indirizzo è che se il farmaco scelto è risultato inefficace si
effettua una cardioversione. È programmata quando il paziente ha la fibrillazione
atriale da lungo tempo, se il pz ha FA da un mese, o non datata, tende a non
rispondere i farmaci (è inutile che si prova 2-3-4 giorni con i farmaci con il rischio che al
90% saranno inefficaci e poi si dovrà fare la cardioversione elettrica, famo
direttamente la cardioversione elettrica).
b) Cardioversione farmacologica: un farmaco vecchio che si è utilizzato per anni che è la
chinidina (antiaritmico di classe Ia), che agisce bloccando i canali Na+ e K+ ed ha anche
azione vagolitica; deve essere utilizzato frequentemente cioè ogni 4 ore, massimo ogni
6h. Per l’effetto vagolitico può aumentare la risposta ventricolare quindi lo si deve
associare a farmaci che bloccano il nodo: infatti oggi c’è l’associazione digitale-
chinidina, oppure si può associare un β-bloccante oppure ancora calcio-antagonista (si
può fare solo la chinidina se la frequenza è 80-90 bpm). Facciamo un es.: se il paziente
parte da 120 di frequenza e gli si dà la chinidina, correrà il rischio di stare male perché
la fibrillazione non gli passa e in quel tempo la sua frequenza aumenta a 150. Altro
problema della chinidina è che allunga l’intervallo QT, esponendo il paziente a rischio
di torsione di punta. Ultimamente è stato riammesso nelle ultime linee guida perché si
hanno pochi farmaci a disposizione. Ovvio che dopo la prima dose, specie se il pz non
ha una storia di utilizzo di chinidina, se già l’ha fatta 50 volte la chinidina, si usa
tranquillamente, ma se è la prima volta, dopo la prima dose e anche dopo la seconda si
deve andare a vedere come si comporta l’intervallo QT. Queste sono le cose principali.
Minore disturbo può essere che il paziente ha frequenti evacuazioni con la chinidina,
se non sono una cosa terribile si può continuare, se sono una cosa importante
potrebbe perdere elettroliti e liquidi, la si deve interrompere. Altri i farmaci principali
sono rappresentati da flecainide e propafenone, che appartengono entrambi alla classe
1c. Hanno un grosso vantaggio cioè possono essere usati per via venosa (chiaramente
solo in ospedale), però tutti i farmaci antiaritmici hanno effetto inotropo negativo e
questi farmaci in particolare ce l’hanno più marcato della chinidina (quindi, se un
paziente ha una bassa frazione di eiezione sono controindicati). Un paziente con FA
che ha una insufficienza cardiaca, e la fibrillazione la peggiora, non può fare questi
farmaci. Questi farmaci bloccano le fibre sodio-dipendenti, non solo a livello atriale ma
anche a livello delle branche dx e sx, dunque possono indurre un blocco di branca. Se il
paziente ha già un blocco di branca o è responsivo in maniera particolare, ci può essere
un slargamento mostruoso del QRS e arrivare all’arresto cardiaco. Quindi non è che
siano farmaci più tranquilli della chinidina. Possono essere di pari efficacia, efficaci più
prontamente, ma bisogna scegliere il profilo giusto del paziente a cui somministrarli. Il
farmaco meno efficace, ma più tranquillo da usare è l’amiodarone (anche questo per
vena, perché per bocca ci sta settimane prima di raggiungere lo steady state quindi
non si può usare per os). Mi controlla la risposta ventricolare, va bene nell’insufficienza
cardiaca perchè non deprime in maniera particolare la frazione di eiezione, allunga
anche lui il QT, oltre a provocare problemi tiroidei, ma in acuto questo problema è di
secondo piano. Ha però un enorme vantaggio: è L’UNICO ANTIARITMICO CHE VIENE
UTILIZZATO PER CARDIOVERTIRE I PAZ CON SCOMPENSO CARDIACO O CON
CARDIOPATIA STRUTTURALE, perché non dà depressione dell’attività miocardica
(peccato che non sia veloce ad agire, altrimenti sarebbe stato perfetto).
Tutto questo molto bello ed in acuto, ma esiste anche una terapia CRONICA, altrimenti il pz. se ne
ritorna in FA! Il farmaco più efficacie è l’amiodarone, ma questo dà problemi tiroidei. Ci sono
farmaci beta-bloccanti, che però purtroppo non hanno la stessa efficacia dell’amiodarone. In
cronico si possono usare anche il propafenone e flecainide, sempre se manca il blocco di branca
sinistra in particolare, ma anche destra, e se il paziente non ha una insufficienza cardiaca con bassa
frazione di eiezione, altrimenti si utilizza l’amiodarone.

VIZI VALVOLARI

STENOSI MITRALICA
Restringimento dell’ostio mitralico, con aumento pressorio in atrio sx.
Tipicamente post-malattia reumatica, più raramente di natura congenita o (ancora più raro)
secondaria a LES, artrite reumatoide, endocarditi infettive.
Qual è la conseguenza fisiopatologica? Se l’ostio si riduce troppo, il sangue non può passare dall’atrio
al ventricolo sx e l’unico modo per vincere questo ostacolo è AUMENTANDO LA PRESSIONE IN ATRIO
SX! Ma tale aumento pressorio si trasmette anche a monte, pertanto a livello delle vene polmonari
(con ipertensione polmonare) e questo clinicamente si traduce in dispnea da sforzo. Ulteriori
aumenti pressori nell’albero venoso e capillare polmonare porta a possibile edema polmonare ed
emottisi (per rottura dei vasi bronchiali e polmonari visto l’amento pressorio); con il tempo
l’ipertensione polmonare venosa provoca anche ipertensione ARTERIOSA polmonare, con il risultato di
un sovraccarico pressorio nel ventricolo dx. fino alla comparsa di insufficienza tricuspidalica e
scompenso cardiaco. Per la dilatazione dell’atrio sx, con il tempo potresti avere anche una fibrillazione
atriale.
La diagnosi clinica è tramite auscultazione:
 I° tono di intensità aumentata
 Schiocco di apertura della mitrale in protodiastole (una sorta di tono aggiunto molto vicino al II°
tono;
 Soffio diastolico (quindi lo senti dopo il II° tono e termina prima del I° tono), più o meno lungo.
Quindi se volessimo fare un’onomatopea: TUMMMM (I° tono rinforzato) – TA – T (schiocco di
apertura) - FRRRRR (soffio da stenosi)… TUMMMMMM-TA-T-FRRRRR… TUMMMMMM-TA-T-
FRRRRRRRR ecc. ecc.
Se facessimo una Rx al paziente, vedremmo segni di dilatazione dell’atrio sx e segni anche di
ipertensione polmonare (linee di Kerley nei campi polmonari inferiori).
L’esame struentale più importante è l’ecocardiogramma. Il cateterismo cardiaco non lo fa più nessuno.
Terapia medica: diuretici, controllo della fibrillazione atriale (vedi lezione corrispondente).
Terapia chirurgica: valvulotomia mitralica, protesi.

INSUFFICIENZA MITRALICA
Presenza di reflusso dal vetricolo sx all’atrio sx durante la sistole per insufficienza della mitrale.
Le forme acute dipendono spesso da rotture delle corde tendinee (post-infarto) mentre le forme
croniche sono più spesso su base reumatica.
Nelle forme acute, le conseguenze fisiopatologiche consistono in un marcato aumento della
pressione in atrio sx, con insorgenza repentina di edema polmonare; inoltre, visto che ad ogni sistole
atriale torna nel ventricolo una quota di sangue rigurgitato, avremo un marcato aumento della
pressione diastolica in ventricolo sx, con un bellissimo shock cardiogeno come conseguenza.
Nelle forme croniche, l’aumento del volume di sangue in atrio sx comporta, come compenso (perché
nelle forme croniche, che si instaurano lentamente, il cuore ha tutto il tempo di adattarsi), una
dilatazione dell’atrio sx in modo da mantenere la pressione stabile; in ventricolo sx avremo invece lo
sviluppo di un’ipertrofia eccentrica (visto che stiamo parlando di sovraccarico di volume), con
dilatazione del ventr. sx; questo a lungo andare porta ad una diminuzione della gittata cardiaca e
quindi scompenso cardiaco.
Tutto questo in clinica come si traduce? Con edema polmonare acuto e shock cardiogeno
nell’insufficienza acuta; nella forma cronica invece sintomi particolari non ne avremo, fino a che non
compaiono i segni di scompenso cardiaco cronico (rivedi la lezione).
All’auscultazione:
 Soffio olosistolico da rigurgito;
 III° tono aggiunto protodiastolico (per brusca messa in tensione dei lembi valvolari), se manca
vuol dire che il vizio valvolare non è grave;
 Nei casi più gravi, potremmo avere un soffio diastolico per stenosi mitralica relativa
(sostanzialmente hai una stenosi della mitrale per il troppo sangue rigurgitato).
Onomatopea: FRRRRR (il I° tono è mascherato dal soffio olosistolico) – TA (II°tono normale) – TU (III°
tono)… FRRRRR – TA – TU… FRRRRRRRRRRRRR – TA – TU…
Rx: segni di dilatazione atrio e ventr. sx.
EcoCardiogramma come in tutti i vizi valvolari resta l’esame principe.
Terapia medica: terapia dello scompenso cardiaco (preferibile come primo approccio i diuretici, poi
associ a tutti gli altri ecc. ecc.).
Terapia chirurgica: ricostruzione valvolare (nel paziente anche asintomatico) con protesi.

PROLASSO MITRALICO
Sindrome clinica con ampio spettro di gravità, caratterizzata dal prolasso di uno o entrambi i
lembi valvolari durante la sistole. Rappresenta la più frequente valvulopatia nella popolazione
generale.
Molto spesso non si riesce a risalire ad una causa specifica; le cause note possono dipendere da
Sindrome di Marfan (con degenerazione dei lembi valvolari), alterazioni congenite (anomalie di
inserzione dei muscoli papillari), anomalie di contrazione del ventricolo sinistro (spesso post-
infartuali) che favoriscono il prolasso dei lembi.
Le ripercussioni fisiopatologiche e cliniche sono del tutto simili ad un’insufficienza mitralica
(vedi), ma di solito tu non hai un cazzo di niente perché il prolasso è di entità talmente lieve da
non dare nulla.
Auscultazione:
 Click meso-telesistolico
Onomatopea: TUM – T (schiocco) – TA… TUM – T – TA… TUM – T – TA…
Terapia medica e chirurgica uguale all’insufficienza mitralica (vedi).

STENOSI TRICUSPIDALICA
Restringimento dell’ostio tricuspidalico, con aumento pressorio in atrio dx.
Poco frequente nella pop. generale, quasi sempre di origine post-reumatica (si associa in questi casi
alla stenosi mitralica); altre cause comprendono anomalie congenite della valvola (atresia della
tricuspide), LES, mixomi atriali.
Come conseguenza fisiopatologica avremo un aumento pressorio in atrio dx, con ripercussioni a
monte, ossia le vene ed i capillari sistemici, pertanto prevalgono i segni di stasi venosa sistemica in
clinica. L'atrio destro va incontro a ipertrofia e a dilatazione e si sviluppano le sequele di uno
scompenso cardiaco destro pur in assenza di disfunzione del ventricolo destro: infatti il ventricolo
destro è piccolo e ha uno scarso riempimento e pertanto basta poco per farlo schiumbare.
Clinicamente abbiamo detto che prevalgono i segni di stasi venosa: edemi declivi, turgore delle
giugulari, nei casi più gravi ascite (per ingorgo delle vene epatiche). In genere però, visto che la stenosi
tricuspidalica si associa alla mitralica, ci aspettiamo anche i segni di quest’ultima: tuttavia l’ostacolo al
flusso di sangue attraverso la tricuspide determina una riduzione della portata cardiaca a riposo e
soprattutto durante sforzo, per cui il gradiente di pressione transmitralico viene come “mascherato” e
pertanto i sintomi e le conseguenze fisiopatologiche della stenosi mitralica sono attenuati.
Quasi mai cmq la stenosi tricuspidalica porta a sintomi gravi, tanto è vero che la prognosi è spesso
buona.
All’auscultazione:
 Rullio diastolico (quindi dopo il II° tono e termina poco prima del I° tono), udibile ovviamente al
focolaio della tricuspide.
TUM-TA-FRRRRRRR… Come vedi, simile alla stenosi mitralica, ma ovviamente lo senti nel suo focolaio…
RX: dilatazione vena cava superiore e atrio dx. Ecocardiogramma, come PER TUTTE LE VALVULOPATIE,
gold standard.
La prognosi è cmq molto buona, la terapia medica è con diuretici; la chirurgia è in genere risolutiva.

STENOSI AORTICA
Dopo quelli mitralici, i vizi aortici rappresentano quelli più frequenti; nel caso specifico trattasi del
restringimento dell’ostio valvolare aortico.
Essendo un vizio tipico dell’anziano, al giorno d’oggi è in costante aumento: le cause tipiche infatti
sono le stenosi degenerative della valvola, conseguente a processi infiammatori e/o degenerativi
cronici delle cuspidi valvolari, processi che si instaurano su una valvola anche perfettamente sana;
tipica concausa favorente è l’ipertensione; altra causa (più rara) è la solita malattia reumatica.
Possiamo avere anche valvole aortiche congenitamente alterate (es. valvola bicuspide o monocuspide,
nel primo caso alla nascita non avremo niente e con il tempo la turbolenza del sangue provoca
calcificazioni e degenerazioni; nel secondo caso i segni di ostruzione aortica sono presenti sin dalla
nascita).
Qual è la conseguenza fisiopatologica della stenosi aortica? Avremo, come in tutte le stenosi,
l’instaurarsi di un aumento del gradiente pressorio tra le camere a monte e a valle della valvola
colpita, nel caso specifico tra ventricolo sx e aorta: il sovraccarico pressorio (come ricorderai, avendo
studiato lo scompenso cardiaco) porta ad un’ipertrofica CONCENTRICA (stiamo parlando di aumenti di
PRESSIONE) del ventr. sx. E che succede quando il ventr. sx diventa ipertrofico? Succede che:
 aumenta il fabbisogno di ossigeno del ventricolo;
 si riduce il flusso coronarico;
 si riduce la distensibilità della parete.
Ti ricorda qualcosa? Certo, UN PAZIENTE CON STENOSI AORTICA ANDRÀ INCONTRO A SCOMPENSO
CARDIACO PRIMA O POI OPPURE A CARDIOPATIA ISCHEMICA! Quindi avrai un paziente con sintomi
che all’inizio compaiono durante gli sforzi fisici e man mano peggiorano; in particolare, preoccupati di
una possibile stenosi aortica quando hai un soggetto anziano che lamenta dispnea da sforzo, angina da
sforzo oppure addirittura sincope post-sforzi fisici!
Caratteristico il polso nella stenosi aortica, che gli antichi definivano parvum et tardum: ossia ridotto di
ampiezza e con lenta ascesa dell’onda pressoria.
Auscultazione:
 Soffio sistolico in crescendo-decrescendo (a diamante): inizia dopo il I tono, cresce sino a
raggiungere un massimo al culmine dell’eiezione, poi decresce e cessa prima del II tono. Si
irradia in particolare ai vasi del collo e anche all’apice cardiaco ed ovviamente lo senti meglio a
livello del focolaio aortico;
 Click di eiezione sistolico, perché la valvola è rigida, che segue a breve distanza il I tono;
 Si riduce la componente aortica del II° tono;
 Comparsa di uno sdoppiamento paradosso del II° tono (durante l’espiazione la componente
aortica è prolungata e cade dopo quello polmonare, mentre durante l’inspirazione si riduce,
cosa contraria allo sdoppiamento fisiologico del II° tono).
RX: dilatazione atrio e ventricolo sx, segni di congestione polmonare (per scompenso), dilatazione
aorta ascendente). Ecocardiogramma conferma la diagnosi. Terapia medica: evitare gli sforzi fisici!
Terapia cardiopatia ischemica (vedi angina da sforzo). Chirurgia (protesi) risolutiva.

INSUFFICIENZA AORTICA
Riflusso di una quota di sangue dall’aorta nel ventricolo sinistro durante la diastole, a causa di
un’alterata chiusura dell’ostio valvolare aortico.
Più spesso le cause in questione sono la malattia reumatica, traumi, dissecazione aortica; cause meno
frequenti sono le malformazioni congenite, sindromi reumatiche in generale (specie la Reiter) e
artritiche autoimmunitarie (spondilite anchilosante), sifilide.
Nell’insufficienza aortica, come in tutte le insufficienze, avremo un sovraccarico di volume (perché
parte del sangue espulso in sistole ritorna indietro e si somma alla quantità di sangue che dovrà essere
espulsa alla sistole successiva); il ventricolo sx pertanto si adatta dilatandosi, con un’ipertrofia
ECCENTRICA (la dilatazione in questi casi è notevole, gli antichi parlavano di cor bovinum). La pressione
diastolica nel ventricolo sinistro risulta molto aumentata, non solo a causa della quota di sangue
rigurgitante, ma anche della ridotta distensibilità secondaria all’ipertrofia. Tuttavia, sino a quando il
ventricolo conserva un’efficiente capacità contrattile, l’aumento della pressione diastolica non si
ripercuote in senso retrogrado su atrio sinistro, circolo polmonare e cuore destro. In senso
anterogrado, il ventricolo riesce a mantenere una normale portata sistemica, data dall’espulsione di
una notevole quantità di sangue, anche doppia rispetto al normale. Per questo motivo la pressione
sistolica arteriosa è abitualmente aumentata. L’elevata pressione stimola i barocettori carotidei,
causando una vasodilatazione periferica riflessa che costituisce un utile meccanismo di compenso
(tant’è vero che all’inizio il paziente è del tutto asintomatico). Come per tutti i meccanismi di
compenso, a lungo andare questi diventano deleteri: l’ipertrofia infatti aumenta il consumo di
ossigeno miocardico mentre la vasodilatazione riduce la perfusione coronarica durante la diastole,
portando ad aumento del rischio di cardiopatia ischemica e scompenso!
Possiamo in alcuni casi avere anche un’insufficienza acuta (es. post-infartuale), con segni e sintomi di
scompenso cardiaco acuto.
Ispezione del pz: segno di de Musset (sono pazienti che muovono la testa ritmicamente da distesi, per
aumento della pulsatilità carotidea); segno di Quincke (premendo un’unghia, noterai alternanza rimica
tra pallore e zona rosea).
Polso: celere (polso di Corrigan), ossia tu hai una brusca salita e discesa del polso, per aumento della
pressione arteriosa differenziale (in genere sono pazienti con massima alta e minima bassa).
Auscultazione:
 Soffio diastolico (inizia poco dopo il II° tono, terminando prima del I° tono) in decrescendo da
rigurgito;
 Soffio sistolico da eiezione aortica;
 Soffio di Austin-Flint: rullio mesotelediastolico che compare nelle gravi insufficienze, dovuto ad
una stenosi mitralica relativa (per effetto del reflusso di sangue) ed è un soffio del tutto uguale
ad una stenosi mitralica.
La radiografia del torace mostra i segni della dilatazione e dell’ipertrofia ventricolare sinistra, EcoCG
gold standard come sempre. Terapia medica e chirurgica la solita.

VALVULOPATIE POLMONARI
Estremamente rare.
La stenosi della valvola polmonare è una malformazione di origine quasi esclusivamente congenita;
raramente, infatti, l’endocardite reumatica e quella infettiva colpiscono la valvola polmonare.
L’insufficienza polmonare, invece, è per lo più secondaria a una grave ipertensione polmonare,
qualunque ne sia l’origine. L’elevata pressione nel circolo arterioso polmonare produce una dilatazione
dell’arteria polmonare e dell’anello valvolare da cui origina, causando l’incontinenza della valvola. Le
manifestazioni cliniche dell’insufficienza polmonare coincidono con quelle dell’ipertensione polmonare
e del cuore polmonare che ne consegue. L’unico reperto obiettivo rilevante è un soffio diastolico,
molto simile a quello dell’insufficienza aortica, che prende il nome di soffio di Graham-Steel. A
differenza del soffio da rigurgito aortico, esso si accentua in inspirazione (che aumenta la massa di
sangue nel circolo polmonare) e si riduce con la manovra di Valsalva (che riduce la massa ematica
polmonare). Il soffio ha inizio dopo la componente polmonare del II tono, che risulta ritardata a causa
dell’ipertensione polmonare, e si accompagna ad altri reperti auscultatori di ipertensione polmonare,
quali l’accentuazione della componente polmonare del II tono e il click di eiezione polmonare.

MISCELLANEA

EDEMA POLMONARE ACUTO

Condizione patologica caratterizzata da un aumento dell’acqua extravascolare polmonare per


trasudazione o essudazione di liquido siero-ematico nell’ interstizio, negli alveoli e nei bronchioli
polmonari.
Per capire bene la patogenesi dell'edema
polmonare, dobbiamo ricordare l'equazione
di Starling:
Volume di liquido filtrato = [(P interstiziale
+ P idrostatica capillare) - Pressione
oncotica plasmatica] * coefficiente di
filtrazione della membrana alveolo
capillare
Diverse quindi sono le forze che spingono il
liquido verso l’esterno dei capillari,
all’interno degli spazi interstiziali polmonari
(quindi che promuovono la trasudazione):
 P capillare: 7 mmHg e che promuove la
trasudazione;
 P oncotica del liquido intertiziale: 14
mmHg;
 P negativa del liquido interstiziale: 8 mmHg;
per un totale di 29 mmHg. Ma teniamo conto anche della forza che fanno trattenere il liquido all’
interno del capillare: la principale è la P oncotica del plasma, per un totale di 28 mmHg.
Le pressioni che spingono verso l’esterno sono di poco superiori a quelle che richiamano verso
l’interno per cui la pressione netta media di filtrazione risulta positiva (+ 1mmHg) e questo
provoca un lieve flusso continuo di liquido (stimato in circa 4-6 mL/h) dai capillari negli spazi
interstiziali, tuttavia questa piccolissima quantità di liquido viene facilmente ricondotta nel circolo
sanguigno attraverso il sistema linfatico polmonare.
Pertanto, tenendo a mente l'enunciato di Starling, deduciamo che l'edema polmonare si realizza
in conseguenza di queste condizioni:
1. aumento della P idrostatica capillare nei vasi polmonari, che spinge acqua e fluidi verso
l'interstizio (questo è il meccanismo più frequente, quale quello che si realizza nell'edema
polmonare cardiogeno);
2. riduzione della P oncotica capillare;
3. abnorme aumento della permeabilità della membrana alveolo capillare (es. ARDS);
4. patologie del sist. linfatico (es. ostruzioni neoplastiche);
5. aumento della pressione interstiziale (si ha quando il polmone viene collassato e riespanso
rapidamente perché si crea una negatività intrapleurica troppo veloce e questo il liquido passa
dai capillari all’interstizio per poi andare nello spazio intrapleurico. Questo può accadere
quando si fa una paracentesi troppo veloce, per esempio in un versamento pleurico in cui
sappiamo essere il polmone atelettasico e si preleva rapidamente un’eccessiva quantità di
liquido)
6. forme miste (es. trauma cranico in cui prima si ha una massiccia scarica catecolaminica con
vasocostrizione generalizzata che determina scompenso sinistro con eccessivo sovraccarico
nel circolo polmonare questo comporta anche danneggiamento del letto capillare e stravaso
di liquido a elevato contenuto proteico).

Eziologia
Classica è la distinzione fisiopatologica dell'edema polmonare acuto in:
1. CARDIOGENO → LA STRAGRANDE, STRAGRANDISSIMA, MAGGIORANZA DEI CASI DI EDEMA
POLMONARE ACUTO È DI QUESTO TIPO. Diverse sono le cardiopatie capaci di innescare un
ed. polm. acuto cardiogeno:
a) Scompenso cardiaco acuto e cardiopatia ischemica: COSTITUISCONO LE PIÙ FREQUENTI
CAUSE DI EDEMA POLMONARE ACUTO;
b) valvulopatie mitraliche e/o aortiche: per l'aumento pressorio che si riflette a monte
(quindi nelle vene polmonari e da qui nei capillari polmonari, con aumento della pressione
idrostatica);
c) aritmie di vario tipo (sia tachiaritmie che bradiaritmie): fibrillaz. atriale, tachicardia
parossistica sopra-ventricolare, tachicardie/bradicardie ventricolari;
d) cardiopatie congenite;
e) crisi ipertensiva con secondaria insufficienza ventr.;
f) cardiomiopatie;
g) miocarditi/endocarditi/pericarditi/tamponamento cardiaco
h) sovraccarico di liquidi;
i) scompenso cardiaco ad alta portata (come nella tiretossicosi, nel beriberi, morbo di Paget
o nelle anemie severe);
j) emozioni intense;
k) farmaci quali antiaritmici.
IN TUTTI QUESTI CASI SI PUÒ REALIZZARE IL CEDIMENTO DEL VENTR. SX, CON ▲ PRESSORIO A
MONTE, QUINDI NELLE VENE POLMONARI: TALE AUMENTO DELLA P VEN. POLMONARE SI
TRADUCE IN CONGESTIONE VASCOLARE POLMONARE ED AUMENTO DELLA PRESSIONE
IDROSTATICA CAPILLARE (che, come abbiamo visto prima, rappresenta uno dei vari movens
principali nella genesi dell'edema polmonare).
2. NON CARDIOGENO → che si verifica ad es. per:
a) danno alla membrana alveolo-capillare: come quello in corso di ARDS (a sua volta
innescata da stati di shock, sepsi, traumi, ustioni, pan. acuta, anafilassi, inalazione di
sostanze irritanti, qualunque stato di MODS...);
b) ▼ pressione oncotica plasmatica: come nelle epatopatie gravi, nella sindrome nefrosica,
nelle enteropatie protido-disperdenti;
c) blocco linfatici: fibrosi polmonare, linfangite, tumori polmonari, silicosi, asbestosi,
berilliosi;
d) ed. polm. da alta quota: dove, dopo una rapida ascesa al di sopra dei 2500 m, la
vasocostrizione arteriolare polmonare non uniforme, causata dall'ipossia, in soggetti
predisposti, determina aumento della P idrostatica, quindi i liquidi tendono ad accumularsi
negli spazi interstiziali polmonari e vengono drenati dal sistema linfatico, ma quando questi
liquidi si accumulano troppo rapidamente rispetto all'attività drenante, si sviluppa un
edema alveolare franco;
e) diminuzione della pressione interstiziale polmonare: come nella rapida espansione di
polmone collassato a causa di pneumotorace;
f) ed. polm. neurogeno: da iperattività del sistema nervoso simpatico, la cui azione
implicherebbe una vasocostrizione con aumento del ritorno venoso ed una riduzione della
compliance ventricolare sinistra;
g) ed. polm. da sovradosaggio di narcotici (sost. d'abuso o anestetici): per depressione
dell'attività cardiaca.

Fisiopatologia
Possiamo descrivere l'edema polmonare in varie fasi:
1a fase→ passaggio di liquido nell’ interstizio (edema intestiziale), cui per il momento
sopperisce un incremento del drenaggio linfatico. Avremo come sintomo predominante una
dispnea da sforzo per la ridotta compliance polmonare (quindi aumenta il lavoro respiratorio e
la fatica dei muscoli respiratori che devono creare una pressione negativa maggiore e se c’è
una maggiore negatività intrapleurica o intramediastinica il ventricolo sinistro ne risente
negativamente perché è “stirato” verso l’esterno e ha difficoltà a contrarsi: aumenta la
pressione trans murale tra l’interno e l’esterno del VS e quindi il post-carico. In questi casi
oltre al trattamento farmacologico si insuffla aria nei polmoni: aumentando la positività
dentro le vie aeree riduciamo lo sforzo respiratorio e miglioriamo le prestazioni del VS); PO 2 e
PCO2 sono normali;
2a fase→ la pressione interstiziale aumenta, si ha accumulo di liquidi nell'interstizio peri-
bronchiale, venulare ed arteriolare che determina una graduale compressione dei vasi
(quindi ▲ R vascolari e della P vasale), interstizio completamente inondato, inizia
l'inondazione alveolare (edema alveolare). Avremo come sintomo predominante una dispnea
da sforzo ed in decubito supino, con comparsa di rantoli alle basi polmonari, espressione di
edema polmonare (poiché la pressione idrostatica del polmone aumenta progressivamente
dagli apici verso le basi, pertanto l’edema sarà prevalentemente localizzato ai lobi inferiori
nelle fasi iniziali, per poi risalire verso gli apici, tanto che, se ricordate bene la semeiotica, si
parla di edema a marea montante perché è "come una marea che sale e cresce" tanto che
all'inizio i rantoli saranno a piccole bolle, per poi progressivamente aumentare di dimensione).
La PO2 inizia a scendere, anche se l'ipossiemia è dovuta più che altro alle alterazioni del
rapporto V/Q che ad un ostacolo vero e proprio della diffusione di O2; la PCO2 è ancora
normale;
3a fase→ rottura piccoli vasi della mucosa bronchiale, inizia una compressione dei bronchioli
terminali da parte del liquido alveolare. Il pz. si presenta in ortopnea obbligata, con rantoli e
sibili espiratori (asma cardiaco); PO2 scende ulteriormente, PCO2 può essere ancora normale;
4a fase→ inondazione alveolare completa, con diluizione del surfattante ormai totale ed
ulteriore riduzione della compliance polmonare. Il pz. presenta dispnea continua, con rantoli
crepitanti; compaiono segni di ipoperfus. periferica e segni auscultatori all'EO cardiaco;
ipossiemia severa e comparsa di ipercapnia.

Valutazione clinica
Il sintomo predominante nell'edema polmonare acuto è la dispnea, dovuta alla riduzione della
compliance polmonare. Nella prima fase dell'edema polmonare sarà inizialmente da sforzo, per
poi divenire nelle fasi finali continua.
All'EO generale il pz. tende a presentarsi in decubito ortopnoico, con tachipnea. Può avere tosse
con emottisi. La presenza di turgore delle giugulari, specie se persistente in decubito ortopnoico,
riflette una condizione di stasi ed è segno di gravissimo impedimento al ritorno venoso (come
succede nell'insufficienza cardiaca acuta). Possono essere presenti segni di ipoperfusione
periferica: cute fredda e sudata, alterazioni del sensorio, oliguria. Lo stato agitato e confuso è
dovuto all’ipossia a livello cerebrale.
All'EO del torace il pz. può presentare sibili (per asma cardiaco); caratteristica è la presenza di
rantoli polmonari che dalle basi risalgono fino agli apici, dapprima crepitanti e poi, rapidamente, a
piccole/medie/grosse bolle (edema a marea montante).
Possono essere presenti un 3° e 4° tono cardiaco (segni di insuff. cardiaca acuta), con ritmo di
galoppo.
È molto importante ricordare che la presenza di un ed. polm. acuto spesso e volentieri è
conseguenza di un'insuff. cardiaca acuta, pertanto l'esame clinico e la diagnostica devono
SEMPRE valutare la concomitante presenza di un danno cardiaco (anche quando siamo sicuri di
non essere di fronte ad un ed. cardiogeno).

Valutazione strumentale e di laboratorio


Nel sospetto diagnostico di un edema polmonare, oltre ai classici esami di rito in corso di
emergenza (emocromo completo, i elettroliti, la creatininemia, azotemia, glicemia, funzionalità
epatica, urine) può essere utile valutare gli enzimi cardiaci (perché dobbiamo cmq sempre
sospettare un IMA in pz. con edema polmonare, dato che rappresenta la causa più frequente) ed i
peptidi natriuretici (BNP, sempre per lo stesso motivo degli enzimi cardiaci). L'emogasanalisi
inizialmente può dimostrare ipossiemia, mentre l'ipercapnia tende a manifestarsi molto più
tardivamente.
L'Rx del torace rappresenta il primo step diagnostico in tutti i pz. con edema polmonare. Nel tipico
edema cardiogeno (con pz. con aumento del volume telediastolico ed insuff. ventr. sx) il quadro si
rivela per l'ingrandimento del diametro cardiaco, in particolare a livello ilare (espressione di
un'ipertensione polmonare). La presenza di edema interstiziale si rileva per la presenza delle linee
di Kerley (espressione dell'ispessimento dei setti interlobulari), in particolare delle linee B di Kerley
(le vediamo come linee orizzontali alla periferia del radiogramma, mentre le linee A vanno dagli ili
alla periferia; le linee C sono rare e si presentano come una sorta di reticolato alla periferia del
radiogramma). Altri segni di edema polmonare sono rappresentati dalla comparsa di cuffie attorno
ai lobi. L'edema alveolare si manifesta invece con un progressivo aumento dell'opacità dei
polmoni, con aspetto "a farfalla" (ossia le zone centrali saranno più opache rispetto a quelle
periferiche) che dalle basi sale verso gli apici polmonari. Nell'edema non cardiogeno invece
mancano i segni della congestione dei vasi ilari ed il cuore ha un diametro conservato, mentre può
essere presente sin da subito un quadro di edema alveolare.
In figura a sx: quadro radiografico di ed.polm.cardiogeno. Sono presenti i segni
della congestione degli ili polmonari, con opacità diffuse alle basi del polmone,
specie al centro (segno della farfalla); è presente inoltre cardiomegalia. Si
possono notare la presenza di un catetere arterioso e di un sondino ng.
In figura a dx: linee B di Kerley (frecce).

Nei pz. con edema polmonare va anche fatto un ECG, specie se vi è sospetto di una base
cardiogena, ma è utile soprattutto per escludere le forme non cardiogene.

Terapia
1. Ossigenazione → primo provvedimento da adottare in tutti i pazienti, tramite catetere
nasale;
2. Riduzione rapida del volume circolante → forzando la diuresi con diuretici drastici, tipo
furosemide ev; questo va ripetuto in caso di persistenza dei sintomi; non somministrare
ovviamente in caso di ipotensione (<100 mmHg);
3. Riduzione del ritorno venoso al cuore → utilizzando farmaci venodilatatori, perché
aumentano la capacitanza venosa e riducono il precarico; questo può essere ottenuto con
nitrati per os o sublinguali (tipo il Carvasin) o ev (tipo il Venitrin); non somministrare
ovviamente in caso di ipotensione (<100 mmHg);
4. Sedazione del pz. ed analgesia → la morfina [Saitta preferisce ossicodone], oltre che a sedare
e a ridurre il dolore, determina venodilatazione con riduzione del ritorno venoso; non
somministrare ovviamente in caso di ipotensione (corriamo il rischio di determinare
depressione respiratoria e shock cardiogeno; in caso usiamo il suo antidoto, il naloxone);
5. Aumento dell'inotropismo del ventr. sx → se per edema su base cardiogena, come la classica
digitale ev oppure le catecolamine tipo adrenalina o anche gli inotropi non adrenergici tipo
dopamina o dobutamina [n.b. Saitta a lezione ha detto che usa sempre la digitale, tuttavia è
bene ricordare che anche una digitalizzazione rapida richiede alcune ore prima di raggiungere
il massimo effetto...].
La triade classica è rappresentata da diuretici+morfina [ossicodone per Saitta]+venodilatatori
['nchiumbatavilla a memoria, ma tenete in considerazione sempre la P arteriosa], con farmaci
inotropi positivi in caso di necessità (base cardiogena). È importante monitorare la PA in corso di
edema polmonare, perché se il pz. è ipoteso (PA < 100 mmHg), SEGNO DI SHOCK CARDIOGENO,
sarà necessario somministrare dobutamina (o noradrenalina) mentre furosemide e nitrati vanno
evitati!!!!!!
TROMBOEMBOLIA POLMONARE
Ostruzione acuta (completa o parziale) di uno o più rami dell'arteria polmonare, da parte di
materiale trombotico proveniente dalla circolazione venosa sistemica (tromboembolismo
venoso, TEV). Assai raramente, può anche essere determinata da fenomeni di trombosi locali
(trombosi cardiaca polmonare autoctona).
Gli emboli spesso provengono da:
 trombosi a sede periferica nel sistema venoso profondo (tromboembolia);
 più raramente sono emboli estranei alla normale composizione del sangue (embolie polmonari non
trombotiche: gassosa, grassosa, amniotica, neoplastica ecc).
Rappresenta la 3° causa di morte cardiovascolare dopo l’IMA e l’ictus.

Eziopatogenesi
A parte quei rarissimi casi di trombosi autoctona, possiamo dire che l’EP rappresenta una
complicanza acuta della TVP (trombosi venosa profonda). A sua volta, la TVP e la TEV in generale
sono considerate la conseguenza di un’interazione fra fattori di rischio paziente-correlati (in
genere permanenti) e fattori di rischio esterni (temporanei).
a) Fattori paziente-correlati → La stasi venosa rappresenta il fattore di rischio principale. Questa
può verificarsi in presenza di molteplici eventi patologici, quali scompenso cardiaco congestizio,
IMA. Non dimentichiamo poi tutti gli stati di trombofilia (deficit di proteina C ed S, deficit di
AT-III, presenza del fattore V di Leiden, sindromi da anticorpi antifosfolipidi,
iperomocisteinemia). Anche le neoplasie rappresentano un fattore di rischio importante, specie
quelle polmonari (da sospettare sempre un’EP in presenza di soggetto con neoplasia polmonare
attiva e dispnea). Nelle donne i CO rappresentano un importantissimo fattore di rischio. Infine
le infezioni rappresentano un evento predisponente in particolare nei soggetti ospedalizzati. I
soggetti fumatori hanno un rischio maggiore.
b) Fattori ambiente-correlati → Stati quali la prolungata immobilità a seguito di traumi, interventi
chirurgici maggiori oppure lunghi viaggi in aereo favoriscono la stasi venosa e pertanto le TEV.
Alterazioni vasali si verificano in conseguenza di traumi, fratture (specie quelle degli arti
inferiori), interventi chirurgici.
Nella TVP degli arti inferiori gli emboli responsabili possono provenire dalle vene profonde del
polpaccio (TVP distale) oppure dal distretto ileofemoreale e pelvico (TVP prossimale, più
frequente). Nella genesi dei trombi dobbiamo ricordare la triade di Virchow: lesioni della parete
vasale (es. dopo interventi chirurgici, traumi), stasi sanguigna (immobilità prolungata per chirurgia
o traumi, scarsa attività fisica), ipercoagulabilità (deficit AT-III, deficit prot. C ed S, deficit di
plasminogeno, presenza del fattore V di Leiden, aumento fibrinogeno o protrombina). Raramente
gli emboli provengono dagli arti superiori: in questo caso sono a rischio i pz. con cateteri venosi a
scopo diagnostico e chi fa uso di sostanze stupefacenti. Anche le cavità cardiache di dx possono
essere sede di processi coagulativi (in presenza di FA in particolare). In rarissimi casi, la trombosi
può essere locale (autoctona) oppure costituita da materiale non trombotico.

Fisiopatologia
La EP determina due conseguenze principali:
1) CONSEGUENZE EMODINAMICHE → Per ostruzioni > 50% la Gittata cardiaca inizia a diminuire e la
pressione in atrio dx inizierà a salire drammaticamente. Quando l’ostruzione è importante e si
realizza acutamente, potremmo incorrere in un’insufficienza ventricolare dx e quindi Cuore
Polmonare Acuto; shock cardiogeno, per riduzione della GS del ventr. dx e del sx (in quanto si
riduce il riempimento del ventr. sx, a sua volta per spostamento del setto interventricolare verso
sx); ostruzione meccanica al flusso nel circolo polmonare; IMA del ventr. dx.
2) CONSEGUENZE RESPIRATORIE → Come conseguenza dell’ostruzione vascolare si sviluppa
ipossiemia, il cui meccanismo patogenetico è molteplice: aumento dello spazio morto
alveolare ed alterazione del V/Q (avremo aree ventilate ma non perfuse); riduzione dei livelli di
O2 nel sangue venoso misto (quest’ultima causata dalla riduzione della GC). Tardivamente
possiamo anche avere: atelettasie (per riduzione del surfattante); broncocostrizione (mediata
da riflessi locali e liberazione di sostanze vasocostrittrici). In alcuni casi potremmo anche avere
un vero e proprio infarto polmonare (che ricordiamo essere di tipo emorragico), quando viene
ostruita un’arteria bronchiale a localizzazione distale (il circolo bronchiale ricordiamo che è
quello deputato alla nutrizione dell’albero respiratorio).
Lo scompenso del ventricolo destro (RV), dovuto a sovraccarico pressorio, è considerato la
principale causa di morte nell’embolia polmonare severa.

Valutazione clinica
[Premessa: c’è un motivo se l’EP è anche chiamata “la Grande Simulatrice” (Great Masquerader)!]
Il segno più importante di EP è la tachipnea (cui può associarsi la dispnea per la presenza di
broncospasmo, dovuto al rilascio di serotonina dalle piastrine), completamente aspecifico ma che
non manca mai in un pz. con EP: essa sembra essere dovuta a stimolazione dei recettori
iuxtacapillari delle membrane alveolocapillari per effetto del rigonfiamento dello spazio
interstiziale interalveolare; tale stimolazione incrementa l'attività vagale afferente riflessa, che a
sua volta stimola i neuroni respiratori bulbari; la conseguente iperventilazione alveolare si
manifesta con un abbassamento della PaCO2. Avremo pertanto aree polmonari sì ventilate, ma
non perfuse, con conseguente alterazione del rapporto V/Q, caratteristica fisiopatologica
principale dell'EP, che contribuisce ulteriormente allo stato iperventilatorio.
Ma oltre a questo? Non abbiamo nulla di specifico (e la tachipnea è aspecifica di per sé):
 il dolore toracico può esserci come può non esserci. Esso dipendere dalla presenza di
ipertensione polmonare, che causa una sofferenza toracica retrosternale sorda dovuta alla
distensione dell'arteria polmonare, ma potrebbe anche dipendere da un’eventuale ischemia
miocardica del ventr. dx oppure ancora dall’irritazione della pleura parietale in corso di infarto
polmonare;
 si può accentuare la componente polmonare del secondo tono sui focolai della base o si possono
sdoppiare le componenti aortica e polmonare del 2° tono (segni di ipertensione polmonare), ma
con minore sdoppiamento durante l'inspirazione.
 se l'EP è massiva, può comparire una disfunzione acuta del ventricolo destro, con distensione
delle giugulari, galoppo presistolico (S4) o protodiastolico (S3), talora con ipotensione arteriosa e
segni di vasocostrizione periferica;
 l’emoftoe o l’emottisi possono esserci come non esserci e dipendono dall’ipertensione
polmonare con rottura di piccoli vasi.
 la cianosi di solito si manifesta solo nei pazienti con EP massiva. Un piccolo embolo nella periferia
di un polmone può causare infarto senza ipertensione polmonare. oppure avere caratteristiche
tipiche della cardiopatia ischemica (retrosternale), in quanto riflette l’ischemia del ventr. dx ed in
quest’ultimo caso è necessaria la DD con le SCA e la dissezione aortica.
 la sincope è infrequente, ma può avvenire anche in assenza di instabilità emodinamica.
 nei casi più gravi avremo i segni tipici dello shock.
Insomma, come possiamo vedere non c’è niente di specifico nell’EP. Diventa quindi importante
anche aiutarci con l’anamnesi: la conoscenza dei fattori di rischio principali (specie la TVP) è
importante per poter fare diagnosi di EP, vista la completa aspecificità del quadro clinico.
Valutazione di laboratorio
Al laboratorio è possibile un ↑ LDH (molto presente a livello polmonare, specie gli isoenzimi 3 e
4); purtroppo però l’LDH è un enzima presente in molti organi per cui si presenta anche in
presenza di patologia epatica, nei traumi, nel politrauma (perché sono colpiti i muscoli), malattia
delle vie biliari, malattie ematiche; in presenza di storia sospetta, ci possiamo indirizzare verso
l’EP. Se il pz ha anche shock troviamo ↑ GOT, GPT e CPK, così come ↑ bilirubina (per la stasi
venosa).
Molto importante è la determinazione del D-dimero: questo ↑ in qualsiasi stato di trombosi
acuta, per l’attivazione della cascata coagulativa e della fibrinolisi; sebbene aspecifico, può
aiutarci a dirimere il dubbio diagnostico, in particolare ad escludere l’EP: valori < 500 µg/l
possono escluderci un’EP, tuttavia un valore positivo non è specifico (può aumentare nell’IMA,
nelle neoplasie, dopo prolungato allettamento, dopo interventi chirurgici, dopo dissezione
aortica).

Valutazione strumentale
All’EGA l’ipossia (paO2 < 80 mmHg) e l’ipocapnia (paCO2 < 40 mmHg) hanno un alto valore
predittivo negativo. In alcuni casi può essere presente solo ipocapnia e l’ipossia ancora non è
marcata. Se all’EGA dovessimo vedere ipossia e ipocapnia quindi non significa che possiamo fare
diagnosi certa di embolia polmonare ma quantomeno indirizzare la conferma diagnostica in
questa direzione mentre se non li vediamo potremmo già escludere l’EP. L’ipossiemia è data dalla
produzione dello spazio morto alveolare, dalla perdita di surfattante, dalla vasocostrizione riflessa
e alterazione ventilazione/perfusione. L’ipocapnia è invece data fondamentalmente
dall’iperventilazione compensatoria (alcalosi respiratoria) ma anche dall’alterazione del rapporto
V/Q che determina una facilitazione allo scambio di CO2 e non dell’O2.
L’ECG mostra alterazioni nel 70% dei casi di EP, tuttavia non sempre sono specifiche; l’importanza
dell’ECG risiede nella possibilità di escludere un IMA o aritmie varie. L’ECG diventa specifico spesso
e volentieri soltanto in presenza di alterazioni critiche, con sovraccarico di volume del ventr. dx,
ischemia subendocardica del ventr. dx ed iperdistensione. Tra questi segni specifici ricordiamo:
1. Tachicardia sinusale;
2. Pattern S1Q3T3 o Segno di McGinn-White: l’unico segno davvero specifico di EP, in presenza di
CPA ed infarto polmonare; onda S allargata in Ia derivazione, Q allargata e T invertita in IIIa
derivazione;
3. Inversione onda T in V1-V2-V3-V4
4. Onda P polmonare: espressione di dilatazione atriale dx, vedremo aumento di voltaggio nelle
onde P in DII, DIII ed aVF, che si presenta alta e stretta, ha una durata inferiore a 0.12 sec ma è
molto alta di voltaggio (due quadratini e mezzo)
5. Segni di blocco di branca dx: QRS allargato nelle derivazioni destre V1-V2 > 0,12 s (cioè ≥ 3
quadrati piccoli); possibili onde R-R' nelle stesse derivazioni.
Oltre all’ECG, costituisce esame di primo livello anche l’Rx torace. Anche questo mostrerà segni
specifici soltanto in presenza di alterazioni critiche come infarto polmonare e atelettasie; in ogni
caso ci consente di escludere altre cause di tachipnea/dispena come pnx, versamenti pleurici,
polmoniti ecc:
1. Segno della gobba o segno di Hampton: opacità a cuneo con base situata sul versante pleurico,
segno di infarto polmonare.

2. Segno di Westermark: aree di vascolarizzazione ridotta (come ipertrasparenza) situate a valle


dell’embolo (frecce bianche in figura).
3. Segno della nocca: abnorme dilatazione dell’arteria polmonare in sede ilare con brusco
restringimento del tratto a valle (freccia nera in figura).
Altri segni presenti all’Rx sono: la risalita dell’emidiaframma (dovuto alle atelettasie multiple
lamellari in conseguenza del deficit di surfattante nella zona ischemica); segni di versamento
pleurico (in genere molto modesto, con obliterazione dell’angolo costo-frenico); segni di infiltrato
polmonare (focolai emorragici visibili come opacità rotondeggianti tipo “chiazze” prevalentemente
alle basi); ingrandimento del cuore dx e dell’azygos (anche questo segno di CPA).
Possiamo ricorrere all’ecocardiografia, esame importantissimo perché ci può consentire di fare
diagnosi di EP. Il segno più importante all’ecocardiogr. è la presenza di ipocinesia del ventr. dx ed
ingrandimento delle camere dx del cuore; un segno molto specifico agli ultrasuoni è il segno di
McConnell: parete media libera del ventricolo desto ipocinetica e quella apicale
normo/ipercinetica. Altri segni possono essere: la dilatazione della v. cava inf., la presenza di
movimento paradosso del setto, pressione arteriosa polmonare sistolica di 50 mm Hg con un
importante rigurgito tricuspidale.
L’angio-TC è altamente sensibile e specifica, ma raramente viene eseguita, in quanto già con
l’ecocardiografia riusciamo ad orientarci con la diagnosi. Secondo le linee guida europee di
cardiologia, in coloro che hanno shock cardiogeno e sospetta embolia polmonare con alta
probabilità, è indicata, se immediatamente disponibile, l’esecuzione dell’angio-TC.
L’angiografia polmonare è l’esame gold standard, ma valgono le stesse considerazioni dell’angio-
TC; inoltre è stata ormai quasi del tutto rimpiazzata da quest’ultima. Viene usata per lo più quando
è necessario ricorrere ad interventi di radiologia interventistica (es. embolectomia mediante
catetere).
La scintigrafia polmonare ventilatoria (effettuata facendo respirare al pz. gas radioattivi)/
perfusoria (perfondendo albumina marcata con Tc99) può essere utile quando le indagini di 1°
livello non siano state dirimenti a fini diagnostici. In realtà non è che sia esattamente diagnostica,
semmai può darci delle probabilità di diagnosi (quadri a bassa/media/alta probabilità).
Fortunatamente è una metodica a basso rischio (tranne in caso di IR, allergie e gravidanza).
In presenza di EP bisogna inoltre cercare la sorgente degli emboli con l’ecocolor Doppler degli arti
inferiori, attraverso manovre di compressione ultrasonografica (si comprimono le vene e se questa
è completa non ci sono trombi, mentre se rimane dello spessore residuo tra i lembi venosi vuol
dire che la trombosi è avvenuta).

Terapia in fase acuta


Sarà importante come al solito cercare di stabilizzare il pz.: ABC (con RCP se necessario);
somministrazione di O2 con maschera di Venturi (in modo da antagonizzare la vasocostrizione
ipossica); trattamento dello shock (fluidi ev, ma non troppi in modo da non distendere il ventricolo
dx, inotropi positivi quali dobutamina); trattamento del broncospasmo se presente (causato dai
mediatori liberati dalle piastrine, con salbutamolo oppure aminofillina ev); controllo del dolore
(con oppioidi). Provvedere quanto prima a: inserire un catetere in una vena centrale, prepararsi
per un’eventuale assistenza respiratoria (es. tentativo di CPAP con maschera), monitorizzare l’ECG
ed eventualmente la pressione arteriosa, inserire un catetere vescicale e seguire la diuresi oraria.
La terapia cardine dell’EP è quella anticoagulante. In fase acuta sarà necessario somministrare
eparina, iniziando se possibile anche prima del risultato dei test diagnostici (ovviamente solo in
caso di alta probabilità di EP): benché infatti priva di azione fibrinolitica, comunque impedisce la
neoformazione di fibrina e facilita la dissoluzione del trombo da parte del sistema fibrinolitico
intrinseco; inoltre inibisce l’adesione piastrinica, prevenendo quindi la liberazione di serotonina e il
conseguente broncospasmo. Ricordiamo che durante il trattamento con eparina è necessario il
monitoraggio dell’aPTT. anche le eparine LMWH sono altrettanto efficaci (come l’enoxaparina),
con il vantaggio di avere tra l’altro un minor rischio emorragico (tuttavia nel pz. obeso è sempre
meglio l’eparina non frazionata). Anche il fondaparinux (inibitore selettivo del fattore Xa) può
essere utilizzato a tal scopo, ma è controindicato in caso di IR.
L’attività dell’eparina deve essere controllata con indagini di laboratorio che consentano di
verificare il raggiungimento dell’appropriato effetto terapeutico. Le metodiche utilizzate
prevedono la misurazione dell’aPTT, che dovrà essere portato a valori pari a 1,5-2,5 volte il livello
basale di riferimento, preferibilmente raggiunto non oltre le prime 24 ore, possibilmente entro 4-6
ore dall’inizio della terapia. Può essere utile a tal fine anche l’impiego del tromboelastogramma,
che tra l’altro mi serve non solo a vedere se la terapia funziona, ma anche a non farmi eccedere
nello scoagulare (quando il dosaggio eparinico consente l’allungamento del tempo K, ossia la
formazione del coagulo, e la R, ossia la retrazione del coagulo, abbiamo ottenuto solo una
riduzione della coagulazione e quindi solo un effetto profilattico; mentre se vedo anche modifica
dell’ampiezza massima e del LY30%, ossia la percentuale di coagulo lisato dopo 30 minuti, sto
ottenendo anche l’effetto fibrinolitico). Anche l’esecuzione del trombogramma può essere utile. Le
eparine LMWH e il fondaparinux invece non necessitano di monitoraggio di routine.
Insieme all’eparina vanno somministrati gli anticoagulanti orali; l’eparina o le eparine LMWH
andranno sospese solo quando l’INR è tra 2 e 3 per 2 gg consecutivi e dopo almeno 5 gg di
sovrapposizione con la terapia anticoagulante orale. Per quanto riguarda la scelta dell’anticoag.
orale, possiamo utilizzare sia i classici dicumarolici, sia i NAO (es. dabigatran, rivaroxaban o
apixaban). Trascorso questo periodo, si deve continuare solo con la monoterapia orale per
almeno 3 mesi
I pazienti con EP e shock o ipotensione sono ad alto rischio di morte intraospedaliera, in
particolare durante le prime ore dopo il ricovero; pertanto il trattamento deve essere immediato
ed intensivo. Oltre al supporto emodinamico e respiratorio, in questi casi deve essere
somministrata, per via endovenosa, l’eparina. L’ulteriore terapia da somministrare appena
possibile in questi pazienti è la trombolisi sistemica con streptochinasi, urochinasi oppure rtPA).
Non vanno associati all’eparina e richiedono un PTT ratio < 1,5. L’Eparina verrà ripresa 3-4h dopo
aver finito la terapia fibrinolitica. Nei pazienti con controindicazioni alla trombolisi (precedenti
anamnestici di ictus; presenza di neoplasie dell’SNC; traumi a qualsiasi livello, compresi gli
interventi chirurgici, nelle precedenti 3 settimane; pz. in TAO; donna in gravidanza; emorragie
gastrointestinali 1 mese precedente; emorragie in atto note; ipertensione refrattaria alla terapia)
oppure in quelli in cui la trombolisi è risultata inefficace, è indicata l’embolectomia chirurgica
oppure, in alternativa alla chirurgia, interventi di cateterismo percutaneo.
Per quanto riguarda la terapia a lungo termine dell’EP, sappiamo che i pz. devono sottoporsi ad
almeno 3 mesi di terapia con TAO e, dopo questo regime, valutare se sia il caso di continuare o
meno: infatti in pz. in cui sia stato identificato un fattore favorente si può pensare di continuare il
trattamento (per altri 6-12 mesi) in presenza di ricorrenza dell’episodio di EP [nelle linee guida ESC
invece si parla di protrarre indefinitamente la TAO dopo un 2° episodio di EP]; la TAO potrebbe
anche continuare per tutta la vita in presenza di fattori permanenti (stati di ipercoagulopatia come
fattore V di Leiden, deficit di prot. C ed S, sindromi da anticorpi antifosfolipidi). Anche nei pazienti
neoplastici con EP il trattamento con TAO dovrebbe essere prolungato indefinitamente o fino a
quando non si è ottenuta la guarigione dalla neoplasia e nei primi 3-6 mesi si dovrebbe valutare
l’opportunità̀ di associare anche la somministrazione sottocutanea di LMWH. In pazienti in cui è
previsto un prolungamento della anticoagulazione possono essere considerati i NAO, in alternativa
ai dicumarolici; con i seguenti dosaggi:
- Rivaroxaban (Xarelto): 20 mg/die;
- Apixaban (Eliquis): 2,5 mg x 2/die;
- Dabigatran (Pradaxa): 150 mg x 2/die (oppure 110 mg x 2/die nei pz di età > 80 o in trattamento
con verapamil). Come sempre, questi saranno controindicati in pz. con IR.

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