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Cos'è?
Si usa il termine di infarto miocardico acuto (IMA) quando parte del tessuto cardiaco muore a causa
della mancanza di ossigeno determinata dall'occlusione improvvisa di uno o più rami delle arterie
coronarie (generalmente compromesse dalla malattia arteriosclerotica) a causa di un trombo o uno spasmo
con blocco del flusso sanguigno in quel distretto cardiaco.
L'infarto miocardico è una malattia che colpisce più di duecentomila italiani all'anno e che in 1/3 dei
casi conduce alla morte. Se l'infarto colpisce solo una zona limitata del muscolo cardiaco, le conseguenze
non sono gravi. Se la lesione del muscolo cardiaco è molto estesa, può provocare la morte o un'invalidità
(di grado variabile).
Oggi si riunisce l'infarto acuto del miocardio (sia non-Q che Q) e l'angina instabile sotto la definizione di
In genere, la pressione cala progressivamente sino a raggiungere il minimo nel corso della prima
settimana: a volte, la brusca ipotensione può portare allo shock cardiogeno. La pressione della vena
giugulare può essere normale o leggermente elevata; si possono avere alterazioni dei rumori cardiaci e
crepitii polmonari.
Spesso a questo quadro clinico si accompagna la febbre nelle prime 24 ore. Altri fenomeni (leucocitosi,
incremento della VES) sono dovuti alla necrosi del miocardio.
Nei casi più gravi la morte è improvvisa e si verifica entro breve tempo dall'insorgenza dei sintomi. La
morbilità e mortalità dell'infarto sono ascrivibili alle aritmie ed alla perdita di funzione di pompa che ne
derivano.
Nel 30% dei casi, specie nei soggetti di una certa età, ed in quelli con diabete mellito, l'infarto si
manifesta con sintomi diversi da quelli classici:
1) il dolore può mancare del tutto od essere sostituito da una vaga sensazione di peso o di fastidio od
essere localizzato alla bocca dello stomaco, inducendo a pensare a sintomi di indigestione;
2) ci può essere solo debolezza generale o facile stancabilità con affanno di respiro;
3) i sintomi infine possono essere così lievi da passare inosservati, per cui il paziente impara di aver avuto
un infarto solo in un secondo tempo, dopo esecuzione di un elettrocardiogramma.
Quando si verifica?
L'infarto è in genere la conseguenza drammatica di una malattia (aterosclerosi) che è iniziata molti
anni prima e che ha già dato dei segnali in precedenza (per es. angina pectoris da sforzo). Ma può anche
succedere che l'evento acuto sia il primo segnale della malattia 'silente' fino al momento in cui cause
scatenanti fanno bruscamente precipitare la situazione mantenuta in equilibrio fino allora. La rottura di
una placca ateromatosa porta al deposito di un trombo intracoronarico, che a sua volta induce
un'occlusione della coronaria in questione. Talora, anche un grave spasmo dell'arteria coronarica può
provocare un infarto.
A volte, in associazione ad uno stress psicologico intenso e prolungato, come conflitti o litigi
nell'ambito familiare o lavorativo; talora si tratta di forti ed improvvise emozioni a contenuto sgradevole,
come aggressioni, rapine, coinvolgimento in incidenti stradali ed in disastri come terremoti, alluvioni,
incendi, etc.
In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi non si riesce ad individuare il meccanismo scatenante
dell'evento infartuale, e va anzi ricordato che studi ormai numerosi di cronobiologia hanno dimostrato in
maniera inconfutabile che il maggior numero di infarti si verifica nelle primissime ore del mattino quando
il paziente è in completo riposo.
Gli infarti fatali avrebbero, inoltre, una stagionalità tra dicembre e gennaio.
Questa condizione morbosa, contro la quale la scienza medica lotta ogni giorno di, più, rappresenta oggi
la più frequente fra le cause di morte ed è in costante aumento.
In Italia ogni anno circa 130.000 persone sono colpite da IMA. Di queste ne muoiono all’incirca 33.000
e circa 18.300 muoiono prima di raggiungere l’ospedale. La maggioranza di queste morti è aritmica e
secondaria a fibrillazione ventricolare. Per il gruppo di pazienti che raggiunge l’ospedale in vita, è ormai
accertato che la terapia trombolitica è in grado di determinare un miglioramento della funzione sistolica
del ventricolo sinistro (VS) e una riduzione della mortalità a 35 giorni del 21% negli IMA Q transmurali
che corrisponde ad un salvataggio di 21 vite per 1000 pazienti trattati.
Nonostante i miglioramenti degli ultimi anni, l’infarto acuto del miocardio rimane la principale causa di
morte della popolazione adulta dei paesi occidentali con circa il 30% di decessi, la metà dei quali prima
dell’ ospedalizzazione. Tra i pazienti ospedalizzati per infarto, la mortalità è del 7-15% durante
l’ospedalizzazione e di un altro 7-15% nell’anno successivo.
EPIDEMIOLOGIA
La Cardiopatia Ischemica (C.I.) rappresenta una delle principali cause di mortalità sia nei Paesi
industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Si calcola che nel solo 1990 i decessi per cardiopatia
ischemica siano stati 6,3 milioni (2,7 milioni nei Paesi con economia di mercato consolidata e Paesi ex-
socialisti, 3,6 milioni nei Paesi in via di sviluppo).
Per quanto concerne l’infarto miocardico acuto, i tassi di incidenza più elevati si registrano
attualmente nei Paesi ex-socialisti (419/100.000), seguiti dai Paesi con economia di mercato consolidata
(278/100.000). Di gran lunga inferiore è, invece, l’incidenza nelle altre aree del globo, compresa tra
60/100.000 (Africa sub-sahariana) e 186/100.000 (India).
L’incidenza di infarto miocardico acuto aumenta esponenzialmente con l’età. Nei Paesi con economia di
mercato consolidata, ad esempio, i maschi fanno registrare un’incidenza di 33/100.000 nella fascia di età
15-44, di 427/100.000 tra i 45 ed i 59 anni e di 1.415/100.000 oltre i 59 anni. Ancor più marcato
l’incremento tra le donne, dove si osserva un’incidenza pari a 10/100.000 tra i 15 ed i 44 anni, che sale a
115/100.000 tra i 45 ed i 59 anni, ed a 1.089/100.000 oltre i 59 anni.
Al di sotto dei 60 anni di età l’incidenza di infarto miocardico acuto è da 2 a 4 volte più elevata negli
uomini rispetto alle donne, mentre sopra i 60 anni tale rapporto scende a valori di poco superiori all’unità.
Qual è la differenza tra infarto ed ischemia?
S'intende per ischemia lo stato di sofferenza del muscolo cardiaco non sufficientemente irrorato. C'è
una differenza fondamentale tra infarto ed ischemia.
L'infarto è un'interruzione totale del flusso deL sangue al cuore, i cui sintomi durano più di 15 minuti,
non scompaiono con il riposo o con i farmaci (con la nitroglicerina sono solo alleviati) ed una parte del
muscolo cardiaco incomincia a morire. È, quindi, una condizione stabile ed irreversibile. L'ischemia è
transitoria e reversibile; consiste in una temporanea interruzione del flusso di sangue ossigenato al
cuore; i sintomi durano pochi minuti e si possono alleviare con il riposo o con i farmaci.
Ciò che determina il punto di passaggio fra ischemia ed infarto è la durata dell'assenza di flusso;
infatti, il muscolo cardiaco riesce a tollerare l'assenza di irrorazione per un tempo limitato (meno di 30
minuti), al di là del quale comincia ad andare in necrosi, a morire. Per cui il dolore dell'infarto si
differenzia da quello dell'angina per il fatto che dura in genere più di trenta minuti, non si aggrava con
l'esercizio e non è alleviato dal riposo o dal ricorso al trinitrato di glicerina (vasodilatatore). Il dolore può
accrescersi d'intensità per minuti od ore e poi restare costante sino a recedere; è raro che l'evento sia
del tutto indolore.
Nella maggioranza dei casi, l'ischemia si determina quando, a fronte di una maggiore richiesta di
ossigeno e materiali nutritivi, e quindi di un aumento di flusso, determinata da un'attività fisica più o
meno intensa, questa richiesta non può essere soddisfatta a causa dei restringimenti (stenosi) prodotti
all'interno delle arterie coronarie dalla malattia aterosclerotica. Si crea così una discrepanza transitoria
fra necessità di apporto e possibilità di adeguamento dei flussi; questa è la condizione detta "angina da
sforzo".
DIAGNOSI
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
La diagnosi dell'infarto miocardico, oltre che sulla sintomatologia, si basa su vari esami del sangue. È
possibile l’individuazione di reperti specifici ed aspecifici; questi ultimi sono in genere i più costanti.
1. troponina
2. mioglobina
3. CPK, creatina fosfochinasi
4. CK-MB, isoenzima miocardico e cerebrale della creatina fosfochinasi
5. GOT, transaminasi glutammico-ossalacetica
6. LDH, lattico-deidrogenasi.
Dal tessuto del cuore colpito si versa nel sangue circolante una serie di enzimi il cui dosaggio permette
di diagnosticare l'avvenuta lesione; iI più importanti sono le transaminasi (GOT, GPT), la
creatinfosfochinasi (CPK, che compare nel sangue già nelle prime ore), la latticodeidrogenasi (LDH) e la
Troponina (proteina strutturale dell'apparato contrattile del mocardio, dotata di alta specificità e
sensibilità,compare nel sangue dopo circa 8 ore dall'inzio dell'IMA e permane fino alla 70.ma ora)
Gli elementi diagnostici essenziali vengono però forniti dall' ELETTROCARDIOGRAMMA, che consente di
accertare l'esistenza o meno dell'infarto, la sede di questo e l'evoluzione che ha subito. Sin dalle prime
ore compaiono alterazioni caratteristiche con segni di lesione nella zona cosiddetta subepicardica
(elevazione del segmento ST, che si normalizza con la riperfusione; inversione entro 24/48 ore dell'onda
T) accompagnati o meno da quello che è il segno caratteristico cioè l'onda Q di necrosi (primo stadio).
Dopo alcuni giorni o dopo alcune settimane il quadro tende a cambiare per la progressiva riduzione dei
segni di lesione e la progressiva comparsa dei segni di ischemia subepicardica e di necrosi (secondo
stadio). Con il passare del tempo i segni di necrosi si fanno più evidenti e quelli di ischemia o si accentuano
o tendono a regredire (terzo stadio). La diagnosi della sede colpita da infarto è possibile osservando in
quali derivazioni elettrocardiografiche, che esplorano differenti zone del miocardio, i segni caratteristici
compaiano ed evolvano. L'elettrocardiogramma è essenziale anche per l'accertamento di alcune
complicanze dell'infarto quali i blocchi e le aritmie.
Il CONTROLLO RADIOLOGICO del volume del cuore, oltre che nella fase acuta, è utile nella fase di
stabilizzazione per valutare gli esiti dell'infarto.
ECOCARDIOGRAMMA
È una delle metodiche più sensibili e specifiche per la diagnosi di infarto del miocardio. Visualizza
l’immobilità della parete miocardica lesa dall’ischemia protratta, e nella derivazione 2D è possibile
l’identificazione sia del settore di miocardio infartuato, più sottile ed acinetico, sia dei restanti settori in
fase di iperdinamicità per compensare la parte necrotica. Queste caratteristiche sono maggiormente
identificabili in pazienti in fase di scompenso o di shock. La frazione di eiezione (FE) diminuisce. Nei casi
di infarto della porzione destra del miocardio, la visualizzazione ecocardiografica rende possibile
l’identificazione della lesione molto più efficacemente e precocemente dell’ECG. È importante
differenziare eventuali zone di necrosi preesistenti, per non incorrere nell’errore di diagnosticare come
nuovi degli eventi avvenuti tempo prima e magari misconosciuti al paziente o non identificabili all’ECG. In
tal caso lo spessore e le caratteristiche spaziali sono fondamentali; un territorio cicatriziale reagisce in
modo molto meno elastico alle variazioni di pressione del ventricolo, determinando un movimento molto
meno plastico, come uno “schiocco”; un territorio appena infartuato è un territorio ancora elastico, che
reagisce in modo apparentemente “attivo” alla contrazione del ventricolo.
1. Ipocinesia: ridotta caratteristica motoria di una zona di miocardio ma finlizzata.al risultato globale
(eiezione).
2. acinesia; assenza totale di contrattilità.
3. discinesia: presenza di potenza contrattile ma non finalizzata al risultato globale.
ANGIOGRAFIA
È attuabile in 2 casi:
1. quando la diagnosi clinica porta a sospettare in modo deciso una ischemia del miocardio, ma gli
esami laboratoristico-strumentali non dirimono in modo certo la diagnosi (ad es. enzimi di
miocardiocitonecrosi solo lievemente mossi, ecocardiografia non attuabile per scarsa finestra
acustica, ECG con pregresso blocco di branca sx);
2. valutazione di un intervento di riperfusione tramite angioplastica (PTCA) o bypass.
Se intervengono delle complicanze come aritmie, shock ed insufficienza cardiaca non ci sono più dubbi.
1) tipico rialzo e graduale diminuzione, in caso della troponina, o più rapido rialzo e caduta, per CK-MB, con almeno uno
dei seguenti:
a) sintomatologia di tipo ischemico
b) sviluppo di patologiche onde Q all'ECG
c) alterazioni elettrocardiografiche di ischemia: sopra o sottoslivellamento del tratto ST
d) pregresso intervento di rivascolarizzazione miocardica
1) sviluppo di patologiche onde Q, precedentemente non presenti, in seriati ECG. I markers sierici di necrosi miocardica
possono essere normali e il paziente può non riferire sintomi.
IMA NON Q
Si tratta di un infarto miocardico tipico (dolore, aumento degli enzimi di necrosi) con assenza di onde Q di durata
> 30 ms.
Quadro clinico:
Anche se non è sempre facile occorre differenziare l'infarto miocardico acuto da altre patologie che
possono presentarsi con caratteristiche cliniche altrettanto drammatiche, come:
La fase acuta dell'infarto miocardico può assumere questi diversi quadri clinici che ne condizionano
l'evoluzione e la prognosi per la loro alta pericolosità. L'infarto non complicato evolve solitamente in circa
40-50 giorni, durante i quali nella zona colpita si forma una vera e propria cicatrice. L'estensione della
lesione e la modalità del decorso, complicato o meno, condizionano l'efficienza futura del soggetto
colpito.
Cosa fare?
Ogni sintomo che segnali l'inizio di un infarto impone l'immediata consultazione del medico. Se il
medico non è rintracciabile, chiamare un' ambulanza e raggiungere immediatamente il pronto soccorso
dell'ospedale più vicino.
TERAPIA
le cure mediche (nuovi farmaci, conosciuti con il nome di trombolitici, permettono oggi di sciogliere
rapidamente i grumi di sangue all'origine della maggior parte degli infarti),
la dilatazione con palloncino delle coronarie stenotiche (angioplastica coronarica),
la chirurgia del bypass aorto-coronarico.
La gestione della prima fase è critica: molte volte bisogna far fronte ad un arresto cardiaco e si deve
cercare di limitare al più presto l'entità dell'infarto.
La prima tappa consiste nell'alleviare il dolore (farmaci come gli oppiacei possono però causare
bradicardia ed ipotensione); dopodiché, il paziente deve essere ricoverato in terapia intensiva per far
fronte al rischio di morte improvvisa (dovuta al sopraggiungere di gravi aritmie) con un rigoroso
monitoraggio.
Le limitazioni del movimento dipendono dalla gravità dell'infarto: in casi lievi, il paziente può lasciare il
letto entro 1-2 giorni ed essere rapidamente mobilizzato; in casi più gravi o aggravati da complicanze, il
tutto è necessariamente più lento.
Se insorgono complicanze la relativa terapia viene aggiunta a quella in corso e adattata caso per caso e si
può dire anche momento per momento.
Nel caso di aritmie minacciose per la vita si provvede alla defibrillazione, in cui mediante una scossa
elettrica si cerca di arrestare la fibrillazione del cuore, la somministrazione di farmaci beta bloccanti,
per contrastare il danno al muscolo cardiaco e antiaritmici per regolarizzare il battito.
La terapia va attuata il più velocemente possibile; è possibile che il paziente riferisca di essere un
portatore di angina pectoris, per cui abbia già ingerito compresse di nitroglicerina, come ad ogni episodio
di angor e di essersi recato in pronto soccorso in seguito ad una persistenza del dolore.
È sempre fondamentale misurare la pressione arteriosa, per poter decidere in modo più oculato
sull’utilizzo di farmaci emodinamicamente attivi.
1. terapia trombolitica,
2. terapia anticoagulante,
3. terapia antiaggregante,
4. b-bloccanti,
5. ACE-inibitori,
6. antiaritmici.
7. nitroderivati,
8. terapia chirurgica.
I farmaci in genere utilizzati sono i seguenti:
a) terapia trombolitica: è la terapia elettiva, con una riduzione del tasso di mortalità del 20%. Tuttavia,
bisogna soppesarne rischi e vantaggi: in genere, la sua utilità è direttamente proporzionale all'entità
dell'infarto. Ne beneficiano in particolare i pazienti con elevazione del segmento ST e blocco di branca
sinistro. I vantaggi dei trombolitici diminuiscono rapidamente col passare del tempo, sicché essi vanno
somministrati al più presto, entro 6, al massimo 12 ore. La principale complicanza è il rischio d'emorragia
(specie cerebrale), che può essere fatale: precedenti di questo tipo, così come di emorragia
gastrointestinale, vanno ritenuti gravi controindicazioni. Tre sono i principali agenti trombolitici:
streptochinasi; attivatore del plasminogeno tissutale (rtPA) e urochinasi;
b) terapia anticoagulante: si ricorre all'eparina sottocutanea od endovenosa in alcuni casi specifici (per
impedire la reocclusione, la trombosi venosa profonda in pazienti con complicanze o immobilizzati, la
tromboembolia in pazienti con fibrillazione atriale o formazione di aneurisma);
c) aspirina: riduce di circa il 20% il tasso di mortalità, con vantaggi che si sommano a quelli della terapia
trombolitica; è adatta in caso sia di infarto del miocardio che di angina instabile. La dose iniziale, da
utilizzare in pazienti che non assumono già terapia cronica con acido acetilsalicilico, è di 325 mg x os in 1
somministrazione; si prosegue poi con 75 mg, sempre per via orale, dose che è già nota ai pazienti in
terapia cronica perché coronaropatici noti prima dell’evento ischemico maggiore;
f) Diltiazem: può ridurre l' incidenza di angina postinfartuale e reinfarto nell' IMA non-Q. Nell' IMA
non-Q in assenza di disfunzione ventricolare sinistra, dopo le prime 24 ore si somministra alla dose di 90
mg ogni 6 ore per un anno. I calcioantagonisti erano un cardine nella terapia dell’ischemia miocardica.
Attualmente, il TRENT study, il VAMI eil DAVIT III study ed altri trials hanno dimostrato che i calcio-
antagonisti, maggiormente la nifedipina, possono aumentare la mortalità se somministrati a pazienti con
IMA. Probabilmente, questo effetto è dovuto ad un effetto di vasodilatazione coronaria, con
sbilanciamento delle pressioni di perfusione ed aggravamento dell’ischemia; esistono anche altre ipotesi:
alterazione della contrattilità (isotropi positivi) e effetto tachicardizzante (cronotropi positivi) con
aumento del consumo miocardico di ossigeno.
Permette di ristabilire meccanicamente la pervietà della coronaria responsabile dell' IMA, così da
interrompe l' infarto, ridurre l' area di necrosi, migliorare la funzione sistolica del VS, e aumentare la
sopravvivenza. Richiede la pronta disponibilità di un' equipe cardiochirurgica per un eventuale bypass
aortocoronarico d' emergenza. Rappresenta un'alternativa alla terapia trombolitica. È inidicata in:
pazienti da trombolisare con controindicazioni alla trombolisi, pazienti trombolisati che continuano ad
accusare dolore e a presentare alterazioni ECG per inefficacia della trombolisi, pazienti non trombolisati
che sviluppano shock cardiogeno entro 6 ore dall' insorgenza dei sintomi. La ricanalizzazione meccanica
mediante PTCA è in grado di ottenere una riapertura del vaso in oltre il 90% dei pazienti se eseguita in
tempi rapidi (entro 60-90 min dall' arrivo del paziente nel Dipartimento Emergenza Urgenza e dalla
diagnosi di IMA).
Chirurgicamente si rivascolarizza la coronaria responsabile dell' IMA a valle dell' ostruzione così da
interrompere l' infarto, ridurre l' area di necrosi, migliorare la funzione sistolica del VS e aumentare la
sopravvivenza. È indicato in: pazienti da trombolisare con controindicazioni alla trombolisi ed alla PTCA e
con anatomia favorevole alla chirurgia con IMA insorto da non più di 6 ore, pazienti sottoposti a PTCA
fallita con persistenza di dolore e/o instabilità emodinamica con anatomia favorevole alla CABG, angina
persistente o ricorrente refrattaria alla terapia medica con controindicazioni alla PTCA e anatomia
favorevole alla chirurgia, shock cardiogeno e anatomia coronarica non suscettibile di PTCA ma favorevole
al bypass entro 6 ore dall' insorgenza dell' IMA. Può essere indicato al momento della riparazione
chirurgica di una complicanza meccanica con instabilità emodinamica (rottura di un muscolo papillare,
perforazione del setto interventricolare).
QUAL È LA PROGNOSI?
Il tasso di mortalità naturale, esclusi i decessi immediati, si aggira sul 15-30%, ridotto al 10% in caso di
ricovero ospedaliero. Esso aumenta bruscamente con l'età, è superiore per le donne ed in caso di recidiva;
è più elevato nelle prime ore per poi decrescere rapidamente. Il 60% dei decessi entro le quattro
settimane avviene nei primi due giorni, quando si possono manifestare aritmie improvvise. Lo shock
cardiogeno ha un tasso di mortalità dell'80-90%; lo sviluppo di aritmie rende la prognosi infausta, così
come eventi tardivi (recidiva, rottura di cuore ed embolia polmonare).
CLASSIFICAZIONE DI KILLIP
(correla il grado di scompenso del Ventricolo Sinistro secondario ad IMA con la mortalità ospedaliera)
Un tempestivo riconoscimento del quadro patologico e una pronta messa in opera delle manovre
rianimatorie appropriate fino al trasferimento in ospedale sono molto fattori essenziali per riuscire a
superare il momento dell'infarto.
Tra gli effetti dell'infarto sono i blocchi atriali o ventricolari, la fibrillazione (contrazione anomala del
muscolo cardiaco con modifica della frequenza) e la tachicardia.
Cosa succede nella zona del cuore in cui le cellule sono morte?
In alcuni casi di infarto la porzione di parete del muscolo cardiaco non più contrattile, cicatriziale ed
assottigliata, protrude durante la contrazione (in sistole), dando luogo a quello che si
definisce aneurisma ventricolare. Questa, comunque è una conseguenza abbastanza rara dell'infarto;
generalmente, invece, l'assottigliamento della zona infartuata, pur senza dar luogo all'aneurisma, finisce
col provocare un'alterazione più o meno grave della geometria ventricolare, che risponde a precise e
rigorose leggi fisiche, ed un deterioramento della funzione meccanica della pompa.
E' intuitivo che le conseguenze "meccaniche" dell'infarto saranno tanto più gravi quanto più estesa è la
zona assottigliata e non contrattile; generalmente, si ritiene che l'infarto sia più o meno grave in
relazione alla sede (anteriore, o posteriore o inferiore). Tradizionalmente si ritiene che l'infarto
posteriore o inferiore sia meno grave di quello anteriore; questo potrà anche essere vero, ma la cosa più
importante nel determinare la prognosi sia immediata sia a distanza dell'infarto non è tanto la sua sede,
quanto la sua estensione. È meglio, quindi, sotto questo aspetto, distinguere infarti piccoli e circoscritti
da infarti estesi. Inoltre, i danni meccanici prodotti da un eventuale secondo infarto, soprattutto se
questo interessa una zona diversa dal precedente, si sommano a quelli provocati dal primo.
CARATTERISTICHE
STADIO
DELL’ECG
Stadio 0
Ø Onde T alte ed aguzze;
(stadio dell’onda T da ipossia)
Stadio 1
Ø Sopraslivellamento dell’ST;
(stadio ST)
Ø Segmento ST ancora leggermente sopraslivellato;
Stadio 1-2
Ø Onda T negative in fase teminale;
Ø Negativizzazione dell’onda T;
Stadio 2
Ø Onde Q > 0.03‘’ e più profonde di ¼ della successiva
(stadio T)
onda R;
Ø ST isoelettrico;
Mortalità Mortalità
DERIVAZIONI
ARTERIA COINVOLTA a 30gg
INTERESSATE
ad 1 anno
Ramo interventricolare anteriore
Antero-apicale V3, V4, I, aVL 19.6% 25.6%
della coronaria sinistra
Rami della branca
Antero-settale interventricolare anteriore della V1,V2,V3 9.26% 12.4%
coronaria sinistra
Laterale Ramo circonflesso della coronaria V5,V6,V7,I,aVL 6.4% 8.4%
sinistra
Inferiore - diaframmatico Coronaria destra II, III, aVF
Coronaria destra o ramo
Infero-laterale circonflesso della coronaria V5,V6,V7,II,III,aVF
sinistra
4.5% 6.7%
Ramo circonflesso della coronaria modificazioni speculari
Posteriore
sinistra in V1,V2 e V3
Ramo circonflesso della coronaria
Postero-laterale V7,V8,V9
sinistra
a) Turbe della frequenza, del ritmo e della conduzione : si sviluppano nel 95% dei casi. Vi si annoverano le
più gravi, le aritmie ventricolari (battiti ectopici ventricolari; tachicardia ventricolare, che può
compromettere l'equilibro emodinamico e tramutarsi in fibrillazione ventricolare; fibrillazione
ventricolare, la principale causa di morte improvvisa nell'8-10% dei pazienti ricoverati, trattata col
defibrillatore e le manovre di rianimazione cardiopolmonare); le aritmie atriali (fibrillazione atriale e
flutter atriale), che indicano in genere una significativa disfunzione ventricolare ed una prognosi
infausta; le bradiaritmie (bradicardia sinusale, comune nella prima fase di infarti inferiori e posteriori,
specie per la risposta vagale al dolore; bradicardia nodale, spesso legata alla riperfusione; blocco
cardiaco, specie nell'infarto inferiore, dovuto al fatto che la coronaria destra rifornisce il nodo
atrioventricolare (il blocco completo è legato all'infarto massivo ed ha prognosi infausta); i blocchi di
branca (bi- o trifascicolare), anch'essi con prognosi infausta.
b) Insufficienza cardiaca: può essere insufficienza sinistra (si sviluppa entro 48 ore in un terzo dei
pazienti) o destra, specie in infarti inferiori e posteriori. I pazienti tendono ad avere una bassa portata
cardiaca o uno shock cardiogeno con un polso giugulare elevato, mentre gli altri sintomi tipici (edema delle
caviglie ed epatomegalia) si sviluppano successivamente.
c) Shock cardiogeno: nella fase iniziale, il paziente è pallido, affaticato ed ipoteso: questo quadro è
dovuto spesso al dolore e non va confuso con quello dello shock cardiogenico, che presenta le
caratteristiche dell'ipotensione, con estremità fredde e cianotiche, sudore e torpore mentale; esso dura
almeno mezzora o si deteriora rapidamente sino a che la pressione non può più essere rilevata, con un calo
della portata cardiaca, oliguria, ipossia ed acidosi. L'insufficienza cardiaca e l'aritmia si associano spesso
a questo quadro, con un tasso di mortalità dell'80-90%: è una situazione legata ad infarti massivi, ove è
colpito oltre il 40% della parete ventricolare. Le cause scatenanti possono essere anche:
- infarto del ventricolo destro (con bassa pressione arteriosa sistemica e polmonare),
- lesioni eventuali.
- ipotesi,
- ipotesi con edema polmonare, il gruppo più a rischio, ove si cerca di migliorare la funzione ventricolare
sinistra riducendo l'afterload con i vasodilatatori ed aumentando la contrattilità con farmaci inotropi. E'
importante non sovraccaricare la circolazione né abbassare troppo la pressione di riempimento del
ventricolo sinistro, mantenendo la pressione arteriosa polmonare fra i 15 e i 20 mm/HG.
f) Complicanze varie: possono essere l'embolia o l'infarto polmonare (spesso a causa di una lunga
immobilizzazione), l'embolia arteriosa sistemica (spesso l'esito è l'emiplegia o l'occlusione di un'arteria),
gli eventi cerebrovascolari.
Complicanze tardive
La compromissione ventricolare può essere aggravata dal rimodellamento ventricolare, che avviene
nelle settimane e nei mesi post-infartuali, con l'espansione e l'assottigliamento della zona colpita. Ciò
porta ad un incremento del volume ventricolare, che a sua volta accresce la tensione della parete
instaurando un circolo vizioso. Gli ACE-inibitori contribuiscono ad evitare un rimodellamento sfavorevole.
L'instabilità elettrica può poi portare ad una suscettibilità a lungo termine a gravi aritmie ventricolari,
con ritardi della conduzione e circuiti rientranti.
DIMISSIONI
- betabloccanti (riducono la mortalità del 25%, e sono più vantaggiosi nei casi maggiormente a rischio);
- ACE-inibitori (riducono la mortalità a lungo termine, ma si discute sul momento di inizio della terapia più
opportuno);
- aspirina (di provata efficacia nella fase acuta e sub-acuta post-infartuale, è consigliata come terapia a
lungo termine a meno che vi siano controindicazioni).
I dati ad oggi disponibili (in assenza di un valido confronto diretto tra aspirina e anticoagulanti orali regolati sulla base
dell’INR) indicano che nel post-infarto il trattamento con aspirina (da 100 a 325 mg al giorno) rappresenta, in assenza di
controindicazioni specifiche, una scelta terapeutica irrinunciabile in tutti i pazienti con basso o assente rischio
tromboembolico. Il trattamento dovrebbe essere proseguito per almeno tre anni dall’evento o, meglio, sine die. Resta in
sospeso invece l’uso del clopidogrel per questa indicazione.
In tutti i pazienti che presentano un alto rischio tromboembolico (IMA anteriore esteso, ampie zone di disfunzione
ventricolare sinistra, trombosi ventricolare sinistra, in presenza o meno a fibrillazione atriale) l’impiego degli
anticoagulanti orali, mantenendo un INR tra 3 e 4,5 (l’unico validato da trial), rappresenta l’opzione terapeutica di scelta.
Riabilitazione
L'esito a lungo termine quanto al ritorno alle normali attività è spesso deludente, spesso per fattori fisici
ma anche in seguito all'ansia o ad un riabilitazione inadeguata. Nei casi più lievi potrebbe essere utile
svolgere un test di tolleranza allo sforzo 1-2 settimane dopo l'infarto, volto a raggiungere una frequenza
cardiaca sui 120-130. Qualora tale frequenza venga raggiunta senza sintomi cardiaci od una depressione
del segmento ST sull'ECG, le prospettive di un rapido ritorno alla normalità sono buone; i pazienti con un
esito del test meno favorevole richiedono invece una convalescenza più lenta ed un monitoraggio più
rigoroso. Qualora vi siano angina o dispnea, bisogna prestare particolare attenzione alla terapia
farmacologica e prendere in considerazione i trattamenti interventistici. Bisogna inoltre tenere sotto
controllo tutti gli altri fattori di rischio (fumo, ipercolesterolemia, ipertensione e diabete). Il programma
di riabilitazione va sempre adeguato alle esigenze del singolo paziente.
Adeguate regole di vita e il controllo di condizioni predisponenti quali l'ipertensione. il diabete, l'obesità
e i disturbi del metabolismo lipidico, sono in definitiva il mezzo più efficace per combattere l'infarto
miocardico. Nel periodo che segue l'infarto il paziente deve modificare il proprio stile di vita, eliminando
il fumo e assumendo una dieta corretta. Il recupero di una qualità accettabile della vita dipende dalla
tempestività dell'intervento medico e dalla volontà del paziente di abbandonare stili di vita dannosi.
L'aspetto preventivo rappresenta un capitolo molto importante nel quadro delle patologie cardio-
circolatorie.
Infatti è stato ormai accertato da numerosi studi e ricerche che i fattori di rischio sono le condizioni
sulle quali si può agire in modo efficace. Per cui è consigliabile:
- smettere di fumare
- mantenere il peso ideale
- alimentarsi con cibi poveri di grassi animali
- praticare un esercizio fisico regolare e senza eccessi
- mantenere a livelli normali la pressione arteriosa, il colesterolo e la glicemia
CONTRO L'INFARTO: ASPIRINA , CLOPIDOGREL O TUTTI E DUE?
Per me, vecchio abitudinario, era già stata una grande sorpresa apprendere che l'aspirina, amica infallibile
nei giorni di febbre e di raffreddore, è molto efficace nel curare e prevenire l'infarto. Oggi leggo che è stata
scoperta un'altra molecola, il clopidogrel, il cui uso si va diffondendo nonostante il prezzo elevato. Cosa
consigliate?
Renzo F - Carpi
Quella di impiegare l'aspirina nella cura delle malattie di cuore è una storia sorprendente
e curiosa. Il Dr Lawrence Craven, padre atipico della scoperta, era uno di quei medici pratici
che hanno spiccato spirito d'osservazione, una buona dose di curiosità scientifica e una
totale mancanza di conoscenze della metodologia della ricerca. Fu così che, tra il 1948 ed il
1956 il Dr. Craven, libero professionista a Boston, scrisse molti lavori di scarsa risonanzae
ed una lettera confinata sul misconosciuto Mississippi Valley Medical Journal. Craven
raccontava che, tra i suoi pazienti, quelli che facevano uso assiduo dell'aspirina e, ancor più,
coloro che avevano accettato la somministrazione quotidiana di 250-750 mg di aspirina,
mostravano una riduzione cospicua dei casi di infarto miocardico.
I lavori del Dr. Craven mancavano di rigore scientifico, cioè non si avvalevano del
confronto tra il gruppo di coloro che assumevano l'aspirina ed un gruppo di controllo che non
assumesse aspirina, ma rappresentarono ugualmente una tappa storica dato che le
successive ricerche, condotte in piena ortodossia metodologica, dimostrarono la validità
dell'intuizione. Fa spicco, tra tali studi, l'ISIS-2 che, nel 1988, santi la capacità
dell'aspirina di ridurre del 23% la mortalità dopo un infarto. L'assunzione della compressa di
aspirina comporta una spesa giornaliera sulle 150 lire (€ cent 7) .