TRASCRIZIONE (MAGGIO 2015) NON ANCORA CARICATI SUL SITO DELLA S.I.C.
Presentazione
E’ la prima volta che mi accingo a presentare un e-book: debbo confessare che nel farlo provo un sentimento di grandissima soddisfazione. Infatti
questa iniziativa editoriale, fortemente voluta dal prof. Giuseppe Oreto, coordinatore del Comitato per la didattica e la formazione permanente, ha
il pregio di essere l’espressione sintetica dell’identità della nostra Società e del suo principio ispiratore che desidera coniugare tradizione e
innovazione. Quest’opera si inserisce perfettamente tra le attività e i prodotti di una Società Scientifica, quale la Società Italiana di Cardiologia, ad
impronta prevalentemente accademica. Per questo testo rivolto agli studenti di Medicina, sono stati coinvolti pressoché tutti i rappresentanti delle
Cardiologie universitarie: questo approccio consente di fruire di tutta la capacità didattico-metodologica legata all’esperienza della docenza
universitaria. Tale coinvolgimento globale delle componenti universitarie, anche se nuovo perché raramente in passato realizzatosi, rappresenta
tuttavia l’aspetto tradizionale dell’opera. L’aspetto innovativo è proprio la veste editoriale elettronica, che permette, durante la stessa lettura e
studio, un’interazione continua tra docente e discendente.
Le ragioni di quest’opera saranno più in dettaglio descritte nella prefazione del prof. Oreto.
Qui desidero solo sottolineare come il mezzo informatico permette: 1) il continuo costante aggiornamento delle nozioni per rendere pressoché
immediato il trasferimento sul piano didattico delle ultime novità della ricerca; 2) la “navigazione”, grazie all’impostazione ipertestuale con link ad
immagini (anche in movimento) e a documenti che contribuiscono all’apprendimento; 3) meccanismi di autovalutazione al termine di ogni capitolo
con cui lo studente può continuamente confrontarsi e 4) meccanismi di valutazione della bontà del prodotto didattico utilizzabili in ambito
prettamente pedagogico per migliorare i contenuti e le metodologie di insegnamento.
Come accennavo all’inizio, questo e-book è l’espressione dell’Università che si aggiorna nelle sue modalità didattiche, per essere sempre più vicina
agli studenti e sempre più efficace nei processi formativi, non limitandosi al solo impegno professionalizzante, ma anche al più completo impegno
educativo. La Società Italiana di Cardiologia si fa interprete di tutto ciò e, ribadendo la sua “Mission” accademica, desidera contribuire
all’accelerazione dei processi innovativi che impiegano tecnologie avanzate con uno sguardo attento ai riferimenti tradizionali.
Francesco Fedele
Presidente della
Società Italiana di Cardiologia
Le ragioni di un libro
Questo “Manuale di Malattie Cardiovascolari”, che vede la collaborazione di quasi tutte le Cardiologie Universitarie Italiane, nasce con un
solo intento: fornire agli studenti del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia uno strumento moderno per lo studio della nostra disciplina. I
libri di testo invecchiano in fretta, e non sempre sono scritti “dalla parte dello studente”: l’Autore è, in genere, un profondo conoscitore
dell’argomento, e rischia di svolgere il tema mettendone in risalto tutte le sfaccettature, così che il lettore inesperto finisce per
disorientarsi davanti alle molte nozioni, e non riesce a distinguere ciò che è davvero fondamentale da ciò che, invece, non è strettamente
necessario da apprendere.
Per ovviare alle difficoltà suddette, abbiamo concepito questo e-book, che rappresenta un “work in progress” non solo perché in atto
incompleto per la mancanza di alcune parti, ma anche perché sarà oggetto di continua, quasi quotidiana revisione. Non essendovi il limite
della stampa, ogni Autore potrà rivedere il proprio testo, aggiungendo o eliminando parti, chiarendo concetti, o anche riportando le ultime
novità emerse una settimana prima. Questo processo di costante e progressivo miglioramento sarà anche indirizzato dagli studenti, i quali
saranno chiamati ad esprimere, in maniera anonima, il proprio parere sui diversi Capitoli: gli Autori potranno, perciò, constatare quanto il
loro lavoro venga apprezzato e, se necessario, aggiustare il tiro. Gli studenti potranno, inoltre, porre domande ai docenti, sempre
attraverso il sito della SIC, e ricevere risposte ai loro quesiti.
Un altro “atout” insito nell’e-book è il meccanismo di autovalutazione, che ogni studente potrà utilizzare per verificare il proprio grado di
preparazione ai fini dell’esame, rispondendo a una serie di quesiti a risposta multipla. Questa modalità diverrà operativa tra breve, appena
completata la pubblicazione dei Capitoli: sarà possibile scegliere un test riferito al singolo Capitolo, alla Sezione o a tutta la materia.
Per quanto riguarda il linguaggio e l’aderenza del libro alla finalità prefissata, la Commissione per la Didattica ha provato a leggere e
rileggere più volte i testi “con occhi di studenti”, ed è intervenuta quasi su ogni pagina: lo scopo era ottenere un’opera che riportasse in
modo semplice ed immediato le nozioni essenziali, senza sviscerare l’argomento in tutti i suoi aspetti. Si è privilegiata, cioè, la semplicità a
spese della completezza.
Il mezzo informatico offre una possibilità che il libro tradizionale non consente: la presentazione di immagini in movimento. Nell’e-book si
possono vedere senza alcuna difficoltà ecocardiogrammi, angiografie, procedure diagnostiche e terapeutiche esattamente come si
svolgono nella realtà. Inoltre, i rimandi da un Capitolo all’altro vengono realizzati con modalità ipertestuale: un semplice click permette di
leggere la parte oggetto della citazione.
L’accesso all’e-book viene offerto gratuitamente a tutti gli studenti di Medicina che ne facciano richiesta, oltre che a tutta la Classe Medica.
A partire dal 31 Gennaio 2008, ciascun utente potrà ottenere dalla Segreteria della SIC una password personalizzata, che consentirà di
“navigare” nell’e-book illimitatamente.
La Società Italiana di Cardiologia spera che questo libro inauguri una nuova stagione, al passo coi tempi, della trattatistica finalizzata
all’apprendimento: l’esempio potrebbe essere seguito da altre Società, così che lo studente in Medicina di domani possa utilizzare per il
suo studio strumenti che uniscano i pregi innegabili del libro tradizionale a quelli nuovi, che la carta stampata non può offrire ma il mondo
dell’informatica si.
Giuseppe Oreto
Coordinatore della Commissione
per la Didattica della SIC
Sezione X. Aritmie
Capitolo 36. Definizione e Meccanismi delle Aritmie, Giuseppe Oreto, Marco Cerrito
Capitolo 37. Battiti Ectopici, Francesco Luzza, Scipione Carerj, Sebastiano Coglitore
Capitolo 38. Tachicardie Parossistiche Sopraventricolari, Rossella Troccoli, Matteo Di Biase
Capitolo 39. Fibrillazione e Flutter Atriale, Antonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino, Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita
Capitolo 40. Tachicardie Ventricolari, Stefano Favale, Pierangelo Basso, Franceso Capestro, Valentina D’Andria, Annalisa Fiorella
Capitolo 41. Bradicardie, Francesco Arrigo, Giuseppe Andò
Sezione XVII. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Terapia Medica e Interventistica
- Capitolo 58. Elementi di Farmacologia Cardiovascolare, capitolo non presente
- Capitolo 59. Interventistica Coronarica, capitolo non presente
- Capitolo 60. Interventistica Non Coronarica, capitolo non presente
- Capitolo 61. Interventistica Elettrofisiologica, capitolo non presente
Capitolo 1
I SINTOMI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Mario Mariani
DEFINIZIONE
Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e
mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il
miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle
patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono,
per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico,
come il Giappone.
Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine
ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle
malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause
principali di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato
cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte.
Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza
determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato”
dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi.
LA DISPNEA
Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può
insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue
manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi
più avanti).
Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo
polmonare da parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della
pressione diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari
polmonari e nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari
provoca trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli
alveoli (edema alveolare).
La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una patologia che può
coinvolgere l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la dispnea cardiaca è uno dei sintomi più
significativi insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di
gravità di uno scompenso.
Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.),
utile per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla insorgenza della dispnea per sforzi sempre
più lievi o addirittura a riposo. Essa è così strutturata:
Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna limitazione della propria
attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità, né dolore anginoso.
Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa limitazione dell’attività
fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni
o dolore anginoso) per una attività fisica usuale.
Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata limitazione dell’attività fisica.
Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a
quella usuale.
Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di effettuare qualsiasi attività
fisica senza presentare i disturbi sopra indicati, che possono essere presenti anche in condizioni di riposo.
La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema polmonare acuto, che si
realizza quando la pressione all’interno dei capillari polmonari supera il valore della pressione colloido-
osmotica. Nel capillare, infatti, agiscono due forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far
fuoriuscire il liquido dal vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a
trattenere il liquido all’interno; il valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la pressione idrostatica nei
capillari polmonari supera tale valore, è inevitabile una ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture
microvascolari, ad alcuni globuli rossi. Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio, da
dove il sistema linfatico cerca di rimuoverlo; successivamente, quando la capacità di drenaggio del sistema
linfatico viene superata, il fluido invade gli alveoli polmonari, e mescolandosi all’aria forma una schiuma,
talora rosata, che invade le vie aeree ed interferisce gravemente con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto
da poter portare a morte. All’ascoltazione del torace, in questa situazione drammatica, quando dalla fase
interstiziale si passa a quella alveolare, si assiste alla comparsa di rantoli prima a piccole poi a grosse bolle,
che iniziano dalle basi polmonari e giungono rapidamente a coprire l’intero distretto respiratorio. Il
soggetto è in posizione eretta e mette in funzione tutti i muscoli respiratori accessori nella disperata ricerca
di riuscire ad effettuare atti respiratori utili.
L’ASTENIA
E’ l’espressione di una ridotta portata cardiaca e si manifesta con la difficoltà a compiere le usuali attività
motorie (adinamia) o addirittura con un grave senso di spossatezza ancor prima di iniziare una qualunque
attività fisica.
IL DOLORE TORACICO
giugulo. Più raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o l’epigastrio. Il dolore
cessa usualmente dopo poco la cessazione dello sforzo e recede rapidamente con l’assunzione di
nitroderivati. Nell’infarto miocardico acuto, il dolore con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere
ben oltre i pochi minuti e può durare addirittura diverse ore.
Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris, sindromi coronariche
acute) ma può essere indicativo di numerose altre patologie cardiovascolari quali la pericardite, la
dissezione aortica, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di
altri organi e sistemi, come lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o
flogistico) di nervi intercostali.
LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO
La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del cuore, infatti, decorre in
maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte, per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di
cardiopalmo: quello tachicardico, in cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello
extrasistolico, caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la “sensazione del
cuore che si ferma” (vedi Capitolo 33). Anche se in condizioni di impegno fisico od emozionale è frequente
sentire il proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la perdita di ritmicità è un fenomeno che
difficilmente sfugge. Talora tale sintomo viene vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso
di extrasistolia isolata o sporadica.
L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico, o al contrario
estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la fibrillazione ventricolare o l’asistolia,
possono portare a morte senza alcun sintomo premonitore, ma è innegabile che talora “salve di
extrasistoli” o brevi episodi di tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria
asistolia, possono risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere trattati con pacemaker o
defibrillatore, evitando eventi gravi o fatali.
LA SINCOPE
LA NICTURIA
E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione della diuresi durante
il giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il fenomeno può essere dovuto al
riassorbimento notturno degli edemi soprattutto declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta
nel paziente con scompenso cardiaco congestizio, o anche perchè durante il riposo notturno il fabbisogno
di sangue da parte dei muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata cardiaca può
giungere al rene, il quale aumenta la produzione di urina.
Capitolo 2
I SEGNI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Mario Mariani
CONCETTI GENERALI
Nei pazienti con Malattie dell’apparato cardiovascolare, i segni rilevabili all’esame clinico costituiscono
ancora oggi un importante capitolo perché tutte le innovazioni tecnologiche, che hanno apportato un
grande progresso nell’inquadramento diagnostico e nella terapia, trovano una loro logica applicazione solo
sulla base di una corretta valutazione dei segni peculiari di ogni forma di cardiopatia.
I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono rilevabili con un accurato
esame obiettivo che trova i suoi capisaldi nei presìdi offerti dalla classica Semeiotica fisica: Ispezione,
Palpazione, Percussione, Ascoltazione.
Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica Cardiovascolare,
grazie ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la determinazione delle dimensioni
cardiache. Gli altri tre capisaldi semeiologici (Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto
quest’ultima) conservano la loro validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche
diagnostiche strumentali.
I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato cardiovascolare mediante
le seguenti manovre:
1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi.
2) L’osservazione del polso venoso giugulare.
3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso.
4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale.
5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di pulsazioni abnormi.
6) La ricerca di eventuali edemi declivi.
7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di soffi o sfregamenti.
CIANOSI
Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili quando il contenuto di
emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 grammi per decilitro.
La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla presenza di uno shunt
destro-sinistro o a gravi difetti della funzione respiratoria.
La cianosi periferica si realizza quando, a causa di una vasocostrizione in alcuni distretti circolatori, si
determina una desaturazione locale, con aumento dell’emoglobina ridotta in quelle zone. La cianosi
periferica può evidenziarsi, fra l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle
resistenze periferiche.
Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta, reclinato a 45°
(rispetto ai 90° normali per la posizione seduta).
Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive sono denominate
onde a, c ev, mentre le depressioni sono denominate x e y. Un’attenta osservazione del polso venoso
giugulare, può fornire precise indicazioni circa la funzione delle camere destre del cuore.
Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in atrio destro (Stenosi
tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione diastolica ventricolare destra, come si verifica nella
Miocardiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi Capitolo 32).
Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale.
Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio l’eccessiva
pulsazione delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza aortica o di altre situazioni di
circolo ipercinetico). Conl’ascoltazione possono evidenziarsi soffi vascolari. La manovra semeiologica più
utilizzata per l’esplorazione del polso arterioso è la palpazione, con la quale si possono valutare:
a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto;
b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni;
c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa, carattere che è
direttamente correlato alla gittata sistolica;
d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per sopprimere la pulsazione,
espressione anche del livello pressorio;
e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai due lati
dell’organismo (per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc).
Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare indicativi di particolari
situazioni morbose. Ecco alcuni esempi.
A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra nella stenosi aortica (vedi
Capitolo 16).
B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) è presente nell’insufficienza aortica (vedi Capitolo 17) o
negli stati circolatori ipercinetici;.
C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza nettamente ridotte) è
tipico dello shock (vedi Capitolo 22).
D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione durante una inspirazione
profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di
mercurio, mentre in presenza di pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione
del riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio.
L’ispezione e la palpazione possono consentire di localizzare l’itto della punta del cuore, cioè la sede della
massima pulsazione visibile o palpabile, che normalmente si trova al quarto spazio intercostale sinistro circa
1 centimetro all’interno della linea emiclaveare. In condizioni patologiche, l’itto della punta può essere
dislocato anche in sedi molto diverse dal normale: nell’insufficienza aortica grave, per esempio, può essere
spostato in basso e a sinistra fino al sesto spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore o anche media.
Possono essere apprezzabili alla palpazione della zona precordiale fremiti, i quali costituiscono il
corrispettivo palpatorio dei soffi particolarmente intensi (4/6 o più della scala Levine, vedi più avanti) o (più
di rado) degli sfregamenti pericardici in corso di pericardite.
Epatomegalia è presente nelle forme di scompenso che coinvolgono il cuore destro primitivamente o
secondariamente a difetti interessanti inizialmente il cuore sinistro (per esempio valvulopatie mitraliche
e/o aortiche). E’ apprezzabile con le comuni manovre palpatorie l’aumento di volume dell’organo che può
sporgere per oltre due, tre dita traverse o più dall’arcata costale. In genere l’organo palpato risulta dolente.
Alla palpazione dell'addome si possono apprezzare pulsazioni abnormi riferibili alla presenza di aneurismi
dell'Aorta addominale.
EDEMI DECLIVI
Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali, etc.) nei soggetti che
rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti costretti a letto gli edemi sono più evidenti nella
regione pre-sacrale. Quando si ha un imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si
accompagnano anche a versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.).
L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore, ed è basata
sull’analisi dei toni e sul riconoscimento di eventuali soffi.
I Toni
I toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di patologia nei bambini o in
giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile.
Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari, mentre il II si deve alla
chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1).
Il I tono può risultare rinforzato in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di stenosi della valvola
tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza mitralica.
Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella maggior parte dei casi
sono così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la chiusura della valvola aortica precede di poco
quella della polmonare (Figura 1).
Figura 1 I e II tono cardiaco. A2 = componente aortica del II tono. P2 = componente polmonare del II tono.
A volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono possono essere ascoltate
distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato. Tale sdoppiamento, però, e variabile con le
fasi del respiro: A2 e P2 appaiono separate solo durante l’inspirazione, mentre nella fase espiratoria sono
Figura 2 A: sdoppiamento variabile del II tono legato alle fasi del respiro.
B: Sdoppiamento paradosso del II tono in presenza di blocco di branca sinistra. A2 = componente aortica
del II tono. P2 = componente polmonare del II tono
Ciò dipende dal fatto che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per l’incremento della vis a fronte: il
ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente prolungata, tanto da ritardare la
chiusura della valvola polmonare; con l’espirazione, invece, questo fenomeno non è più presente, e la
chiusura delle due valvole semilunari è presso a poco simultanea.
Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso (Figura 3) in presenza di un difetto del setto interatriale, che
comporta uno shunt sinistro-destro (vedi Capitolo 51).
Figura 3 Sdoppiamento fisso del II tono nel difetto del setto interatriale.
In questa situazione la gittata del ventricolo destro è sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato
ritorno venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt attraverso il setto interatriale.
Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si avvertono le due componenti
separate in espirazione mentre il tono appare unico durante l’inspirazione (Figura 2B).
Questo fenomeno è principalmente causato da un eccessivo ritardo di A2. come accade in caso di blocco di
branca sinistra (vedi Capitolo 3) o stenosi aortica grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la
chiusura della valvola aortica è ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la
polmonare a chiudersi prima. Quando, durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico ritardo della chiusura
della polmonare, legato all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2 diventano simultanee, mentre in espirazione
non vi è il ritardo di P2, per cui il II tono appare sdoppiato.
Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori sistemici nella sua
componente aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione polmonare, nella sua componente polmonare
(P2). In queste condizioni, il livello della pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del
normale, per cui le vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie.
Il III tono (Figura 4) corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e può risultare
ben evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in presenza di disfunzione ventricolare,
come nello scompenso cardiaco.
Figura 4 Oltre al I e al II tono, vengono rappresentati il III tono (protodiastolico) e il IV tono (presistolico o
telediastolico).
Normalmente il III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica particolarmente
sottile.
Il IV tono (Figura 4) corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle vibrazioni
provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel ventricolo. Normalmente questo
fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, a bassa
frequenza, sono quasi in continuità con quelle, a frequenza ben più alta, del I tono, sia perché la loro
ampiezza è molto bassa. Vi sono essenzialmente due condizioni che favorisono l’ascoltazione del IV tono: il
blocco A-V di I grado e la ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo caso si allunga l’intervallo P-R (vedi
Capitolo 40), per cui la sistole atriale non è seguita da quella ventricolare immediatamente, ma dopo un
tempo più lungo del normale, per cui in IV tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta
distensibilità delle pareti ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva, fa
sì che aumenti l’ampiezza delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel ventricolo.
Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza cardiaca, si può generare un
ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la
frequenza cardiaca è aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione.
I Toni aggiunti
A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i seguenti toni aggiunti.
1) I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico (Figura 5) (vedi Capitolo 15) e i click eiettivi
aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare.
2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al momento dell’apertura di
una valvola stenotica. Normalmente non si generano vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma
quando queste divengono stenotiche la loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto
appunto schiocco d’apertura (Figura 6).
Figura 6 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. Il I tono è di intensità aumentata, e dopo il secondo
tono compare lo schiocco d’apertura della mitrale (SAM) seguito dal soffio diastolico (SD)
I Soffi
Un soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e può essere ascoltato
col fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del
sangue dovrebbe essere laminare (in base al numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la
turbolenza marcata del flusso, tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari
motivi, inclusa la stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un ostacolo
anormale al flusso, come per esempio quello rappresentato da una valvola stenotica; b) un flusso non
fisiologico, come per esempio quello che si genera nel difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un
flusso “innaturale” del sangue da un ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata
quantità del flusso, come si verifica per esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di stenosi
valvolare, si può ascoltare sul focolaio aortico un soffio sistolico quando la gittata sistolica ventricolare
sinistra è notevolmente aumentata (vedi Capitolo 17).
I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo cardiaco in cui si ascoltano),
al timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla irradiazione.
Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi ultimi occupano tutto il
ciclo cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due fasi. All’interno delle categorie dei soffi
sistolici e diastolici, poi, se ne trovano alcuni che occupano tutta la sistole (soffio olosistolico) o tutta la
diastole (soffio olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto, meso o
tele (protosistolici, protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte iniziale della fase (sistole o
diastole) in cui si ascoltano, oppure la parte intermedia o quella finale.
Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando termini
come dolce, rude, aspro,aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso quello di “rullio” per indicare il
soffio diastolico della stenosi mitralica, che viene assimilato a un rullio di tamburi.
La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha la massima intensità. I
quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono quello mitralico (alla punta del
cuore), tricuspidalico (all’incirca alla base dell’apofisi ensiforme), aortico (sulla margino-sternale destra, al
secondo spazio intercostale) e polmonare (sulla margino-sternale sinistra, al secondo spazio intercostale).
L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile ascoltarlo bene. E’
caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza mitralica e l’irradiazione al giugulo del
soffio della stenosi aortica.
L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a 6 gradini proposta da
Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio è molto intenso, le vibrazioni generate
dalla turbolenza del flusso si possono non solo ascoltare, ma anche palpare come fremiti, appoggiando la
mano sul precordio.
1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il cuore con grande
attenzione
2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole
3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito
4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito
5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il
fonendoscopio a 1 cm dalla cute
6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si
solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute
I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Questa distinzione ha molta
importanza da un punto di vista clinico perché mentre i soffi eiettivi possono essere sia organici,
determinati cioè da una lesione anatomica (per esempio, una stenosi valvolare aortica), che funzionali,
legati a motivi differenti da un’alterazione strutturale (per esempio, un’aumentata velocità del flusso), i
soffi da rigurgito sono sempre organici, espressione di un’alterazione anatomica.
I soffi eiettivi (Figura 7) iniziano a una certa, anche se breve, distanza dal I tono. Prendiamo come esempio
il soffio eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo sinistro si contrae e fa chiudere la
valvola mitrale, dando origine al I tono; in questa fase, che prende il nome
di contrazione isometrica (o isovolumetrica) l’eiezione del sangue dal ventricolo non è ancora iniziata.
Solo quando la pressione endoventricolare cresce e supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in
condizioni normali) la valvola aortica si apre e ha inizio il flusso attraverso la valvola e con esso il soffio,
assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò, inizierà a una certa distanza dal I tono,
non simultaneamente ad esso.
Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica (Figura 8).
Figura 8 Soffio sistolico da rigurgito nell’insufficienza mitralica. In B è anche presente il III tono
Questo inizia senza alcun ritardo rispetto al I tono, ma contemporaneamente ad esso; infatti appena la
valvola mitrale si chiude e si genera il I tono inizia il rigurgito di sangue in atrio sinistro, ben prima che la
pressione intraventricolare aumenti al di sopra di quella aortica e la valvola aortica si apra. In definitiva, il
soffio sistolico da rigurgito inizia attaccato al I tono, mentre il soffio sistolico eiettivo è staccato dal I tono.
I soffi sistolici da eiezione hanno in generale la caratteristica di essere in crescendo-decrescendo,
assumendo una morfologia “a diamante” (Figura 7), mentre i soffi da rigurgito hanno un aspetto “a nastro”
conservando la stessa intensità per tutta la loro durata.
I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza tricuspidale, del difetto
del setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere organici, legati alla stenosi aortica (Capitolo 16) o
alla stenosi polmonare (Capitolo 18), ma possono anche essere soltanto di natura funzionale, espressione
di una stenosi relativa, dovuti non a riduzione dell’ostio valvolare, ma semplicemente ad aumento del
flusso con un’area valvolare normale.
I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico della stenosi mitralica
(Figura 6) (Capitolo 14), quello della stenosi tricuspidalica (Capitolo 18), il soffio dell’insufficienza aortica
(Figura 9) (Capitolo 17) e quello dell’insufficienza polmonare (Capitolo 18).
I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo arterioso e quello venoso, con
shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco. Il prototipo del soffio continuo è quello generato
dalla pervietà del dotto arterioso di Botallo (Figura 10) (Capitolo 51), che si ascolta in sede sottoclaveare
sinistra.
Figura 10 Soffio continuo nella pervietà del dotto arterioso. Il soffio copre tutto il ciclo cardiaco (sistole e
diastole) ed ha il suo acme il corrispondenza del II tono.
Gli Sfregamenti
Relativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni soggetti affetti da
pericardite (Capitolo 32). Normalmente i foglietti pericardici viscerale e parietale sono lisci e scorrono l’uno
sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi,
genera gli sfregamenti, che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole.
Capitolo 3
L’ELETTROCARDIOGRAMMA
Giuseppe Oreto, Francesco Luzza, Maria Pia Calabrò
Le fibrocellule miocardiche sono polarizzate in condizioni di riposo, cioè possiedono una elettronegatività
sulla faccia interna della membrana cellulare, mentre la faccia esterna è carica positivamente. Per contrarsi,
ogni cellula deve prima essere depolarizzata, cioè attivata elettricamente: durante la depolarizzazione
s’inverte la polarità della membrana, la cui faccia interna diviene carica positivamente. Completatasi la
depolarizzazione, la cellula ritorna allo stato iniziale: si realizza quindi la ripolarizzazione, al termine della
quale la cellula diviene nuovamente eccitabile, cioè può andare incontro a una nuova depolarizzazione. I
processi elettrici delle fibrocellule miocardiche si realizzano mediante il movimento di ioni (particelle
cariche elettricamente) i quali attraversano la membrana passando attraverso specifici canali.
LE ONDE DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA
L’Elettrocardiogramma (ECG) è una registrazione grafica dell’attività elettrica del cuore, ed è formato da
diverse onde, le quali si ripetono, normalmente con lo stesso ordine, in ogni ciclo cardiaco, e vengono
denominate P, Q, R, S, T ed U (Figura 1).
Non necessariamente sono presenti tutte le onde, poiché anche in condizioni fisiologiche una o più di esse
possono non essere evidenti o mancare. Nella Figura 1B per esempio, dopo la P compaiono le onde Q ed R
ma non la S.
L’onda P corrisponde alla depolarizzazione atriale, mentre le onde Q, R ed S sono l’espressione
della depolarizzazioneventricolare; l’onda T rappresenta la ripolarizzazione ventricolare. Il significato
dell’onda U è meno chiaro, e la sua genesi è ancora discussa. Fra un ciclo cardiaco e l’altro (cioè fra una
serie di onde PQRSTU e la successiva) vi è generalmente una fase più o meno lunga in cui il cuore è
elettricamente silente, cioè non vi sono onde. In questo periodo l’elettrocardiogramma registra una linea
piatta, detta isoelettrica.
Le onde P, T ed U possono essere positive, cioè rivolte in alto (Figura 1A) o negative, cioè rivolte in basso
(Figura 1B); per quanto riguarda il complesso ventricolare (QRS), invece, un’onda positiva è sempre
denominata R, mentre le onde negative si definiscono Q oppure S a seconda che compaiano prima o dopo
un’onda R.
La carta su cui viene registrato il tracciato elettrocardiografico presenta un fine reticolato di linee
ortogonali che formano dei quadrati. Esistono linee spesse, che distano l’una dall’altra 5 mm, e linee sottili,
separate da una distanza di 1 mm; le prime formano quadrati con lati di 5 mm, le seconde quadrati con lati
di 1 mm. Ogni quadrato “grande” contiene perciò 25 quadrati “piccoli” (Figura 2). Le linee servono come
punti di riferimento per misurare sia l’ampiezza (cioè il voltaggio) delle onde che la loro durata. Sull’asse
verticale si misura l’altezza (ampiezza) della deflessione, partendo dall’isoelettrica.
Figura 3 L’onda P, il complesso QRS e l’onda T. Le linee della carta dell’elettrocardiografo consentono di
misurare l’ampiezza (voltaggio) e la durata (secondi) delle diverse onde.
Per esempio, nella Figura 3 l’onda P ha un’altezza di 2 mm, l’onda q di 1 mm, l’onda R di 13 mm, l’onda S di
2 mm e la T di 2,5 mm. Poiché in una registrazione elettrocardiografica standard 10 mm corrispondono a 1
mV, potremo affermare che l’onda P ha un’ampiezza di 0,2 mV, la Q di 0,1 mV, la R di 1,3 mV, etc. Mentre
la dimensione verticale serve per misurare il voltaggio delle onde, quella orizzontale consente di valutare la
durata delle varie deflessioni. Con la velocità tradizionale di scorrimento della carta (25 mm al secondo), un
secondo corrisponde a 5 quadrati grandi o, ciò che è lo stesso, a 25 quadrati piccoli. Di conseguenza, ogni
quadrato grande equivale a 0,2 secondi (200 millisecondi) e ogni quadrato piccolo a 0,04 secondi (40
millisecondi). Proviamo ora a determinare la durata delle varie onde misurandone la larghezza. Nella Figura
3 l’onda P ha una larghezza di 2 quadrati piccoli, per cui la sua durata sarà 0,08 sec (0,04x2); anche il QRS
occupa lo spazio di 2 quadrati piccoli, cioè ha una durata di 0,08 secondi (80 millisecondi). Oltre alla durata
delle varie onde, si misurano anche alcuni intervalli, particolarmente il P-Q (o P-R) e il QT. Nella Figura 3 il P-
Q (dall’inizio della P all’inizio del QRS) misura circa 0,17 secondi e il QT (dall’inizio del QRS alla fine della T)
0,39 secondi.
LE DERIVAZIONI DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA
Precordiali o toraciche
(Figura 5):V1 IV - spazio intercostale dx, sulla marginosternale
V2 IV - spazio intercostale sn, sulla marginosternale
V3 - A metà strada fra V2 e V4
V4 V - spazio intercostale sn, sull’emiclaveare
V5V - spazio intercostale sn, sull’ascellare anteriore
V6 V - spazio intercostale sn, sull’ascellare media
Le prime 6 derivazioni vengono registrate con elettrodi posti sugli arti e vengono perciò dette periferiche (o
derivazioni degli arti), mentre le seconde 6 si ottengono ponendo gli elettrodi sul torace, nella regione
precordiale, da cui il nome di derivazioni precordiali. Inoltre, fra le derivazioni periferiche le prime tre sono
bipolari e le seconde tre unipolari.
Due sono i campi principali di applicazione dell’ECG: da un lato lo studio del ritmo cardiaco e la diagnosi
della aritmie, e dall’altro il riconoscimento di alcune condizioni patologiche del cuore (per esempio, l’infarto
miocardico) che alterano in modo caratteristico l’attività elettrica cardiaca. Mentre per le aritmie, però,
l’ECG è insostituibile e rappresenta la metodica di riferimento, per molte altre condizioni esistono tecniche
più adatte a rivelare il processo patologico, per cui l’ECG passa in secondo piano. Per esempio, l’ipertrofia
miocardica viene definita con maggiore accuratezza dall’Ecocardiografia che dall’ECG poiché la prima è in
grado di valutare la massa miocardica, mentre il secondo può solo indicare le eventuali anomalie elettriche
che l’ipertrofia induce, e quindi rivela questa condizione solo indirettamente.
A parte che per lo studio delle aritmie, l’ECG viene impiegato in clinica per diagnosticare l’ingrandimento
degli atri, l’ipertrofia dei ventricoli, i disturbi di conduzione intraventricolare (blocchi di branca e fascicolari),
l’ischemia miocardica e le sue diverse manifestazioni, alcune disionie, l’effetto di alcuni farmaci sul cuore.
L’ECG è anche molto importante per riconoscere alcune condizioni spesso congenite, a volte su base
genetica, che possono condurre ad aritmie anche letali (Preeccitazione, QT lungo o corto, Fenomeno di
Brugada), e fornisce anche informazioni utili per il riconoscimento di malattie quali la pericardite, le
cardiomiopatie, il cuore polmonare cronico, l’embolia polmonare.
L’ECG rappresenta sotto forma di onde i vettori prodotti dalla depolarizzazione e dalla ripolarizzazione
cardiaca. Il cuore genera, istante per istante, numerose forze elettriche che possono essere espresse da
vettori; la somma di tutti i vettori che compaiono in un determinato momento rappresenta il vettore medio
istantaneo; sommando tutti i vettori medi istantanei che si succedono durante la depolarizzazione
ventricolare si ottiene il vettore medio del QRS o asse del QRS (ÂQRS). La direzione di questo vettore può
essere calcolata nei tre piani dello spazio: piano frontale, piano orizzontale o trasverso, piano sagittale; in
pratica, però, l’ÂQRS viene determinato solo sul piano frontale, e il calcolo della sua direzione è semplice in
base all’analisi delle derivazioni periferiche (derivazioni degli arti). Per questo scopo, possiamo immaginare
la genesi dell’ECG assumendo che in ogni piano il cuore sia il centro di una circonferenza, e che da esso si
originino le forze, espresse come vettori: le varie onde da cui è formato il tracciato elettrocardiografico non
sono altro che le proiezioni dei vettori sui diametri della circonferenza.
Analizziamo solo il piano frontale: ogni derivazione corrisponde a un diametro, con un estremo positivo e
uno negativo. Per descrivere la posizione dei diversi diametri si usa una schematizzazione geometrica, dove
la definizione in gradi identifica l’estremità positiva di ogni derivazione. Il piano frontale presenta le
direzioni alto, basso, sinistra e destra (Figura 6).
Figura 6 La circonferenza rappresenta il piano frontale del cuore. Il punto più a sinistra viene definito 0°,
quello più basso +90°, quello più in alto –90° e quello più a destra +/-180°.
Per convenzione, il punto più a sinistra viene definito 0°, quello più basso +90°, quello più in alto –90° e
quello più a destra ±180°; i vettori diretti nella metà inferiore della circonferenza (in basso) vengono
espressi con segni positivi (per esempio, +70°), mentre i vettori diretti in alto hanno segno negativo (per
esempio, -40°).
Ciascuna derivazione periferica (del piano frontale) ha una sua linea, corrispondente a un diametro della
circonferenza, e viene identificata in base al suo polo positivo (Figura 7).
Figura 7 Le 6 derivazioni del piano frontale (derivazioni periferiche) corrispondono ai diametri di una
circonferenza. Ogni derivazione ha un polo positivo (evidenziato in rosso) e un polo negativo.
Nel nostro approccio semplificato, tuttavia, utilizzeremo solo una coppia di derivazioni ortogonali: I e aVF.
Nell’osservare ogni derivazione, bisogna tenere in considerazione la posizione della linea di derivazione e il
diametro perpendicolare ad essa. Esaminando la I derivazione, la cui linea va da 0° (polo positivo) a ±180°
(polo negativo), osserviamo che il diametro perpendicolare alla linea di derivazione va da –90° a +90°
(Figura 8). La linea della I derivazione può essere divisa in due metà: la parte che va dal centro della
circonferenza al polo positivo è l’emilinea positiva e quella che va dal centro al polo negativo l’emilinea
negativa.
Facciamo ora partire dei vettori dal centro della circonferenza (Figura 9): il vettore A proietterà sulla metà
positiva della linea della derivazione, il vettore B proietterà sull’emilinea negativa, mentre il vettore C è
perpendicolare alla linea e la sua proiezione su di essa sarà un punto. Tradotti in termini di ECG, questi
fenomeni significano che il vettoreA darà luogo ad una deflessione positiva, cioè rivolta verso l’alto, mentre
il vettore B originerà un’onda negativa, diretta in basso, e il vettore C non genererà alcuna onda, visto che
la sua proiezione sulla linea è puntiforme, cioè nulla.
Figura 8 La linea della I derivazione, che ha il polo positivo a 0° e quello negativo a +/-180°, è divisa in due
parti: la metà positiva va dal centro della circonferenza al polo positivo e la metà negativa dal centro al polo
negativo.
L’ampiezza dell’onda sarà direttamente proporzionale alla lunghezza della proiezione del vettore sulla linea
di derivazione. Se noi suddividiamo la linea in unità arbitrarie, ci rendiamo conto che la proiezione del
vettore A misura 5,5 unità e quella del vettore B 3,5 unità. Ciò trova immediato riscontro nel tracciato:
l’onda generata dal vettore A è alta 5,5 mm, mentre quella dovuta al vettore B misura 3,5 mm.
Esprimendoci più correttamente, diremo che l’ampiezza di A è 0.55 mV (millivolt) e quella di B 0.35 mV.
Consideriamo ora il vettore A (Figura 10).
Figura 10 Proiezione del vettore A sulla linea della I derivazione, ed espressione elettrocardiografica del
vettore.
Sappiamo che in I derivazione esso dà una deflessione positiva, ma non possiamo, con questa sola
informazione, calcolarne la direzione. Si può soltanto affermare, visto che esso proietta sull’emilinea
positiva della I derivazione, che è diretto a sinistra, compreso nell’angolo piatto segnato in verde nella
figura.
Analizziamo ora aVF (Figura 11), il cui polo positivo è a +90°: il vettore A proietta sulla metà positiva della
linea di questa derivazione, il che vuol dire che esso è diretto nell’angolo piatto segnato in verde nella
figura (fra 0° e ±180°). In altri termini, aVF ci dice che il vettore A è diretto in basso.
Figura 11 Proiezione del vettore A sulla linea della derivazione aVF, ed espressione elettrocardiografica del
vettore.
Se adesso mettiamo insieme le informazioni provenienti dalle due derivazioni fin qui studiate (Figura 12), ci
accorgiamo che è possibile circoscrivere la direzione del vettore nell’angolo retto che va da 0° a +90°
(segnato in verde), poiché l’ECG mostra un’onda positiva sia in I derivazione che in aVF: il vettore, perciò,
dev’essere diretto in basso e a sinistra.
Figura 12 Dal paragone fra gli elettrocardiogrammi registrati nelle derivazioni I e aVF si desume che il
vettore A è diretto nell’angolo retto compreso fra 0° e +90° (segnato in verde).
L’ÂQRS normale è diretto in basso e a sinistra; per questo motivo in un ECG normale il complesso QRS è
positivo sia in I derivazione che in aVF (Figura 13A).
Figura 13 A: ÂQRS normale, diretto fra 0° e + 90°, il QRS è positivo in I e in aVF. B: ÂQRS deviato a sinistra,
diretto fra -90° e 0°: il QRS è positivo in I e negativo in aVF.
La deviazione assiale sinistra, invece è caratterizzata da un ÂQRS diretto nel quadrante superiore sinistro,
cioè in alto e a sinistra (Figura 13B); in questa situazione il complesso QRS sarà negativo in aVF (il vettore
proietterà sulla metà negativa della linea di derivazione) e positivo in I. Nella deviazione assiale destra,
invece, il vettore medio di QRS è diretto verso destra nel quadrante inferiore destro (Figura 14A) o in quello
superiore destro (Figura 14B).
Figura 14 A: ÂQRS deviato a destra, diretto fra 90° e +/-180; il QRS è negativo in I e positivo in aVF. B:
ÂQRS con deviazione assiale destra estrema, diretto fra +/-180 e -90°: il QRS è negativo in I e in aVF.
Ciò che contraddistingue la deviazione assiale destra, comunque, è la negatività del complesso QRS in I
derivazione; quando l’ÂQRS è diretto a destra e in basso, il QRS è positivo in aVF (Figura 14A), mentre se è
diretto a destra e in alto (cosiddetta deviazione assiale destra estrema, Figura 14B) sia la I derivazione che
aVF presentano un complesso ventricolare negativo (Tabella I).
Ingrandimento atriale sinistro. L’ingrandimento dell’atrio sinistro si esprime con aumento di durata
dell’onda P, che raggiunge o supera 0,12 secondi, con la comparsa di onde P bifide in alcune derivazioni
(per esempio, I, II o precordiali da V2 a V6) e di un’onda P difasica positivo/negativa in V1, caratterizzata da
una componente negativa rallentata (ECG 01, ECG 06, ECG 07, ECG 11).
Ingrandimento atriale destro. L’ingrandimento dell’atrio destro viene suggerito da onde P con durata
normale, ma alte, con voltaggio 0,25 mV (2,5 mm) e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF, e da onde P
positive o prevalentemente positive e appuntite in V1 (ECG 02, ECG 03, ECG 04, ECG 05).
L’ incremento della massa ventricolare si esprime con numerose alterazioni, di cui le più importanti sono
l’aumentato voltaggio del QRS, le alterazioni della ripolarizzazione (anomalie del tratto ST e dell’onda T) e,
per l’ipertrofia ventricolare destra, la deviazione assiale.
Ipertrofia ventricolare sinistra. Per diagnosticare l’ipertrofia ventricolare sinistra attraverso l’aumento del
voltaggio sono stati proposti molti indici, il più noto dei quali è l’indice di Sokolov, basato sulla somma
dall’onda S in V1 più l’onda R in V5 o V6. Quando questa somma raggiunge o supera 35 mm (3,5 mV) si può
diagnosticare l’ipertrofia ventricolare. Molto importanti, nell’ipertrofia ventricolare sinistra, sono le
alterazioni secondarie di ST-T (Figura 15), caratterizzate da un tratto ST sottoslivellato e da una T negativa
asimmetrica nelle derivazioni in cui il QRS è positivo. Casi di ipertrofia ventricolare sinistra si osservano
Ipertrofia ventricolare destra. L’ipertrofia ventricolare destra si esprime all’ECG in primo luogo con una
deviazione assiale destra (Figura 14); la deviazione dell’ÂQRS a destra è normale nel neonato e nel bambino
piccolo mentre è un fenomeno anormale nell’adulto ed esprime quasi sempre l’ipertrofia del ventricolo
destro. Un altro segno è rappresentato dalle onde R alte nelle precordiali destre (V1,V2), con rapporto
R/S>1. Casi di ipertrofia ventricolare sinistra si osservano nelle Figure ECG 03, ECG 04, ECG 05.
Il sistema di conduzione intraventricolare è costituito dalle branche e dalle loro diramazioni (il nodo A-V e il
fascio di His fanno, invece, parte della giunzione atrio-ventricolare). In condizioni fisiologiche l’impulso
nasce nel nodo del seno, attraversa gli atri e giunge al nodo A-V e da qui al fascio di His, da dove raggiunge
simultaneamente le due branche e, percorrendo le diramazioni di queste raggiunge la rete di Purkinje, la
quale permette la rapida distribuzione dell’impulso a un gran numero di cellule. La funzione del sistema di
conduzione intraventricolare è consentire l’attivazione (e di conseguenza la contrazione) simultanea dei
due ventricoli, fenomeno di grande importanza da un punto di vista fisiologico. Poiché la branca sinistra si
suddivide precocemente in due fascicoli (anteriore e posteriore), da un punto di vista elettrocardiografico, il
sistema di conduzione è costituito da 3 fascicoli: la branca destra, il fascicolo anteriore e quello posteriore
(Figura 16).
Numerosi processi patologici possono alterare la conduzione in una o più sezioni del sistema di conduzione
intraventricolare; si distinguono, quindi, i blocchi di branca (blocco di branca destra, blocco di branca
sinistra), i blocchi fascicolari (blocco fascicolare anteriore, blocco fascicolare posteriore, definiti anche come
emiblocco anteriore ed emiblocco posteriore), i blocchi bifascicolari (blocco di branca destra + blocco
fascicolare anteriore, blocco di branca destra + blocco fascicolare posteriore) e quelli trifascicolari, nei quali
tutti e tre i fascicoli sono compromessi.
In questo blocco il complesso QRS è molto caratteristico nelle derivazioni I e V6, dove è intieramente
positivo, con morfologia “a M” o “R con plateau”, il tratto ST è sottoslivellato e la T negativa. Come nel
blocco di branca destra, la durata del QRS è aumentata, e raggiunge o supera 0,12 secondi nel blocco di
branca sinistra completo, mentre è minore nella forma incompleta. Casi di blocco di branca sinistra si
osservano nelle Figure ECG 11 ed ECG 12.
LA CARDIOPATIA ISCHEMICA
L’ischemia miocardica si esprime all’ECG con una serie di anomalie che riguardano principalmente il
segmento ST, l’onda T e il complesso QRS. Esiste un considerevole disaccordo riguardo la nomenclatura
delle alterazioni ischemiche dell’ECG: i classici trattati di Elettrocardiografia impiegano i termini di
“ischemia”, “lesione” e “necrosi” per indicare rispettivamente le modificazioni ischemiche dell’onda T, del
tratto ST e del complesso QRS; questi termini, tuttavia, non sono esatti da un punto di vista fisiopatologico:
per esempio, l’alterazione di T nota come “ischemia” è in realtà un fenomeno postischemico, cioè si
manifesta al cessare dell’ischemia. Conserveremo in questo libro la nomenclatura consacrata dall’uso
(ischemia, lesione, necrosi) pur nella coscienza della sua inesattezza.
La lesione
Nella cardiopatia ischemica, il tratto ST può essere sopraslivellato (lesione subepicardica) o sottoslivellato
(lesione subendocardica); in realtà nessuna di queste due alterazioni è specifica dell’ischemia miocardica,
poiché si può riscontrare (specialmente il sottoslivellamento di ST) in molte altre condizioni indipendenti
dall’ischemia. Le modificazioni ischemiche del tratto ST, tuttavia, specialmente il sopraslivellamento,
possiedono ancora oggi un ruolo diagnostico cruciale in molte situazioni cliniche, nonostante siano
disponibili metodiche strumentali ben più sofisticate e costose.
La lesione subepicardica si riscontra prevalentemente nell’infarto miocardico acuto e nell’angina di
Prinzmetal (vediECG 20, ECG 21, ECG 22). Il sopraslivellamento di ST può essere a concavità superiore o a
convessità superiore (Figura 17). Solitamente è a concavità superiore nelle fasi inizialissime dell’infarto,
quando non si sono ancora verificate alterazioni significative del QRS, e allora il complesso ventricolare
somiglia a un potenziale d’azione monofasico (Figura 17a), mentre assume convessità superiore in una fase
successiva, se pure acuta, dell’infarto, quando cioè si delineano le onde q e la T inizia a divenire negativa
(Figura 17b).
Figura 17 Lesione subepicardica nella fase inizialissima dell’infarto miocardico acuto (a) e dopo alcune ore
o giorni (b). Il sopraslivellamento di ST è a concavità superiore in a e a convessità superiore in b, dove si
osserva anche l’onda q e l’onda T negativa.
Un carattere importante della lesione subepicardica è la sua evolutività: nell’infarto essa si manifesta
soprattutto durante la fase iniziale e persiste solo per ore o giorni. Cessata la fase acuta, l’ST ritorna
gradualmente verso l’isoelettrica, la T si negativizza e compare in genere un’onda q patologica nelle
derivazioni interessate (Figura 18).
La lesione subendocardica (il sottoslivellamento “ischemico” del tratto ST) è a volte difficilmente
distinguibile dalle alterazioni secondarie osservabili in presenza di ipertrofia o blocco di branca, e ancora
più difficilmente separabile dalle anomalie di ST indotte da farmaci o da quelle alterazioni che vanno sotto il
nome di “alterazioni non specifiche della ripolarizzazione”. La situazione migliore per studiare la lesione
subendocardica è il test ergometrico, poiché in questa situazione si può paragonare l’ST in condizioni di
riposo con quello osservato durante lo sforzo. Quando il test è positivo, cioè indicativo di ischemia
miocardica, compare un sottoslivellamento di ST (Figura 19) che ha di solito un andamento dapprima
ascendente (schema b), poi rettilineo o piatto (c) e quindi discendente (d); quest’ultimo stadio si
accompagna a negativizzazione dell’onda T, o meglio a T bifasica negativo/positiva che può permanere
anche quando, con la cessazione dell’esercizio, il tratto ST si normalizza (e). In linea di massima, l’aspetto
morfologico più tipico della lesione subendocardica è il sottoslivellamento rettilineo del tratto ST (c);
tuttavia non vi sono indicatori che consentanodi discriminare con certezza, solo sulla base della morfologia, l
’alterazione ischemica da quella non ischemica di ST.
Un dato rilevante è offerto dall’evolutività del sottoslivellamento di ST: nel test ergometrico “positivo”
l’ECG diviene progressivamente anormale e poi torna alle condizioni basali entro breve tempo. Parimenti,
nell'angina pectoris, il sottoslivellamento di ST si riduce al migliorare della sintomatologia, mentre la
persistenza dell’alterazione per ore o giorni testimonia un infarto subendocardico. Elettrocardiogrammi
caratteristici di lesione subendocardica sono presentati nei casi ECG 18, ECG 19; in particolare l’ ECG
19b mostra la normalizzazione del tratto ST al risolversi dell’angina.
La necrosi
La necrosi è un’alterazione del QRS generalmente conseguente ad un infarto miocardico. Nella maggior
parte dei casi, la necrosi si esprime con la comparsa di onde q patologiche o con la scomparsa di onde r, per
cui si osservano in alcune derivazioni complessi QS. Si afferma comunemente che le onde q, per essere
indicative di necrosi, debbano avere una durata di almeno 0.04 secondi e un voltaggio non inferiore a ¼
della R successiva. Tuttavia, questo è un criterio non sempre utilizzabile: è a volte difficile distinguere
un’onda q “di necrosi” da un’onda q “normale”, anche perché l’estensione della zona necrotica è variabile,
e in alcuni casi è così piccola da non provocare un disordine elettrico tale da esprimersi con onde q di
ampiezza sufficiente. Elettrocardiogrammi dimostrativi di necrosi vengono presentati negli ECG 21, ECG
23, ECG 24.
L’Ischemia
In condizioni normali, l’onda T è positiva nelle derivazioni in cui il QRS è positivo, e viceversa. Nell’ischemia
subepicardica, invece, le onde T si presentano invertite rispetto a quanto atteso, cioè con una polarità
opposta rispetto a quella del QRS, e hanno una morfologia simmetrica, con uguale pendenza delle due
branche, ed apice appuntito (Figura 20a). Questi ultimi caratteri della T ischemica la rendono differente
dalla T normale, dove la branca prossimale è più lenta di quella distale, e l’apice è arrotondato. Un’altra
configurazione caratteristica, anche se meno comune, della T ischemica è quella difasica positivo/negativa,
con componente terminale negativa appuntita (Figura 20b).
Nell’infarto miocardico, le onde T “ischemiche” non si manifestano nella fase iperacuta, ma solo dopo ore
o, a volte, giorni. Si può affermare che la T “ischemica” sia in realtà un fenomeno post-ischemico, che
compare cioè quando la fase acuta dell’ischemia si è conclusa. Il problema diagnostico, cioè la
corrispondenza o meno fra le onde T “ischemiche” e la cardiopatia ischemica, si pone quando il quadro ECG
dell’ischemia subepicardica compare in assenza di infarto miocardico o al di fuori di una situazione clinica
che deponga chiaramente per cardiopatia ischemica. In un paziente con pregresso infarto è possibile non di
rado osservare onde T ischemiche anche molti anni dopo l'episodio acuto (ECG 23, ECG 24) ma, in assenza
di dati che attestino l’esistenza di una cardiopatia ischemica, il quadro ECG definibile come ischemia
subepicardica non è di per sé dimostrativo di una vera ischemia, neanche quando è morfologicamente
tipico, cioè caratterizzato da onde T invertite simmetriche e appuntite.
L’intervallo QT esprime la durata globale dell’attività elettrica ventricolare, e comprende sia la fase di
depolarizzazione che quella di ripolarizzazione; la misurazione del QT, tuttavia, viene impiegata
esclusivamente per valutare la ripolarizzazione ventricolare. Ciò dipende dal fatto che mentre è semplice
determinare l’inizio e il termine della depolarizzazione, non è altrettanto immediato riconoscere l’inizio
della ripolarizzazione. Alcune cellule ventricolari, infatti, iniziano a ripolarizzarsi mentre altre si stanno
ancora depolarizzando, per cui è pressoché impossibile valutare la durata esatta del processo di recupero, e
si preferisce esprimere la durata totale della “sistole elettrica”, appunto l’intervallo QT, che va misurato
dall’inizio del complesso QRS alla fine dell’onda T.
Si tratta di un parametro molto importante, poiché numerose condizioni patologiche, e soprattutto l’effetto
di svariati farmaci, si manifestano con variazioni dell’intervallo QT, in genere con l’allungamento di esso, ed
eccezionalmente con l’accorciamento.
Il QT si modifica notevolmente con il variare della frequenza cardiaca, essendo più breve a frequenze alte e
più lungo per frequenze basse. Diviene perciò indispensabile correggere il QT per la frequenza cardiaca, ed
è quanto solitamente si fa con la formula di Bazett, in base alla quale il QT corretto (QTc) è uguale al
rapporto fra il QT e la radice quadrata dell’intervallo R-R (entrambe le misure vengono espresse in secondi).
Da questa formula si evince che il QTc è uguale al QT se la frequenza cardiaca è di 60 al minuto, poiché a
questa frequenza l’intervallo RR misura 1 secondo, e la radice quadrata di 1 è 1. Per frequenze maggiori di
60 il QTc è sempre maggiore del QT, mentre per frequenze minori di 60 il QTc è minore del QT.
Il QT lungo
L’allungamento del QT (QTc > 0.45 secondi negli uomini, > 0,46 secondi nei bambini di ambo i sessi, > 0.47
secondi nelle donne) può conseguire ad un’anomalia congenita, cioè ad una malattia dei canali ionici
dipendente da un’alterazione cromosomica (vedi Capitolo…), o essere di natura acquisita. Diversi geni sono
stati riconosciuti come responsabili della malattia, e differenti forme sono state identificate; le Figure ECG
33 ed ECG 34 riportano tracciati elettrocardiografici di pazienti con Sindrome da QT lungo congenito. Il QT
lungo acquisito riconosce una serie di cause; fra queste le disionie (Ipokaliemia, Ipocalcemia), numerosi
farmaci, particolarmente gli antiaritmici (Sotalolo, Amiodarone, Ibutilide, Chinidina, Disopiramide) diversi
antidepressivi e alcuni farmaci gastrointestinali; anche l’ischemia miocardica e il blocco A-V (ECG 35)
rientrano fra le possibili cause del QT lungo. L’allungamento del QT è temibile perché può provocare
aritmie gravi, particolarmente la tachicardia ventricolare a torsione di punte (vedi Capitolo…) e la
fibrillazione ventricolare.
Il QT corto
L’accorciamento dell’intervallo QT è molto più raro dell’allungamento. In linea di massima dipende, allo
stesso modo del QT lungo, da malfunzionamento su base genetica dei canali ionici, e può associarsi ad
aritmie gravi e a morte improvvisa (vedi Capitolo…). L’accorciamento acquisito del QT è di natura disionica
(ipercalcemia) o farmaco-indotta. L’ ECG 36 riporta un caso di Sindrome da QT corto.
LA PREECCITAZIONE
Si definisce con questo termine la condizione in cui una zona miocardica viene attivata prima di quanto
sarebbe avvenuto se l’impulso fosse stato condotto solo attraverso le normali vie di conduzione.
Responsabile della preeccitazione è sempre una via accessoria, cioè un fascio anomalo che connette, a
parte rare eccezioni, gli atri ai ventricoli; poiché la velocità di conduzione attraverso il fascio accessorio è
maggiore di quella attraverso la via normale (Nodo A-V, Fascio di His, etc.) la zona cui si distribuisce la via
anomala viene attivata in anticipo, cioè preeccitata. L’ECG di un paziente portatore di una via accessoria
(nella maggior parte dei casi definita come “Fascio di Kent”) può presentare i seguenti caratteri: 1) Onda
delta, rappresentata da un rallentamento iniziale del complesso QRS; 2) P-R corto; 3) QRS largo; 4)
Alterazioni secondarie della ripolarizzazione.
L’importanza della preeccitazione dipende dal fatto che la coesistenza di due vie di conduzione atrio-
ventricolare (quella nodo-hissiana e il fascio di Kent) rappresenta il presupposto per l’instaurarsi di un
circuito di rientro, che può dar luogo a una tachicardia parossistica da rientro atrio-ventricolare. La
condizione in cui la preeccitazione si associa a tachicardia parossistica da rientro viene definita “Sindrome
di Wolff-Parkinson-White” (vedi Capitolo…). Le Figure ECG 37 ed ECG 38 presentano casi di preeccitazione
ventricolare.
IL FENOMENO DI BRUGADA
Risale all’ultimo decennio del secolo scorso la descrizione di una nuova Sindrome, caratterizzata da morte
improvvisa per fibrillazione ventricolare e da un particolare quadro elettrocardiografico caratterizzato dalla
presenza, nelle derivazioni precordiali destre, di un’onda terminale positiva definita come “onda J”,
associata a un tratto ST sopraslivellato. L’onda J somiglia in qualche modo all’onda R’ del blocco di branca
destra, e per questo motivo era stato in un primo tempo ritenuto che il blocco di branca destra facesse
parte del quadro ECG associato alla “Sindrome di Brugada”.
Dopo la descrizione iniziale, sono stati riconosciuti numerosi soggetti nei quali era evidente il “Fenomeno di
Brugada” cioè il quadro elettrocardiografico caratteristico. E’ ancora oggetto di discussione l’iter
diagnostico per identificare, nella coorte di coloro che presentano all’ECG il Fenomeno di Brugada, quelli
che sono a rischio di morte improvvisa. Le Figure ECG 39 ed ECG 40 presentano esempi tipici del Fenomeno
di Brugada. Si ritiene che alla base del Fenomeno sia una malattia dei canali ionici, precisamente un
malfunzionamento del canale del sodio; è stata anche riscontrata nel 20% dei soggetti affetti un’alterazione
del gene SCN5A, ma le conoscenze sulla genetica della Sindrome di Brugada non sono ancora
sufficientemente progredite da permettere un inquadramento clinico affidabile.
L’IPOTERMIA
In soggetti che siano andati accidentalmente incontro a ipotermia, si riscontra un quadro ECG caratteristico.
Con l’abbassarsi della temperatura corporea compaiono diverse alterazioni elettrocardiografiche
(bradicardia sinusale, blocco A-V di I o di II grado, anomalie di ST-T, allungamento del QT, aumento della
durata del QRS) ma soprattutto l’onda J, detta anche onda di Osborn, che è il segno patognomonico
dell’ipotermia. Si tratta di una piccola deflessione positiva e relativamente larga che segue l’onda R ed è in
diretta continuità con questa, intervenendo fra il QRS e il tratto ST. L’onda J dell’ipotermia è simile a quella
osservabile nel fenomeno di Brugada, ma in quest’ultima condizione l’onda J si osserva solo in V1-V2 o al
massimo in V3, mentre nell’ipotermia essa è presente in numerose derivazioni. Un caso tipico di ipotermia
è presentato nell’ ECG 41.
LA PERICARDITE
Per quanto il pericardio non sia sede di attività elettrica, e quindi non contribuisca direttamente alla genesi
dell’elettrocardiogramma, la pericardite può provocare alterazioni dell’ECG perché l’infiammazione
dell’epicardio si accompagna quasi inevitabilmente ad interessamento flogistico degli strati miocardici
subepicardici, ed anche perché la presenza del versamento pericardico o dell’ispessimento fibro-calcifico
dei foglietti sierosi altera la trasmissione delle forze elettriche cardiache. Nella pericardite acuta l’ECG
mostra spesso un sopraslivellamento di ST a concavità superiore nelle derivazioni con QRS
prevalentemente positivo, onde T relativamente alte e appuntite, e non di rado un tratto P-R
sottoslivellato. Successivamente il punto J ritorna all’isoelettrica, scompare il sottoslivellamento del P-R, la
T si riduce di voltaggio e quindi si negativizza, per normalizzarsi poi tardivamente. Esempi di
elettrocardiogrammi suggestivi di pericardite acuta si osservano nelle Figure ECG 42 ed ECG 43.
Quando la pericardite si accompagna ad abbondante versamento pericardico, può comparire la riduzione
del voltaggio di tutte le onde dell’ECG (il liquido pericardico è un cattivo conduttore di elettricità) e
l’alternanza elettrica, caratterizzata da un alternarsi di onde più ampie e meno ampie (ECG 44).
LE CARDIOMIOPATIE
Cardiomiopatia Ipertrofica
L’ECG è normale solo nel 7-15% dei pazienti affetti, mentre negli altri si può osservare: aumento del
voltaggio di QRS (ipertrofia ventricolare sinistra), alterazioni di ST-T, onde q anormali (apparente necrosi),
alterazioni della conduzione intraventricolare, ingrandimento atriale. Elettrocardiogrammi con quadri
caratteristici di cardiomiopatia ipertrofica vengono presentati nelle Figure ECG 45 ed ECG 46.
Cardiomiopatia dilatativa
In questa forma è molto comune il blocco di branca sinistra, ed è anche possibile osservare ipertrofia
ventricolare sinistra ed ingrandimento atriale sinistro.
Cardiomiopatia restrittiva
Il quadro più comune è rappresentato da ingrandimento atriale (spesso biatriale). I complessi QRS hanno a
volte basso voltaggio, sono presenti alterazioni di ST-T e spesso aspetti di apparente necrosi
(pseudonecrosi). Un caso tipico di questa malattia viene presentato nell’ ECG 47.
Enfisema
L’aumento del contenuto aereo polmonare, caratteristico dell’enfisema, influenza l’ECG soprattutto
perché, essendo l’aria un cattivo conduttore di elettricità, si realizza una difficoltà nella trasmissione dei
potenziali elettrici cardiaci alla superficie del corpo, con conseguente riduzione dei voltaggi delle onde
elettrocardiografiche. L’ECG nel paziente enfisematoso presenta, perciò, complessi ventricolari di basso
voltaggio, specialmente nelle derivazioni periferiche. Per convenzione, si considera basso il voltaggio dei
ventricologrammi quando la somma di tutte le onde del QRS nelle tre derivazioni periferiche bipolari (I, II,
III) non supera 15 mm. Un tracciato elettrocardiografico tipico si osserva nell’ECG 49.
destro. L’anomalia dovuta all’enfisema è fondamentalmente la riduzione dei voltaggi di tutte le onde
dell’ECG, mentre il sovraccarico pressorio che grava sul cuore destro si esprime con i segni dell’ipertrofia
ventricolare (deviazione di ÂQRS a destra, aumento del voltaggio di R in V1 con rapporto R/S >1) e con
quelli dell’ingrandimento atriale destro (onde P appuntite nelle derivazioni inferiori, con voltaggio
aumentato, onde P prevalentemente positive e aguzze in V1-V2). L’ ECG 03 è stato registrato in un soggetto
con cuore polmonare cronico.
L’EMBOLIA POLMONARE
Le embolie polmonari di entità modesta non si associano ad alterazioni emodinamiche di rilievo né, tanto
meno, a modificazioni dell’ECG. Solo un’embolia polmonare massiva può dare segno di sé, provocando un
inatteso sovraccarico del ventricolo destro (cuore polmonare acuto), che si riflette anche
sull’elettrocardiogramma. In questa condizione, l’ECG può mostrare: 1) blocco di branca destra, completo
o, più spesso, incompleto, a volte associato a sopraslivellamento di ST e/o T positiva in V1; 2) onde T
negative nelle derivazioni precordiali; 3) S1Q3T3, cioè onda S in I derivazione e onda q associata a T
negativa in III. L’ ECG 50A e l’ ECG 50B mostrano un caso di embolia polmonare.
Capitolo 4
L’ECOCARDIOGRAMMA
Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso, Raffaele Calabrò
INTRODUZIONE
L’ecocardiografia è la metodica che permette di eseguire uno studio anatomico e funzionale del cuore
mediante gli ultrasuoni. I primi tentativi di utilizzare gli ultrasuoni in medicina iniziarono appena dopo la
seconda Guerra Mondiale e si concretizzarono nel 1953 con la segnalazione, da parte di Hertz ed Hedler,
della possibilità di visualizzare strutture cardiache in movimento, in particolare la valvola mitrale. Da allora,
i notevoli sviluppi della tecnica, hanno fatto sì che l’ecocardiografia diventasse una metodica diagnostica di
grande rilievo per lo studio morfologico e funzionale dell’apparato cardiovascolare.
L’ecocardiografia è la metodica diagnostica che, insieme all’elettrocardiografia, è presente nella stragrande
maggioranza, se non nella totalità, dei percorsi clinici di un paziente cardiopatico o a rischio di cardiopatie.
Poche metodologie hanno subito un’applicazione così vasta ed una diffusione così capillare nella pratica
clinica come la diagnostica con ultrasuoni in generale, e come l’ecocardiografia in ambito cardiologico, in
particolare. Ciò è dovuto, da una parte, alla semplicità e sicurezza della metodica e dall’altra alla ricchezza
ed immediatezza dei risultati ottenibili. I continui progressi tecnologici, con il miglioramento della qualità
delle immagini e la disponibilità di apparecchi portatili, amplieranno ulteriormente lo spettro di
applicazione, e quindi di richiesta, della metodica.
Per una sua applicazione ottimale e per una corretta interpretazione dei dati ottenuti, servono una tecnica
adeguata e solide basi culturali, considerando che uno dei principali limiti dell’Ecocardiografia è il fatto di
essere operatore-dipendente. In ogni caso, il risultato dell’esame ecocardiografico va interpretato alla luce
dei dati anamnestici e del contesto clinico.
Le principali informazioni che si possono ottenere dall’esame ecocardiografico sono:
PRINCÍPI DELL’ECOCARDIOGRAFIA
Il suono è una forma di energia che attraversa la materia comprimendo e rarefacendo alternativamente le
molecole. E’ rappresentato graficamente da una sinusoide la cui dimensione orizzontale è il tempo, quella
verticale l’intensità o ampiezza. Si caratterizza per la lunghezza d’onda (che rappresenta la distanza tra due
fasi consecutive del ciclo) e per la frequenza (che esprime il numero di compressioni ed espansioni che
subiscono le particelle nell’unità di tempo). La frequenza del
suono è espressa in cicli al secondo o Hertz (Hz) (Figura 1).
L’orecchio umano percepisce suoni tra i 16 e 20.000 Hz; oltre
quel limite si parla di ultrasuoni. Le frequenze attualmente
utilizzate in cardiologia variano da 1 milione ad oltre 10
milioni di Hertz (MHz), tali da permettere l’attraversamento
dei tessuti con una velocità costante di 1540 m/sec. La
velocità del suono è il prodotto della frequenza per la
lunghezza d’onda. Esiste dunque tra queste due componenti un rapporto inverso: all’aumentare di una
diminuisce l’altra.
Gli ultrasuoni possono essere utilizzati nell’imaging diagnostico poiché, come la luce, sono orientabili e,
attraversando i tessuti, subiscono alcune modificazioni: attenuazione, riflessione e rifrazione
L’impedenza acustica (Z) è il prodotto della densità del mezzo che gli ultrasuoni attraversano (P) per la
velocità (C) dell’ultrasuono, e definisce le caratteristiche acustiche del mezzo stesso. I tessuti molli sono più
densi ed hanno maggiore impedenza acustica, perché la velocità di propagazione resta invariata. La
superficie di separazione tra due mezzi ad impedenza acustica diversa viene chiamata interfaccia acustica.
Ad ogni interfaccia acustica, una parte degli ultrasuoni viene riflessa e una parte viene rifratta nel mezzo
adiacente (Figura 2); l’intensità della componente riflessa dipende dalla differenza di impedenza acustica
dei mezzi e dall’angolo di incidenza: essa è, cioè, tanto maggiore quanto più la direzione del fascio
ultrasonoro è perpendicolare alla superficie. Se la superficie di contatto non è piana ma irregolare, una
parte dell’energia non sarà riflessa ma diffratta, cioè dispersa in tutte le direzioni.
Il potere di risoluzione è la capacità di distinguere fra loro due strutture distinte poste una dopo l’altra o una
accanto all’altra lungo la direzione del fascio ultrasonoro. E’ direttamente proporzionale alla frequenza
dell’ultrasuono.
Il potere di penetrazione del raggio ultrasonoro è, invece, inversamente proporzionale alla frequenza.
Perciò sonde che lavorano con ultrasuoni ad alte frequenze hanno un elevato potere di risoluzione ma una
bassa capacità di penetrazione nei tessuti.
La diagnostica ecocardiografica utilizza trasduttori che lavorano con frequenze di almeno 2MHz.
La qualità delle immagini ottenute migliora con la modalità “harmonic imaging” (seconda armonica),
caratterizzata dal fatto che la sonda invia ultrasuoni ad una certa frequenza e li riceve ad una frequenza
doppia. Ciò consente una migliore qualità delle immagini.
IL TRASDUTTORE
Gli ultrasuoni vengono prodotti da un trasduttore. Esso è costituito da elettrodi e da un cristallo
piezoelettrico la cui struttura ionica, sfruttando le capacità di alcuni materiali (come il quarzo o la
ceramica), si deforma se esposta al passaggio di corrente elettrica generando onde sonore. Lo stesso
cristallo piezoelettrico poi, per effetto dell’energia meccanica generata da onde sonore riflesse, subisce una
deformazione che genera un segnale elettrico rilevato da elettrodi. Ciò significa che il trasduttore riceve e
invia contemporaneamente segnali ultrasonori (Figura 3).
La ricostruzione dell’immagine ecocardiografica si basa sul calcolo della distanza tra una data struttura
anatomica ed il trasduttore. Il trasduttore emette un fascio ultrasonoro che si dirige verso il cuore e
procede in linea retta fino a quando non raggiunge un’interfaccia tra strutture con diversa impedenza
acustica. A questo punto parte dell’energia viene riflessa, parte viene dispersa, e la parte restante continua
il proprio percorso rifratta. Il sangue non genera echi riflessi.
L’energia riflessa che torna verso il trasduttore costituisce il fondamento dell’immagine ecocardiografica.
Poiché la velocità di propagazione degli ultrasuoni nei tessuti molli è costante nel tempo (circa 1540 m/s), il
traduttore è in grado di calcolare la distanza tra esso e la struttura esaminata valutando l’intervallo
Figura 4
Sul monitor, alla distanza corrispondente, viene visualizzato il punto appena esaminato. I moderni
ecocardiografi (Figura 4) consentono di eseguire tutte le tecniche ecocardiografiche, da quelle tradizionali a
quelle più moderne, e sono dotati di diverse sonde, adatte alle varie metodiche (Figura 5).
Figura 5 Sonde per ecocardiografia: A sinistra, sonda transesofagea. A destra, sonde transtoraciche.
ECOCARDIOGRAFIA MONODIMENSIONALE
In corrispondenza della valvola mitrale, la struttura cardiaca più vicina al trasduttore è la parete libera del
ventricolo destro; seguono poi la cavità ventricolare destra (VD), il setto interventricolare (SIV), la cavità
ventricolare sinistra e la parete posteriore del ventricolo sinistro (Figura 6).
Figura 6 Ecocardiogramma M-mode che mostra il ventricolo destro, il setto interventricolare, il ventricolo
sinistro e la parete posteriore del ventricolo sinistro.
In questa proiezione è possibile valutare le dimensioni del ventricolo sinistro ed anche lo spessore del setto
(ECO 34) e della parete posteriore
Orientando il fascio ultrasonoro verso la valvola mitrale si valuta l’escursione dei lembi valvolari, l’anteriore
in corrispondenza del setto interventricolare, e il posteriore in corrispondenza della parete posteriore del
Il movimento del lembo anteriore mitralico presenta una morfologia a M con un massimo nel punto E
(l’apertura protodiastolica della valvola). La distanza dal punto E al setto interventricolare non deve
superare, nel soggetto normale, i 3 mm. La mobilità della valvola è rispecchiata dalla rapidità del
movimento di chiusura nella proto-mesodiastole fino al punto F (pendenza EF). In fase telediastolica i lembi
si riaprono, in corrispondenza della contrazione atriale (punto A). La valvola, quindi, si chiude e i lembi
coaptano (punto C).
Il movimento del lembo posteriore mitralico ha una forma a W, speculare rispetto al lembo anteriore.
Lo studio della valvola mitrale è stata una delle prime applicazioni diagnostiche dell’ecocardiografia. Tra le
principali anomalie ecocardiografiche descritte sono l’aumento dello spessore, della densità e del numero
di echi riflessi in conseguenza dell’ispessimento fibroso e/o calcifico dell’apparato valvolare; e inoltre la
scomparsa del caratteristico movimento di apertura a M e W dei lembi, sostituito da un plateau più o meno
rettilineo e parallelo ai due lembi (ECO 01).
Orientando il fascio ultrasonoro in senso supero-mediale si visualizza l’atrio sinistro, la valvola aortica, con
la cuspide coronarica destra e la non coronarica, la radice dell’aorta ed il tratto prossimale dell’aorta
Figura 8 Immagine ecocardiografica monodimensionale che raffigura la radice aortica, la valvola aortica e
l’atrio sinistro.
Le dimensioni dell’atrio sinistro si misurano in telesistole, quelle della radice aortica in telediastole. Il
movimento sistolico di apertura delle cuspidi aortiche si visualizza come un parallelogramma i cui lati
superiore e inferiore corrispondono rispettivamente al movimento della cuspide coronarica destra e di
quella non coronarica. In caso di stenosi aortica, si nota un ispessimento dei lembi con aumento
dell’intensità e del numero degli echi e una riduzione dell’apertura sistolica delle cuspidi (ECO 15).
La Tabella I riporta i valori normali dei parametri ecocardiografici M-mode in soggetti adulti.
ECOCARDIOGRAFIA BIDIMENSIONALE
Il sistema bidimensionale permette di visualizzare l’immagine corrispondente ad una sezione delle cavità
cardiache sfruttando la capacità dei trasduttori di ricevere e trasmettere più linee di scansione in modo
indipendente.
Gran parte delle sonde attualmente in uso è costituita da una serie di cristalli (da 32 a 128), ciascuno dei
quali è in grado di ricevere e di trasmettere, allineati in una singola fila, sono attivati secondo una precisa
sequenza temporale in modo da provocare la fusione delle onde generate dai singoli elementi e ottenere
un unico fascio la cui direzione dipende dalla sequenza di attivazione dei singoli cristalli. L’immagine
ottenuta viene convertita in formato digitale: ad ogni punto, in base alla sua intensità, viene assegnato un
valore numerico che corrisponde a livelli di grigio per altrettanti elementi di visualizzazione (pixel) allineati
lungo assi cartesiani x ed y.
L’esame ecocardiografico si realizza con 4 posizioni standard del trasduttore: parasternale, apicale,
subxifoidea e soprasternale. Le prime due si realizzano con il paziente in decubito laterale sinistro, le altre
con il paziente supino.
l’apertura della valvola mitrale e della valvola aortica (Figura 9,Figura 10, Figura 11, Figura 12).
Figura 9 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo.
Questa proiezione consente uno studio accurato dell’anatomia e del movimento delle valvole del cuore
sinistro, di cui è facile rilevare l’ispessimento e la calcificazione in caso di stenosi mitralica o aortica (ECO
13).
Mantenendo il trasduttore nello stesso spazio ed imprimendogli una inclinazione inferomediale e una
leggera rotazione in senso orario si ottiene una sezione asse lungo del ventricolo e dell’atrio destro (Figura
Figura 13 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo dell’atrio e del
ventricolo destro.
Figura 14 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse lungo dell’atrio e del ventricolo destro.
Figura 15 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse corto.
Da questa posizione si visualizza la valvola aortica al centro con le sue tre cuspidi, l’atrio sinistro e quello
destro separati dal setto interatriale, la valvola tricuspide, il tratto di efflusso del ventricolo destro, la
valvola polmonare, il tronco dell’arteria polmonare con i suoi due rami, destro e sinistro (Figura 17, Figura
18).
Questa proiezione è utile per studiare la valvola aortica, in particolare per determinare se questa ha, come
di norma, 3 cuspidi, oppure è bicuspide (ECO 20) o quadricuspide (ECO 21).
Alzando la coda del trasduttore, è possibile visualizzare la sezione asse corto a livello della valvola mitrale.
Sono ben evidenti i lembi valvolari con il classico aspetto “a bocca di pesce” in diastole e le rispettive
commissure. Da questa posizione è possibile calcolare l’area planimetrica della mitrale in caso di stenosi
Un ulteriore movimento verso l’alto della coda della sonda, e si visualizzano i due muscoli papillari del
ventricolo sinistro (Figura 20, Figura 22), e quindi l’apice del ventricolo.
Figura 20 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse corto a livello dei muscoli papillari e
schema anatomico corrispondente.
SEZIONE APICALE
Il trasduttore viene posto in corrispondenza dell’itto della punta, con la scanalatura di repere orientata
verso il fianco sinistro del paziente. Il fascio ultrasonoro è diretto superiormente e medialmente verso la
scapola destra del paziente.
Da questa posizione si visualizzano le quattro camere cardiache (proiezione apicale quattro camere). Alla
destra dello schermo si visualizzano le sezioni sinistre, e alla sinistra quelle destre. Il ventricolo destro, di
forma triangolare, si riconosce per l’impianto più alto della tricuspide, per la presenza della banda
moderatrice all’apice e per il muscolo papillare.
Gli atri, separati dal setto interatriale, sono visualizzati in basso; i ventricoli, separati dal setto
interventricolare, in alto (Figura 23, Figura 24, Figura 25).
Figura 23 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 4 camere apicale.
Ruotando la testa del trasduttore di 90 gradi circa si ottiene la sezione due camere apicale da cui è possibile
studiare la parete inferiore e quella anteriore del ventricolo sinistro e a volte visualizzare l’auricola sinistra
Figura 27 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 2 camere apicale.
Con un’ulteriore minima rotazione del trasduttore si ottiene la sezione tre camere apicale in cui si visualizza
la parete postero-laterale del ventricolo sinistro, il setto interventricolare anteriore, la valvola aortica
(Figura30).
L’ecocardiografia bidimensionale dalle sezioni apicali permette di valutare la funzione sistolica globale del
ventricolo sinistro attraverso la misurazione della Frazione di Eiezione (FE) espressa dalla formula:
Sono diverse le metodiche correntemente utilizzate per la stima della FE; il più utilizzato è il metodo di
Simpson in base al quale, dopo che l’operatore ha accuratamente delineato il bordo endocardico del
ventricolo sinistro , la macchina suddivide automaticamente il ventricolo stesso in un numero noto di
cilindri di uguale altezza. Il volume di ogni cilindro è calcolato automaticamente e poi sommato a quello
degli altri per ottenere il volume totale che corrisponde al volume totale del ventricolo. Tale stima viene
effettuata in sistole ed in diastole in sezione apicale 4 e 2 camere, permettendo di ottenere il valore della
FE (Figura31).
Figura 31 Schema del metodo di Simpson per il calcolo della frazione d’eiezione.
Dalle sezioni apicali è possibile, inoltre, valutare la cinetica segmentaria del ventricolo sinistro e, in caso di
cardiopatia ischemica, ricercare e documentare alterazioni morfofunzionali causate dall’ischemia, definire
la sede e l’estensione del danno ischemico, valutare la funzione cardiaca regionale e globale.
L’analisi segmentaria della cinetica ha lo scopo di quantificare l’estensione del danno ischemico e di
identificare la coronaria interessata in base al territorio in cui si verifica l’anomalo movimento della parete.
Esempi di alterazioni della cinetica ventricolare dovuti a un infarto miocardico vengono presentati nelle
immagini ECO 26, ECO 27, ECO 28, ECO 29.
L’American Society of Echocardiography ha proposto un modello a sedici segmenti, nel quale il ventricolo
sinistro è diviso in 3 regioni in senso longitudinale (basale: dall’anello mitralico all’estremità dei papillari;
media: dall’estremità alla base dei papillari; apicale: distalmente all’inserzione dei muscoli papillari). Le
regioni basali e medie sono ulteriormente suddivise in 6 segmenti: anteriore, laterale, posteriore, inferiore,
setto inferiore e setto anteriore. L’apice è diviso in 4 segmenti (anteriore, laterale, inferiore e settale). Per
una valutazione semiquantitativa l’analisi della cinetica segmentaria può essere integrata attribuendo un
punteggio da 1 a 4: 1 = normale o ipercinesia, 2 = ipocinesia, 3 = acinesia, 4 = discinesia. Sommando i singoli
punteggi e dividendo per il numero di segmenti analizzati, si ottiene un indice di cinesi globale definito
“Wall Motion Score Index” (WMSI) o un punteggio indicizzato della cinetica parietale che combina la stima
della gravità del danno con quella della sua estensione spaziale (Figura32, Figura33).
Figura 33 Rappresentazione schematica della relazione fra arterie coronarie e segmenti del ventricolo
sinistro.
sinistro del paziente e la testa del trasduttore inclinata lievemente in basso (Figura34).
A volte, per ottenere un’immagine ottimale del cuore, è necessario invitare il paziente a fare un respiro
profondo e a trattenere l’aria.
Da questa posizione si ottiene un’immagine simile a quella apicale, con le sezioni destre al di sotto del
fegato, gli atri in basso e i ventricoli in alto ma, poiché il fascio ultrasonoro è maggiormente perpendicolare
al setto interventricolare ed interatriale, tale approccio è particolarmente utile per lo studio di queste
strutture (Figura35).
Ruotando il trasduttore in senso orario e inclinandolo verso l’alto si visualizza l’aorta e i rapporti di essa con
la mitrale ed il ventricolo sinistro. Un’ulteriore rotazione in senso orario ed inclinazione verso l’alto, e si
ottiene una sezione in asse corto simile a quella ottenibile in parasternale asse corto; angolando
opportunamente la sonda si visualizzano il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’arteria polmonare, la
vena cava inferiore e le vene sovraepatiche. Da questo approccio può essere, inoltre, studiata l’aorta
addominale.
SEZIONE SOPRASTERNALE
Si ottiene ponendo il trasduttore nella fossetta soprasternale con la scanalatura di repere rivolta verso la
Figura 36 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione soprasternale.
Si possono studiare : l’aorta ascendente, l’arco, l’origine dei tronchi brachiocefalici, l’aorta toracica
discendente (Figura37) ed il ramo destro dell’arteria polmonare visualizzato in asse corto al di sotto dell’
Ruotando il trasduttore in senso orario si visualizza l’aorta in asse corto, il ramo destro della polmonare
immediatamente sotto, nel suo asse lungo, e ancora più in basso l’atrio sinistro con le vene polmonari
(Figura38,Figura39).
Figura 39 Proiezione soprasternale. E’ visualizzabile l’aorta in asse corto (A), il ramo destro dell’arteria
polmonare (APD) nel suo asse lungo e l’atrio sinistro. Le frecce indicano le vene polmonari.
Con una ulteriore rotazione in senso orario può essere visualizzata la vene cava superiore a destra dell’
aorta.
ECOCARDIOGRAFIA DOPPLER
Le misurazioni Doppler della velocità dei flussi ematici nel cuore e nei grossi vasi si basano sull’effetto
Doppler, descritto dal fisico austriaco Christian Doppler nel 1942. Il principio Doppler afferma che quando
un segnale sonoro (o luminoso) colpisce un oggetto in movimento, la frequenza del segnale si modifica in
modo proporzionale alla velocità e alla direzione dell’oggetto in movimento.
Quindi, quando un fascio ultrasonoro a frequenza nota viene inviato verso il cuore o i grossi vasi, è riflesso
dai globuli rossi. La frequenza degli ultrasuoni riflessi aumenta all’avvicinarsi dei globuli rossi alla sorgente
sonora e viceversa si riduce quando le emazie si allontanano. Il cambiamento di frequenza tra suono
emesso e suono riflesso dipende dalla frequenza degli ultrasuoni emessi, dalla velocità del bersaglio e
dall’angolo tra direzione del fascio e direzione del movimento delle emazie.
Se il fascio ultrasonoro è parallelo alla direzione del flusso ematico si ottiene la massima velocità; se il fascio
ultrasonoro è perpendicolare alla direzione del flusso, non si misura alcuna velocità. La visualizzazione dello
spettro Doppler è ottenuta attraverso un analizzatore di velocità (Fast Fourier Trasform) con
rappresentazione delle velocità dei flussi ematici sull’asse delle Y e del tempo sull’asse delle X. Tutti i flussi
(Figura40).
Figura 40
Figura 41
L’invio di un nuovo impulso è possibile solo dopo l’analisi di quello precedentemente inviato. La frequenza
di emissione degli ultrasuoni è definita PRF (pulse repetition frequency). La massima variazione di
frequenza (e dunque la massima velocità) determinabile con il Doppler ad onda pulsata è la metà del PRF
ed è chiamata limite di Nyquist. L’esaminatore ha la possibilità di definire il punto esatto dell’analisi
Doppler. Tale punto viene chiamato volume campione. La PRF varia inversamente al volume campione: più
il volume campione è vicino al trasduttore, più elevate saranno la PRF ed il limite di Nyquist; in altri termini
sarà possibile registrare velocità più alte.
Quando la velocità dell’onda riflessa è maggiore di quella inviata (quando, cioè, si supera il limite di
Nyquist) si ottiene un fenomeno noto come aliasing: lo spettro Doppler si interrompe, e una parte di esso
compare sul lato opposto della linea di base, cosicché sembra che il flusso sia contemporaneamente in
avvicinamento ed in allontanamento (Figura42). L’impossibilità di analizzare alte velocità rappresenta
dunque il principale limite del Doppler
pulsato.
Figura 42 Aliasing. Il flusso appare sia sopra (in avvicinamento) che sotto allontanamento la linea di base.
Negli stadi precoci di disfunzione, l’alterato rilasciamento del ventricolo sinistro causa, in condizioni di
riposo, una riduzione del riempimento diastolico precoce a parità di pressioni di riempimento. Questo
effetto si traduce in un iniziale riduzione della velocità dell’onda E, in un prolungamento del tempo di
decelerazione dell’onda E ed in un incremento della percentuale di riempimento ventricolare dovuto alla
contrazione atriale; il rapporto E/A diviene, perciò, minore di 1 (Figura44).
Con il progredire della disfunzione diastolica, la pressione atriale sinistra aumenta, aumentando a sua volta
il gradiente pressorio attraverso la valvola mitrale. A questa mutata situazione emodinamica si accompagna
un graduale incremento della velocità dell’onda E ed una ridotta durata dell’effettivo rilasciamento
ventricolare attivo: ne conseguono un accorciamento del tempo di decelerazione dell’onda E ed un
aumento del rapporto E/A. Negli stadi più avanzati della disfunzione, gli ulteriori incrementi delle pressioni
di riempimento, determinano più alti rapporti E/A e ad ancor più ridotti tempi di decelerazione dell’onda E
(Figura45).
Figura 46
Non esiste quindi il limite di Nyquist, e può essere misurata qualsiasi velocità. L’analisi viene effettuata
sull’intera linea del fascio ultrasonoro esplorante e non in un punto preciso come nel caso del Doppler
pulsato
COLOR DOPPLER
Si basa sui principi del Doppler ad onda pulsata e misura le velocità in diversi punti per molteplici linee di
scansione su tutto il settore dell’immagine, al fine di creare una rappresentazione dinamica e spazialmente
corretta del sangue in movimento nel cuore e nei vasi. Usando speciali filtri, viene analizzata solo la velocità
del flusso ematico, che poi viene trasformata, mediante il confronto con linee adiacenti, (autocorrelazione)
in segnali colorati (Figura47).
Figura 47
livello di qualunque orifizio può essere calcolato come somma di queste tre variabili (Figura50).
Nella maggior parte dei casi è possibile trascurare l’accelerazione di flusso e l’attrito viscoso, per cui il
gradiente pressorio può essere calcolato conoscendo la velocità del sangue prossimalmente all’orifizio
attraverso la formula:
Se la velocità del sangue prossimalmente alla stenosi è ridotta (<1m/s) anche questa componente può
essere ignorata, per cui a formula diventa:
Tale metodo viene utilizzato per il calcolo dei gradienti in caso di stenosi mitralica, aortica (ECO 16, ECO 17)
o polmonare. Può essere applicato, se c’è insufficienza tricuspidale, per il calcolo della pressione sistolica in
arteria polmonare. La velocità del flusso di rigurgito tricuspidalico permette di calcolare il gradiente fra
ventricolo e atrio destro (Figura51); se a questo si aggiunge la pressione telediastolica in ventricolo destro,
che corrisponde alla pressione atriale destra, si ottiene la pressione arteriosa polmonare. La pressione in
atrio destro viene stimata indirettamente in base alle dimensioni della vena cava e al suo grado di
Figura 51 Calcolo del gradiente pressorio fra ventricolo e atrio destro attraverso la velocità del flusso di
rigurgito tricuspidale.
Tale calcolo, tuttavia, non è possibile se è presente un ostacolo all’efflusso ventricolare destro, come in
presenza di stenosi valvolare polmonare.
ECOCARDIOGRAFIA TRANSESOFAGEA
NUOVE TECNOLOGIE
Negli ultimi anni l’ecocardiografia si è arricchita di tecniche in grado di effettuare una valutazione
quantitativa della funzione miocardia e di studiare fenomeni che si sviluppano anche all’interno del
miocardio. Una delle nuove tecniche è il Doppler Tissutale (Figura53), che studia le velocità
intramiocardiche.
Tuttavia, esso è influenzato dal movimento cardiaco globale, dalla rotazione cardiaca e dal trascinamento di
segmenti adiacenti. Da qui lo sviluppo di metodiche (Figura54) in grado di studiare la deformazione
miocardica regionale: lo Strain (quantità totale di deformazione,Figura55), lo Strain rate (la velocità con cui
la deformazione avviene) e lo Strain 2D (che non è una metodica Doppler dipendente e dunque è angolo-
indipendente)
Figura 54
Figura 55
Altre metodiche sono il Backscatter Integrato (che analizza le variazioni della reflettività miocardica in
decibel ) e l’ Ecocontrastografia Miocardica (Figura56), che studia la cinetica delle microbolle del contrasto
ultrasonico a livello intramiocardico.
La più recente metodica ecocardiografica introdotta in Clinica è l’ecocardiografia tridimensionale (Eco 3D)
(Figura57,ECO 10, ECO 11)
L’eco 3D supera gli attuali limiti dell’ecocardiografia bidimensionale, permettendo un’analisi accurata e
riproducibile della morfologia e della funzione delle strutture cardiache.
I pricipali campi applicativi dell’Eco 3D sono: patologie valvolari, cardiopatie congenite, endocardite
infettiva, masse cardiache, cardiomiopatie
DEFINIZIONE
Le metodiche nucleari impiegate nella diagnostica cardiologica si basano sulla somministrazione endovenosa di
traccianti che emettono particelle radioattive (fotoni e positroni). Il tracciante raggiunge il cuore e penetra nelle
cellule miocardiche; intanto una gamma camera misura la radioattività cardiaca e un computer provvede a
costruire immagini che rispecchiano la concentrazione dell’isotopo nelle diverse aree miocardiche. E’ così
possibile, utilizzando determinate tecniche, esplorare sia la perfusione che la funzione miocardica. Le metodiche
attualmente in uso sono la tomografia ad emissione di fotone singolo (SPECT) e la tomografia ad emissione di
positroni (PET).
La miocardioscintigrafia è una tecnica che ha per obiettivo la valutazione semiquantitativa dalla perfusione
miocardica attraverso l’analisi di immagini tomografiche che riportano la distribuzione di un tracciante di perfusione
miocardica. In aggiunta, grazie all’impiego degli attuali traccianti tecneziati, è possibile anche la valutazione della
funzione contrattile regionale e globale, basata sulla acquisizione di immagini sincronizzate (gated)
sull’elettrocardiogramma, in maniera da consentire una ricostruzione affidabile del ciclo cardiaco. La SPECT è un
esame di valutazione di perfusione e funzione sistolica regionale e globale del ventricolo sinistro, che consente una
visualizzazione del ventricolo sinistro in movimento in varie proiezioni, in maniera da esplorare tutte le pareti
miocardiche (Figura 1).
I traccianti radionucleari di uso corrente
Tallio. Il tallio è stato il primo tracciante ad essere impiegato nell’uomo
per la valutazione della perfusione miocardica. Si tratta di un tracciante a bassa energia, che viene avidamente
estratto dal miocardio in maniera proporzionale al flusso regionale. Iniettando il tallio all’acme di uno sforzo, esso
viene captato dalla varie regioni miocardiche, e si accumula più nelle zone irrorate da coronarie normali che nei
territori dipendenti da coronarie stenotiche. Successivamente, il tallio ritorna dalle cellule nel torrente ematico e
può quindi penetrare nelle regioni in cui il flusso era ridotto all’acme dello sforzo. Questo processo, determinato
dalla libera circolazione del tracciante in relazione al flusso, rappresenta il fondamento del fenomeno della
redistribuzione che è peculiare di questo tracciante, e consente ai territori miocardici dipendenti da vasi stenotici
che abbiano ricevuto una minore quantità di tracciante nella fase di inadeguato aumento del flusso in risposta allo
stress di colmare questo deficit una volta terminata la fase di aumentata richiesta di flusso, o anche in condizioni di
riposo quando, anche in presenza di lesioni coronariche severe (fino all’80%), il flusso coronarico è normale. Il
fenomeno della redistribuzione si appalesa con la reversibilità a distanza dallo sforzo (generalmente dopo 3-4 ore)
di un iniziale difetto di perfusione presente durante l’esercizio, che consente di diagnosticare una stenosi coronarica
significativa. La mancata scomparsa di un iniziale difetto di perfusione nelle immagini a distanza, invece, è
espressione di tessuto miocardio necrotico, nel quale il flusso è praticamente assente in ogni momento. L’impiego
del tallio prevede dunque un’unica somministrazione di tracciante per ogni esame scintigrafico.
Traccianti marcati con 99Tecnezio. I due traccianti attualmente impiegati marcati con 99Tc,ovvero il sestamibi e la
tetrafosmina hanno in Italia largamente sostituito il tallio. Rispetto a quest’ultimo possiedono una maggiore energia,
che consente una migliore visualizzazione delle immagini con minore attenuazione, ed una minore esposizione
radioattiva (circa la metà rispetto al tallio). Ma la differenza principale consiste nella cinetica di questi traccianti che,
dopo essere stati iniettati in circolo, vengono captati passivamente dalle cellule miocardiche in proporzione lineare
al flusso ed intrappolati in maniera pressoché irreversibile dai mitocondri. Rispetto al tallio, dunque, i traccianti
tecneziati non circolano liberamente tra esterno ed interno della membrana cellulare e non subiscono il fenomeno
della redistribuzione. Al contrario, essi rappresentano nelle immagini lo stato della perfusione miocardica al
momento della iniezione. La comparazione tra immagini a riposo e immagini al momento dello sforzo, quindi, potrà
avvenire solo con due distinte somministrazioni di tracciante, preferibilmente effettuate in giorni diversi (Figura 2).
FIGURA 2. Immagini SPECT di perfusione dopo somministrazione di tracciante tecneziato (Tc99-sestamibi) durante
sforzo (tomogrammi superiori) ed a riposo (tomogrammi inferiori) si nota difetto di perfusione nelle regioni
anterosettali ed apicali (frecce) durante esercizio non presente nelle immagini a riposo, espressioni di ischemia
miocardica inducibile.
Il valore clinico della miocardioscintigrafia
Diagnosi di cardiopatia ischemica. Come per tutte le metodiche
diagnostiche, l’accuratezza della miocardioscintigrafia è influenzata da una serie di variabili che la rendono
differente da soggetto a soggetto e che solo in parte dipendono dalla tecnica. In generale, l’accuratezza predittiva è
fortemente influenzata, secondo il teorema di Bayes, dalla prevalenza della malattia nella popolazione studiata,
ovvero dalla probabilità pre-test di malattia nel soggetto da studiare. Il secondo rilevante fattore di influenza sulla
accuratezza è legato alla possibilità di artefatti tecnici, ovvero di apparenti deficit di perfusione in alcune regioni
miocardiche. Tali deficit apparenti possono essere dovuti a difetti da attenuazione dei fotoni lungo il passaggio dal
cuore alla gamma camera attraverso i tessuti del corpo. Questo giustifica la presenza di falsi positivi in alcuni territori
come la parete inferiore nell’uomo, per effetto della interposizione del diaframma, e la parete anterolaterale nella
donna per l’interposizione del tessuto mammario, così come la presenza di falsi positivi in soggetti obesi di entrambi
i sessi.
La PET consente una valutazione del flusso e del metabolismo regionale del glucosio e degli acidi grassi, nonché del
consumo di ossigeno, e rappresenta una metodica estremamente sofisticata e di grande ausilio per la ricerca in
vivo. A differenza della SPECT, è basata sulla emissione di particelle ad elevata energia, i positroni (511 kEv), e le
immagini provenienti dai tessuti del corpo (immagini di emissione) vengono sempre corrette attraverso la
acquisizione di una seconda scansione (immagini di trasmissione) ottenuta senza somministrazione di tracciante al
paziente, per il grado di attenuazione che le particelle radioattive subiscono nell’attraversamento delle strutture
corporee. Per la complessità di gestione e gli elevati costi la PET ha tuttora un uso clinico limitato pressoché
esclusivamente nei pazienti con cardiopatia ischemica e dilatazione ventricolare per la ricerca di aree di tessuto
miocardio disfunzionante ma vitale. In tali pazienti, la presenza di attività metabolica residua in un territorio
disfunzionante, valutata comparando la captazione di un analogo del glucosio (18F-fluorodesossiglucosio) in
proporzione al flusso (valutato con Rubidio82 o NH3), è predittiva di recupero funzionale dopo rivascolarizzazione
(Figura 3).
Limiti delle metodiche nucleari
Il principale, e spesso trascurato, limite di queste tecniche è rappresentato dalla
necessità di esposizione a particelle ionizzanti per il paziente. Sebbene l’impiego di traccianti tecneziati abbia
fortemente ridotto la dosimetria rispetto al tallio, è bene ricordare che una SPECT con traccianti marcati con
tecnezio99 corrisponde, in termini di radiazioni assorbite, ad alcune centinaia (da 300 a 500) di radiografie standard
del torace. Questo aspetto, ed il rischio stocastico tra esposizione radioattiva e insorgenza di neoplasie devono
dunque sempre essere considerati nella scelta diagnostica di indagini radionucleari.
La Risonanza Magnetica Cardiaca (RMC) rappresenta una metodica di imaging avanzato che per le sue peculiari
caratteristiche sta trovando sempre più spazio nella pratica clinica quotidiana, a completamento di altre
indagini ormai codificate ed applicate. Pur nascendo come indagine di secondo livello le sue più recenti
applicazioni, in particolare nello studio della cardiopatia ischemica cronica e nelle cardiomiopatie, ne stanno
facendo emergere l’utilità di impiego anche in prima battuta, trattandosi di una metodica di integrazione tra
informazioni funzionali e di caratterizzazione tissutale. I vantaggi dell’impiego della RMC risiedono
essenzialmente nella sua non invasività. Il basso impatto biologico di questa metodica risiede nel fatto che il
principio fisico su cui si basa non coinvolge gli elettroni, notoriamente coinvolti nei processi radianti e
responsabili delle alterazioni del DNA. In RMC infatti l’interazione richiesta per la formazione delle immagini
risiede a livello del nucleo atomico, in particolare nei nuclei di idrogeno. Un secondo vantaggio della RMC
risulta dalla presenza di un elevato contrasto naturale tra il circolo sanguigno e le strutture cardiovascolari, con
conseguente ottima definizione dell’endocardio. Da non dimenticare infine la multiplanarità di questa
metodica, ovvero la possibilità di rappresentare le strutture anatomiche secondo qualsiasi piano, non solo in
quello assiale come per la TAC. Come conseguenza di quanto esposto, la RMC offre un’ottima risoluzione
spaziale dei piani esplorati, il che rappresenta il presupposto perché la RMC si proponga come gold standard
per una corretta definizione dei volumi, massa e funzione miocardica senza necessità di assunzioni
geometriche. Ancor più affascinanti e di interesse nella pratica clinica risultano le potenzialità della RMC dopo
somministrazione di mezzo di contrasto: infatti l’analisi della cinetica di distribuzione del gadolinio nel
miocardio consente di ottenere una caratterizzazione tissutale che eleva questa metodica di imaging ad una
sorta di anatomia patologica in vivo.Accanto a tali aspetti vanno annoverati quelli che, invece, controindicano
l’esame ed essenzialmente risiedono nelle caratteristiche del paziente: severa claustrofobia (in Letteratura
viene riportata un’incidenza pari al 2%), portatori di pacemaker, defibrillatori, clip per aneurismi (in particolare
cerebrali). Relativa risulta la controindicazione che riguarda le alterazioni del ritmo cardiaco (per esempio,
fibrillazione atriale o bradicardia severa) che rendono difficile l’esecuzione tecnica dell’esame e di scarsa
qualità le immagini ottenute. Non esistono al momento attuale delle linee guida precise sull’applicazione della
RMC: la Tabella I riporta le indicazioni più validate.
Un protocollo di studio standard con risonanza magnetica cardiaca con mezzo di contrasto prevede
generalmente i seguenti step:
• immagini preliminari per localizzare la posizione del cuore e dei grandi vasi all’interno del torace;
• immagini in movimento per la valutazione della funzione cardiaca, secondo gli assi ortogonali del cuore
(Figura 1, Figura 2);
• immagini per la caratterizzazione tissutale prima della somministrazione di mezzo di contrasto (edema
miocardico nell’area a rischio di un infarto miocardico (Figura 3); valutazione dell’infiltrazione adiposa
nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (Figura 4)
FIGURA3. In questo caso è rilevabile edema miocardico al setto ed alla parete laterale nell.immagine a sx, in
FIGURA4.Sequenza per la visualizzazione della sostituzione fibro-adiposa nella cardiomiopatia aritmogena del
ventricolo destro: il tessuto adiposo mostra un’alta intensità di segnale che contrasta con il tessuto miocardico
ipointenso.
• immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto : in questo caso dopo circa 10 minuti dall’infusione
endovenosa del mezzo di contrasto le zone fibrotiche o necrotiche appaiono iperintense (>500%
rispetto al segnale basale), (zona bianca, late enhancement), consentendo una netta distinzione
rispetto al miocardio normale (nero) (Figura 5)
FIGURA5. Infarto miocardico transmurale in cui la necrosi (area bianca iperintensa) si localizza alla parete
anteriore media-apicale, all’apice e alla parete inferiore apicale. Il miocardio sano, vitale, risulta nero.
I mezzi di contrasto utilizzati in risonanza magnetica vengono definiti indiretti in quanto agiscono alterando lo
stato di magnetizzazione dei protoni circostanti. Generalmente si utilizza il gadolinio che, in quanto altamente
tossico viene chelato con una molecola molto tenace, costituendo un prodotto a bassa tossicità. Il gadolinio è un
mezzo di contrasto paramagnetico inerte che si localizza preferenzialmente a livello della matrice extracellulare e
non nelle cellule intatte con membrana cellulare integra. Infatti i miociti normocontrattili risultano disposti in
modo da ridurre al minimo la densità con scarsa sostanza intercellulare fibrotica: pertanto il miocardio normale ,
così come quello danneggiato da insulti ischemici, ma ancora vitale non mostra depositi di gadolinio ed appare
nero.
Nell’ambito dell’infarto miocardico il gadolinio si deposita nel miocardio secondo due meccanismi: in entrambi i
casi il risultato è un’area di hyperenhancement tardivo, cioè visibile come tale dopo 10-15 minuti dall’iniezione
del mezzo paramagnetico (Figura 6)
FIGURA6.Potenziali meccanismi di deposito di gadolinio nell’infarto acuto e nella cardiopatia ischemica cronica
In fase acuta la perdita dell’integrità di membrana dovuta alla miocitolisi associata all’edema della reazione
infiammatoria acuta permette al gadolinio di diffondere passivamente attraverso le membrane cellulari
danneggiate, invadendo quello che prima era spazio intracellulare ed aumentando così la sua concentrazione
tissutale.
Nella fase post-acuta si assiste alla formazione della cicatrice post-infartuale povera di miociti, ricca di fibre
collagene e matrice extracellulare: il gadolinio quindi si accumula a questo livello trovando nell’aumento del terzo
spazio il suo naturale tropismo.
Per quanto concerne la tossicità dei mezzi di contrasto utilizzati in risonanza, essa è legata per la maggior parte a
fenomeni allergici; essendo ad eliminazione prevalentemente renale, cautela va adoperata nei pazienti con
clearance < 30 ml/min.
Infarto in fase acutaNella fase acuta di un infarto miocardico la RMC permette di identificare l’estensione
dell’area a rischio grazie alla valutazione dell’edema miocardico (Figura 3). La maggiore applicazione tuttavia
risiede nell’analisi delle immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto: infatti grazie all’impiego del
gadolinio è possibile una netta demarcazione spaziale tra area di necrosi e miocardio vitale. La RMC permette
di identificare i diversi gradi di transmuralità della necrosi permettendo di distinguere infarti transmurali (late
enhancement >75% dello spessore ventricolare) (Figura 5) da quelli subendocardici (late enhancement <75%
dello spessore ventricolare) (Figura 7).
Il segnale iperintenso del mezzo di contrasto permane evidente a distanza di mesi dall’evento acuto, anche
nel caso di piccoli infarti subendocardici. La RMC con mezzo di contrasto (late enhancement) si è dimostrata
molto sensibile soprattutto nell’identificare piccoli infarti sub-endocardici, quando la perfusione valutata con
la SPECT risulta invece normale (Figura 8).
FIGURA8.Infarto subendocardico rilevato (frecce) attraverso CE-RMI e istologia ma non attraverso la SPECT.
La RMC permette di identificare con ottima risoluzione spaziale non solo la sede e l’estensione dell’infarto,
mediante l’analisi dell’ hyperenhancement, ma anche di individuare alterazioni del microcircolo nella zona
sede di necrosi.
In RMC le alterazioni microcircolatorie nell’area di necrosi sono definite come una zona di hypoenhancement
all’interno delle aree di necrosi già definite come late hyperenhancement. Le alterazioni del segnale da
disfunzione microcircolatoria sono già visibili al primo passaggio del gadolinio nel miocardio alterato (“first-
pass ”, Figura 9). In alcuni casi inoltre, dopo 10-15 minuti, le alterazioni del microcircolo osservate in fase
precoce persistono in fase tardiva:queste appaiono come zone scure(hypoenhnacement tardivo, “dark
zones”) nel contesto di aree di necrosi transmurale (Figura 9).
FIGURA9. Immagini due camere: a sinistra sequenza acquisita al primo passaggio del gadolinio (first pass) il
muscolo sano appare chiaro mentre l’alterazione microcircolatoria, in sede subendocardica, è nera (fisr pass
positivo). A dieci minuti (immagine dx) dall’iniezione del mezzo di contrasto è evidente all’interno dell’area di
necrosi la persistenza dell’alterazione microcircolatoria che appare nera (“dark zone”)
Quest’ ultimo reperto corrisponderebbe, secondo diversi studi sperimentali, ad un’area di severa ostruzione
microcircolatoria ed in alcuni casi anche ad emorragia. In alcuni studi questi reperti di RMC avrebbero un
impatto negativo sulla prognosi.
Infarto in fase subacuta o cronicaLa valutazione dell’estensione del danno miocardico è strettamente
correlata con la diagnosi di vitalità, intesa come presenza di tessuto miocardico con disfunzione contrattile, in
grado di recuperare spontaneamente o dopo rivascolarizzazione. Il miocardio disfunzionante ma vitale è
distinto in “miocardio ibernato ” (stato di persistente deficit funzionale da ridotto flusso coronarico, che può
essere in parte o del tutto risolto migliorando il flusso coronarico) e “miocardio stordito ” (prolungata
disfunzione post-ischemica di tessuto vitale dopo riperfusione, a risoluzione spontanea). La presenza di
tessuto miocardico vitale in un soggetto con disfunzione ventricolare regionale e globale è di grande
importanza clinica, in quanto permette di identificare i pazienti che maggiormente beneficeranno di un
trattamento di rivascolarizzazione. Studi con RMC hanno dimostrato come l’estensione dell’
hyperenhancement sia in grado di predire, in pazienti con infarto acuto, il recupero della funzione contrattile
ventricolare regionale dopo rivascolarizzazione percutanea o chirurgica, identificando come limite per un
recupero soddisfacente della funzione ventricolare un valore di transmuralità compreso tra il 25% e il 50%.
valore aggiunto la caratterizzazione tissutale, resa possibile dall’impiego dei mezzi di contrasto. In particolare
permette di distinguere le forme primitive, in cui il late enhancement è assente o comunque con distribuzione di
tipo non ischemico (intramurale Figura 10) da quelle post-ischemiche (aree di necrosi subendocardiche o
transmurali).
FIGURA10.Esempi di deposito di gadolinio a sede intramurale (middle striae) della miocardiopatia dilatativa.
Inoltre alcuni pazienti con dilatazione ventricolare non di origine ischemica è possibile rilevare late enhancement
di tipo diffuso (patchy) o epicardico, indicativo di probabile pregressa miocardite
Cardiomiopatia ipertroficaNella cardiomiopatia ipertrofica la RMC permette una precisa definizione della sede e
del grado di ipertrofia, anche in forme con localizzazione difficilmente espolarabile all’ecocardiogramma
transtoracico (ad esempio all’apice del ventricolo sinistro). Interessante anche da un punto di vista prognostico
risulta l’analisi del late enhancement, localizzato preferenzialmente a livello del setto nelle zone di maggior
ipertrofia, la cui entità sembra correlare con il rischio aritmico nel follow-up (Figura 11).
FIGURA11.Cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva; a) immagine senza mezzo di contrasto in proiezione due camere
; b) proiezione due camere dopo somministrazione di gadolinio: segni di late enhancement diffuso maggiormente
rappresentato sotto forma di spot nelle aree di maggior ipertrofia.
Poiché questa patologia si caratterizza per delle alterazioni soprattutto a livello del ventricolo destro, camera
difficilmente esplorabile all’ecocardiogramma transtoracico, la RMC si propone come gold standard per la
valutazione delle sezioni destre del cuore. In particolare, secondo quanto indicato nei Criteri Diagnostici di
McKenna, è possibile un’analisi della dilatazione e della disfunzione del ventricolo destro, valutando le anomalie
della cinetica regionale (Figura 12). Si può, inoltre, eseguire uno studio per la presenza di infiltrazione adiposa: il
tessuto adiposo mostra un’alta intesità di segnale, che contrasta con il tessuto miocardico ipointenso (Figura 4).
Infine negli ultimi anni nel valutare i pazienti con sospetta cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro si è
valorizzato il ruolo del gadolinio che si è dimostrato in grado di evidenziare segni di late enhancement spesso
presente in questa patologia, sia a livello del ventricolo destro che sinistro (Figura 13).
MiocarditiLa RMC trova una importante applicazione nelle miocarditi soprattutto nella diagnosi iniziale. La RMC,
grazie alla elevata risoluzione spaziale ed all’impiego del gadolinio rende possibile identificare specifici pattern di
late enhancement a distribuzione ora epicardica (soprattutto nei casi di miopericardite), ora focale a spot diffusi
(Figura 14).
FIGURA14.Esempio di miocardite con segni di deposito di gandolinio in sede epicardica tipo spot diffusi (aree
bianche di late enhancement).
Masse miocardicheLe potenzialità della RMC nello studio delle masse miocardiche trova la sua naturale
applicazione nella valutazione della loro morfologia, dimensioni, localizzazione, estensione e rapporti topografici
con le strutture viciniori (Figura 15).
FIGURA15.Voluminosa massa in atrio sx che non presenta depositi tardivi di gandolinio: all’esame istologico si
rivelerà essere una voluminosa massa trombotica.
Accanto a ciò va aggiunta la capacità di caratterizzazione tissutale, utile nel caso di formazioni lipomatose. Ulteriori
informazioni si possono ottenere dalla somministrazione del mezzo di contrasto che si raccoglierà maggiormente e
più velocemente nelle formazioni a più elevata vascolarizzazione.
Il test da sforzo cardiopolmonare permette di misurare in modo preciso la capacità di un soggetto a compiere esercizio f
fisiologico, medico e sportivo, oltre che nella valutazione di molteplici stati morbosi che interessano apparato cardiocirc
principale del test è lo studio e la cura dell’insufficienza cardiaca.
Il test cardiopolmonare è volto a determinare la risposta antomo-funzionale di polmone, cuore e muscolo da cui dipend
dell’ossigeno (O2). Proprio la misura del consumo di O2, la produzione di anidride carbonica (VCO2), la risposta ventilato
cui il test si articola e da cui si elabora una serie di variabili derivate. A completamento della prova è utile registrare una
monitoraggio continuativo dell’elettrocardiogramma e dei parametri emodinamici ed emogasanalitici (Tabella I).
L’interpretazione del test avviene mediante analisi integrata delle variabili registrate, seguendo l’andamento dei princip
L’interpretazione sistematica dei dati permette di determinare il grado di limitazione funzionale e, soprattutto, di identif
funzionale.
METODOLOGIA
Indipendentemente dal tipo di esercizio e dal protocollo utilizzato, il soggetto in esame deve essere collegato
mediante maschera facciale o boccaglio e stringinaso ad un tubo valvolato, dotato di valvola “non-rebreathing”,
tale, cioè, da permettere che l’aria espirata non si disperda nell’ambiente ma venga diretta all’apparecchio
analizzatore. L’acquisizione e l’analisi dei dati si basa sul sistema “breath-by-breath” o atto per atto respiratorio.
La pressione tele-espiratoria dei gas espirati (PETO2 e PETCO2) e il volume corrente respiratorio vengono
registrati in continuo, e agli analizzatori di O2 e CO2 perviene una quota variabile di aria espirata ad una
frequenza costante tra i 200 e i 500 ml/min. Ulteriori aspetti metodologici riguardano il tipo di esercizio,
l’incremento del carico lavorativo e la familiarizzazione con la metodica.
I due tipi di esercizio comunemente impiegati (tappeto rotante e cicloergometro) coinvolgono un numero
differente di unità muscolari: la diversa spesa energetica che ne consegue (circa il 10% in più per il tappeto
all’apice dello sforzo) giustifica, insieme alla mancanza di una precisa standardizzazione dei protocolli, la
discordanza tra test eseguiti in laboratori differenti. L’esercizio più fisiologico si ottiene incrementando
gradualmente il carico di lavoro (rampa) così che lo sforzo massimale abbia una durata complessiva tra i 10 e i 12
minuti. Si rende, pertanto, necessario personalizzare preliminarmente il carico lavorativo in base a una
valutazione indiretta che tenga conto della condizione fisica e dell’abilità a compiere sforzo.
L’intolleranza all’esercizio costituisce una caratteristica peculiare del malato con insufficienza cardiaca, che
spesso presenta sintomi quali dispnea e fatica muscolare. Pur essendo ovvio che il grado di compromissione
funzionale e sintomatologico tende a crescere con il progredire dello scompenso, la limitazione funzionale e
l’insorgenza di sintomi si manifestano fin dagli stadi iniziali, e costituiscono il campanello di allarme in quei casi in
cui, pur in assenza di sintomatolgia rilevante, è già presente disfunzione ventricolare sinistra e attivazione
neuroormonale. In questo contesto, il test da sforzo cardiopolmonare offre un ampio bagaglio di informazioni
per la stadiazione e il follow-up clinico-prognostico del malato con insufficienza cardiaca.
Il malato cardiaco non sempre e non solo riconosce nel ridotto incremento della gittata cardiaca, per difetto
cronotropo o contrattile, la causa di limitazione funzionale: è sempre più evidente che alterazioni specifiche del
controllo ventilatorio, modificazioni funzionali e strutturali del muscolo scheletrico, oltre che la presenza di
anemia, cui consegue alterato trasporto e rilascio di O2 ai muscoli, giochino un ruolo di prim’ordine.
Il massimo consumo di O2 ottenibile all’apice di uno sforzo massimale (VO2 max) è il parametro di riferimento
più immediato per riconoscere se esista o meno limitazione funzionale e se la risposta dinamica ottenuta
raggiunga quella predetta. Per il malato cardiaco, tuttavia, il VO2 max rimane un valore teorico, e al suo posto si
considera il VO2 massimale (VO2 di picco), che corrisponde al consumo di O2 più elevato ottenuto all’apice dello
sforzo. Il VO2 di picco (Figura 1, grafico 3) si esprime generalmente come consumo di O2 al minuto rapportato al
peso corporeo, ed è stato proposto con successo quale elemento di classificazione dello scompenso cardiaco. Il
valore di VO2 di 20 ml/min/kg è il limite al di sopra del quale inizia il range di normalità (Classe A), mentre il
valore di 10 ml/min/kg (classe D) è quello al di sotto del quale la compromissione è tale che una prova
ergodinamica non è proponibile; tra questi due valori si inseriscono le classi B (VO2 di picco tra i 15 e i 20
ml/min/kg) e C (VO2 di picco tra i 10 e i 15 ml/min/kg). Studi pionieristici degli anni ’90 e successive
dimostrazioni su ampi numeri hanno permesso di identificare un valore di VO2 di picco di 10 ml/min/kg quale
cutoff di riferimento per inserire il paziente in lista attiva per trapianto di cuore. Occorre, tuttavia, che il soggetto
abbia raggiunto e superato il punto di soglia anaerobia in cui inizia la produzione di acido lattico e intervengono i
meccanismi di compenso, isocapnico prima e ventilatorio successivamente. In questo contesto, oltre al VO2 di
picco è stata recentemente dimostrata l’utilità di un altro importante parametro ottenuto con la registrazione
dei gas espirati, cioè la pendenza della relazione ventilazione (VE) versus VCO2 (Figura 1, grafico 4). Il
comportamento peculiare di questi malati è che, per una data produzione di CO2, l’entità della risposta
ventilatoria da sforzo risulta eccessiva: il grado di “inefficienza ventilatoria” è predittivo di morbidità e mortalità.
L’incremento della pendenza della relazione VE/VCO2 è documentabile anche nei quadri iniziali di insufficienza
cardiaca, e il suo potere predittivo è esteso anche ai pazienti con preservata funzione contrattile ma alterate
proprietà di rilasciamento diastolico. Nuove prospettive emerse propongono la necessità di utilizzare questa
variabile per meglio stratificare, rispetto al VO2 di picco, la compromissione clinica e i benefici della terapia nel
paziente scompensato.
Il sistema neurovegetativo è definito come la parte del sistema nervoso responsabile dell’innervazione viscerale, ed è ca
originano le fibre nervose efferenti dirette ai vari organi. Il sistema comprende neuroni postgangliari, gangli, neuroni pre
essere riuniti in tre gruppi principali: craniali, toracolombari e sacrali. Tale sistema viene anche definito col termine Siste
controllo: il Sistema Simpatico e Parasimpatico. Negli organi con doppia innervazione (ad esempio, il cuore), i sistemi so
innervazione simpatica, invece, lo stesso sistema provvede ad entrambe le funzioni: nel caso dei vasi arteriosi, per esem
vasocostrizione. La funzione di controllo viene svolta attraverso due principali modalità di scarica delle fibre nervose effe
stabilità (omeostasi) di parametri come, ad esempio, la frequenza cardiaca o la pressione arteriosa sistolica, e 2) un’attiv
in seguito a stimoli interni (ad es. ischemia miocardica, dolore) o esterni (ad es. stress, emozioni). E’ presente, inoltre, un
ad esempio, il Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone.
Il controllo nervoso della frequenza cardiaca è un tipico esempio dell’antagonismo e della complessa e continua interazi
simpatiche (noradrenalina) e vagali (acetilcolina) e le caratteristiche di risposta delle cellule pacemaker. Tale caratteristi
del sistema nervoso autonomo: l’analisi della variabilità della frequenza cardiaca e lo studio della sensibilità barocettiva.
Il sistema nervoso autonomo opera prevalentemente attraverso segnali che possono modificare il flusso di Calcio e di al
appartengono al sistema di recettori accoppiati alle proteine G, sono in grado di avviare un processo di trasduzione che
nell’attivazione, attraverso la fosforilazione di proteine intracellulari. A livello cardiaco, i recettori beta-adrenergici sono
beta2, che prevale a livello extracardiaco, costituisce solo il 20% dei beta recettori cardiaci. I recettori alfa-adrenergici ut
ruolo determinante nel regolare il flusso di calcio nella muscolatura vascolare liscia.
LA FREQUENZA CARDIACA.
Può sembrare sorprendente che la misura della frequenza cardiaca possa fornire valide e importanti informazioni
prognostiche sia nella popolazione sana sia in differenti condizioni cliniche. La frequenza cardiaca istantanea è,
con ogni probabilità, il più semplice indicatore dell’equilibrio autonomico e quindi può fornire importanti
informazioni sull’interazione simpato-vagale e sulla capacità di risposta del nodo del seno alla modulazione
autonomica. Una frequenza cardiaca elevata è un importante fattore prognostico negativo sia nella popolazione
generale sia in pazienti con differenti patologie cardiovascolari. Anche se è verosimile che i meccanismi che
possono determinare un aumento della frequenza cardiaca a riposo non possano essere ricondotti al solo
sistema neurovegetativo, quest’ultimo ne rimane il principale determinante. Informazioni sul controllo
autonomico possono essere anche ricavate dall’analisi delle variazioni di frequenza cardiaca indotte sia nelle
prime fasi di un esercizio fisico sia nel recupero. Un eccessivo aumento della frequenza cardiaca nei primi minuti
di esercizio e una scarsa riduzione nelle prime fasi di recupero sono state interpretate come segni di un alterato
equilibrio simpato-vagale ed associate ad un aumento di mortalità in pazienti con cardiopatia ischemica e
insufficienza cardiaca.
Questa metodica si basa sul fatto che anche in condizioni di riposo la frequenza cardiaca istantanea ha una
variabilità battito-battito che può essere facilmente messa in evidenza se si analizza una serie temporale di
intervalli RR (tacogramma). La misura di queste oscillazioni può essere fatta con semplici metodi statistici, come
il calcolo della media o della deviazione standard, o con metodiche spettrali che permettono di identificare e
misurare l’ampiezza delle principali componenti oscillatorie. Nell’analisi del breve periodo (5-30 minuti) l’analisi
spettrale (Figura 1) mostra due principali componenti oscillatorie a bassa (LF) e ad alta frequenza (HF) che
riflettono rispettivamente la modulazione simpatica e parasimpatica del nodo del seno.
FIGURA1.Analisi spettrale della frequenza cardiaca ottenuta da un breve periodo di registrazioni in condizioni di
controllo di un soggetto sano. Si identificano chiaramente le due principali componenti oscillatorie a bassa (LF)
ed a alta (HF) frequenza che riflettono la modulazione autonomica del nodo del seno.
Il rapporto LF/HF è comunemente utilizzato come indice dell’interazione simpato-vagale, e nel soggetto sano ha
un valore inferiore a 2. Un’attivazione simpatica come quella indotta dall’ortostatismo passivo si associa ad un
aumento della componente LF e ad una riduzione della componente HF. Un aumento della variabilità dei cicli
cardiaci legato all’attività respiratoria si associa ad un aumento della componente HF. L’analisi di lunghi periodi,
come quelli rilevabili nelle registrazioni Holter, è caratterizzata da numerose macro-oscillazioni, che possono
essere determinate dalla sequenza sonno veglia, dal livello di attività fisica e da altri fattori neuro-umorali. In
questo caso l’analisi spettrale indica che meno del 10% della potenza totale è ascrivibile alle componenti LF e HF,
mentre predominano le componenti a più basse frequenze che riflettono i fenomeni sopraindicati.
Nella pratica clinica la disponibilità di uno strumento in grado di misurare l’interazione simpato-vagale ha trovato
numerose applicazioni, soprattutto nella cardiopatia ischemica, nell’ipertensione arteriosa e nell’insufficienza
cardiaca. Il riconoscimento di un’alterazione del fisiologico equilibrio simpato-vagale nel post-infarto ha
permesso di identificare pazienti con un elevato rischio di morte cardiaca aritmica.
Attualmente tutti i sistemi di lettura dell’elettrocardiogramma dinamico, registrato per 24 ore (Holter) sono in
grado di fornire parametri come la deviazione standard degli intervalli RR normali (SDNN), che può essere
utilizzata nella stratificazione non invasiva del rischio di morte cardiovascolare. L’analisi spettrale delle 24 ore
fornisce, invece, informazioni di maggior difficoltà interpretativa, e recentemente è stata affiancata da ulteriori
elaborazioni del segnale di variabilità RR basate sull’analisi di dinamiche non lineari, che tuttavia vengono
utilizzate prevalentemente nei laboratori di ricerca.
Questa metodica si basa su un modello stimolo risposta e quantifica l’aumento di durata degli intervalli RR in
risposta ad un aumento di pressione arteriosa indotta dalla somministrazione di una sostanza vasoattiva come la
fenilefrina (Figura 2).
FIGURA2.Calcolo della sensibilità barocettiva durante test alla fenilefrina. Nella parte superiore vengono illustrate
le modificazioni battito-battito della pressione arteriosa sistolica e dell’intervallo RR durante l’incremento pressorio
indotto dal farmaco vasoattivo. Nella parte inferiore è rappresentata la correlazione pressione/RR che permette di
calcolare l’intercetta come misura della sensibilità barocettiva.
L’inclinazione della curva che descrive tale metodica si esprime in msec/mmHg, e in soggetti sani ha un valore
superiore a 12 msec/mmHg. Questa metodica fornisce quindi una misura della capacità di risposta dei meccanismi
nervosi di controllo, e riflette la capacità d’incremento dell’attività vagale efferente e la capacità d’inibizione
dell’attività simpatica efferente diretta al cuore. Va ricordato che tra i due sistemi di controllo esiste una continua
interazione che modula la capacità di risposta di ciascuna componente del sistema nervoso neurovegetativo. Una
ridotta sensibilità barocettiva caratterizza pazienti con un’elevata mortalità sia nel post-infarto sia nello scompenso
cardiaco.
L’HRT è una metodica che si basa sull’analisi delle modificazioni di durata del ciclo cardiaco che seguono la pausa
compensatoria indotta da un battito prematuro ventricolare (Figura 3)
FIGURA3.Analisi della turbolenza cardiaca (HRT). Nella parte superiore è rappresentata la serie temporale degli
intervalli RR che precedono e seguono la pausa compensatoria indotta da un battito prematuro ventricolare. Nella
parte inferiore viene indicato dove e come si calcolano i due parametri che descrivono tale metodica: TO e TS.
Questa metodica è stata utilizzata con successo nel post infarto e in pazienti con differenti tipi di
cardiomiopatia, ma necessita che la registrazione sui cui viene effettuata l’analisi presenti un numero
adeguato (non inferiore a 20) di battiti prematuri ventricolari.
CONCLUSIONI
Lo studio del Sistema Neurovegetativo non è limitato al laboratorio di fisiopatologia, ma ha importanti risvolti
applicativi anche in Clinica. Alterazioni del sistema neurovegetativo con aumento della modulazione simpatica
e riduzione dell’attività vagale caratterizzano condizioni patologiche come la cardiopatia ischemica,
l’insufficienza cardiaca, l’ipertensione arteriosa. Tali alterazioni non solo riflettono la severità della patologia
sottostante ma sono fattori spesso determinanti per la progressione della malattia e in grado di provocare
un’instabilità elettrica del miocardio. L’analisi della variabilità della frequenza cardiaca, della sensibilità
barocettiva e della HRT ha permesso di identificare nel post-infarto pazienti ad alto rischio e può quindi guidare
le nostre strategie terapeutiche per ridurre la mortalità aritmica.
Capitolo 11
CATETERISMO CARDIACO E ANGIOCARDIOGRAFIA
Germano Di Sciascio, A. D’Ambrosio
DEFINIZIONE
TECNICA
Il cateterismo cardiaco viene eseguito in una sala sterile attrezzata con un sistema radiografico ad alta
risoluzione, apparecchi poligrafici per il monitoraggio continuo e la registrazione dei parametri fisiologici
(traccia ECG, onda pressoria e pulsossimetria transcutanea), un carrello con farmaci per le emergenze ed un
defibrillatore per il trattamento delle aritmie ventricolari. Inoltre, la sala deve essere dotata di un iniettore
per il mezzo di contrasto, un sistema per l’acquisizione di film cineangiografico con la possibilità di
elaborazione digitale delle immagini ed archiviazione successiva.
Il paziente deve essere a digiuno e leggermente sedato, ma sveglio. La procedura viene effettuata con
metodica percutanea, nella maggior parte dei casi attraverso l’arteria e la vena femorale; l’approccio
brachiale o radiale viene utilizzato in presenza di vasculopatia periferica che precluda l’accesso dagli arti
inferiori o l’avanzamento dei cateteri in aorta addominale oppure quando si vuole consentire una
deambulazione precoce del paziente dopo la procedura.
La Figura 11.1 illustra la tecnica di puntura vasale percutanea.
L’arteria e/o la vena periferica vengono punte con un ago, previa anestesia locale della cute e sottocute:
l’ago ha un calibro tale da consentire l’inserimento all’interno dello stesso di una guida metallica flessibile
che può essere avanzata nel vaso (Figura 11.1 A e Figura 11.1 B). A questo punto l’ago viene rimosso e con
la punta di un bisturi viene effettuata una piccola incisione di cute e sottocute al fine di consentire il
passaggio dell’introduttore (Figura 11.1 C). La guida lasciata in situ permette l’inserimento nel vaso
periferico di una cannula (detta introduttore), inizialmente dotata di svasatore (Figura 11.1 D e Figura 11.1
E): quest’ultimo viene rimosso assieme alla guida quando l’introduttore è posizionato completamente
all’interno del vaso (Figura 11.1 F). Il calibro dell’introduttore è variabile, a seconda della procedura che
viene eseguita; in genere, è dell’ordine di alcuni millimetri (da 4 a 8 French, considerato che 1 French = 0.3
mm, il calibro varia da 1.2 a 2.5 mm). Terminata la procedura di cateterismo, l’introduttore viene rimosso e
si ottiene l’emostasi locale mediante compressione manuale o mediante dispositivi meccanici per 15-20’: la
compressione sarà applicata a monte del sito di inserzione nel caso di puntura arteriosa, a valle nel caso di
puntura venosa.
Nella procedura di cateterismo cardiaco sinistro, un catetere pre-formato - ovvero, che presenta curvatura
predefinita all’estremità distale al fine di essere agevolmente introdotto nelle cavità cardiache – viene
avanzato per via retrograda sotto controllo dei raggi X (fluoroscopia) nell’arteria periferica fino all’aorta
ascendente e poi in ventricolo sinistro, attraverso la valvola aortica, ed eventualmente in atrio sinistro,
attraversando per via retrograda la valvola mitrale. A tutti i livelli (distretto vascolare e camere cardiache) è
possibile misurare attraverso il catetere i parametri emodinamici, così come effettuare prelievi per
determinare le saturazioni d’ossigeno. Le forme d’onda pressoria (tensiogrammi) possono essere
visualizzate su monitor e stampate su carta o memorizzate su di un supporto informatico.
Nei casi in cui non sia possibile eseguire un cateterismo retrogrado delle camere sinistre del cuore (ad
esempio: stenosi aortica serrata, protesi valvolare aortica), si può procedere per via trans-settale dalle
sezioni destre. Un catetere speciale (di Brockenbrough e Braunwald), introdotto per via percutanea dalla
vena femorale destra, viene passato dall’atrio destro al sinistro dopo aver punto il setto con un ago ricurvo
nelle regione della fossa ovale. Dall’atrio sinistro il catetere viene poi avanzato nel ventricolo sinistro
attraverso la valvola mitrale.
Per la procedura di cateterismo cardiaco destro viene generalmente utilizzato il catetere a palloncino
flottante di Swan Ganz (Figura 11.2). Il catetere, sotto controllo fluoroscopico e dopo aver gonfiato il
palloncino all’estremità distale, viene avanzato (Figura 11.3) attraverso la vena periferica nella vena cava
(inferiore o superiore, a seconda dell’approccio iniziale) e quindi in successione nell’atrio destro, nel
ventricolo destro e in uno dei due rami principali dell’arteria polmonare, fino ad “occludere”
transitoriamente un ramo periferico di quest’ultima. In questa posizione è possibile registrare la pressione
di “incuneamento capillare polmonare”, la quale riflette quasi sempre in maniera accurata la pressione
striale sinistra.
Figura 11.2 Catetere a palloncino di Swan Ganz. All’estremità prossimale del catetere si riconoscono 4 possibili connessioni, tra cui
quella con siringa per gonfiare il palloncino distale e quella per il monitoraggio continuo della pressione. L’estremità distale del
catetere è dotata di palloncino e di un foro terminale.
Il catetere di Swan Ganz consente il cateterismo destro a letto dell’ammalato anche senza necessità di
radioscopia: l’uso di tale indagine si è esteso alle Unità di Terapia Intensiva Coronarica, per il monitoraggio
emodinamico di pazienti in condizioni critiche. Il termistore posto alla estremità del catetere consente di
misurare la gittata cardiaca mediante metodica diluizionale, fornendo quindi un quadro sufficientemente
completo della funzione cardiocircolatoria del paziente.
La ventricolografia sinistra viene eseguita di routine in corso di cateterismo cardiaco sinistro. Essa prevede
l’introduzione in ventricolo per via retrograda di un catetere particolare, denominato “pig-tail”, in quanto
presenta all’estremità distale un ricciolo che ricorda il codino del suino, ed è dotato di diversi fori a questo
livello. La specifica conformazione del catetere permette l’agevole introduzione nella camera cardiaca -
senza risultare traumatico per le pareti cardiache e quindi evitando di stimolare l’insorgenza di aritmie
ventricolari – e l’adeguata opacizzazione della stessa mediante iniezione di circa 40-50 ml di mezzo di
contrasto radiopaco ad alta velocità ed in pochi secondi (Figura 4). In tal modo è possibile osservare le
dimensioni del ventricolo sinistro, la contrazione ed il rilasciamento delle pareti e l’eventuale presenza di
insufficienza della valvola mitrale, evidenziabile come rigurgito sistolico di mezzo di contrasto in atrio
sinistro attraverso la valvola. In soggetti con dilatazione/disfunzione ventricolare sinistra, la ventricolografia
mette in evidenza la ridotta contrattilità generalizzata (Figura 5) o segmentaria.
La coronarografia viene eseguita portando a livello del piano valvolare aortico cateteri con curve
preformate all’estremità distale che permettono l’incannulazione selettiva dell’ostio coronario destro e
sinistro. Successivamente vengono iniettati pochi millilitri di mezzo di contrasto all’interno della coronaria e
viene registrato il riempimento e successivo svuotamento della coronaria (Figura 6, Figura 7, Figura 8). In
genere, vengono utilizzate diverse proiezioni radiografiche (oblique anteriori destre e sinistre, craniali e
caudali), ruotando il tubo radiogeno attorno al paziente, al fine di visualizzare le coronarie epicardiche
principali e le loro ramificazioni lungo tutto il loro decorso.
E’ quindi possibile mettere in evidenza stenosi a carico delle arterie coronarie (Figura 9). [Da Figura 4 a
figura 9 sono tutti video]
INDICAZIONI
Il cateterismo cardiaco viene effettuato per determinare la natura e l’estensione di un sospetto problema
cardiaco in un paziente nel quale si intenda effettuare un intervento chirurgico o una terapia interventistica
percutanea. Tale metodica serve anche per escludere patologie significative in presenza di risposte
equivoche ad altri esami non invasivi, quali test da sforzo o ecocardiogramma, oppure quando, in un
paziente fortemente sintomatico, l’acquisizione di una diagnosi definitiva sia rilevante ai fini del
trattamento. Il cateterismo cardiaco permette di:
• misurare direttamente le pressioni intravascolari (circolo arterioso sistemico e polmonare) ed
intracavitarie a livello della sezione destra e sinistra del cuore;
• visualizzare con mezzo di contrasto radiopaco sia i grossi vasi che le cavità cardiache, in particolare il
ventricolo sinistro, al fine di valutare la funzione contrattile globale, e la cinetica regionale del ventricolo e
la continenza valvolare aortica e mitralica.
La misurazione diretta dei gradienti transvalvolari è fondamentale nella valutazione dei pazienti con
valvulopatia: le Figura 11.10 e Figura 11.11 illustrano i tracciati pressori registrati in caso di stenosi aortica e
stenosi mitralica.
Anche dopo l’introduzione della TC coronarica, la coronarografia continua ad essere l’unica metodica in
grado di definire in maniera accurata la gravità e l’estensione della coronaropatia: è pertanto esame
essenziale nella valutazione dei pazienti per i quali venga presa in considerazione la rivascolarizzazione, sia
essa percutanea (angioplastica coronarica) o chirurgica (mediante intervento di by-pass aorto-coronarico).
Le Figura 6, Figura 7, Figura 8, e Figura 9 mostrano quadri coronarografici normali e con stenosi
significative.
Figura 11.10 Registrazione della curva pressoria aortica (traccia azzurra - Ao) e ventricolare sinistra (traccia rossa - VS) con
dimostrazione del gradiente sistolico transvalvolare aortico in un paziente con stenosi aortica. Sono indicati il gradiente istantaneo
di picco (massima differenza di pressione tra ventricolo sinistro ed aorta quando le pressioni sono registrate nello stesso momento),
il gradiente picco-picco (differenza tra la massima pressione in ventricolo e la massima pressione in aorta) ed il gradiente medio
(area verde: integrale della differenza pressoria tra ventricolo sinistro ed aorta durante la sistole.
Figura 11.11 Registrazione della curva pressoria atriale sinistra (traccia azzurra –AS, in genere ottenuta attraverso la pressione
capillare polmonare) e ventricolare sinistra (traccia rossa - VS) con dimostrazione del gradiente diastolico transvalvolare mitralico in
un paziente con stenosi mitralica. La pressione in atrio sinistro è superiore a quella in ventricolo sinistro in diastole, determinando un
gradiente pressorio (area verde)
Il cateterismo cardiaco è una procedura relativamente sicura, ma trattandosi di una tecnica invasiva, si
associa ad un rischio di morbilità e mortalità ben definito.
Esiste una sola controindicazione assoluta all’esecuzione di un cateterismo cardiaco: la presenza di
apparecchiature e personali non adeguati alla procedura. Le seguenti rappresentano controindicazioni
relative: sanguinamento acuto gastrointestinale con anemizzazione, diatesi emorragica incontrollata,
anticoagulazione efficace (INR>2), alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico (in particolare l’ipopotassimeia,
che predispone alle aritmie), infezioni e febbre, intossicazione da farmaci (ad esempio: digitale,
fenotiazina), gravidanza, recente evento cerebrovascolare (< 1 mese), insufficienza renale, scompenso
cardiaco instabile, ipertensione arteriosa non controllata, aritmie, paziente non collaborante.
Uno studio prospettico di 5 anni condotto nel 1968 riportava un’incidenza cumulativa di complicanze
(incluse: perforazione cardiaca, aritmie maggiori, emorragie, ipotensione severa, trombosi vascolare, ictus
embolico, infarto miocardico e morte) nei pazienti di tutte le età pari al 3.6%. Successivamente, il
miglioramento progressivo delle tecniche, l’esperienza sempre maggiore degli operatori e l’uso di cateteri
più flessibili e di mezzi di contrasto meno nefrotossici, ha determinato una riduzione notevole
dell’incidenza di complicanze, permettendo un’applicazione sempre più estesa di questa tecnica
diagnostica al fine di ottenere una precisa diagnosi anatomo-funzionale cardiovascolare in vista di
un’indicazione terapeutica.
Le complicanze legate al cateterismo cardiaco si possono distinguere in maggiori e minori. Le prime hanno
un’incidenza globale approssimativamente del 0.1-0.2% e sono elencate di seguito, con incidenza media
indicata tra parentesi: morte (0.11%), infarto miocardico acuto (0.05%), evento ischemico cerebrale
(0.07%), tachicardia o fibrillazione ventricolare o aritmie maligne (0.38%), complicanze vascolari (0.43%),
reazioni al mezzo di contrasto (0.37%), complicanze emodinamiche (0.26%), perforazione delle camere
cardiache (0.03%). Le complicanze minori si osservano in circa il 4% dei pazienti sottoposti a cateterismo
cardiaco; le più comuni sono le lievi reazioni vaso-vagali (ipotensione arteriosa e bradicardia transitorie,
secondarie alla puntura vasale ed all’uso di mezzo di contrasto) e gli episodi di angina che durano meno di
10 minuti.
Capitolo 12
DIAGNOSTICA VASCOLARE
Alberto Balbarini, R. Di Stefano
INTRODUZIONE
La diagnostica vascolare può essere classificata in modi diversi, sulla base di molteplici criteri, fra cui i
seguenti:
A monte di ogni scelta sul tipo di esame, devono essere note le informazioni che si possono ottenere, oltre
che il rapporto costo/beneficio, in modo da richiedere indagini di secondo livello solo quando ne esista la
reale indicazione.
L’approccio diagnostico vascolare verrà presentato separatamente per i seguenti distretti :
- Distretto Carotideo
- Distretto Periferico
- Microcircolo
La diagnostica invasiva viene attuata solo su casi selezionati, mediante arteriografia. Per il distretto
carotideo la metodica diagnostica ottimale dovrebbe fornire dati affidabili sulla sede della placca, sulla
composizione istologica (emorragia, fibrosi, contenuto lipidico) e la morfologia (superficie liscia o ulcerata).
Nella realtà clinica nessuna metodica è in grado di fornire allo stesso tempo e con la stessa precisione tutte
queste informazioni.
ECOCOLORDOPPLER
E’ la metodica di riferimento che consente, eventualmente in associazione a studio angio TC o angio RNM e
a Doppler transcranico, di pianificare interventi chirurgici di correzione di stenosi emodinamiche senza la
necessità di ricorrere ad una arteriografia preoperatoria.
La metodica eco Doppler si basa sull’utilizzo di un trasduttore posizionato con angolo di 90° a livello
cutaneo che agisce sia da trasmittente di emissioni di ultrasuoni che da ricevente degli echi trasmessi
originati dalle varie interfacce che vengono elaborati e convertiti in punti luminosi in grado di ricostruire
l’immagine anatomica del vaso o le caratteristiche della placca da analizzare.
Il colore permette di determinare l’orientamento spaziale del flusso e la relazione spaziale tra quest’ultimo
e le strutture anatomiche è visualizzata in tempo reale .
Tutti i sistemi color Doppler codificano la direzione del flusso in due colori, rosso e blu: la direzione del
Figura 12.1 Placca carotidea dell’origine dell’arteria carotide interna destra: rilievo angiografico ed ECD
Se l’ indagine ecografica è la metodica di prima scelta per discriminare l’ entità della stenosi (percentuale),
la localizzazione (carotide comune, interna o esterna) e l’estensione, altri parametri importanti che
rendono la placca instabile, ovvero ad elevato rischio di eventi clinici, sono di più difficile acquisizione. I
principali parametri che sono risultati correlati all’ instabilità della placca sono :
- irregolarità di superficie o ulcerazione
- abbondante componente lipidica
- emorragia.
Questi dati sono oggi acquisibili con tecniche diagnostiche ecografiche più sofisticate, di secondo livello,
basate sull’ analisi densitometrica della placca ottenuta con l’ acquisizione della scala dei grigi ( back-
scattering ) .
ANGIO TC
La metodica angio TC, in particolare la TC spirale che consente di ottenere immagini tridimensionali ad alta
risoluzione, ha una sua particolare sensibilità e specificità nell’ identificare le percentuale di stenosi
superiori al 70% per il distretto carotideo extracranico e soprattutto per la diagnosi delle occlusioni.
Un’altra peculiarità della angio TC è la capacità di identificare eventuali ulcerazioni della placca con una
ANGIO RNM
La risonanza, analogamente alla TC , trova indicazione nella diagnostica della stenosi carotidee nei casi in
cui l’ ecografia risulti dubbia. Rispetto all’ angio TC, offre il vantaggio di non richiedere l’uso di mezzo di
contrasto iodato e di avere una sensibilità nell’ identificare le stenosi superiori al 70 %.
La diagnostica vascolare non invasiva nel paziente con sospetta arteriopatia periferica si basa sull’utilizzo
degli ultrasuoni, che coprono da soli gran parte della diagnostica vascolare anche in questo distretto. L’
arteriografia mantiene un ruolo fondamentale nei pazienti per i quali, sulla base dei dati eco -Doppler, si
ritenga indicato un intervento di rivascolarizzazione chirurgica.
Anche per il distretto periferico l’ esame ecodoppler ha dei limiti tra cui la difficoltà, determinata da
rapporti anatomici, ad esplorare alcuni tratti dell’asse arterioso, come ad esempio il distretto di gamba
specialmente nei pazienti diabetici o con stenosi multiple, o la difficoltà legata alla presenza di “coni d’
ombra” che accompagnano placche calcifiche fortemente ecogene rendendo l’ area non esplorabile.
Tuttavia per la maggior parte delle placche o stenosi l’ indagine ecocolordoppler costituisce la metodica di
prima scelta, fornendo dati analoghi a quelli dell’ arteriografia (Figura 12.2).
Figura 12.2 Placca carotidea dell’origine della arteria carotide interna destra: rilievo angiografico ed ECD
In condizioni fisiologiche la pressione sistolica agli arti inferiori è maggiore di quella rilevabile agli arti
superiori, con valori che oscillano fra 12±8 mm Hg e 24±9 mm Hg. In presenza di una stenosi che restringa il
vaso per almeno il 50% , si ha distalmente un calo pressorio determinato dalla riduzione compensatoria
delle resistenze periferiche. Per primo Winsor propose di registrare in contemporanea i valori pressori della
caviglia e del braccio, ottenendo un rapporto che in condizioni di normalità è uguale o maggiore di 1 (Figura
12.3).
L’ ABI costituisce il più rapido esame diagnostico per lo screening e il follow up di pazienti con arteriopatia
obliterante degli arti inferiori. Il limite fondamentale è dato dalla impossibilità di valutare arterie
incomprimibili per sclerosi calcifica della media, quale si ha ad esempio nei pazienti diabetici o con
insufficienza renale grave, e le lesioni emodinamicamente non significative a riposo che sono diagnosticabili
solo con opportuni tests da sforzo.
Treadmill Test
Il test viene eseguito per valutare la presenza di stenosi che non sono rilevabili a riposo. L’ esercizio
determina, infatti, una dilatazione dei vasi di resistenza ed un aumento di flusso a livello muscolare: in
condizioni normali, per la presenza di basse resistenze a livello delle grandi arterie non si verificano
fenomeni di furto dalle zone più distali dell’ arto, mentre in presenza di un’occlusione o di una stenosi
emodinamicamente significativa il flusso muscolare dopo esercizio è ostacolato dalle alte resistenze
presenti nel circolo collaterale e dalla dilatazione arteriolare distale alla lesione.
L’ esame prevede la determinazione dell’ABI in condizioni di riposo e immediatamente dopo un periodo di
deambulazione a velocità ed inclinazione costante su un treadmill sino alla comparsa di claudicatio o per un
tempo definito; la misurazione dell’ ABI viene eseguita fino al recupero dei valori basali. Al termine dello
sforzo la pressione arteriosa nell’ arto superiore aumenta, nell’ arto inferiore in cui è presente una
arteriopatia scende per poi tornare ai valori basali. Il test da sforzo ha la sua indicazione quando esiste un
sospetto clinico non confermato dai valori di ABI a riposo o per valutare il peso funzionale di una lesione.
La valutazione della microcircolazione cutanea si basa su metodiche che consentono una valutazione
diretta, di tipo morfologico, della rete capillare (capillaroscopia), oppure una valutazione indiretta, di
Capillaroscopia
La capillaroscopia consente uno studio selettivo del circolo nutrizionale che costituisce circa il 10 % del
flusso cutaneo, responsabile delle lesioni trofiche.
La capillaroscopia si basa sull’ utilizzo di uno stereomicroscopio collegato ad un sistema di rilevazione dell’
immagine. I distretti normalmente esplorati sono la piega ungueale, la cute e la congiuntiva bulbare.
In condizioni normali, il capillare studiato a livello della plica ungueale assume un aspetto a “forcina”, con
una parete arteriosa e una venosa ben distinguibili; le anse capillari sono di colorito roseo, parallele e
separate da spazi regolari. In condizioni patologiche si possono avere variazioni di numero, caratteristiche e
distribuzione (Figura 12.4).
Figura 12.4 Capillaroscopia: immagine delle anse capillari allo stadio II di Leriche-Fontaine
Lo studio del plesso cutaneo più profondo sub papillare, destinato alla funzione termoregolatoria,
viene eseguito con paziente a riposo, in posizione supina, in ambiente a climatizzazione controllata, sia in
condizioni basali che dopo stress provocativi.
Nata dall’osservazione che nei neonati è possibile misurare le variazioni dell’ossigenazione in maniera
incruenta tramite sensori applicati sulla cute, la metodica è stata applicata in angiologia grazie alla messa a
punto di un elettrodo polarografico (elettrodo di Clark) che permette di eseguire misurazioni continue dell’
ossigeno.
Nelle arteriopatie, la TCpO2 valuta in modo non invasivo le conseguenze tissutali delle alterazioni
macrocircolatorie. In clinica la misurazione ossimetrica viene eseguita con sensore riscaldato a 44C°
posizionato sul I spazio intermetatarsale del piede sintomatico. Nel paziente con ischemia critica cronica i
valori ossimetrici , rilevati al piede sintomatico , non superano rispettivamente i 10 e 45 mmHg in posizione
supina e declive.
Negli ultimi anni si è resa possibile anche la misurazione della concentrazione transcutanea di anidride
carbonica , mediante un sensore combinato per O2 e CO2 e questo parametro costituisce un più sensibile
indicatore di acidosi metabolica indotta dal danno ischemico .
La flussimetria laser Doppler è una metodica per lo studio funzionale del microcircolo basata sull’utilizzo
dell’ effetto doppler. E’ una tecnica in atto più idonea ai fini di ricerca che clinici.
Capitolo 13
MALATTIA REUMATICA
Luigi Meloni, Massimo Ruscazio
DEFINIZIONE
EPIDEMIOLOGIA
L’incidenza della malattia reumatica è diminuita drasticamente nei paesi industrializzati grazie soprattutto
alle migliorate condizioni socio-economiche e alla disponibilità della penicillina per il trattamento della
faringite streptococcica. La malattia è ancora presente in forma endemica nei paesi in via di sviluppo e tra
le popolazioni in cui sussistono condizioni ambientali e socio-sanitarie sono precarie (povertà,
malnutrizione, eccessivo affollamento, insufficiente prevenzione ed assistenza sanitaria).
Sebbene possa interessare tutte le fasce di età, la malattia reumatica colpisce principalmente i bambini e gli
adolescenti. La prevalenza della valvulopatia reumatica, al contrario, aumenta con l’età e raggiunge un
picco tra i 25 e i 34 anni.
PATOGENESI
La faringo-tonsillite da streptococco emolitico del gruppo A, non adeguatamente trattata con antibiotici, è
l’evento che precipita la malattia reumatica.
Sebbene l’esatto meccanismo che associa l’infezione streptococcica alla flogosi reumatica sia ancora
incerto, la malattia reumatica è comunemente considerata il risultato di una esagerata risposta immunitaria
alle componenti antigeniche dello streptococco. Le similitudini molecolari e immunologiche tra gli antigeni
batterici e i tessuti dell’organismo (mimetismo antigenico) sarebbero poi responsabili della successiva
risposta crociata di tipo autoimmune che scatena l’attacco acuto di malattia reumatica (Figura 13.1).
L’interesse nei confronti della patogenesi autoimmune è riemerso recentemente con la dimostrazione che
diversi antigeni della superficie batterica condividono affinità strutturali con le componenti tessutali degli
organi e dei sistemi coinvolti nella malattia reumatica. L’acido ialuronico contenuto nella capsula dello
streptococco possiede una struttura chimica identica a quella dell’acido ialuronico presente nel tessuto
articolare dell’uomo. Un’altra componente della parete cellulare dello streptococco, la N-
acetilglucosamina, si ritrova in alte concentrazioni nelle valvole cardiache; gli anticorpi diretti contro la
proteina-M della membrana cellulare batterica interagiscono anche con la miosina cardiaca; altre proteine
umane, la vimentina (tessuto sinoviale) e la cheratina (tessuto cutaneo), mostrano una reattività crociata
con la proteina-M streptococcica. Infine, esistono evidenze a sostegno dell’affinità strutturale tra gli
elementi somatici dello streptococco e alcune componenti del tessuto nervoso dell’uomo (gangliosidi).
Pertanto, i principali quadri clinici associati alla malattia reumatica sarebbero espressione di un danno
infiammatorio locale, indotto da una abnorme risposta immunologica di tipo crociato.
Figura 13.1
ANATOMIA PATOLOGICA
Sul versante istopatologico, la fase acuta della malattia si caratterizza per una reazione essudativa e
proliferativa del tessuto connettivo. La cardite reumatica è una vera e propria pancardite perché interessa
l’endocardio, il miocardio e il pericardio. Nel miocardio si osserva edema ed infiltrazione cellulare del
tessuto interstiziale con frammentazione delle fibre collagene (miocardite). Successivamente, nella fase
proliferativa compaiono i noduli di Aschoff (Patologia 07), lesioni granulomatose patognomoniche della
malattia, riscontrabili anche nelle valvole cardiache e nel pericardio. La flogosi
reumatica dei foglietti pericardici (pericardite) è di tipo sierofibrinoso e si risolve, solitamente, senza
complicazioni. La componente più significativa del danno cardiaco è l’infiammazione delle valvole cardiache
(valvulite), responsabile della manifestazione clinica più importante dell’attacco acuto di malattia
reumatica, l’insufficienza valvolare. La valvulite reumatica colpisce prevalentemente la valvola mitrale e la
valvola aortica, raramente la valvola tricuspide e quasi mai la valvola polmonare. Il tessuto valvolare è
interessato da edema ed infiltrazione cellulare. Si possono osservare piccole formazioni verrucose sulla
superficie valvolare, in prossimità delle aree di coaptazione dei lembi valvolari (Patologia 40). Il processo
cicatriziale della valvulite porta lentamente, negli anni, a fibrosi dei lembi e a fusione delle commissure e
delle corde tendinee, a cui corrispondono sul piano funzionale stenosi o insufficienza valvolare
(valvulopatia reumatica).
Pertanto, il coinvolgimento del cuore durante la fase attiva della malattia reumatica (cardite reumatica),
deve essere distinto dal danno valvolare residuo che fa seguito alla risoluzione dell’episodio acuto
(valvulopatia reumatica).
Patologia 07. Granuloma di Aschoff nel miocardio in soggetto con miocardite reumatica.
MANIFESTAZIONI CLINICHE
Dal quadro clinico della malattia emergono 5 elementi fondamentali per la diagnosi: la cardite,
la poliartrite, lacorea, l’eritema marginato e i noduli sottocutanei. Questi elementi possono presentarsi
singolarmente o in combinazione tra loro e costituiscono nel loro insieme i
cosiddetti criteri maggiori di Jones. Altri reperti, come la febbre, le artralgie, la positività dei test
ematochimici di flogosi acuta, l’allungamento dell’intervallo P-R all’ECG, sono considerati invece
manifestazioni minori della malattia (Tabella I).
Pertanto, un quadro clinico di pericardite o di miocardite con disfunzione sistolica del ventricolo sinistro
difficilmente potrà avere una patogenesi reumatica se l’ascoltazione cardiaca e l’ecocardiogramma
escludono la presenza di un’insufficienza della valvola mitrale o aortica.
La corea, secondaria all’interessamento flogistico del sistema nervoso centrale, è la terza manifestazione
clinica della malattia reumatica (15-30 % dei casi). Chiamata anche corea di Sydenham o ballo di San Vito,
esordisce più tardivamente, quando le altre manifestazioni della malattia sono scomparse o in via di
risoluzione, e si caratterizza per la presenza di movimenti irregolari e involontari, senza finalità, che
scompaiono con il sonno e con la sedazione. I sintomi neurologici hanno una durata variabile e, in genere, si
risolvono spontaneamente.
Le manifestazioni cutanee della malattia reumatica sono decisamente più rare (meno del 10% dei casi).
I nodulisottocutanei compaiono a distanza di diverse settimane dalla cardite, si localizzano in
corrispondenza delle articolazioni principali e delle prominenze ossee, sono indolori, mobili e si risolvono
spontaneamente. L’eritemamarginato è un rash cutaneo caratterizzato da margini rosati e serpiginosi che
circoscrivono aree centrali di aspetto normale. Si osserva prevalentemente sul tronco e sulle porzioni
prossimali degli arti, migra da una sede all’altra e non risponde alla terapia antinfiammatoria.
ESAMI DI LABORATORIO
La diagnosi di malattia reumatica è spesso non facile, non solo per la variabilità del quadro clinico, ma
anche per la mancanza di un test diagnostico sicuro e definitivo.
Gli indici di flogosi appaiono costantemente alterati nella fase acuta della malattia. La velocità di
eritrosedimentazione (VES) e la proteina-C reattiva (PCR) sono marcatori affidabili, ma aspecifici, della
risposta autoimmune e dell’infiammazione associata alla cardite o alla poliartrite.
In tutti i casi di sospetta malattia reumatica è indispensabile documentare, ai fini diagnostici, una recente
infezione streptococcica (vedi criteri di Jones). I test più utilizzati sono la ricerca di anticorpi diretti contro
alcune componenti dello streptococco (streptolisina O, desossoribonucleasi B) e l’esame colturale faringeo
(tampone faringeo).
La positività del tampone faringeo deve essere interpretata con cautela perché molti individui normali
possono ospitare streptococchi del gruppo A nelle vie aeree superiori. D’altra parte, la negatività
dell’esame colturale non permette di escludere in modo assoluto un episodio antecedente di infezione
streptococcica. L’aumento del titolo anticorpale antistreptococcico, specie se progressivo, è invece un
reperto provvisto di maggiore affidabilità nell’evidenziare una recente infezione streptococcica. A tal
proposito, giova ricordare che il titolo antistreptolisina O (ASLO) e antidesossiribonucleasi aumenta entro 1
mese dall’inizio dell’infezione streptococcica, raggiunge un plateau per 3-6 mesi, quindi si riduce
progressivamente.
Oltre alla tachicardia sinusale, l’ECG può mostrare un blocco atrioventricolare di primo grado, secondario
all’infiammazione dei tessuti perinodali. Il blocco atrioventricolare, riconoscibile in base all’allungamento
dell’intervallo P-R, non è, da solo, diagnostico di cardite reumatica (Tabella I), non influisce sulla prognosi
né predice lo sviluppo di sequele valvolari (valvulopatia reumatica).
DECORSO E PROGNOSI
La malattia si risolve spontaneamente entro 3 mesi dall’esordio acuto. Sebbene siano stati descritti casi
isolati di edema polmonare acuto fulminante, la mortalità della fase acuta è bassa e la prognosi dipende
fondamentalmente dalla gravità delle lesioni valvolari che fanno seguito al primo episodio della malattia
reumatica e/o alle recidive.
La malattia reumatica tende a recidivare. I pazienti che hanno sofferto di un precedente attacco di malattia
reumatica e che sviluppano successivamente nuovi episodi di faringite streptococcica sono ad alto rischio di
una recidiva della malattia. L’infezione streptococcica ricorrente, specie se sostenuta da ceppi virulenti,
riattiva la risposta autoimmune dell’organismo, favorendo così l’instaurarsi o il peggioramento del danno
anatomico valvolare (Figura 13.1).
Non esiste un trattamento specifico della malattia reumatica. Gli agenti anti-infiammatori sopprimono
rapidamente il dolore articolare e altri segni e sintomi della flogosi acuta, ma non curano la malattia né
prevengono la sua successiva evoluzione. Anche la terapia antibiotica con penicillina, obbligatoria nella fase
acuta per sradicare l’infezione streptococcica, non modifica il decorso dell’attacco acuto della malattia
reumatica né impedisce lo svilupparsi della cardite.
L’aspirina ad alte dosi è indicata nella poliartrite acuta, mentre l’impiego dei corticosteroidi è riservato ai
casi con cardite grave complicata da insufficienza cardiaca.
PREVENZIONE
La prevenzione primaria della malattia reumatica acuta si identifica nella diagnosi precoce e nel
trattamento antibiotico della faringo-tonsillite streptococcica. Il trattamento antibiotico se tempestivo e
mirato (penicillina) elimina quasi completamente il rischio di malattia reumatica.
La prevenzione secondaria è rivolta agli individui che hanno già avuto un attacco documentato di malattia
reumatica acuta o che soffrono di recidive dopo un’infezione streptococcica. Il caposaldo è rappresentato
dalla profilassi antibiotica continua delle recidive di infezione streptococcica, potenzialmente capaci di
innescare nuovi attacchi di malattia reumatica. La profilassi antimicrobica continua è necessaria perché il
trattamento antibiotico di una nuova infezione streptococcica, anche se ottimale, non protegge il paziente
con precedenti anamnestici di malattia reumatica dal rischio di una recidiva reumatica.
Lo schema terapeutico più efficace è costituito dalla benzilpenicillina somministrata in dose singola per via
intramuscolare ogni 4 settimane. La durata della profilassi antibiotica deve essere adattata nel singolo
paziente a seconda del rischio di recidiva. Il rischio di ricorrenze reumatiche diminuisce con l’aumentare
dell’età e con l’aumentare del tempo trascorso dall’ultimo attacco. I pazienti che non sviluppano la cardite
durante il loro primo attacco sono meno esposti al rischio di recidive reumatiche, e quando queste si
verificano hanno minori probabilità di manifestare una cardite. I pazienti che hanno sviluppato una cardite
nel corso dell’attacco acuto sono invece ad alto rischio di recidiva di cardite, con possibilità di ulteriore
danno valvolare in occasione di ogni ricorrenza (Figura 13.1).
Capitolo 14
STENOSI MITRALICA
Giuseppe Oreto, Francesco Saporito
DEFINIZIONE
La stenosi mitralica è una malattia caratterizzata da alterazioni della valvola mitrale (fusione e retrazione
delle corde, ispessimento e adesione dei lembi) con esito in riduzione dell'area valvolare. La valvola
stenotica rappresenta un ostacolo al passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro, per cui la
pressione atriale sinistra aumenta, e tale aumento si riflette a monte sul circolo polmonare, ed infine sul
ventricolo destro.
EZIOLOGIA
La malattia reumatica rappresenta la più importante e pressoché l'unica causa di stenosi mitralica. Per
quanto, infatti, esistano forme congenite di stenosi mitralica, i casi ad eziologia non reumatica sono
talmente rari da risultare trascurabili ai fini pratici. La malattia reumatica consegue ad infezione da
streptococco ß-emolitico del gruppo A, agente responsabile di infezioni spesso localizzate nelle tonsille;
qualche settimana dopo l’inizio del processo infettivo compaiono, nelle forme tipiche, manifestazioni
infiammatorie a carico di numerosi organi, comprendenti le grandi articolazioni, il cuore e il rene. Tali
alterazioni non dipendono da localizzazione dello streptococco negli organi bersaglio, ma conseguono ad
un processo autoimmunitario del quale il germe è solo l’avviatore. Il cuore viene solitamente interessato in
toto, e si manifesta un’endocardite associata spesso a miocardite e pericardite.
ANATOMIA PATOLOGICA
Il reperto anatomico prevalente durante la fase acuta dell'endocardite reumatica è rappresentato da piccoli
noduli verrucosi osservabili lungo la linea di chiusura dei foglietti, sul versante atriale di essi. Queste
formazioni infiammatorie scompaiono con la risoluzione del processo carditico, ed occorrono diversi anni
prima che si determinino le alterazioni caratteristiche della stenosi mitralica. Al danno valvolare iniziale
consegue un'alterazione del flusso transvalvolare, che determina nel tempo ispessimento, fibrosi, saldatura
e calcificazione dei lembi e dell'apparato sottovalvolare. In altri termini, la lesione reumatica iniziale avvia
un processo automatico di lenta e graduale alterazione della valvola; il trauma provocato dal flusso
turbolento rappresenta verosimilmente il principale responsabile delle lesioni evolutive.
La valvola mitrale stenotica presenta corde fuse e retratte, mentre i foglietti sono ispessiti e parzialmente
aderenti fra loro; nella maggior parte dei casi coesistono calcificazioni sia dei lembi che delle corde (Figura
14.1, Patologia 08, Patologia 09). L'area valvolare, che nel normale misura da 4 a 6 cm2, è più o meno
significativamente ridotta sia per l'adesione dei foglietti che per l'obliterazione dei cosiddetti «orifici
secondari» (gli spazi compresi fra le corde tendinee), conseguente alla fusione delle corde. Nel complesso,
la valvola stenotica ha un aspetto a imbuto con la base rivolta verso l'atrio, che si presenta dilatato e spesso
sede di trombi, particolarmente a livello dell'auricola. Le vene polmonari sono dilatate e possono coesistere
alterazioni ostruttive delle arteriole polmonari, caratterizzate da iperplasia della media e dell'intima. In
diversi casi si rileva dilatazione del ventricolo e dell'atrio destro, e segni di stasi venosa sistemica cronica,
particolarmente a carico del fegato. Queste modificazioni conseguono all'ipertensione polmonare, che
induce sovraccarico e dilatazione del ventricolo destro, insufficienza tricuspidale, ed infine scompenso
congestizio.
Figura 14.1 Valvola mitrale con stenosi reumatica: si osservi la grave riduzione dell’orifizio per fusione delle commissure nonché
l’ispessimento e la calcificazione dei lembi. (Immagine gentilmente concessa dal Prof. Gaetano Tiene)
Patologia 08. Stenosi mitralica da valvulopatia reumatica cronica. Si noti l’ispessimento dei lembi e la fusione delle commessure con
focale trombosi dell’endocardio valvolare e apparato sottovalvolare pressoché indenne.
FISIOPATOLOGIA
Quando l'area valvolare mitralica si riduce, la progressione del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro è in
qualche modo ostacolata. Per consentire un normale riempimento ventricolare durante la diastole diventa
allora necessario un aumento della pressione atriale, così che il sangue riesca a passare dall'atrio al
ventricolo nonostante l'impedimento rappresentato dalla valvola stenotica. Nel normale non esiste alcuna
differenza significativa fra la pressione diastolica del ventricolo sinistro e quella vigente in atrio sinistro
(Figura 14.2 A ). Il flusso diastolico atrioventricolare, infatti, avviene senza un'apprezzabile differenza di
pressione fra le due camere perché la valvola mitrale normale non offre alcuna resistenza alla progressione
del sangue. Nella stenosi mitralica, invece, si realizza per tutta la fase diastolica un gradiente di pressione
fra atrio e ventricolo sinistro, ed è in virtù di questo gradiente che il flusso può essere mantenuto (Figura
14.2 B ).
Figura14. 2 Curve pressorie simultanee nell’atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione normale) non è
presente alcun gradiente pressorio, durante la diastole, fra l’atrio e il ventricolo, mentre in B” (Stenosi mitralica) la pressione atriale
è aumentata, ed è presente un gradiente atrio-ventricolare (area grigia) per tutta la durata della diastole.
L’entità del gradiente transvalvolare dipende da due fattori: l'area mitralica e la velocità del flusso
attraverso la valvola. Quanto minore è la superficie valvolare e quanto maggiore è la velocità del flusso,
tanto più elevato sarà il gradiente. L'area valvolare misura nel normale da 4 a 6 cm2; la riduzione di essa
fino a 2,5 cm2 non comporta alterazioni emodinamiche di rilievo. In rapporto all'entità della riduzione
dell'area valvolare, si definisce la stenosi lieve quando l’area è compresa tra 2,5 e 1,5 cm2, moderata se
l’area è tra 1,5 e 1 cm2, e severa (serrata) se l'area è minore di 1 cm2.
La velocità del flusso attraverso la valvola è in relazione diretta con la portata cardiaca e la frequenza.
Aumentando la portata, infatti, una maggior quantità di sangue deve attraversare l'orificio valvolare
nell'unità di tempo, per cui è richiesta una maggiore velocità di flusso. Anche la tachicardia incrementa la
velocità di flusso, poiché aumentando la frequenza cardiaca si riduce la durata della diastole, cioè il tempo
disponibile per il passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo.*
Più è breve il periodo diastolico, maggiore deve essere la velocità del flusso per permettere ad una
determinata quantità di sangue di attraversare l'ostio valvolare stenotico.
L’aumento della pressione atriale sinistra genera un incremento pressorio a monte, cioè in tutte le sezioni
del circolo polmonare: vene, venule, capillari, arteriole, arterie. L’anello più debole di questa catena è il
capillare; quando la pressione s’incrementa oltre 25 mm Hg, viene superata la capacità che le proteine
plasmatiche hanno di trattenere i fluidi all’interno del vaso (pressione oncotica), e inizia la trasudazione: il
liquido invade dapprima l’interstizio polmonare e successivamente l’alveolo, generando disturbi respiratori
che vanno dalla dispnea da sforzo fino all’edema polmonare acuto.
In molti soggetti con stenosi mitralica lieve o moderata, la pressione nell’arteria polmonare non è di solito
molto elevata a riposo, e l'incremento di essa è direttamente correlato all'aumento della pressione
capillare: poiché il capillare non sopporta pressioni >25 mm Hg (valori più alti si accompagnano a sintomi
evidenti), in arteria polmonare si riscontrerà una pressione non maggiore di 35-40 mm Hg (Figura 14.3 A ).
In alcuni pazienti, invece, la pressione in arteria polmonare è nettamente più alta di quanto ci si
aspetterebbe in base alla pressione atriale sinistra. Il motivo di ciò è che si realizza un incremento delle
resistenze precapillari (arteriolari) polmonari, per cui l'ipertensione arteriosa che ne deriva è molto
maggiore di quella richiesta per generare il gradiente transvalvolare mitralico (Figura 14.3 C ): in casi del
genere non è impossibile riscontrare in arteria polmonare pressioni elevate fino a 100 mm Hg o più. In una
fase precoce della malattia, questa ipertensione polmonare dipende da vasocostrizione delle arteriole
polmonari, ed è perciò un fenomeno funzionale, ma successivamente consegue ad alterazioni anatomiche
obliterative del letto vascolare polmonare (vasculopatia polmonare).
Lo sviluppo dell'ipertensione polmonare modifica il quadro della stenosi mitralica: un eccessivo carico di
pressione grava sul ventricolo destro, che non è assuefatto a lavorare contro elevate resistenze, e per
sopperire al maggior lavoro si ipertrofizza e quindi si dilata. Alla dilatazione ventricolare consegue
insufficienza tricuspidalica, dilatazione dell'atrio destro e congestione venosa sistemica. In questa
situazione, la presenza di un significativo ostacolo al deflusso ventricolare destro (aumento delle resistenze
precapillari) riduce la portata cardiaca, ed impedisce il raggiungimento di una pressione capillare troppo
elevata. Di conseguenza il paziente andrà incontro meno facilmente a dispnea da sforzo ed edema
polmonare acuto (fenomeni dipendenti dall'ipertensione capillare), mentre prevarranno i segni della
ridotta gittata (astenia) e le manifestazioni della stasi venosa sistemica (turgore giugulare, epatomegalia,
edemi declivi, ascite).
(* La durata della fase sistolica è pressoché fissa (intorno a 0,3 secondi) e indipendente dalla frequenza
cardiaca. Perciò per una frequenza cardiaca di 60 al minuto ciascun ciclo cardiaco dura 1 secondo (0,3
secondi di sistole e 0,7 secondi di diastole): la durata complessiva della diastole sarà, perciò, 0,42 secondi.
Se la frequenza si raddoppia (120/m’) ciascun ciclo durerà 0,5 secondi (0,3 secondi di sistole e 0,2 di
diastole), per cui la durata della diastole sarà 0,24 secondi.)
Figura 14.3 Regime pressorio nelle varie sezioni dell’apparato cardiocircolatorio in condizioni normali (A), nella stenosi mitralica (B)
e nella stenosi mitralica con vasculopatia polmonare (C). Nello schema B la valvola mitrale è fortemente ispessita e aumenta la
pressione in atrio sinistro e nel circolo polmonare. Nello schema C coesistono alterazioni obliterative del letto vascolare polmonare
(ispessimento della parete delle arteriole) che induce aumento della pressione arteriosa polmonare.
SINTOMI
I più precoci e più evidenti sintomi legati alla stenosi mitralica sono quelli determinati dalla congestione
polmonare: dispnea da sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare acuto. Tutte
queste manifestazioni dipendono da ipertensione capillare polmonare, con trasudazione di liquido
nell’interstizio e negli alveoli. Quando la capacità del sistema linfatico di drenare il trasudato diventa
insufficiente, si determina la congestione polmonare. La compliance polmonare è allora ridotta, ed il lavoro
respiratorio aumenta, cosicché il soggetto va incontro a dispnea, particolarmente quando si trova in
posizione supina. La trasudazione massiva di liquido negli alveoli provocata da un improvviso aumento della
pressione capillare è responsabile dell'edema polmonare; questa manifestazione viene spesso scatenata da
incremento della portata e/o della frequenza cardiaca (fibrillazione atriale parossistica, malattie febbrili
acute, interventi chirurgici, gravidanza, etc.).
Un altro sintomo con cui può presentarsi la stenosi mitralica è l'emoftoe, la quale dipende da ipertensione
nelle vene bronchiali: le comunicazioni fra sistema venoso polmonare e sistema venoso bronchiale fanno sì
che l'aumento pressorio nelle vene polmonari si rifletta anche sulle vene bronchiali, nelle quali possono
determinarsi piccole dilatazioni, la cui rottura produce emissione attraverso la bocca di sangue proveniente
dalle vie respiratorie. La congestione delle vene bronchiali, con la conseguente iperemia della mucosa
bronchiale è anche responsabile dell'iperproduzione di muco, da cui deriva la suscettibilità alla bronchite
dei pazienti con stenosi mitralica.
Il decorso della malattia è pressoché inevitabilmente caratterizzato dall'insorgenza della fibrillazione
atriale. L'aritmia consegue alla dilatazione dell'atrio sinistro ed alle alterazioni strutturali della parete
atriale, consistenti in un aumento del connettivo fino alla fibrosi. La disorganizzazione della muscolatura
atriale che ne deriva si traduce in disomogeneità dei periodi refrattari: un impulso prematuro in fase
vulnerabile può, perciò, scatenare la fibrillazione atriale. L'aritmia può avere inizialmente andamento
parossistico, e in questo caso è responsabile di palpitazioni, ma poi diviene cronica. L'insorgenza della
fibrillazione atriale è legata alle dimensioni dell'atrio sinistro, e dipende anche dall’età: l'aritmia è più
frequente quando l'atrio è dilatato e nei pazienti in cui la malattia data da maggior tempo.
Alla fibrillazione atriale è legata un'altra fra le manifestazioni cliniche caratteristiche della stenosi mitralica:
l'embolia sistemica, la quale consegue a formazione di trombi parietali in atrio sinistro, specialmente
nell’auricola, con successiva immissione di materiale trombotico nel circolo sistemico. L'embolia non è
correlata con la gravità della stenosi, potendosi osservare anche nelle forme lievi, e rappresenta a volte la
prima manifestazione della malattia. Nel 50-75% dei casi la localizzazione dell'embolo è nelle arterie
cerebrali.
SEGNI CLINICI
I pazienti con stenosi mitralica rilevante e bassa portata cardiaca possono presentare la cosiddetta «facies
mitralica», caratterizzata da cianosi alle labbra con rossore ai pomelli. L'esame obiettivo del cuore è assai
caratteristico nei casi tipici, ed il quadro ascoltatorio comprende 1° tono forte, schiocco d'apertura
mitralico, soffio (rullio) diastolico (Figura 14.4 A); in presenza di ipertensione polmonare non lieve, la
componente polmonare del secondo tono può essere aumentata d’intensità. Il soffio diastolico consegue
alla turbolenza del flusso transvalvolare, determinata dall’ostacolo che la valvola stenotica rappresenta; si
tratta di un soffio a bassa frequenza, che viene denominato “rullio” perché ricorda lontanamente il rullare
di un tamburo. Nei soggetti a ritmo sinusale il rullio presenta un rinforzo presistolico che manca nei pazienti
in fibrillazione atriale (Figura 14.4 B).Il rinforzo del soffio è dovuto all’aumento del flusso transvalvolare
causato in telediastole dalla contrazione dell’atrio; poiché nella fibrillazione atriale l’attività meccanica
dell’atrio è praticamente assente, con l’insorgenza dell’aritmia scompare il rinforzo presistolico del soffio
della stenosi mitralica. Tuttavia, alcuni o anche tutti i segni ascoltatori caratteristici della stenosi mitralica
possono non essere apprezzabili: il segno ascoltatorio più importante per la diagnosi clinica di stenosi
mitralica è lo schiocco d'apertura, che si caratterizza per la cronologia protodiastolica, il timbro a tonalità
elevata, la sede di ascoltazione alla punta ed al mesocardio.
Nei pazienti con scompenso del ventricolo destro, infine, si manifestano i caratteristici segni della
congestione venosa sistemica, rappresentati da edemi declivi, epatomegalia, ascite, idrotorace, ecc.
Figura 14.4 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. A: Ritmo sinusale. B: Fibrillazione atriale. I: primo tono. II: secondo tono.
A2: componente aortica del secondo tono. P2: componente polmonare del secondo tono. SAM: schiocco d’apertura della mitrale.
Rullio: soffio diastolico.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
Nei pazienti con stenosi mitralica l'Elettrocardiogramma mostra i segni dell'ingrandimento atriale sinistro,
fra i quali spicca l’onda P bifida, con durata aumentata ( 0.11 sec) (Figura 14.5);nei soggetti con
ipertensione polmonare si può anche riscontrare il quadro elettrocardiografico dell'ipertrofia ventricolare
destra.
L'esame radiologico fornisce una serie di elementi caratteristici, fra i quali particolarmente importanti sono
i segni di ingrandimento dell'atrio e dell'auricola sinistra, e quelli che testimoniano le modificazioni del
circolo polmonare. L'Ecocardiografia ha rivoluzionato la diagnostica della stenosi mitralica:
l'ecocardiogramma bidimensionale permette non solo un'accurata valutazione dell’anatomia e del
movimento valvolare (Figura 6, Figura 7), ma anche lo studio dell'apparato sottovalvolare ed il calcolo
dell'area mitralica; l'ecocardiogramma Doppler (Figura 8) fornisce dati emodinamici riguardanti sia il
gradiente pressorio attraverso la valvola che l'area valvolare, ed anche informazioni indirette sulla
pressione polmonare; l’ecocardiogramma tridimensionale, di recente introduzione, consente una visione
quasi «anatomica» della mitrale; l’ecocardiogramma transesofageo, eseguito collocando il transduttore
nell’esofago, in immediata prossimità del cuore, senza l’interposizione del tessuto polmonare, che rende
difficile il passaggio degli ultrasuoni, consente di studiare la morfologia valvolare nei dettagli e di analizzare
anche parti del cuore di difficile approccio con la tecnica transtoracica. Nei pazienti con stenosi mitralica,
l’esplorazione transesofagea può svelare la presenza di trombi in atrio, particolarmente nell’auricola,
elemento che riveste grande rilevanza clinica perché è associato ad elevato rischio di embolia
sistemica. Il cateterismo cardiaco fornisce numerosi dati fisiopatologici, in particolare l’area valvolare, il
gradiente transvalvolare (Figura 14.2), e la pressione polmonare; questi parametri, tuttavia, possono essere
ottenuti anche attraverso metodiche non invasive, per cui in molti pazienti, soprattutto giovani, il
cateterismo cardiaco non è indispensabile per stabilire l'indicazione all'intervento, e neppure per
determinare il tipo di intervento da preferire. Il cateterismo conserva, tuttavia, ancora un ruolo molto
importante nei pazienti con stenosi mitralica, per la possibilità di eseguire una valvuloplastica
tranacatetere.
CENNI DI TERAPIA
Il trattamento dei pazienti con stenosi mitralica può essere farmacologico, interventistico* chirurgico.
La terapia farmacologica della stenosi mitralica si basa sui seguenti principi: 1) profilassi delle recidive di
reumatismo; 2) prevenzione delle embolie sistemiche; 3) terapia della fibrillazione atriale; 4) mantenimento
di una frequenza ventricolare accettabile in presenza di fibrillazione atriale cronica; 5) terapia dei disturbi
legati alla congestione venosa polmonare.
La profilassi delle recidive di reumatismo prevede la somministrazione prolungata di antibiotici e
antinfiammatori. La prevenzione delle tromboembolie sistemiche va effettuata nei pazienti con atrio
sinistro dilatato e in tutti quelli con fibrillazione atriale. I farmaci di scelta sono gli anticoagulanti orali
dicumarolici.
Se insorge la fibrillazione atriale, è opportuno tentare di ripristinare il ritmo sinusale somministrando
farmaci antiaritmici, o, in alternativa, con la cardioversione elettrica. Restaurato il ritmo sinusale, si può
eventualmente proseguire un trattamento profilattico a lungo termine con farmaci antiaritmici, per evitare
finché possibile le recidive dell'aritmia. Se l’insorgenza della fibrillazione non è recentissima, la
cardioversione deve essere preceduta da una valutazione dell'atrio sinistro, e in particolare dell’auricola,
mediante ecocardiografia transesofagea, perché la presenza di trombosi atriale controindica qualunque
manovra volta a convertire la fibrillazione, per il rischio che, al ripristino del ritmo, si verifichi un’embolia.
Se la fibrillazione data da diversi giorni o mesi, è necessario un lungo periodo di anticoagulazione (almeno 1
mese) prima di procedere alla cardioversione.
Nei pazienti con fibrillazione atriale cronica è spesso necessaria una terapia volta a mantenere una
frequenza cardiaca non troppo elevata; per questo scopo viene spesso utilizzata la digitale, oppure i ß-
bloccanti o i calcioantagonisti. Questi farmaci aumentano il periodo refrattario del nodo A-V, diminuendo la
risposta ventricolare alla fibrillazione atriale, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli.
In casi particolari, nei quali risulti impossibile ottenere con i farmaci un accettabile controllo della frequenza
ventricolare, si può eseguire l’ablazione del nodo A-V associata all’impianto di un pacemaker ventricolare.
L’ablazione si ottiene erogando, attraverso un apposito elettrocatetere, energia a radiofrequenza in
corrispondenza del nodo: l’energia aumenta la temperatura del tessuto, provocando una lesione
irreversibile cui consegue il blocco A-V; l’attivazione dei ventricoli diviene così indipendente da quella degli
atri, governata solo dal pacemaker artificiale o da un segnapassi di scappamento posto a valle del blocco.
Un particolare intervento di ablazione transcatetere può anche essere eseguito con lo scopo di abolire il
substrato che sottende lo scatenamento e il mantenimento della fibrillazione atriale.
I sintomi legati a congestione polmonare (dispnea, ortopnea, edema polmonare acuto) vanno trattati con i
diuretici e la limitazione dell’apporto dietetico di sodio. I pazienti che presentano questi disturbi, tuttavia,
sono quasi sempre in III classe funzionale NYHA, per cui vanno quasi sempre avviati alla terapia chirurgica o
alla valvuloplastica percutanea. Questo intervento si esegue inserendo nell’atrio destro attraverso la vena
femorale un catetere con palloncino: dopo puntura del setto interatriale, eseguita con apposito ago, il
catetere viene spinto per via transettale in atrio sinistro ed attraversa la valvola mitrale, in maniera tale che
il palloncino si trovi a cavallo della valvola. Gonfiando quindi ripetutamente il palloncino per brevi periodi si
esercita sui lembi della valvola stenotica una pressione sufficiente a separarne i foglietti, fusi in
corrispondenza delle commissure, così da ridurre significativamente l’ostacolo al flusso ematico.
La stenosi mitralica può essere corretta chirurgicamente sia mediante un intervento conservativo
(commissurotomia) che sostituendo la valvola con una protesi. La commissurotomia viene ormai eseguita in
circolazione extracorporea e sotto visione diretta, mentre l’intervento “a cielo coperto”, che si esegue
(*Il trattamento interventistico prevede un intervento, cioè un’azione volta a modificare l’anatomia o lastrut
tura del cuore; l’intervento viene, però, eseguito senza ricorrere alla chirurgia tradizionale, ma agendosull’or
gano attraverso cateteri introdotti nel sistema vascolare e guidati fino al cuore sotto controlloradioscopico
o ecografico.)
Capitolo 15
INSUFFICIENZA MITRALICA
Paolo Marino
DEFINIZIONE
L’insufficienza mitralica è una malattia caratterizzata da perdita della coordinata azione di una o più delle
componenti (anulus, lembi valvolari, corde tendinee, muscoli papillari) dell’apparto valvolare, con esito in
imperfetto collabimento dei lembi in sistole. La valvola insufficiente comporta un reflusso di sangue, in
sistole, dal ventricolo all’atrio sinistro, capace di causare aumento della pressione atriale dipendente dalla
quantità di sangue rigurgitato e dalle caratteristiche fisiche della parete atriale. Se l’aumento della
pressione atriale non viene compensato da un corrispondente aumento di volume dell’atrio, l’ipertensione
si riflette a monte sul circolo polmonare ed infine sul ventricolo destro.
EZIOLOGIA
La degenerazione mixomatosa della valvola (nota anche con il termine di prolasso valvolare mitralico, vedi
più avanti) rappresenta la causa più frequente di insufficienza mitralica. Essa provoca incontinenza poiché i
lembi valvolari allungati e ridondanti protrudono eccessivamente all’interno dell’atrio sinistro durante la
sistole ventricolare, piuttosto che opporsi reciprocamente come fanno normalmente. La malattia
coronarica rappresenta un’altra causa importante di insufficienza mitralica, poiché può generare
disfunzione temporanea o permanente di un muscolo papillare, interferendo con la chiusura valvolare.
L’endocardite infettiva può causare insufficienza mitralica poiché l’infezione può indurre perforazione
valvolare o rottura delle corde infette. Anche la malattia reumatica rientra nell’eziopatogenesi
dell’insufficienza mitralica, se si accompagna ad eccessivo accorciamento e retrazione delle corde. Infine la
cardiomiopatia ipertrofica, malattia caratterizzata da un’abnorme ed asimmetrica ipertrofia ventricolare
(vedi Capitolo…), provoca una ostruzione dinamica endoventricolare cui corrisponde imperfetta chiusura
valvolare e significativa insufficienza mitralica.
Anche la significativa dilatazione ventricolare, comunque generata, può causare insufficienza mitralica
funzionale attraverso 2 meccanismi che interferiscono con la chiusura dei lembi valvolari: 1) la separazione
spaziale tra i due muscoli papillari è aumentata e 2) l’anulus mitralico è sovradisteso. Altra causa di
insufficienza mitralica è la calcificazione dell’anulus, che immobilizza la porzione basale dei lembi valvolari,
interferendo con la loro normale escursione e la coaptazione sistolica.
ANATOMIA PATOLOGICA
Nel prolasso valvolare mitralico le cuspidi sono iperdistese e le corde allungate. Nelle forme più gravi c’è
espansione dei lembi che assumono conformazione cupoliforme (Patologia 10). Vista dal lato atriale, la
valvola con degenerazione mixomatosa dimostra un variabile interessamento delle cuspidi: nella maggior
parte dei casi sono coinvolti uno o più segmenti del lembo posteriore o, meno frequentemente, entrambi i
foglietti. L’esame istologico rivela la sostituzione della struttura fibrosa con tessuto mixomatoso, ricco di
mucopolisaccaridi acidi e mastociti. La rottura delle corde (Patologia 11), nei pazienti affetti da insufficienza
mitralica, può essere il risultato dell’eccessivo stress meccanico a cui le stesse sono sottoposte (come nel
caso della degenerazione mixomatosa dei lembi) o la conseguenza di un insulto infettivo, come
nell’endocardite (Vedi Capitolo 34, Patologia 12). In questo caso, si possono anche notare lembi perforati e
frastagliati, con frequenti formazioni vegetanti. La calcificazione anulare rappresenta un’altra condizione
causa di insufficienza mitralica, con un’incidenza che tende ad aumentare con il crescere dell’età del
soggetto, ma che raramente si manifesta, macroscopicamente, prima dei 70 anni. La dilatazione anulare è
un’altra delle cause di insufficienza mitralica. Tale fenomeno può essere primario o secondario a condizioni
Liberamente consultabile su sicardiologia.it
123 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
di sovraccarico volumetrico. Infine, nei pazienti con un grave deficit ventricolare sinistro, il rigurgito
mitralico può essere presente indipendentemente dallo sfiancamento valvolare o da alterazioni dell’anulus.
In questi casi, la conformazione globosa del ventricolo sposta l’asse di trazione dei muscoli papillari rispetto
alle cuspidi (Figura 15.1); la correzione del deficit ventricolare comporta il recupero della conformazione
fisiologica che, a sua volta, ripristinando il normale asse di trazione, risolve il rigurgito.
Patologia 10. Insufficienza mitralica da degenerazione mixoide con prolasso dei lembi. Si noti la ridondanza del tessuto valvolare
(visione dall’altrio sinistro).
Patologia 11. Insufficienza mitralica da degenerazione mixoide con rottura spontanea di corde tendinee. Si notino il flail della
scallop centrale del lembo murale e le corde rotte (visione dall’atrio sinistro)
Figura 15.1 Dilatazione del ventricolo sinistro, che assume una configurazione globosa, a causa della quale l’asse di trazione dei
muscoli papillari si sposta rispetto alle cuspidi, inducendo insufficienza mitralica.
FISIOPATOLOGIA
Nell’insufficienza mitralica una frazione della gittata sistolica è eiettata, in via retrograda, nella cavità
atriale, la quale è una camera a bassa pressione (Figura 15.2). La gittata anterograda in aorta, perciò, risulta
minore della gittata ventricolare, costituita dalla somma della gittata anterograda normale più quella,
patologica, retrograda. All’insufficienza mitralica consegue un incremento della pressione e del volume
atriale sinistro, una riduzione della gittata anterograda in aorta ed un sovraccarico di volume ventricolare
poiché in diastole il volume rigurgitato ritorna in ventricolo assieme al sangue refluo proveniente dai
polmoni. Per far fronte alla normale domanda ed espellere il volume addizionale, la gittata sistolica
ventricolare aumenta grazie al meccanismo di Frank-Starling dove l’aumentato stiramento miofibrillare,
causato dall’aumentato volume ventricolare in diastole, determina un aumento del volume eiettato.
Ovviamente, la conseguenza emodinamica dell’insufficienza mitralica varia a seconda della severità del
rigurgito e dalla sua durata nel tempo. La gravità del rigurgito dipende dalla dimensione dell’orifizio
rigurgitante in sistole e dal gradiente di pressione sistolico tra atrio e ventricolo sinistro. La frazione di
rigurgito nell’insufficienza mitralica è definita dal rapporto tra il volume rigurgitante e la gittata ventricolare
totale, rapporto che dipende, a sua volta, dall’entità delle resistenze periferiche che si oppongono flusso
anterogrado e dalla compliance dell’atrio sinistro. Ad esempio, l’ipertensione o la presenza di una
coatazione aortica aumenterà la frazione di rigurgito. L’entità dell’incremento della pressione atriale
sinistra in risposta al volume rigurgitante dipende dalla compliance atriale sinistra (la compliance è una
misura della relazione tra volume e pressione endocavitaria, definibile come variazione di volume per una
data variazione in pressione). Nell’insufficienza mitralica acuta (dovuta, ad esempio, all’improvvisa rottura
di una corda) la compliance atriale sinistra subisce un’improvvisa riduzione. Questo è dovuto al fatto che
l’atrio sinistro è una camera relativamente rigida, e quando si determina improvvisamente il rigurgito
l’aumento del volume atriale si realizza solo attraverso un importante incremento della sua pressione
endocavitaria (Figura 15.3). Questo aumento in pressione contribuisce a prevenire l’ulteriore incremento
del rigurgito. Va detto però che l’elevata pressione atriale sinistra si trasmette alla circolazione polmonare,
provocando rapida congestione fino all’edema. Nell’insufficienza mitralica acuta la curva pressoria atriale
sinistra o dei capillari polmonari (stima indiretta della pressione atriale sinistra), mostra
un’onda v prominente, la quale riflette l’aumentato riempimento atriale sinistro che si realizza, in modo del
tutto anomalo, durante la sistole ventricolare (Figura 15.3). Nell’insufficienza mitralica cronica il ventricolo
accomoda il sovraccarico volumetrico grazie al meccanismo di Starling, come sopra accennato. L’aumento
di volume ventricolare genera un aumento compensatorio della gittata sistolica, in modo da far sì che alla
fine della sistole il volume ventricolare sinistro si mantenga entro valori normali, almeno fino a che il cuore
mantiene il compenso, oltre ad un incremento delle pressioni di riempimento. Lo svuotamento sistolico del
cuore sinistro è favorito dal fatto che il cuore stesso può “sfiatare” in una cavità a bassa impedenza, e cioè
l’atrio, rispetto alla grande resistenza offerta dall’aorta. Diversamente che nella forma acuta, lo sviluppo
graduale dell’insufficienza mitralica cronica consente all’atrio sinistro di andare incontro a modificazioni
compensatorie che attenuano l’effetto del rigurgito sul circolo polmonare. La compliance atriale, infatti,
aumenta grazie alla proliferazione parietale, e consente all’atrio di accogliere un volume aumentato di
sangue senza un corrispettivo aumento di pressione. In questo modo l’effetto sulla pressione polmonare
viene ad essere in parte neutralizzato, benché l’atrio rischi di diventare una sorta di serbatoio a bassa
pressione dove gran parte del volume eiettato si accumula. In tale processo di cronicizzazione, con
l’aumentare del grado di rigurgito, i sintomi lamentati dal paziente passano da quelli dettati dalla
congestione polmonare a quelli legati alla bassa portata. La progressiva, cronica dilatazione dell’atrio
predispone, inoltre, allo sviluppo della fibrillazione atriale.Nell’insufficienza mitralica cronica anche il
ventricolo, così come l’atrio, va incontro ad una graduale dilatazione compensatoria in risposta al
sovraccarico di volume. Rispetto all’insufficienza mitralica acuta l’aumentata compliance ventricolare
accomoda il sovraccarico volumetrico pur mantenendo delle pressioni relativamente normali. Nel corso
degli anni, però il sovraccarico cronico induce un progressivo deterioramento della funzione sistolica, con la
comparsa, in fase terminale, di un quadro di insufficienza ventricolare sinistra.
Figura 15.2 Nel soggetto normale, la valvola mitrale è continente e tutta la gittata ventricolare sinistra si dirige in aorta.
Nell’insufficienza mitralica moderata la gittata anterograda (in aorta) e quella retrograda (in atrio) sono pressoché equivalenti,
mentre nell’insufficienza mitralica severa il volume rigurgitante eccede la gittata anterograda.
Figura 15.3 Curve pressorie simultanee nell’atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione normale) l’onda v è
modesta, mentre in B, in presenza di insufficienza mitralica acuta, si osserva un’onda c+v molto ampia, che corrisponde ad una
pressione atriale di circa 70 mmHg.
SINTOMI
I pazienti con insufficienza mitralica acuta si presentano generalmente con sintomi di congestione
polmonare. I sintomi dell’insufficienza mitralica cronica, invece, sono prevalentemente quelli della bassa
portata, particolarmente durante lo sforzo. I soggetti nei quali la funzione contrattile tende a scadere
lamentano dispnea fino all’ortopnea ed alla dispnea parossistica notturna. Nell’insufficienza mitralica
cronica grave possono comparire anche i sintomi legati all’insufficienza ventricolare destra.
SEGNI CLINICI
Nell’insufficienza mitralica, l’ascoltazione del cuore rivela un soffio olosistolico apicale (soffio da
rigurgito, Figura 15.4) che si irradia generalmente all’ascella sinistra, anche se questa regola riconosce
molte eccezioni. Oltre al soffio sistolico, la presenza di un III tono è frequente nell’insufficienza mitralica
rilevante, così come il poter palpare un itto lateralizzato a causa dell’ingrandimento cardiaco.
Figura 15.4 Soffio sistolico da rigurgito nell’insufficienza mitralica. In B è anche presente il III tono.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
L’ECG tipicamente dimostra segni di ingrandimento atriale sinistro ed ipertrofia ventricolare sinistra (vedi
Capitolo 3); anche la radiografia del torace può mostrare l’ingrandimento delle camere cardiache sinistre, e
a volte rivela calcificazioni anulari. L’ecocardiogramma può rivelare la causa strutturale dell’insufficienza
mitralica e graduarne la severità mediante l’impiego del Color-Doppler (ECO 06), ed anche mettere in luce
sia la dilatazione atriale e ventricolare che l’ipercinesia delle pareti ventricolari. (->video)
Il cateterismo cardiaco è utile per identificare una causa ischemica di insufficienza mitralica e per graduarne
la severità. La caratteristica alterazione emodinamica è rappresentata dalla presenza, nella curva di
pressione atriale, di una onda v, la cui ampiezza dipende dall’entità del rigurgito e dalla compliance
dell’atrio (Figura 15.3).
Il prolasso valvolare mitralico rappresenta una condizione ereditaria nell’ambito di un disordine autosomico
dominante o può verificarsi come manifestazione cardiaca nel contesto di malattie connettivali, più
frequentemente riscontrabile nelle donne giovani, specie quelle con habitus longilineo. Esso rappresenta
una condizione frequentemente asintomatica, ma che talora può accompagnarsi a precordialgie e
cardiopalmo. Viene identificato anche con il termine della sindrome del click e del soffio mesotelesistolico.
L’apparato valvolare ridondante, messo in tensione dalla sistole ventricolare, è responsabile del click
(Figura 15.5), mentre l’incontinenza della valvola è causa del soffio che caratteristicamente occupa la
mesotelesistole.
Figura 15.5 A: click mesosistolico del prolasso mitralico. B: il click è seguito da un soffio mesotelesistolico.
CENNI DI TERAPIA
La storia naturale dell’insufficienza mitralica è legata alla sua eziopatogenesi, con un decorso molto lento
come nel caso dell’eziologia reumatica o molto rapido come nel caso di un improvviso aggravamento di una
forma cronica a causa della rottura di una o più corde tendinee.
Lo scopo della terapia è quello di ridurre l’entità del rigurgito e di accrescere la portata anterograda,
attenuando i sintomi ed i segni di congestione polmonare e quelli legati alla bassa portata. I diuretici ed i
vasodilatatori trovano spazio nel trattamento dell’insufficienza mitralica acuta. L’uso dei vasodilatatori,
come gli inibitori del sistema renina-angiotensina è limitato, nell’insufficienza mitralica cronica, ai casi
caratterizzati da un concomitante incremento dei livelli tensivi in aorta.
L’insufficienza mitralica può subdolamente sconfinare in un quadro di scompenso cardiaco legato al
cronico, inarrestabile deterioramento della funzione contrattile associato alla persistenza del sovraccarico
di volume. La chirurgia cardiaca appare indicata prima che un tale evento possa verificarsi. A più di 30 anni
dai primi impianti valvolari, l’esatto timing dell’intervento sostitutivo valvolare mitralico nell’insufficienza
mitralica rimane una tra le decisioni cliniche più difficili per il cardiologo clinico. Una strategia interessante
è l’atteggiamento chirurgico conservativo, capace cioè di riparare (e non sostituire) la valvola eliminando
molti dei problemi propri delle protesi valvolari (vedi Capitolo 62). Nei pazienti così trattati la sopravvivenza
postoperatoria appare nettamente migliore rispetto al paziente non operato. In generale l’intervento
riparativo appare particolarmente indicato per i pazienti giovani, con malattia degenerativa della valvola,
mentre l’intervento sostitutivo trova indicazione principalmente negli anziani, con malattia valvolare estesa
e non suscettibile di riparazione.
Capitolo 16
STENOSI AORTICA
Francesco Pizzuto, Francesco Romeo
DEFINIZIONE
La stenosi della valvola aortica è il restringimento dell'orifizio valvolare conseguente a processi patologici
che colpiscono i lembi, le commissure o l'anello valvolare. La valvola ristretta ostacola lo svuotamento del
ventricolo sinistro in sistole, e rende necessario che aumenti la pressione intraventricolare perché si
instauri fra il ventricolo sinistro e l’aorta un gradiente pressorio sufficiente a garantire un normale flusso
anterogrado. Come conseguenza del sovraccarico di pressione, il ventricolo sinistro va incontro ad
ipertrofia.
EZIOLOGIA
La stenosi valvolare aortica può essere congenita ed evidenziarsi già alla nascita (vedi Capitolo 51) o
acquisita; anche in quest’ultimo caso la malattia, pur manifestandosi nell’adulto o nell’anziano, dipende a
volte da un’anomalia congenita, la valvola aortica bicuspide (Figura 16.1). La bicuspidia aortica è presente
nel 2% della popolazione, e di per sé non comporta un significativo ostacolo all'efflusso ventricolare
sinistro. I lembi valvolari anomali, tuttavia, determinano una turbolenza del flusso, che nel tempo può
provocare una fibrosi valvolare, con esito in progressivo restringimento dell’ostio. Anche la normale valvola
a tre cuspidi può andare incontro a processi degenerativi, legati soprattutto all’invecchiamento ma anche a
processi degenerativi: la stenosi aortica degenerativa (o senile) è caratterizzata dalla presenza di cuspidi
rese ipomobili dal deposito di calcio lungo le commissure (Figura 16.2).
L’eziologia reumatica della stenosi aortica è relativamente rara, ed è più frequente nei casi di un vizio
combinato mitro-aortico. La stenosi aortica reumatica risulta dall’adesione e fusione delle commissure e
delle cuspidi, con retrazione e irrigidimento dei bordi liberi e presenza su entrambe le superfici delle cuspidi
di noduli calcifici che riducono l’orificio (Figura 16.3).
Figura 16.1 Cause di stenosi aortica in rapporto all’età. L’incidenza di stenosi aortica secondaria a valvola aortica bicuspide è
maggiore al di sotto dei settanta anni, mentre la stenosi aortica su base degenerativa è maggiormente presente al di sopra dei
settanta anni (modificata da Braunwald E: A text Book of Cardiovascular Disease, 1997).
Figura 16.2 Valvola aortica stenotica, diffusamente calcifica, asportata ad un paziente ultrasettantenne. Si noti l’estrema
calcificazione dei lembi valvolari (per gentile concessione del Prof Pietro Gallo)
Figura 16.3 Stenosi valvolare aortica post-infiammatoria. Si nota l’ispessimento delle cuspidi valvolari, associato alla presenza di
noduli di Ashoff, caratteristici della malattia reumatica (per gentile concessione del Prof Pietro Gallo).
FISIOPATOLOGIA
Il progressivo restringimento valvolare rappresenta un ostacolo all’eiezione del sangue dal ventricolo
sinistro. Per vincere questa resistenza e mantenere un flusso anterogrado normale, la pressione sistolica
nel ventricolo sinistro deve sempre superare quella presente in aorta; la differenza pressoria tra ventricolo
sinistro ed aorta, definita gradiente pressorio, è proporzionale all’entità dell'ostruzione (Figura 16.4). L’area
valvolare aortica normale nell'adulto è compresa tra 1.6 e 2.6 cm2. Quando l’ostio della valvola si riduce a
meno di un quarto del normale, il gradiente supera 50 mmHg. Il sovraccarico pressorio che grava sul
ventricolo sinistro stimola, come meccanismo compensatorio, l’ipertrofia ventricolare, e induce un
aumento più o meno marcato dello spessore delle pareti e del setto interventricolare, mentre la cavità
ventricolare non si dilata. L’ipertrofia ventricolare che si realizza in seguito al sovraccarico di pressione,
come nella stenosi aortica, è concentrica, caratterizzata dalla replicazione dei sarcomeri “in parallelo”
all’interno della fibra, per cui questa aumenta il suo spessore ma non diviene più lunga. Al contrario, il
sovraccarico di volume quale si realizza, per esempio, nell’insufficienza aortica, induce
un’ipertrofia eccentrica, poiché i nuovi sarcomeri si dispongono “in serie” e la fibrocellula si allunga anziché
ispessirsi. Nella stenosi aortica, l’ipertrofia concentrica consente al ventricolo sinistro di compiere un
maggior lavoro, e anche di mantenere a valori quasi normali lo stress di parete.
Secondo la legge di Laplace, lo stress di parete o postcarico (omega) è uguale al prodotto della pressione
endocavitaria (P) per il raggio della cavità (r), diviso per il doppio dello spessore della parete (h), secondo la
formula:
omega=Pr/2h.
Nella stenosi aortica, il ventricolo sinistro va incontro ad un aumento dello stress di parete per aumento
della pressione, mentre l’incremento dello spessore parietale riduce lo stress e quindi il postcarico. Il
meccanismo di compenso rappresentato dall’ipertrofia, però, comporta degli svantaggi perchè:
l’aumento della massa muscolare determina un aumento del consumo miocardico di O2;
l’incremento della pressione endocavitaria ostacola la perfusione miocardica, esercitando un’aumentata
compressione sui vasi coronarici;
la distensibilità (compliance) del ventricolo sinistro diminuisce, alterando il rilasciamento del ventricolo
sinistro ed ostacolandone il riempimento diastolico, che diventa pertanto sempre più dipendente dal
contributo della sistole atriale.
Lo sforzo può mettere in crisi questi precari meccanismi di compenso in quanto produce:
un aumento del consumo di O2 da parte del miocardio, non controbilanciato da una corrispondente
aumento della perfusione miocardica, con possibile comparsa di angina;
un notevole aumento della pressione ventricolare sinistra necessaria per mantenere il flusso richiesto
dall’esercizio muscolare, con una accentuata stimolazione dei meccanocettori ventricolari (recettori
sensibili alle variazioni dello stiramento) che possono innescare a loro volta una vasodilatazione
periferica riflessa, provocando una sincope. Un aumento del postcarico, con conseguente aumento della
pressione ventricolare sinistra sotto sforzo cosicché il ventricolo sinistro, che già in condizioni di riposo
lavora a pressioni superiori alla norma, riduce la sua funzione contrattile e non riesce ad espellere il
sangue ricevuto in diastole. Si produce così un aumento della pressione in atrio sinistro, che a sua volta
determina un aumento della pressione a monte, nel circolo polmonare, con conseguente congestione
polmonare fino all’edema polmonare.
Figura 4 Misurazione contemporanea della pressione in ventricolo sinistro ed in aorta ascendente, ottenuta mediante
cateterismo cardiaco. La pressione massima in ventricolo sinistro è di 220 mm Hg, la pressione massima in aorta ascendente è di
138 mm Hg. Il gradiente di picco VS-AO e di 82 mm Hg, il gradiente istantaneo massimo è di 110 mm Hg.
QUADRO CLINICO
Sintomi. Il paziente con stenosi aortica è asintomatico per molti anni, nonostante la malattia si aggravi
progressivamente. Quando la valvulopatia diviene critica compaiono i sintomi: dispnea (scompenso
cardiaco),angina e sincope. Se, da quando insorgono i sintomi, la malattia decorre non trattata, il
peggioramento è progressivo e la sopravvivenza media è 2 anni nei pazienti con scompenso, 3 nei soggetti
con sincope e 5 anni in quelli con angina.
Nella maggior parte dei casi il primo sintomo è la dispnea da sforzo, seguita eventualmente da ulteriori
manifestazioni di insufficienza ventricolare sinistra (ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema
polmonare). L’angina è presente in circa 2/3 dei casi, ed è simile a quella dei pazienti con coronaropatia,
venendo scatenata dallo sforzo e scomparendo con il riposo. La sincope insorge tipicamente
durante sforzo (per la risposta inappropriata dei barocettori del ventricolo sinistro), ma può anche essere la
conseguenza di aritmie.
Segni Fisici. La palpazione della zona precordiale può evidenziare un fremito sistolico, espressione di un
flusso aortico particolarmente turbolento, dovuto a un notevole gradiente tra ventricolo sinistro ed
aorta. L’ascoltazionerivela un soffio sistolico eiettivo con epicentro al 2° spazio intercostale destro sulla
linea marginosternale (focolaio d’ascoltazione aortico) ed irradiazione verso i vasi del collo, cioè nel senso
del flusso.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
Nei pazienti con stenosi aortica, la radiografia del torace può mostrare un allargamento del margine
sinistro dell’ombra cardiaca, dovuto all'ipertrofia del ventricolo sinistro, ma anche un ingrandimento del
primo arco di destra (dilatazione dell’aorta ascendente) e una congestione degli ili polmonari (soprattutto
nelle fasi avanzate della malattia, in presenza di scompenso cardiaco). L'elettrocardiogramma rappresenta
il test diagnostico non invasivo maggiormente utilizzato per confermare la diagnosi clinica. Il segno
elettrocardiografico principale è l’ipertrofia ventricolare sinistra, presente nell'80% circa dei pazienti con
stenosi aortica severa (Figura 16.5). L'ecocardiogrammaintegrato (M-mode, bidimensionale e Doppler)
rappresenta il test diagnostico non invasivo più utile e completo per la valutazione dei pazienti con stenosi
aortica (Figura 16.6). Permette, infatti, di quantificare l'entità del vizio aortico, determinando sia il grado di
ipertrofia del ventricolo sinistro e la sua funzione (ecocardiografia M-mode e bidimensionale) che l'entità
del gradiente transvalvolare aortico e l'area valvolare (ecocardiografia Doppler).
Il Cateterismo Cardiaco ha rappresentato per molti decenni l’accertamento diagnostico più importante per
valutare la stenosi aortica, consentendo la misurazione di tutti i parametri utili per diagnosticare e
quantizzare la valvulopatia, come il gradiente aortico, l'area valvolare e le pressioni polmonari. Tuttavia,
l'introduzione dell'ecocardiografia Doppler ha notevolmente ridotto la necessità di ricorrere allo studio
invasivo per la valutazione della stenosi aortica, limitando il cateterismo cardiaco ai casi dubbi, oppure
quando è possibile effettuare una terapia non chirurgica della valvulopatia (valvuloplastica aortica o
impianto percutaneo di una protesi valvolare).
Figura 16.5 Elettrocardiogramma di un paziente con stenosi aortica severa: ipertrofia ventricolare sinistra (onde R alte nelle
precordiali sinistre, sottolivellamento del tratto S-T in I, II, aVL, V5, V6).
Figura 16.6 Registrazione contemporanea del velocitogramma Doppler transaortico (ottenuto con ecocardiografia transtoracica) e
delle pressioni invasive in ventricolo sinistro (225 mm Hg) ed in aorta ascendente (160 mm Hg), registrate durante cateterismo
cardiaco. Il gradiente massimo Doppler-derivato (88 mmHg) coincide con il gradiente istantaneo massimo emodinamico (90 mm
Hg), che rappresenta il momento in cui il gradiente sistolico fra il ventricolo sinistro e l'aorta è il più elevato. Il gradiente
emodinamico picco ventricolo sinistro-picco aorta è più basso perchè il picco di pressione in aorta è più tardivo rispetto al picco di
pressione in ventricolo sinistro.
CENNI DI TERAPIA
I pazienti con stenosi aortica asintomatica non necessitano di trattamento; nei sintomatici la
terapia è chirurgica e consiste nella sostituzione della valvola aortica con protesi meccanica o
biologica (vedi Capitolo 62). La sostituzione valvolare aortica con trattamento percutaneo (tramite
cateterismo cardiaco) è ancora in fase iniziale, e benché i risultati ottenuti finora siano
incoraggianti, necessita di ulteriori conferme ed al momento attuale viene riservata soltanto a quei
pazienti che, pur necessitando della sostituzione valvolare, non possono essere sottoposti
all’intervento chirurgico.
Capitolo 17
INSUFFICIENZA AORTICA
Corrado Vassanelli
DEFINIZIONE
L'insufficienza aortica è una malattia della valvola aortica, la quale diviene incontinente per anomalie dei
lembi valvolari, delle strutture di supporto (radice aortica ed annulus) o di entrambi. Si verifica, di
conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dall'aorta al ventricolo sinistro durante la diastole.
FISIOPATOLOGIA
Le conseguenza fisiopatologiche della valvulopatia variano a seconda che il rigurgito si stabilisca
improvvisamente e sia massivo (insufficienza aortica acuta) o sia inizialmente lieve e progredisca
lentamente nel tempo. Nell'insufficienza aortica acuta grave, un notevole volume ematico di rigurgito
diastolico va a sovraccaricare improvvisamente un ventricolo sinistro di normali dimensioni, che non ha
avuto il tempo per adattarsi. L' aumento del volume telediastolico fa incrementare drammaticamente la
pressione telediastolica ventricolare sinistra e la pressione atriale sinistra: poiché la camera ventricolare
non è in grado di dilatarsi in modo compensatorio, ne consegue una riduzione della gittata sistolica
anterograda. La tachicardia riflessa, che si instaura nel tentativo di mantenere una portata cardiaca
adeguata, è spesso insufficiente, ed i pazienti possono andare incontro a edema polmonare o shock
cardiogeno. L'insufficienza aortica acuta è particolarmente mal tollerata nei pazienti con ventricolo sinistro
ipertrofico piccolo e poco distensibile, come accade quando il rigurgito consegue a dissezione aortica in
pazienti ipertesi, o ad endocardite infettiva in soggetti con stenosi aortica preesistente. Questi pazienti
possono anche manifestare segni e sintomi di ischemia miocardica, poiché si riduce la pressione di
perfusione nel letto coronarico a causa del progressivo incremento della pressione telediastolica
ventricolare sinistra, che tende a eguagliare la pressione diastolica aortica e quella coronarica.
Nell'insufficienza aortica cronica grave, il sovraccarico al ventricolo sinistro è sia di volume che di pressione.
Il ventricolo sinistro aumenta di volume perché deve accogliere non solo il sangue che proviene dalle vene
polmonari, ma anche quello che refluisce dall’aorta durante la diastole. Il sovraccarico di volume è
conseguenza della quota rigurgitante, ed è direttamente correlato alla gravità del rigurgito. Nelle fasi
precoci, il ventricolo sinistro si adatta al sovraccarico di volume con una ipertrofia eccentrica, in cui i
sarcomeri si allineano in serie ed i miofilamenti si allungano: ne consegue un incremento della forza di
contrazione, in accordo alla legge di Starling. La gittata sistolica è aumentata, e con essa la pressione
sistolica. L'ipertensione sistolica può contribuire alla progressiva dilatazione della radice aortica che a sua
volta peggiora l'insufficienza aortica. Nelle fasi più avanzate, la progressiva dilatazione del ventricolo
sinistro può produrre una grave disfunzione ventricolare, peggiorata dalla progressiva riduzione della
distensibilità del ventricolo, causata dall’ipertrofia e dalla fibrosi.
SINTOMI
I sintomi dell'insufficienza aortica dipendono dalla velocità con cui si realizza il danno valvolare, e sono tipici
dello scompenso cardiaco sinistro. Se il rigurgito aortico si instaura acutamente, non vi è tempo perché il
ventricolo sinistro possa mettere in atto i meccanismi compensatori dell'ipertrofia e della dilatazione, per
cui l’insufficienza ventricolare sinistra si manifesta rapidamente, anche con l’edema polmonare acuto.
I pazienti con insufficienza aortica cronica, invece, sono solitamente asintomatici ed hanno una buona
tolleranza allo sforzo per anni, fino a che, con il deficit del ventricolo sinistro, compaiono dispnea da sforzo,
astenia e talora ortopnea e dispnea parossistica notturna. Il paziente può anche avvertire palpitazioni a
causa della percezione dell'attività cardiaca dovuta all'ingrandimento del ventricolo. Anche in assenza di
malattia coronarica, le aumentate richieste di ossigeno da parte del ventricolo sinistro possono causare
angina pectoris, soprattutto nelle ore notturne.
SEGNI CLINICI
L'esame obiettivo nell' insufficienza aortica cronica è caratterizzato dallo stato iperdinamico della malattia.
La pressione arteriosa sistolica è aumentata, per l’incremento della gittata sistolica ventricolare sinistra,
mentre la pressione diastolica è ridotta sia per la vasodilatazione periferica, ma soprattutto per il flusso
retrogrado verso il ventricolo sinistro; la pressione differenziale, perciò, risulta notevolmente più ampia del
normale. Queste variazioni dipendono grossolanamente dall’entità della insufficienza: si ritiene che, in
assenza di scompenso cardiaco, questo vizio valvolare sia poco significativo quando la pressione diastolica
non è <70 mm Hg.
Alla palpazione, il polso è scoccante (ampio e celere), poiché da un lato la gittata sistolica è aumentata, e
dall’altro la valvola aortica insufficiente non trattiene il sangue nel letto arterioso: l'effetto è una pulsazione
che sembra schioccare bruscamente contro le dita e scomparire altrettanto rapidamente (polso a martello
pneumatico). L'impulso apicale è ipercinetico, di ampia superficie, spesso dislocato in basso ed a sinistra
rispetto al normale.
Il rigurgito diastolico del sangue attraverso la valvola aortica provoca un soffio: poiché il flusso retrogrado è
elevato quando la pressione nella radice aortica è al suo massimo, e declina quando la pressione aortica
cade, il soffio dell’insufficienza aortica è massimo in protodiastole e quindi decresce (Figura 3). Il soffio ha
timbro dolce, aspirativo, e si ascolta meglio con il paziente seduto, durante espirazione forzata; la sua
intensità è massima lungo la parte inferiore della linea margino-sternale sinistra. La durata del soffio indica
grossolanamente la gravità della malattia: nei casi lievi esso si ascolta solo quando il gradiente tra aorta e
ventricolo sinistro è elevato, cioè in protodiastole; con l’aumentare della gravità, il soffio diventa
olodiastolico. Con la comparsa dello scompenso, poi, l'incremento della pressione telediastolica
ventricolare sinistra e il rapido calo della pressione diastolica aortica riducono il gradiente di rigurgito, e il
soffio torna ad accorciarsi. Nell'insufficienza aortica acuta, il soffio diastolico può essere addirittura assente
a causa del rapido equilibrio tra le pressioni aortica e ventricolare sinistra.
Sul focolaio aortico è rilevabile quasi sempre un soffio sistolico eiettivo, dovuto all'eccessivo flusso
anterogrado, che può mimare una stenosi aortica (Figura 3B).
Il secondo tono è di solito singolo. Un tono aggiunto eiettivo aortico (click da eiezione) può essere ascoltato
soprattutto in presenza di valvola aortica bicuspide
Figura 13 A: soffio diastolico in decrescendo dell'innsufficienza aortica. B: al soffio diastolico si associa un soffio sistolico eiettivo, che
non è necesariamente indicativo di concomitante stenosi della valvola
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
L'ECG mostra spesso ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da onde R alte nelle derivazioni
precordiali sinistre ed S profonde nelle destre, sottoslivellamento di ST e T invertite in I , aVL e V5-V6. (vedi
Capitolo 3). La radiografia del torace mostra cardiomegalia che, associata alla dilatazione dell'aorta
ascendente e dell'arco aortico, conferisce al cuore la caratteristica configurazione “a scarpa”.
L'esame diagnostico più importante nella valutazione dell' insufficienza aortica è l'ecocardiogramma che
permette di: 1) valutare l'anatomia dei lembi valvolari e della radice aortica, 2) rilevare la presenza e
stimare la gravità del rigurgito (con il color-Doppler) (ECO 18), 3) caratterizzare la dimensione, la massa e la
funzione del ventricolo sinistro. Il cateterismo cardiaco, l'aortografia e l'angiografia coronarica sono
raramente necessari, soprattutto nei casi acuti, e dovrebbero essere eseguiti solo quando la diagnosi non
può essere fatta altrimenti o nei pazienti con coronaropatia nota o elevata probabilità di malattia
coronarica.
ECO18
CENNI DI TERAPIA
In caso di insufficienza aortica acuta, l'intervento cardiochirurgico immediato è necessario poiché il
sovraccarico improvviso di volume è potenzialmente fatale. In questi casi la correzione chirurgica è urgente
poiché la terapia medica usuale fallisce: i vasodilatatori utilizzati per incrementare il flusso anterogrado
peggiorano l'ipotensione, l'ischemia e la disfunzione ventricolare sinistra, ed i farmaci che incrementano la
pressione aumentano le resistenze periferiche e peggiorano il rigurgito.
La terapia medica non è in grado di ridurre significativamente il volume di rigurgito nell' insufficienza
aortica cronica grave poiché l'area di rigurgito è relativamente fissa e la pressione diastolica già bassa: una
ulteriore riduzione di questa peggiorerebbe la perfusione coronarica. L'obiettivo principale della terapia
medica è quindi quello di ridurre l’ipertensione sistolica, al fine di diminuire lo stress parietale e migliorare
la funzione del ventricolo sinistro. Per questo possono essere usati farmaci vasodilatatori quali ACE-inibitori
o calcio-antagonisti diidropiridinici (vedi Capitolo 57).
Nei pazienti con insufficienza aortica isolata cronica, la sostituzione valvolare (o a volte la plastica valvolare
) è indicata solo nei casi gravi, mentre nei soggetti sintomatici ma con insufficienza aortica lieve devono
essere escluse altre cause di disfunzione ventricolare come coronaropatia, ipertensione o cardiomiopatia. I
migliori risultati chirurgici si ottengono prima che il diametro telediastolico del ventricolo sinistro superi i 55
mm e che la frazione di eiezione scenda al di sotto del 55%.
In presenza di concomitante malattia della radice aortica, alla sostituzione valvolare dovrebbe essere
associata la ricostruzione della radice e dell'aorta prossimale se il diametro dell'aorta supera i 5.0 cm.
Capitolo 18
MALATTIE DELLA TRICUSPIDE E DELLA POLMONARE
Ketty Savino, Sandra D'Addario, Elisabetta Bordoni, Giuseppe Ambrosio
STENOSI TRICUSPIDALE
Definizione. La stenosi tricuspidale consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un
ostacolo al passaggio del sangue dall’atrio al ventricolo destro. Si viene, perciò, a creare un gradiente di
pressione tra atrio e ventricolo, e l’aumento della pressione atriale determina una dilatazione dell’atrio
destro.
Eziologia ed anatomia patologica. La stenosi tricuspidale riconosce varie cause ma la più frequente è
la malattiareumatica (vedi Capitolo 13), una sindrome infiammatoria acuta sistemica che coinvolge
l’endocardio valvolare. In genere la malattia tricuspidale non è isolata ma si associa ad una valvulopatia
mitralica ed aortica. Gli esiti sono la fibrosi e la retrazione delle strutture coinvolte. Il quadro anatomo-
patologico ricorda quello della stenosi mitralica con fibrosi e retrazione delle cuspidi valvolari, fusione delle
commissure e delle corde tendinee.
I tumori dell’atrio destro, se di cospicue dimensioni, possono provocare un’ostruzione al flusso trans-
valvolare e simulare una stenosi tricuspidale. In questi casi la stenosi è “funzionale”, cioè non sono presenti
alterazioni dell’anatomia valvolare. La sindrome da carcinoide (vedi oltre) può determinare una stenosi
tricuspidale anche se, in genere, è causa di insufficienza valvolare.
Fisiopatologia. La riduzione dell’area valvolare tricuspidale ostacola il riempimento ventricolare destro, che
tende ad essere mantenuto normale da un aumento della pressione atriale destra. Data l’assenza di valvole
tra vene cave e atrio, l’incremento della pressione atriale si ripercuote immediatamente sul circolo cavale,
determinando un’ipertensione venosa sistemica.
Sintomi e segni clinici. La stenosi tricuspidale è in genere ben tollerata: frequentemente i pazienti adulti
sono asintomatici e la patologia viene identificata esclusivamente in base ai reperti ascoltatori. L’esame
obiettivo evidenzia i segni dell’ipertensione venosa sistemica: edemi declivi, turgore giugulare,
epatomegalia ed ascite. L’ascoltazione cardiaca è simile a quella della stenosi mitralica, caratterizzata da
schiocco d’apertura e da rullio diastolico tricuspidale (vedi Capitolo 2). A differenza di quanto si verifica
nella stenosi mitralica, i reperti acustici si ascoltano in corrispondenza del focolaio tricuspidale (IV spazio
intercostale lungo la margino-sternale destra) e si accentuano durante l’inspirazione profonda (segno di
Rivero-Carvallo). Quest’ultima caratteristica consegue all’aumento del ritorno venoso indotto
dall’inspirazione: durante tale fase, l’incrementato passaggio di sangue attraverso la valvola induce un
aumento del gradiente trensvalvolare e quindi del rullio. Altro reperto obiettivo importante è la pulsazione
della vena giugulare, soprattutto a destra, per la presenza di un’ampia onda “a” che corrisponde alla sistole
atriale (vedi Capitolo2).
Diagnostica strumentale
ECG: All’esame elettrocardiografico l’ingrandimento atriale destro si evidenzia per la presenza di onde P
ampie e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF e V1 (vedi Capitolo 3); quando l’atriomegalia diventa severa,
insorge la fibrillazione atriale.
Rx torace: L’esame radiologico del torace evidenzia una marcata atriomegalia con prominenza del profilo
cardiaco destro (secondo arco). Diversamente da quanto si osserva nella stenosi mitralica, il tronco
polmonare è di normali dimensioni e non vi sono segni di congestione polmonare.
Ecocardiografia: L’esame bidimensionale transtoracico consente un accurato studio anatomo-funzionale
dell’apparato valvolare tricuspidale. Valuta lo spessore dei lembi, la ridotta motilità valvolare,
l’ispessimento e la retrazione delle corde tendinee e la dilatazione dell’atrio destro. L’esame color-Doppler
consente di definire la presenza e l’entità della stenosi valvolare attraverso la valutazione del gradiente
pressorio tra atrio e ventricolo destro e le variazioni del gradiente durante l’inspirazione profonda. Un
gradiente medio superiore a 5 mmHg identifica una stenosi valvolare di severa entità.
Cateterismo cardiaco: Poiché lo studio dell’emodinamica valvolare tricuspidale è fattibile con elevata
sensibilità e specificità mediante ecocardiografia, il ricorso al cateterismo cardiaco è limitato solo a pochi
casi.
Cenni di Terapia. Il trattamento del vizio valvolare è influenzato sia dall’eziologia che dalla gravità della
valvulopatia: se questa è secondaria (per esempio ad endocardite infettiva o sindrome da carcinoide) deve
essere trattata la patologia di base. Se la stenosi tricuspidale ha eziologia reumatica generalmente si associa
ad una valvulopatia mitralica, per cui l’intervento chirurgico è volto principalmente alla sostituzione
valvolare mitralica ed alla riparazione tricuspidale (vedi Capitolo 63). Nei casi in cui la valvola tricuspide sia
particolarmente compromessa e le corde tendinee retratte è possibile dover ricorrere alla sostituzione
tricuspidale.
INSUFFICIENZA TRICUSPIDALE
Definizione. L’insufficienza tricuspidale è caratterizzata dalla incapacità dei lembi valvolari a collabire fra
loro, per occludere completamente l’ostio valvolare quando il ventricolo si contrae. Si verifica, di
conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dal ventricolo all’atrio destro durante la sistole.
Eziologia e anatomia patologica. L’insufficienza tricuspidale è, al contrario della stenosi, una patologia
frequente, determinata da numerose cause: la più frequente è
la dilatazione del ventricolo destro e dell’anello tricuspidale. Questo tipo di valvulopatia è “funzionale”,
poiché i lembi valvolari sono morfologicamente integri, e si instaura anche per lievi dilatazioni, dal
momento che l’area di coaptazione dei lembi tricuspidali è molto più limitata di quella che si osserva per la
valvola mitrale. Queste forme sono più spesso la conseguenza di ipertensione polmonare primitiva o
valvulopatie mitro-aortiche, cuore polmonare ed infarto ventricolare destro.
La causa più frequente di insufficienza tricuspidale organica è l’endocardite, che può essere infettiva o non
infettiva.L’endocardite infettiva del cuore destro si riscontra principalmente nei tossico-dipendenti, nei
portatori di shunt sinistro-destro (es. fistole, dialisi) e, molto più raramente, nei pazienti sottoposti a
cateterismo cardiaco (vedi Capitolo34). Gli agenti microbici principali sono gli stafilococchi, i gonococchi, i
funghi. È patognomonica la presenza di vegetazioni di consistenza friabile, composte da microorganismi e
detriti trombotici. Le lesioni possono complicarsi con perforazioni ed erosioni dei lembi valvolari o ascessi
anulari.
L’endocardite non infettiva si può riscontrare in corso di Lupus Eritematoso Sistemico (endocardite di
Libman-Sachs) ed è di tipo trombotico-abatterico. Essa è caratterizzata dalla deposizione di piccole
masserelle sterili, costituite da fibrina e da altri elementi del sangue, su lembi valvolari in genere indenni.
Altra causa di insufficienza tricuspidale è rappresentata dalla sindrome da carcinoide: questa condizione è
secondaria alla produzione di sostanze serotoninergiche da parte di tumori carcinoidi che favoriscono la
comparsa di ispessimenti localizzati di endocardio murale e valvolare (placche carcinoidi), con conseguente
alterazione della morfologia valvolare.
Quadri anatomo-patologici simili alla sindrome da carcinoide associati ad insufficienza tricuspidale possono
essere indotti da assunzione di una grande varietà di farmaci e tossici che fungono da agonisti
serotoninergici, condividendo quindi con la sindrome da carcinoide non solo il quadro anatomo-patologico
ma anche il meccanismo eziopatogenetico. Tra queste sostanze annoveriamo derivati dall’amfetamina quali
farmaci anoressizzanti (fenfluoramina e fentermina), ormai ritenuti pericolosi e quindi non più in uso,
agenti tossici (ecstasy e metilendiossimetamfetamina o MDMA), ma anche farmaci dopaminergici
comunemente utilizzati per il trattamento del morbo di Parkinson (pergolide e cabergolina) e dell’emicrania
(metisergide ed ergotamina). Fungendo da agonisti della serotonina e stimolando in particolare i recettori
5HT 2b, queste sostanze, attraverso l’attivazione di protein-chinasi, indurrebbero un’inappropriata
stimolazione mitogenica a livello valvolare (“overgrowth valvulopathy”) che esiterebbe nella formazione di
placche morfologicamente indistinguibili da quelle che caratterizzano la sindrome da carcinoide.
Cause più rare di insufficienza tricuspidale con alterazioni anatomiche valvolari sono i traumi toracici e
Figura 2 Esame ecocardiografico color CW della tricuspide. In alto esame 2D color, in basso analisi spettrale dell'insufficienza
tricuspidale.
STENOSI POLMONARE
Definizione. La stenosi polmonare consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un
ostacolo al passaggio del sangue dal ventricolo destro all’arteria polmonare.
Eziologia e anatomia patologica. La stenosi polmonare è quasi esclusivamente una malattia congenita
(Patologia57) e solo eccezionalmente può riconoscere come causa la malattia reumatica o la sindrome da
carcinoide. A volte può essere un reperto isolato ma, più spesso, fa parte di cardiopatie congenite
complesse quali la tetralogia di Fallot (vedi Capitolo 52). I lembi valvolari sono fibrotici, ispessiti ed a
superficie liscia e regolare.
Fisiopatologia. Il restringimento dell’orifizio valvolare polmonare determina un gradiente ventricolo-
arterioso; l’incremento dei valori pressori in ventricolo destro induce ipertrofia ventricolare. Con l’andar del
tempo, l’aumento della pressione ventricolare si ripercuote per via retrograda a livello atriale ed al circolo
cavale, determinando infine un ostacolo al ritorno venoso sistemico.
Sintomi e segni clinici. La stenosi isolata della polmonare è una valvulopatia ben tollerata e asintomatica o
paucisintomatica. La diagnosi viene sospettata dalla presenza di un soffio sistolico da eiezione in area
polmonare.
Diagnosi strumentale.
ECG: Il tracciato elettrocardiografico presenta di solito un quadro di ipertrofia del ventricolo destro, e
spesso anche di ingrandimento dell’atrio destro (ECG 04).
Ecocardiografia: L’ecocardiografia è la tecnica diagnostica più utilizzata per la diagnosi di stenosi
polmonare. All’esame bidimensionale è possibile rilevare la presenza di un anello polmonare di dimensioni
minori di quello aortico, i lembi valvolari sono ispessiti ed ipomobili con movimento di apertura a “cupola”
(doming). Se la stenosi è severa si riscontra dilatazione post-stenotica dell’arteria polmonare ed ipertrofia
del tratto di efflusso ventricolare destro. Al color-Doppler è possibile determinare il gradiente ventricolo-
arterioso e graduare la severità della valvulopatia.
Cenni di Terapia. La valvuloplastica polmonare con palloncino (vedi Capitolo 52) è la tecnica più utilizzata
per la correzione di questa valvulopatia (Figura 13/52). Il ricorso all’intervento chirurgico è giustificato solo
se la stenosi polmonare è severa o quando fa parte di una cardiopatia congenita complessa (es. tetralogia
di Fallot).
INSUFFICIENZA POLMONARE
Definizione
L’insufficienza polmonare è caratterizzata dalla incapacità delle cuspidi valvolari a collabire
sufficientemente durante la diastole, per cui si verifica un rigurgito di sangue dall’arteria polmonare al
ventricolo destro.
Eziologia e anatomia patologica
L’insufficienza polmonare è, di solito, secondaria a dilatazione dell’anello polmonare provocata
dall’ipertensione polmonare; solo eccezionalmente viene indotta da endocardite infettiva o malattia da
carcinoide. Nella forma secondaria a dilatazione dell’anello la morfologia della valvola è normale.
Fisiopatologia
Nell’insufficienza polmonare il rigurgito di sangue provoca sovraccarico di volume e dilatazione del
ventricolo destro, che va incontro ad ipertrofia eccentrica. Il vizio valvolare può essere ben tollerato anche
per molti anni.
Segni clinici
Il rigurgito provoca un soffio diastolico che inizia subito dopo la componente polmonare del II tono e
termina, abitualmente, in mesodiastole. Il soffio è ad alta tonalità, di timbro alitante e in decrescendo, si
percepisce meglio nella regione parasternale, tra il II ed il IV spazio intercostale, e aumenta di intensità
durante l’inspirazione. In caso di coesistenza di ipertensione polmonare, associata ad insufficienza
tricuspidale e/o polmonare, è possibile apprezzare altri segni quali un rinforzo della componente
polmonare del II tono, un tono di eiezione polmonare e un soffio sistolico di accompagnamento. Quando il
ventricolo destro si dilata è possibile palpare un itto iperdinamico.
Diagnosi strumentale
ECG: In genere l’ECG risulta normale ma, se l’insufficienza è significativa, sono presenti i segni del
sovraccarico di volume del ventricolo destro fino al blocco di branca destro.
Ecocardiogramma: La tecnica bidimensionale consente di visualizzare la dilatazione del ventricolo destro e
la vivacità della cinesi ventricolare destra. Il color-Doppler consente di visualizzare il rigurgito polmonare e
graduare l’entità dell’insufficienza.
Terapia
In genere l’insufficienza polmonare è una valvulopatia ben tollerata e non è necessario ricorrere a
correzione chirurgica.
Capitolo 19
FISIOPATOLOGIA DELLO SCOMPENSO CARDIACO
Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali
DEFINIZIONE
Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono state
proposte numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo scompenso cardiaco
come una sindromein cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle richiest
e dei tessuti oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di
riempimento ventricolari.
La Società Europea di Cardiologia ha definito lo scompenso cardiaco
come una sindrome caratterizzata daiseguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea e/o astenia, a rip
oso e/o da sforzo, e/o edemi declivi)ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ecocardiografia) di u
na disfunzione cardiaca sistolica e/odiastolica.
L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei vari organi nel determinare la
progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori nella
definizione. Per scompenso cardiaco si deve quindi
intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo, della portata cardiaca, comunquedetermina
to ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una risposta multiorganica con attivazionecronica
neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente la funzione miocardica, nonostante unacontrorispost
a di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi circolatoria.
EPIDEMIOLOGIA
A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte
delle malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza
di scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da
scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe
portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da
scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è
spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i
soggetti di età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a
morire in un tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un
solo anno per il 50% dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento
della prognosi dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia.
CAUSE
Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione
cardiaca. Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da
valvulopatie, malattie del pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente
l’anemia, la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi
possono peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco.
Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato
da una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante
ipertensione arteriosa, ne è la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più
frequente l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una
storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica.
Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la
cardiomiopatia dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco.
Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in cui l’attivazione di
uno specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi con esito in degradazione del DNA
cellulare. Questo processo, normalmente presente solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è
attivato in corso di scompenso cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità.
Alterato rapporto fra le isoforme della miosina
Esistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin heavy chain). Una rapida,
ad elevata attività ATPasica, codificata dal gene alfa-MHC, prevalente nella vita adulta, ed una lenta, a
bassa attività ATPasica, codificata dal gene beta-MHC, prevalente nella vita fetale. Nel cuore insufficiente si
verifica la riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale, con maggiore sintesi di beta-
MHC.
Queste alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono antagonizzate, nella
maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante.
Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico
Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e substrati alla cellula miocardica ed a
compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad alto contenuto energetico. Questi
comprendono alterazioni nell’utilizzazione dei substrati (glucosio ed acidi grassi), nella fosforilazione
ossidativa e nel trasferimento ed utilizzazione dell’ATP. Vi è anche un’importante compromissione
dell’immagazzinamento di energia sotto forma di creatin-fosfato (CP). Il rapporto CP/ATP è un indice della
disponbilità di energia a livello miocardico e la sua riduzione in corso di scompenso, valutabile mediante
risonanza magnetica nucleare e spettroscopia, predice un’elevata mortalità nei pazienti.
Alterato metabolismo del calcio
Indipendentemente dalle alterazioni presenti a livello dei meccanismi di produzione di energia e
dell’apparato contrattile miocardico, la cellula miocardica mantiene una normale risposta contrattile alla
somministrazione di calcio. E’quindi logico ritenere che le alterazioni del metabolismo del calcio siano tra i
principali fattori responsabili dell’alterata funzione sistolica e/o diastolica del cuore insufficiente.
Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente del reticolo
sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio durante la diastole. A questo consegue
una compromissione del rilasciamento miocardico ed un ridotto accumulo di calcio all’interno del reticolo
sarcoplasmatico. Ciò determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole successiva, con
conseguente riduzione della contrattilità.
Un’altra alterazione riguarda l’iperfosforilazione del fosfolambano con conseguente maggiore perdita di
calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citoplasma durante la diastole.
Fibrosi interstiziale
A carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a livello sia della
componente cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti vanno incontro ad iperplasia, con un
aumento di sintesi di collagene sproporzionato rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si
verificano anche modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene tipo I,
più rigido, con maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento delle fibre miocardiche le
une sulle altre, disorganizzazione della normale architettura del ventricolo sinistro, che assume una
conformazione sferica. Questa comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile.
La fibrosi interstiziale rappresenta, insieme alla compromissione dei processi di ricaptazione del calcio da
parte della SERCA, il maggiore meccanismo responsabile delle alterazioni della funzione diastolica del cuore
insufficiente.
ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE
Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti alcuni meccanismi (sistemi simpato-adrenergico
e renina-angiotensina-aldosterone, in particolare) la cui azione consiste essenzialmente nel determinare
vasocostrizione periferica, ritenzione idro-salina ed ipertrofia e/o iperplasia cellulare. Questi meccanismi
favoriscono la progressione dello scompenso cardiaco e, anche alla luce dei risultati degli studi clinici con
specifici antagonisti, sono da ritenerne i principali responsabili.
Attivazione simpato-adrenergica
I pazienti con scompenso cardiaco presentano, rispetto ai soggetti normali, un'aumentata eliminazione
urinaria di catecolamine ed elevate concentrazioni plasmatiche di norepinefrina. L'incremento dell'attività
simpatica non interessa in modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica soprattutto a livello renale e
cardiaco; qui le concentrazioni di norepinefrina sono aumentate di 5-20 volte rispetto al normale.
L'attivazione simpatoadrenergica è un fenomeno precoce nell'evoluzione dello scompenso, ed è già
presente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino
interessa globalmente tutto il sistema neurovegetativo, poiché all'aumento dell'attività simpatica è
associata la riduzione di quella parasimpatica.
L’importanza della stimolazione simpatoadrenergica nella progressione dello scompenso cardiaco è
dimostrata dal valore prognostico indipendente dei livelli di norepinefrina plasmatica e dall’effetto
estremamente favorevole sulla prognosi della terapia beta-bloccante.
Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere effetti dannosi sulla
cellula miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del numero dei beta1 recettori miocardici, per
cui il rapporto tra beta1 e beta2 recettori miocardici si sposta dai valori normali di 80:20 a valori di 60:40.
Ciò causa una ridotta risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al
ridotto incremento della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti..
La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando apoptosi ed alterazioni
dell’espressione genica nei cardiomiociti (aumento della beta-MHC, riduzione dell’alfa-MHC e della SERCA).
Essa può favorire l’ischemia e la necrosi miocardica attraverso l’aumento della frequenza e della
contrattilità, condizioni entrambe in grado di incrementare il consumo di ossigeno.
Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione periferica, sia diretta che
indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina, con conseguente aumento del postcarico e
riduzione della gittata sistolica; 2) l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3) l’attivazione
del sistema renina-angiotensina.
Vasopressina
Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate concentrazioni
plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere stimolata meno frequentemente che
quella di renina, aldosterone o norepinefrina.
La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1 determina
vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2
provoca ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale.
Differentemente che nel caso dei precedenti sistemi, in questo caso la somministrazione di antagonisti
della vasopressina non ha determinato variazioni nella sopravvivenza.
Fattori natriuretici
La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale (ANP), il peptide natriuretico
B o cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la prima volta nelle cellule del sistema nervoso
centrale di maiale, il peptide natriuretico C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso
centrale e dai vasi periferici.
La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale. In corso di
scompenso cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni
attivi nella vita fetale con conseguente produzione di ANP e BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di
pro-ormone (proBNP), che viene quindi clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un
frammento N-terminale (NT-proBNP). Entrambi vengono rapidamente immessi nel torrente circolatorio.
L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare: la concentrazione di ANP è
maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a livello ventricolare. Per questo motivo, oltre
che per la più rapida risposta della secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico, si impiega attualmente
nella pratica clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e prognostica dei
pazienti con socmpenso cardiaco.
I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione simpatica e la secrezione di
renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro secrezione si verifica precocemente nello
scompenso cardiaco. È quindi probabile che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel
mantenere un normale equilibrio idro-salino. Nelle fasi inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero
a controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi simpatoadrenergico e renina-angiotensina-
aldosterone.
Prostaglandine
Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello dell’arteriola afferente
renale, un ruolo importante, dimostrato indirettamente dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi
con antiinfiammatori non steroidei determina un netto peggioramento della funzione renale, per
vasocostrizione dell’arteriola afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei
pazienti con scompenso cardiaco.
Ossido nitrico
L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della
vasodilatazione NO-dipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo scompenso
cardiaco.
Endotelina
Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente più
importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività
vasocostrittrice, le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia
miocardica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce.
Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle concentrazioni di
ET-1, rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la somministrazione di antagonisti dei recettori dell’endotelina
non ha avuto effetti favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e la
prognosi dei pazienti con scompenso acuto.
Stress ossidativo
Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a livello
vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità
di dilatazione vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e
l’apoptosi.
Citochine
I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con
scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con
la prognosi. Gli effetti negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e
comprendono un’attività inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei
cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica. Tuttavia, nonostante questi
presupposti fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle citochine non ha modificato l’evoluzione
dei pazienti con scompenso, e nessuna terapia antiinfiammatoria ha permesso di migliorare la prognosi dei
pazienti.
La ritenzione idro-salina viene tradizionalmente vista come una meccanismo finalistico, attraverso il quale
l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in condizioni in cui la portata cardiaca e la
pressione di perfusione tessutale tendono a calare per effetto della ridotta contrattilità miocardica. Queste
modificazioni sono, tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso cardiaco e rappresentano la
principale causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre che delle ospedalizzazioni
per peggioramento dello scompenso.
Diffusione alveolo-capillare
Anche la diffusione alveolo-capillare dell'ossido di carbonio, valutata a riposo, è correlata con la massima
capacità lavorativa. Nello scompenso cardiaco, una riduzione della capacità di diffusione alveolo-capillare
può determinare incremento dello spazio morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e
capacità vitale (Vd/Vt).
Capitolo 20
QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO ACUTO
Francesco Fedele
DEFINIZIONE
L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è incapace di pompare sangue in quantità adeguata
alle esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle
pressioni di riempimento (vedi Capitolo 19).
L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a
disfunzione cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad
anomalie del ritmo o ad un “mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una
minaccia per la vita e necessita di un trattamento di emergenza.
L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza
disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca
cronica. Perciò, l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con
un’insufficienza cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso
infarto del miocardio o un improvviso aumento della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo
sinistro deficitario; 2) pazienti con peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica;
3) pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e vanno rapidamente
incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla
terapia medica e necessità di trattamenti non farmacologici.
EPIDEMIOLOGIA
L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più
comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%).
I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è particolarmente
elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad insufficienza cardiaca grave. Dati simili
sono stati riportati per l’edema polmonare acuto. Circa la metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza
cardiaca acuta vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due volte) entro un
anno. In questa popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva della capacità
funzionale (Figura 1), per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di
cardioprotezione.
QUADRI CLINICI
I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1) alla diminuzione della
portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale;
2) all’aumento delle pressioni di riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione
sistemica e polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri clinici,
correlati anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla rapidità di insorgenza e alla gravità
(Figura 2).
LA DISPNEA
Sintomo base dello scompenso acuto del ventricolo sinistro è la dispnea, che consiste in una sensazione di
sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria. È la conseguenza della congestione
polmonare, dovuta alle aumentate pressioni intracavitarie nelle sezioni sinistre del cuore, che provoca
aumento del contenuto idrico extravascolare polmonare, riducendo la distensibilità polmonare e
aumentando il lavoro dei muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta la dispnea assume spesso le
caratteristiche di ortopnea e dispnea parossistica notturna.
L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea o
ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la
congestione polmonare. Ladispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali,
durante le quali il paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto a sedersi sul letto con
i piedi penzoloni o a portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In alcuni casi compare tosse stizzosa e respiro
sibilante dovuto a broncostenosi (asma cardiaco).
L’EDEMA POLMONARE
L’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene provocato dall’accumulo
di liquido nello spazio extravascolare polmonare. Il passaggio di liquido dal capillare all’interstizio e
viceversa è, in condizioni normali, governato da due fattori: la pressione idrostatica del sangue capillare,
che tende a far fuoriuscire la parte liquida del sangue, e la pressione osmotica delle proteine plasmatiche,
(pressione oncotica) che tende, invece, a trattenere il liquido dentro il vaso. Quest’ultima corrisponde a una
pressione di circa 25 mm Hg. Quando la pressione all’interno dei capillari polmonari aumenta al di sopra dei
25 mmHg, si realizza dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido nell’interstizio (edema interstiziale); il
sistema linfatico si adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma quando la sua capacità di drenaggio viene
superata il liquido invade gli alveoli (edema alveolare), compromettendo la funzione polmonare, sia da un
punto di vista meccanico che degli scambi gassosi.
La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore peggioramento
della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare polmonare. La riduzione
della portata cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea,
muscolare e splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto
induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari
periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un cuore già insufficiente, e peggiora la
performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si innesca quindi un circolo vizioso,
sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale
perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).
Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto, fortemente agitato,
madido di sudore, dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e
sudata, e può essere presente cianosi alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari
rantoli crepitanti, che con l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto
l’ambito polmonare, come una “marea montante”, accompagnati da escreato schiumoso ed
eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare tende a
peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e
l’arresto di circolo, con esito fatale.
L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato
cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni.
La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione
arteriolare. Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori tensivi sistemici si riducono, sino a
raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si
può valutare osservando il grado di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a
45°).
La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo
compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi.
I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore)
unitamente all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente
ridotta, si può arrivare finoall’anuria (< 100 ml nelle 24 ore).
L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica;
esso è dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina.
L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La
frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso
presente un ritmo di galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi
Capitolo 2). Altro segno ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico puntale da
insufficienza mitralica acuta.All’esame del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei
capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare
rumori umidi (rantoli crepitanti) . Il reperto obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali,
Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la
fase terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata
cardiaca scende al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi
Capitolo 22)
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta, bisognerà sempre
eseguire, oltre agli esami di routine, la ricerca degli indici di necrosi miocardica. Può essere, inoltre, dosato
il peptide natriuretico di tipo B (Brain Natriuretic Peptide-BNP, vedi Capitolo 14), che viene rilasciato dai
ventricoli in risposta allo stiramento delle pareti e al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per
escludere o identificare la presenza di scompenso cardiaco congestizio.
Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo stato metabolico del
paziente.
La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia cardiaca, ma soprattutto
sulla distribuzione del flusso polmonare.
L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni dipendenti dalla
cardiopatia di base.
L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta è l’ecocardiogramma,
che valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli spessori parietali, la cinesi globale e
segmentale, la frazione di eiezione e la contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli
apparati valvolari e di altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava
inferiore. Inoltre si può esaminare la funzione diastolica, impiegando la registrazione con il Doppler pulsato
del flusso transmitralico (Figura 4).
PRINCIPI DI TERAPIA
Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca acuta sono migliorare i
sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e proteggendo il tessuto miocardico. La terapia
dell’ insufficienza cardiaca acuta si prefigge, quindi, diverse finalità: ridurre la congestione, ridurre il
postcarico, migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5).
I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò riducono la massa liquida
circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida,
(furosemide e torasemide), spesso in associazione con i risparmiatori di potassio.
Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che ridistribuendo il volume ematico
aumentano la capacità del distretto venoso, e sequestrano in questa sede parte della massa circolante,
riducendo il riempimento cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il
nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso.
Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una minor ritenzione di
acqua e sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati nello scompenso acuto. Al contrario, i
farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono
essere di grande aiuto nella fase acuta.
Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui recettori beta-
adrenergici, migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina, precursore naturale della noradrenalina,
è utile nel trattamento degli stati ipotensivi; a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e
mesenterici, per stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di
sodio. A dosaggi più elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando una modesta
tachicardia riflessa, mentre a dosaggi elevati stimola anche i recettori a-adrenergici, innalzando i valori
tensivi sistemici. La dobutamina agendo sui recettori ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo,
abbassa le resistenze periferiche e determina un aumento di gittata cardiaca.
I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle fibre miocardiche,
con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò,
riducono la frequenza cardiaca e rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del
tono vagale), per cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di
fibrillazione atriale.
Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come il levosimendan, che agisce
tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame
con la troponina C, determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo
miocardio di ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti, provocando una
vasodilatazione periferica.
Capitolo 21
QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO
Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari
QUADRI CLINICI
Sono state proposte numerose classificazioni dello scompenso cardiaco. Pur peccando di un’eccessiva
semplificazione e, spesso, di scarsa aderenza alla realtà, queste mantengono un loro valore soprattutto
didattico.
La distinzione più importante è quella tra scompenso cardiaco acuto e cronico. (vedi capitolo 20).
Nell’ambito dello scompenso cardiaco cronico, mantengono un loro valore le distinzioni tra scompenso
anterogrado e retrogrado, sinistro e destro, sistolico e diastolico.
Secondo la teoria anterograda dello scompenso, l’origine dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’inadeguata
portata cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda,
la causa dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli. Questo causa un
aumento della pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi venosi
tributari ed, infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa trasudazione di liquido ed
edema interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema alveolare.
La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della precedente teoria retrograda.
Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da accumulo di fluidi a monte del ventricolo sinistro con
congestione ed edema polmonare. Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa sistemica ed
epatica.
La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata sul riscontro o meno
di bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche
nei pazienti con frazione d’eiezione normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica
ventricolare sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti anche
nei pazienti con bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce usare il termine
di scompenso cardiaco con normale frazioned’eiezione piuttosto che quello di scompenso diastolico. I
pazienti con normale frazione d’eiezione possono corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per
scompenso cardiaco e la loro prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei
pazienti con bassa frazione d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più spesso anziani, di
sesso femminile ed affetti da ipertensione arteriosa.
SINTOMI
Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco.
Nelle fase iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta
anche a riposo con le caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema
polmonare acuto (vedi Capitolo 1).
La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente
avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso
cardiaco vi è una riduzione del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità
dello scompenso cardiaco, tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la
classificazione della New York Heart Associaton (Tabella I).
La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita all’aumento delle
pressioni capillari polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In realtà la correlazione con la
compromissione della funzione ventricolare sinistra, soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che
contribuiscono a causare dispnea nei pazienti con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della
portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione dei muscoli scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed
ipoperfusione dei muscoli respiratori, decondizionamento della muscolatura scheletrica, ridotta compliance
polmonare, aumento della resistenza delle vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo.
Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione
sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della
posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del
precarico e congestione polmonare.
Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il
risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono
con la posizione seduta, spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori
da broncospasmo per edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema
interstiziale.
Edema polmonare acuto (vedi Capitolo 20)
Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente incremento della
portata cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice periferica, le alterazioni biochimiche ed
istologiche e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza
relativa dei meccanismi muscolari scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione
della portata cardiaca, varia da paziente a paziente.
Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che possono essere causati
da numerose malattie non cardiovascolari.
Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta
all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi
avanzate dello scompenso cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale.
Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è
disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula epatica
e dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i
pasti. Questi pazienti possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea.
Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare
vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti
anziani con coesistente aterosclerosi cerebrale.
SEGNI CLINICI
La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi
giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico.
Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico;. nelle fasi
più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e
segni di attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica.
Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di
un aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo
sinistro immediatamente dopo la fase di riempimento rapido (vedi Capitolo 2). E’ molto raramente udibile
in soggetti normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è
spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione della
componente polmonare del 2° tono.
Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione
differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata
cardiaca.
Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si
evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra.
Nei casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare.
Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base
destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua
comparsa è frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi.
Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non strumentale per valutare la
presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui
vena giugulare interna ed anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore,
favorendo la trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare,
la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45° (vedi Capitolo 2).
Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in
ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro
a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso.
Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione
dell’ipocondrio destro.
Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione
nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità
dei capillari peritoneali.
Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare
l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono
simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi
venosi (piedi, caviglie, zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente
è rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto
compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca).
Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La
genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento
intestinale per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio,
aumento del consumo miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine.
ESAMI STRUMENTALI
Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso cardiaco cronico,
ma non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per sé, la presenza di scompenso; tuttavia
un QRS con durata >120 ms, specialmente associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la probabilità
di una disfunzione ventricolare .
Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare cardiomegalia, congestione
polmonare ed eventuali patologie polmonari associate.
Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici, creatininemia,
glicemia, enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può essere valutata se indicata in base ai
reperti clinici.
Gli esami ematochimici hanno un importante significato prognostico. L’anemia è presente in un 20-30% dei
pazienti,. ed è più frequente nei pazienti con scompenso cardiaco più grave . La sua patogenesi è
multifattoriale: insufficienza renale, terapia con ACE inibitori, attivazione infiammatoria cronica, etc.
L’iposodiemia è dovuta a dliluizione con ritenzione idrica maggiore di quella salina. E’ almeno parzialmente
dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia può verificarsi come conseguenza della
terapia con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre che per aumentata secrezione di aldosterone. Va corretta in
quanto possibile causa di aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può svilupparsi per insufficienza renale e/o
terapia con antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad ipoperfusione renale.
Può essere favorita dalla terapia medica (diuretici, antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del
sistema renina-angiotensina-aldosterone).
Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di scompenso cardiaco.
Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non trattato rendono la diagnosi di scompenso
poco probabile. Oltre allo scompenso cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare
sinistra, l’ischemia miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli
plasmatici di peptici natriuretici.
Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare una disfunzione
cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la frazione d’eiezione ventricolare sinistra,
misurata dal rapporto fra la gittata sistolica e il volume telediastolico. In pratica, si sottrae dal volume
telediastolico il volume telesistolico, ottenendo la gittata sistolica, e si divide questa per il volume
telediastolico. La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti con disfunzione ventricolare
sinistra sistolica da quelli con conservata funzione sistolica. L’aumento dei volumi telesistolico e
telediastolico ventricolare sinistro è un’altra caratteristica dei pazienti con scompenso cardiaco dovuto a
disfunzione ventricolare sistolica.
La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento dell’anulus mitralico
mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una valutazione della severità della disfunzione
diastolica ventricolare sinistra. Più spesso, la funzione diastolica è valutata mediante lo studio del solo
flusso trans mitralico. I tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-normale e
restrittivo, corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado lieve, moderato e grave
(vedi capitolo 4).
Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di evidenziare un’eventuale
insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente presenti in questi pazienti, o anche altre alterazioni
(es. una stenosi aortica) che possono avere causato lo scompenso cardiaco.
Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e riproducibile per la
valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione ventricolare sinistra globale e regionale,
dello spessore miocardico, della rigidità di parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi
Capitolo 7).. E’ limitata dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore
automatico.
Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari della dispnea e nel
valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante.
Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni d’ischemia
miocardica.
Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e nella valutazione
prognostica. (vedi Capitolo 9)
PRINCIPI DI TERAPIA
Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di migliorare la prognosi
(riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro fondamentale obiettivo è la prevenzione della
disfunzione cardiaca nei pazienti a rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc)
e la prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti con disfunzione
cardiaca.
Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi per migliorare la
prognosi e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima categoria appartengono gli inibitori del
sistema renina-angiotensina-aldosterone ed i beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale.
ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei pazienti con disfunzione
ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi. L’indicazione a questi farmaci è basata su ampi studi
controllati con placebo che hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza, sintomi, capacità
funzionale ed una riduzione delle ospedalizzazioni nei pazienti trattati con questi farmaci. I loro effetti
favorevoli sembrano essere principalmente ascrivibili al rallentamento, se non inibizione, dei fenomeni di
rimodellamento ventricolare sinistro ed, in minore misura, alla prevenzione di nuovi eventi ischemici e delle
aritmie.
Beta-bloccanti. In assenza di controindicazioni, i beta-bloccanti devono essere somministrati a tutti i
pazienti con scompenso cardiaco cronico, in condizioni di stabilità clinica. La loro efficacia è stata
dimostrata in pazienti con scompenso cardiaco di grado lieve, moderato e severo (classe NYHA dalla II alla
IV), dovuta a cardiopatia ischemica o non-ischemica e con ridotta frazione d’eiezione ventricolare sinistra,
già in trattamento con diuretici e ACE inibitori, nonché in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra
postinfartuale, con o senza sintomi di scompenso. In questi pazienti, gli studi clinici controllati hanno
dimostrato una riduzione della mortalità, ospedalizzazioni ed episodi di peggioramento dello scompenso
cardiaco ed un miglioramento della classe funzionale con la terapia beta-bloccante, rispetto al placebo.
Antialdosteronici. Gli antagonisti dell’aldosterone sono raccomandati, in aggiunta all’ACE-inibitore, al beta-
bloccante e al diuretico, nello scompenso cardiaco avanzato (NYHA III-IV) per migliorare la sopravvivenza,
morbilità e classe funzionale.
Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. I bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II hanno effetti simili
o equivalenti agli ACE inibitori sulla mortalità e sulla morbilità dei pazienti con scompenso cardiaco cronico
e dei pazienti con recente infarto. Possono essere quindi usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di
intolleranza a questi (tosse, edema angioneurotico). Hanno avuto anche effetti favorevoli sulle
ospedalizzazioni e sulla mortalità in associazione agli ACE inibitori in pazienti ancora sintomatici per
scompenso.
Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso cardiaco in presenza di
ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto
che nelle forme di scompenso cardiaco lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i
diuretici dell’ansa (furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime necessarie
per mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro somministrazione favorisce
l'attivazione dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e simpatoadrenergico, il peggioramento della
funzione renale ed alterazioni elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il
paziente con scompenso cardiaco.
I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono essere associati agli
altri diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia. Lo spironolattone ha altri effetti favorevoli indipendenti da
quello diuretico (vedi sopra).
Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso cardiaco sintomatico. Nei
pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in
particolare quelle per scompenso cardiaco.
Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso cardiaco sono i nitrati,
per il trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei
pazienti con concomitante fibrillazione atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici,
nei casi con cardiopatia ischemica, l’amiodarone, per il trattamento o profilassi delle tachiaritmie.
L’impianto del defibrillatore automatico e la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker
biventricolare sono indicati in pazienti selezionati.
Capitolo 22
LO SHOCK CARDIOGENO
Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno
DEFINIZIONE
Lo shock cardiogeno è una condizione di ipotensione arteriosa e inadeguata perfusione tissutale con ipos
siacausata da disfunzione cardiaca, più frequentemente di natura ischemica, in presenza di un adeguatov
olume intravascolare. Questa situazione di ipossia tissutale va distinta in una forma transitoria, cui
consegue il rapido ripristino di normali valori di pressione sistemica, chiamata collasso cardiocircolatorio, e
una forma che si protrae a lungo, con danni ipossici più marcati, che rappresenta lo shock cardiogeno vero
e proprio.
I criteri diagnostici per lo shock cardiogeno comprendono:
pressione sistolica inferiore a 80 mm Hg per almeno 30 minuti, non incrementata dalla somministrazione
di liquidi endovena;
segni di ipoperfusione (estremità fredde), alterato stato di coscienza, agitazione psico-motoria;
diuresi oraria inferiore a 20 ml;
indice cardiaco inferiore a 1,8 l/min/m2;
pressioni di riempimento ventricolare sinistro elevate (pressione capillare polmonare > 18 mm Hg).
EPIDEMIOLOGIA
Lo shock cardiogeno rappresenta la causa più comune di morte per causa cardiovascolare dopo
l’infarto miocardico.
L’incidenza di shock cardiogeno negli anni precedenti la diffusione delle metodiche di
rivascolarizzazione (farmacologica e meccanica) era pari al 20% di tutti gli infarti miocardici acuti
con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Dalle più recenti casistiche si stima che lo shock si
verifichi oggi nel 7% dei pazienti con STEMI e nel 3% dei pazienti con infarto miocardico acuto senza
sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI).
Quando lo shock cardiogeno non è secondario ad un fattore modificabile (per esempio aritmie,
bradicardia, alterazioni meccaniche) la mortalità a breve termine è dell’80%.
EZIOLOGIA
Lo shock cardiogeno può essere dovuto alle seguenti condizioni (Tabella I):
deficit di eiezione ventricolare: un deficit acuto della funzione ventricolare sistolica può derivare dalla
compromissione grave di una grande parte della massa miocardica. Tra le cause principali di questa
situazione va menzionato innanzitutto l’infarto esteso del miocardio; tuttavia, anche infarti miocardici di
piccole dimensioni, soprattutto quando si verificano in pazienti con preesistente compromissione del
ventricolo sinistro, possono evolvere in shock cardiogeno. Un deficit di eiezione può essere, peraltro,
sostenuto anche da aritmie ventricolari o da insufficienze valvolari ad insorgenza acuta;
difetti di riempimento ventricolare: possono essere dovuti a:
cause estrinseche, quali tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva;
cause intrinseche, quali trombi o mixomi atriali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata.
FISIOPATOLOGIA
La brusca riduzione della pressione sistolica al di sotto di 80 mm Hg induce la stimolazione dei barocettori (i
principali sono quelli del seno carotideo e del seno aortico), determinando:
vasocostrizione delle arteriole e delle meta-arteriole attraverso una stimolazione del sistema nervoso
simpatico;
aumento della frequenza cardiaca attraverso l’inibizione del sistema nervoso parasimpatico.
aumento della stimolazione dei chemocettori (i principali sono situati nell’arco aortico e alla biforcazione
delle carotidi), determinando:
iperventilazione, per migliorare l’ossigenazione del sangue;
tachicardia riflessa (il riflesso tachicardizzante è di origine polmonare, prodotto dall’iperventilazione);
aumento dei livelli di catecolamine circolanti, responsabili della vasocostrizione arteriosa e venosa;
attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, quale risposta renale all’ipoperfusione sistemica,
con conseguente ritenzione di sodio e di liquidi.
Tali risposte hanno come effetto l’aumento della pressione telediastolica e dei volumi del ventricolo
sinistro. Sebbene ciò compensi parzialmente la riduzione della funzione ventricolare sinistra, un’elevata
pressione telediastolica del ventricolo sinistro determina edema polmonare, con alterazione degli scambi
gassosi polmonari. La conseguente acidosi respiratoria aumenta ulteriormente l’ischemia miocardica, la
disfunzione ventricolare sinistra e la trombosi intravascolare (Figura 1).
Se la causa che ha provocato il collasso cardiocircolatorio è reversibile e agisce per breve tempo, la crisi può
risolversi con il ripristino di normali valori di pressione sistemica. Quando, invece, questa reazione
compensatoria è insufficiente a far fronte all’ipotensione, si innesca una spirale discendente che conduce,
attraverso il perpetuarsi di una condizione di ischemia miocardica, ad un progressivo peggioramento della
funzione cardiaca, fino alla morte (Figura 2).
In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, le porzioni di miocardio non ischemiche
diventano ipercontrattili ed aumentano il loro consumo di ossigeno. Le conseguenze di questa risposta
dipendono dall’estensione del danno e dal precedente stato del miocardio, dalla gravità della patologia
coronarica sottostante, dalla presenza di altre patologie valvolari.
Si possono verificare tre condizioni:
compenso: ripristino della normale pressione arteriosa e normale pressione di perfusione miocardica
compenso parziale: stato di pre-shock con portata cardiaca e pressione arteriosa moderatamente ridotte
e conseguente aumento della frequenza cardiaca ed elevata pressione telediastolica ventricolare sinistra
shock: si sviluppa rapidamente e determina una marcata ipotensione e peggioramento dell’ischemia
miocardica globale. Senza un’immediata riperfusione, i pazienti in questa condizione presentano una
limitata possibilità di sopravvivenza.
A fronte di un elevato numero di segni clinici, lo shock cardiogeno può teoricamente manifestarsi in
assenza di sintomi avvertiti dal paziente; quando questi sono presenti, si tratta per lo più dei
sintomi di un infarto miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, cardiopalmo, nausea, vomito,
astenia).
Il paziente in shock cardiogeno presenta solitamente alterazioni dello stato di coscienza, come
risultato della ridotta perfusione cerebrale; altri segni di ipoperfusione d’organo conseguenti alla
ridotta gittata cardiaca sono la contrazione della diuresi, l’insufficienza epatica, la cianosi, la
marezzatura delle estremità. Queste alterazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano
abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la gittata cardiaca rapportata alla superficie
corporea) non scende sotto il valore di 2,2 l/min/m2.
L’esame obiettivo mostra cute pallida ipotermica e sudata, distensione giugulare, aumentata
frequenza cardiaca. Il polso arterioso è iposfigmico, irregolare in presenza di aritmie; un polso
paradosso compare se la causa dello shock è il tamponamento cardiaco (vedi Capitoli 2 e 32).
L’ascoltazione del torace rivela rantoli se è presente edema polmonare alveolare.
L’obiettività cardiaca presenta spesso un ritmo di galoppo (terzo e/o quarto tono); se lo shock
cardiogeno deriva dalle complicanze meccaniche di un infarto miocardico, possono essere udibili
anche i soffi da insufficienza mitralica (vedi Capitolo 15) o da difetto del setto interventricolare.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
Elettrocardiogramma:
Può mostrare segni di infarto miocardico acuto o di precedenti cardiopatie, o mettere in luce aritmie. Un
ECG normale, tuttavia, non esclude la diagnosi di shock cardiogeno.
E’ utile nel valutare le dimensioni cardiache, la presenza di congestione polmonare o di altre eventuali
patologie polmonari. Fornisce inoltre una stima approssimativa delle dimensioni del mediastino e della
radice aortica, utili per escludere una dissezione dell’aorta.
Esami ematochimici
La determinazione dei marker di necrosi miocardica può essere fondamentale per diagnosticare un infarto
miocardico acuto quale causa di shock cardiogeno nei casi in cui il tracciato elettrocardiografico non sia
interpretabile. E’ anche utile misurare la concentrazione dei gas ematici nel sangue arterioso
(emogasanalisi arteriosa), dal momento che la presenza di acidosi può avere effetti particolarmente
dannosi sul miocardio.
4. Ecocardiogramma
Permette di ottenere informazioni circa la funzione sistolica globale e segmentaria dei ventricoli e consente
di giungere rapidamente al riconoscimento delle cause meccaniche di shock, quali rottura di un muscolo
papillare con insufficienza mitralica acuta, rottura acuta del setto interventricolare o della parete libera
ventricolare con tamponamento cardiaco, malfunzionamento di apparati valvolari protesici.
5. Monitoraggio invasivo e cateterismo cardiaco destro.
L’incannulamento di un’arteria permette il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa, mentre quello
di una vena, incuneando un catetere (catetere di Swan-Ganz, vedi Capitolo 11) a livello dei capillari
polmonari, permette di ottenere parametri emodinamici fondamentali per la diagnosi, quali la portata
cardiaca e le pressioni di riempimento ventricolare.
ancora in grado di ventilare in maniera adeguata è comunque indispensabile fornirgli ossigeno ad alti flussi,
utilizzando maschere, per avvicinarsi quanto più possibile al 100% di ossigeno inspirato.
2) Reperimento di un accesso venoso
Può essere un accesso venoso periferico o, meglio, un accesso venoso centrale (vena femorale, giugulare o
succlavia). Attraverso questa via possono essere somministrati liquidi e farmaci. L’introduzione dei fluidi
deve essere effettuata con attenzione, in modo da assicurare un adeguato precarico e ottimizzare la
funzione ventricolare (specialmente in presenza di infarto ventricolare destro), evitando l’eccessiva
somministrazione di liquidi, che potrebbe condurre all’edema polmonare.
3) Monitoraggio elettrocardiografico
Tachicardie e blocchi atrioventricolari possono ridurre in maniera significativa la gittata cardiaca. Il loro
tempestivo riconoscimento e trattamento è un elemento di estrema importanza.
4) Monitoraggio emodinamico
Consente il controllo continuo della pressione di riempimento (pressione diastolica ventricolare sinistra)
attraverso la misurazione della pressione atriale sinistra “indiretta”, ottenibile mediante misurazione della
pressione polmonare con catetere di Swan Ganz (vedi Capitolo 11).
5)Posizionamento di un catetere vescicale
E’ di estrema importanza il monitoraggio della diuresi oraria, essendo la contrazione della diuresi uno dei
primi segni di bassa portata cardiaca.
CENNI DI TERAPIA
Terapia farmacologica
Morfina: nell’infarto miocardico può alleviare l'intenso dolore toracico, contribuire a ridurre gli elevati
livelli di catecolamine circolanti e diminuire il precarico e il postcarico. La risposta deve essere
attentamente monitorata perché la morfina causa depressione respiratoria, provoca dilatazione venosa e
può ridurre la pressione arteriosa.
Agenti inotropi: se la pressione arteriosa sistemica è inferiore a 80-90 mm Hg, è necessario infondere un
agente pressorio come la dopamina. A dosi relativamente basse, 2-5 µg/kg per minuto, il farmaco induce
aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, mediato dalla stimolazione ß-adrenergica, e
incremento del flusso renale mediato da recettori specifici dopaminergici. Gli effetti vasocostrittori a-
adrenergici si manifestano a dosi superiori ai 5 µg/kg per minuto.
Se si rendono necessarie alte dosi di dopamina per mantenere una perfusione adeguata, si deve prendere
in considerazione il passaggio all’infusione di noradrenalina. Questo farmaco è un potente costrittore
arteriolare e venoso, la cui azione è mediata attraverso una stimolazione a-adrenergica, mentre la
stimolazione ß-adrenergica è relativamente modesta.
Quando la pressione arteriosa sistemica è 90 mm Hg o superiore, il farmaco di scelta è la dobutamina, che
può produrre un aumento della pressione sistemica attraverso l’incremento della gittata cardiaca.
Vasodilatatori: visto che questi farmaci riducono la pressione arteriosa, il loro impiego deve essere
associato a quello di un agente inotropo. Il farmaco principalmente utilizzato è il nitroprussiato di sodio, il
quale riduce sia il precarico che il postcarico del ventricolo sinistro.
Diuretici: il loro impiego è riservato ai casi di shock cardiogeno con edema polmonare acuto. I diuretici più
utilizzati sono quelli dell’ansa (per esempio, furosemide), associati ai risparmiatori di potassio (per
esempio, spironolattone).
Supporto meccanico
La stabilizzazione del paziente in shock cardiogeno può essere ottenuta mediante un supporto circolatorio
meccanico, cioè con l’impiego del contropulsatore aortico. Questo consiste in un palloncino montato su un
catetere vascolare e collegato tramite un tubo ad una consolle di comando che è in grado di monitorizzare
l'ECG e la curva di pressione arteriosa, sincronizzando l'insufflazione e la desufflazione del palloncino con il
ciclo cardiaco. Il catetere viene inserito per via percutanea attraverso l'arteria femorale, e la sua punta è
posizionata in aorta discendente 1-2 centimetri sotto l'emergenza della arteria succlavia di sinistra e sopra
l'origine delle arterie renali (Figura 3).
Il gonfiaggio del pallone del contropulsatore avviene precocemente in diastole, determinando un notevole
aumento della pressione aortica diastolica fin quasi ai livelli della pressione aortica sistolica, e aumentando
di conseguenza il flusso sanguigno coronarico. Inoltre, lo sgonfiaggio del pallone all’inizio della sistole
riduce la pressione aortica, con conseguente diminuzione del consumo di ossigeno da parte del miocardio e
delle resistenze periferiche (postcarico). La contropulsazione aortica è generalmente riservata ai pazienti in
shock cardiogeno dovuto a una condizione potenzialmente reversibile, o nei quali si prenda in
considerazione il trapianto cardiaco (Tabella II).
Tali condizioni comprendono l’infarto miocardico ancora in evoluzione e l’infarto associato a una grave
complicanza meccanica (insufficienza mitralica o difetto del setto interventricolare).
In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, il ripristino del flusso ematico coronarico
è la terapia più efficace per salvare i pazienti che non rispondono all’infusione di liquidi o al trattamento
farmacologico. Le possibilità comprendono l’angioplastica e il by-pass aorto-coronarico. Nei casi in cui,
invece, lo shock cardiogeno è causato da una complicanza meccanica dell’infarto miocardico, la terapia
chirurgica di riparazione della lesione e/o sostituzione valvolare è la sola strada percorribile.
Capitolo 23
FISIOPATOLOGIA DELL’ISCHEMIA MIOCARDICA
Filippo Crea, Gaetano A. Lanza
Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un apporto continuo di
ossigeno. Il loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e già di base comporta l’estrazione di circa il
70% dell'ossigeno dal sangue durante il suo passaggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento
significativo della richiesta di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso
coronarico (Figura 1).
Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel processo di
contrazione, la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale del consumo miocardico di ossigeno.
Di fatto, un raddoppio della sola FC (ad esempio, durante pacing atriale) comporta un raddoppio del
consumo miocardico di ossigeno.
Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno sono la pressione
arteriosa (PA,postcarico), la pressione e il volume ventricolare in diastole (precarico) e l’inotropismo
cardiaco.
Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del ritorno venoso (precarico)
contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di ossigeno, e quindi la richiesta di un aumento
del flusso coronarico (Figura 2).
Mentre la misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi invasivi, una
valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA
sistolica (doppioprodotto), largamente utilizzato nella pratica clinica per stimare il consumo miocardico di
ossigeno, in particolare il suo incremento durante sforzo.
Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta in tre principali
compartimenti, collegati in serie (Figura 3).
Il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza epicardiche, che hanno funzione
conduttiva e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la pressione rimane sostanzialmente
costante lungo il loro decorso. Durante la contrazione miocardica il sangue viene spinto in senso retrogrado
dai vasi intramiocardici verso i vasi epicardici, il cui contenuto aumenta quindi di circa il 25%. L'energia
elastica accumulata durante la sistole si trasforma in energia cinetica durante la diastole, contribuendo a
garantire un adeguato flusso coronarico in questa fase. Le arterie coronarie di conduttanza modificano il
loro tono in risposta a variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-dipendente dei
chiaro: invivo la stimolazione vagale tende a determinare un aumento del tono vasomotore, soprattutto
come effetto secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del consumo miocardico di
ossigeno.
d) Un ruolo molto importante è svolto dalla regolazione endotelio-mediata del circolo coronarico, diventata
evidente in anni recenti. Molti studi hanno infatti dimostrato che l'endotelio può essere considerato come
un vero e proprio organo endocrino, in grado di produrre numerose sostanze, alcune delle quali svolgono
un ruolo cruciale nella regolazione del flusso sanguigno (vedi Capitolo 47).
Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto attività vasodilatatrice, e
comprendono l'endothelium-derived relaxing factor (EDRF), la prostaciclina (PGI2) e l'endothelium-
derived hyperpolarizing factor (EDHF) (Figura 5,Figura 6).
L'EDRF ha emivita breve (5 secondi) ed è stato identificato con l'ossido nitrico (NO). Esso agisce attivando la
guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, che risulta nella fomazione di guanosin-monofosfato ciclico
(cGMP). L’EDRF sembra avere un ruolo nel determinare il tono vascolare basale; la somministrazione
dell’inibitore NG-monometil-L-arginina, infatti, riduce il flusso ematico a vari livelli. Molte sostanze
vasoattive (ad esempio, acetilcolina, serotonina, bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore
determinando il rilascio di EDRF da parte delle cellule endoteliali(vasodilatazione endotelio-
mediata). L'EDRF, inoltre, sembra essere la sostanza principalmente responsabile della vasodilatazione che
si ottiene in risposta all'aumento del flusso coronarico (vasodilatazione flusso-mediata).
La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall'acido arachidonico. Ha anch’essa emivita breve (10 secondi) ed è
rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a diverse sostanze (ad esempio., bradichinina, trombina,
serotonina). Sembra contribuire anch'essa al tono vasale basale e alla vasodilatazione flusso mediata.
L'EDHF non è stato ancora ben identificato chimicamente; probabilmente deriva anch'esso dall'acido
arachidonico ed ha emivita breve. Dati sperimentali suggeriscono che esso causi vasodilatazione mediante
apertura dei canali del potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce. Sembra
venire anch'esso rilasciato in risposta allo shear stress ed al flusso pulsatile, oltre che a diverse sostanze (ad
es., acetilcolina, sostanza P, bradichinina, CGRP).
Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in particolare l'endotelina-1 (ET-
1), l'angiotensina II, l'endothelium-derived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai radicali
liberi dell'ossigeno (Figura 5, Figura 6). Se queste sostanze abbiano un qualche ruolo nella regolazione
fisiologica del circolo coronarico non è chiaro. Viceversa, l’attività vasocostrittrice
dell’endotelio (attivazione dell’endotelio) può aumentare in alcune condizioni patologiche (per esempio,
ipertensione arteriosa, diabete, aterosclerosi, ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai
loro effetti negativi.
L’ET-1, in particolare, è il più potente vasocostrittore conosciuto nell'uomo, agisce su due tipi di recettori
principali, ETAed ETB. L’azione vasocostrittrice è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule
muscolari lisce. La stimolazione di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce rilascio di NO
ed inibisce quello di ET-1, tendendo a contrastare così gli effetti vasocostrittori dell’ET-1.
DEFINIZIONE
L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare le richieste di
ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule miocardiche per svolgere le proprie funzioni.
Quando sufficientemente grave e prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa, in
caso di occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati subendocardici,
più sensibili al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più tardivamente quelli subepicardici.
L’ischemia miocardica può essere causata da due principali meccanismi, che possono, tuttavia, combinarsi
tra loro nel determinare gli episodi ischemici: (1) impossibilità di aumentare in modo adeguato il flusso
coronarico per soddisfare un aumento della domanda miocardica di ossigeno, in genere a causa della
presenza di una stenosi coronarica, e (2) riduzione primaria del flusso coronarico, dovuta a vasocostrizione,
spasmo o trombosi coronarica.
Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il substrato più frequente
dell’ischemia miocardica. Una stenosi coronarica è emodinamicamente significativa quando è in grado di
opporre, già a riposo, una resistenza al flusso ematico, tale da determinare una caduta della pressione a
valle. Ciò comincia a verificarsi, in genere, quando il diametro del lume viene ridotto del 50%. Oltre questa
riduzione critica, ogni ulteriore aumento della stenosi causa una sempre maggiore riduzione della pressione
a valle, con una relazione di tipo esponenziale. La relazione tra caduta pressoria e flusso a livello di una
stenosi, tuttavia, non è semplicemente lineare, essendo la riduzione del flusso superiore a quella predetta
dalla riduzione della pressione (Figura 7).
Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua riduzione a valle di una
stenosi tende a ridurre il flusso. In condizioni basali, tuttavia, in corrispondenza di una stenosi non si
osserva riduzione del flusso coronarico, in quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione
della resistenza coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche. Questa
vasodilatazione compensatoria, tuttavia, riduce lariserva coronarica, vale a dire la capacità di aumento
massimo del flusso in risposta all’aumento del fabbisogno metabolico del miocardio. Il livello di lavoro
cardiaco oltre il quale non è più possibile incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per
cui si sviluppa ischemia, è definito soglia ischemica.
L'ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente limitata agli strati
subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore riserva coronarica, e sono quindi più
suscettibili all’ischemia, rispetto agli strati subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule
subendocardiche è di base maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress
sistolico parietale cui sono soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 15-20%
superiore a quello subepicardico, nonostante sia sottoposto a maggiori forze compressive extramurali, con
conseguente minore capacità di incremento relativo durante aumento della domanda di ossigeno (Figura
8).
Oltre queste condizioni sfavorevoli, altri fattori, in presenza di una stenosi, possono contribuire a facilitare
l'ischemia subendocardica in caso di aumento del lavoro cardiaco, come l’accorciamento della diastole
(durante una tachicardia) e un aumento ulteriore delle forze extravascolari (per esempio, in caso di
aumento della pressione telediastolica ventricolare sinistra).
Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito dal furto coronarico transmurale, che si
verifica quando, in presenza di un vaso con una stenosi, in genere molto critica, il flusso ematico si
ridistribuisce dal subendocardio al subepicardio come conseguenza della vasodilatazione massimale dei vasi
di resistenza subepicardici. Infatti, poiché la riserva coronarica subendocardica e’ inferiore a quella
subepicardica, una volta che la riserva subendocardica si esaurisce (per vasodilatazione massimale dei vasi
subendocardici), un’ulteriore vasodilatazione epicardica comporterà un’ulteriore caduta della pressione
post-stenotica, con conseguente riduzione della perfusione subendocardica, che diventera’ insufficiente
per le richieste metaboliche del subendocardio (Figura 9).
Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata all’angiografia coronarica
visivamente o usando metodi di misurazione quantitativa. La semplice valutazione del grado di una stenosi
coronarica all’angiografia, tuttavia, ha diverse limitazioni. Altri fattori, infatti, possono avere importanza nel
determinare le conseguenze emodinamiche della stenosi, come il diametro del vaso originario, la lunghezza
e la concentricità o eccentricità della stenosi e la presenza di altre stenosi nel vaso. Le conseguenze
emodinamiche della stenosi possono ancora essere influenzate dalla modulazione dinamica del tono vasale
a livello della stenosi e di quello del microcircolo distale, dalla presenza ed estensione di vasi collaterali e
dalla resistenza extravascolare.
In particolare, le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè, variazioni vasomotorie del
lume in grado di modificare il grado di stenosi, e quindi la riserva coronarica, dando origine ad un pattern
anginoso caratterizzato da una significativa variabilità della la soglia ischemica, in contrasto con la stabilità e
predicibilità della soglia ischemica nei casi di stenosi coronariche fisse. La dinamicità di una stenosi può
essere valutata saggiando la risposta vasomotoria alla somministrazione intracoronarica di sostanze
vasodilatatrici e vasocostrittrici.
Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi coronarica è lo sviluppo di
unacircolazione coronarica collaterale verso il territorio ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da
vasi anastomotici preesistenti, sia, più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione. Lo sviluppo e
l'entità di una circolazione collaterale varia consistentemente da paziente a paziente, e il flusso nei vasi
collaterali è influenzato sia da fattori nervosi e umorali, sia da sostanze vasoattive autacoidi locali.
TROMBOSI CORONARICA
Quando transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea; se prolungata o persistente, tuttavia,
essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di tessuto miocardico.
I meccanismi responsabili della trombosi coronarica sono complessi e ancora non del tutto chiariti. I trombi,
tuttavia, si formano in genere a livello di placche aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura,
fissurazione o emorragia), che espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare
efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e procoagulanti, e,
quindi, trombotica (vedi Capitolo 45).
In almeno il 30% circa dei casi, tuttavia, trombi coronarici sono riscontrati a livello di placche non fissurate
ed esenti da stenosi di rilievo e da apparenti danni della parete vasale. In questi casi, la formazione di un
trombo è probabilmente facilitata da lesioni microscopiche (erosioni) e/o da alterazioni funzionali
dell'endotelio, secondarie a stimoli di varia natura (meccanici, anossici, chimici, infettivi, immunologici), in
grado di compromettere in modo rilevante le funzioni antitrombotiche e vasodilatatrici delle cellule
endoteliali, che sono anzi stimolate a produrre potenti sostanze vasocostrittrici ed esporre recettori di
adesione leucocitaria e piastrinica (attivazione dell’endotelio).
Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a livello di stenosi), e
possono essere causate da molteplici fattori, meccanici (alterato shear stress), chimici (LDL ossidate),
infettivi (virus, batteri), e immunologici (anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati). In
anni recenti, inoltre, è stata accumulata evidenza che un'importante componente patogenetica della
formazione di trombi intracoronarici, e quindi delle sindromi coronariche acute, è costituita da processi
infiammatori delle placche aterosclerotiche, che ne favoriscono le complicanze e stimolano localmente sia
meccanismi trombotici che vasocostrittori.
Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è costituita dall’adesione
di piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una serie di meccanismi che portano alla
formazione di un trombo piastrinico, che, in presenza di stenosi critiche, può di per sé causare
subocclusione o occlusione del vaso (e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale).
Più frequentemente, soprattutto in presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale piastrinico viene
seguito dalla formazione di un trombo più stabile, per l’attivazione del sistema emostatico, che porta a
deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina, globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale
occlusione del vaso.
Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da quanto esso riduce il
lume, dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti, variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in
poco tempo, per cui causa solo un'ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo
parzialmente, rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della
preesistente stenosi con successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte, infine, subisce una rapida
crescita che causa l'occlusione totale del vaso, con grave ischemia e necrosi miocardica. Il destino finale del
trombo è il frutto di una complessa interazione tra fattori protrombotici e antitrombotici, che coinvolge
anche fattori emodinamici, vasomotori e fibrinolitici.
Va osservato come trombi, sia ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a microembolie distali che
causano aree di ischemia o necrosi miocardica circoscritta. Va infine ricordato come una trombosi può
localmente complicare uno spasmo coronarico, facilitando l'occlusione e l'infarto miocardico in pazienti con
angina vasospastica.
SPASMO CORONARICO
Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle cellule muscolari lisce di un
segmento di un’arteria coronaria epicardica, che occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con
conseguente ischemia miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia in vasi
completamente normali e, dal punto di vista clinico, è anzitutto il meccanismo responsabile dell’angina
variante di Prinzmetal (Figura 11).
Il substrato che rende un vaso coronarico suscettibile allo spasmo non è noto. E’ probabile, tuttavia, che
esso risieda in una o più alterazioni delle vie intracellulari post-recettoriali di trasmissione e modulazione
dei segnali che regolano la contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una loro
iperreattività agli stimoli vasocostrittori. Ciò è suggerito dal fatto che lo spasmo può essere indotto, in
genere, da vari stimoli vasocostrittori (catecolamine, acetilcolina, alcalosi, ergonovina, serotonina,
istamina) che agiscono su recettori differenti (Figura 12).
Capitolo 23
FISIOPATOLOGIA DELL’ISCHEMIA MIOCARDICA
Filippo Crea, Gaetano A. Lanza
Diversi dati, in anni recenti, hanno suggerito come alterazioni del flusso coronarico a livello dei piccoli vasi
coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole), che non sono visibili all’angiografia coronarica, possano
essere responsabili di un’ischemia miocardica. Ad esempio, è stato osservato che l'infusione intracoronarica
di neuropeptide Y o di alte dosi di acetilcolina in soggetti con arterie coronarie epicardiche normali può
indurre ischemia miocardica in assenza di variazioni significative delle arterie epicardiche, ma in presenza di
una diffusa vasocostrizione dei rami distali e di un lento run off del mezzo di contrasto, indicativo di
un’intensa vasocostrizione microvascolare.
Una disfunzione microvascolare sembra implicata nei meccanismi che causano ischemia miocardica in
alcune condizioni cliniche. In pazienti con occlusione totale isolata di un vaso epicardico la
somministrazione di ergonovina può causare riduzione del flusso collaterale in assenza di modificazioni dei
vasi epicardici, suggerendo che variazioni rilevanti della soglia ischemica siano conseguenti a variazioni del
tono dei vasi di resistenza. In pazienti
con stenosiisolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazione percutaneo, la
persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG durante sforzo, a dispetto del successo
della procedura, suggerisce una causa microvascolare, come indicato da anomalie nell’incremento del
flusso coronarico in risposta a stimoli vasodilatatori (Figura 13).
Alterazioni della resistenze coronariche sono state, inoltre, dimostrate distalmente a stenosi coronariche in
pazienti con cardiopatia ischemica stabile o instabile, in vasi non stenotici di pazienti con stenosi ostruttive
in altri rami coronarici epicardici, e in pazienti con fattori di rischio per malattia coronarica ma con arterie
epicardiche angiograficamente normali. Infine, una disfunzione microvascolare è ritenuta essere
responsabile dellasindrome X cardiaca, una condizione clinica caratterizzata da episodi anginosi, indotti
prevalentemente dallo sforzo, in presenza di arterie coronarie angiograficamente normali.
I meccanismi della disfunzione dei piccoli vasi arteriosi coronarici sono al momento poco noti, ma sono
verosimilmente molteplici e differenti non solo nelle diverse condizioni cliniche, ma anche all’interno di uno
stesso gruppo di pazienti. In pazienti con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in
genere attribuita all'aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi perivascolare,
ipertrofia della media) associate ad eventuali malattie sistemiche concomitanti (ad es., ipertensione,
diabete). Di contro, nei pazienti con sindrome X cardiaca, in cui non sono presenti ostruzioni epicardiche,
sono state riportate alterazioni strutturali dei piccoli vasi coronarici solo in alcuni casi, mentre sono state
descritte diverse alterazioni in grado di determinare disfunzione del microcircolo ed ischemia miocardica.
Uno schema dei meccanismi potenzialmente coinvolti nella sindrome X è riportato nella Figura 14.
Capitolo 24
SINDROMI CORONARICHE CRONICHE
Mario Marzilli
DEFINIZIONE
Le sindromi coronariche croniche si identificano con l’angina stabile o angina cronica, termine che definisce
una sindrome caratterizzata da attacchi di ischemia miocardica che si producono in circostanze simili,
relativamente prevedibili e riproducibili, generalmente associate a sforzo fisico.
Meno della metà degli episodi ischemici si accompagna a sintomatologia dolorosa e la gran parte degli
attacchi ischemici è quindi silente.
L’esordio dell’angina pectoris rappresenta sempre, per definizione, un momento di instabilità:
successivamente la forma, se non evolve verso eventi coronarici maggiori, può entrare nella forma
cosiddetta “stabile”.
L’aggettivo stabile che caratterizza questa sindrome coronarica deve essere inteso:
come espressione della costanza e ripetibilità delle condizioni in cui si produce l’episodio ischemico
come espressione della stabilità nel tempo della frequenza e della severità degli episodi di angina.
Questa sindrome ischemica è caratterizzata da una bassa incidenza di eventi maggiori (morte improvvisa,
infarto miocardico) a breve e medio termine.
Il livello di attività a cui compare l’angina o l’ischemia viene definito soglia del dolore o dell’ischemia. La
soglia del dolore può essere calcolata empiricamente, dal racconto del paziente, sulla base della comparsa
dei sintomi e del momento di inizio e del tipo di attività fisica che ha provocato l’angina, oppure può essere
definita da parametri ergometrici (minuti di esercizio, doppio prodotto, carico di lavoro) al momento della
comparsa di ischemia elettrica (sottoslivellamento di ST) o del dolore.
Quando le variazioni della soglia sono particolarmente evidenti, l’angina perde la sua caratteristica di
stabilità sintomatica (angina a soglia variabile) ma può mantenere la stabilità clinica e la scarsa incidenza di
eventi maggiori nel follow up a breve e medio termine.
PATOGENESI
Il meccanismo patogenetico più comune dell’angina stabile è l’aumento del consumo miocardico di
ossigeno, per lo più dovuto ad esercizio fisico, non accompagnato da un parallelo aumento del flusso
coronarico. Pertanto l’angina cronica stabile è generalmente una angina da sforzo.
L’incapacità di aumentare il flusso coronarico in maniera adeguata all’aumento delle richiesta metaboliche
del miocardico può dipendere da una molteplicità di fattori tra cui: presenza di una stenosi coronarica
severa che riduce marcatamente la riserva coronarica, risposta vasocostrittiva del microcircolo distalmente
ad una placca aterosclerotica, alterazioni del metabolismo energetico miocardico, etc
In qualche caso, l’angina può comparire in condizioni di riposo muscolare, quando, per altri meccanismi, si
verifica comunque un aumento della frequenza cardiaca e/o della pressione arteriosa.
DIAGNOSI CLINICA
In pazienti che si presentano con dolore toracico, una anamnesi accurata, un esame obiettivo mirato ed
una valutazione dei fattori di rischio coronarico consentono, nella maggior parte dei casi, una attendibile
definizione diagnostica.
Il dolore anginoso
Un dolore toracico può aver origine da numerose strutture (cuore, pericardio, grossi vasi, polmone, pleura,
esofago, stomaco) e dipendere da patologie osteo-articolari, nervose o muscolo-cutanee della parete
toracica. L’anamnesirappresenta il primo e spesso anche il più utile approccio nella diagnosi di angina pec
toris.
Il dolore anginoso tipico è definito coi termini di costrizione, oppressione, peso, bruciore, ed è
frequentemente associato a malessere generale ed ansia. La sede tipica è retrosternale con irradiazione
lungo il lato ulnare dell’avambraccio sinistro e la mano, oppure alla mandibola, al collo, ad entrambe le
braccia ed ai polsi o al dorso. Altre sedi del dolore sono l’epigastrio o l’emitorace destro con irradiazione
all’avambraccio omolaterale. Tipicamente il dolore insorge gradualmente, raggiunge la massima intensità
entro un minuto e recede spontaneamente dopo 2-10 minuti con la cessazione del fattore scatenante o con
la somministrazione sub-linguale di nitrati. Altre condizioni che possono determinare l’insorgenza di angina
sono il rapporto sessuale, gli stress emotivi, l’esposizione al freddo, un pasto abbondante o una
associazione di questi fattori (Figura 1).
Esame obiettivo
L’esame obiettivo di un paziente con angina stabile non evidenzia di solito reperti diagnostici. Si possono,
tuttavia, identificare elementi che aumentano la probabilità di coronaropatia, come la presenza di
vasculopatia aterosclerotica sistemica, l’ipertensione arteriosa, i depositi lipidici cutanei. L’esame obiettivo
eseguito durante un episodio ischemico può evidenziare reperti significativi come la comparsa di 3° o 4°
tono, di soffio da rigurgito mitralico, uno sdoppiamento paradosso del 2° tono (vedi Capitolo II) o di rantoli
basilari che scompaiono poco dopo la cessazione dell’episodio anginoso.
DIAGNOSI STRUMENTALE
In un paziente con dolore toracico, il momento diagnostico più importante rimane l’anamnesi, che
condizionerà la successiva strategia. In un uomo con fattori di rischio e storia di dolore tipico, nessuna
ulteriore indagine negativa potrà ridurre significativamente la probabilità di malattia; la richiesta di indagini
aggiuntive può essere giustificata dall’esigenza di completare la diagnosi di malattia con informazioni
relative alla gravità, sede ed estensione della ischemia miocardica. In un paziente con bassa probabilità
(donna giovane, dolore toracico atipico, assenza di fattori di rischio) un test diagnostico positivo modifica di
poco la probabilità di malattia, ma può innescare una interminabile e spesso inutile serie di esami
aggiuntivi.
Le modificazioni transitorie dell’attività elettrica e contrattile cardiaca e della perfusione miocardica che si
accompagnano ad episodi ischemici provocati in laboratorio possono essere documentate con adeguate
metodologie. Questa documentazione costituisce la base della diagnosi strumentale di angina da sforzo.
ECG basale
L’elettrocardiogramma a riposo è generalmente non diagnostico nei pazienti con angina stabile, anche se
ECG da sforzo
L’elettrocardiografia da sforzo è la metodica diagnostica di prima scelta in quanto indagine semplice,
ovunque disponibile, a basso costo, relativamente sicura. Il criterio elettrocardiografico più significativo di
ischemia miocardica è rappresentato dalle modificazioni del tratto ST (vedi Capitolo 26).
Una prova da sforzo è considerata positiva quando induce dolore tipico e/o sottoslivellamento discendente
o orizzontale di ST uguale o superiore a 1 mm 0.08 secondi dopo il punto J. L’innalzamento del tratto ST di
almeno 0.5 mm, peraltro piuttosto raro durante test ergometrico nei pazienti senza pregressa necrosi, è di
solito espressione di ischemia transmurale per ostruzione organica o per vasospasmo. Al contrario, il
sopraslivellamento di ST da sforzo nei pazienti con pregressa necrosi deve essere considerato non specifico
per ischemia.
È importante ricordare che talora un test ergometrico mostra alterazioni significative di ischemia non
durante o al picco dello sforzo, ma in fase di recupero.
ECG dinamico.
La registrazione Holter è di scarsa utilità diagnostica nella angina stabile. L’ECG dinamico può essere
riservato alla determinazione, in pazienti già noti, del carico ischemico totale quotidiano, in considerazione
della frequente sovrapposizione di attacchi sintomatici e non.
Metodiche di imaging
Stimoli diversi dall’esercizio fisico impiegati per indurre ischemia in laboratorio sono rappresentati dal test
al dipiridamolo, all’adenosina o alla dobutamina (vedi Capitolo 26). Questi stressor hanno dimostrato di
possedere, quando associati ad un test di immagine, un’accuratezza diagnostica per malattia coronarica
comparabile a quella ottenuta con test da sforzo.
Un test di immagine è indicato:
1) quando il test ergometrico non è fattibile o non interpretabile o controindicato,
2) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di positività ECG ad alto carico in
assenza di angor,
3) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di angor durante test ergometrico in
assenza di modificazioni ECG.
Coronarografia.
Sebbene l’angiografia coronarica (vedi Capitolo 11) non rappresenti una metodica utile per la diagnosi di
angina stabile, una coronarografia è indicata quando ogni tentativo diagnostico strumentale per
confermare o escludere un sospetto clinico sia risultato inefficace.
La coronarografia si rende indispensabile anche quando, una volta raggiunta la diagnosi di angina stabile, il
paziente, sulla base dei dati raccolti, sia definito ad alto rischio e quindi siano indicate procedure di
rivascolarizzazione oppure queste si rendano necessarie per inefficacia della terapia.
STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA
Premessa
Nella stratificazione prognostica dei pazienti con angina stabile è importante tener presente che il rischio di
andare incontro a eventi cardiovascolari gravi è basso: in questi pazienti l’incidenza di morte cardiaca è
stata calcolata fra l’1,5 e il 2% ad un anno, e quella dell’infarto non fatale intorno all’1% per anno.
La clinica
Nei pazienti con sindromi coronariche croniche, il rischio aumenta con l’aumentare della gravità dell’angina
e con il peggiorare della funzione ventricolare sinistra secondo la classe NYHA, con la comparsa di sintomi e
segni di insufficienza di pompa durante sforzo o angor, e se sono presenti episodi sincopali, eventualmente
ECG da sforzo
Il test da sforzo rimane la modalità di valutazione più frequentemente utilizzata nella gestione del paziente
ischemico.
Il test, analizzato in termini quantitativi relativamente al momento di comparsa e alla entità delle
alterazioni ECG, all’andamento dei parametri emodinamici e clinici rilevabili durante esercizio, consente di
ottenere informazioni prognostiche sufficienti per un corretto inquadramento clinico del paziente.
L’entità del sottoslivellamento di ST si correla con la gravità della coronaropatia: maggiore è il grado di
sottoslivellamento di ST più alta è la prevalenza di stenosi del tronco comune o di malattia trivasale. Anche
il sottoslivellamento asintomatico di ST è prognosticamente importante, indipendentemente dalla presenza
o assenza di angina: la gravità della coronaropatia e la mortalità a distanza dei pazienti con
sottoslivellamento asintomatico di ST sono analoghe a quelle dei pazienti che manifestano angina durante
sforzo.
Il mancato incremento della pressione arteriosa o la sua riduzione durante esercizio individua pazienti con
coronaropatia estesa ed è indicativo di un rischio elevato di eventi cardiaci gravi. La comparsa di sintomi
e/o segni di ischemia per bassi carichi di lavoro identifica pazienti a rischio elevato.
Coronarografia
La prognosi è peggiore nei pazienti con malattia del tronco comune dell’arteria coronaria sinistra, nei
pazienti con malattia coronarica multivasale o con lesione critica sul tratto prossimale dell’arteria
discendente anteriore, nei pazienti con depressa funzione ventricolare sinistra.
CENNI DI TERAPIA
Gli obiettivi della strategia terapeutica nell’angina stabile sono il miglioramento della qualità della vita
attraverso la riduzione dei sintomi, l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico e il prolungamentro della
sopravvivenza attraverso la riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto miocardico non
fatale). Il primo obiettivo è solitamente raggiungibile con i farmaci convenzionali. Non vi sono invece
evidenze cliniche certe che essi possano influenzare favorevolmente la prognosi di questi pazienti. Per
contro, il trattamento aggressivo dei fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità,
tabagismo, dislipidemia) e la profilassi antiaggregante si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità e di
prevenire gli eventi coronarici maggiori nel follow-up.
Il trattamento farmacologico classico dell’angina stabile si basa sull’impiego
di nitrati, betabloccanti ecalcioantagonisti (vedi Capitolo 57).
I nitrati sono vasodilatatori endotelio-indipendenti che riducono il consumo d’ossigeno miocardico e
migliorano la perfusione miocardica. Ai dosaggi comunemente impiegati, la diminuzione del consumo
d’ossigeno è legata prevalentemente ad una riduzione del volume ventricolare sinistro e della pressione
arteriosa secondari soprattutto ad una riduzione del precarico.
I nitrati sono farmaci di prima scelta nel trattamento dell'attacco anginoso (nella formulazione sublinguale)
e sono raccomandati nel trattamento cronico dell'angina stabile, particolarmente nei pazienti con
disfunzione ventricolare sinistra.
I betabloccanti sono farmaci che agiscono bloccando gli effetti della stimolazione beta-adrenergica sul
cuore e sui vasi. Ne deriva una riduzione della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della
Un’alternativa ai farmaci tradizionali è offerta da farmaci come la trimetazidina e la ranolazina, che non
hanno effetti apprezzabili sul flusso coronarico nè sul consumo d’ossogeno miocardico ma modulano il
metabolismo energetico della cellula miocardica interferendo con la betaossidazione degli acidi grassi.
Capitolo 25
SINDROMI CORONARICHE ACUTE
Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone
DEFINIZIONE
Le sindromi coronariche acute (SCA) sono un gruppo di manifestazioni cliniche imputabili ad ischemia
miocardica acuta, la cui causa è generalmente la rottura di una placca aterosclerotica coronarica
“vulnerabile” con successiva aggregazione piastrinica, sovrapposizione trombotica e riduzione o arresto del
flusso.
In base all’entità della stenosi/occlusione ed alla sua persistenza, si determina uno dei seguenti quadri
clinici.
SEGNI E SINTOMI
ELETTROCARDIOGRAMMA
L'ECG è un’indagine chiave nella diagnosi delle sindromi coronariche acute. I reperti variano notevolmente
in base a quattro fattori principali:
1) durata del processo ischemico (acuto, in evoluzione, cronico);
2) estensione del processo ischemico (transmurale o subendocardico);
3) localizzazione del processo ischemico (parete anteriore, laterale, infero-posteriore, o ventricolo destro);
4) presenza di altre alterazioni che possono mascherare o modificare il classico quadro ECG (per esempio:
blocco di branca sinistra, preeccitazione).
Il segno iniziale e caratteristico di una SCA è il sottoslivellamento o il sopraslivellamento del segmento ST.
Tuttavia, un ECG completamente normale in un paziente con dolore toracico non esclude la possibilità di
SCA, poiché dall’1% al 6% dei pazienti con SCA hanno un ECG normale.
Elettrocardiogramma nello STEMI
L’alterazione ECG caratteristica dell’infarto transmurale è il sopraslivellamento del tratto ST >1 mm con
convessità in genere rivolta verso l’alto (onda di lesione subepicardica). L’evoluzione del tracciato ECG può
essere sintetizzata nelle seguenti fasi (Figura 1):
Fase acuta: tratto ST sopraslivellato, con entità che tende a ridursi progressivamente (schemi a,b,c).
Fase subacuta: comparsa di onda Q patologica; persistenza del sopraslivellamento del tratto ST; onda T
difasica (positivo/negativa) o negativa (schemi d,e).
Fase cronica: normalizzazione del tratto ST; persistenza dell’onda Q patologica (schema f).
Le Figure ECG 20, ECG 21, ECG 22 riportano elettrocardiogrammi caratteristici di STEMI.
Questa alterazione della ripolarizzazione ventricolare deve essere sempre valutata nel contesto clinico; in
particolare, per essere considerata espressione di ischemia miocardica deve essere transitoria e/o associata
a dolore toracico. Il sottoslivellamento di ST, infatti, si riscontra spesso in condizioni diverse dall’ischemia
miocardica, per esempio nell’ipertrofia ventricolare o nel blocco di branca.
Elettrocardiogramma e prognosi
Oltre ad avere un ruolo centrale nella diagnosi di SCA e a condizionarne la terapia, l’ECG fornisce importanti
informazioni prognostiche. La mortalità dei pazienti con infarto anteriore è maggiore di quella dei pazienti
con infarto inferiore; in quest’ultimo gruppo la mortalità aumenta quando l’infarto coinvolge anche il
ventricolo destro. In generale, maggiore è il numero di derivazioni con il sotto- o sopraslivellamento del
segmento ST, maggiore è il rischio di morte per il paziente.
I pazienti con SCA che presentano anche aritmie (per esempio, tachicardia ventricolare sostenuta o blocco
atrioventricolare di III grado oppure di II grado tipo Mobitz 2 ) hanno una prognosi peggiore di quelli in cui
non si manifestano aritmie.
Per la diagnosi di infarto miocardico acuto è necessario un aumento, seguito da una diminuzione graduale,
dei marcatori biochimici di necrosi associato ad una delle seguenti condizioni: 1) sintomi suggestivi di
ischemia miocardica, 2) alterazioni ECG indicative di ischemia, 3) comparsa di onde Q patologiche.
I miociti che vanno incontro a necrosi liberano alcune sostanze (enzimi o proteine) il cui riscontro nel siero
è indispensabile per porre diagnosi di infarto miocardico acuto; le più utilizzate sono la troponina e la
creatinchinasi.
Troponina (Tn). La Tn è una proteina ad alto peso molecolare presente specialmente nel tessuto
muscolare, ed è costituita da 3 sub-unità. La TnC si trova sia nel muscolo cardiaco che nel muscolo
scheletrico, mentre TnT e TnI sono presenti solo nel cuore e rappresentano marcatori sensibili e specifici
per il riconoscimento del danno miocardico. Sono dosabili nel sangue dopo 2-4 ore dall'inizio dei sintomi,
ed il picco è raggiunto dopo 8-12 ore. La curva enzimatica di questo marker è simile a quella della CK-MB
(Figura 2).
Complicanze aritmiche.
Complicanze emodinamiche (compromissione della funzione di pompa; rottura di muscoli papillari, setto,
o parete libera del ventricolo sinistro; aneurisma ventricolare).
Complicanze ischemiche (estensione della necrosi, angina precoce postinfartuale).
COMPLICANZE ARITMICHE
Le complicanze aritmiche sono estremamente comuni durante una SCA ed in particolare durante le prime
ore dell’infarto acuto. Extrasistoli ventricolari o sopraventricolari si osservano pressoché nel 100% dei
pazienti, ma nella maggior parte dei casi non hanno significato sfavorevole. Alcune aritmie
(tachicardia ventricolare sostenuta,fibrillazione ventricolare, blocco atrioventricolare di III grado)
mettono a serio rischio la vita del paziente e richiedono un intervento terapeutico immediato.
La fibrillazione e il flutter atriale sono frequenti, e possono determinare, se la risposta ventricolare è
elevata, una riduzione della gittata cardiaca ed un aumento del consumo miocardico di O2.
La tachicardia ventricolare non sostenuta è comune ed in genere ben tollerata, e non richiede
necessariamente un trattamento, mentre la tachicardia ventricolare sostenuta (vedi Capitolo 40) può
degenerare in fibrillazione ventricolare. In questi casi la lidocaina è abitualmente il farmaco di prima scelta
se non vi è compromissione emodinamica, nel qual caso è necessaria la cardioversione elettrica; in
alternativa alla lidocaina si può usare l’amiodarone.
La fibrillazione ventricolare è l’aritmia più temuta, e porta al decesso il paziente in pochi minuti, se non si
interviene immediatamente con la defibrillazione (vedi Capitolo 44).
Un blocco atrioventricolare di I grado o di II grado tipo Wenckebach (Mobitz 1) è comune nell’infarto
inferiore, ma raramente causa compromissione emodinamica, e può essere trattato, se necessario, con
atropina. Il bloccoatrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2 (vedi Capitolo 41) ed
il blocco atrioventricolare di III gradorappresentano indicazioni all’inserimento di un elettrocatetere per
COMPLICANZE EMODINAMICHE
Insufficienza ventricolare sinistra
In corso di SCA, numerose condizioni possono indurre un’insufficienza del ventricolo sinistro, che può
essere strettamente legata all’estensione dell’area ischemica (un’area ischemica vasta determina un
marcato deficit di contrazione), o anche essere la conseguenza di aritmie o della disfunzione valvolare
mitralica provocata dall’infarto. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza ventricolare sinistra consistono
in dispnea, tachicardia sinusale, comparsa di terzo tono e di rantoli polmonari inizialmente localizzati alle
basi. L’esame obiettivo consente di classificare la gravità dell’insufficienza ventricolare utilizzando le classi
di Killip: la classe 1 si caratterizza per l’assenza di rumori umidi polmonari, la classe 2 per la presenza di
rantoli in meno del 50% dei campi polmonari, nella classe 3 i rantoli si ascoltano in più del 50% dei campi
polmonari, e i pazienti in classe 4 presentano il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22),
caratterizzato da ipoperfusione generalizzata: il soggetto ha una pressione sistolica <90 mmHg, oligo-anuria
(diuresi <20 ml/ora), agitazione psico-motoria, tachicardia sinusale, pallore, sudorazione e cianosi.
COMPLICANZE ISCHEMICHE
Il paziente con infarto miocardico acuto può andare incontro ad angina postinfartuale precoce (nuovo
ripresentarsi del dolore dopo che questo era cessato, ma senza segni biochimici o ECG di necrosi) o anche
ad estensione dell’infarto, con ulteriore incremento dei marker dopo che questi erano già in diminuzione, e
modificazioni dell’ECG tali da suggerire un’ischemia ulteriore sovrapposta al quadro infartuale (per
esempio, aumento del sopraslivellamento di ST a distanza di qualche giorno dalla fase iperacuta).
Probabilmente in questa situazione l’arteria coronaria che dopo un’occlusione transitoria si era riaperta è
tornata ad occludersi, provocando una nuova ischemia, oppure si è verificata l’occlusione di un ramo
coronarico precedentemente non interessato. Questi pazienti vanno immediatamente avviati a
coronarografia ed angioplastica.
CENNI DI TERAPIA
Numerosi farmaci possono essere impiegati nelle Sindromi Coronariche Acute: fra questi l’ossigeno, gli
antiaggreganti piastrinici, gli anticoagulanti, i fibrinolitici, i betabloccanti, gli ACE-inibitori, i calcioantagonisti, gli
analgesici. La distinzione fra STEMI, e NSTEMI/angina instabile è di primaria importanza per il trattamento
d’emergenza. In particolare, nei pazienti con STEMI, il rapido ripristino del flusso nell'arteria occlusa, tramite
terapia fibrinolitica o mediante interventi percutanei di rivascolarizzazione coronarica è determinante per la
prognosi. Nei pazienti con NSTEMI/angina instabile, invece, la terapia fibrinolitica è controindicata.
OssigenoLa somministrazione di O2 è utile durante la fase iniziale di una SCA, in particolare nei pazienti con STEMI
.
Aspirina
Numerosi studi hanno dimostrato i potenti benefici dell’aspirina nelle SCA; il farmaco inibisce l’aggregazione
piastrinica, contrastando il meccanismo della trombosi endoluminale attraverso il blocco irreversibile della
formazione di trombossano A2.
Altri anti-aggreganti
Le tienopiridine sono farmaci antiaggreganti il cui meccanismo d’azione consiste nell’antagonizzare i recettori
dell’adenosina difosfato a livello piastrinico. L’effetto antiaggregante è irreversibile, e si realizza dopo 2-3 giorni di
terapia.
Il clopidogrel è una tienopiridina entrata solo recentemente nella pratica clinica. Il suo maggiore impiego è nei
pazienti con SCA, in associazione all’aspirina. La doppia antiaggregazione piastrinica (aspirina e clopidogrel) riduce
maggiormente gli eventi cardiovascolari rispetto alla sola aspirina.
La ticlopidina è tra le tienopiridine quella da più tempo in commercio; è usata con successo nei pazienti che non
tollerano l’aspirina.
Antagonisti del recettore GP IIb/IIIa piastrinica. Durante l’attivazione piastrinica, il recettore glicoproteico IIb/IIIa
delle piastrine subisce un cambiamento di conformazione ed aumenta la propria affinità per il fibrinogeno,
favorendo l'aggregazione piastrinica. Gli antagonisti dei recettori GP IIb/IIIa inibiscono l'aggregazione piastrinica
per diverse ore (da 4 a 8 ore).
Eparina
La terapia anticoagulante è un punto fondamentale nella terapia delle SCA: si esegue con l’eparina non frazionata o
l’eparina a basso peso molecolare. L’effetto anticoagulante dell'eparina non frazionata si esplica mediante il
potenziamento dell’attività dell’antitrombina (conseguente all’inattivazione del fattore IIa) e parzialmente
mediante l'inattivazione del fattore Xa. Il farmaco richiede il monitoraggio dell'effetto anticoagulante mediante la
determinazione del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT).
L'eparina a basso peso molecolare accelera l'azione di un enzima proteolitico che inattiva i fattori Xa, IXa, e IIa.
Questo farmaco offre il vantaggio di non dover monitorare l’effetto anticoagulante.
La combinazione di eparina e terapia anti-aggregante è un cardine della terapia delle SCA in quanto riduce
significativamente gli eventi ischemici e il numero di interventi di rivascolarizzazione coronarica.
Nitrati
La nitroglicerina è un vasodilatatore ed è tra i farmaci di prima scelta nel sospetto di una sindrome coronarica
acuta, soprattutto per ridurre o far cessare il dolore toracico. La vasodilatazione venosa che essa determina
comporta un aumento del sequestro (pooling) di sangue in periferia, e quindi una riduzione del ritorno venoso al
cuore e, in definitiva, del precarico. In accordo con la legge di Laplace, la diminuzione del diametro ventricolare
riduce la tensione (stress) parietale, e anche il consumo di O2, che allo stress parietale è direttamente correlato. La
nitroglicerina ha effetti modesti sul post-carico; diminuisce, però, la pressione arteriosa sistemica, ed anche con
questo meccanismo riduce il consumo di O2.
Beta-bloccanti
I beta-bloccanti antagonizzano gli effetti delle catecolamine sui recettori beta delle membrane cellulari. L'inibizione
dei recettori beta-1 riduce la contrattilità miocardica (effetto inotropo negativo), la frequenza di scarica
dell’impulso da parte del nodo del seno (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione dello stimolo
(effetto dromotropo negativo). Queste azioni consentono una riduzione del consumo di O2 da parte del miocardio.
ACE-Inibitori
Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I in angiotensina II sono in grado di ridurre la mortalità nei
pazienti con SCA. L'inibizione dell'enzima di conversione ha come conseguenza una diminuita concentrazione
dell’angiotensina II, la quale è il più potente costrittore delle arteriole. Per effetto del farmaco cade il tono
arteriolare, cioè si riduce il post-carico, ovvero la pressione arteriosa, con conseguente riduzione del consumo di
ossigeno. A livello cellulare, gli ACE-I antagonizzano gli effetti mitogeni esercitati dall'angiotensina II, responsabili,
dopo un infarto miocardico, di alterazioni sfavorevoli (rimodellamento ventricolare).
Calcio-antagonisti
I calcio-antagonisti non diidropiridinici (verapamil e diltiazem) possono essere utilizzati, in assenza di insufficienza
ventricolare sinistra, nei pazienti con angina instabile/STEMI che presentino ischemia ricorrente ed in cui è
controindicato l’uso dei beta-bloccanti.
Morfina
Nei pazienti con STEMI i cui sintomi non sono alleviati dalla nitroglicerina, a scopo antidolorifico ed in assenza di
controindicazioni quali ipotensione, è consigliata la morfina.
Terapia fibrinolitica
I farmaci fibrinolitici (streptochinasi, reteplase, alteplase, tenecteplase, etc.) trasformano il plasminogeno in
plasmina, la quale degrada la fibrina e disgrega il trombo, con conseguente ricanalizzazione dell’arteria coronarica
occlusa. Il ripristino di un flusso normale varia in base alla precocità del trattamento (inizio ideale entro 2 ore), alla
risposta del paziente e al farmaco utilizzato.
Angioplastica primaria
Sebbene la trombolisi sia un trattamento semplice, rapido e consolidato, non sempre è pienamente efficace nel
ricanalizzare il vaso occluso, per cui si è diffusa l’angioplastica primaria, cioè la ricanalizzazione meccanica, con o
senza impianto di stent, del vaso responsabile dell’infarto nei pazienti con STEMI (vedi Capitolo 59). Numerose
ricerche hanno dimostrato che l’angioplastica primaria offre notevoli vantaggi rispetto alla trombolisi in termini di
eventi (mortalità, reinfarto, stroke, angina). Inoltre, maggiore è il rischio dei pazienti, maggiore è il beneficio
osservato. Gli svantaggi che l’angioplastica primaria offre rispetto alla trombolisi sono legati a limitazioni tecnico-
logistiche (non tutte le unità coronariche dispongono di una sala di emodinamica) ed economiche (la procedura è
molto più costosa del trattamento medico).
Capitolo 26
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi
DEFINIZIONE
La diagnostica strumentale della cardiopatia ischemica è basata su tutte quelle indagini che permettono di
dimostrare la presenza di un’ischemia miocardica. In questo senso l’Elettrocardiografia, l’Ecocardiografia, la
Scintigrafia miocardica, la Coronarografia, la Tomografia computerizzata, la Risonanza magnetica, La TC
coronarica, etc possono mettere in luce diversi fenomeni suggestivi o dimostrativi dell’ischemia. Nel
presente Capitolo vengono esaminati soltanto alcuni aspetti relativi a: 1) il riconoscimento della cardiopatia
ischemica nei casi in cui questa non sia accertata, ma soltanto possibile in base ai dati clinici; 2) la
valutazione del rischio di eventi maggiori (infarto miocardico, morte improvvisa) in soggetti con cardiopatia
ischemica già nota. Per gli scopi suddetti vengono impiegati test volti a provocare un’ischemia miocardica,
in particolare il test ergometrico e l’eco-stress; la scintigrafia miocardica viene trattata nel Capitolo 6.
IL TEST DA SFORZO
E’ basato sulla registrazione dell’ECG prima a riposo e poi mentre il soggetto compie uno sforzo; l’eventuale
ischemia viene suggerita dalle modificazioni caratteristiche dell’ECG, associate o meno a sintomi, che si
verificano durante l’attività fisica. Questa indagine è in grado di identificare un’ischemia miocardica assente
a riposo e di stratificare il rischio in pazienti con angina stabile da sforzo.
Il test ergometrico viene effettuato di solito al cicloergometro o al treadmill (tappeto rotante); nel primo
caso il torace e le braccia del paziente sono relativamente stabili, permettendo di registrare una traccia
elettrocardiografica senza troppi artefatti. Il test al treadmill, tuttavia, sarebbe preferibile perchè consente
di effettuare uno sforzo più fisiologico, potendosi adattare la velocità e l’inclinazione del tappeto rotante
all’agilità del paziente. Il protocollo più utilizzato per quest’ultimo test è quello di Bruce, che prevede un
aumento di velocità e di inclinazione del tappeto ogni tre minuti.
Lo scopo dello sforzo è quello di incrementare gradualmente la frequenza cardiaca fino a raggiungere la
frequenza massimale (220 meno l’età del soggetto); in caso di test ergometrico effettuato dopo infarto
miocardico, tuttavia, viene solitamente utilizzato un protocollo sottomassimale (85% della frequenza
massima teorica). Il test è divenuto ormai pratica corrente perché utile nel predire il successivo andamento
della malattia; un test da sforzo positivo identifica il paziente ad alto rischio e rappresenta un’indicazione
ad eseguire un esame coronarografico.
I parametri più importanti deducibili dal test ergometrico sono la massima capacità di esercizio, l’entità del
sottoslivellamento o del sopraslivellamento del tratto ST, il tempo di recupero delle alterazioni
elettrocardiografiche (tempo necessario affinché le alterazioni dell’ECG indotte dallo sforzo regrediscano), il
numero di derivazioni in cui compaiono le anomalie del tratto ST, la soglia a cui compare il dolore anginoso
e le aritmie che si manifestano durante l’esercizio.
Aumenta il ritorno venoso al cuore destro per l’azione di pompa dei muscoli delle gambe e l’aumentata
pressione negativa intratoracica nell’inspirazione profonda, con conseguente aumento della portata
cardiaca).
Aumenta la frequenza cardiaca.
Aumenta la gittata sistolica.
Aumenta sia la forza di contrazione miocardica (per l’aumento del ritorno venoso, cioè del precarico, in
accordo con la legge di Frank-Starling) che la contrattilità, per l’incremento delle catecolamine circolanti.
L’ischemia miocardica è dovuta ad uno squilibrio fra apporto e richiesta miocardica di ossigeno. Questa è
principalmente influenzata dalla frequenza cardiaca, dalla tensione di parete e dallo stato contrattile. In
presenza di stenosi coronariche, il flusso si mantiene costante almeno fino ad un certo grado di stenosi,
grazie al meccanismo di autoregolazione coronarica (vedi Capitolo 23). In condizioni di riposo, il flusso
coronarico si riduce drasticamente solo quando la stenosi diventa molto serrata (> 90 %), mentre una
stenosi del 75% non riduce il flusso in condizioni basali. L’esercizio fisico provoca un incremento del
consumo miocardico di O2, e fa sì che il flusso coronarico divenga insufficiente a mantenere un normale
metabolismo già in presenza di una stenosi del 50%. Per tale motivo, lo sforzo può essere utilizzato per
diagnosticare una stenosi coronarica.
Il test da sforzo può essere indicato per motivi diagnostici, prognostico-valutativi o di screening.
Indicazioni Diagnostiche:
Indicazioni prognostico-valutative:
dopo infarto miocardico acuto (alla dimissione del paziente colpito da infarto, per la stratificazione del
rischio);
angina cronica stabile dopo rivascolarizzazione miocardica (angioplastica o by-pass aortocoronarico);
nell’insufficienza cardiaca cronica;
nella valutazione dell’efficacia della terapia antianginosa ed antiaritmica.
Indicazioni per screening:
follow-up nei pazienti con cardiopatia ischemica nota;
maschi oltre i 40 anni con attività lavorativa ad elevata responsabilità sociale, oppure con due o più fattori
di rischio coronarico maggiore, o che intraprendono attività fisica intensa;
ipertesi asintomatici che intraprendono attività fisica intensa;
per scopi assicurativi.
Controindicazioni relative sono: la stenosi aortica (se di grado severo il test è controindicato, se di grado
moderato deve essere eseguito con cautela); l’ipertensione grave (il test può essere eseguito se
l’ipertensione è controllabile farmacologicamente); l’ostruzione rilevante del tratto di efflusso del
ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica nelle sue varie forme); il marcato sottoslivellamento del
tratto ST già in condizioni basali; gli squilibri elettrolitici.
Angina ingravescente.
Associazione del dolore con alterazioni significative del tratto ST.
Aritmie minacciose (extrasistoli ventricolari con carattere di ripetitività (coppie) o tachicardia
ventricolare).
Fibrillazione o flutter atriale.
Blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado.
Riduzione della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa nonostante la prosecuzione dello sforzo (in
particolare repentina diminuzione della pressione sistolica > 10 mmHg).
Dolore muscolo-scheletrico importante.
Sintomi da bassa gittata (pallore, vasocostrizione e sudorazione).
Estremo aumento della pressione arteriosa .
Raggiungimento della frequenza cardiaca massimale (220 meno l’età).
Il test ergometrico viene interpretato in relazione a parametri clinici e strumentali. I parametri clinici sono i
sintomi (dolore toracico, dispnea, sincope) e i segni (pallore, cianosi, terzo tono, rantoli) dell’ischemia
miocardica da sforzo. Altri parametri importanti sono la capacità funzionale, cioè la capacità massima di
compiere lavoro muscolare, larisposta cronotropa, espressa dall’incremento della frequenza cardiaca
correlato allo sforzo, la risposta pressoria,e il doppio prodotto, rappresentato dal prodotto della frequenza
cardiaca per la pressione arteriosa sistolica.
L’analisi dell’elettrocardiogramma si concentra sulle alterazioni del tratto ST. Sono indicative di ischemia le
seguenti alterazioni:
Il sottoslivellamento del tratto ST. Indica positività della prova da sforzo un sottoslivellamento orizzontale
del tratto ST > 1mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre complessi consecutivi (Figura 1B).
Il sopraslivellamento del tratto ST è diagnostico se > 1 mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre
complessi consecutivi (Figura 1E).
L’ECO-STRESS
L’ecocardiografia da stress è una metodica alternativa al tradizionale ECG da sforzo. Il principio alla
base è che l’ischemia miocardica altera l’attività meccanica del cuore: il paragone fra la cinetica
ventricolare in condizioni basali (Figura 3) e quella osservata durante stress può suggerire la
presenza di una stenosi coronarica, se lo stress si accompagna a un peggioramento contrattile
(Figura 4). Lo stress può essere fisico (in genere effettuato al cicloergometro) o farmacologico; in
questo caso è possibile impiegare farmaci inotropi come la dobutamina, che aumenta il consumo
miocardico di ossigeno attraverso l’incremento della frequenza e della contrattilità, o farmaci
vasodilatatori come il dipiridamolo e l’adenosina, che aumentano la perfusione dei tessuti irrorati
da coronarie sane e riducono la perfusione dei territori irrorati da coronarie stenotiche: un
fenomeno definito “furto coronarico”.
L’eco-stress trova indicazione soprattutto nei pazienti con alterazioni dell’ECG a riposo, (blocco di
branca sinistra, sottoslivellamento del tratto ST>1mm, ritmo da pacemaker o sindrome di Wolff-
Parkinson-White) e in quelli con ECG da sforzo non dirimente.
È una metodica non invasiva per la diagnosi di coronaropatia che va rapidamente estendendosi
come indicazioni cliniche. Un’applicazione emergente della TC è la valutazione del paziente con
dolore toracico, in particolare nella diagnosi differenziale tra sindrome coronarica acuta, dissezione
aortica e trombo-embolia polmonare, nonché nella distinzione di queste dalle malattie pleuriche o
polmonari. La TC è in grado di identificare le placche coronariche, specialmente quelle calcifiche, e
di valutarne la morfologia; in caso di occlusioni coronariche croniche, può dare informazioni sulla
lunghezza dell’occlusione, e sulla presenza di calcificazioni.
CARATTERISTICHE TECNICHE
La “sfida” nella TC è rappresentata essenzialmente dalle dimensioni delle arterie coronarie (2-4
mm), dal loro decorso complesso, tortuoso, e soprattutto, dal loro continuo movimento.
Requisiti fondamentali ed imprescindibili di una metodica diagnostica non invasiva nello studio del
circolo coronarico sono l’elevata risoluzione spaziale e temporale, l’elevata velocità di esecuzione,
tale da consentire l’acquisizione dei dati durante una singola apnea e ridurre così gli artefatti da
movimenti respiratori, e la corretta sincronizzazione delle immagini ricostruite con il ciclo cardiaco.
Nel caso di frequenze cardiache superiori a 65 battiti per minuto, è possibile impiegare algoritmi
multi-segmentali, ottenendo i dati necessari per la ricostruzione delle immagini da cicli cardiaci
contigui e non da un singolo ciclo.
E’ consigliabile, pertanto, studiare pazienti con frequenza cardiaca <65, impiegando in caso di
frequenze superiori ed in assenza di controindicazioni farmaci ß-bloccanti, somministrabili per os
45-60 minuti prima dell’esame TC o per via endovenosa poco prima dell’acquisizione TC.
LIMITI ATTUALI
INDICAZIONI CLINICHE
In attesa delle imminenti innovazioni, è possibile ipotizzare per la TC un ruolo diagnostico concreto
come:
- alternativa all’angiografia in pazienti con precedente stress-test equivoco;
- alternativa a stress-test o all’angiografia in pazienti con rischio basso-intermedio di malattia
ischemica;
- follow-up in individui con sintomatologia atipica e precedentemente sottoposti ad intervento
chirurgico di rivascolarizzazione miocardica per lo studio dei by-pass;
- definizione delle anomalie coronariche.
Capitolo 27
DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini
INTRODUZIONE
Capitolo 28
CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA
Sandro Betocchi, Maria Angela Losi, Massimo Chiariello
DEFINIZIONE
La cardiomiopatia ipertrofica è definita come ipertrofia ventricolare sinistra non spiegata da cause
comuni d'ipertrofia (Patologia 28, Patologia 29), come l'ipertensione arteriosa o alcune
valvulopatie (ad esempio, stenosi aortica). La definizione si basa, clinicamente, sul rilievo
ecocardiografico di aumentato spessore parietale del ventricolo sinistro: ciò non significa
necessariamente che ci sia ipertrofia (aumento della massa muscolare da prevalente aumento delle
dimensioni dei miocardiociti), perché situazioni in cui c'è, ad esempio, accumulo intra- o
extracellulare di sostanze (come nell'amiloidosi, nella malattia di Fabry, in alcune glicogenosi etc.)
ricadono, impropriamente, in questa definizione. Con questa definizione, la cardiomiopatia
ipertrofica è malattia relativamente frequente, con una prevalenza di 1/500, che la rende la più
comune cardiopatia su base genetica.
EZIOLOGIA E PATOGENESI
FISIOPATOLOGIA
QUADRO CLINICO
La cardiomiopatia ipertrofica ha un decorso clinico benigno nella maggioranza dei pazienti. I pazienti
sintomatici lamentano soprattutto dispnea (dovuta a disfunzione diastolica e/o ad ostruzione al tratto
d'efflusso), palpitazioni, angina pectoris (anche in assenza di malattia coronarica, vedi sopra), e sincope (in
circa 1/3 dei pazienti).
La caratteristica clinica più temuta di questa malattia è la morte improvvisa. Si definisce come tale la morte
entro 24 ore dall'esordio di sintomi, ed è tipicamente dovuta a fibrillazione ventricolare. I bambini sono
maggiormente interessati, con un'incidenza più che doppia di quella degli adulti. In questi ultimi, l'incidenza
è circa 1%/anno, e declina con l'età. Non molto è noto circa i meccanismi della morte improvvisa, ma si è
osservata un'associazione epidemiologica tra alcuni eventi (definiti fattori di rischio) e la morte improvvisa.
Questi sono:
DIAGNOSI
un soffio sistolico eiettivo, che si ascolta soprattutto al mesocardio, lungo la margino-sternale sinistra. La
relazione fra l’intensità del soffio e il volume ventricolare (il soffio è tanto più intenso quanto più il
contenuto di sangue nel ventricolo si riduce) può permettere di diagnosticare all’ascoltazione del cuore la
cardiomiopatia ipertrofica, e soprattutto distinguerla dalla stenosi valvolare aortica (vedi Capitoli 2 e 16).
Se, mentre si ascolta il cuore, si fa eseguire al soggetto la manovra di Valsalva, ci si accorge che il soffio
della stenosi valvolare aortica si riduce d’intensità mentre quello della cardiomiopatia ipertrofica aumenta.
La manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa), infatti, riduce la pressione negativa
endotoracica, cioè la forza “aspirativa” (vis a fronte) che favorisce il ritorno venoso: diminuisce quindi il
riempimento diastolico dei ventricoli e con esso la gittata sistolica. La riduzione del volume ventricolare fa sì
che nella cardiomiopatia ipertrofica il soffio aumenti di intensità con la manovra di Valsalva, mentre
diminuisce nella stenosi aortica, dove l’intensità del soffio è proporzionale alla gittata sistolica, cioè alla
quantità di sangue che attraversa la valvola.
L’ECG è anormale nella quasi totalità dei casi, anche se le anomalie presenti non sono patognomoniche e
possono essere diverse: più comunemente si osserva ipertrofia ventricolare sinistra, onde Q anomale e
segni di ischemia ventricolare.
L'ecocardiogramma è esame fondamentale, che mostra ipertrofia generalmente asimmetrica, coinvolgente
il setto interventricolare (Figura 2).
pertanto quando la caratterizzazione anatomica risulta difficile con l’eco, vi è indicazione ad eseguirla.
Inoltre, con la RMN viene misurata la massa ventricolare sinistra, non possibile con l’ecocardiogramma per
l’eterogenea distribuzione dell’ipertrofia. La somministrazione di un mezzo di contrasto, il gadolinio, che si
accumula tardivamente nell'interstizio (late-enhancement) consente di avere un'immagine della
distribuzione di fibrosi in questi pazienti.
Vista l'eziologia di questa malattia, dopo aver identificato un probando (primo paziente identificato in una
famiglia) si deve procedere ad uno screening familiare con ECG, ecocardiogramma e, se disponibile, analisi
genetica.
TRATTAMENTO
Dopo aver determinato il profilo di rischio per morte improvvisa, si può individuare una strategia
terapeutica. Ai pazienti con almeno 2 fattori di rischio per morte improvvisa va consigliato l'impianto di un
defibrillatore (ICD). I pazienti con un solo fattore di rischio costituiscono una zona grigia, e l'impianto di un
ICD va valutato caso per caso.
I pazienti senza fattori di rischio per morte improvvisa ed asintomatici non richiedono trattamento. I
pazienti sintomatici vengono posti in terapia con beta-bloccanti e/o Ca++-antagonisti non diidropiridinici
(verapamil o diltiazem o gallopamil). La terapia ha la finalità di ridurre i sintomi, ma non ha effetto sulla
prognosi.
Se è presente ostruzione al tratto d'efflusso, ai beta-bloccanti si può aggiungere la disopiramide (un
antiaritmico qui usato solo per il suo marcato effetto inotropo negativo, che contribuisce alla riduzione
dell'ostruzione). Se la terapia medica non è efficace nella riduzione dell'ostruzione, questa può avvalersi di
intervento chirurgico di miotomia-miectomia (asportazione di un cuneo di setto sottoaortico per allargare
in tratto d'efflusso), o dell'ablazione alcoolica (iniezione di etanolo in uno o più rami perforanti settali in
modo da indurre infarto chimico della porzione alta del setto, sempre allo scopo di allargare in tratto
d'efflusso).
I pazienti che hanno fibrillazione atriale persistente o cronica debbono essere riportati in ritmo sinusale: ciò
non è sempre possibile, ma è importante tentare il ripristino del ritmo sinusale finché è ragionevole. Il
ripristino del ritmo sinusale si ottiene mediante cardioversione elettrica o farmacologica. La prevenzione
delle recidive di fibrillazione atriale è usualmente ottenuta con l'uso di amiodarone. In caso di fibrillazione
atriale parossistica o persistente o cronica, per l'anticoagulazione si applicano le linee guida usuali.
Capitolo 29
CARDIOMIOPATIA DILATATIVA
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda
DEFINIZIONE
La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo Cardiaco caratterizzata da
dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme
alle forme ipertrofica, restrittiva ed alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro
sottotipi principali di Cardiomiopatia.
EPIDEMIOLOGIA
La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso ogni 2.500 abitanti e
l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia, la sua reale frequenza è certamente
superiore, considerando che la maggior parte dei soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate”
della malattia (dilatazione e disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non
compaiono i primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della conduzione.
ANATOMIA PATOLOGICA
Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è rappresentato dalla più o meno
cospicua dilatazione di una od entrambe le camere ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi
avanzate della malattia, sono dilatati (Patologia 30).
La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza contrattile del miocardio
comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di trombi endocavitari, di riscontro non
infrequente in sede autoptica e documentabili prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di
sinistra(Patologia 31).
La dilatazione delle camere cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente concorrono anche a
determinare l’allargamento degli osti atrio-ventricolari e lo stiramento delle corde tendinee da diastasi dei
muscoli papillari, con conseguente insufficienza valvolare “funzionale” mitralica e/o tricuspidale.
Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di stenosi “critiche” a carico
dei grossi vasi epicardici.
Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali essendo rappresentate da degenerazione
miocellulare e diminuzione del numero delle miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed
interstiziale, infiltrati flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio.
EZIOPATOGENESI
Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare con precisione la
causa. Come per le altre forme di cardiomiopatia, anche per la CMPD i maggiori progressi in termini di
conoscenze eziopatogenetiche riguardano il campo della genetica. A differenza di quanto si riteneva in
passato, le forme familiari di CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). Le diverse modalità di
trasmissione ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, legata al cromosoma X) e di
presentazione clinica (in relazione al grado di penetranza, all’età di insorgenza, all’interessamento isolato o
meno del miocardio, ecc) della CMPD familiare indicano l’esistenza di una marcata eterogeneità genotipica
e fenotipica. L'analisi del tipo di trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di
genetica molecolare ha importanza non solo conoscitiva ma anche clinica perché le differenti forme
possono non solo avere differente quadro clinico ma anche differente prognosi e differente rischio di
malattia per i familiari.
Fattori infettivi/immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel determinismo della CMPD, anche
se i meccanismi con cui in questo caso si realizza il danno miocardico non sono del tutto chiariti. I virus
possono indurre un effetto citolitico diretto correlato alla loro virulenza come pure attivare una reazione
autoimmune secondaria a “mimetismo” molecolare tra epitopi virali e costituenti normali del miocardio ad
essi simili.
QUADRO CLINICO
La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi l’esordio avviene tra i
20 ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso maschile, con un rapporto maschi/femmine di
circa 3:1.
Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso cardiaco od aritmie
ventricolari o sopraventricolari. In oltre il 50% dei pazienti, la presentazione clinica è rappresentata da un
quadro di scompenso cardiaco sinistro; in una minore percentuale di casi, possono essere prevalenti i segni
di scompenso destro.
Le aritmie sono un’evenienza frequente nella CMPD e non di rado costituiscono le prime manifestazioni
cliniche; tuttavia, solo raramente sincope e morte improvvisa rappresentano l'esordio della malattia.
Un dolore toracico, per lo più da sforzo e talora con le caratteristiche di un’angina, rappresenta il sintomo
principale d’esordio della CMPD nel 10-20% dei casi; in questi pazienti, è stata dimostrata una minore
riserva coronarica.
Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione ventricolare e marcata
cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da un episodio embolico sistemico o
polmonare(Patologia 32).
Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi scoperti fortuitamente in
occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di un soffio cardiaco) o di un’indagine
strumentale (ad esempio, per il riscontro di blocco di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di
cardiomegalia alla radiografia del torace) effettuate per altri motivi.
DIAGNOSI
Di fronte ad una presentazione clinica suggestiva per CMPD, è necessario integrare i dati anamnestici e
clinici con le opportune indagini strumentali e di laboratorio.
Elettrocardiogramma. La tachicardia sinusale è un dato di frequente riscontro all’ECG standard. Possono
essere presenti anche turbe della conduzione atrio-ventricolare ed intra-ventricolare, in particolare il
blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 3), e anche onde Q di “pseudo-necrosi” in sede anteriore, in
associazione con estesa fibrosi di questa regione. Anche le alterazioni della ripolarizzazione sono di
frequente riscontro, come pure l’intero spettro delle aritmie sopraventricolari e ventricolari.
Radiogramma toracico. La cardiomegalia (rapporto cardio-toracico > 0.5) è di comune riscontro, come pure
i segni di redistribuzione a carico del circolo polmonare. Congestione interstiziale ed alveolare sono spesso
documentabili nelle forme più avanzate.
Ecocardiogramma. L’anamnesi, l’esame obiettivo, l’ECG e la radiografia del torace non sono in grado di
fornire elementi specifici che consentano con sicurezza una diagnosi di CMPD, la quale richiede la presenza
di alcuni criteri evidenziabili solamente con l’esecuzione di un ecocardiogramma.
La CMPD è classicamente caratterizzata, da un punto di vista ecocardiografico, dalla presenza di una
dilatazione globale del ventricolo sinistro associata a diffuse alterazioni della cinetica parietale con ridotta
funzione di pompa (frazione di eiezione < 45%). Nei casi in fase avanzata, il ventricolo sinistro, oltre che
essere di volume notevolmente aumentato, assume una geometria caratterizzata da una morfologia più
globosa e quindi meno ellissoidale che di norma. L’ecocardiogramma è anche in grado di documentare
eventuali asincronie nella contrazione inter- ed intra-ventricolare (conseguenti a disturbi di conduzione, in
particolare il blocco di branca sinistra), che possono contribuire a peggiorare la funzione di pompa
cardiaca.
Un’insufficienza mitralica “funzionale”, cioè in assenza di alterazioni strutturali dei lembi, è un reperto
frequente nella CMPD, e l’ecocardiogramma rappresenta l’indagine di elezione per confermarne la
presenza e quantificarne la rilevanza emodinamica.
Metodiche invasive. La coronarografia rimane un’indagine di fondamentale importanza per la diagnosi
differenziale tra CMPD e cardiopatia ischemica in fase dilatativo-ipocinetica. E’ indicata soprattutto nei
pazienti di sesso maschile ed età > 35 anni, con uno o più fattori di rischio coronarico e/o indicatori clinico-
strumentali suggestivi di coronaropatia (angina, alterazioni segmentarie della cinetica ventricolare
all’ecocardiogramma, ischemia miocardica alla scintigrafia miocardica od all’ecocardiogramma da stress).
Il cateterismo cardiaco consente uno studio emodinamico dettagliato con la misurazione delle pressioni di
riempimento ventricolare e della portata cardiaca, e mantiene un ruolo importante nella valutazione della
gravità e nella stratificazione prognostica dei pazienti con CMPD.
Lo studio di una famiglia con CMPD si basa su un’accurata costruzione dell’albero genealogico e della storia
familiare (volta ad individuare il possibile pattern di trasmissione della malattia) e sullo screening clinico-
strumentale (ECG, ecocardiogramma) di tutti i parenti di primo grado (genitori, fratelli/sorelle, figli) del
probando (primo individuo affetto di una famiglia che giunge all’osservazione). La valutazione clinico-
strumentale andrebbe ripetuta periodicamente non solo nei familiari affetti anche in quelli sani per
escludere un’evoluzione tardiva della malattia dovuta alla bassa penetranza.
La CMPD viene definita familiare: 1) in presenza di due o più individui affetti in una famiglia o 2) in presenza
di un parente di primo grado di un paziente con CMPD che abbia avuto una morte improvvisa,
documentata ed inaspettata, ad una età inferiore di 35 anni.
PROGNOSI
La prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità (all’inizio degli anni ’80 era stimata essere
del 50% a 2 anni dalla diagnosi), risultando in linea di massima tanto peggiore quanto maggiori sono le
alterazioni morfo-funzionali a carico del ventricolo sinistro (marcata dilatazione, bassa frazione di eiezione)
e quanto più severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato che una
diagnosi precoce ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come gli ACE-inibitori ed i
Liberamente consultabile su sicardiologia.it
221 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
CENNI DI TERAPIA
Non sono attualmente disponibili terapie specifiche per la CMPD. Gli obiettivi principali del trattamento
consistono nel limitare la progressione dello scompenso cardiaco e nel controllare le aritmie. Tra le misure
generali sono incluse l’educazione del paziente, la restrizione dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con
limitazione dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e l’esecuzione di un moderato esercizio fisico
aerobico.
Terapia medica. La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente impiegati nel
trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco. Fra questi, i più importanti sono gli
ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o
dell’ansa, gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone.
Gli ACE-inibitori ed i betabloccanti sono efficaci nei pazienti con scompenso cardiaco da lieve a severo
(NYHA II-IV); gli ACE-inibitori lo sono anche in quelli con disfunzione ventricolare ancora in fase
asintomatica (classe NYHA I). Nei casi in cui vi sia intolleranza agli ACE-inibitori, appare giustificato l’impiego
dei sartani.
I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il fenomeno della ritenzione
idro-salina, modulando le dosi in funzione del grado di congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti
recettoriali dell’aldosterone sono indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo.
La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con fibrillazione atriale e in quelli
in ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante la terapia con antagonisti neuro-ormonali e
diuretici.
Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via endovenosa,
particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto predominante beta1-agonista) o
gli inibitori delle fosfodiesterasi (amrinone, milrinone ed enoximone) che sono allo stesso tempo inotropi e
vasodilatatori. Dati recenti suggeriscono l’efficacia del levosimendan, un farmaco sensibilizzatore al calcio
con proprietà anche di vasodilatazione.
Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene raccomandato nei
pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con trombosi endocavitaria e/o pregressa
embolia, e anche nei soggetti con marcata dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%.
Terapia meccanica. L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con CMPD, sia per quanto
riguarda la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile) che per il ripristino della
sincronia della contrazione cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker
biventricolare), trova indicazione in selezionati sottogruppi di pazienti.
Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia. Sono state proposte procedure chirurgiche
complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto” od a questo alternative. In
pazienti selezionati, è possibile limitare la progressione della malattia correggendo l’insufficienza mitralica
mediante valvuloanuloplastica.
Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in attesa di trapianto, giunti
allo stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono
temporaneamente la funzione di pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza
ventricolare meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione tissutale
adeguata sostituendo la funzione di pompa del cuore con dispositivi meccanici di vario tipo. Sono in corso
di valutazione nuove prospettive per un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa
alla sostituzione cardiaca.
Trapianto cardiaco. La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile rimane allo stato
attuale la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di
terapia medica (vedi Capitolo 66). La sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata
rispettivamente intorno all’80, 68 e 56%. Il problema maggiore è costituito dalla carenza di donazioni.
Capitolo 30
CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVA
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani, Andrea Perkan
DEFINIZIONE
Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del muscolo cardiaco
accomunate dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado, entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern
di riempimento diastolico di tipo restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti
incostantemente aumentate di spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta. L’espressione
“pattern restrittivo” indica che durante la diastole vi è un ostacolo al riempimento del ventricolo, il quale
non riesce ad accogliere il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la
pressione diastolica ventricolare aumenta e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta
ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie dell’atrio, nei capillari, ecc.
Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in cui il pattern
restrittivo costituisce l'elemento caratterizzante il quadro fisiopatologico.
Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la cosiddetta CMPR idiopatica
(talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico dominante), la sindrome di Löffler e la fibrosi
endomiocardica. Le forme secondarie comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e
quelle da accumulo (emocromatosi, ecc).
Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Tuttavia, in linea generale, il reperto
macroscopico è quello di un cuore con atri marcatamente dilatati e spesso sede di trombi, mentre i
ventricoli appaiono grossolanamente normali(Patologia 33).
QUADRO CLINICO
Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da sintomi e segni di
scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia, dispnea da sforzo, dispnea parossistica
notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite. La comparsa di fibrillazione atriale è un evento frequente nei
soggetti con forme idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare
episodi tromboembolici. Nonostante la relativamente bassa frequenza di aritmie minacciose (blocco atrio-
ventricolare di III grado o tachicardia ventricolare), la morte improvvisa rappresenta comunque un evento
possibile.
L'esame obiettivo consente di rilevare valori di pressione arteriosa normali o ridotti con tendenza
all'ipotensione ortostatica in una significativa percentuale di pazienti. E' spesso presente tachicardia a
riposo. Il I ed il II tono sono in genere normali, ma si ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E' possibile
rilevare un soffio olosistolico da rigurgito mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il
fegato si presenta aumentato di volume e le vene giugulari sono distese.
In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei parametri ematochimici.
Il riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle forme
da amiloidosi possono essere presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della velocità
di eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva, ipofibrinogenemia, iposideremia, monoclonalità
all’immunoelettroforesi proteica o segni di compromissione della funzione renale ed epatica.
La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca, segni
di congestione interstiziale od alveolare e versamento pleurico.
Le possibili anomalie elettrocardiografiche includono i bassi voltaggi dei complessi QRS nelle derivazioni
periferiche, le onde Q di “pseudonecrosi” nelle derivazioni antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST;
sono frequentemente descritti anche segni di ingrandimento atriale (ECG 47), di ipertrofia ventricolare
sinistra ed aritmie di vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non
sembrano particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso documentabili
blocchi atrio-ventricolari ed intra-ventricolari.
riempimento ventricolare sinistro mediante analisi Doppler del flusso a livello della valvola mitrale
documenta un pattern di tipo “restrittivo” (ECO Figura45).
L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in modo più accurato l’eventuale
presenza di trombi endocavitari.
Sebbene l'integrazione degli dati ottenibili dalla valutazione clinica e dagli esami strumentali non invasivi
consenta nella maggior parte dei casi di porre correttamente la diagnosi, il cateterismo cardiaco e la biopsia
endomiocardica conservano un ruolo importante nello studio della CMPR.
In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il “segno della radice quadrata”
(“dip and plateau”), che si apprezza nella curva della pressione protodiastolica ventricolare ed è dovuto ad
una ripida discesa della pressione ventricolare all’inizio della diastole seguita da un brusco incremento e da
un plateau in protodiastole. La pressione sistolica e la pressione di riempimento ventricolare destro
possono essere elevate. Le pressioni di riempimento nelle sezioni di sinistra sono usualmente maggiori di 5
mmHg rispetto alle sezioni di destra, e la pressione capillare polmonare (“pressione di incuneamento”) è in
genere elevata.
La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica, immunoistichimica ed
ultrastrutturale delle diverse CMPR.
Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia cellulare e fibrosi
interstiziale in assenza, tranne che per quel che riguarda la sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari.
La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo, che conferisce al
tessuto una tipica birifrangenza all'esame con luce polarizzata. L'indagine immunoistochimica consente di
differenziare i vari tipi di amiloide (catene leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina,
lisozima, beta2 microglobulina, fattori natriuretici).
La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno frequenti di CMPR da
accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è facilmente evidenziabile con la colorazione di
Pearls; nella sindrome di Löffler, la biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione
eosinofila dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la presenza di ampie
deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano l’endocardio, il subendocardio ed il
miocardio.
Studi scintigrafici mirati o metodiche di risonanza magnetica cardiaca con gadolinio possono contribuire alla
diagnosi e caratterizzazione di alcune di queste forme
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con problemi di diagnosi
differenziale difficili da risolvere (vedi Capitolo 32). Una storia di pericardite acuta, pregressa infezione
tubercolare, trauma toracico, intervento cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare
verso la diagnosi di pericardite costrittiva. All’indagine invasiva, il rilievo di una pressione telediastolica del
ventricolo sinistro inferiore di almeno 5 mmHg rispetto alla pressione telediastolica del ventricolo destro, di
una pressione sistolica del ventricolo destro 50 mmHg ed di un rapporto pressione
telediastolica/pressione sistolica del ventricolo destro 0.33 orienta verso una pericardite costrittiva.
La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire informazioni più complete
su eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della parete miocardica. Anche la biopsia
endomiocardica può essere di ausilio nella differenziazione della CMPR dalla pericardite costrittiva,
particolarmente nei casi in cui è possibile riscontare un’infiltrazione miocardica.
CENNI DI TERAPIA
In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una terapia sintomatica della
congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei diuretici deve essere stabilito
con cautela, per evitare una sindrome da bassa portata conseguente ad eccessiva riduzione del precarico.
Nei pazienti affetti da amiloidosi cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti in quanto
questi farmaci possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici.
In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché l’assenza del
contributo atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale peggioramento della disfunzione
diastolica. A questo scopo, sono indicati sia la cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante
l’impiego di agenti antiaritmici, in particolare l’amiodarone. In casi di difetti di conduzione atrio-
ventricolare di grado avanzato può rendersi necessario l’impianto di un pace-maker.
Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio tromboembolico, in particolare
in quelli con riscontro ecocardiografico di trombi endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi ricorrenti
di fibrillazione atriale parossistica o fibrillazione atriale cronica.
Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con trattamenti
farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta l’unica valida opzione
terapeutica.
Capitolo 31
CARDIOMIOPATIA/DISPLASIA ARITMOGENA DEL VENTRICOLO DESTRO
Luciano Daliento, Barbara Bauce, Cristina Basso, Alessandra Rampazzo, Gaetano Thiene, Andrea Nava
DEFINIZIONE
La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è una malattia caratterizzata, dal punto di vista
morfologico, da una sostituzione fibro-adiposa di tratti più o meno estesi del ventricolo destro (Figura 1),
con un non raro interessamento del ventricolo sinistro.
Le alterazioni anatomiche sono responsabili di modificazioni morfofunzionali delle pareti ventricolari,
riconoscibili mediante le tecniche di imaging (Figura 2), e fungono da substrato per l’instaurarsi di aritmie
da rientro (Figura 3). La malattia è di origine genetica, nella maggior parte dei casi con trasmissione
autosomica dominante; sono stati finora identificati diversi geni-malattia. L’espressione clinica può essere
diversa da soggetto a soggetto, sia per quanto riguarda le modificazioni morfo-funzionali cardiache che per
il grado di instabilità elettrica, anche in pazienti portatori di un’identica mutazione.
Figura 3
A. Reperto istologico di parete miocardica: ben evidente la sostituzione adiposa e i tralci di fibrosi.
B. Sezione longitudinale di reperto autoptico di ventricolo destro La parete anteriore in tutta la sua estensione, particolarmente
nella regione dell'infundibolo, presenta aree di sostituzione adiposa (macchie giallastre).
Figura 5 Episodi di tachicardia ventricolare registrati durante un ECG dinamico (Holter) delle 24 ore.
QUADRO CLINICO
La presenza, in giovani adulti, di aritmie ventricolari con morfologia tipo blocco di branca sinistra, associate
ad alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro, soprattutto delle zone che definiscono il cosiddetto
“triangolo della displasia” (la regione sottotricuspidale, la punta e la regione dell’infundibolo) caratterizzano
il quadro clinico e rendono possibile la diagnosi. Prevalgano in genere le forme di malattia con estensione
lieve, e raramente il processo di sostituzione fibro-adiposa è così diffuso da provocare importante
cardiomegalia o severa riduzione della funzione di pompa. Il fatto che venga interessato soprattutto il
ventricolo destro spiega perché i pazienti affetti siano capaci, nella maggior parte dei casi, di ottime
prestazioni funzionali; molti di essi, anzi, svolgono attività sportiva e spesso gli eventi aritmici maggiori si
avverano proprio durante una intensa attività fisica. Non è raro, infatti, che la morte improvvisa sia la prima
manifestazione clinica nei giovani pazienti.
DIAGNOSI
Una Task Force della Società Europea di Cardiologia ha definito i criteri diagnostici per la Cardiomiopatia
aritmogena, basati oltre che sui dati clinico-anamnestici anche sulle modificazioni morfo-funzionali
individuate con le varie tecniche di imaging (Tabella I).
Nello studio clinico di un soggetto con aritmie ventricolari è fondamentale eseguire un’attenta e completa
anamnesi familiare riguardo la presenza, nel gentilizio, di morti precoci ed inattese o episodi sincopali. Le
metodiche di imaging (ecocardiogramma, risonanza magnetica cardiaca ed angiografia) sono
indubbiamente le più valide per la definizione diagnostica delle alterazioni morfo-funzionali delle pareti
ventricolari; l’elettrocardiogramma, l’esame Holter delle 24 ore e l’elettrocardiogramma ad alta
amplificazione, assieme allo studio elettrofisiologico e alla ricostruzione della mappa elettroanatomica
ventricolare destra, sono utili soprattutto per la stratificazione del rischio aritmico.
Elettrocardiogramma
L’ECG è normale in circa il 20% dei soggetti con diagnosi clinica di cardiomiopatia aritmogena; in questi è
generalmente presente una scarsa sostituzione fibro-adiposa. La maggior parte dei pazienti, invece,
presentano ondeT negative nelle precordiali destre (Figura 4), ed in alcuni sono anche evidenti in queste
derivazioni onde epsilon, piccole deflessioni presenti nel tratto ST o nell’onda T che esprimono la
depolarizzazione estremamente ritardata di alcune zone del ventricolo destro (Figura 5).
Extrasistoli ventricolari o tachicardia ventricolare con morfologia tipo blocco di branca sinistra sono molto
comuni nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro; esistono anche forme con aritmie
ventricolari ripetitive polimorfe, associate ad un maggior rischio di morte improvvisa. La morfologia dei
complessi ectopici somiglia a quella del blocco di branca sinistra poiché le aritmie nascono nel ventricolo
destro. L’impulso ectopico genera un’attivazione non simultanea dei ventricoli: dapprima si depolarizza il
ventricolo destro, sede in cui l’impulso nasce, e poi il processo di attivazione si comunica al ventricolo
sinistro; questa sequenza di diffusione dell’impulso nei ventricoli è identica a quella che si realizza nel
blocco di branca sinistra. In quest’ultimo caso, però, il meccanismo da cui essa dipende è l’incapacità della
branca sinistra a condurre l’impulso, per cui il processo di depolarizzazione si realizza prima nel ventricolo
destro, la cui branca è integra, e solo tardivamente il fronte d’onda si trasmette anche al ventricolo sinistro.
All’elettrocardiogramma amplificato si registrano potenziali tardivi (Figura 6) nella quasi totalità dei pazienti
che presentano forme severe di cardiomiopatia aritmogena, nel 70-80 % dei pazienti con forme moderate e
in poco più del 50% dei pazienti con forme lievi.
Il test ergometrico viene utilizzato non tanto per misurare la capacità funzionale, quanto per osservare il
comportamento delle aritmie e la loro eventuale scomparsa o insorgenza durante lo sforzo.
Metodiche di imaging
L’ecocardiografia (Figura 7), la risonanza magnetica nucleare (Figura 8) e la cineventricolografia (Figura 9)
sono metodiche idonee alla diagnosi anche nelle forme con scarsa compromissione parietale. La presenza
di un bulging (rigonfiamento) diastolico o di discinesie sistoliche della parete infero-basale del ventricolo
destro, giusto sotto la inserzione del lembo posteriore della valvola tricuspide, la disomogeneità della
architettura trabecolare, la dilatazione dell’infundibolo, l’alterata configurazione dei margini della parete
libera, soprattutto dell’apice, sono segni caratteristici della malattia.
Riguardo la risonanza magnetica (Figura 8), si dà ormai più importanza al riscontro di alterazioni della
cinetica dei ventricoli che all’aumento del segnale riferibile a grasso. Dati incoraggianti stanno arrivando
dall’utilizzo del mezzo di contrasto gadolinio, capace di identificare le aree miocardiche che presentano
fibrosi (vedi Capitolo 7).
Al momento attuale, l’indagine di imaging a maggior grado di sensibilità e specificità rimane la
cineventricolografia (Figura 9). La presenza di bulging diastolici della parete anteriore e sottotricuspidale,
associata a trabecole disposte trasversalmente, ispessite e intervallate da profonde fessure, raggiungono la
più elevata sensibilità e specificità diagnostica. L’interessamento del ventricolo sinistro è più frequente di
quanto non si ritenesse in passato e solitamente lo si ritrova nei soggetti adulti.
Biopsia endomiocardica
La biopsia endomiocardica rappresenta un valido supporto sia per la diagnosi, quando è presente nel
prelievo sostituzione fibro-adiposa, sia per la stratificazione del rischio aritmico, poiché la presenza di una
significativa componente infiammatoria o necrotica o di elementi apoptosici possono essere messi in
relazione con una fase attiva della malattia, in cui l’instabilità elettrica è particolarmente spiccata.
Figura 6 Elettrocardiogramma di un paziente con sospetto clinico di cardiomiopatia aritmogena. In tutte le derivazioni si osserva
una riduzione delle ampiezze del QRS; le onde T sono invertite nelle precordiali destre.
Figura 7 Complesso QRS con evidenti alterazioni all’inizio della fase di ripolarizzqzione (tratto ST).
Figura 8 - A sinistra: reperto bioptico di paziente con cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, con severa sostituzione
fibrosa dei miociti. I dati numerici riportano i risultati dell’analisi morfometrica del miocardio.
A destra: una registrazione ECG ad alta risoluzione, che mostra la presenza di potenziali tardivi.
Figura 9 - Segni ecocardiografici diagnostici di cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro: dilatazione della cavità e bulging
diastolico nella regione sottotriicuspidale.
Figura 10 - L’esame RMN cardiaco mostra nelle varie proiezioni una dilatazione della cavità ventricolare destra, più accentuata
nella regione dell’infundibolo e sotto la valvola tricuspide, e la presenza di grasso intraparietale nella parete anteriore del
ventricolo.
Figura 11 – Cineventricolografia destra. Segni angiografici patognomonici della cardiomiopatia aritmogena: dilatazione della cavità
ventricolare con disarrangiamento delle trabecole, alterazione dei profili parietali con bulging diastolico sottotricuspidale della
parete anteriore, mammellonature della punta.
GENETICA
Sono stati finora riconosciuti 11 loci di mutazione genetica associati alla cardiomiopatia aritmogena
(Tabella II). Una forma autosomica recessiva associata a keratoderma palmo-plantare e capelli ricci è stata
descritta in pazienti che vivono nell’isola greca di Naxos. Questa forma è causata da una mutazione del
gene della Plakoglobina, localizzato nel cromosoma 17q21, che codifica per un componente chiave dei
desmosomi. In pazienti che presentavano criteri clinico-diagnostici per la cardiomiopatia aritmogena del
ventricolo destro sono state identificate mutazioni del gene della Desmoplakina e della Desmogleina-2,
proteine presenti nei desmosomi, dove svolgono un ruolo fondamentale nell’assicurare la giunzione tra una
cellula e l’altra (Figura 10).
In una famiglia con alta ricorrenza di morte improvvisa giovanile, aritmie ventricolari polimorfe, e lievi
alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro è stata identificata una mutazione del gene RyR2 che
regola l’attività del recettore rianodinico cardiaco. Questo gene è fra i più grandi del genoma umano,
essendo costituito da 106 esoni, e codifica per il recettore rianodinico, che regola l’omeostasi intracellulare
del calcio (Figura 11). La mutazione di questo gene provoca un aumento della concentrazione di ioni calcio
all’interno del miocita e favorisce l’insorgenza delle aritmie ventricolari durante sforzo.
Sulla base delle conoscenze genetiche, si può ipotizzare che la patogenesi molecolare di questa malattia
risieda nel fatto che il danno della parete ventricolare con successivo processo riparativo sia la conseguenza
di una debolezza del sistema delle giunzioni desmosomiali (Figura 12). Dato che i desmosomi sono presenti
in tutto il miocardio, le alterazioni della proteine desmosomiali nei soggetti con mutazione genica sono
espresse sia a livello del miocardio ventricolare destro che sinistro. Il fatto che in questa malattia siano
prevalenti le alterazioni morfologiche a carico del ventricolo destro è verosimilmente dovuto al diverso
spessore della parete ventricolare, molto più sottile a destra rispetto al versante sinistro. Gli studi più
recenti, eseguiti con risonanza magnetica ed iniezione di gadolinio, un mezzo di contrasto che individua la
fibrosi miocardica, supportano questa spiegazione, mostrando a livello dell’epicardio ventricolare sinistro la
presenza di fibrosi, che in genere non comporta alterazioni della cinetica ventricolare sinistra.
Figura 12 – Schema della struttura di un desmosoma e delle proteine coinvolte. Aspetto al miscroscopio elettronico di una giuntura
desmosomiale.
Figura 13 – Raffigurazione schematica del recettore rianodinico di tipo 2 che, localizzato a livello del reticolo sarcoplasmatico (SR),
regola l’omeostasi intracellulare dello ione calcio. Rappresentazione del tatto di gene che codifica per il recettore RyR2 interessato
dalle mutazione rilevate nei centri di Padova, Pavia ed Helsinki in pazienti con tachicardia ventricolare catecolaminergica o
tachicardia polimorfica da sforzo.
Figura 14 – Schema del meccanismo di traduzione moderato dal fattore di crescita TGF?3.
CENNI DI TERAPIA
Nella maggior parte dei casi l’intervento terapeutico è rivolto alla prevenzione della morte improvvisa
attraverso il controllo delle aritmie ventricolari. In presenza di aritmie complesse, soprattutto se queste
sono polimorfe o si aggravano sotto sforzo, il primo provvedimento è quello di limitare l’attività fisica ed
iniziare un trattamento antiaritmico farmacologico. In presenza di episodi ripetuti di tachicardia
ventricolare sostenuta o di importanti sintomi aritmici si ricorre all’impianto di un defibrillatore automatico.
Esiste inoltre l’opzione dell’ablazione con radiofrequenza (vedi Capitolo 60) in presenza di una lesione
localizzata, se durante lo studio elettrofisiologico endocavitario si dimostra essere questa la fonte primaria
dell’aritmia ventricolare.
Capitolo 32
PERICARDITI
Antonio Barsotti, Gian Marco Rosa
DEFINIZIONE
Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale del pericardio, la cui
eziologia può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica, immunitaria. Tra le malattie del pericardio
possono essere enucleate le forme seguenti :
Pericarditi acute e subacute
Pericardite cronica essudativa
Tamponamento cardiaco
Pericardite cronica costrittiva
Eziologia
Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o tubercolari; le forme virali
sono di gran lunga le più frequenti (virus Coxackie A e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes
simplex, varicella, adenovirus, epstein barr e virus influenzali). (Tabella I)
Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione diretta del pericardio da
parte di una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie polmonari, della mammella o linfomi). Altre condizioni
morbose come patologie metaboliche (uremia o mixedema) e le collagenopatie (lupus eritematoso
sistemico, sclerodermia, artrite reumatoide, dermatomiosite, poliartrite nodosa) possono interessare il
pericardio. Sono state segnalate pericarditi da farmaci (Isoniazide, Procainamide, Idralazina e Antracicline),
su base verosimilmente immunitaria. L’infarto miocardico acuto può essere complicato dalla pericardite
epistenocardica (II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler, pericardite autoimmune ad insorgenza più
tardiva. Altre forme di infiammazione asettica del pericardio sono le post-pericardiotomiche, che si
osservano dopo interventi cardiochirurgici.
Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da raccolta di liquido di tipo
trasudatizio, come accade nello scompenso cardiaco e nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può
formare una raccolta ematica (emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche
la terapia radiante ad alte dosi può essere associata a interessamento pericardico, quando le radiazioni
siano dirette sul mediastino.
Fisiopatologia
Normalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al suo interno vige una
pressione negativa. Quando un agente patogeno di tipo chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità
funzionale dei foglietti pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere sieroso,
siero-fibrinoso, ematico, purulento, colesterolico, chiloso (Tabella II).
Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il trasudato presenta bassa densità,
basso contenuto proteico, e scarse cellule mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior
quantità di proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del versamento, la
pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il rilasciamento delle camere cardiache,
aumentano le pressioni di riempimento ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione
intrapericardica dipende dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il versamento
Quadro clinico
Il quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla quantità di liquido e dalla
velocità con cui questo si accumula. In genere, dopo due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale,
compaiono i sintomi della pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici:
presenta irradiazione verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e verso la spalla sinistra; talvolta
può avere localizzazione epigastrica tanto da simulare un addome acuto. La sua intensità può variare,
esacerbandosi con l’ inspirazione, la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in alcune
posizioni antalgiche (la posizione seduta o quella genupetturale oppure flettendo il torace in avanti). Il
dolore ha di solito durata protratta (giorni), e si riduce o scompare quando compare il versamento.
Esame obiettivo
Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite acuta: essi originano dall’attrito
tra i foglietti pericardici, resi scabri dalla deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente
variabili, transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di pericardite; possono
accentuarsi con la compressione esercitata dal fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il paziente
.
Indagini di laboratorio
Sono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione della PCR, rialzo della VES. I
reperti di laboratorio possono essere utili per la diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia)
o per la diagnosi di mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del titolo
anticorpale contro il virus responsabile. L’intradermoreazione alla tubercolina è utile nella diagnosi di
pericardite tubercolare. La determinazione del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va
eseguita nel caso si sospetti una malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la
pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere molto indicativo: si tratta di un trasudato nelle sindromi
edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di un liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi,
sindrome di Dressler.
Esami strumentali
Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento del tratto ST, generalmente a
concavità superiore, nelle derivazioni con QRS positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può
risultare sottoslivellato (Figura 1). Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T diventa
negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi differenziale elettrocardiografica con le
alterazioni in corso di infarto miocardico è l’assenza di onde q di necrosi. Quando la pericardite si
accompagna ad abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte le onde
dell’ECG, e a volte alternanza elettrica (vedi Capitolo 3).
Esame radiologico: le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso versamento, non sono
evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali standard. L’RX del torace può essere utile solo se
la raccolta di liquido è superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale
configurazione ed assume aspetto a “fiasca” (Figura 2).
Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento pericardico (vedi Capitolo
4). L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno spazio ecoprivo compreso tra il pericardio
posteriore e la parete posteriore del ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente
uno spazio analogo tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del ventricolo destro.
L’indagine bidimensionale permette di visualizzare in modo più completo il pericardio (Figura 3).
Risonanza magnetica nucleare: la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici sullo stato del pericardio,
permettendo una miglior evidenziazione dei recessi pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso
misconosciuti.
Diagnosi differenziale
Il quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il dolore precordiale e per la
presenza di alterazioni elettrocardiografiche. Gli sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici, l’assenza
di aumento nel siero dei marker di necrosi miocardica (vedi Capitolo 24) permettono di dirimere il dubbio.
Complicanze
Si dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive e pericardite costrittiva). La
più importante complicanza dei versamenti pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti).
Tabella 1
Tabella II
Figura 15 – ECG registrato in un paziente di 35 anni con pericardite acuta. In tutte le derivazioni in cui i complessi ventricolari sono
positivi, è presente un netto sopraslivellamento del tratto ST con concavità superiore. Le onde T sono appuntite e di voltaggio
relativamente elevato. Il tratto PR appare sottoslivellato nelle derivazioni inferiori e da V3 a V6, e sopraslivellato in aVR. Queste
alterazioni sono indicative di pericardite acuta: la diagnosi è suggerita dalla mancanza di alterazioni reciproche del tratto ST, che
sono, invece, di comune riscontro nel sopraslivellamento di ST dovuto a ischemia miocardica.
Figura 16 – Radiografia del torace di un paziente con versamento pericardico. Si noti la presenza dell’aspetto a “fiasca” dell’ombra
cardiaca.
Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei mesi. Tutti i processi
infettivi cronici, le collagenopatie, le malattie metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori
pericardici possono provocare versamenti pericardici ad andamento cronico.
Quadro clinico
I pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista cardiaco, pur presentando
versamento pericardico all’ ecocardiogramma. I principali sintomi consistono in ridotta tolleranza
all’esercizio fisico e nella dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come
tosse, disfagia, disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche. All’ascoltazione cardiaca i
toni risultano ovattati e si possono apprezzare a volte sfregamenti pericardici . Il decorso clinico della
pericardite cronica essudativa dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di
cardiopatia sottostante. E’ possibile l’evoluzione verso la forma costrittiva .
Diagnosi
L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica essudativa.
L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso evidenzia QRS di basso voltaggio e alterazioni
aspecifiche della ripolarizzazione. Il radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra
cardiaca.
TAMPONAMENTO CARDIACO
E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si
verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre una
grave limitazione del riempimento del cuore in diastole.
Eziologia:
Le cause più frequenti sono:
rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;
Fisiopatologia
Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di
distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva
riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo
sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione
dell’afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la
rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste
quantità di liquido (per esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza.
Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono:
1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole.
2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la venosa
pressione a monte degli atri.
Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico:
tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione
della portata, e l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella
norma. Quando i meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a
ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).
Quadro clinico
E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con
obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del
liquido (pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso,
sudorazione fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano
ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso
paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di ampiezza del polso e della pressione arteriosa
durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2).
Esami strumentali
L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia
un versamento pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui
un collasso diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del
ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco.
Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche, caratterizzata da un addensamento
sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di molto la compliance del sacco pericardico, interferisce con
il normale riempimento diastolico del cuore.
Eziologia
Una pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite acuta o cronica. Le
principali cause di pericardite cronica costrittiva sono: le pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma
tubercolare, le neoplasie, la terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio.
Fisiopatologia
Alcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose, hanno come esito la
formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò, un involucro rigido che avvolge il cuore e
ostacola gravemente il riempimento dei ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano
essenzialmente in fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale. In
protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente perché l’afflusso del
sangue ai ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il cuore. La curva pressoria di entrambi i
ventricoli, perciò, assume un aspetto a radice quadrata (dip and plateau) (Figura 4). Il riempimento
ventricolare avviene principalmente in protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la
pressione telediastolica tende ad essere equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg nelle forme
più gravi). Gli effetti della costrizione pericardica sono più marcati a carico delle sezioni destre. Il
meccanismo di Frank Sktarling non è operante, essendo il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre
le modificazioni della gittata cardiaca dipendono quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza
cardiaca.
Figura 18 – Pressione ventricolare sinistra (VS) e ventricolare destra (VD) registrate simultaneamente in corso di pericardite
costrittiva. Si noti l’aspetto a “radice quadrata” (dip-and-plateau) delle curve pressorie durante la fase diastolica.
Quadro clinico
La malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il quadro clinico della
pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco congestizio, da deficit del ventricolo destro.
I sintomi sono la dispnea da sforzo e l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre
raramente si verificano dispnea a riposo e ortopnea. L’astenia è il sintomo prevalente. I toni cardiaci sono di
intensità normale o ridotta, si può a volte ascoltare un tono aggiunto protodiastolico (pericardial knock), da
attribuirsi al brusco impedimento diastolico dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione
pericardica). Sono presenti segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica:
epatosplenomegalia, edemi declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere presente polso
paradosso (vedi Capitolo 2).
Diagnosi
Non sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i complessi QRS sono di basso
voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare ingrandimento atriale (vedi Capitolo 3), e nel 20-30 % dei
casi si può riscontrare una fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali
dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma si nota un
ingrandimento atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del pericardio, la dilatazione delle
vene epatiche e della vena cava inferiore; l’esame doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare.
Il cateterismo cardiaco si rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una
diagnosi certa. La TAC e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard per la
diagnosi.
Diagnosi differenziale
La pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai ecocardiografici, dallo
scompenso cardiaco congestizio secondario a valvulopatie acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi
differenziale con la cardiomiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: l’esame emodinamico è
dirimente giacché nella cardiomiopatia restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni
sinistre che in quelle destre, mentre nella pericardite costrittiva tende ad essere uguale in entrambe le
camere ventricolari. La diagnosi differenziale con il cuore polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’infarto del
ventricolo destro è semplice, e si basa sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali.
La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro eziologia: per esempio,
nelle forme uremiche il trattamento necessario è quello dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico
con farmaci chemioterapici. Nelle pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio
terapeutico è dato dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per
impedire la comparsa di recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace ma aumenta in maniera
significativa la frequenza delle recidive entro un anno dalla risoluzione del versamento. Nelle forme lievi
con versamento modesto si consiglia l’utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento
pericardico importante si possono utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono
controindicati i farmaci corticosteroidei, che possono indebolire la formazione della cicatrice infartuale. Il
trattamento del tamponamento cardiaco è costituito dalla rimozione del liquido pericardico mediante
pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con creazione della finestra pleuropericardica.
Capitolo 33
MIOCARDITI
Antonello Ganau, Pier Sergio Saba
DEFINIZIONE
Le miocarditi rappresentano le malattie infiammatorie del tessuto miocardico. Sebbene abbiano
frequentemente una evoluzione benigna, recenti dati autoptici le hanno chiamate in causa nella genesi
della morte improvvisa dei giovani adulti, poiché in una percentuale compresa tra l’8% e il 12% dei casi
l’esame istologico del miocardio di giovani deceduti improvvisamente ha mostrato i caratteristici aspetti
infiammatori. In ampi studi prospettici, le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della
cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…) in circa il 10% dei casi.
EZIOLOGIA
I potenziali agenti eziologici delle miocarditi sono molto numerosi (Tabella I). La causa più frequente è una
infezione virale, spesso da enterovirus ed in particolare da virus Coxsackie del serotipo B. Altri ceppi virali
identificati come possibili cause di miocardite sono gli adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e il virus
dell’immunodeficienza acquisita (HIV). Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e parassiti possono agire come
agenti patogeni.
Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i diuretici, la digossina,
gli antidepressivi triciclici e gli antipsicotici possono indurre miocardite mediante reazioni da ipersensibilità.
Tra le malattie autoimmunitarie, anche la celiachia può determinare una miocardite.
Tabella 1
PATOGENESI
Gran parte delle conoscenze sulla patogenesi delle miocarditi deriva da modelli animali che hanno
identificato tre fasi. Nella prima fase si verifica l’invasione diretta del miocardio da parte di virus cardiotropi
o di altri agenti infettivi. Dopo la risoluzione o l’attenuazione della infezione virale può insorgere la seconda
fase di attivazione immunologica, nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che determina
ulteriore miocitolisi, aggravamento della infiammazione locale e produzione di anticorpi circolanti anti-
muscolo cardiaco. La terza e ultima fase è conseguenza del danno virale e autoimmunitario, ma può
continuare autonomamente dopo l’insulto iniziale. E’ caratterizzata da infiltrazione miocardica da parte di
cellule infiammatorie, compresi i macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente espressione di citochine
pro-infiammatorie come la interleukina-1, la interleukina-2, il tumor necrosis factor (TNF), e l’interferone- .
Il TNF, in particolare, attiva le cellule endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la
produzione di citochine e ha un effetto inotropo negativo diretto.
MANIFESTAZIONI CLINICHE
Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie elettrocardiografiche
asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una
infezione virale, quali febbre, mialgie, sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi
e segni di insufficienza cardiaca acuta (vedi Capitolo…). La manifestazione clinica più drammatica è la
dilatazione cardiaca ad insorgenza acuta, con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e rapida
insorgenza di scompenso.
Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un aumento dei
marcatori di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni elettrocardiografiche tipiche
dell’ischemia miocardica, quali sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q
patologiche o sottoslivellamento diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della
cinetica ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni da lesioni all’esame coronarografico.
Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul ritmo cardiaco, e
sono in grado di provocare blocchi di branca (vedi Capitolo…), blocco A-V (vedi capitolo…), battiti ectopici
(vedi Capitolo…) o tachicardie. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo…) si presenta raramente all’esordio
della malattia, ma si osserva frequentemente durante il follow-up a lungo termine di questi pazienti.
VALUTAZIONE DIAGNOSTICA
La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi, dell’elettrocardiogramma, di valori
elevati della proteina C reattiva e dei marker di danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle
IgM specifiche per virus a tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia.
Elettrocardiogramma
I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione dell’onda T, ma può
anche comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto nelle forme di miocardite con
interessamento pericardico (Figura 1).
Marcatori di infiammazione e di necrosi.
La VES, la proteina C reattiva ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in caso di miocardite, ma
sono del tutto aspecifici e non si sono dimostrati particolarmente utili nella valutazione diagnostica e
prognostica dei pazienti con miocardite. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con
sospetta miocardite, anche se la loro sensibilità diagnostica è risultata in genere bassa e variabile.
Ecocardiogramma
In tutti i pazienti con sospetta miocardite dovrebbe essere eseguito un ecocardiogramma per la ricerca di
anomalie della contrattilità ventricolare sinistra. Il reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni
della cinetica parietale del ventricolo sinistro, in assenza di significativa dilatazione della camera. La
disfunzione del ventricolo destro è meno frequente.
Risonanza magnetica nucleare
La metodica più promettente per la diagnosi delle miocarditi è la risonanza magnetica nucleare con
contrasto di gadolinio. Tale tecnica è in grado di individuare le aree miocardiche interessate
dall’infiltrazione infiammatoria e consente l’effettuazione di biopsie mirate per la conferma della diagnosi
( Figura 2).
Biopsia endomiocardica
La biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di certezza della
miocardite. Il tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico occupato da edema e infiltrato
infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi, e la presenza di quadri di necrosi focale di miociti ( Figura 3)
Tuttavia, le classificazioni istopatologiche proposte attualmente forniscono informazioni clinicamente utili
soltanto in una minoranza dei casi. Per tale motivo la biopsia endomiocardica è generalmente riservata ai
pazienti con una cardiomiopatia rapidamente progressiva e refrattaria alla terapia standard o con una
cardiomiopatia di origine sconosciuta associata a progressiva alterazione del sistema di conduzione o
aritmie ventricolari minacciose per la vita.
Figura 19 – Elettrocardiogramma di un giovane paziente di 25 anni affetto da miocardio.pericardite acuta. Sono presenti tachicardia
e sopralivellamento del diffuso tratto ST.
Figura 20 – Risonanza magnetica di un paziente con miocardite acuta. Le frecce indicano edema miocardico nelle immagini T2
pesate con soppressione del grasso, in proiezione in asse lungo (A) e asse corto (B).
Figura 21 – Interstizio miocardico con abbondante edema ed infiltrato infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi con distruzione
focale di miociti.
STORIA NATURALE
La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le miocarditi che simulano
un infarto del miocardio evolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I
pazienti che esordiscono con scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione
miocardica (frazione di eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi. In una
piccola percentuale di soggetti, tuttavia, la miocardite può avere inizio con una funzione sistolica
gravemente depressa (frazione di eiezione del ventricolo sinistro minore del 35%) e in tal caso la metà circa
dei pazienti evolve verso lo scompenso cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo
nel rimanente 25% si assiste ad un progressivamente miglioramento della funzione ventricolare.
Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni nelle forme che alla
biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La presentazione clinica caratterizzata da sincope,
disturbo della conduzione intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è
gravata da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto.
TERAPIA
La terapia della miocardite è principalmente di supporto. Solo i pazienti che si presentano con un quadro di
scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci
inotropi positivi, diuretici, e vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia
dovrebbe includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica (III e IV classe
funzionale NYHA), un diuretico.
Risultati non ancora univoci suggeriscono l’impiego di farmaci immunosoppressori nelle miocarditi. Al
momento questo tipo di terapia non è da considerare di scelta nella gestione routinaria di questi pazienti,
sebbene dati incoraggianti siano stati ottenuti in quelli con miocardite a cellule giganti.
Capitolo 34
ENDOCARDITE INFETTIVA
DEFINIZIONE
Questa malattia è stata nota, per molti decenni, con i termini di endocardite lenta o di endocardite
batterica subacuta, che definiscono il primo l’andamento abitualmente, ma non necessariamente, torpido
ed il secondo l’eziologia batterica della maggior parte dei casi.
Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già precedentemente leso, per lo più
sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano
attraverso la lesione stessa (endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di
microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle piastrine (endocardite
infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie.
Oltre che sulle valvole, le colonie si localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di
Botallo o sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di
dispositivi intracardiaci come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti.
EZIOLOGIA
Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere causa della malattia,
non più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi.
Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi, pneumococchi o
enterococchi; nei tossicodipendenti lo stafilococco aureo è presente nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la
candida.
I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali, meno spesso cute. Essi
aderiscono ai trombi nella quasi totalità dei casi, eccetto lo stafilococco aureo che può colpire direttamente
l’endotelio sano. Una patologia cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi,
ma la frequenza di complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è variabile: il rischio è
massimo nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite dalla persistenza del dotto arterioso e dai
difetti del setto ventricolare, mentre è minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola
mitralica. Nei portatori di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia che ha
richiesto l’inserzione della protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti che fanno uso di siringhe non
sterili con trasferimento della droga a più persone, la sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più
gravi sono la localizzazione mitralica od aortica.
I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre strumentali sulla bocca (estrazioni dentarie) o
dopo endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie, cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a
permanenza nelle vene, raramente a causa di infezioni cutanee o ustioni.
ANATOMIA PATOLOGICA
I germi si localizzano nelle strutture sopra ricordate in presenza di endotelio non normale (quello intatto è
assai resistente all’impianto di microrganismi) dal lato della cavità a minore pressione (per esempio, sulla
faccia atriale dei lembi mitralici). Si depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che
formano le “colonie”, mescolati a globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del tessuto
valvolare. A volte i germi si moltiplicano in modo violento, formando vere e proprie ulcerazioni, ma più
spesso la moltiplicazione è lenta.
Poiché le vegetazioni (Figura 1 ho provato ad aprire e dice ‘immagine non ancora disponibile) sono
costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente, comportando la reimmissione in circolo del
materiale che comprende i microrganismi (batteriemia), e provocando nuove localizzazione in vari organi e
tessuti: cute, mucose, reni, milza, cervello.
PATOGENESI
Le caratteristiche del quadro clinico e gli studi sperimentali hanno dimostrato che le manifestazioni della
malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre meccanismi attivi simultaneamente: 1) le
conseguenze della infezione; 2) le metastasi trombo-emboliche; 3) le alterazioni immunologiche. Le
conseguenze dell’infezione sono legate alla tossicità dei microrganismi ed alla intensità della loro
propagazione ai vari organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità delle vegetazioni,
colpiscono in modo particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la conseguenza della
stimolazione del sistema immunitario da parte dei germi, con formazione di autoanticorpi.
QUADRO CLINICO
I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici: tra quelli generali la
febbre di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori a 39°, compare nell’80-90% dei casi,
mancando solo negli immunocompromessi o nei grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza,
perdita di peso e malessere; meno comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare
la comparsa di nuovi soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, ed indica la valvola
interessata. La tachicardia è presente nella metà dei casi. La splenomegalia, oggi che la terapia antibiotica è
disponibile, è rilevabile in non più del 50% dei casi, essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi,
sono riscontrabili petecchie nelle congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno
frequentemente si osservano i noduli di Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili alle
estremità delle dita e di durata da molte ore a pochi giorni. Le conseguenze emboliche della malattia
comprendono: le macchie di Janeway, manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o
le piante dei piedi (7-10% dei malati), l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria
retinica; più rari gli ascessi embolici cerebrali con sindrome neurologica di focolaio.
Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali (insufficienza renale da
glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o
di anticorpi antisarcolemmatici ed antiendocardio.
Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da rottura di corde tendinee, l’emorragia cerebrale da
rottura di emboli micotici, lo shock settico, l’insufficienza renale, che può riconoscere più meccanismi,
compresa la terapia antibiotica in eccesso o con farmaci nefrotossici.
Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi neutrofila, aumento della
velocità di sedimentazione. Di estrema utilità è l’esecuzione di ripetute emoculture, volte all’isolamento del
germe responsabile. L’emocultura conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e
permette di iniziare una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della
emocultura, ma in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso poco patogeni,
l’emocultura può non essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo.
Dati di notevole importanza offre l’ecocardiografia, per via transtoracica e sopratutto transesofagea: tale
esame è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto di endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle
vegetazioni aderenti alle valvole o alle altre sedi della infezione, sotto forma di ammassi translucidi (ECO
39,ECO 40,ECO 41,ECO 42,ECO 43). L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei casi, per cui è la
prima ricerca da eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è obbligatoria nel
sospetto fondato di endocardite se l'ecocardiografia transtoracica è negativa. Il significato prognostico delle
vegetazioni è piuttosto controverso, anche se il rischio embolico è particolarmente frequente se le
vegetazioni sono voluminose. Durante il decorso, le vegetazioni mostrano, quando la malattia tende alla
guarigione, una riduzione, sino alla loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate, anche a
lungo termine, negli altri. In presenza di complicanze, ascessi dell'anello valvolare, aneurismi micotici dei
seni di Valsalva, fistole, e così via, l'ecocardiografia è di grande valore.
Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono di solito dati utili alla
diagnosi dell’endocardite infettiva.
Riconoscimento della malattia. Gli aspetti polimorfi della endocardite, specie oggi, visto che la terapia
antibiotica ha modificato il quadro clinico, hanno sempre fornito difficoltà non piccole, per cui si è presto
ricorsi alla ricerca di criteri di certezza. Oggi i criteri della Duke University (Tabella I), che classifica i dati
disponibili in maggiori e minori, sono seguiti quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e
tre minori o, in modo meno attendibile, cinque minori, sono considerati necessari per la diagnosi definiva.
La difficoltà di riconoscimento della malattia, favorita dalla dimenticanza del postulato di Osler “qualsiasi
processo febbrile che dura più di 5 giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva” rende spesso
tardivo il riconoscimento, per cui la diagnosi viene raggiunta dopo oltre due mesi, anche per la difficoltà di
distinguere la malattia da altre patologie infettive e no, tra cui il lupus eritematoso, la brucellosi, la
tubercolosi polmonare, le glomerulonefriti, le vasculiti, i tumori.
Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e nella prognosi
dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia cardiaca. In assenza di
trattamento, l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il 90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può
guarire se la terapia, medica o chirurgica, è ben condotta. Chiaro è che una terapia iniziata tardivamente
può portare alla compromissione della situazione cardiaca, soprattutto a un aggravamento di lesioni
valvolari preesistenti.
CENNI DI TERAPIA
La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e sulla dimostrazione
della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto con i dosaggi
massimi del farmaco e per via endovenosa, in modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le
24 ore. In caso di risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è
possibile il trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può iniziare una terapia
empirica a largo spettro, che comprenda un macrolide ed un antibiotico attivo sui gram negativi a dosi
elevate e, possibilmente, sostituito dalla terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il
microrganismo responsabile.
La terapia chirurgica ha ben precise indicazioni, e può essere impiegata nelle seguenti condizioni:
infezioni incontrollate dai farmaci, dopo due settimane, in presenza di germi particolari, quali stafilococco
aureo nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo pseudomonas o talune infezioni fungine;
mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca;
ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie ricorrenti;
Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti batteriemia (vedi sopra),
queste dovrebbero essere precedute e seguite immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram
positivi o negativi secondo le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del
rischio, ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui la possibilità
di una batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato respiratorio o dentario, l’amoxacillina è
abitualmente adeguata, ma può essere sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di
intolleranza: per le manovre comportanti il rischio di germi gran negativi, la gentamicina è il farmaco più
largamente impiegato.
Capitolo 35
Anche il cuore, seppur raramente, può essere colpito da tumori, ma la loro malignità è legata più a fattori
emodinamici che biologici.
Va detto innanzitutto che le neoplasie secondarie (metastasi al cuore) sono molto più frequenti che le
neoplasie primitive, con un rapporto di circa 10:1. I tumori maligni che più frequentemente metastatizzano
al cuore sono il cancro del polmone, seguito da quello renale, del laringe, della mammella, del fegato e dai
linfomi-leucemie. L’interessamento del cuore nel carcinoma polmonare avviene per lo più sotto forma di
diffusione pericardica (“carcinosi pericardica”) e la diagnosi può essere fatta con un esame citologico del
liquido pericardico.
Per quanto concerne i tumori primitivi del cuore, le forme benigne sono di gran lunga più frequenti (90%)
rispetto a quelle maligne (10%).
Fra i tumori benigni, primeggia il mixoma: tre su quattro neoplasie benigne del cuore e del pericardio sono
costituite da mixomi.
Colpisce le donne nei due terzi dei casi, per lo più in una fascia d’età fra i 40 e i 70 anni. Rari sono i mixomi
in età pediatrica.
La presentazione clinica è varia. Prevalgono i sintomi di ostruzione al transito ematico, con dispnea e
sincope nei mixomi atriali sinistri (Figura 1) e perfino morte improvvisa in quelle masse che si impegnano e
si intrappolano nell’orifizio mitralico. La superficie friabile, specie nelle forme villose, può dar luogo ad
embolie, che possono essere il sintomo di esordio (Figura 2) anche in neoplasie di piccole dimensioni. Il
peso può variare da una decina a oltre 100 grammi, e le dimensioni essere tali da occupare quasi tutta la
cavità atriale.
La produzione da parte del tumore di interleuchina rende ragione dei cosidetti sintomi costituzionali:
febbricola, astenia, dolori osteo-articolari, malessere.
Infine, esistono i mixomi cosiddetti “silenziosi” che non danno segni di sé e rappresentano un reperto
occasionale autoptico o, oggi molto più frequentemente, ecocardiografico incidentale. L’evoluzione
naturale di questi mixomi silenziosi può essere con gli anni la trasformazione calcifica (“litomixoma”).
La terapia è costituita dalla resezione chirurgica in circolazione extracorporea. L’asportazione della base di
impianto del setto interatriale previene la possibilità di recidive.
Il papilloma endocardico, detto anche fibroelastoma papillare, rappresenta la seconda più frequente
neoplasia cardiaca benigna (Figura 3). Tumore prevalentemente di piccole dimensioni (1-2 cm), è costituito
da papille con asse fibroelastico, per cui a differenza del mixoma non è friabile. Cresce più spesso
dall’endocardio delle valvole cardiache, ma anche da quello murale, ed ha una crescita endocavitaria. La
sintomatologia è dovuta alla potenzialità emboligena, soprattutto per le stratificazioni trombotiche che si
sovrappongono. Se localizzato nelle cuspidi sigmoidi aortiche, può incunearsi negli osti coronarici e dare
morte improvvisa.
La diagnosi è ecocardiografica, ma può non essere visibile se di piccole dimensioni. Se situato nel settore
sinistro del cuore, l’asportazione chirurgica è d’obbligo per la potenzialità emboligena.
Un tumore cardiaco benigno tipico dell’infanzia è il rabdomioma. Presenta una crescita più frequentemente
intramurale ma anche endocavitaria con sintomatologia ostruttiva neonatale ed è da considerarsi un
amartoma, in quanto costituito da cardiomiociti carichi di glicogeno. Diagnostica è la cosiddetta “spider
cell”, ovvero l’aspetto a ragno del cardiomiocita con accumulo di glicogeno e dispersione a ragnatela dei
miofilamenti. Frequente è l’associazione del rabdomioma con la sclerosi tuberosa.
Il fibroma è un’altra tipica forma di tumore cardiaco benigno. È classicamente a crescita intramurale e può
assumere anche dimensioni gigantesche, che possono impedire la sua enucleazione chirurgica e imporre un
trapianto (Figura 4). Trattasi di una fibromatosi del cuore in quanto la proliferazione connettivale ingloba i
miociti residui. Caratteristiche all’istologia sono le calcificazioni. La sintomatologia può anche essere
ostruttiva quando le grosse dimensioni obliterano la cavità. Frequenti le aritmie da circuito di rientro, con
rischio di morte improvvisa elettrica.
Da segnalare, fra gli altri tumori benigni del cuore, il lipoma del setto interatriale e il tawarioma, ovvero il
tumore cistico del nodo atrioventricolare (nodo di Tawara), di derivazione celomatica pericardica, che si
può manifestare con blocco atrioventricolare.
Le neoplasie maligne primitive del cuore (sarcomi) sono rare e si originano sia dalla componente
parenchimale che mesenchimale. Sono per lo più a crescita intramurale infiltrante (angiosarcoma,
rabdomiosarcoma), ma possono anche avere una prevalente crescita endocavitaria e simulare un mixoma
(leiomiosarcoma, fibroistiocitoma). Si impone in questi casi l’esame istologico di tutte le masse resecate
chirurgicamente, anche quelle che mimano un mixoma, perché possono riservare sorprese con aspetti di
malignità ed avere pertanto una prognosi infausta. Nelle neoplasie a crescita endocavitaria, la diagnosi può
essere conseguita senza toracotomia chirurgica, attraverso la biopsia endomiocardica.
Il controllo istologico delle masse resecate chirurgicamente o prelevate con la biopsia può rivelare una
natura diversa da quella neoplastica: trombi (compresa la endocardite fibroplastica parietale di Loeffler
della sindrome eosinofila) o infezioni (batteriche, fungine, protozoarie quali le cisti da echinococco).
Capitolo 36
DEFINIZIONE
Le Aritmie sono state classicamente definite come alterazioni della formazione e/o della conduzione
dell’impulso. Secondo una definizione più recente Aritmia è ogni situazione non classificabile come ritmo
cardiaco normale, inteso come ritmo ad origine dal nodo del seno, regolare e con normale frequenza e
conduzione.
CLASSIFICAZIONE
Una task force Italiana, incaricata nel 1999 di rivedere la classificazione delle Aritmie, ha affermato
l’opportunità di abbandonare definitivamente la vecchia nomenclatura, che divideva la aritmie in
ipercinetiche e ipocinetiche. Questi termini non andrebbero più impiegati per due ordini di motivi: da un
lato essi utilizzano la parola “cinetica”, che di solito esprime il movimento delle pareti del cuore più che il
ritmo stesso, per cui possono essere fonte di confusione, e dall’altro divergono nettamente da quelli
utilizzati oltre i confini d’Italia, rendendo meno semplice la comunicazione fra gli Italiani ed il resto del
mondo.
La classificazione attuale delle Aritmie prevede 3 categorie: Tachicardie, Bradicardie, Battiti ectopici.
MECCANISMI ELETTROGENETICI
Vi sono meccanismi differenti per le tachicardie e i battiti ectopici da un lato, e le bradicardie dall’altro.
Nelle tachicardie e anche nei battiti ectopici prematuri (extrasistoli) gli impulsi nascono quasi sempre al di
fuori dal nodo del seno e sono anticipati rispetto al normale ritmo sinusale, per cui il problema
fondamentale è l’alterata formazione dell’impulso. Nelle bradicardie, invece, il disordine principale riguarda
(tranne che nella bradicardia sinusale) la conduzione più che la formazione dell’impulso.
L’AUTOMATISMO
Esistono nel cuore due popolazioni fondamentali di cellule: quelle segnapassi e quelle di lavoro. Soltanto le
prime possiedono la capacità dell’automatismo, cioè sono in grado di iniziare il processo di
depolarizzazione, che poi si trasmette alle altre cellule. In altri termini, durante la fase 4 il potenziale di
riposo di queste cellule non è costante, a circa -90 mV, ma diviene gradualmente meno negativo fino a
raggiungere il potenziale soglia, in corrispondenza del quale scatta la depolarizzazione rapida (fase 0 del
potenziale d’azione). In altri termini, mentre le cellule di lavoro si attivano solo quando vengono raggiunte
da un impulso esterno, quelle segnapassi (denominate anche cellule pacemaker) vanno incontro a
depolarizzazione diastolica spontanea durante la fase 4. La frequenza con cui le cellule segnapassi generano
gli impulsi dipende dalla pendenza della fase 4 di depolarizzazione diastolica spontanea.
Un segnapassi può incrementare la propria frequenza di scarica con tre diversi meccanismi: l’aumentata
pendenza della fase 4, lo spostamento del livello massimo di polarizzazione diastolica verso valori meno
negativi, lo spostamento del potenziale soglia verso valori più negativi (Figura 1). In alto (pannello 1) è
rappresentata l’aumentata pendenza della fase 4: il potenziale b (tratteggiato) ha una maggiore pendenza
rispetto ad a, e di conseguenza la frequenza di formazione degli impulsi aumenta.
Nel pannello di mezzo (2) viene presentata la differenza fra una cellula polarizzata a -90 mV (potenziale a,
linea continua) e una in cui la polarizzazione è minore, per esempio, -75 mV (potenziale b, linea
tratteggiata). La seconda raggiungerà il potenziale soglia più in fretta, poiché è minore il percorso che
separa il potenziale iniziale dalla soglia, e avrà una frequenza di scarica maggiore rispetto a quella dell’altra.
In basso (3) si può osservare l’effetto dello spostamento della soglia verso valori meno negativi. Se la soglia
si sposta da -60 mV (a) a circa -70 mV (b, linea tratteggiata) la cellula raggiungerà più in fretta il potenziale
soglia e la sua frequenza di scarica aumenterà.
Nel cuore vi sono numerosi pacemaker, ciascuno con il proprio automatismo, espresso dalla frequenza di
scarica potenziale; i segnapassi sono soprattutto contenuti nel sistema di conduzione, particolarmente in
alcune zone degli atri, nel fascio di His, nelle branche e nelle loro diramazioni, nelle cellule di Purkinje; il
nodo del seno è normalmente il segnapassi dominante perché è il più rapido, e il suo impulso,
diffondendosi per tutto il cuore, scarica tutte le altre cellule pacemaker prima che il loro impulso “maturi”,
cioè raggiunga la soglia. Il ritmo fisiologico è, perciò, sinusale.
In condizioni patologiche, altri pacemaker possono prendere il comando perché il loro automatismo, per
uno dei meccanismi sopra descritti, diventa maggiore di quello del nodo del seno: ecco generarsi un battito
ectopico, se il segnapassi diverso dal nodo del seno riesce a guadagnare il comando del cuore una sola
volta, o un ritmo ectopico, nel caso in cui tale segnapassi riesca a depolarizzare il cuore per diversi battiti
consecutivi. Vi sono molte condizioni patologiche in cui l’automatismo di un segnapassi ectopico può essere
esaltato; fra queste la stimolazione simpatica, l’ischemia, l’acidosi, gli squilibri elettrolitici. Inoltre, anche
una cellula che normalmente non ha attività pacemaker, può assumerla in determinate circostanze, per
esempio in corso d’infarto miocardico.
IL RIENTRO
Inteso in senso “classico”, il rientro è il fenomeno in cui un impulso generatosi in una camera torna indietro
a riattivare la camera da cui proveniva. In realtà lo stesso termine si applica quando un impulso torna a
riattivare il tessuto da cui proveniva, indipendentemente dal concetto di “camera”.
Perché il rientro abbia luogo, è necessario che siano contemporaneamente presenti 3 elementi
fondamentali: il circuito, il blocco unidirezionale, la conduzione rallentata.
Il circuito rappresentato nella Figura 2 corrisponde approssimativamente a quello che si realizza nel nodo A-
V. Nello schema vi è una zona ineccitabile al centro (il disco) e due vie (a e ß) che si riuniscono in alto in una
via superiore comune (x) e in basso in una via inferiore comune (y). Un impulso proveniente dalla via
superiore comune penetra in entrambe le vie; poiché la via ß ha una elevata velocità di conduzione,
l’impulso l’attraversa in un tempo breve e raggiunge la via inferiore comune quando ancora la via a, che ha
una bassa velocità di conduzione, è stata percorsa solo in parte. L’impulso che proviene dalla via ß può,
quindi, invadere la via a in senso retrogrado e collidere con il fronte d'onda anterogrado che sta
percorrendo questa via. In questo caso vi è il circuito, ma il rientro non si realizza per la mancanza degli altri
due elementi.
Il blocco unidirezionale viene schematizzato nella Figura 3. Esso si può realizzare perchè le due vie (a e ß),
oltre a possedere una diversa velocità di conduzione, hanno anche un differente periodo refrattario, che è
più lungo per la via rapida ß. Può sembrare strano che in un tessuto l’elevata velocità di conduzione si
associ con un lungo periodo refrattario, mentre un altro tessuto possiede bassa velocità conduttiva e breve
periodo refrattario. In realtà la velocità di conduzione dipende dalla pendenza (Vmax) della fase 0 del
potenziale d’azione, mentre la refrattarietà dipende dalla durata del potenziale d’azione, soprattutto dalle
fasi 2 e 3. E’ quindi comprensibile che una via abbia lungo periodo refrattario ed elevata velocità di
conduzione, mentre l’altra ha periodo refrattario breve e bassa velocità di conduzione.
Nella Figura 3, un impulso prematuro (fulmine) raggiunge simultaneamente le due vie: la via ß è ancora
refrattaria, per cui l’impulso vi si blocca, mentre la via a è già uscita dalla refrattarietà, e riesce a condurre.
L’impulso raggiunge attraverso la via a la via inferiore comune (y), e da qui retroinvade la via ß. Giunto
all’estremità superiore della via ß, però, incontra ancora tessuto in periodo refrattario a causa della
precedente attivazione anterograda, e si blocca. Il rientro, perciò, non avviene, visto che solo due elementi
(il circuito e il blocco unidirezionale) sono presenti.
La conduzione rallentata, rappresentata nella Figura 4, consente infine il realizzarsi del rientro. Qui, a
somiglianza della Figura 3, l’impulso prematuro proveniente dalla via superiore comune si blocca nella via ß
e viene condotto dalla via a; raggiunta la via inferiore comune, poi, retroinvade la via ß. Diversamente da
quanto accadeva nella Figura 3, però, qui l’impulso viene condotto così lentamente che, al momento in cui
esso giunge alla parte prossimale della via ß, questa è già uscita dalla refrattarietà. Questo impulso, perciò,
può “rientrare” nella via x, cioè nel tessuto dal quale proveniva, e contemporaneamente ripercorrere in
senso anterogrado la via a. Il rientro può essere unico, oppure l’impulso può percorrere ininterrottamente il
circuito, dando luogo a una tachicardia da rientro (Figura 4).
Il rientro si può verificare in qualsiasi sede del cuore, tanto negli atri che nella giunzione A-V e nei ventricoli.
Il nodo A-V è la struttura ideale per il realizzarsi del rientro, poiché possiede già in condizioni fisiologiche 2
vie con diversa refrattarietà e velocità di conduzione. Altra situazione in cui si verifica il rientro è la
Sindrome di Wolff-Parkinson-White, nella quale il circuito di rientro comprende una via accessoria di
conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 38). Anche il flutter atriale è un’aritmia da rientro, dovuta a un
macrocircuito che, nella maggior parte dei casi, è contenuto nell’atrio destro.
Nei ventricoli, il rientro si realizza in presenza di fibrosi miocardica, soprattutto in seguito a un infarto:
l’esistenza di aree inattivabili (fibrotiche) all’interno di zone miocardiche eccitabili consente il formarsi di un
circuito, da cui può originare una tachicardia ventricolare.
Figura 2 Il circuito. Il rientro non si realizza perché l’impulso provieniente dalla via beta e retrocondotto
nella via alfa collide con i fronte anterogrado che attraversa la via alfa
Figura 3 Il circuito e il blocco unidirezionale L’impulso prematuro trova la via beta refrattaria e viene
condotto in senso anterogrado solo dalla via alfa. La via beta viene retroinvasa, ma l’impulso giunge alla
zona critica quando questa non ha ancora recuperato l’eccitabilità e vi si blocca
Figura 4 Il circuito, il blocco unidirezionale e la conduzione rallentata. Il rientro si completa perché nella via
a l’impulso viene condotto con un rallentamento sufficiente a permettere che la via ß recuperi l’eccitabilità
prima di essere raggiunta.
Sono stati descritti due tipi di post-potenziali: precoci e tardivi (Figura 5). I post-potenziali precoci si
manifestano nel corso della ripolarizzazione (fasi 2 e 3 del potenziale d'azione), prima che questa si
I post-potenziali tardivi, che si osservano quando la ripolarizzazione si è completata (fase 4), sono
oscillazioni verso la positività del potenziale di membrana, che fanno seguito ad una temporanea
iperpolarizzazione (Figura 5). Quando il post-potenziale tardivo è sufficientemente ampio da raggiungere la
soglia, si genera un nuovo potenziale d'azione. La durata della ripolarizzazione influenza l'ampiezza dei
post-potenziali tardivi: quanto più prolungata è la ripolarizzazione tanto maggiore è il voltaggio dei post-
potenziali tardivi, e di conseguenza tanto più è probabile che si inneschi l'attività triggerata. I farmaci che
prolungano il potenziale d'azione, come la chinidina, possono aumentare l'ampiezza dei post-potenziali
tardivi e rendere più facile lo sviluppo dell'attività triggerata.
Fra le aritmie da post-potenziali vi sono la “Torsione di punte”, una tachicardia ventricolare che si associa in
genere a QT lungo, le aritmie da digitale, quelle da disionia e quelle indotte da catecolamine.
Le bradicardie possono conseguire a due meccanismi (vedi Capitolo 41): ridotta frequenza di formazione
degli impulsi o alterata conduzione di impulsi che si formano con frequenza normale. L’avviatore primario
del cuore è il nodo del seno (il segnapassi dotato di maggiore automatismo), e il sistema di conduzione
trasmette il suo impulso a tutte le cellule miocardiche secondo una sequenza prestabilita e costante.
Diffondendosi per il miocardio, l’impulso sinusale scarica tutti gli altri potenziali segnapassi più lenti, posti
un pò dovunque, prima che essi riescano ad emettere il loro impulso.
Se, tuttavia, il nodo del seno diviene deficitario, tanto da emettere impulsi a frequenza troppo bassa, i
segnapassi secondari possono intervenire, dando inizio alla depolarizzazione del cuore. Questo meccanismo
prende il nome di scappamento, e i complessi atriali e ventricolari così generati vengono detti appunto
battiti di scappamento (vedi Capitolo 37).
Altro possibile meccanismo delle bradicardie è la mancata conduzione degli impulsi sinusali. Il problema
può riguardare la conduzione fra il nodo del seno e l’atrio circostante (blocco seno-atriale) o la trasmissione
dell’impulso dagli atri ai ventricoli (blocco atrio-ventricolare). Anche in queste circostanze possono
intervenire, a depolarizzare il miocardio che l’impulso sinusale non riesce a raggiungere, i segnapassi di
scappamento.
Capitolo 37
BATTITI ECTOPICI
DEFINIZIONE
In condizioni normali, il ritmo cardiaco è governato dal nodo senoatriale, che rappresenta il naturale
pacemaker del cuore e, a intervalli regolari, emette impulsi elettrici che depolarizzano tutto il miocardio
(Figura 1). In particolari condizioni l’attivazione del cuore, o anche di parte di esso, può dipendere da un
impulso che origina in una sede diversa dal nodo senoatriale; in tali casi l’impulso è definito ectopico e il
battito che ne deriva è un battito ectopico.
L’emissione di un impulso ectopico può essere “anticipata” rispetto al momento in cui è atteso il complesso
del ritmo di base; in tali casi si generano dei battiti prematuri detti anche extrasistoli. A seconda della sede
di origine, le extrasistoli possono essere distinte in atriali, giunzionali e ventricolari.
Un battito ectopico può anche manifestarsi “in ritardo” rispetto al momento in cui era atteso un complesso
del ritmo di base; il fenomeno si può verificare quando viene meno il battito normale, per cui un pacemaker
secondario, solitamente “silente” perchè depolarizzato dalla scarica del segnapassi primario, dà origine a un
impulso che attiva il miocardio. Questi complessi ectopici si manifestano dopo un ciclo più lungo di quello di
base e sono definiti battiti di scappamento. Come le extrasistoli, anche i battiti di scappamento possono
essere atriali, giunzionali o ventricolari.
A. Rappresentazione schematica del cuore. L’impulso attiva gli atri, attraversa la giunzione atrioventricolare
e si diffonde ai ventricoli.
CRITERI GENERALI
Le extrasistoli sono un fenomeno molto frequente nella popolazione generale, e possono manifestarsi sia in
pazienti cardiopatici sia in soggetti clinicamente sani. Spesso non provocano sintomatologia alcuna e il loro
riscontro è assolutamente casuale; a volte, tuttavia, sono avvertite dal paziente e rappresentano la più
frequente causa di cardiopalmo. Nella maggior parte dei casi, il paziente percepisce non il battito anticipato
bensì il lungo intervallo che di solito segue il complesso prematuro (pausa postextrasistolica) e lo descrive
come una sensazione di “vuoto”, di “battito mancante” o di “cuore che si ferma”. In altre occasioni, invece,
è il battito del ritmo di base successivo all’extrasistole ad essere avvertito: la pausa postextrasistolica,
infatti, determina un prolungamento della diastole, cioè del tempo di riempimento ventricolare, che
provoca un incremento della gittata sistolica, per cui il battito cardiaco viene sentito dal paziente come un
“colpo”, un “tonfo” o un “senso di calore al volto”.
Alla palpazione del polso, l’extrasistole viene avvertita come un battito anticipato seguito da una pausa o,
non di rado, come un “battito mancante”; infatti, se l’extrasistole è molto precoce e la diastole è breve, il
ventricolo sinistro si contrae mentre contiene pochissimo sangue e la gittata sistolica è così ridotta da non
generare un’onda sfigmica apprezzabile al polso.
In presenza di battiti prematuri è necessario analizzare all’ECG alcuni elementi necessari per una diagnosi
corretta e una completa valutazione del fenomeno.
Le extrasistoli presentano generalmente una morfologia differente da quella dei battiti del ritmo di base.
L’attivazione della camera cardiaca in cui ha origine l’extrasistole, infatti, inizia in un punto diverso e
procede con una sequenza differente rispetto a quanto si verifica in condizioni normali; ciò determina nei
complessi prematuri un aspetto dell’onda P e/o del QRS differente rispetto a quello dei battiti sinusali. In
molti casi, specie in soggetti esenti da cardiopatia, i complessi prematuri sono uguali tra loro (extrasistoli
monomorfe); non di rado, però, la loro morfologia è variabile (extrasistoli polimorfe).
Questo intervallo, detto copula, è generalmente costante o presenta minime oscillazioni per battiti
prematuri che hanno la stessa origine; ciò suggerisce che l’emissione dell’impulso prematuro sia in qualche
modo legata alla precedente depolarizzazione dovuta al ritmo di base. Quando la copula è molto breve
l’extrasistole è detta precoce, in caso contrario è detta tardiva; se la durata della copula è solo di poco
inferiore a quella del ciclo di base, cosicché il complesso prematuro si manifesta appena prima del battito
del ritmo di base, l’extrasistole si definisce telediastolica. A volte, battiti prematuri con identica morfologia
mostrano una copula notevolmente variabile; in questi casi è molto probabile che l’impulso ectopico origini
da un focus la cui attività sia indipendente da quella del ritmo di base e proceda secondo un ritmo proprio.
Il fenomeno è definito parasistolia.
Il ciclo cardiaco successivo a un complesso prematuro è generalmente più lungo di quello del ritmo di base
ed è definito pausa postextrasistolica. A seconda della durata, questa può essere compensatoria o non
compensatoria. Nel primo caso, frequente soprattutto nelle extrasistoli ventricolari, la somma tra la durata
della copula e quella della pausa equivale al doppio del ciclo di base, cosicché l’accorciamento del ciclo
cardiaco provocato dall’extrasistole è perfettamente “compensato” dalla pausa successiva.
Quando la pausa è non compensatoria la somma della sua durata con quella della copula è inferiore al
doppio di un ciclo di base. Il fenomeno è frequente nelle extrasistoli sopraventricolari, ma a volte si può
osservare anche dopo un battito prematuro ventricolare.
Nella maggior parte dei casi, le extrasistoli sono isolate (un solo complesso ectopico si manifesta tra due
battiti del ritmo dominante) ma, a volte, possono essere ripetitive e presentarsi sotto forma di coppia (due
battiti ectopici consecutivi non separati da complessi del ritmo di base) o di tripletta (tre extrasistoli
consecutive). La tripletta configura già una tachicardia non sostenuta (sopraventricolare o ventricolare).
EXTRASISTOLI ATRIALI
Gli impulsi atriali prematuri sono generalmente condotti ai ventricoli in modo analogo a quanto avviene nei
complessi di origine sinusale; tuttavia è possibile che, a causa della loro prematurità, trovino parte del
sistema di conduzione ancora in stato di refrattarietà e vadano incontro a un rallentamento o blocco della
conduzione. Il più delle volte è il nodo A-V a non avere ancora totalmente recuperato la propria eccitabilità
e gli impulsi prematuri atriali possono essere condotti ai ventricoli con un intervallo PR prolungato rispetto
a quello dei complessi di base o, se molto precoci, possono addirittura bloccarsi nella giunzione
atrioventricolare e, in tal caso, la P prematura non è seguita da un QRS (extrasistole atriale non condotta).
In altre occasioni, invece, il rallentamento o blocco della conduzione interessa il sistema di Purkinje e le
extrasistoli atriali sono condotte con un blocco di branca (extrasistoli atriali condotte con aberranza).
(Figura 6)
I battiti prematuri atriali sono una delle cause più comuni di irregolarità del ritmo cardiaco, anche se spesso
il loro riscontro è casuale; in genere, richiedono un trattamento solo nei casi in cui sono scarsamente
tollerati dal paziente o quando costituiscono un potenziale meccanismo di innesco di aritmie maggiori,
quali il flutter e/o la fibrillazione atriale.
A. Un impulso prematuro origina negli atri, li attiva, depolarizza il nodo senoatriale e si diffonde ai
ventricoli.
B. L’ECG schematico mostra un’extrasistole atriale (freccia). Nel diagramma a scala l’impulso prematuro
attiva i ventricoli e depolarizza il nodo del seno. L’impulso sinusale successivo emerge dopo 110 centesimi
di secondo, (ciclo sinusale più il tempo impiegato dall’impulso ectopico per raggiungere e depolarizzare il
nodo senoatriale).
L’extrasistole atriale è indicata con una freccia; la P prematura è ben visibile in V1, mentre in V2 è
scarsamente visibile perchè nascosta nella branca discendente dell’onda T precedente. La pausa
postextrasistolica è non compensatoria.
Il quarto e il sesto complesso sono extrasistoli atriali. Le P premature (indicate con frecce) si inscrivono
sull’apice dell’onda T dei complessi che precedono i QRS prematuri. Le extrasistoli atriali sono separate da
un solo battito sinusale e, pertanto, hanno cadenza bigemina.
Il quarto, quinto e sesto QRS sono una tripletta di extrasistoli atriali. La prima onda P prematura (freccia)
deforma l’onda T precedente, la due P premature successive sono meno evidenti perché nascoste nei
complessi che le precedono.
Il quarto QRS è anticipato e ha una morfologia differente rispetto ai complessi sinusali; è preceduto da
un’onda P prematura (freccia) e, pertanto, la diagnosi corretta è di extrasistole atriale con conduzione
intraventricolare aberrante.
EXTRASISTOLI GIUNZIONALI
Questi impulsi prematuri hanno origine nel fascio di His, prima della sua suddivisione nelle branche, e sono
considerati sopraventricolari dal momento che la diffusione dell’impulso all’interno dei ventricoli procede
in modo analogo a quella degli impulsi sinusali o atriali. (Figura 7)
assenza di rapporti tra il QRS prematuro e la P sinusale. L’onda P, infatti, può precedere il QRS
extrasistolico, ma a una distanza più breve del normale e non compatibile con la conduzione A-V, oppure
può coincidere con il complesso ventricolare o anche manifestarsi immediatamente dopo di esso. In altri
casi, invece, l’impulso prematuro attiva gli atri prima dell’impulso sinusale e si manifesta un’onda P dovuta
alla retroconduzione dell’impulso giunzionale agli atri; in questo caso la P retrocondotta può precedere,
seguire o anche coincidere con il QRS prematuro.
A. Un impulso prematuro hissiano si diffonde ai ventricoli; in via retrograda, può collidere con l’impulso
sinusale.
B. Un’extrasistole giunzionale si manifesta dopo la terza P sinusale. Il QRS è dissociato dalla P precedente
(l’intervallo tra le due onde è più breve del normale e non compatibile con la normale conduzione). Nel
diagramma a scala, si osserva come l’impulso giunzionale può collidere con quello emesso dal nodo del
seno.
EXTRASISTOLI VENTRICOLARI
mancanza di rapporti precisi tra i QRS prematuri e le onde P sinusali o, in alternativa, comparsa di onde P
retrocondotte che seguono i QRS extrasistolici;
La diagnosi delle extrasistoli ventricolari è meno semplice quando il ritmo di base è una fibrillazione atriale
e le onde P sono assenti. In questo caso, infatti, l’improvvisa comparsa di QRS larghi, differenti da quelli di
base, potrebbe essere l’espressione di una conduzione aberrante degli impulsi sopraventricolari e non di
un’origine ventricolare dei QRS.
A volte asintomatiche, le extrasistoli ventricolari sono in genere più facilmente causa di cardiopalmo di
quelle sopraventricolari soprattutto per la lunga pausa postextrasistolica che le caratterizza. La loro
prognosi dipende dal contesto clinico: generalmente è favorevole nei soggetti esenti da cardiopatia, nei
quali può non essere necessario alcun trattamento specifico, viceversa può essere sfavorevole in presenza
di una cardiopatia, in particolar modo nel corso di eventi ischemici acuti.
A. Un impulso prematuro origina nei ventricoli e li attiva. L’impulso extrasistolico penetra solo parzialmente
nella giunzione atrioventricolare ancora refrattaria. L’impulso sinusale successivo si arresta a sua volta nella
giunzione atrioventricolare.
B. L’ECG schematico mostra un’extrasistole ventricolare (freccia). Nel diagramma a scala la barra
orizzontale nella giunzione AV esprime la durata del periodo refrattario seguente il passaggio dell’impulso
ectopico.
Il terzo complesso è un’extrasistole ventricolare (freccia); il QRS anticipato, slargato, non è preceduto da
un’onda P. Subito dopo il QRS prematuro, è riconoscibile l’onda P sinusale dissociata dal QRS extrasistolico.
La pausa è compensatoria.
Il terzo e il quinto complesso, prematuri, slargati sono extrasistoli ventricolari bigemine. La prima è
telediastolica, dissociata dalla precedente P sinusale; la seconda, viceversa, è più precoce e precede l’onda
P che si può riconoscere nel tratto ST del complesso extrasistolico.
I BATTITI DI SCAPPAMENTO
Scappamento atriale
La diagnosi si basa sulla presenza di un’onda P differente da quella sinusale, che si inscrive al termine di un
intervallo più lungo del ciclo di base.
Può essere riconosciuto per la presenza di QRS identici a quelli del ritmo di base, che si manifestano al
termine di intervalli più lunghi di quello sinusale e non sono preceduti da un’onda P. A volte la P sinusale
compare prima dello scappamento giunzionale, ma con un intervallo molto breve, incompatibile con la
conduzione A-V.
E’ facilmente riconoscibile per la comparsa di un QRS largo, differente da quelli del ritmo di base, al termine
di un intervallo relativamente lungo, più del ciclo sinusale. Analogamente a quanto accade per lo
scappamento giunzionale, la P sinusale può essere riconoscibile ma appare dissociata dal QRS di
scappamento, oppure manca, ed è sostituita da una P retrocondotta.
A. Il nodo del seno non scarica al momento atteso e un pacemaker hissiano prende il comando. L’impulso
giunzionale attiva i ventricoli e, in via retrograda, gli atri.
B. I primi due complessi sinusali sono seguiti da una pausa che è interrotta da un battito giunzionale; il QRS
di scappamento è seguito da una P retrocondotta (freccia). Nel diagramma sottostante, in A, il cerchio
indica il momento della mancata scarica senoatriale.
Figura 12 Extrasistole ventricolare seguita da uno scappamento giunzionale; derivazione V1. Al termine
della pausa postextrasistolica, un’onda P è seguita da un QRS, identico a quelli sinusali, a una distanza
nettamente inferiore alla durata dell’intervallo PR dei battiti sinusali. Ciò indica che P e QRS sono dissociati
e che i ventricoli sono stati attivati da un segnapassi secondario giunzionale.
A. L’impulso sinusale si blocca nella giunzione; un pacemaker secondario ventricolare prende il comando.
Nell’esempio, l’impulso di scappamento non retroattiva gli atri.
B. L’impulso corrispondente alla terza P va incontro a un blocco; la pausa seguente é interrotta da uno
scappamento ventricolare. Nel diagramma a scala, in V, un punto indica la scarica del pacemaker
secondario; in AV, la barra orizzontale esprime la durata del periodo refrattario seguente il passaggio
dell’impulso di scappamento.
Capitolo 38
DEFINIZIONE
Si definisce tachicardia parossistica sopraventricolare (TPS) una sindrome clinica caratterizzata da una
tachicardia rapida e regolare, con improvviso inizio ed improvvisa interruzione. La maggior parte delle TPS è
dovuta ad un meccanismo di rientro (vedi Capitolo 36), che può realizzarsi nel nodo atrio-ventricolare
(tachicardia da rientro nodale) oppure in un circuito che include atri, ventricoli, il normale sistema di
conduzione (nodo AV, Fascio di His, Branche ) ed una connessione atrio-ventricolare anomala (tachicardia
da rientro atrio-ventricolare).
La tachicardia da rientro nodale rappresenta i 2/3 circa di tutte le TPS e si riscontra nel 2-3% della
popolazione generale. La sua più comune manifestazione avviene nel quarto decennio di vita. Colpisce
prevalentemente il sesso femminile (rapporto 2:1).
Fisiopatologia
Alla base di questa tachicardia vi è un rientro intranodale dovuto alla dissociazione longitudinale del nodo
in una via rapida e una via lenta (Figura 1). Il rientro si può realizzare perché le due vie sono caratterizzate
da una diversa velocità di conduzione (nella via rapida la conduzione è più veloce) e un differente periodo
refrattario, che è più breve nella via lenta. Durante ritmo sinusale, l’impulso percorre entrambe le vie
(Figura 2A). La via rapida verrà attraversata in un tempo più breve e raggiungerà la via inferiore comune
quando la via lenta è stata attivata solo in parte. L’impulso che proviene dalla via rapida può, quindi,
percorrere la via lenta in senso retrogrado e collidere con il fronte d’onda anterogrado che sta percorrendo
questa via (vedi Capitolo 36). L’impulso sinusale, pertanto attiva i ventricoli soltanto attraverso la via
rapida, e l’intervallo P-R, espressione del tempo di conduzione atrio-ventricolare, sarà breve.
Un impulso prematuro (extrasistole) atriale può incontrare la via rapida nel periodo refrattario e bloccarsi,
mentre la via lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile (Figura 2B). L’impulso che percorre la via
lenta raggiunge la via inferiore comune e può invadere in senso retrogrado la via rapida: a causa del lungo
tempo che l’impulso ha impiegato a percorrere la via lenta, la via rapida sarà uscita completamente dalla
refrattarietà e potrà, essere percorribile in senso retrogrado (Figura 2C). L’impulso può, quindi, raggiungere
gli atri e contemporaneamente invadere il fascio di His progredendo verso i ventricoli. Se questo
meccanismo si mantiene, si instaura una tachicardia da rientro nodale.
L’impulso atriale prematuro che scatena il rientro si associa ad un marcato allungamento dell’intervallo PR
(“salto” della conduzione dalla via rapida alla via lenta). La tachicardia da rientro con conduzione
anterograda lungo la via lenta e retrograda lungo la rapida viene definita di tipo “comune”.
Caratteristiche cliniche
I pazienti con una TPS da rientro nodale possono lamentare cardiopalmo ritmico ad insorgenza improvvisa,
non correlata con eventi particolari, ed interruzione altrettanto brusca. Talora presentano lipotimie o, in
presenza di elevata risposta ventricolare dispnea, angina, sincope. Un sintomo non infrequente è la poliuria
pallida, dovuta ad aumentata increzione di peptide natriuretico atriale durante la tachicardia.
Elettrocardiogramma
La tachicardia da rientro nodale è caratterizzata da QRS stretti con intervalli R-R costanti, a frequenza in
genere compresa tra 120 e 200/m’. Nella forma tipica l’onda P è nascosta nel QRS, poiché atri e ventricoli si
attivano simultaneamente, o può essere inscritta appena prima o appena dopo il complesso QRS simulando
un’onda r’ in V1 o una pseudo-s nelle derivazioni II, III e aVF (Figura 3).
Terapia
L’interruzione della tachicardia da rientro nodale si ottiene stimolando il vago in modo da indurre il blocco
dell’impulso in una parte del circuito. Poiché la persistenza della tachicardia dipende dall’ininterrotto
circolare dell’impulso, l’impossibilità del fronte d’onda a proseguire il suo percorso corrisponde al cessare
della tachicardia. Le manovre che incrementano il tono vagale come la manovra di Valsalva, il massaggio
del seno carotideo, il conato di vomito, l’immersione del viso in acqua fredda, sono utili e di solito
rappresentano il primo tentativo per l’interruzione dell’aritmia. Se le manovre vagali sono inefficaci si
possono utilizzare farmaci somministrati per via venosa, fra i quali l’adenosina, il Verapamil e gli antiaritmici
della Classe 1C (vedi Capitolo 58).
Nel trattamento a lungo termine della tachicardia da rientro nodale l’approccio di scelta è l’ablazione
transcatetere (vedi Capitolo 61), ottenuta erogando energia a radiofrequenza sulla via nodale lenta
attraverso un catetere ablatore posto in corrispondenza del triangolo di Koch (area compresa tra seno
coronarico, tendine di Todaro e lembo settale della tricuspide).
Figura 1 Rappresentazione schematica della doppia via nodale. VCS: vena cava superiore; Nodo AV: Nodo
atrio-ventricolare; SC: seno coronarico; VCI: vena cava inferiore.
Figura 2 Schema raffigurante il nodo A-V con le due vie, a (via lenta) e ß (via rapida).
B: Un impulso prematuro (extrasistole) incontra la via rapida nel periodo refrattario e si blocca mentre la
via lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile.
C: L’impulso che percorre la via lenta raggiunge la via inferiore comune dirigendosi verso i ventricoli ma
invade in senso retrogrado la via rapida.
Le vie anomale di conduzione atrio-ventricolare forniscono il substrato per queste tachicardie reciprocanti,
che vengono distinte in ortodromiche e antidromiche.
Fisiopatologia
Le vie accessorie sono connessioni atrio-ventricolari anomale congenite, derivanti da una incompleta
separazione dell’atrio dal ventricolo primitivo da parte dell’anello fibroso durante lo sviluppo embrionale
del cuore. Normalmente la comunicazione elettrica fra atri e ventricoli è affidata solo al sistema di
conduzione (nodo A-V, fascio di His, branche), mentre in alcuni soggetti esiste un’altra (a volte più di una)
via di conduzione che connette direttamente l’atrio al ventricolo: il fascio di Kent (Patologia 44). La
presenza di due vie crea un circuito che comprende l’atrio, il nodo A-V, il fascio di His, una branca, un
ventricolo e il fascio di Kent (Figura 4): è quindi possibile lo scatenarsi di una tachicardia da rientro, definita
atrio-ventricolare poiché sia l’atrio che il ventricolo fanno parte del circuito.
Il fascio di Kent è formato da miocardio comune, cioè da fibre rapide Na dipendenti, per cui possiede una
velocità di conduzione maggiore rispetto alla via nodo-hissiana, ed è in grado di trasmettere l’impulso sia in
senso anterogrado che retrogrado; in diversi casi, tuttavia, la conduzione è solo retrograda. Durante ritmo
sinusale, la via accessoria riesce a depolarizzare una parte più o meno grande dei ventricoli prima che
questi vengano raggiunti dall’impulso condotto attraverso il normale sistema di conduzione. Si realizza così
il quadro della preeccitazione, caratterizzata da intervallo P-R breve, onda delta e QRS largo (vedi Capitolo
3) (ECG 37). Quando a questi caratteri ECG si associa la tachicardia parossistica sopraventricolare da rientro
A-V, si delinea la sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW).
Caratteristiche cliniche
La maggior parte dei pazienti con tachicardia sopraventricolare da rientro atrio-ventricolare non presenta
cardiopatie organiche sottostanti. Tuttavia, in circa il 20% dei bambini con preeccitazione è possibile
riscontrare una cardiopatia congenita (anomalia di Ebstein, vedi Capitolo 53).
I pazienti in genere lamentano cardiopalmo ritmico o aritmico, talora associato a dispnea o sincope. La
tachicardia, spesso correlata allo sforzo, insorge e si risolve improvvisamente.
Elettrocardiogramma
A ritmo sinusale l’ECG può presentare i segni della preeccitazione o essere normale. Durante tachicardia
ortodromica il QRS è generalmente stretto, gli intervalli RR sono regolari, e l’onda P si localizza nel tratto ST
o nell’onda T, con intervallo RP > 70 msec.
Durante tachicardia antidromica, invece, il QRS è largo come nelle tachicardie ventricolari, e la morfologia
del QRS è simile a quella che si ha durante preeccitazione massima.
In circa il 10% dei pazienti con Sindrome di WPW compare una fibrillazione atriale (Figura 5). In questi è
possibile che per la rapida conduzione degli impulsi di fibrillazione lungo la via accessoria si raggiunga
un’alta frequenza ventricolare, che può degenerare in fibrillazione ventricolare.
Terapia
44 - Sindrome di Wolff-Parkinson-White
derivazioni precordiali del tracciato ECG che evidenziano l’onda delta da peeccitazione ventricolare;
esame istologico seriato dell’anello ventricolare sinistro che conferma la presenza di una via accessoria
atrioventricolare di miocardio ordinario che connette la muscolatura atriale con quella ventricolare sinistra;
Figura 4 Il circuito della tachicardia da rientro A-V ortodromica in presenza di un fascio di Kent sinistro.
37 - Preeccitazione
Questo ECG mostra le caratteristiche tipiche della preeccitazione: il P-R corto, l’onda delta (il rallentamento
iniziale del QRS meglio visibile nell’ingrandimento di aVF e nel particolare a destra in basso dove l’onda
delta è colorata in rosso) e il QRS largo (in questo caso la durata del QRS è intorno a 0,13 secondi). Questi
fenomeni dipendono dalla presenza di un fascio di conduzione anomalo (il fascio di Kent) che unisce
direttamente gli atri ai ventricoli, senza passare per il nodo A-V. Il fascio di Kent conduce più rapidamente
della via nodo-hissiana, per cui una parte della massa ventricolare è “preeccitata”, cioè viene attivata prima
di quanto sarebbe avvenuto se l’impulso sinusale fosse stato condotto solo attraverso il normale sistema di
conduzione.
Figura 5 Fibrillazione atriale associata a pre-eccitazione: l’attività elettrica atriale, rapida e asincrona, è
condotta ai ventricoli mediante via accessoria, realizzando gradi variabili di preeccitazione (QRS larghi,
intervallo variabile tra i complessi, morfologia dei complessi differente da un battito all’altro).
Capitolo 39
Antonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino, Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita
DEFINIZIONE
La fibrillazione atriale (FA) è un’aritmia nella quale il ritmo cardiaco non è governato dal nodo del seno, ma
si generano negli atri impulsi a frequenza elevata (fino a 600 al minuto), con cicli irregolari; solo alcuni di
essi, però, sono condotti i ventricoli, mentre un numero più o meno grande di impulsi atriali va incontro a
un blocco nel nodo atrio-ventricolare, per cui la frequenza ventricolare è molto minore di quella atriale.
EZIOLOGIA
Le cause della FA possono essere molteplici (Figura 1). In passato la patologia sottostante più frequente era
rappresentata da patologie valvolari (soprattutto a carico della valvola mitrale), mentre nell’ultimo
ventennio le malattie che più frequentemente determinano un aumento della pressione in atrio sinistro,
con conseguente aumento di volume atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA, sono l’ipertensione
arteriosa e le cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna patologia: in tali casi la FA
viene definita come idiopatica o “lone fibrillation”.
Figura 1 Cause di fibrillazione atriale. Nella popolazione con età < 50 anni è più frequente la fibrillazione
atriale parossistica isolata o associata a distiroidismo o a patologie dei canali ionici mentre nella
popolazione anziana più dell’ 80% delle forme di FA è a carattere persistente/permanente e si associa a
cardiopatie strutturali.
ELETTROGENESI E FISIOPATOLOGIA
EPIDEMIOLOGIA
La fibrillazione atriale è molto frequente nella pratica clinica, e la sua incidenza aumenta con l’età; circa il
5% della popolazione con età maggiore di 65 anni ne è affetto. Pur non rappresentando sempre una
condizione clinica di emergenza, la FA è una importante causa di incremento di mortalità per malattie
cardiovascolari ed è associata ad un aumento di episodi di stroke ed a peggioramento della qualità di vita.
QUADRO CLINICO
La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza ventricolare media
generalmente elevata, ed è rappresentata dalle palpitazioni. In corso di FA vi è la perdita della contrazione
atriale con conseguente possibile riduzione della gittata cardiaca e per tale ragione essa può anche
manifestarsi con dispnea, affaticabilità, dolore toracico (Figura 2). In circa il 20% dei casi la FA è
completamente asintomatica: e questo avviene frequentemente in soggetti con condizioni fisiologiche
(ipertono vagale) che rallentino la conduzione atrio-ventricolare.
Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa irregolarità del ritmo e la
variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo fenomeno esprime il rapporto tra gittata sistolica e
durata della diastole: durante una diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di ricevere una elevata
quantità di sangue, per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio; dopo una diastole breve,
invece, il ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e di conseguenza la gittata sistolica
è modesta e il polso piccolo. Quando la diastole diventa brevissima, come in caso di elevata risposta
ventricolare, in alcune (o in molte) delle contrazioni il ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire
provocare l’apertura delle cuspidi aortiche; in questo caso non si genera un’onda sfigmica e al polso il
battito è del tutto assente. In questa situazione, la frequenza cardiaca valutata al polso è minore di quella
reale (“deficit cuore-polso”): in pazienti con FA, perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso
ma anche mediante ascoltazione cardiaca sul focolaio della punta.
La frequenza ventricolare durante FA è influenzata in modo significativo dal tono del sistema nervoso
autonomo: può diventare molto rapida quando aumenta il tono simpatico e diminuisce il tono
parasimpatico, come accade durante esercizio fisico.
Le complicanze della FA possono essere dovute alla sua irregolarità, alla elevata frequenza cardiaca e alla
perdita della contrazione atriale. L’irregolarità e l’elevata frequenza cardiaca possono provocare una
riduzione della funzione contrattile ventricolare sinistra, che in presenza di altre patologie concomitanti
può esitare in scompenso cardiaco. La perdita della contrazione atriale, inoltre, determina un
rallentamento del flusso ematico che facilita la formazione di trombi all’interno degli atri, specialmente
nelle auricole. I trombi sono generalmente adesi alla parete atriale, ma possono anche staccarsi,
specialmente quando, col ripristino del ritmo sinusale, l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi
nell’atrio sinistro può quindi, attraverso la circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto
periferico: non di rado viene colpito l’encefalo e si manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma
soprattutto le complicanze tromboemboliche, sono la causa dell’aumentata mortalità nei pazienti con FA.
ELETTROCARDIOGRAMMA
L'ECG mostra l’assenza delle onde P (che sono l’espressione dell’attività elettrica atriale normale) e la
presenza delle caratteristiche onde fibrillatorie rapide (onde f), le quali appaiono come irregolari
ondulazioni della linea isoelettrica (Figura 3), e sono continue, durando per tutto il ciclo cardiaco. La loro
frequenza varia tra 380 e 600 al minuto; l’ampiezza e la morfologia mostrano notevole variabilità da
momento a momento. Le onde fibrillatorie possono essere di basso voltaggio e quindi scarsamente visibili
(FA ad onde fini, Figura 3A), oppure di voltaggio più elevato (FA ad onde grossolane Figura 3B).
Gli intervalli fra i complessi ventricolari (intervalli R-R) sono irregolari, essendo molti stimoli bloccati a livello
del nodo atrio-ventricolare che funge da “filtro” nel passaggio degli impulsi elettrici tra atri e ventricoli.
CLASSIFICAZIONE
Sono stati proposti diversi schemi di classificazione clinica della FA, ma nessuno comprende in modo
completo tutti gli aspetti dell’aritmia. Dal punto di vista clinico (Figura 4) è utile distinguere un primo
episodio documentato indipendentemente dai sintomi e dalla durata. Nel caso in cui il paziente presenti 2 o
più episodi, la FA è considerata ricorrente. Se l’aritmia termina spontaneamente, la recidiva di FA viene
definita parossistica; mentre se dura più di 7 giorni, la FA viene detta persistente. Nella FA persistente, il
ripristino del ritmo sinusale (cardioversione) si ottiene con farmaci o con mezzi elettrici (vedi più avanti). La
categoria della FA permanente comprende i soggetti nei quali la cardioversione è fallita o non è stata
tentata.
Figura 4 Classificazione clinica della fibrillazione atriale basata sul numero e sulla durata degli episodi.
TRATTAMENTO
Poiché la FA aumenta significativamente il rischio di eventi tromboembolici, esiste unanime consenso sul
fatto che tutti i pazienti con patologia cardiaca valvolare e FA richiedano l’anticoagulazione con
dicumarolici. In pazienti con FA non valvolare l’indicazione al trattamento anticoagulante dipende dal
rischio tromboembolico (Figura 5) calcolato in base ai fattori di rischio (scompenso cardiaco, ipertensione
arteriosa, età > 75 anni, DIABETE mellito, precedente storia di ictus o TIA). E’ necessario comunque
conoscere che la terapia anticoagulante con dicumarolici comporta un rischio di stroke emorragico pari
all’1% per anno.
Cardioversione
Con tale termine si definisce l’interruzione della FA, con ripristino del ritmo sinusale. Quando la
cardioversione non avviene spontaneamente, un episodio di FA persistente può essere interrotto
eseguendo una cardioversione elettrica o farmacologica.
La cardioversione elettrica (CVE) consiste nella somministrazione di una scarica elettrica per mezzo di due
piastre applicate al torace del paziente, cui consegue l’azzeramento del potenziale di azione di tutte le
cellule cardiache e quindi l’interruzione dell’aritmia.
Numerosi farmaci antiaritmici possono essere utilizzati per eseguire una cardioversione farmacologica; tra
questi il propafenone, la flecainide e l’amiodarone sono quelli maggiormente efficaci. Il successo della CV
farmacologica dipende dalla durata della FA, raggiungendo l’80% in caso di FA con durata minore di 24 ore,
mentre la percentuale di successo è inferiore al 35% in caso di FA persistente.
Un rischio della cardioversione, indipendente dal fatto che il ripristino del ritmo sinusale sia spontaneo o
indotto elettricamente o con farmaci, è che si verifichi un’embolia arteriosa sistemica. Se, infatti, durante il
periodo in cui l’aritmia è stata presente si è formato un trombo in atrio sinistro, la ripresa della contrazione
atriale favorisce il distacco del trombo, che migra quindi nel circolo sistemico. Per questo motivo si può
cardiovertire elettricamente la FA se questa è insorta da meno di 48 ore, mentre se l’episodio di FA ha una
durata maggiore, la cardioversione, sia elettrica che farmacologica, deve essere preceduta da un periodo di
anticoagulazione efficace di almeno 4 settimane.
Nei pazienti con FA, la terapia farmacologica può avere come scopo il mantenimento del ritmo sinusale
(controllo del ritmo) o, nella FA permanente, il mantenimento di una frequenza ventricolare media
accettabile (controllo della frequenza). La prima strategia viene scelta solitamente in soggetti giovani o
molto sintomatici o con deterioramento emodinamico dovuto alla fibrillazione atriale. La seconda è
generalmente preferita in pazienti anziani o paucisintomatici.
Per il controllo del ritmo i farmaci antiaritmici più utilizzati (vedi Capitolo 58) sono quelli della classe I
(chinidina, flecainide, propafenone) e III (sotalolo, amiodarone, dronedarone, azimilide). Tali farmaci hanno
una efficacia nel mantenere il ritmo sinusale ad un anno che va dal 45-50% per quelli della classe I al 70-75
% per i farmaci della classe III. Purtroppo l’incidenza di importanti effetti collaterali coinvolge quasi un
quarto dei pazienti trattati. In caso di inefficacia e/o di effetti collaterali della terapia farmacologica, la
strategia del controllo del ritmo può essere perseguita utilizzando metodiche di ablazione transcatetere o
chirurgiche che consistono nell’isolamento elettrico delle vene polmonari e nell’esecuzione di lesioni lineari
(Figura 6).
Per quanto riguarda il controllo della frequenza, evidenze cliniche hanno dimostrato come, soprattutto nei
pazienti anziani, tale strategia possa risultare una valida alternativa terapeutica. Essa può essere raggiunta
con l’impiego di tre diversi farmaci: la digossina più utilizzata nei pazienti con scompenso cardiaco, i ß-
bloccanti generalmente più efficaci per il loro effetto nel controllo della frequenza sotto sforzo e i Calcio-
antagonisti.
Figura 5 Aumento del rischio tromboembolico in base al numero di fattori di rischio in pazienti con FA non
valvolare.
Figura 6 Ricostruzione elettroanatomica dell’atrio sinistro. I pallini rossi demarcano i siti di ablazione
eseguiti con l’intento di isolare le vene polmonari e creare lesioni lineari sul tetto e sull’istmo (linea tra vena
polmonare inferiore sinistra e anello mitralico) dell’atrio sinistro.
DEFINIZIONE
Il flutter atriale è un’aritmia caratterizzata da un’attivazione atriale regolare e rapida con una frequenza
generalmente compresa tra i 240 e i 300/m’. La risposta ventricolare, cioè il numero di impulsi atriali che
raggiungono i ventricoli, dipende dal nodo atrio-ventricolare, che funge da filtro, impedendo che la
frequenza ventricolare raggiunga livelli troppo elevati. Generalmente la conduzione atrio-ventricolare
avviene con un rapporto 2:1 (solo un impulso atriale su due è condotto ai ventricoli) ma talora può
presentare rapporti di conduzione diversi (3:1, 4:1, 3:2).
L’incidenza del flutter atriale nella popolazione generale è stimata in 88 su 100000 abitanti. Molto spesso il
flutter atriale si associa a fibrillazione atriale; la maggior parte dei casi si verifica in presenza di una
condizione predisponente o di una malattia cardiaca strutturale.
ELETTROGENESI
Il meccanismo elettrogenetico del flutter atriale è il rientro (vedi Capitolo 36). Si tratta, nelle forme tipiche,
di un circuito posto nell’atrio destro, delimitato dall’anello tricuspidalico, dalla crista terminalis e dalla
valvola di Eustachio. Il fronte d’onda può percorrere il circuito in direzione antioraria (flutter comune) o
oraria (flutter non comune) dando luogo a due quadri diversi da un punto di vista
dell’Elettrocardiogramma. La zona critica per l’innesco ed il mantenimento dell’aritmia è rappresentata
dall’istmo cavo-tricuspidale, compreso fra l’anulus della tricuspide e l’orificio della vena cava inferiore. Sono
possibili altri macrocircuiti di rientro sia nell’atrio destro che in quello sinistro; quando la sede del circuito è
diversa da quella classica, il flutter atriale viene definito atipico.
QUADRO CLINICO
I sintomi del flutter atriale sono simili a quelli della fibrillazione atriale e dipendono in larga misura dalla
frequenza ventricolare: il disturbo più comune è la palpitazione, ma possono anche verificarsi vertigini,
dispnea, debolezza, e raramente angina o sincope.
CLASSIFICAZIONE
Il flutter atriale si presenta all’ECG con una serie di onde atriali (onde F) regolari, a frequenza intorno a 300
al minuto; il numero dei complessi ventricolari è quasi sempre minore, dato che solo alcuni impulsi atriali
vengono condotti ai ventricoli. In base alla morfologia delle onde F, il flutter si distingue in tipico ed atipico.
Nel flutter atriale tipico le onde F hanno un aspetto a dente di sega, e si susseguono senza interruzione, non
essendo separate da linea isoelettrica (Figura 7); nel flutter atipico, invece, le onde F non hanno morfologia
a denti di sega e sono separate da linea isoelettrica (Figura 8). Nel flutter tipico comune (antiorario) le onde
F sono negative nelle derivazioni inferiori (II, III, aVF) e positive in V1, mentre nella forma non comune
(oraria) hanno polarità positiva nelle derivazioni inferiori e negativa in V1.
TRATTAMENTO
Il trattamento del flutter atriale può avere come scopo il mantenimento di una frequenza ventricolare non
troppo elevata oppure l’interruzione dell’aritmia. I calcioantagonisti e i beta-bloccanti (vedi Capitolo 58)
sono farmaci di prima scelta per rallentare la frequenza ventricolare, poiché essi aumentano la refrattarietà
del nodo A-V e quindi diminuiscono il numero degli impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. Per far
cessare il flutter atriale e ripristinare il ritmo sinusale, viene comunemente impiegata l’ibutilide
somministrata per via endovenosa .
Un altro metodo efficace per interromper il flutter è la cardioversione elettrica (vedi il paragrafo
“Trattamento” della sezione Fibrillazione atriale). Come per la fibrillazione, anche i pazienti con flutter
atriale che dura da più di 48 ore richiedono un opportuno periodo di scoagulazione. Anche la stimolazione
elettrica atriale può efficacemente porre fine al flutter; essa si esegue con un elettrocatetere introdotto
nell’atrio destro per via venosa oppure con un elettrodo inserito nell’esofago e posto a stretto contatto con
l’atrio sinistro, che si trova in immediata continuità con l’esofago. Gli stimoli elettrici ad elevata frequenza,
erogati da un apposito stimolatore, possono far cessare il flutter perché rendono refrattaria una parte del
circuito di rientro, impedendo l’ulteriore progressione dell’impulso e quindi il perpetuarsi dell’aritmia.
E’ possibile curare il flutter atriale radicalmente, rendendo inagibile in modo definitivo il circuito di rientro
mediante un intervento di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61). Nel flutter tipico l’ablazione viene
eseguita inserendo un elettrocatetere nel cuore destro ed inducendo, con erogazioni di energia a
radiofrequenza, una lesione stabile a livello dell’istmo cavo-tricuspidalico. Quando questo tessuto diventa
incapace di condurre l’impulso, l’aritmia non può più essere scatenata per l’impossibilità che l’impulso
percorra il circuito, una parte del quale è divenuta ineccitabile in seguito al trattamento.
Capitolo 40
TACHICARDIE VENTRICOLARI
Stefano Favale, Pierangelo Basso, Franceso Capestro, Valentina D’Andria, Annalisa Fiorella
DEFINIZIONE
Si definisce tachicardia ventricolare (TV) una successione di almeno 3 battiti ectopici di origine ventricolare
con frequenza =100 al minuto. La TV viene classificata come sostenuta se ha durata >30 secondi o, pur
avendo durata inferiore, richiede un immediato intervento terapeutico per l’insorgenza di grave
compromissione emodinamica, e non sostenuta se ha durata inferiore a 30 secondi. In base alla morfologia
dei complessi ventricolari all’elettrocardiogramma, la TV si definisce monomorfa se tutti i QRS sono identici
e polimorfa quando sono evidenti variazioni nella configurazione del QRS. Si distinguono, inoltre, le forme
seguenti: TV Iterativa (episodi di TV non sostenuta a regressione spontanea, generalmente a frequenza
<150 b/m), TV Incessante (persistente per oltre l'80% della giornata), TV lenta (a frequenza compresa tra
100 e 150 b/m).
ELETTROGENESI
La genesi delle TV è dovuta alla presenza di un anomalo generatore di impulsi nei ventricoli, da ricondurre a
uno dei seguenti meccanismi: rientro, esaltato automatismo, attività triggerata (vedi Capitolo 36).
Un esempio paradigmatico di rientro è dato dalla tachicardia ventricolare post-infartuale. Il miocardio
ventricolare andato incontro ad infarto è costituito da aree cicatriziali frammiste ad aree di miocardio
ancora vitale che nell’insieme costituiscono un circuito fibrocellulare chiuso, con disomogeneità dei periodi
refrattari in vari punti di esso. Un extrastimolo precoce può subire un blocco unidirezionale nella zona con
periodo refrattario più lungo (quindi ancora ineccitabile) e percorrere con rallentamento della conduzione
la zona con periodo refrattario più corto, e che quindi è già eccitabile. Una volta percorsa l’area di
miocardio eccitabile, l’impulso può rientrare in senso opposto nella zona precedentemente ineccitabile
(che nel frattempo ha recuperato dalla refrattarietà) e percorrere l’intero circuito. In questo modo il fronte
d’onda trova sempre davanti a sé tessuto eccitabile e ciò consente l’automantenimento dell’aritmia che si è
generata.
EZIOLOGIA
La Cardiopatia ischemica rappresenta il principale fattore eziologico della TV: nell’infarto miocardico acuto
una TV sostenuta si presenta nel 5-10% dei casi, ed è frequente anche in pazienti con pregresso infarto
miocardico. In seguito alla necrosi miocardica, infatti, si creano aree adiacenti non omogenee costituite da
tessuto fibroso e miocardio vitale, che rappresentano il substrato ideale per il rientro.
Nella Cardiomiopatia dilatativa, la TV fa parte della storia naturale (vedi Capitolo 29). La morte improvvisa,
in questi pazienti, è prevalentemente tachiaritmica (80%) nelle classi NYHA meno avanzate (II-III), mentre
nelle fasi più avanzate incidono anche le bradicardie, la dissociazione elettromeccanica e le tromboembolie.
La frazione d’eiezione ridotta e la comparsa di sincope sono i fattori maggiormente predittivi di morte
improvvisa nella cardiomiopatia dilatativa.
Nella Cardiomiopatia ipertrofica la presenza, oltre che di ipertrofia ventricolare, di malallineamento dei
miociti (disarray) rappresenta il substrato per la genesi di aritmie ventricolari (vedi Capitolo 28). Non
raramente questa cardiopatia si manifesta per la prima volta con sincope o con morte improvvisa aritmica
in pazienti prevalentemente giovani e peraltro asintomatici. La presenza di una marcata ipertrofia
ventricolare sinistra, di una storia familiare di morte improvvisa, di sincope, risultano altamente predittivi
del rischio di morte improvvisa in questi pazienti.
La Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro si manifesta essenzialmente con aritmie
ventricolari maligne e in particolare con TV sostenuta con morfologia tipo blocco di branca sinistra (vedi
Capitolo 31).
Nella Stenosi aortica circa il 20% dei pazienti muore improvvisamente per aritmie ventricolari maligne (vedi
Capitolo 16).
Anche il Prolasso valvolare mitralico, quando è di entità severa, con rilevante insufficienza valvolare, può
dare luogo alla comparsa di aritmie, inclusa la TV (vedi Capitolo 15).
Può verificarsi per difetto funzionale dei canali ionici (Sindrome del QT lungo, Sindrome di Brugada), per
l’effetto di farmaci, squilibri elettrolitici o ipossia.
La Sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia su base genetica, caratterizzata da alterazioni strutturali
dei canali ionici, in grado di provocare un’anomalia nella ripolarizzazione delle cellule cardiache (vedi
Capitolo 43). In questi pazienti, la sincope, che può esitare in morte improvvisa, è causata dall’insorgenza di
una “torsione di punta”, una tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS di
ampiezza variabile e con progressiva inversione di polarità. La morte improvvisa può essere determinata
dalla degenerazione della torsione di punta in una fibrillazione ventricolare.
La Sindrome di Brugada è una malattia elettrica primaria su base genetica, in cui all’alterazione di un canale
ionico consegue l’accorciamento del potenziale d’azione, soprattutto a livello epicardico, per cui si crea un
gradiente elettrico dopo la completa attivazione del miocardio ventricolare. Ciò è responsabile di alcune
alterazioni dell’ECG di base (onda J, sopraslivellamento di ST in V1 e V2) e della possibilità di innesco di
tachicardia ventricolare. (vedi Capitolo 43).
Alcuni Farmaci, ad esempio digitale, simpaticomimetici, antiaritmici ed alcuni Squilibri idroelettrolitici
come Ipokaliemia, iperkaliemia, ipercalcemia, possono provocare una TV.
CONSEGUENZE EMODINAMICHE
I principali fattori che incidono nel deterioramento emodinamico indotto dalla TV sono: 1) la frequenza, 2) il
mancato coordinamento fra gli atri e i ventricoli, 3) l’attivazione eccentrica del miocardio.
Per frequenze elevate, la fase di riempimento diastolico risulta compromesso e diviene insufficiente per
permettere l’adeguato riempimento ventricolare, per cui la portata si riduce la pressione arteriosa tende a
cadere. Nella TV, inoltre, vi è in circa il 50% dei casi la dissociazione fra l’attivazione atriale e quella
ventricolare, mentre nel restante 50% l’impulso ventricolare viene retrocondotto agli atri. In questi casi, la
contrazione atriale si verifica sempre (retroconduzione) o spesso (dissociazione) a valvole AV chiuse, con
aumento della pressione atriale, inversione del flusso dall’atrio alle vene e perdita totale del contributo
atriale al riempimento ventricolare.
Un altro fenomeno che caratterizza le TV è l’attivazione eccentrica del miocardio. L’attivazione del
miocardio ventricolare secondo le normali vie di conduzione del segnale elettrico è necessaria per una
contrazione efficace dei ventricoli. Nella TV, invece, l’attivazione ventricolare è abnorme: dal punto di
origine dell’ aritmia (circuito o focus ) l'impulso segue vie non fisiologiche, con il risultato di una
desincronizzazione tra le varie parti dei ventricoli, in grado di compromettere l’efficacia della contrazione
La funzione ventricolare sinistra e l'eziologia della TV ne influenzano in modo determinante le
manifestazioni cliniche. In un cuore sano, con normale frazione di eiezione, il quadro emodinamico è
QUADRO CLINICO
ELETTROCARDIOGRAMMA
La diagnosi di Tachicardia Ventricolare si avvale fondamentalmente dell’elettrocardiogramma, che mette
in evidenza:
- una sequenza di 3 o più battiti ventricolari consecutivi;
- complessi QRS di durata uguale o superiore a 0.12 sec;
Figura 1 Tachicardia ventricolare con dissociazione A-V. Le onde P sinusali indipendenti dai complessi QRS
sono molto evidenti in II derivazione (frecce).
Il QRS, in corso di TV, ha una durata sempre (0.12 sec, mentre la sua morfologia assumerà un aspetto tipo
blocco di branca destra o sinistra a seconda del ventricolo in cui insorge l’aritmia. Nella TV, infatti, il
ventricolo da cui nasce l’aritmia si attiva prima del controlaterale, che viene raggiunto dal processo di
depolarizzazione tardivamente; lo stesso sfasamento si realizza nel blocco di branca, dove il ventricolo la cui
branca è incapace di condurre si attiva in ritardo. Perciò quando la TV nasce nel ventricolo destro la
morfologia del QRS somiglierà a quella di un blocco di branca sinistra (prima si attiva il ventricolo destro,
poi il sinistro), e una TV originatasi nel ventricolo sinistro avrà un aspetto simile a un blocco di branca
destra. Bisogna fare attenzione alla non semplice diagnosi differenziale fra le TV e le tachicardie
sopraventricolari a QRS largo per conduzione aberrante frequenza-dipendente o per blocco di branca
preesistente; inoltre anche le tachicardie sopraventricolari condotte ai ventricoli attraverso una via
anomala hanno QRS larghi (vedi Capitolo 38).
Particolare è il quadro elettrocardiografico in caso di Torsione di Punta dove, su un ritmo di base
solitamente bradicardico e con QT allungato (soprattutto nei casi di ipokalemia), si osserva una sequenza di
ventricologrammi con continua e graduale variazione della polarità, che diviene da positiva a negativa e
viceversa.
Altri mezzi diagnostici sono una registrazione più dettagliata dell’attività atriale tramite l’ECG
transesofageo (registrato ponendo un sondino munito di un elettrodo a livello esofageo) che permette di
valutare meglio il rapporto atrio-ventricolare, e l’ECG endocavitario, registrato tramite cateteri in atrio e in
ventricolo.
CENNI DI TERAPIA
Bisogna innanzitutto differenziare la terapia da effettuare in acuto rispetto a quella volta a prevenire le
recidive. Nei casi di TV con compromissione emodinamica trovano spazio innanzitutto presidi elettrici quali
il DC Shock sincronizzato (scariche di defibrillatore a 200-250 joules) o il pacing ventricolare (stimolazione a
frequenze superiori a quelle dell’aritmia nel tentativo di interromperla). Per quanto riguarda l’approccio
farmacologico, il farmaco più comunemente usato in acuto è la Lidocaina. In alternativa, è possibile usare
l’Amiodarone, la Mexiletina o il Propafenone a seconda dell’eziologia della TV e dalla cardiopatia di base del
paziente.
Per la prevenzione delle recidive va innanzitutto chiarita l’eziologia della TV (strutturale o idiopatica) e va
fatta un’attenta valutazione del paziente, comprendente un Holter (ECG dinamico delle 24 ore) e, se
necessarie, indagini invasive (studio elettrofisiologico, coronarografia). La profilassi delle recidive verrà
condotta esclusivamente con terapia farmacologia (amiodarone, mexiletina, ß-bloccanti) nei pazienti a
minor rischio, mentre i farmaci verranno affiancati da supporti elettrici (defibrillatore impiantabile) nei
pazienti con rischio più elevato di recidive, soprattutto in quelli con grave disfunzione ventricolare.
Capitolo 41
BRADICARDIE
Francesco Arrigo, Giuseppe Andò
DEFINIZIONE
Ogni ritmo cardiaco diverso dalla fisiologica cadenza degli impulsi regolata del NSA, con frequenza e
conduzione normali, si definisce aritmia. Secondo la nomenclatura oggi condivisa, le alterazioni del ritmo
che si manifestano con riduzione della frequenza cardiaca vengono definite bradicardie. Nel capitolo delle
bradicardie sono tuttavia incluse alcune manifestazioni aritmiche che non si accompagnano
necessariamente a riduzione della FC, come l’aritmia sinusale, il segnapassi migrante, il blocco A-V (BAV) di I
grado (Tabella I).
Tabella 1
Le aritmie con riduzione della frequenza cardiaca sono causate da deficit dell’automatismo o da
compromissione della conduzione e sono riconducibili a due grandi gruppi, le disfunzioni sinusali e i BAV.
AV - atrio-ventricolare
BAV - blocco atrio-ventricolare
BSA - blocco seno-atriale
bpm - battiti per minuto
ECG - elettrocardiogramma
FC - frequenza cardiaca
MAS - Sindrome di Morgagni-Adams-Stokes
NAV - nodo atrio-ventricolare (nodo di Tawara)
NSA - nodo seno-atriale (nodo di Keith e Flack).
SSS - sick sinus syndrome, sindrome del seno malato.
MECCANISMI ELETTROFISIOLOGICI
I meccanismi che possono indurre bradicardia sono fondamentalmente la depressione dell’automatismo e
le alterazioni della conduzione seno-atriale ed atrio-ventricolare (AV).
La stimolazione regolare e continua del cuore è assicurata da fibrocellule specializzate, poste
principalmente nel NSA, ma anche - in misura sempre minore - nel tessuto di conduzione e nel miocardio di
lavoro. Queste cellule sono dotate di automatismo, cioè della proprietà di depolarizzarsi spontaneamente a
riposo (depolarizzazione in fase 4): il potenziale di riposo decresce gradualmente fino a raggiungere il
potenziale soglia che innesca il potenziale d’azione (vedi Capitolo 40). Le fibrocellule specializzate poste nel
NSA (cellule P) sono immerse in una matrice fibrosa e circondate da un alone di cellule di transizione
(cellule T o tessuto perinodale) nelle quali la trasmissione dell’impulso è rallentata. La depolarizzazione
cardiaca, iniziata dalle cellule del NSA, si estende poi attraverso vie di conduzione specifiche prima al
miocardio atriale e, attraverso il NAV, al sistema di conduzione intraventricolare (fascio di His e branche) ed
La frequenza di depolarizzazione del NSA è posta sotto il controllo dell’equilibrio autonomico tra il sistema
nervoso simpatico ed il parasimpatico e presenta nelle diverse specie animali una grossolana correlazione
inversa con le dimensioni corporee. Nell’uomo adulto, la FC viene convenzionalmente definita normale
quando è compresa tra 60 e 100 bpm; pertanto una FC inferiore a 60 bpm è definita bradicardia, una FC
superiore a 100 bpm è definita tachicardia.
Una FC inferiore a 60 bpm è un reperto comune nella pratica clinica e, pur essendo spesso un riscontro
occasionale e del tutto benigno, può talora determinare una sensibile riduzione della portata cardiaca con
conseguenze cliniche di rilievo. Occorre tenere ben presente che la FC varia fisiologicamente da individuo a
individuo in base all’età, al grado di allenamento fisico ed al momento dell’osservazione. Ad esempio, negli
atleti allenati è facile osservare una FC a riposo inferiore a 40 bpm, senza che ciò abbia un significato
patologico. Anche durante il sonno, specie durante la fase REM, una FC inferiore a 40 bpm è del tutto
normale.
Un importante aspetto per la valutazione di una FC bassa è la risposta cronotropa allo sforzo fisico, ovvero
la capacità del cuore di aumentare la frequenza in base al grado di esercizio. Una risposta cronotropa
inadeguata (incompetenza cronotropa), insieme all’incapacità di raggiungere la FC massima teorica prevista
per l’età del soggetto al picco dello sforzo (definita in bpm dalla formula 220 - età in anni) suggeriscono
fortemente l’esistenza di un’alterata funzione sinusale che richiede attenzione clinica.
In conclusione, anche se scolasticamente è definita come una FC inferiore a 60 bpm, la bradicardia può
essere meglio caratterizzata come una frequenza inappropriatamente bassa in relazione all’età, al livello di
attività fisica ed al grado di allenamento. Pertanto, la bradicardia deve essere oggetto di ulteriori
approfondimenti diagnostici o di una terapia specifica solo quando è associata a sintomi acuti o cronici di
bassa portata cardiaca, a riposo o durante esercizio fisico.
Le fasi necessarie per la definizione della natura fisiologica o “patologica” della bradicardia e per una
corretta gestione clinica del paziente bradicardico sono dunque:
la comprensione del meccanismo fisiopatologico (alterazione della formazione e/o della conduzione
dello stimolo) responsabile della bassa o inappropriata frequenza cardiaca;
l’identificazione delle cause, reversibili o irreversibili, della bradicardia;
la valutazione del rischio di potenziali conseguenze infauste come la sincope, l’insufficienza cardiaca, le
tachicardie , i fenomeni trombo-embolici e la morte improvvisa per asistolia prolungata;
la scelta di una terapia individualizzata
ASPETTI CLINICI
LA DISFUNZIONE SINUSALE
Eziologia
La degenerazione fibrosa è considerata la più comune se non l’unica causa di disfunzione del NSA. Infatti, le
modificazioni strutturali si associano alla progressiva riduzione della frequenza intrinseca di scarica del NSA
che si verifica con l’invecchiamento. La malattia coronarica è molto frequente nei pazienti con disfunzione
sinusale e l’ischemia della regione del NSA probabilmente contribuisce alla genesi delle bradiaritmie (ed
anche delle tachicardie nella sindrome bradicardia-tachicardia).
Aspetti diagnostici
bradicardia sinusale. E’ definita dalla presenza di depolarizzazioni sinusali ad una frequenza inferiore a 60
bpm.
La bradicardia sinusale è un reperto fisiologico negli atleti allenati, che spesso hanno una frequenza a
riposo da svegli tra 40 e 50 bpm e possono avere una frequenza durante il sonno anche di 30 battiti al
minuto; l’elevato tono vagale di questi soggetti può determinare anche pause sinusali o fasi di BAV di II
grado tipo Wenckebach che producono pause asistoliche finanche di 3 secondi. In altri casi va posta molta
cura nell’escludere cause farmacologiche attraverso un’accurata anamnesi.
aritmia sinusale. In presenza di ritmo sinusale, gli intervalli P-P sono relativamente costanti, con variazioni
da un intervallo dell'altro che non eccedono 0,16 secondi . Quando la differenza tra il ciclo più lungo e
quello più corto è superiore a 0,16 secondi si parla di aritmia sinusale. Generalmente le onde P sono
normali per asse e morfologia e l'intervallo PR resta costante, nonostante l’irregolarità dei cicli.
La forma più frequente di aritmia sinusale è correlata all'attività respiratoria, con un accorciamento
dell’intervallo P-P durante l'ispirazione per inibizione del tono vagale (aritmia sinusale respiratoria). Si
tratta di una variante di normalità tipica dei giovani, senza alcun significato patologico. L’aritmia sinusale
è invece caratterizzata da variazioni irregolari dell'intervallo P-P non correlate all'attività respiratoria e può
essere espressione di una disfunzione sinusale.
Arresto sinusale, blocco seno-atriale e sindrome bradicardia-tachicardia. La pausa sinusale (definita come
un’assenza di attività elettrica più lunga del 150% di un ciclo cardiaco sinusale basale) può essere dovuta
alla mancata formazione dell’impulso nel NSA (arresto sinusale) o ad un difetto nella conduzione
dell’impulso dal NSA al tessuto atriale circostante (BSA).
La manifestazione elettrocardiografica è in entrambi i casi l’assenza di un’onda P sinusale; nel BSA
l’intervallo P-P durante la pausa è generalmente, ma non sempre, un multiplo dell’intervallo P-P normale
(Figura 2C),
continua variabilità degli intervalli tra le onde P, che a loro volta vengono normalmente condotte ai
ventricoli.
B) Arresto sinusale. Questo ECG mostra un ritmo sinusale alla frequenza di 62 bpm. Si osserva l’improvvisa
mancanza di un’onda P che determina una pausa di circa 2,9 secondi.
C) Blocco seno-atriale. In questo caso si osserva una pausa la cui durata è circa il doppio di un ciclo P-P,
ovvero di un ciclo R-R, in quanto la conduzione AV è normale. Pertanto è possibile interpretare il fenomeno
come un blocco seno-atriale tipo Mobitz.
D) Pausa pre-automatica. Questo ECG mostra l’interruzione di una tachicardia parossistica a QRS larghi e
frequenza di circa 220 bpm. Si osserva una lunga pausa (pausa pre-automatica) che precede l’emergenza
della prima onda P sinusale. Le pause pre-automatiche possono rappresentare una delle manifestazioni
della disfunzione sinusale.
mentre nell’arresto sinusale (Figura 2B) non è possibile dimostrare alcun rapporto numerico tra la durata
del ciclo P-P basale e la durata della pausa.
Le pause sinusali di durata inferiore a 3 secondi non hanno un significato clinico, ma l’emergenza di un
ritmo di scappamento da un segnapassi atriale o giunzionale può favorire l’insorgenza di tachiaritmie atriali,
come la fibrillazione atriale o il flutter atriale. Pause più lunghe possono invece causare episodi sincopali.
La sindrome bradicardia-tachicardia è una manifestazione della disfunzione sinusale che determina sintomi
importanti ed è caratterizzata dalla coesistenza di fasi di bradicardia o asistolia e di tachiaritmie atriali. La
coesistenza dei due tipi di aritmia non è casuale, in quanto da un lato la spiccata bradicardia o le pause
prolungate dovute ad arresto sinusale o a BSA possono facilitare l'innesco di una tachiaritmia atriale;
dall’altro un’aritmia rapida atriale deprime l'automatismo del NSA di modo che alla sua cessazione la
ripresa dell'attività spontanea sinusale è lenta e possono manifestarsi bradicardia molto spiccata o pause
prolungate, dette pause pre-automatiche (Figura 2D).
La sindrome del seno carotideo, nella sua variante cardio-inibitoria, consiste nella comparsa di episodi di
asistolia per arresto sinusale o BSA. Meno frequentemente il fenomeno è causato da un BAV parossistico.
La sindrome viene innescata dalla stimolazione del seno carotideo, anche meccanica, che induce una
marcata risposta vagale. Nella variante vaso-depressiva si osserva una diminuzione della pressione sistolica
uguale o superiore a 50 mmHg. I pazienti con sindrome del seno carotideo (vedi Capitolo 42) sono
sintomatici per sincopi o lipotimia, ma non sempre l'evento clinico è riferibile all'aritmia. Occorre anche in
questo caso dimostrare la coincidenza tra l’alterazione elettrocardiografica ed il fenomeno clinico,
dimostrazione che può essere ottenuta con relativa semplicità mediante l’esecuzione di un massaggio del
seno carotideo o durante il tilt test che si esegue per lo studio della sincope vaso-vagale. Nella forma
puramente cardio-inibitoria la stimolazione cardiaca permanente può risolvere i sintomi.
IL BLOCCO ATRIO-VENTRICOLARE
Lo stimolo generato dal NSA si diffonde agli atri, attraversa il nodo AV e viene condotto ai ventricoli per
mezzo del fascio di His e del sistema di conduzione intraventricolare. Tutto ciò avviene fisiologicamente in
un tempo compreso tra 0,12 e 0,20 secondi. Alterazioni organiche o funzionali del sistema di conduzione
possono determinare un rallentamento della conduzione dell’impulso atriale, con prolungamento
dell’intervallo PR oltre 0,20 secondi (BAV di I grado), o un blocco parziale della conduzione, con la
conseguenza che alcune onde P non sono seguite da complessi QRS (BAV di II grado), o una completa
interruzione della conduzione, per cui nessun impulso sinusale viene condotto ai ventricoli (BAV di III grado
o completo).
Il rallentamento o il blocco della conduzione possono verificarsi, in maniera transitoria o stabile, a livello di
tutte le componenti del sistema di conduzione, ovvero a livello del NAV (blocco intra-nodale o sopra-
hisiano), a livello del fascio di His (blocco intra-hisiano), o nelle branche (blocco sotto-hisiano). Di norma, i
blocchi sotto-hisiani si associano a complessi QRS larghi (superiori a 0,12 secondi), particolarmente se il
ritmo di scappamento è ventricolare. La distorsione della depolarizzazione ventricolare, espressa all’ECG dal
QRS largo, determina un’alterazione del sincronismo di contrazione ventricolare la quale produce effetti
emodinamici negativi indipendenti da quelli dovuti alla bradicardia ed alla dissociazione AV ed additivi
rispetto ad essi; pertanto, i blocchi sotto-Hisiani sono emodinamicamente tollerati peggio dei blocchi più
prossimali.
Aspetti diagnostici
Il BAV di II grado tipo Wenckebach è in genere dovuto ad una lesione, per lo più reversibile, in sede nodale
ed è particolarmente sensibile alle influenze vegetative (tono vagale) e farmacologiche.
2) BAV di II grado tipo 2 (o tipo Mobitz). Questa forma è caratterizzata dall’improvviso blocco della
conduzione di un impulso, con una pausa asistolica uguale al doppio di un ciclo sinusale. Gli intervalli PR
sono costanti prima e dopo il ciclo bloccato, senza allungamento dell’intervallo PR nel ciclo che precede la P
bloccata; anche nel ciclo successivo all’impulso bloccato l’intervallo PR è identico a quello del ciclo
precedente (Figura 3B). Il BAV di II grado tipo Mobitz è in genere dovuto ad una lesione intra-Hisiana, o
sotto-Hisiana.
3) BAV di II grado 2: 1. Il BAV 2:1 è caratterizzato dall’alternanza di un impulso condotto e di un impulso
bloccato (Figura 3C).
4) BAV di II grado avanzato. È definito dal blocco di due o più onde P consecutive (Figura 3D).
BAV di III grado. Il BAV di III grado (o BAV completo) è caratterizzato dall’assenza della conduzione degli
impulsi atriali ai ventricoli e dalla completa dissociazione dell’attività atriale, più rapida e caratterizzata
dalle onde P sinusali, da quella ventricolare, che è governata da un ritmo di scappamento la cui analisi può
fornire un’indicazione sulla sede del blocco (Figura 4).
La presenza di un ritmo stabile, con frequenza tra 40 e 50 e complessi QRS stretti, suggerisce un ritmo di
scappamento giunzionale; un ritmo di scappamento a complessi QRS larghi e a frequenza inferiore a 40,
invece, suggerisce un blocco a livello più distale (blocco sotto-hisiano) e pertanto la necessità più urgente di
Tabella 2
Quando si può stabilire con sicurezza l'insorgenza recente del blocco, se si tratta di un paziente giovane
occorre pensare a una malattia reumatica. In pazienti anziani con anamnesi di sincope ed in assenza di
farmaci che deprimono la conduzione AV, un BAV di I grado di recente insorgenza è fortemente suggestivo
di BAV parossistico di grado avanzato e richiede l'impianto di un pacemaker.
Generalmente, il BAV di I grado non ha alcuna conseguenza emodinamica di rilievo. E’ possibile tuttavia che
intervalli PR particolarmente lunghi, superiori a 0,30 secondi, possano determinare sintomi anche in
assenza di gradi maggiori di BAV. Infatti, a causa del ritardo elevato, la sistole atriale si può verificare
durante la protodiastole del ciclo cardiaco precedente o addirittura durante la sistole precedente,
producendo una contrazione atriale contro le valvole atrio-ventricolari chiuse. In questi casi, il riempimento
ventricolare viene compromesso, si perde il sincronismo atrio-ventricolare e possono conseguirne un
aumento della pressione di incuneamento nei capillari polmonari ed una riduzione della portata cardiaca.
Il BAV di II grado tipo 1 (Wenckebach) raramente si manifesta con sincope e più di frequente è un riscontro
ECG incidentale o associato a sintomi aspecifici. Nella quasi totalità dei casi è l’espressione di un disturbo
funzionale e reversibile della conduzione a livello del NAV, spesso causato dalla somministrazione di
farmaci attivi sul NAV come la digitale, i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti non diidropiridinici. È frequente
l’associazione con l’infarto miocardico acuto inferiore, nel quale è in genere transitorio, non modifica la
prognosi e raramente richiede una terapia specifica (corticosteroidi endovena o elettrostimolazione
temporanea).
I BAV di II grado tipo 2 (Mobitz), ed avanzato sono espressione di un danno organico del sistema di
conduzione sotto-hisiano e quasi sempre progrediscono improvvisamente verso il BAV completo. Per tali
motivi, queste forme di BAV di II grado richiedono in tutti i casi l’elettrostimolazione cardiaca permanente.
Il BAV di III grado provoca in genere evidenti segni e sintomi, dovuti alla riduzione della portata cardiaca. I
sintomi possono insorgere in maniera improvvisa con una sincope, o in maniera più lenta ed insidiosa,
causando ad esempio astenia marcata o dispnea da sforzo, soprattutto se il BAV ha sede nodale ed è
presente un ritmo di scappamento giunzionale che assicuri una portata cardiaca sufficiente a non
determinare una importante riduzione della perfusione cerebrale, ma incapace di garantire un buon
adattamento allo sforzo o ad altre situazioni in cui è richiesto un aumento della portata.
La decisione di trattare una bradicardia è basata soprattutto sulla presenza di sintomi attribuibili
direttamente ad essa.
Il primo approccio sta nel riconoscimento delle bradicardie reversibili, spesso indotte da farmaci o legate a
situazioni identificabili e clinicamente reversibili come gli squilibri elettrolitici o l’infarto miocardico acuto,
nell’eliminazione del meccanismo fisiopatologico e nella cura della causa scatenante. Ad esempio, nella
malattia di Lyme, il BAV è reversibile, come pure in presenza di iperpotassiemia. Al contrario, nelle malattie
neuromuscolari ed in alcune patologie infiltrative del miocardio, come la sarcoidosi e l’amiloidosi,
l’impianto di un pacemaker è da raccomandare anche quando il BAV sia stato transitorio, a causa della
imprevedibile possibilità di progressione del disturbo di conduzione.
Terapia farmacologica
Un intervento terapeutico non è quasi mai necessario nei pazienti con bradicardia sinusale, aritmia
sinusale, pause sinusali o arresti sinusali inferiori a 3 secondi. Per bradicardie più rilevanti l’atropina
endovenosa rappresenta un presidio terapeutico di emergenza che può essere impiegato per accelerare la
frequenza cardiaca sinusale e migliorare la conduzione AV, quando la sede del BAV sia chiaramente a livello
nodale. Per la cura del BAV completo è stato impiegato, in condizioni di emergenza, l’isoproterenolo
endovena per aumentare la frequenza di un eventuale segnapassi di scappamento ventricolare; tale
farmaco è ormai poco usato per i rischi connessi al suo potenziale aritmogeno e per la maggiore efficacia e
sicurezza della elettrostimolazione cardiaca temporanea. Pertanto, tutti i pazienti che si presentano con
sintomi legati ad una disfunzione del nodo del seno o a disturbi della conduzione AV dovrebbero essere
presi in considerazione per l’impianto di un pacemaker cardiaco temporaneo o definitivo.
I pacemaker cardiaci
I pacemaker cardiaci sono generatori di impulsi che erogano stimoli elettrici, trasmessi attraverso uno o più
elettrocateteri a determinate zone del cuore. L’impulso elettrico erogato dal generatore si propaga a tutto
il miocardio e ne determina la depolarizzazione. L’attivazione elettrica delle camere cardiache indotta dal
pacemaker non si propaga attraverso le normali vie di conduzione ma è trasmessa attraverso il miocardio di
lavoro, il che può avere delle importanti conseguenze elettriche e meccaniche, provocando dissincronia
inter- ed intra-ventricolare, e dissociazione AV in caso di sola stimolazione ventricolare.
La necessita di ottenere una stimolazione cardiaca “fisiologica” ha portato allo sviluppo di pacemaker che
mirano a preservare e/o ripristinare il normale sincronismo AV o interventricolare stimolando
sequenzialmente prima l’atrio destro e poi l’apice del ventricolo destro (pacemaker bicamerali) ed
eventualmente anche la parete laterale del ventricolo sinistro (pacemaker tricamerali). Inoltre sono stati
messi a punto sensori che modulano la frequenza di stimolazione cardiaca (pacemaker rate-responsive) in
base all’attività del paziente in maniera da simulare le variazioni fisiologiche del cronotropismo.
Date le ampie possibilità di scelta, la terapia di elettrostimolazione definitiva con pacemaker deve essere
adattata individualmente ad ogni singolo paziente tenendo conto del tipo di difetto di conduzione, della
condizione emodinamica del paziente e del suo livello di attività.
Capitolo 42
SINCOPE
Luigi Padeletti, Alfonso Lagi
DEFINIZIONE
La sincope è una perdita improvvisa della coscienza e del tono muscolare, di breve durata e a risoluzione
spontanea. E’ la conseguenza dell’ischemia generalizzata di entrambi gli emisferi cerebrali e/o del tronco.
La sincope è un sintomo comune a molte malattie, al pari della febbre o dell’anemia. La sua importanza
deriva da due considerazioni: la prima, esclusivamente medica, che la sincope può essere anticipatrice di
una morte improvvisa nel futuro prossimo; la seconda, riguardante il grande impatto emotivo sull’individuo
che ne soffre e sulla famiglia, che la sincope rappresenta una vera interruzione della vita, anche se breve ed
a risoluzione spontanea, così da far pensare che l’esperienza si possa ripetere con risultati non altrettanto
favorevoli. Se l’etimologia della parola significa “interrompere” (dal greco) bisogna ben considerare
che “the only difference between syncope and sudden death is that in one you wake up”.
Il momento fisiopatologico determinate della sincope è la ipoperfusione dell’encefalo, ma ciò non significa
che il fenomeno dipenda necessariamente da una ipotensione acuta e transitoria. I fattori determinanti la
pressione arteriosa sono il volume circolante nel distretto arterioso, la gittata cardiaca, e le resistenze
periferiche. Le alterazioni di uno o più di questi parametri possono portare alla sincope.
La riduzione della gittata cardiaca può conseguire a diminuzione della gittata sistolica, a critiche variazioni
della frequenza cardiaca (tachicardie o bradicardie estreme ) o a diminuzione del volume circolante; la
riduzione delle resistenze periferiche è l’effetto di mediatori fisiologici o patologici (farmaci con azione
simpaticolitica, eventi riflessi, malattie neurologiche).
E’ fondamentale tener presente che varie malattie possono mimare la sincope, soprattutto le epilessie
generalizzate non convulsive (crisi di piccolo male), i disturbi del sonno e le forme psicogene (crisi di ansia
generalizzata).
EPIDEMIOLOGIA
La sincope è molto frequente. Si calcola che nel nostro paese vi siano oltre 100.000 casi/anno. Il 75% della
popolazione sana va incontro ad almeno un episodio sincopale in un arco di tempo di 26 anni; nei nostri
Ospedali la sincope rappresenta il 3% delle presentazioni, e nel 25 % dei casi si manifesta una recidiva.
La sincope colpisce tutte le età, con un’incidenza progressivamente crescente con il passare del tempo. La
ricorrenza della sincope è molto frequente, stimata al 30% della popolazione che già ne ha sofferto.
CLASSIFICAZIONE
La sincope è una fra le transitorie perdite di coscienza. Una adeguata classificazione deve prendere in
considerazione anche quelle affezioni che possono mimare la sincope, per poter avviare una adeguata
diagnosi differenziale. Queste situazioni vengono spesso indicate come “syncope like” La sincope può
essere classificata come segue.
Syncope like
Epilessia generalizzata
La sincope neuromediata è la forma più comune, e consegue ad un riflesso che può essere scatenato da
molteplici fattori (odori, dolore, emozioni, vista di episodi sgradevoli, prolungata stazione eretta). In genere
si accompagna ad un insieme di sintomi (nausea e/o vomito, pallore, sudorazione) la cui presenza permette
un alto grado di sospetto.
La sincope da ipersensibilità del seno carotideo (SSC), frequente nella popolazione anziana, è caratterizzata
dal fatto che uno stimolo anche lieve, portato nella zona del seno carotideo (massaggio del seno carotideo
– MSC) diventa efficiente nel provocare la sintomatologia. Questo ha un’evidente corrispondenza in clinica
nella comparsa degli episodi spontanei.
La sincope situazionale, più frequente nel giovane, permette una diagnosi di certezza solo su base
anamnestica (minzione, defecazione, deglutizione).
Marker diagnostico di tutte le forme neuromediate, quando esse sono colte dall’osservatore o provocate in
laboratorio durante il tilt test o il MSC, è la presenza di bradicardia e/o ipotensione da vasodilatazione, con
differente prevalenza dei due aspetti patogenetici
La sincope ortostatica è comune, e si manifesta a seguito dell’assunzione della posizione eretta. Può essere
accompagnata da sintomi che esprimono la riduzione più o meno rapida della pressione arteriosa in
ortostatismo (sensazione di testa vuota, vertigine, astenia) con recupero della sensazione di benessere alla
riassunzione della posizione seduta o distesa. Una disfunzione autonomica deve essere sospettata
nell’anziano, associata o meno a sintomi di malattie sistemiche (amiloidosi e diabete) o neurologiche
degenerative (Morbo di Parkinson). Altre cause sono l’uso di farmaci ipotensivi o di diuretici e alcune
malattie endocrine (Ipocorticosurrenalismo primitivo o secondario).
Le aritmie cardiache sono causa di sincope quando inducono un’eccessiva bradicardia o tachicardia.
Entrambi i fenomeni provocano la caduta della gittata cardiaca e quindi della perfusione cerebrale. Le
bradicardie secondarie a disfunzione del nodo del seno (sick sinus sindrome) e quelle legate a disturbi della
conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 40), sono le più frequenti, seguite dalle tachicardie ventricolari
(vedi Capitolo 39). La perdita di coscienza si può verificare all’inizio dell’aritmia o alla fine, quando
interrompendosi improvvisamente il ritmo anomalo, si registra una pausa prolungata che precede il
recupero del ritmo normale.
La sick sinus syndrome (SSS) esprime una combinazione di bradicardia (sinusale, pause sinusali, blocchi
senoatriali ) e di tachicardia, in genere flutter o fibrillazione atriale. I periodi di bradiaritmia sono
considerati più frequentemente in causa nella patogenesi della sincope. I disturbi della conduzione AV
possono esser causa di sincope. Si deve dare poca importanza al blocco AV di I grado e a quello di II grado
tipo Mobitz I (Wenckebach), mentre più frequente è la sincope in corso di blocco AV di II grado tipo Mobitz
II o di blocco AV di III grado.
La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo 39) è una frequente causa di sincope.
La sindrome del QT lungo congenita o acquisita (vedi Capitolo 42) favorisce la comparsa di una tachicardia
ventricolare a torsione di punta, specialmente in associazione a periodi di bradicardia o in concomitanza di
ipokaliemia. La tachicardie sopraventricolari sono di rado causa di sincope, solo quando si associano a bassa
gittata; in genere i soggetti anziani sono quelli che presentano più frequentemente la sincope in corso di
tachicardia sopraventricolare .
La malattie cerebrovascolari sono cause rare di sincope. In particolare il furto della succlavia (vedi Capitolo
53) provoca, in condizione critiche, una ipoperfusione a livello del circolo cerebrale posteriore che rientra
DIAGNOSI
L’obiettivo primario della strategia diagnostica è definire il profilo di rischio del paziente: l’obiettivo
fondamentale a cui devono mirare le indagini è l’esclusione di una patologia cardiaca. Quando questa possa
essere esclusa, l’identificazione della causa della sincope permetterà di mettere in atto una serie di
provvedimenti che migliorino la qualità di vita e riducano la morbilità associata. Una volta esclusa la
patologia aritmica (bradicardie o tachicardie critiche), il medico ha a che fare con una sincope anamnestica.
E’ quindi necessario un algoritmo diagnostico che miri alla individuazione delle cause cardiogene e, una
volta escluse queste, alla ricerca di altre malattie.
L’anamnesi è il momento diagnostico più importante poiché permette la diagnosi in oltre il 70% dei casi,
specialmente quando essa può essere confermata da un testimone. Nella pratica clinica, occorre richiedere
al paziente di concentrarsi e descrivere l’ultimo evento critico, poiché si presuppone che esso sia più
facilmente riferibile, e successivamente valutare e confrontare con l’ultimo gli episodi precedenti. Alcuni
elementi sono fortemente indicativi per la diagnosi: si devono valorizzare precedenti patologici quali la
presenza di cardiopatia, di malattie del sistema nervoso centrale, (per esempio, malattia di Parkinson,
epilessia), di morte improvvisa nella famiglia, della recente assunzione di farmaci, di malattie psichiatriche.
Successivamente si deve ricercare la presenza dei sintomi e segni elencati nella Tabella I come post critici,
critici e pre critici in relazione al periodo di comparsa.
Nel dare un peso ai sintomi e ai segni rilevabili durante la raccolta dell’anamnesi si deve ricordare che nelle
forme ospedalizzate la sincope neuromediata giustifica il 66% delle osservazioni, la forma cardiogena ne
comprende l’11% e le forme sincope-like rappresentano il 6% della casistica. La perdita di coscienza in
soggetto con età superiore a 54 anni, con meno di due episodi, in associazione a palpitazioni orienta per
una forma cardiogena, mentre l’associazione di nausea, sudorazione, visione confusa o sensazione di testa
vuota che precedono o seguono la sincope è indicativo di una forma neuromediata. La sincope cardiogena
appare molto probabile quando vi è rilievo anamnestico di cardiopatia, mentre l’assenza di cardiopatia
anamnestica esclude la sincope cardiogena nel 97% dei pazienti.
La sincope cardiogena è la prima diagnosi da confermare o escludere poiché può essere annunciatrice di
morte o di gravi complicanze. E’ quindi necessario per ogni paziente definire il profilo di rischio, cioè la
probabilità di essere affetto da una malattia potenzialmente letale.
I due più forti indicatori di sincope cardiogena
sono l’anamnesi di cardiopatia strutturale e l’ECG patologico. La registrazione dell’elettrocardiogramma
tradizionale a 12 derivazioni è troppo breve per potere cogliere aritmie significative, ma fornisce
informazioni sul ritmo e sulla conduzione AV. La bradicardia sinusale, l’intervallo PR prolungato (blocco A-V
di I grado) o la presenza di un blocco di branca aumentano la possibilità di una disfunzione sinusale o di un
blocco atrio-ventricolare intermittente (vedi Capitolo 40) da cui la sincope può dipendere. L’esame del
complesso QRS può permettere di identificare un’onda delta, indice di una via accessoria (vedi Capitoli 3 e
38) e di una sindrome di Wolff-Parkinson-White, potenzialmente responsabile della sincope. Le malattie
genetiche classificate oggi come canalopatie o malattie dei canali ionici (Sindrome del QT lungo e Sindrome
di Brugada, vedi Capitolo 42), possono essere identificate con l’ECG, come anche, in alcuni casi, la
cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro o altre cardiomiopatie; anche i segni di necrosi
miocardica, indicativi di un pregresso infarto, vengono rivelati dall’ECG. In tutte queste condizioni, la
sincope può essere provocata da una tachicardia ventricolare.
(aura, parestesie, diplopia, disartria). I test da utilizzare in questi casi sono indagini neurologiche di tipo
funzionale (Elettroencefalogramma) e di imaging (TC ed RM dell’encefalo).
CENNI DI TERAPIA
A stretto rigore di termini dobbiamo parlare di prevenzione delle recidive sincopali piuttosto che di terapia
della sincope. I nostri sforzi sono diretti a prevenire nuovi episodi sincopali trattando la malattia e i
meccanismi patogenetici che sottendono la sincope.
La sincope neuromediata o vasovagle, di gran lunga la forma più frequente, ha poche possibilità di
un’efficace prevenzione. Molti sono infatti i fattori scatenanti che devono essere individuati ed evitati. Il
paziente deve essere educato ad evitare tutte le condizioni favorenti e scatenanti il riflesso
patogeneticamente efficiente, come gli ambienti affollati, i luoghi con temperatura eccessiva, le condizioni
fisiche e farmacologiche che favoriscono la disidratazione e l’ipovolemia. Egli dovrà essere sensibilizzato al
riconoscimento dei sintomi premonitori e dovrà conoscere le manovre che sono in grado di far abortire la
crisi sincopale, prima fra tutte il mettersi in posizione supina non appena egli avverte i sintomi premonitori.
Il soggetto deve essere rassicurato sulle sue condizioni di salute e reso edotto della benignità dell’evento di
cui ha sofferto e della possibilità di una recidiva, al fine di evitare gli aspetti psicologici, come ansia e
depressione, che possono accompagnare uno o più episodi sincopali. In caso di sincope vasovagale
ricorrente e in pazienti molto motivati, la prescrizione di periodi prolungati di postura eretta od altre
manovre fisiche specificamente orientate possono essere utili nel ridurre gli episodi ricorrenti. Scarsa
indicazione trovano oggi, alla luce delle esperienze attuali, i numerosi farmaci che sono stati proposti in
passato quali i (-bloccanti e i vasocostrittori.
L’impianto di un pacemaker si è dimostrato efficace nella Sindrome del seno carotideo cardioinibitoria, di
cui è ormai diventato il trattamento di scelta. Lo stesso non si può dire per la sincope vasovagale, che è
stata oggetto di numerosi trial in cui il braccio terapeutico efficace era rappresentato da un pacemaker.
Dopo alcuni studi condotti su popolazioni limitate di pazienti e non in doppio cieco, è stata dimostrata la
non superiorità del trattamento con pacemaker rispetto al placebo. L’efficacia dei pacemaker, invece, è
dimostrata in tutte le forme da disfunzione del nodo sinusale o da blocco AV (vedi Capitolo 40).
Le tachicardie parossistiche sopraventricolari hanno indicazione all’uso di farmaci antiaritmici, ed in realtà
molte se ne giovano, anche se transitoriamente. L’uso sempre più diffuso delle tecniche di ablazione
transcatetere (vedi Capitolo 60) ha permesso il successo anche nei casi non sensibili ai farmaci, evitandone
gli effetti collaterali e rendendo permanente l’efficacia della terapia.
Quando è la tachicardia ventricolare a indurre la sincope, trova indicazione il trattamento farmacologico o
l’impiego di specifici device. I farmaci antiaritmici di Classe I (vedi Capitolo 58) non sono indicati per il loro
effetto inotropo negativo; l’amiodarone è invece il farmaco di scelta per la virtuale assenza di effetti
inotropi negativi. In alternativa, si può impiegare il defibrillatore impiantabile
(ICD, implantable cardioverter defibrillator), che riconosce la tachicardia e la fibrillazione ventricolare e la
tratta con uno shock elettrico in grado di interromperla (vedi Capitolo 43).
Capitolo 43
MORTE CARDIACA IMPROVVISA
Lia Crotti, Peter J. Schwartz
DEFINIZIONE
Definizione
Con il termine “morte cardiaca improvvisa” si intende il decesso per cause naturali di origine cardiaca che
consegua ad una improvvisa perdita di coscienza entro un’ora dall’esordio dei sintomi. I soggetti possono
anche essere cardiopatici noti, ma la modalità e il momento dell’insorgenza della perdita di coscienza
devono essere inattesi.
EPIDEMIOLOGIA
Epidemiologia
Negli Stati Uniti la morte cardiaca improvvisa è all’origine di 300000-400000 vittime all’anno e nei paesi
industrializzati è la causa di morte più frequente per i soggetti in età produttiva (20-65 anni), in particolare
di sesso maschile. Nella stragrande maggioranza dei casi la morte cardiaca improvvisa è dovuta ad una
tachiaritmia fatale (fibrillazione ventricolare primaria o tachicardia ventricolare degenerante in fibrillazione
ventricolare). Nel 10-15% dei casi la causa è un’asistolia (assenza del battito cardiaco); più raramente una
dissociazione elettro-meccanica (presenza di attività elettrica in assenza di contrazione efficace del cuore).
La patologia coronarica è senz’altro la causa più frequente di morte cardiaca improvvisa e per tale motivo
sia la distribuzione sia i principali fattori di rischio sono comuni alle due condizioni.
L’incidenza della morte cardiaca improvvisa mostra un ritmo circadiano con una prevalenza tra le ore 6 del
mattino e mezzogiorno. Questo ritmo circadiano è molto simile a quello osservato per l’insorgenza di altri
eventi cardiaci acuti quali l’infarto del miocardio e l’ischemia miocardica transitoria. Anche se il
meccanismo di questo picco mattutino non è noto con certezza, è verosimile che dipenda almeno in parte
dall’aumento di attività simpatica che compare al risveglio. Infatti, nelle prime ore del mattino si osserva un
aumento del tono vasocostrittore coronarico, della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, delle
catecolamine plasmatiche e dell’adesività piastrinica. Esistono due picchi di incidenza della morte
improvvisa; il primo nei primi sei mesi di vita (Sudden Infant Death Syndrome o SIDS) e il secondo tra i 45 e
75 anni di età. Poiché la morte cardiaca improvvisa nel primo anno di vita riconosce meccanismi
fisiopatologici diversi rispetto alla morte improvvisa dell’adulto, alla sua trattazione è riservato un
paragrafo a parte.
FISIOPATOLOGIA
Fisiopatologia
La genesi della morte cardiaca improvvisa coinvolge una serie di fattori con ruoli diversi. Un modello
efficace di morte cardiaca improvvisa prevede l’esistenza di un substrato miocardico, di fattori scatenanti e
di fattori modulanti o favorenti che interagiscono a causare la tachicardia o fibrillazione ventricolare (la
causa più frequente di arresto cardiaco).
Con il termine substrato si intende la presenza di alterazioni strutturali o elettriche cardiache che
favoriscono il rischio aritmico: 1) alterazioni strutturali possono ad esempio essere rappresentate da una
cardiopatia congenita, da alterazioni conseguenti alla ipertrofia o alla fibrosi miocardica, che possono ad
esempio seguire ad un infarto del miocardio; 2) alterazioni elettriche sono tipicamente quelle presenti in
cardiopatie aritmogene ereditarie, legate a difetti di canali ionici cardiaci, quali la Sindrome del QT Lungo o
la Sindrome di Brugada (vedi Capitolo…).
Un fattore scatenante importante è costituito, ad esempio, da un episodio ischemico acuto. La frequente
assenza, nei vasi coronarici esaminati all’autopsia, di lesioni occlusive sottolinea la possibilità che a
scatenare l’episodio di arresto cardiaco sia una ischemia miocardica solo transitoria. In accordo con questa
ipotesi è il fatto che solo una minoranza dei soggetti risuscitati dopo arresto cardiaco sviluppa un infarto del
miocardio.
Con il termine “fattore modulante” si intende un fattore variabile nel tempo, che possa in talune
circostanze presentarsi con caratteristiche tali da favorire l’insorgenza, la perpetuazione o la degenerazione
di un’aritmia ventricolare minacciosa. Esempi tipici sono rappresentati dalla presenza di alterazioni
elettrolitiche quali l’ipopotassiemia. Altre possibilità sono costituite da situazioni transitorie di ipossia o di
acidosi o dall’utilizzo di farmaci con potenziale effetto proaritmico. Un posto di primaria importanza
nell’ambito dei fattori modulanti spetta al sistema nervoso autonomo. Numerosi studi sperimentali hanno
indicato l’effetto sfavorevole rappresentato da una eccessiva attivazione simpatica nella genesi delle
aritmie ventricolari maligne, in particolare in occasione di ischemia miocardica acuta. Una eccessiva
attivazione adrenergica esercita una serie di effetti sfavorevoli sia nel senso di un aumento della gravità
dell’ischemia (per aumento del consumo di ossigeno e delle resistenze coronariche) sia di un aumento della
probabilità di aritmie. Ciò si verifica per una facilitazione sia delle aritmie da rientro (favorite dalla riduzione
della refrattarietà ventricolare) sia di aritmie scatenate da un alterato automatismo (vedi Capitolo…).
L’attivazione parasimpatica si è dimostrata in grado di antagonizzare efficacemente gli effetti sfavorevoli di
una aumentata attività adrenergica. Questi concetti hanno trovato applicazione nella pratica clinica, grazie
all’utilizzo di indici autonomici, quali la sensibilità barocettiva e la variabilità della frequenza cardiaca, che si
sono dimostrati di estrema utilità per la stratificazione del rischio nel post-infarto e per l’individuazione dei
pazienti a maggior rischio di morte cardiaca improvvisa (vedi Capitolo…).
Cardiopatia ischemica
Circa il 5% dei pazienti che giungono vivi in ospedale con un infarto miocardio acuto, ha un episodio di
fibrillazione ventricolare (FV) nelle prime 24 ore successive all’infarto. In generale l’occorrenza dell’episodio
di fibrillazione ventricolare non è giustificata né dall’estensione particolarmente importante dell’infarto né
dalle condizioni di particolare compromissione della funzione ventricolare sinistra. Da cosa dipenda questa
predisposizione a rispondere all’ischemia miocardica acuta con aritmie fatali è uno dei problemi maggiori
ancora irrisolti della cardiologia contemporanea. Il “Paris Prospective Study”, uno studio condotto su oltre
7500 dipendenti pubblici ha dimostrato che la morte cardiaca improvvisa di uno dei due genitori aumenta il
rischio relativo di tale evenienza nel soggetto di circa due volte e addirittura di nove volte se entrambi i
genitori sono morti improvvisamente. Due recenti studi clinici hanno confermato che la storia familiare di
morte cardiaca improvvisa è il principale predittore di FV durante la fase acuta di un infarto del miocardio,
supportando l’ipotesi che esista una predisposizione, almeno in parte geneticamente trasmessa, ad una
aumentata instabilità elettrica che possa favorire l’insorgenza di FV in presenza di un appropriato substrato
clinico.
I pazienti sopravvissuti ad un infarto del miocardio sono quelli studiati più a fondo in senso prognostico, in
quanto è stato facile rendersi conto che molti di essi muoiono improvvisamente e che l’incidenza massima
di questo evento è nel primo anno successivo all’infarto. Diversi sono i fattori di rischio che sono stati
identificati, quali la riduzione della frazione di eiezione, la presenza di frequenti battiti ectopici ventricolari,
un intervallo QT costantemente prolungato ed un episodio di FV nella fase acuta di un infarto a sede
anteriore. Negli ultimi anni sono aumentati i dati che indicano uno stretto rapporto tra morte improvvisa e
sistema nervoso autonomo. In particolare nei pazienti con infarto del miocardio uno squilibrio autonomico
caratterizzato da una ridotta attività vagale e da una aumentata attività simpatica si associa in modo
significativo ad un aumento della mortalità cardiaca e di quella improvvisa. I parametri clinici più utilizzati
per valutare il profilo autonomico sono la variabilità della frequenza cardiaca e la sensibilità barocettiva,
che si è rivelata predittiva anche nei soggetti con frazione di eiezione conservata e anche oltre i 65 anni
(vedi Capitolo…).
Dall’insieme di queste considerazioni dovrebbe essere chiaro che un notevole progresso è stato fatto nella
identificazione di quei soggetti che, dopo un infarto del miocardio, sono ad alto rischio di morte improvvisa.
E’ anche chiaro però che stiamo parlando di morti improvvise non totalmente inattese.
Da un punto di vista pratico il problema dell’identificazione dei soggetti a rischio di morte improvvisa
rimane molto complesso. Infatti, non si può prescindere dal numero totale di eventi e dalla popolazione di
pazienti nei quali tali eventi si verificano. Se è vero che vi sono dei gruppi di pazienti, ad esempio quelli che
hanno avuto un episodio di tachicardia o FV dopo un infarto miocardico, con un rischio molto alto di morte
cardiaca improvvisa, è anche vero che il contributo in termini assoluti al numero totale delle vittime di
morte improvvisa è relativamente modesto. E’ infatti nella popolazione non selezionata, nella quale
l’incidenza di morte cardiaca improvvisa è estremamente ridotta (1-2 per mille per anno), che si verifica il
numero maggiore di eventi. In questi soggetti la morte improvvisa rappresenta generalmente la prima
manifestazione della malattia (per lo più coronarica) e si tratta quindi di morte cardiaca improvvisa
totalmente inattesa.
Cardiomiopatie
Tre sono le principali cardiomiopatie che si associano al rischio di morte improvvisa:
Cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…). E’ una malattia del miocardio caratterizzata da dilatazione e
da compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli. La
cardiomiopatia dilatativa è rappresentata in prevalenza da forme primitive, ad etiologia non nota, le
cosiddette forme idiopatiche. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il sesso maschile fra la
terza e la quinta decade di vita. La morte improvvisa è responsabile di circa la metà delle morti dei
pazienti con questa patologia; tuttavia, tende a manifestarsi più tardivamente, quando sono spesso già
presenti sintomi da compromissione emodinamica.
Cardiomiopatia ipertrofica (vedi Capitolo…). E’ una patologia primitiva del muscolo cardiaco, a
trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da un’ipertrofia ventricolare sinistra e/o destra di
eziologia ignota, associata ad un aspetto istologico di disorganizzazione (disarray) delle fibrocellule
miocardiche. Tipicamente l’ipertrofia è asimmetrica ed il setto interventricolare è il distretto più
frequentemente interessato. Nel 70% circa dei casi la cardiomiopatia ipertrofica riconosce un andamento
familiare e sono stati identificati una serie di geni, codificanti per proteine del reticolo sarcoplasmatico,
alla base della malattia. In questa patologia il rischio di aritmie ventricolari maligne è elevato e la morte
improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia. La cardiomiopatia ipertrofica è la prima
causa di morte improvvisa negli atleti al di sotto dei 35 anni di età.
Cardiomiopatia-Displasia aritmogena del ventricolo destro. E’ una patologia primitiva del muscolo
cardiaco, caratterizzata da sostituzione fibroadiposa dei miocardiociti, che tipicamente interessa il
ventricolo destro e può successivamente andare ad interessare anche il ventricolo sinistro. Nel 30-50%
dei casi tale patologia sembra avere una distribuzione familiare, con modalità di trasmissione di tipo
autosomico dominante. Tale patologia si associa ad un elevato rischio di aritmie ventricolari sostenute,
tipicamente a partenza dal ventricolo destro, che possono anche portare alla morte improvvisa,
frequentemente indotta dall’esercizio fisico. Per tale motivo, specialmente nel Veneto dove questa
patologia ha un’elevata prevalenza, essa rappresenta una delle principali cause di morte improvvisa nei
giovani atleti.
Patologie valvolari
Se non trattata chirurgicamente, la stenosi valvolare aortica severa (vedi Capitolo…) si associa ad un elevato
rischio di morte cardiaca improvvisa. Dopo sostituzione valvolare, l’incidenza di morte improvvisa si riduce
moltissimo, tuttavia permane, data la possibilità di disfunzioni protesiche, aritmie o coesistenza di
coronaropatia.
E’ tuttora controverso se il prolasso della valvola mitrale (vedi Capitolo…) si correli con un incremento del
rischio di morte improvvisa. Considerata l’alta prevalenza di prolasso mitralico, è verosimile che il rilievo
anatomopatologico di prolasso nei soggetti deceduti improvvisamente rappresenti una coincidenza casuale
più che una condizione causale. Tuttavia, se il prolasso è complicato da insufficienza mitralica significativa,
disfunzione ventricolare sinistra o degenerazione mixomatosa della valvola, il rischio di eventi
tromboembolici, endocardite infettiva e morte improvvisa aumenta notevolmente.
Sindrome del QT Lungo (LQTS). E’una cardiopatia a trasmissione per lo più autosomica dominante,
caratterizzata da un prolungamento dell’intervallo QT all’ECG di superficie (QTc>440 msec) e da un
elevato rischio di aritmie ventricolari maligne che tendono a manifestarsi più frequentemente in giovane
età e che sono tipicamente indotte da stress fisici od emotivi. Date le caratteristiche della LQTS, il caso
tipico non presenta particolari difficoltà dal punto di vista della diagnosi per il medico che ha familiarità
con questa malattia. Tuttavia, i casi borderline sono più complessi e richiedono l’attenta valutazione di
più variabili, oltre ovviamente all’anamnesi e all’intervallo QT, quali la storia familiare, le anomalie
morfologiche dell’onda T e la variabilità dell’intervallo QT durante le 24 ore e a seguito di test quali il test
ergometrico e quello all’iperventilazione. Lo screening molecolare è ormai un componente importante
del processo diagnostico, specialmente per i casi borderline. Tuttavia è bene ricordare che circa il 25-30%
di casi indubbi di LQTS sfuggono alla diagnosi molecolare. Un’area in cui lo screening molecolare dà un
apporto importante ed unico è nella diagnosi dei familiari con QT normale. Esistono tre varianti genetiche
principali di Sindrome del QT Lungo, pur essendo ad oggi noti ben 10 geni alla base della malattia. Nella
variante LQT1, dovuta a difetti sul gene KCNQ1, la maggior parte degli eventi si manifestano in condizioni
di stress fisico ed il nuoto è un’attività particolarmente rischiosa. In questi pazienti la terapia beta-
bloccante è estremamente efficace. I pazienti LQT2 hanno la maggior parte dei loro eventi in condizioni di
stress emotivo e tipicamente a seguito di rumori improvvisi specie se al risveglio; in questo sottogruppo
genetico l’efficacia dei beta-bloccanti è buona. I pazienti LQT3 sono quelli di più difficile gestione. Essi
hanno mutazioni sul gene SCN5A e la maggior parte dei loro eventi avviene a riposo o durante il sonno. La
terapia beta-bloccante è solo parzialmente efficace e spesso si devono considerare misure terapeutiche
aggiuntive quali il bloccante del sodio mexiletina, la denervazione simpatica cardiaca di sinistra o
l’impianto del defibrillatore. La morte improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia in un
10-12% dei casi di Sindrome del QT Lungo ed in uno studio recente mutazioni responsabili della LQTS
sono state identificate in ben il 20% delle morti improvvise di giovani con autopsia negativa (9). Poiché in
questa malattia esiste una terapia (farmaci beta-bloccanti) in grado di ridurre significativamente il rischio
di aritmie fatali, non vi sono giustificazioni per l’esistenza di pazienti sintomatici senza diagnosi.
Sindrome del QT Corto. E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica dominante di recente descrizione.
E’ caratterizzata dalla presenza di un intervallo QT corto all’ECG di superficie (QTc<340 msec) e da un
elevato rischio di aritmie ventricolari maligne. Purtroppo nessuna terapia farmacologia si è dimostrata
fino ad ora in grado di ridurre in maniera significativa il rischio aritmico, pertanto l’impianto di un
defibrillatore rimane per il momento l’opzione di scelta per la prevenzione della morte improvvisa.
Sindrome di Brugada. E’ una cardiopatia caratterizzata all’ECG da un’onda terminale positiva larga (onda
J), che simula un blocco di branca destra completo o incompleto, e da un sopraslivellamento del tratto ST
da V1 a V3. Questa patologia si associa ad un significativo rischio di morte improvvisa, che avviene
tipicamente nel sonno o in condizioni di riposo. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il
sesso maschile fra la terza e la quinta decade di vita. Anche in questo caso l’unico strumento di
prevenzione della morte improvvisa è l’impianto del defibrillatore, che viene riservato a quei pazienti con
un elevato profilo di rischio (pregresso arresto cardiaco o sincope di verosimile origine aritmica, pattern
diagnostico spontaneo con inducibilità di aritmie ventricolari maligne allo studio elettrofisiologico,
familiarità per morte improvvisa)
Tachicardia Ventricolare Catecolaminergica (CPVT). E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica
dominante caratterizzata dallo sviluppo di tachicardie ventricolari polimorfe, tipicamente bidirezionali,
che possono degenerare in fibrillazione ventricolare e quindi morte improvvisa. Le aritmie sono
tipicamente indotte dall’esercizio fisico, pertanto per fare una diagnosi corretta è necessario effettuare
un test ergometrico od un ECG Holter delle 24 ore, mentre l’ECG di base è solitamente normale. Da uno
studio è emerso che mutazioni responsabili della CPVT sono state identificate nel 15% delle morti
improvvise di giovani con autopsia negativa. Anche per questa malattia esiste una terapia (beta-
bloccante) in grado di ridurre il rischio di aritmie fatali. Se la terapia beta-bloccante non è sufficiente sono
disponibili misure terapeutiche aggiuntive come la denervazione simpatica cardiaca di sinistra ed
eventualmente l’impianto del defibrillatore.
Cardiopatie Congenite
Un aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa è stato descritto fondamentalmente in quattro
condizioni, e cioè nella tetralogia di Fallot, nella trasposizione delle grandi arterie, nella stenosi aortica e
nell’ostruzione vascolare polmonare (vedi Capitolo…). Il rischio persiste dopo l’intervento cardiochirurgico
ed è presente anche nell’ipertensione polmonare primitiva e secondaria. Nella tetralogia di Fallot la durata
del QRS si correla con le dimensioni del ventricolo destro e con il rischio di morte improvvisa.
SIDS
Il termine “Sudden Infant Death Syndrome” (SIDS) identifica una morte improvvisa nel primo anno di vita
che risulta inaspettata in base alla storia clinica del soggetto ed in cui l’esame autoptico non riesce a
dimostrare un’adeguata causa di morte. La SIDS è la principale causa di morte infantile nei paesi occidentali
e colpisce circa 1 bambino ogni 2000 nati vivi. Esistono diverse ipotesi riguardo la genesi della SIDS, le due
più accreditate sono la teoria respiratoria e quella cardiaca. Già negli anni settanta era stato ipotizzato che
alcuni casi SIDS fossero legati a fibrillazione ventricolare ed era stato proposto che la Sindrome del QT
Lungo potesse essere responsabile di alcuni di questi casi. Questa ipotesi venne supportata dai risultati di
uno studio prospettico su 34442 neonati dimostranti che i neonati con un QTc > 440 ms avevano un rischio
di SIDS 41 volte superiore a quelli con intervallo QT normale. La dimostrazione finale della validità
dell’ipotesi per cui un certo numero di casi di SIDS può dipendere dalla LQTS è giunta da uno studio
molecolare in oltre 200 casi SIDS ed un simile numero di controlli. E’ emerso che il 10% delle vittime SIDS ha
mutazioni sui geni responsabili per la Sindrome del QT Lungo. Questo dato indica che almeno una parte di
queste tragedie con devastanti effetti familiari può essere evitata, e pone l’attenzione sulla necessità di
effettuare screening elettrocardiografici nel primo mese di vita, per individuare il più precocemente
possibile pazienti affetti da Sindrome del QT Lungo e potenzialmente a rischio di morte cardiaca
improvvisa, sia nel primo anno di vita che più avanti, se non correttamente diagnosticati e trattati.
Capitolo 45
L’IPERTENSIONE ARTERIOSA
Massimo Volpe, Sebastiano Sciarretta
DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA
Definizione ed epidemiologia
Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata da un aumento
anomalo stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli di pressione arteriosa. Tale
aumento riguarda più frequentemente entrambe le pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di
ipertensione caratterizzate da aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata),
condizione più frequente negli anziani, o più raramente solo della diastolica.
In base alle ultime Linee Guida europee sulla gestione clinica del paziente iperteso, la presenza di
ipertensione arteriosa viene definita arbitrariamente da valori di pressione arteriosa > 140 mmHg per
quanto riguarda la pressione sistolica e/o > 90 mmHg per quanto riguarda la pressione diastolica. Sulla base
dei livelli pressori inoltre, la malattia ipertensiva può essere classificata in 3 diversi gradi di severità clinica
(grado I: 140-159/90-99 mmHg; grado II: 160-179/100-109 mmHg; grado III: > 180/>110 mmHg) che, come
è intuibile, possono avere un diverso impatto sulla storia naturale della malattia.
L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad una eziologia
chiaramente identificabile alla base del suo sviluppo, e questa rende conto di oltre il 90% dei casi di
ipertensione arteriosa. Di contro, quando l’aumento dei valori pressori è secondario a disordini d’altra
natura, l’ipertensione arteriosa viene definita “secondaria”.
L’ipertensione arteriosa essenziale è una condizione di enorme rilevanza epidemiologica, pressoché
ubiquitaria nel nostro pianeta. Nella maggioranza dei casi, interessa soggetti adulti con prevalenza
direttamente correlata all’età. Si presume che nel mondo vi siano circa 690 milioni di soggetti attualmente
affetti da ipertensione arteriosa. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma sale ad oltre
il 50% nella popolazione d’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, la prevalenza
d’ipertensione è maggiore nei maschi quando si considerano soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è
uguale tra i 2 sessi per età superiori. In termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone
urbane rispetto a quelle rurali, in particolare nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati,
mentre per quanto riguarda la razza, la prevalenza d’ipertensione è maggiore in quella nera. In base a
queste considerazioni si prevede che entro il 2025 vi saranno nel mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di
ipertesi, con un impatto di gran lunga superiore a qualunque altra condizione in termini di “carico di
malattia”.
EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA
Eziopatogenesi e fisiopatologia
Se l’ipertensione di tipo secondario riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella malattia primitiva a cui è
associata, alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale vi sono molti fattori causali per lo
più non identificati. L’ipertensione arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale,
dove elementi di tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e
metabolici che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i più importanti sono
legati allo stile di vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo stress psichico, l’abitudine tabagica, una
dieta ipersodica ed iperlipidica, ed il frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori genetici
identificati e più probabilmente coinvolti, vanno annoverati invece quelli determinanti una maggiore
attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, un aumento costituzionale del tono adrenergico, un
aumento della risposta vascolare a sostanze vasocostrittrici quali l’endotelina, una ridotta escrezione renale
di sodio ed infine una ridotta sintesi endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…).
Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle resistenze periferiche per la gittata
cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto della frequenza cardiaca per la gittata sistolica.
Pertanto è proprio sulle resistenze periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che agiscono i
differenti meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze periferiche
sono condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare, così come lo è la frequenza cardiaca,
mentre la gittata sistolica è prevalentemente regolata dalla contrattilità miocardica e dal precarico, a sua
volta correlato alla volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della pressione arteriosa
possono essere distinti in meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi a breve termine
possono essere annoverati i sistemi baro- e chemo-recettoriali, che modificano in pochi secondi il tono
simpatico modulando l’attività cardiaca, il tono arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a medio termine
sono invece quelli di tipo umorale mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-aldosterone,
dalla vasopressina e dal sistema delle chinine. Il rene è invece deputato al controllo a lungo termine della
pressione arteriosa, principalmente attraverso la regolazione della volemia.
Pertanto qualsiasi alterazione patologica dei suddetti determinanti fisiologici della pressione arteriosa e dei
suoi meccanismi di regolazione può determinare l’insorgenza di uno stato ipertensivo. In particolare, tra i
meccanismi fisiopatologici responsabili dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli
maggiormente implicati sono legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al
rimodellamento vascolare, ad un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una ridotta
sensibilità insulinica ed in ultimo ad una funzione endoteliale alterata.
Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella genesi della malattia
ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume plasmatico ed un aumento delle resistenze
periferiche. Tuttavia studi clinici hanno mostrato come solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi
una riduzione dell’introito di sodio determini una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla base di tale
risposta individuale alla riduzione dell’introito di sodio è stata coniata la definizione di ipertensione
arteriosa sodio-sensibile.
Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il potassio ed il calcio, le
cui concentrazioni sono inversamente associate ai valori pressori. Tuttavia diversi studi che hanno valutato
gli effetti di un aumento dell’assunzione dietetica di potassio e calcio sulla riduzione della pressione hanno
fornito finora risultati controversi.
L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle resistenze periferiche,
e se nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso secondario ad una vasocostrizione arteriolare
di origine funzionale, dipendente da un aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali
catecolamine, angiotensina II o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca,
successivamente un rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori
pressori. Infatti l’incremento della pressione ed il costante insulto meccanico sulle pareti dei vasi stimolano
lo sviluppo di un’ipertrofia delle cellule muscolari lisce vascolari, con ulteriore riduzione del lume
arteriolare, ed il conseguente aumento delle resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od
anche il peggioramento dello stato ipertensivo, anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a
mancare.
Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema renina-angiotensina-
aldosterone, il quale esercita importanti azioni regolatorie sulla pressione arteriosa anche attraverso la
regolazione dell’omeostasi elettrolitica e del riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre,
attraverso effetti di tipo autocrino e paracrino, in alcuni tessuti l’attività del sistema renina-angiotensina-
aldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e favorisce lo sviluppo di fibrosi tissutale, in
particolare a livello vascolare. Pertanto, una disregolazione dell’attività del sistema renina-angiotensina-
aldosterone, ad esempio un’attività sproporzionata rispetto all’assunzione di sodio o ai livelli pressori stessi,
determina un aumento dei valori pressori e progressive modificazioni strutturali vascolari e cardiache, tali
da giustificare l’intervento farmacologico su questo sistema.
Anche l’insulina svolge delle azione regolatorie importanti sulla pressione arteriosa: legandosi ai recettori
tirosin-kinasici essa determina a livello endoteliale una cascata trasduzionale intracellulare che porta
all’aumentata trascrizione genica e successivamente alla sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale
catalizza la produzione di ossido nitrico, sostanza con potente azione vasodilatatoria ed anti-infiammatoria.
Quindi nelle condizioni caratterizzate da una ridotta sensibilità insulinica a livello vascolare si assiste ad una
riduzione della sintesi di ossido nitrico con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori
pressori. Inoltre, l’aumento compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulino-resistenza
si associa ad un incremento del tono simpatico con un ulteriore aumento del tono vascolare ed una
riduzione della funzionalità endoteliale.
Quest’ultima è sicuramente un altro importante elemento sottostante allo sviluppo di ipertensione
arteriosa. L’endotelio, infatti, svolge importanti azioni protettive a livello vascolare, attraverso la
produzione di sostanze vasodilatanti ad azione autocrina e paracrina quali l’ossido nitrico, le prostacicline e
l’endothelium-derived relaxing factor (EDRF), ed anche attraverso la produzione di sostanze
antitrombotiche (vedi Capitolo 48). Tuttavia quando questo è sottoposto all’azione dannosa dei diversi
fattori di rischio quali fumo e diabete, si realizza a livello vascolare e cellulare un’infiammazione subclinica
ed un aumento dello stress ossidativo, i quali danneggiano le cellule endoteliali e conseguentemente
portano allo sviluppo della loro disfunzione. Quando si instaura una disfunzione endoteliale vengono meno
le suddette funzioni protettive collegate ad un endotelio integro, con conseguente aumento della reattività
vascolare, aumentata espressione di molecole d’adesione leucocitaria che portano al perpetuarsi
dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo un’aumentata suscettibilità alla evoluzione aterosclerotica e alla
formazione di trombosi. Questi processi promuovono in ultima istanza lo sviluppo di eventi aterotrombotici
(vedi Capitolo 46).
IMPATTO CLINICO
Impatto clinico
Nella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di sintomi o disturbi, né di
complicanze a breve termine, bensì può decorrere asintomatica per molti anni, determinando progressive e
sempre più gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e cerebrale.
Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico, possono palesarsi
improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e lo
scompenso cardiaco.
La relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento dell’incidenza di patologie cardiovascolari fu illustrato in
maniera molto chiara dalle ormai mitiche tabelle elaborate dagli studi condotti da una compagnia
assicurativa nordamericana, la Metropolitan Life Insurance Company, che dimostravano come in una
popolazione di uomini di quarantacinque anni, valori pressori di 130/90 mmHg rispetto a valori pressori
inferiori erano in grado di determinare una riduzione dell’aspettativa di vita di 3 anni, e, se ci si spingeva
fino a valori pressori di 140 su 95 mmHg l’aspettativa di vita si riduceva di 6 anni. Ancor più, se si
consideravano uomini con valori pressori di 150 su 100 mmHg l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5
anni. Una conferma di questi dati ci è stata fornita da diversi studi epidemiologici tra cui quello condotto da
Wilhelmsen, nel quale veniva dimostrato come l’aumento dei valori pressori anche se limitato a 10 mmHg,
corrispondesse ad un brusco incremento della incidenza di coronaropatia, anche nell’ambito del range dei
valori pressori normali. La Prospective Studies Collaboration ha comunque fornito le evidenze più
importanti sulla relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento del rischio cardiovascolare. Questa analisi
ha preso in esame circa 1 milione di pazienti in 61 studi prospettici osservazionali per 12 anni. A partire da
un’età compresa tra 40 e 69 anni, ogni aumento di 20 mmHg di pressione arteriosa o di 10 mmHg di
pressione diastolica è risultato associato ad aumenti di 2 volte di mortalità per cardiopatia ischemica e circa
4 volte per ictus. La mortalità vascolare risultava superiore al 50% nella decade 80-89 anni, mentre il rischio
relativo era maggiore nei soggetti più giovani, con un aumento di circa 10 volte.
L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un classico fattore di rischio per lo sviluppo di malattie
cardiovascolari.
Il significato ed il valore predittivo dei valori di pressione arteriosa nei confronti delle principali malattie
cardiovascolari quali la cardiopatia ischemica e l’ictus cerebrale è stato già identificato da alcuni decenni. E’
stato a tal proposito dimostrato che persino nell’ambito di popolazioni non ipertese il progressivo
incremento dei valori pressori corrisponde ad una graduale riduzione dell’aspettativa di vita. Se da un lato
valori pressori elevati sono associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, parallelamente la loro
46 - Cardiopatia ipertensiva
Cardiopatia ipertensiva sezione lungoassiale: si noti l’ipertrofia concentrica con dilatazione atriale.
Tali alterazioni cardiache riconoscono nell’ipertrofia ventricolare sinistra e nella disfunzione diastolica le
manifestazioni principali. La prima è caratterizzata dall’aumento della massa cardiaca soprattutto in
risposta all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione elevata, e può essere di tipo
concentrico od eccentrico. Il primo tipo è caratterizzato dall’ispessimento delle pareti ventricolari per la
classica apposizione di nuovi sarcomeri “in parallelo”, senza un aumento della cavità ventricolare, il
secondo tipo è invece caratterizzato dall’aumento del diametro ventricolare consensuale all’aumento degli
spessori parietali, secondariamente all’apposizione, a livello miocardico, di nuovi sarcomeri “in serie”.
La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata all’ECG (vedi Capitolo 3) è del 3-8% nei
pazienti con ipertensione lieve-moderata, mentre all’esame ecocardiografico (vedi Capitolo 4) la massa
ventricolare è aumentata in ipertesi non selezionati dal 12 al 30%, e dal 20 al 60% nei centri di riferimento.
L’ ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente fattore di rischio
indipendente per eventi avversi cardiovascolari maggiori, ed aumenti progressivi della massa ventricolare
sono correlati continuativamente con il rischio cardiovascolare sia negli uomini che nelle donne, come
dimostrato in numerosi studi.
Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa camera cardiaca,
durante la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di riempimento, per cui il ventricolo può
raggiungere un volume telediastolico tale da garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di
un’aumentata pressione diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio
sinistro e nelle vene polmonari.
Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere conseguenza di alterazioni funzionali
della fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole, o essere secondaria ad alterazioni della
geometria ventricolare sinistra o dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche
proprietà elastiche del ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico.
La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al 25%, ed è stato
dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di eventi cardiovascolari avversi.
Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa sono identificate invece
nella cardiopatia ischemica, rappresentando l’infarto del miocardio la più frequente causa di mortalità nel
paziente iperteso, e la complicanza meno efficacemente influenzata dal trattamento antiipertensivo. Le
manifestazioni ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di placche
aterosclerotiche coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da una disfunzione del microcircolo
subendocardico che determina una riduzione della riserva coronarica.
La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico o diastolico (vedi
Capitolo 19). Il primo si verifica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica insorta
secondariamente alla presenza di una cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta
attraverso lo sviluppo di una disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa
invece ad una normale funzione contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla presenza di una
disfunzione diastolica.
In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le aritmie, in particolare la
fibrillazione atriale. Questa aritmia è considerata secondaria alle modificazioni strutturali dell’atrio sinistro
conseguenti all’ aumento cronico delle pressioni atriali solitamente secondario alla presenza di una
disfunzione diastolica. Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono
precipitare in una morte improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un ruolo fenomeni di
rientro elettrico ventricolare causati da un progressivo disarrangiamento dell’architettura miocardica,
caratterizzato soprattutto da un aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle
alterazioni della geometria ventricolare sinistra.
L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il 20% degli ipertesi è
affetto da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione dall’ipertensione non complicata
all’insufficienza renale non è rapida, bensì dura anni, periodo nel quale si verificano progressive alterazioni
strutturali a carico dei reni che, se dapprima non hanno delle ripercussioni funzionali importanti,
successivamente determinano una progressiva riduzione del filtrato glomerulare e lo sviluppo di
insufficienza renale.
Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la presenza di
microalbuminuria, che consiste in un’aumentata escrezione di albumina nelle urine, compresa per
definizione tra i 30 ed i 300 mg/die, infatti oltre i 300 mg questa si definisce invece macroalbuminuria. Un
aumento dell’escrezione di albumina può semplicemente rappresentare una conseguenza dell’aumento
della pressione idrostatica intraglomerulare, ma può anche derivare da un danno della barriera
glomerulare, o da un’alterazione del riassorbimento tubulare dell’albumina filtrata. Anche la
microalbuminuria rappresenta un predittore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari maggiori,
particolarmente negli ipertesi diabetici, ed è stato dimostrato come un rischio aumentato sussiste già per
valori di microalbuminuria al di sotto del “cut-off” di normalità.
Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione inesorabile del danno
renale, particolarmente quando si associa al diabete, verso una riduzione significativa del filtrato
glumerulare con lo sviluppo d’insufficienza renale cronica, che è anche conseguente all’aumento
importante delle resistenze vascolari intraparenchimali renali. Questa evoluzione spinge i valori pressori ad
aumentare ulteriormente rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento.
Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo significativo
l’encefalo, in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi, nonché attraverso lo stimolo
meccanico costituito dagli elevati valori pressori. Alterazioni relativamente precoci sono osservate a carico
del distretto carotideo, e possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento del complesso intima-
media carotideo, o da lesioni aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche che determinano stenosi
di variabile severità del lume vascolare. Tutte queste alterazioni, anche quando ancora nello stato
preclinico, sono associate ad un rischio aumentato di sviluppare eventi acuti cerebrovascolari, e per tal
motivo una loro precoce individuazione permette una migliore stratificazione del rischio del paziente
iperteso e di conseguenza la scelta corretta della strategia terapeutica più efficace.
Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere caratterizzata da un
Figura 45.1 Classificazione dell’ipertensione arteriosa in base ai valori pressori e stratificazione del rischio CV secondo le Linee
guida ESC/ESH 2007.
Sulla base di tali considerazioni, l’obiettivo principale della valutazione clinico-strumentale del paziente
iperteso è dunque quello di definirne il profilo di rischio globale, sia attraverso una buona raccolta
anamnestica, che permetta di capire quali altri fattori di rischio sono associati alla presenza di ipertensione,
sia attraverso il loro riscontro diretto mediante esami ematochimici o strumentali. Attraverso gli esami
strumentali possiamo valutare soprattutto se sono già presenti segni di danno d’organo causato dallo stato
ipertensivo, la cui presenza, come già precedentemente discusso, identifica una condizione a rischio
aumentato.
Anamnesi. Nella raccolta della storia clinica occorre porre particolare attenzione ad individuare tutti
quegli elementi che possono indicare un aumento del rischio cardiovascolare.
Anzitutto è importante una raccolta di informazioni sui fattori che possono determinare un aumento della
pressione arteriosa del soggetto in esame, quali l’età, il sesso, l’ereditarietà, la razza, il consumo di alcool e
di caffè e lo stress. Successivamente è fondamentale chiedere informazioni sulla presenza di altri elementi
che possono influenzare il profilo di rischio, quali il diabete, la dislipidemia, il fumo di sigaretta, lo stile di
vita e la familiarità per malattie cardiovascolari.
Durante la raccolta anamnestica si deve porre attenzione inoltre all’eventuale uso di farmaci che possono
determinare un aumento dei valori pressori, quali i FANS, gli spray nasali ed i cortisonici, ed escludere
l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare i simpatico-mimetici indiretti come la cocaina e
l’anfetamina. Bisogna infine indagare se già si sono verificati degli eventi cardiovascolari maggiori, quali
l’angina o l’infarto, o l’ictus, perché in tal caso il rischio cardiovascolare del soggetto è molto elevato
(Tabella II).
Esame obiettivo.
Anche se la maggior parte dei pazienti risulta normale all’esame fisico, un’attenta valutazione del paziente
iperteso è necessaria al fine di scoprire se vi sono segni che facciano sospettare un’ipertensione secondaria
e per valutare l’eventuale presenza di complicanze cardiovascolari (Tabella III).
Tabella 45. 3 Fattori di rischio e condizioni cliniche associate da valutare nella stratificazione del rischio cardiovascolare, come
suggerito dalle Linee Guida ESC/ESH.
Un momento importante nella raccolta dei dati obiettivi durante la visita medica è la misura della pressione
arteriosa. Grande attenzione deve essere posta nell'ottenere una misurazione corretta, focalizzandosi in
particolare sui seguenti aspetti:
il paziente non deve aver fumato o assunto caffeina nei 30 minuti precedenti la misurazione;
il paziente deve essere seduto comodamente con il bracciale posto a livello del cuore;
la misurazione deve essere effettuata dopo almeno 5 minuti di riposo;
si devono misurare le pressioni sistolica e diastolica utilizzando rispettivamente il I e il V tono di
Korotkoff; va quindi effettuata la media fra due o più misurazioni, separate da un intervallo di almeno 2
minuti;
devono essere impiegati sfigmomanometri a mercurio (tipo Riva-Rocci) o in alternativa apparecchi
aneroidi tarati di recente; i bracciali devono essere di dimensioni appropriate, cioè con un manicotto che
circondi il braccio del paziente completamente o almeno per l'80%; nei bambini e negli obesi è opportuno
utilizzare bracciali specifici.
Nella valutazione del paziente in esame, oltre all’ esame obiettivo generale e cardiovascolare, è importante
rilevare il peso e la distribuzione del grasso corporeo, in particolare mediante la misurazione della
circonferenza addominale. L'obesità addominale rappresenta, infatti, un riconosciuto fattore di rischio
cardiovascolare. Inoltre tra massa corporea e ipertensione arteriosa vi è una correlazione significativa che è
indipendente dall'età e dal sesso, e tale relazione è confermata anche quando vengono impiegate le
tecniche più raffinate per lo studio del grasso corporeo. A tal proposito i normotesi obesi hanno maggiori
probabilità di diventare ipertesi e gli ipertesi magri di diventare obesi. Infine, a conferma dell'importanza di
questo fattore, è stato dimostrato che diminuzioni del peso corporeo di 12 kg e 3 kg indurrebbero riduzioni
pressorie sistolica e diastolica rispettivamente di 21/13 mmHg e di 7/4 mmHg.
Esami ematochimici e strumentali. Anche nelle recenti Linee Guida è stato raccomandato di effettuare
una serie di esami bioumorali e strumentali, allo scopo non solo di definire la presenza di danno d'organo
nel paziente, ma anche di identificare altri eventuali fattori di rischio associati. Alcune di queste indagini
devono essere orientate da informazioni desunte dall'anamnesi e dall'esame obiettivo.
- Esame emocromocitometrico: studia la crasi ematica, gli stati anemici, gli stati infettivi, etc…
- Creatininemia e clearance della creatinina: studio della funzione renale. Queste analisi permettono di
scoprire alterazioni renali che possono concorrere allo sviluppo di ipertensione o esserne una conseguenza.
Se la creatininemia inizia a elevarsi quando la funzione renale scende sotto i 50-45 ml/min, il calcolo della
clearance invece, fornisce informazioni più precise.
- Glicemia basale, colesterolemia totale e le sue frazioni LDL ed HDL, la trigliceridemia e l’uricemia: quando
alterati, questi parametri amplificano gli effetti lesivi dell'ipertensione costituendo ulteriori fattori di rischio
cardiovascolare.
- Potassiemia: in genere è marcatamente alterata (ipopotassiemia) nella sindrome di Conn, nella sindrome
di Cushing, nell'ipertensione nefrovascolare e durante l'assunzione non controllata di diuretici.
- Esame delle urine: può mostrare una microalbuminuria od una proteinuria franca, oppure la presenza di
cilindri, leucociti, emazie, etc.
- Elettrocardiogramma (vedi Capitolo 3): può evidenziare un sovraccarico o un'ipertrofia del ventricolo
sinistro mediante i criteri di Sokolow- Lyon (SV1+RV5 o V6 = 3,8 mV) o di Cornell-voltaggio (SV3+Ra Vl = 2,8
negli uomini e 2,0 mV nelle donne). Rispetto all'ecocardiogramma è comunque un test molto meno
sensibile anche se specifico.
- Ecocardiogramma (vedi Capitolo 4): fornisce dati più affidabili su un'eventuale presenza di ipertrofia e
sulla geometria e funzionalità del ventricolo sinistro. Consente inoltre di determinare la presenza di una
disfunzione diastolica e di classificarla nei suoi 3 pattern di disfunzione a gravità crescente.
- Eco-Doppler arterioso (vedi Capitolo 12): per lo studio dei distretti arteriosi epiaortico e degli arti inferiori.
Particolarmente importante lo studio ecoDoppler delle arterie carotidi, per la quantificazione dello
spessore del complesso intima-media carotideo.
- Monitoraggio dinamico della pressione arteriosa per 24 ore (ABPM): consiste nella registrazione per 24 h
dei valori di pressione arteriosa campionati circa ogni 30 minuti. Può fornire importanti informazioni
quando vi sono marcate differenze fra i valori pressori riscontrati in più visite, o quando ci sono discordanze
tra i livelli riscontrati dal medico e quelli registrati dal paziente; è inoltre utile per verificare il ritmo
circadiano della pressione e l’efficacia della terapia antiipertensiva.
- Automisurazione della pressione arteriosa a domicilio dal paziente: consente la raccolta di valori pressori
per diversi giorni e offre la possibilità di ottenere la loro media anche su molti mesi, coinvolgendo il
paziente nella gestione del suo problema. La Tabella IV propone i valori di riferimento della popolazione
normale con le differenti tecniche di misurazione della pressione arteriosa.
- Esame del fondo dell'occhio: rileva le alterazioni delle arterie retiniche legate allo stato ipertensivo.
Secondo le ultime Linee Guida assume un valore specifico solo in forme gravi di ipertensione, in grado di
determinare la comparsa di essudati ed emorragie della retina (III-IV stadio della classificazione della
retinopatia secondo Keith e Wegener).
Tabella 45.4 Dati anamnestici da raccogliere durante la valutazione del paziente iperteso, secondo le Linee Guida ESC/ESH 2007.
Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una riduzione
dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone
provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a malattie renali acute quali
l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche, o a disordini di tipo
cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica. Cause più rare di ipertensione
nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina.
Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici per valutare la
funzionalità renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale.
Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un aumento combinato dei
livelli di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler
dell’arterie renali nel caso di stenosi prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La
metodica “gold standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia delle
arterie renali. Nel sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna prescrivere con estrema cautela ed a
bassi dosaggi i farmaci ACE-inibitori, per il rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della
perfusione renale con lo sviluppo di insufficienza acuta.
La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle catecolamine plasmatiche ed
urinarie e dei loro metaboliti, più facilmente se i campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I
dosaggi dell’acido vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli
esami più attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di test farmacologici di
inibizione o stimolazione, con clonidina e glucagone rispettivamente, o utilizzare subito metodiche
d’”imaging” quali l’ecografia, la TC o la RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore.
Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita dell’aorta
generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad altre anomalie quali
la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa rara di ipertensione arteriosa
secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi è di solito clinica ed è legata al
riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti superiori e di un ipotensione a livello degli
arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un
soffio continuo al dorso, nella regione interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle
arterie intercostali. La diagnosi di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un
angio-TC del torace ed un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea,
mediante l’apposizione di stent, o chirurgica.
Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare un’ipertensione
arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i contraccettivi orali, i FANS, i
corticosteroidi, la ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso
di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi rapida.
TRATTAMENTO
Trattamento
La finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto nella prevenzione
dello sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali benefici terapeutici possono essere
raggiunti non solo mediante la riduzione dei valori pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di
alcune complicanze, ma anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente
associati all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento
antiipertensivo, una valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al meglio il suo profilo di
rischio cardiovascolare, sia sulla base dell’entità della malattia ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di
rischio associati.
Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non farmacologico, basati
sulle modifiche dello stile di vita e delle abitudini comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico,
basati sull’impiego di diverse classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime
Linee Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione arteriosa, nei pazienti a
rischio cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato iniziare solo un trattamento non
farmacologico rivalutando dopo pochi mesi i soggetti, ed associando successivamente un trattamento
farmacologico qualora i valori pressori non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in
genere opportuno un approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici
con una terapia farmacologica (monoterapia o terapia di associazione) (Figura 45.2).
Figura 45.2 Strategie di approccio terapeutico raccomandate dalle Linee guida ESC/ESH 2007.
Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il rischio cardiovascolare
globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più contenuto alla terapia farmacologica.
Sebbene siano spesso di non facile attuazione pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera
completa gli effetti a lungo termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non
farmacologici non presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di impiego.
Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti antipertensivi: il calo
ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare.
Considerata l'evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo, distribuzione anatomica
del grasso corporeo e pressione, non sorprende che una restrizione dell'apporto calorico si sia dimostrata in
grado di ridurre i valori pressori, essendo l'entità dell'effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione
di circa 1,5 mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di peso
corporeo perso.
Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di numerose meta-analisi,
che complessivamente hanno evidenziato un’azione antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la
sistolica e 2-3 per la diastolica). La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero
<2 grammi NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e stimoli il
sistema renina-angiotensina ed il sistema nervoso adrenergico.
Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4 grammi NaCI) è indicata
nel trattamento del paziente iperteso, specie considerando come questo intervento non farmacologíco si
sia dimostrato in grado di potenziare l'efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica.
Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che l'esercizio fisico regolare di
moderata intensità (rappresentato da un incremento pari a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a
riposo) è in grado, dopo un congruo periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8
mmHg a seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni si
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339 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
accompagnano ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù degli effetti emodinamici
(vasodilatazione) e metabolici favorevoli (miglioramento dell’ insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un
training fisico costante.
Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso quando non si ottengono
risultati sufficienti con gli interventi non farmacologici, o quando i valori pressori basali ed il rischio
cardiovascolare del paziente sono molto elevati.
L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di valori pressori ottimali,
e se questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è consigliabile adottare un’associazione tra
due o, se necessario, più molecole. La scelta del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non
è però basata solo sulla efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del
danno d’organo cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle alterazioni metaboliche
concomitanti, quali il diabete o la dislipidemia, ed in ultimo, deve tener conto della tipologia del paziente
(età, sesso, comorbidità), degli effetti collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze
terapeutiche e di aspetti socio-economici (Tabella V).
Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata da
effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia ischemica,
disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per rallentare la progressione del
danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo metabolico sostanzialmente neutro.
Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da prima dose e raramente l’angio-edema della
glottide. Le principali controindicazioni sono l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi
bilaterale delle arterie renali.
Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore (non
diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori periferici
(diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione anti-ipertensiva e si sono
dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in prescrizione singola od in
associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben tollerati anche in
quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei recettori AT-1
dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione arteriosa, in particolare nei
pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza di diabete o sindrome metabolica.
Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono
particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono inoltre
spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina. Le
controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance” del paziente legata ad
effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio elettrolitico, in particolare
l’ipopotassemia, l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo glico-lipidico.
Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia ischemica,
disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono controindicati nei
pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con asma o con broncopneumopatia
cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulino-resistenza.
I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere associati tra loro
specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e complementari, se l’efficacia ipotensivante è
superiore quando associati rispetto a quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è
ben tollerata.
Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano raggiunti gli obiettivi,
includono glialfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con ipertrofia prostatica, gli anti-
ipertensivi ad azione centrale, soprattutto alfa-metildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che
trovano indicazione soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o
resistente.
Capitolo 46
L’Aterosclerosi
Paolo Golino
DEFINIZIONE
L’aterosclerosi, dal greco atére (sostanza pastosa) e sclerosis (indurimento), è un processo degenerativo che
si sviluppa a carico della parete delle arterie di grosso e medio calibro. La lesione anatomo-patologica
fondamentale dell’aterosclerosi è rappresentata dall’ateroma o placca, una deposizione rilevata, focale,
fibro-adiposa della parete arteriosa. L’ateroma è costituito da un centro, o core, composto
prevalentemente da lipidi e matrice extracellulare, ma anche da una componente cellulare (cellule
muscolari lisce, macrofagi, linfociti); un cappuccio fibroso riveste il core lipidico e lo separa dal sangue
circolante (Figura 1).
Figura 1: Sezione traversa di un’arteria coronaria umana normale (A) e di una aterosclerotica (B). In questa
il lume arterioso risulta in gran parte occupato da una placca aterosclerotica eccentrica. Si distinguono il
core lipidico (asterisco) che appare giallastro a causa dell’elevato contenuto in lipidi e il cappuccio fibroso
(frecce) che racchiude il core e lo separa dal sangue circolante. (C) Sezione istologica di un’arteria coronaria
umana aterosclerotica. Le tre tonache arteriose (intima, media e avventizia) sono ben visibili; la placca
aterosclerotica protrude all’interno del lume. L’asterisco identifica il core lipidico, separato dal lume da un
sottile cappuccio fibroso (frecce).
ANATOMIA PATOLOGICA
Le fasi dell’aterosclerosi
Fase di inizio.
Le prime fasi dell’aterogenesi nell’uomo rimangono largamente
speculative. Tuttavia, l’integrazione di osservazioni ottenute in giovani adulti deceduti per cause
traumatiche con quelle degli studi condotti negli animali da esperimento possono dare utili spunti. In
condizioni normali, il monostrato di cellule endoteliali che riveste tutto l’albero vascolare si oppone
all’adesione dei leucociti. Tuttavia, la presenza di alcuni elementi induttori, quali una dieta ad alto
contenuto di grassi saturi, il fumo di sigaretta, l’ipertensione e l’iperglicemia possono favorire l’espressione
da parte delle cellule endoteliali di alcune proteine cosiddette di adesione, in grado cioè di legare alcuni
recettori presenti sulla membrana dei leucociti. Tra queste, la “vascular cell adhesion molecule-1” (VCAM-1)
sembra particolarmente importante perché si lega ad un recettore presente sulla membrana dei monociti e
dei linfociti T, due tipi cellulari presenti pressoché costantemente nelle lesioni aterosclerotiche iniziali
(Figura 3). Una volta che i leucociti abbiano aderito all’endotelio, devono ricevere un segnale specifico per
penetrare nello spazio sottoendoteliale. Diversi mediatori chimici di natura proteica, denominati
chemochine, con proprietà chemiotattiche nei confronti dei leucociti, sono deputati a svolgere questo
compito (Figura 3).
Figura 3 Fase iniziale della lesione aterosclerotica. Normalmente, l’endotelio vasale ricopre in monostrato
tutto l’albero vascolare e rappresenta una interfaccia tra la parete vasale e il sangue circolante,
contribuendo ad impedire l’adesione dei leucociti e delle piastrine. I pannelli A e B rappresentano due
fotografie (la B a maggiore ingrandimento) ottenute con il microscopio elettronico a scansione: cellule
endoteliali di forma allungata rivestono la parete arteriosa senza soluzioni di continuo. Dopo una dieta
particolarmente ricca di lipidi, questi si possono depositare in eccesso nello spazio sottoendoteliale,
causando l’attivazione dell’endotelio, che esprime molecole di adesione per i leucociti. Il pannello C
rappresenta un segmento di aorta di coniglio alimentato con una dieta aterogena: sono riconoscibili
numerosi leucociti che aderiscono all’endotelio. Nei pannelli D ed E (sezione traversa del preparato C) due
leucociti sono stati sorpresi nel momento di passare per diapedesi attraverso lo spazio tra due cellule
endoteliali. I leucociti, soprattutto i macrofagi, una volta raggiunto lo spazio sottoendoteliale, sono in grado
di fagocitare le lipoproteine qui presenti ed eventualmente trasformarsi in cellule schiumose,
determinando la formazione della stria lipidica, la lesione aterosclerotica iniziale.
Due gruppi di chemochine sono particolarmente importanti nel reclutare i monociti all’interno delle lesioni
iniziali: una è la cosiddetta “monocyte chemoattractant protein-1 (MCP-1), che viene prodotta dalle cellule
endoteliali e muscolari lisce in risposta ad alcuni stimoli nocivi come le lipoproteine ossidate. MCP-1
promuove la migrazione unidirezionale (chemiotassi) dei monociti all’interno della parete vasale.
L’importanza di MCP-1 nel contribuire all’iniziale reclutamento dei monociti all’interno della parete vasale
durante le fasi precoci dell’aterogenesi è dimostrata da alcuni studi condotti nell’animale da esperimento in
cui la produzione di MCP-1 veniva inibita attraverso tecniche di ingegneria genetica. Negli animali
geneticamente modificati e sottoposti a dieta aterogena, le lesioni aterosclerotiche risultavano più piccole
e meno numerose rispetto agli animali di controllo. Altre chemochine importanti nel reclutare i monociti in
questa fase dell’aterogenesi sono l’interleuchina-8 e l’interferone , ambedue presenti in alte
concentrazioni all’interno delle lesioni iniziali.
Focalità delle lesioni aterosclerotiche
E’ interessante
notare che le lesioni aterosclerotiche non si sviluppano a caso all’interno dell’albero coronarico ma al
contrario tendono a crescere con maggior frequenza in zone specifiche, come ad esempio le biforcazioni,
probabilmente a causa del tipo di flusso ematico che in queste aree si forma. Un ruolo importante nella
regolazione delle funzioni endoteliali è infatti svolto dallo “shear stress”, cioè dalle forze tangenziali che il
sangue esercita sulla parete vasale. Uno shear stress laminare ed uniforme induce l’aumento di espressione
di una serie di geni, quali la superossido-dismutasi, la ciclo-ossigenasi e la NO-sintetasi, enzimi che
possiedono attività antiossidanti, antitrombotiche ed antiadesive nei riguardi delle piastrine e dei leucociti
e quindi, in definitiva, svolgono attività di protezione nei riguardi del vaso rispetto all’aterogenesi. Lo shear
stress turbolento o comunque non laminare non induce i suddetti geni ateroprotettivi, per cui l’endotelio
per flussi lenti e turbolenti, quali quelli che si formano in corrispondenza delle biforcazioni, è meno protetto
dagli agenti aterogeni.
Formazione delle strie lipidiche
Una volta giunti nello spazio sottoendoteliale, i
monociti si trasformano in macrofagi, esprimono elevate quantità di recettori “spazzini” sulla loro
membrana, soprattutto nei confronti delle lipoproteine modificate dallo stress ossidativo, e cominciano a
fagocitare le lipoproteine, fino a riempire gran parte del citoplasma, diventando cellule schiumose, cellule
di grosse dimensioni il cui citoplasma è letteralmente stipato di lipidi, esteri del colesterolo e lipoproteine
ossidate. Allo stesso tempo, i macrofagi proliferano, aumentando di numero, e producono numerosi fattori
di crescita e citochine che agiscono sostenendo e amplificando i segnali pro-infiammatori. A questo stadio,
la lesione aterosclerotica è rappresentata dalla cosiddetta stria lipidica che macroscopicamente appare
come una stria giallastra (dato l’alto contenuto in lipidi) sulla superficie della tonaca intima (Figura 4).
Figura 4 Aspetto macroscopico della faccia endoteliale di un segmento di aorta umana tagliata
longitudinalmente ottenuta da un giovane deceduto per cause traumatiche. La maggior parte della
superficie endoteliale è ricoperta da lesioni giallastre, lunghe diversi millimetri e larghe un paio, che
rappresentano le cosiddette strie lipidiche.
Non tutte le strie lipidiche però evolvono verso la formazione di una placca avanzata e, d’altra parte, esse
vengono evidenziate all’esame autoptico molto frequentemente anche in soggetti giovani e sani. La stria
lipidica, quindi, non possiede necessariamente un significato patologico. Tuttavia, nella società moderna
dove prevale uno stile di vita caratterizzato da una elevata sedentarietà e da un eccesso di disponibilità di
cibo, la progressione della lesione aterosclerotica dalla stria lipidica alla formazione della placca conclamata
è purtroppo un evento frequente che può verificarsi precocemente nel corso della vita. Studi autoptici
hanno dimostrato che negli Stati Uniti 1 teenager su 6 mostra un ispessimento patologico delle arterie
coronarie, indicando che nelle società contemporanee l’aterosclerosi è un processo che comincia
precocemente nella vita di un individuo, anche se le sue complicanze sono caratteristiche della mezza età.
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345 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia
Formazione della placca conclamata
Da un punto di vista istologico la stria lipidica è principalmente
caratterizzata dalla presenza di macrofagi che hanno fagocitato elevate quantità di lipidi (cellule
schiumose). Caratteristiche più complesse, come la fibrosi, la necrosi del core lipidico, la trombosi e
l’elevato grado di calcificazione, sono tipicamente assenti nelle strie lipidiche, che rappresentano lesioni
iniziali e largamente reversibili, almeno in determinate condizioni. Che cosa allora si rende responsabile, in
alcuni individui, della progressione della stria lipidica verso la placca conclamata? Nell’ultima decade la
ricerca medica è stata particolarmente attiva in questo ambito e numerosi studi, sia clinici che sperimentali,
hanno dimostrato un ruolo fondamentale dell’infiammazione e del sistema immunitario nel processo
dell’aterogenesi.
Nella fase precoce della formazione dell’ateroma, il macrofago-cellula schiumosa
reclutato all’interno della parete vasale serve non solo come deposito dei lipidi in eccesso ma anche come
promotore di fenomeni infiammatori. Infatti, tale cellula è in grado di produrre una grande quantità di
citochine e chemochine pro-infiammatorie, nonché alcuni mediatori chimici di derivazione dall’acido
arachidonico, come i leucotrieni e le prostaglandine. Inoltre, i macrofagi sono in grado di produrre elevate
quantità di specie molecolari altamente ossidanti, come l’anione superossido, che contribuisce ad ossidare
ulteriormente le lipoproteine presenti all’interno della lesione, aumentando quindi i fenomeni di
infiammazione locale e contribuendo alla formazione di un circolo vizioso che culmina con la progressione
della lesione aterosclerotica. In questo contesto, il sistema immunitario gioca un ruolo di primaria
importanza nel sostenere e favorire la progressione della placca.
Il termine immunità innata si riferisce
quella serie di eventi che amplificano la risposta infiammatoria in assenza di stimolazione antigenica (Figura
5).
esposizione delle cellule muscolari lisce a mitogeni potenti quali la stessa trombina.
La lesione avanzata:
necrosi e calcificazione
Le placche avanzate spesso sviluppano aree di calcificazione al loro interno, ed
infatti già gli studi dell’inizio del secolo scorso avevano descritto la presenza all’interno delle placche di
caratteristiche morfologiche tipiche del processo di ossificazione. In anni più recenti si è scoperto che alcuni
sottotipi di cellule muscolari lisce, sotto l’effetto di citochine particolari con effetti osteogenetici come il
TGF-ß, sono in grado di produrre zone di intensa calcificazione della placca. Inoltre, nelle placche avanzate
vi sono proteine contenenti numerosi residui di acido glutammico carbossilato in posizione gamma
specializzate nel sequestro di ioni calcio e quindi nel favorire i fenomeni di calcificazione.
Un’altra
caratteristica delle placche avanzate è la presenza di aree di necrosi, nelle quali si è avuto la morte delle
cellule muscolari lisce ad opera di fenomeni di apoptosi che quindi possono contribuire all’indebolimento
della placca favorendone la rottura.
FISIOPATOLOGIA
I fattori di rischio
In Italia le malattie cardiovascolari costituiscono una delle principali cause di mortalità,
di morbosità e di invalidità. Nel 2004 sono stati registrati quasi 600.000 decessi, di cui 80.000 per le
malattie ischemiche del cuore e 65.000 per le malattie cerebrovascolari: quindi, in Italia, un decesso su 4 è
dovuto a queste malattie che riconoscono una genesi comune. Secondo i dati dell’Osservatorio
Epidemiologico Cardiovascolare, nella popolazione italiana, su 1000 adulti tra 25 ed 84 anni, 15 uomini e 4
donne hanno una storia di infarto del miocardio, mentre ogni anno, nelle stesse età, 2 uomini su 1000 e 1
donna su 1000 va incontro ad un evento coronarico maggiore.
Non esiste una causa unica
dell’aterosclerosi. Sono però noti da lungo tempo diversi fattori, denominati fattori di rischio, che
aumentano il rischio di sviluppare la malattia e predispongono l’organismo ad ammalare (vedi Capitolo 46).
I più importanti sono: l’abitudine al fumo di sigaretta, il diabete, l’obesità, i valori elevati della
colesterolemia, l’ipertensione arteriosa e la scarsa attività fisica, oltre alla familiarità, all’età e al sesso.
Dai fattori ambientali ai fattori genetici
La malattia aterosclerotica è una malattia multifattoriale la cui
espressione fenotipica è il risultato di un'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali: da un lato può
essere presente una predisposizione genetica alla malattia aterosclerotica, dall'altro vi sono i fattori
ambientali che possono modificare l'espressione di alcuni geni favorendo lo sviluppo della malattia stessa.
Nella valutazione del rischio cardiovascolare individuale e nella conseguente elaborazione di strategie
preventive e terapeutiche personalizzate, in futuro si dovrà tener conto sia dei classici fattori di rischio
legati allo stile di vita e all'età, sia dei fattori genetici.
PRESENTAZIONE CLINICA
L’aterosclerosi è una malattia cronica che progredisce lentamente al di sotto dell’orizzonte clinico,
rimanendo asintomatica per molti anni, spesso anche per decadi. Tuttavia, la velocità con cui la lesione
aterosclerotica evolve dalla semplice stria lipidica alla placca conclamata è estremamente variabile da un
individuo all’altro, e non è raro trovare soggetti sintomatici anche molto precocemente. E’ questo il caso di
pazienti che sviluppano un evento cardiovascolare maggiore nella terza/quarta decade di vita, mentre altri
soggetti, magari con numerosi fattori di rischio, non sviluppano mai eventi cardiovascolari. Questa
apparente discrepanza dipende sostanzialmente dall’interazione geni/ambiente, cioè dall’interazione del
background genetico di un determinato individuo con gli eventuali fattori di rischio; questa interazione è
tale da rendere particolarmente suscettibili di ammalare quei soggetti che hanno un profilo genetico
Figura 6 Formazione della trombosi intravascolare. A: quando la placca si complica (ulcerazione, rottura,
etc), viene a perdersi il rivestimento endoteliale con esposizione di numerose sostanze pro-trombogene
presenti nel sottoendotelio. Tra queste le più importanti sono il tissue factor (TF), il collageno e il fattore di
von Willebrand (vWf). Il tissue factor, legando il fattore VII della coagulazione è in grado di attivare il fattore
X e quindi di dare inizio alla cascata coagulativa. Le piastrine aderiscono al collageno e al vWf andando a
ricoprire le aree deendotelizzate. Nel frattempo, il FXa formatosi ad opera del complesso TF/FVIIa, insieme
al FVa forma il complesso della protrombinasi che attiva la protrombina, o fattore II in trombina (FIIa). Le
piccole quantità di trombina che si formano vanno ad attivare ulteriormente le piastrine adese al danno
endoteliale (B), portando all’assemblaggio sulla loro membrana di numerosi complessi di protrombinasi
(FXa/FVa). Poiché sulla superficie piastrinica l’efficienza del complesso della protrombinasi è molto elevata,
come conseguenza si ha la formazione di elevate quantità trombina (C) che in definitiva contribuisce alla
formazione del trombo.
Le placche che sono destinate a rompersi sono difficili da identificare, anche perché la severità della stenosi
causata dalla placca aterosclerotica misurata con l’angiografia mal si correla con l’insorgenza clinica di un
evento acuto. Infatti, molti studi hanno dimostrato in maniera inequivocabile che le placche cosiddette
vulnerabili, cioè quelle maggiormente prone alla rottura, causano in genere stenosi non significative, in
molti casi addirittura meno del 50% del diametro luminale. Queste placche vulnerabili e instabili, poiché
non sono significative dal punto di vista emodinamico, sono di solito silenti sul piano clinico, fino a quando
vanno incontro a rottura e, attraverso l’ostruzione trombotica del flusso ematico coronarico, causano
l’insorgenza di un evento acuto.
La sequenza di eventi che porta alla complicanza della placca non è nota
con esattezza, ma fattori meccanici, come lo stress tangenziale di parete e l’assottigliamento del cappuccio
fibroso che riveste il core lipidico giochino sicuramente un ruolo importante nell’influenzare il destino della
placca. Accanto a questa teoria puramente “meccanica”, nel corso degli ultimi 15 anni una grande massa di
dati ha contribuito a far avanzare le nostre conoscenze sulla fisiopatologia della complicanza della placca,
suggerendo che l’infiammazione e il coinvolgimento del sistema immunitario giocano un ruolo importante
non solo nella formazione della lesione aterosclerotica, ma anche della sua complicanza. Questa
affascinante ipotesi venne inizialmente formulata sulla scorta di alcune osservazioni morfologiche che
dimostrarono la presenza di linfociti T e macrofagi in numero molto più elevato nelle placche complicate
rispetto alle loro controparti stabili. Qual è allora il ruolo preciso e come può il sistema immunitario alterare
la stabilità di una placca aterosclerotica? E’ affascinante pensare ad un ruolo dei macrofagi come cellule
effettrici del fenomeno. Queste cellule infatti, una volta attivate, sono in grado di rilasciare radicali
dell’ossigeno e vari enzimi proteolitici, come le metalloproteasi, enzimi ad azione litica nei confronti della
matrice cellulare, che possono ridurre la resistenza del cappuccio fibroso e quindi favorirne la rottura
(Figura 7).
Questa teoria trova riscontro nell’osservazione che le metalloproteasi sono presenti in elevate
concentrazioni nelle placche complicate insieme ad altri prodotti di derivazione macrofagica. Poiché è noto
che i macrofagi possono essere attivati dai linfociti T, l’attivazione di tali cellule all’interno della placca può
rappresentare un meccanismo fisiopatologico importante nella complicanza della placca stessa. In questo
senso vi sono diverse evidenze, anche se indirette, dell’esistenza di tale fenomeno. Per esempio, studi
autoptici hanno rivelato l’esistenza di cellule T attivate all’interno della placca instabile, mentre altri studi
hanno dimostrato la presenza di linfociti T attivati in campioni di placca instabile prelevati da pazienti in
corso di procedure di rivascolarizzazione percutanea.
CENNI DI TERAPIA
Modificazione dei fattori di rischio.
Evidenze scientifiche dimostrano che la riduzione dei livelli medi dei
fattori di rischio riduce l’incidenza delle complicanze dell’aterosclerosi, sia diminuendo l’incidenza delle
malattie cardiovascolari che la mortalità a loro correlata. La prevenzione dell’aterosclerosi coincide in gran
parte con gli sforzi della collettività per l’adozione di stili di vita salutari: alimentazione sana, esercizio fisico,
non dipendenza dal fumo di tabacco.
Terapia farmacologica
Attualmente il medico ha a disposizione
alcuni farmaci molto efficaci nel diminuire i livelli ematici di colesterolo, uno dei più importanti fattori di
rischio per l’aterosclerosi. In particolare, le statine si sono dimostrate molto efficaci in questo ambito. Tali
farmaci riconoscono come meccanismo d’azione il blocco della prima tappa biochimica della sintesi del
colesterolo in quanto inibiscono l’enzima idrossi-metil-glutaril Coenzima A redattasi, enzima chiave sulla via
biosintetica del colesterolo. Come conseguenza di tale inibizione, le cellule dell’organismo e quelle epatiche
in particolare, si “impoveriscono” di colesterolo endogeno. Poiché il colesterolo costituisce un elemento
fondamentale per la vita della cellula (è un componente molto importante, tra l’altro, delle membrane
cellulari), la cellula reagisce aumentando l’espressione dei recettori di membrana per le LDL, le lipoproteine
responsabili del trasporto ematico del colesterolo. L’aumento dei recettori di membrana per le LDL, a sua
volta, causa l’abbassamento dei livelli ematici di colesterolo fino al 50%. E’ stato dimostrato che l’uso delle
statine nei soggetti a rischio particolarmente elevato di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori non solo
abbassa il loro livello di rischio ma, in alcuni casi, porta ad un rallentamento della crescita delle lesioni
aterosclerotiche e talvolta addirittura alla loro regressione.
L’aterosclerosi è una malattia degenerativa e progressiva delle arterie di grande e medio calibro a grande
componente infiammatoria: l’infiammazione è infatti in grado di modulare fortemente tutte le fasi
dell’aterogenesi, dalla formazione della lesione iniziale alla complicanza della placca con occlusione
trombotica del lume vasale. La Figura 8 (immagine ancora non disponibile) riassume in maniera visiva
quanto detto in questo capitolo.
Sebbene molto sia stato fatto in termini di chiarimento dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base
dell’aterosclerosi, ancora poco si può fare per identificare le placche vulnerabili, quelle cioè
particolarmente a rischio di complicanza. La sfida per la moderna cardiologia nei prossimi 5-10 anni è
proprio rappresentata dalla identificazione di metodiche non invasive che possano distinguere le placche
stabili da quelle a rischio, indirizzando quindi verso quest’ultime i maggiori sforzi terapeutici.
Capitolo 47
La Valutazione del Rischio Coronarico
Salvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina Novo