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MANUALE INCOMPLETO, DOVEVANO INIZIALMENTE ESSERE PREVISTI Più CAPITOLI A DATA DI

TRASCRIZIONE (MAGGIO 2015) NON ANCORA CARICATI SUL SITO DELLA S.I.C.

Lavoro liberamente e gratuitamente scaricabile dal sito:


sicardiologia.it
1 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Presentazione

E’ la prima volta che mi accingo a presentare un e-book: debbo confessare che nel farlo provo un sentimento di grandissima soddisfazione. Infatti
questa iniziativa editoriale, fortemente voluta dal prof. Giuseppe Oreto, coordinatore del Comitato per la didattica e la formazione permanente, ha
il pregio di essere l’espressione sintetica dell’identità della nostra Società e del suo principio ispiratore che desidera coniugare tradizione e
innovazione. Quest’opera si inserisce perfettamente tra le attività e i prodotti di una Società Scientifica, quale la Società Italiana di Cardiologia, ad
impronta prevalentemente accademica. Per questo testo rivolto agli studenti di Medicina, sono stati coinvolti pressoché tutti i rappresentanti delle
Cardiologie universitarie: questo approccio consente di fruire di tutta la capacità didattico-metodologica legata all’esperienza della docenza
universitaria. Tale coinvolgimento globale delle componenti universitarie, anche se nuovo perché raramente in passato realizzatosi, rappresenta
tuttavia l’aspetto tradizionale dell’opera. L’aspetto innovativo è proprio la veste editoriale elettronica, che permette, durante la stessa lettura e
studio, un’interazione continua tra docente e discendente.
Le ragioni di quest’opera saranno più in dettaglio descritte nella prefazione del prof. Oreto.
Qui desidero solo sottolineare come il mezzo informatico permette: 1) il continuo costante aggiornamento delle nozioni per rendere pressoché
immediato il trasferimento sul piano didattico delle ultime novità della ricerca; 2) la “navigazione”, grazie all’impostazione ipertestuale con link ad
immagini (anche in movimento) e a documenti che contribuiscono all’apprendimento; 3) meccanismi di autovalutazione al termine di ogni capitolo
con cui lo studente può continuamente confrontarsi e 4) meccanismi di valutazione della bontà del prodotto didattico utilizzabili in ambito
prettamente pedagogico per migliorare i contenuti e le metodologie di insegnamento.
Come accennavo all’inizio, questo e-book è l’espressione dell’Università che si aggiorna nelle sue modalità didattiche, per essere sempre più vicina
agli studenti e sempre più efficace nei processi formativi, non limitandosi al solo impegno professionalizzante, ma anche al più completo impegno
educativo. La Società Italiana di Cardiologia si fa interprete di tutto ciò e, ribadendo la sua “Mission” accademica, desidera contribuire
all’accelerazione dei processi innovativi che impiegano tecnologie avanzate con uno sguardo attento ai riferimenti tradizionali.

Francesco Fedele
Presidente della
Società Italiana di Cardiologia

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2 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Le ragioni di un libro

Questo “Manuale di Malattie Cardiovascolari”, che vede la collaborazione di quasi tutte le Cardiologie Universitarie Italiane, nasce con un
solo intento: fornire agli studenti del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia uno strumento moderno per lo studio della nostra disciplina. I
libri di testo invecchiano in fretta, e non sempre sono scritti “dalla parte dello studente”: l’Autore è, in genere, un profondo conoscitore
dell’argomento, e rischia di svolgere il tema mettendone in risalto tutte le sfaccettature, così che il lettore inesperto finisce per
disorientarsi davanti alle molte nozioni, e non riesce a distinguere ciò che è davvero fondamentale da ciò che, invece, non è strettamente
necessario da apprendere.
Per ovviare alle difficoltà suddette, abbiamo concepito questo e-book, che rappresenta un “work in progress” non solo perché in atto
incompleto per la mancanza di alcune parti, ma anche perché sarà oggetto di continua, quasi quotidiana revisione. Non essendovi il limite
della stampa, ogni Autore potrà rivedere il proprio testo, aggiungendo o eliminando parti, chiarendo concetti, o anche riportando le ultime
novità emerse una settimana prima. Questo processo di costante e progressivo miglioramento sarà anche indirizzato dagli studenti, i quali
saranno chiamati ad esprimere, in maniera anonima, il proprio parere sui diversi Capitoli: gli Autori potranno, perciò, constatare quanto il
loro lavoro venga apprezzato e, se necessario, aggiustare il tiro. Gli studenti potranno, inoltre, porre domande ai docenti, sempre
attraverso il sito della SIC, e ricevere risposte ai loro quesiti.
Un altro “atout” insito nell’e-book è il meccanismo di autovalutazione, che ogni studente potrà utilizzare per verificare il proprio grado di
preparazione ai fini dell’esame, rispondendo a una serie di quesiti a risposta multipla. Questa modalità diverrà operativa tra breve, appena
completata la pubblicazione dei Capitoli: sarà possibile scegliere un test riferito al singolo Capitolo, alla Sezione o a tutta la materia.
Per quanto riguarda il linguaggio e l’aderenza del libro alla finalità prefissata, la Commissione per la Didattica ha provato a leggere e
rileggere più volte i testi “con occhi di studenti”, ed è intervenuta quasi su ogni pagina: lo scopo era ottenere un’opera che riportasse in
modo semplice ed immediato le nozioni essenziali, senza sviscerare l’argomento in tutti i suoi aspetti. Si è privilegiata, cioè, la semplicità a
spese della completezza.
Il mezzo informatico offre una possibilità che il libro tradizionale non consente: la presentazione di immagini in movimento. Nell’e-book si
possono vedere senza alcuna difficoltà ecocardiogrammi, angiografie, procedure diagnostiche e terapeutiche esattamente come si
svolgono nella realtà. Inoltre, i rimandi da un Capitolo all’altro vengono realizzati con modalità ipertestuale: un semplice click permette di
leggere la parte oggetto della citazione.
L’accesso all’e-book viene offerto gratuitamente a tutti gli studenti di Medicina che ne facciano richiesta, oltre che a tutta la Classe Medica.
A partire dal 31 Gennaio 2008, ciascun utente potrà ottenere dalla Segreteria della SIC una password personalizzata, che consentirà di
“navigare” nell’e-book illimitatamente.
La Società Italiana di Cardiologia spera che questo libro inauguri una nuova stagione, al passo coi tempi, della trattatistica finalizzata
all’apprendimento: l’esempio potrebbe essere seguito da altre Società, così che lo studente in Medicina di domani possa utilizzare per il
suo studio strumenti che uniscano i pregi innegabili del libro tradizionale a quelli nuovi, che la carta stampata non può offrire ma il mondo
dell’informatica si.

Giuseppe Oreto
Coordinatore della Commissione
per la Didattica della SIC

anche a nome di:


Mario Marzilli
Marco Metra
Giuseppe Mercuro
Francesco Pelliccia
Maurizio Santomauro

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3 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Indice dei Capitoli e degli Atlanti

Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare


Capitolo 1. I Sintomi delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani
Capitolo 2. I Segni delle Malattie Cardiovascolari, Mario Mariani

Sezione II. Le indagini strumentali


Capitolo 3. L’Elettrocardiogramma, Giuseppe Oreto, Francesco Luzza, Maria Pia Calabrò
Capitolo 4. L’Ecocardiogramma, Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso, Raffaele Calabrò
Capitolo 5. L’Esame Radiologico
Capitolo 6. Metodiche Nucleari, Pasquale Perrone Filardi, Massimo Chiariello
Capitolo 7. Risonanza Magnetica Nucleare, Sabino Iliceto, Martina Marra Perazzolo, Luisa Cacciavillani
- Capitolo 8. Tomografia Computerizzata, capitolo non presente
Capitolo 9. Test Cardiopolmonare, Marco Guazzi
Capitolo 10. Tecniche di Valutazione del Sistema Nervoso Neurovegetativo, Federico Lombardi
Capitolo 11. Cateterismo Cardiaco e Angiocardiografia, Germano Di Sciascio, A. D’Ambrosio
Capitolo 12. Diagnostica Vascolare, Alberto Balbarini, R. Di Stefano

Sezione III. Malattie delle Valvole Cardiache


Capitolo 13. Malattia Reumatica, Luigi Meloni, Massimo Ruscazio
Capitolo 14. Stenosi Mitralica, Giuseppe Oreto, Francesco Saporito
Capitolo 15. Insufficienza Mitralica, Paolo Marino
Capitolo 16. Stenosi Aortica, Francesco Pizzuto, Francesco Romeo
Capitolo 17. Insufficienza Aortica, Corrado Vassanelli
Capitolo 18. Malattie della Tricuspide e della Polmonare, Ketty Savino, Sandra D'Addario, Elisabetta Bordoni, Giuseppe Ambrosio

Sezione IV. Scompenso Cardiaco


Capitolo 19. Fisiopatologia dello Scompenso Cardiaco, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali
Capitolo 20. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Acuto, Francesco Fedele
Capitolo 21. Quadri Clinici dello Scompenso Cardiaco Cronico, Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari

Sezione V. Shock cardiogeno


Capitolo 22. Lo Shock Cardiogeno, Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno

Sezione VI. Cardiopatia Ischemica


Capitolo 23. Fisiopatologia dell’Ischemia Miocardica, Filippo Crea, Gaetano A. Lanza
Capitolo 24. Sindromi Coronariche Croniche, Mario Marzilli
Capitolo 25. Sindromi Coronariche Acute, Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone
Capitolo 26. Diagnostica Strumentale, Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi

Sezione VII. Cardiomiopatie


Capitolo 27. Definizione e Classificazione, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini
Capitolo 28. Cardiomiopatia Ipertrofica, Sandro Betocchi, Maria Angela Losi, Massimo Chiariello
Capitolo 29. Cardiomiopatia Dilatativa, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda
Capitolo 30. Cardiomiopatia Restrittiva, Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani, Andrea Perkan
Capitolo 31. Cardiomiopatia/Displasia Aritmogena del Ventricolo Destro, Luciano Daliento, Barbara Bauce, Cristina Basso, Alessandra
Rampazzo, Gaetano Thiene, Andrea Nava

Sezione VIII. Pericarditi, Miocarditi, Endocarditi


Capitolo 32. Pericarditi, Antonio Barsotti, Gian Marco Rosa
Capitolo 33. Miocarditi, Antonello Ganau, Pier Sergio Saba
Capitolo 34. Endocardite Infettiva, Sergio Dalla Volta

Sezione IX. Tumori del Cuore


Capitolo 35. I Tumori del Cuore, Gaetano Thiene, Cristina Basso, Marialuisa Valente

Sezione X. Aritmie
Capitolo 36. Definizione e Meccanismi delle Aritmie, Giuseppe Oreto, Marco Cerrito
Capitolo 37. Battiti Ectopici, Francesco Luzza, Scipione Carerj, Sebastiano Coglitore
Capitolo 38. Tachicardie Parossistiche Sopraventricolari, Rossella Troccoli, Matteo Di Biase
Capitolo 39. Fibrillazione e Flutter Atriale, Antonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino, Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita
Capitolo 40. Tachicardie Ventricolari, Stefano Favale, Pierangelo Basso, Franceso Capestro, Valentina D’Andria, Annalisa Fiorella
Capitolo 41. Bradicardie, Francesco Arrigo, Giuseppe Andò

Sezione XI. Sincope e Arresto Cardiocircolatorio

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4 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 42. Sincope, Luigi Padeletti, Alfonso Lagi


Capitolo 43. Morte Cardiaca Improvvisa, Lia Crotti, Peter J. Schwartz
Capitolo 44. Trattamento dell’Arresto Cardiocircolatorio

Sezione XII. Ipertensione arteriosa


Capitolo 45. L’ipertensione Arteriosa, Massimo Volpe, Sebastiano Sciarretta

Sezione XIII. Arteriosclerosi


Capitolo 46. L’Aterosclerosi, Paolo Golino
Capitolo 47. La Valutazione del Rischio Coronarico, Salvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina Novo
Capitolo 48. Le Funzioni dell’Endotelio, Marika Massaro, Egeria Scoditti, Maria Annunziata Carluccio, Raffaele De Caterina

Sezione XIV. Cuore Polmonare ed Embolia Polmonare


Capitolo 49. Il Cuore Polmonare Cronico, Cesare Fiorentini, Piergiuseppe Agostoni, Elisabetta Doria
Capitolo 50. L’Embolia Polmonare, Giuseppe Mercuro, Francesco Peliccia
Capitolo 51. L’Ipertensione Polmonare Primitiva, Carmine Dario Vizza, Roberto Badagliacca, Roberto Poscia, Francesco Fedele

Sezione XV. Cardiopatie Congenite


Capitolo 52. Cardiopatie Congenite Parte I, Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela
Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio
Capitolo 53. Cardiopatie Congenite Parte II, Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela
Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio

Sezione XVI. Malattie delle Arterie e delle vene


Capitolo 54. Arteriopatie dei Tronchi Sopraortici, Salvatore Novo, Egle Corrado, Ida Muratori
Capitolo 55. Arteriopatie delle Arterie Periferiche, Giuseppe Mercuro, Ettore Manconi
Capitolo 56. Aneurismi e Aneurisma Dissecante, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada
Capitolo 57. Malattie delle Vene, Marco Matteo Ciccone

Sezione XVII. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Terapia Medica e Interventistica
- Capitolo 58. Elementi di Farmacologia Cardiovascolare, capitolo non presente
- Capitolo 59. Interventistica Coronarica, capitolo non presente
- Capitolo 60. Interventistica Non Coronarica, capitolo non presente
- Capitolo 61. Interventistica Elettrofisiologica, capitolo non presente

Sezione XVIII. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Cardiochirurgia


Capitolo 62. Circolazione Extracorporea, Claudio Muneretto, Paolo Piccoli, Gianluigi Bisleri
Capitolo 63. Interventi sulle Valvole Cardiache, Luigi Chiariello, Carlo Bassano
Capitolo 64. Chirurgia della Cardiopatia Ischemica, Luigi Chiariello, Paolo Nardi
Capitolo 65. Chirurgia delle Cardiopatie Congenite, Mario Chiavarelli, Gianluca Lucchese
- Capitolo 66. Trapianto Cardiaco, capitolo non presente

Sezione XIX. Approccio al trattamento delle Malattie Cardiovascolari: Chirurgia Vascolare


Capitolo 67. La Malattia dei Tronchi Sopraortici, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada
Capitolo 68. Le Arteriopatie Periferiche, Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

Atlante di Elettrocardiografia, Giuseppe Oreto , capitolo non presente


Atlante di Ecocardiografia, Maria Penco, capitolo non presente
Atlante di Patologia Cardiovascolare, Gaetano Thiene e Cristina Basso, capitolo non presente

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Capitolo 1
I SINTOMI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Mario Mariani

DEFINIZIONE

Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e
mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il
miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle
patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono,
per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico,
come il Giappone.
Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine
ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle
malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause
principali di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato
cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte.
Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza
determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato”
dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi.

I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono:


1) La Dispnea.
2) L’Astenia.
3) Il Dolore toracico.
4) Le Palpitazioni, definite anche Cardiopalmo.
5) La Nicturia.

LA DISPNEA

Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può
insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue
manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi
più avanti).
Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo
polmonare da parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della
pressione diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari
polmonari e nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari
provoca trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli
alveoli (edema alveolare).

La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una patologia che può
coinvolgere l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la dispnea cardiaca è uno dei sintomi più
significativi insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di
gravità di uno scompenso.
Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.),

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utile per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla insorgenza della dispnea per sforzi sempre
più lievi o addirittura a riposo. Essa è così strutturata:
Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna limitazione della propria
attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità, né dolore anginoso.
Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa limitazione dell’attività
fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni
o dolore anginoso) per una attività fisica usuale.
Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata limitazione dell’attività fisica.
Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a
quella usuale.
Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di effettuare qualsiasi attività
fisica senza presentare i disturbi sopra indicati, che possono essere presenti anche in condizioni di riposo.

La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema polmonare acuto, che si
realizza quando la pressione all’interno dei capillari polmonari supera il valore della pressione colloido-
osmotica. Nel capillare, infatti, agiscono due forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far
fuoriuscire il liquido dal vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a
trattenere il liquido all’interno; il valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la pressione idrostatica nei
capillari polmonari supera tale valore, è inevitabile una ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture
microvascolari, ad alcuni globuli rossi. Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio, da
dove il sistema linfatico cerca di rimuoverlo; successivamente, quando la capacità di drenaggio del sistema
linfatico viene superata, il fluido invade gli alveoli polmonari, e mescolandosi all’aria forma una schiuma,
talora rosata, che invade le vie aeree ed interferisce gravemente con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto
da poter portare a morte. All’ascoltazione del torace, in questa situazione drammatica, quando dalla fase
interstiziale si passa a quella alveolare, si assiste alla comparsa di rantoli prima a piccole poi a grosse bolle,
che iniziano dalle basi polmonari e giungono rapidamente a coprire l’intero distretto respiratorio. Il
soggetto è in posizione eretta e mette in funzione tutti i muscoli respiratori accessori nella disperata ricerca
di riuscire ad effettuare atti respiratori utili.

L’ASTENIA

E’ l’espressione di una ridotta portata cardiaca e si manifesta con la difficoltà a compiere le usuali attività
motorie (adinamia) o addirittura con un grave senso di spossatezza ancor prima di iniziare una qualunque
attività fisica.

IL DOLORE TORACICO

Il dolore ischemico presenta caratteristiche peculiari che vanno


dalla modalità di insorgenza, al tipo di dolore, allasede dello stesso, alla sua irradiazione. E’ questo il
sintomo più importante nell’angina ed in genere delle sindromi coronariche acute, compreso l’infarto
miocardico.
Nei quadri clinici riferibili ad angina pectoris, la presenza di dolore è “condicio sine qua non” per definire il
quadro clinico. Nell’angina da sforzo stabile il dolore insorge durante uno sforzo fisico, è di tipo costrittivo
od oppressivo e nel 75% dei casi è localizzato alla regione retrosternale bassa, con varie possibili
irradiazioni, delle quali abbastanza comune è quella al lato ulnare del braccio sinistro, e in misura minore, al

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giugulo. Più raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o l’epigastrio. Il dolore
cessa usualmente dopo poco la cessazione dello sforzo e recede rapidamente con l’assunzione di
nitroderivati. Nell’infarto miocardico acuto, il dolore con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere
ben oltre i pochi minuti e può durare addirittura diverse ore.
Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris, sindromi coronariche
acute) ma può essere indicativo di numerose altre patologie cardiovascolari quali la pericardite, la
dissezione aortica, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di
altri organi e sistemi, come lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o
flogistico) di nervi intercostali.

LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO

La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del cuore, infatti, decorre in
maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte, per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di
cardiopalmo: quello tachicardico, in cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello
extrasistolico, caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la “sensazione del
cuore che si ferma” (vedi Capitolo 33). Anche se in condizioni di impegno fisico od emozionale è frequente
sentire il proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la perdita di ritmicità è un fenomeno che
difficilmente sfugge. Talora tale sintomo viene vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso
di extrasistolia isolata o sporadica.
L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico, o al contrario
estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la fibrillazione ventricolare o l’asistolia,
possono portare a morte senza alcun sintomo premonitore, ma è innegabile che talora “salve di
extrasistoli” o brevi episodi di tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria
asistolia, possono risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere trattati con pacemaker o
defibrillatore, evitando eventi gravi o fatali.

LA SINCOPE

Può essere definita


come: “Perdita improvvisa e transitoria della coscienza e del tono posturale, dovuta ad una graveipossia o a
d una anossia cerebrale acuta”. Talora può essere accompagnata da perdita di urine e/o di feci. Un tempo
si distingueva la lipotimia come perdita momentanea del tono posturale e talora anche dello stato di
coscienza, preceduta in genere da prodromi descritti come “senso di mancamento, nausea, appannamento
della vista, sudorazione, pallore”. Oggi si preferisce parlare di sincope e di presincope. La sincope può
riscontrarsi in varie situazioni di patologia cardiaca (vedi Capitolo 41).

LA NICTURIA

E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione della diuresi durante
il giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il fenomeno può essere dovuto al
riassorbimento notturno degli edemi soprattutto declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta
nel paziente con scompenso cardiaco congestizio, o anche perchè durante il riposo notturno il fabbisogno
di sangue da parte dei muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata cardiaca può
giungere al rene, il quale aumenta la produzione di urina.

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8 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 2
I SEGNI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI
Mario Mariani

CONCETTI GENERALI

Nei pazienti con Malattie dell’apparato cardiovascolare, i segni rilevabili all’esame clinico costituiscono
ancora oggi un importante capitolo perché tutte le innovazioni tecnologiche, che hanno apportato un
grande progresso nell’inquadramento diagnostico e nella terapia, trovano una loro logica applicazione solo
sulla base di una corretta valutazione dei segni peculiari di ogni forma di cardiopatia.
I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono rilevabili con un accurato
esame obiettivo che trova i suoi capisaldi nei presìdi offerti dalla classica Semeiotica fisica: Ispezione,
Palpazione, Percussione, Ascoltazione.
Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica Cardiovascolare,
grazie ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la determinazione delle dimensioni
cardiache. Gli altri tre capisaldi semeiologici (Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto
quest’ultima) conservano la loro validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche
diagnostiche strumentali.
I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato cardiovascolare mediante
le seguenti manovre:
1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi.
2) L’osservazione del polso venoso giugulare.
3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso.
4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale.
5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di pulsazioni abnormi.
6) La ricerca di eventuali edemi declivi.
7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di soffi o sfregamenti.

CIANOSI

Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili quando il contenuto di
emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 grammi per decilitro.
La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla presenza di uno shunt
destro-sinistro o a gravi difetti della funzione respiratoria.
La cianosi periferica si realizza quando, a causa di una vasocostrizione in alcuni distretti circolatori, si
determina una desaturazione locale, con aumento dell’emoglobina ridotta in quelle zone. La cianosi
periferica può evidenziarsi, fra l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle
resistenze periferiche.

OSSERVAZIONE DEL POLSO VENOSO

Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta, reclinato a 45°
(rispetto ai 90° normali per la posizione seduta).
Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive sono denominate
onde a, c ev, mentre le depressioni sono denominate x e y. Un’attenta osservazione del polso venoso
giugulare, può fornire precise indicazioni circa la funzione delle camere destre del cuore.
Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in atrio destro (Stenosi

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tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione diastolica ventricolare destra, come si verifica nella
Miocardiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi Capitolo 32).
Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale.

ISPEZIONE DELLE ARTERIE E PALPAZIONE DEL POLSO ARTERIOSO.

Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio l’eccessiva
pulsazione delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza aortica o di altre situazioni di
circolo ipercinetico). Conl’ascoltazione possono evidenziarsi soffi vascolari. La manovra semeiologica più
utilizzata per l’esplorazione del polso arterioso è la palpazione, con la quale si possono valutare:
a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto;
b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni;
c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa, carattere che è
direttamente correlato alla gittata sistolica;
d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per sopprimere la pulsazione,
espressione anche del livello pressorio;
e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai due lati
dell’organismo (per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc).

Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare indicativi di particolari
situazioni morbose. Ecco alcuni esempi.
A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra nella stenosi aortica (vedi
Capitolo 16).
B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) è presente nell’insufficienza aortica (vedi Capitolo 17) o
negli stati circolatori ipercinetici;.
C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza nettamente ridotte) è
tipico dello shock (vedi Capitolo 22).
D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione durante una inspirazione
profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di
mercurio, mentre in presenza di pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione
del riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio.

ISPEZIONE E PALPAZIONE DELLA ZONA PRECORDIALE

L’ispezione e la palpazione possono consentire di localizzare l’itto della punta del cuore, cioè la sede della
massima pulsazione visibile o palpabile, che normalmente si trova al quarto spazio intercostale sinistro circa
1 centimetro all’interno della linea emiclaveare. In condizioni patologiche, l’itto della punta può essere
dislocato anche in sedi molto diverse dal normale: nell’insufficienza aortica grave, per esempio, può essere
spostato in basso e a sinistra fino al sesto spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore o anche media.
Possono essere apprezzabili alla palpazione della zona precordiale fremiti, i quali costituiscono il
corrispettivo palpatorio dei soffi particolarmente intensi (4/6 o più della scala Levine, vedi più avanti) o (più
di rado) degli sfregamenti pericardici in corso di pericardite.

PALPAZIONE DELL’ADDOME PER RICERCARE L’EVENTUALE PRESENZA DI EPATOMEGALIA O DI


PULSAZIONI ABNORMI

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10 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Epatomegalia è presente nelle forme di scompenso che coinvolgono il cuore destro primitivamente o
secondariamente a difetti interessanti inizialmente il cuore sinistro (per esempio valvulopatie mitraliche
e/o aortiche). E’ apprezzabile con le comuni manovre palpatorie l’aumento di volume dell’organo che può
sporgere per oltre due, tre dita traverse o più dall’arcata costale. In genere l’organo palpato risulta dolente.
Alla palpazione dell'addome si possono apprezzare pulsazioni abnormi riferibili alla presenza di aneurismi
dell'Aorta addominale.

EDEMI DECLIVI

Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali, etc.) nei soggetti che
rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti costretti a letto gli edemi sono più evidenti nella
regione pre-sacrale. Quando si ha un imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si
accompagnano anche a versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.).

ASCOLTAZIONE DEL CUORE

L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore, ed è basata
sull’analisi dei toni e sul riconoscimento di eventuali soffi.

I Toni
I toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di patologia nei bambini o in
giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile.

Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari, mentre il II si deve alla
chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1).
Il I tono può risultare rinforzato in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di stenosi della valvola
tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza mitralica.

Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella maggior parte dei casi
sono così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la chiusura della valvola aortica precede di poco
quella della polmonare (Figura 1).

Figura 1 I e II tono cardiaco. A2 = componente aortica del II tono. P2 = componente polmonare del II tono.

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11 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

A volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono possono essere ascoltate
distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato. Tale sdoppiamento, però, e variabile con le
fasi del respiro: A2 e P2 appaiono separate solo durante l’inspirazione, mentre nella fase espiratoria sono

unite (Figura 2A).

Figura 2 A: sdoppiamento variabile del II tono legato alle fasi del respiro.
B: Sdoppiamento paradosso del II tono in presenza di blocco di branca sinistra. A2 = componente aortica
del II tono. P2 = componente polmonare del II tono

Ciò dipende dal fatto che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per l’incremento della vis a fronte: il
ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente prolungata, tanto da ritardare la
chiusura della valvola polmonare; con l’espirazione, invece, questo fenomeno non è più presente, e la
chiusura delle due valvole semilunari è presso a poco simultanea.
Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso (Figura 3) in presenza di un difetto del setto interatriale, che
comporta uno shunt sinistro-destro (vedi Capitolo 51).

Figura 3 Sdoppiamento fisso del II tono nel difetto del setto interatriale.

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12 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

In questa situazione la gittata del ventricolo destro è sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato
ritorno venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt attraverso il setto interatriale.
Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si avvertono le due componenti
separate in espirazione mentre il tono appare unico durante l’inspirazione (Figura 2B).

Questo fenomeno è principalmente causato da un eccessivo ritardo di A2. come accade in caso di blocco di
branca sinistra (vedi Capitolo 3) o stenosi aortica grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la
chiusura della valvola aortica è ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la
polmonare a chiudersi prima. Quando, durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico ritardo della chiusura
della polmonare, legato all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2 diventano simultanee, mentre in espirazione
non vi è il ritardo di P2, per cui il II tono appare sdoppiato.
Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori sistemici nella sua
componente aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione polmonare, nella sua componente polmonare
(P2). In queste condizioni, il livello della pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del
normale, per cui le vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie.

Il III tono (Figura 4) corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e può risultare
ben evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in presenza di disfunzione ventricolare,
come nello scompenso cardiaco.

Figura 4 Oltre al I e al II tono, vengono rappresentati il III tono (protodiastolico) e il IV tono (presistolico o
telediastolico).

Normalmente il III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica particolarmente
sottile.

Il IV tono (Figura 4) corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle vibrazioni
provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel ventricolo. Normalmente questo
fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, a bassa
frequenza, sono quasi in continuità con quelle, a frequenza ben più alta, del I tono, sia perché la loro
ampiezza è molto bassa. Vi sono essenzialmente due condizioni che favorisono l’ascoltazione del IV tono: il
blocco A-V di I grado e la ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo caso si allunga l’intervallo P-R (vedi
Capitolo 40), per cui la sistole atriale non è seguita da quella ventricolare immediatamente, ma dopo un

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13 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

tempo più lungo del normale, per cui in IV tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta
distensibilità delle pareti ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva, fa
sì che aumenti l’ampiezza delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel ventricolo.
Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza cardiaca, si può generare un
ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la
frequenza cardiaca è aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione.

I Toni aggiunti
A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i seguenti toni aggiunti.
1) I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico (Figura 5) (vedi Capitolo 15) e i click eiettivi
aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare.

Figura 5 A: click mesosistolico del prolasso mitralico.


B: il clock è seguito da un soffio mesotelesistolico.

2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al momento dell’apertura di
una valvola stenotica. Normalmente non si generano vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma
quando queste divengono stenotiche la loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto
appunto schiocco d’apertura (Figura 6).

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14 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. Il I tono è di intensità aumentata, e dopo il secondo
tono compare lo schiocco d’apertura della mitrale (SAM) seguito dal soffio diastolico (SD)

I Soffi
Un soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e può essere ascoltato
col fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del
sangue dovrebbe essere laminare (in base al numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la
turbolenza marcata del flusso, tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari
motivi, inclusa la stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un ostacolo
anormale al flusso, come per esempio quello rappresentato da una valvola stenotica; b) un flusso non
fisiologico, come per esempio quello che si genera nel difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un
flusso “innaturale” del sangue da un ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata
quantità del flusso, come si verifica per esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di stenosi
valvolare, si può ascoltare sul focolaio aortico un soffio sistolico quando la gittata sistolica ventricolare
sinistra è notevolmente aumentata (vedi Capitolo 17).

I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo cardiaco in cui si ascoltano),
al timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla irradiazione.
Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi ultimi occupano tutto il
ciclo cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due fasi. All’interno delle categorie dei soffi
sistolici e diastolici, poi, se ne trovano alcuni che occupano tutta la sistole (soffio olosistolico) o tutta la
diastole (soffio olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto, meso o
tele (protosistolici, protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte iniziale della fase (sistole o
diastole) in cui si ascoltano, oppure la parte intermedia o quella finale.

Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando termini
come dolce, rude, aspro,aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso quello di “rullio” per indicare il
soffio diastolico della stenosi mitralica, che viene assimilato a un rullio di tamburi.

La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha la massima intensità. I
quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono quello mitralico (alla punta del

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15 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

cuore), tricuspidalico (all’incirca alla base dell’apofisi ensiforme), aortico (sulla margino-sternale destra, al
secondo spazio intercostale) e polmonare (sulla margino-sternale sinistra, al secondo spazio intercostale).

L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile ascoltarlo bene. E’
caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza mitralica e l’irradiazione al giugulo del
soffio della stenosi aortica.

L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a 6 gradini proposta da
Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio è molto intenso, le vibrazioni generate
dalla turbolenza del flusso si possono non solo ascoltare, ma anche palpare come fremiti, appoggiando la
mano sul precordio.

 1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il cuore con grande
attenzione
 2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole
 3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito
 4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito
 5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il
fonendoscopio a 1 cm dalla cute
 6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si
solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute

I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Questa distinzione ha molta
importanza da un punto di vista clinico perché mentre i soffi eiettivi possono essere sia organici,
determinati cioè da una lesione anatomica (per esempio, una stenosi valvolare aortica), che funzionali,
legati a motivi differenti da un’alterazione strutturale (per esempio, un’aumentata velocità del flusso), i
soffi da rigurgito sono sempre organici, espressione di un’alterazione anatomica.
I soffi eiettivi (Figura 7) iniziano a una certa, anche se breve, distanza dal I tono. Prendiamo come esempio
il soffio eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo sinistro si contrae e fa chiudere la
valvola mitrale, dando origine al I tono; in questa fase, che prende il nome
di contrazione isometrica (o isovolumetrica) l’eiezione del sangue dal ventricolo non è ancora iniziata.

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16 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 7 Soffio sistolico eiettivo (SS).

Solo quando la pressione endoventricolare cresce e supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in
condizioni normali) la valvola aortica si apre e ha inizio il flusso attraverso la valvola e con esso il soffio,
assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò, inizierà a una certa distanza dal I tono,
non simultaneamente ad esso.
Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica (Figura 8).

Figura 8 Soffio sistolico da rigurgito nell’insufficienza mitralica. In B è anche presente il III tono

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17 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Questo inizia senza alcun ritardo rispetto al I tono, ma contemporaneamente ad esso; infatti appena la
valvola mitrale si chiude e si genera il I tono inizia il rigurgito di sangue in atrio sinistro, ben prima che la
pressione intraventricolare aumenti al di sopra di quella aortica e la valvola aortica si apra. In definitiva, il
soffio sistolico da rigurgito inizia attaccato al I tono, mentre il soffio sistolico eiettivo è staccato dal I tono.
I soffi sistolici da eiezione hanno in generale la caratteristica di essere in crescendo-decrescendo,
assumendo una morfologia “a diamante” (Figura 7), mentre i soffi da rigurgito hanno un aspetto “a nastro”
conservando la stessa intensità per tutta la loro durata.
I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza tricuspidale, del difetto
del setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere organici, legati alla stenosi aortica (Capitolo 16) o
alla stenosi polmonare (Capitolo 18), ma possono anche essere soltanto di natura funzionale, espressione
di una stenosi relativa, dovuti non a riduzione dell’ostio valvolare, ma semplicemente ad aumento del
flusso con un’area valvolare normale.

I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico della stenosi mitralica
(Figura 6) (Capitolo 14), quello della stenosi tricuspidalica (Capitolo 18), il soffio dell’insufficienza aortica
(Figura 9) (Capitolo 17) e quello dell’insufficienza polmonare (Capitolo 18).

Figura 9 A: soffio diastolico in decrescendo dell’insufficienza aortica.


B: al soffio diastolico si associa un soffio sistolico eiettivo.

I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo arterioso e quello venoso, con
shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco. Il prototipo del soffio continuo è quello generato
dalla pervietà del dotto arterioso di Botallo (Figura 10) (Capitolo 51), che si ascolta in sede sottoclaveare
sinistra.

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18 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 10 Soffio continuo nella pervietà del dotto arterioso. Il soffio copre tutto il ciclo cardiaco (sistole e
diastole) ed ha il suo acme il corrispondenza del II tono.

Gli Sfregamenti
Relativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni soggetti affetti da
pericardite (Capitolo 32). Normalmente i foglietti pericardici viscerale e parietale sono lisci e scorrono l’uno
sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi,
genera gli sfregamenti, che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole.

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19 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 3
L’ELETTROCARDIOGRAMMA
Giuseppe Oreto, Francesco Luzza, Maria Pia Calabrò

L’attività elettrica del cuore

Le fibrocellule miocardiche sono polarizzate in condizioni di riposo, cioè possiedono una elettronegatività
sulla faccia interna della membrana cellulare, mentre la faccia esterna è carica positivamente. Per contrarsi,
ogni cellula deve prima essere depolarizzata, cioè attivata elettricamente: durante la depolarizzazione
s’inverte la polarità della membrana, la cui faccia interna diviene carica positivamente. Completatasi la
depolarizzazione, la cellula ritorna allo stato iniziale: si realizza quindi la ripolarizzazione, al termine della
quale la cellula diviene nuovamente eccitabile, cioè può andare incontro a una nuova depolarizzazione. I
processi elettrici delle fibrocellule miocardiche si realizzano mediante il movimento di ioni (particelle
cariche elettricamente) i quali attraversano la membrana passando attraverso specifici canali.

LE ONDE DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA

L’Elettrocardiogramma (ECG) è una registrazione grafica dell’attività elettrica del cuore, ed è formato da
diverse onde, le quali si ripetono, normalmente con lo stesso ordine, in ogni ciclo cardiaco, e vengono
denominate P, Q, R, S, T ed U (Figura 1).

Figura 1 Le onde dell’Elettrocardiogramma. A e B sono due diverse derivazioni registrate

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20 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Non necessariamente sono presenti tutte le onde, poiché anche in condizioni fisiologiche una o più di esse
possono non essere evidenti o mancare. Nella Figura 1B per esempio, dopo la P compaiono le onde Q ed R
ma non la S.
L’onda P corrisponde alla depolarizzazione atriale, mentre le onde Q, R ed S sono l’espressione
della depolarizzazioneventricolare; l’onda T rappresenta la ripolarizzazione ventricolare. Il significato
dell’onda U è meno chiaro, e la sua genesi è ancora discussa. Fra un ciclo cardiaco e l’altro (cioè fra una
serie di onde PQRSTU e la successiva) vi è generalmente una fase più o meno lunga in cui il cuore è
elettricamente silente, cioè non vi sono onde. In questo periodo l’elettrocardiogramma registra una linea
piatta, detta isoelettrica.
Le onde P, T ed U possono essere positive, cioè rivolte in alto (Figura 1A) o negative, cioè rivolte in basso
(Figura 1B); per quanto riguarda il complesso ventricolare (QRS), invece, un’onda positiva è sempre
denominata R, mentre le onde negative si definiscono Q oppure S a seconda che compaiano prima o dopo
un’onda R.
La carta su cui viene registrato il tracciato elettrocardiografico presenta un fine reticolato di linee
ortogonali che formano dei quadrati. Esistono linee spesse, che distano l’una dall’altra 5 mm, e linee sottili,
separate da una distanza di 1 mm; le prime formano quadrati con lati di 5 mm, le seconde quadrati con lati
di 1 mm. Ogni quadrato “grande” contiene perciò 25 quadrati “piccoli” (Figura 2). Le linee servono come
punti di riferimento per misurare sia l’ampiezza (cioè il voltaggio) delle onde che la loro durata. Sull’asse
verticale si misura l’altezza (ampiezza) della deflessione, partendo dall’isoelettrica.

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21 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 L’onda P, il complesso QRS e l’onda T. Le linee della carta dell’elettrocardiografo consentono di
misurare l’ampiezza (voltaggio) e la durata (secondi) delle diverse onde.

Per esempio, nella Figura 3 l’onda P ha un’altezza di 2 mm, l’onda q di 1 mm, l’onda R di 13 mm, l’onda S di
2 mm e la T di 2,5 mm. Poiché in una registrazione elettrocardiografica standard 10 mm corrispondono a 1
mV, potremo affermare che l’onda P ha un’ampiezza di 0,2 mV, la Q di 0,1 mV, la R di 1,3 mV, etc. Mentre
la dimensione verticale serve per misurare il voltaggio delle onde, quella orizzontale consente di valutare la
durata delle varie deflessioni. Con la velocità tradizionale di scorrimento della carta (25 mm al secondo), un
secondo corrisponde a 5 quadrati grandi o, ciò che è lo stesso, a 25 quadrati piccoli. Di conseguenza, ogni
quadrato grande equivale a 0,2 secondi (200 millisecondi) e ogni quadrato piccolo a 0,04 secondi (40
millisecondi). Proviamo ora a determinare la durata delle varie onde misurandone la larghezza. Nella Figura
3 l’onda P ha una larghezza di 2 quadrati piccoli, per cui la sua durata sarà 0,08 sec (0,04x2); anche il QRS

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22 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

occupa lo spazio di 2 quadrati piccoli, cioè ha una durata di 0,08 secondi (80 millisecondi). Oltre alla durata
delle varie onde, si misurano anche alcuni intervalli, particolarmente il P-Q (o P-R) e il QT. Nella Figura 3 il P-
Q (dall’inizio della P all’inizio del QRS) misura circa 0,17 secondi e il QT (dall’inizio del QRS alla fine della T)
0,39 secondi.

LE DERIVAZIONI DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA

L’elettrocardiogramma tradizionale comprende 12 derivazioni. Ciascuna di esse descrive lo stesso


fenomeno (i processi di depolarizzazione e di ripolarizzazione del cuore) visto, però, da diversi punti di
osservazione. La presenza di più derivazioni serve a ricostruire rapidamente l’andamento dei fenomeni
elettrici del cuore. Allo stesso modo, se noi vogliamo studiare le caratteristiche architettoniche di un
edificio, dobbiamo girarci intorno per analizzarlo da diverse angolazioni: l’edificio è sempre lo stesso, ma
cambia la parte che di volta in volta vediamo. Perciò ogni derivazione contiene le stesse onde (P,Q,R,S,T,U)
nella stessa sequenza, ma la polarità (positiva o negativa), il voltaggio e la durata delle deflessioni saranno
più o meno diversi nelle differenti derivazioni. Tuttavia, se noi riusciamo a mettere insieme le informazioni
che le 12 derivazioni ci offrono, apparirà alla nostra mente l’intera sequenza degli eventi elettrici del cuore,
e potremo allora discriminare la normalità dalla patologia, e nell’ambito di quest’ultima distinguere diversi
aspetti.
Le 12 derivazioni sono:
Periferiche (degli arti):
Bipolari (Figura 4): I (o D1) - Polo positivo braccio sn, polo negativo braccio dx
II (o D2) - Polo negativo braccio dx, polo positivo gamba sn
III (o D3) - Polo negativo braccio sn, polo positivo gamba sn
Unipolari:aVR - Polo positivo braccio dx
aVL - Polo positivo braccio sn
aVF - Polo positivo gamba sn

Figura 4 Le tre derivazioni bipolari dagli arti (I, II, III).

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23 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Precordiali o toraciche
(Figura 5):V1 IV - spazio intercostale dx, sulla marginosternale
V2 IV - spazio intercostale sn, sulla marginosternale
V3 - A metà strada fra V2 e V4
V4 V - spazio intercostale sn, sull’emiclaveare
V5V - spazio intercostale sn, sull’ascellare anteriore
V6 V - spazio intercostale sn, sull’ascellare media

Figura 5 Posizione dell’elettrodo esplorante nelle derivazioni precordiali.

Le prime 6 derivazioni vengono registrate con elettrodi posti sugli arti e vengono perciò dette periferiche (o
derivazioni degli arti), mentre le seconde 6 si ottengono ponendo gli elettrodi sul torace, nella regione
precordiale, da cui il nome di derivazioni precordiali. Inoltre, fra le derivazioni periferiche le prime tre sono
bipolari e le seconde tre unipolari.

IMPIEGO CLINICO DELL’ELETTROCARDIOGRAMMA

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24 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Due sono i campi principali di applicazione dell’ECG: da un lato lo studio del ritmo cardiaco e la diagnosi
della aritmie, e dall’altro il riconoscimento di alcune condizioni patologiche del cuore (per esempio, l’infarto
miocardico) che alterano in modo caratteristico l’attività elettrica cardiaca. Mentre per le aritmie, però,
l’ECG è insostituibile e rappresenta la metodica di riferimento, per molte altre condizioni esistono tecniche
più adatte a rivelare il processo patologico, per cui l’ECG passa in secondo piano. Per esempio, l’ipertrofia
miocardica viene definita con maggiore accuratezza dall’Ecocardiografia che dall’ECG poiché la prima è in
grado di valutare la massa miocardica, mentre il secondo può solo indicare le eventuali anomalie elettriche
che l’ipertrofia induce, e quindi rivela questa condizione solo indirettamente.
A parte che per lo studio delle aritmie, l’ECG viene impiegato in clinica per diagnosticare l’ingrandimento
degli atri, l’ipertrofia dei ventricoli, i disturbi di conduzione intraventricolare (blocchi di branca e fascicolari),
l’ischemia miocardica e le sue diverse manifestazioni, alcune disionie, l’effetto di alcuni farmaci sul cuore.
L’ECG è anche molto importante per riconoscere alcune condizioni spesso congenite, a volte su base
genetica, che possono condurre ad aritmie anche letali (Preeccitazione, QT lungo o corto, Fenomeno di
Brugada), e fornisce anche informazioni utili per il riconoscimento di malattie quali la pericardite, le
cardiomiopatie, il cuore polmonare cronico, l’embolia polmonare.

LA DETERMINAZIONE DELL’ASSE DI QRS (ÂQRS)

L’ECG rappresenta sotto forma di onde i vettori prodotti dalla depolarizzazione e dalla ripolarizzazione
cardiaca. Il cuore genera, istante per istante, numerose forze elettriche che possono essere espresse da
vettori; la somma di tutti i vettori che compaiono in un determinato momento rappresenta il vettore medio
istantaneo; sommando tutti i vettori medi istantanei che si succedono durante la depolarizzazione
ventricolare si ottiene il vettore medio del QRS o asse del QRS (ÂQRS). La direzione di questo vettore può
essere calcolata nei tre piani dello spazio: piano frontale, piano orizzontale o trasverso, piano sagittale; in
pratica, però, l’ÂQRS viene determinato solo sul piano frontale, e il calcolo della sua direzione è semplice in
base all’analisi delle derivazioni periferiche (derivazioni degli arti). Per questo scopo, possiamo immaginare
la genesi dell’ECG assumendo che in ogni piano il cuore sia il centro di una circonferenza, e che da esso si
originino le forze, espresse come vettori: le varie onde da cui è formato il tracciato elettrocardiografico non
sono altro che le proiezioni dei vettori sui diametri della circonferenza.
Analizziamo solo il piano frontale: ogni derivazione corrisponde a un diametro, con un estremo positivo e
uno negativo. Per descrivere la posizione dei diversi diametri si usa una schematizzazione geometrica, dove
la definizione in gradi identifica l’estremità positiva di ogni derivazione. Il piano frontale presenta le
direzioni alto, basso, sinistra e destra (Figura 6).

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25 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 La circonferenza rappresenta il piano frontale del cuore. Il punto più a sinistra viene definito 0°,
quello più basso +90°, quello più in alto –90° e quello più a destra +/-180°.

Per convenzione, il punto più a sinistra viene definito 0°, quello più basso +90°, quello più in alto –90° e
quello più a destra ±180°; i vettori diretti nella metà inferiore della circonferenza (in basso) vengono
espressi con segni positivi (per esempio, +70°), mentre i vettori diretti in alto hanno segno negativo (per
esempio, -40°).
Ciascuna derivazione periferica (del piano frontale) ha una sua linea, corrispondente a un diametro della
circonferenza, e viene identificata in base al suo polo positivo (Figura 7).

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26 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 7 Le 6 derivazioni del piano frontale (derivazioni periferiche) corrispondono ai diametri di una
circonferenza. Ogni derivazione ha un polo positivo (evidenziato in rosso) e un polo negativo.

Nel nostro approccio semplificato, tuttavia, utilizzeremo solo una coppia di derivazioni ortogonali: I e aVF.
Nell’osservare ogni derivazione, bisogna tenere in considerazione la posizione della linea di derivazione e il
diametro perpendicolare ad essa. Esaminando la I derivazione, la cui linea va da 0° (polo positivo) a ±180°
(polo negativo), osserviamo che il diametro perpendicolare alla linea di derivazione va da –90° a +90°
(Figura 8). La linea della I derivazione può essere divisa in due metà: la parte che va dal centro della
circonferenza al polo positivo è l’emilinea positiva e quella che va dal centro al polo negativo l’emilinea
negativa.
Facciamo ora partire dei vettori dal centro della circonferenza (Figura 9): il vettore A proietterà sulla metà
positiva della linea della derivazione, il vettore B proietterà sull’emilinea negativa, mentre il vettore C è
perpendicolare alla linea e la sua proiezione su di essa sarà un punto. Tradotti in termini di ECG, questi
fenomeni significano che il vettoreA darà luogo ad una deflessione positiva, cioè rivolta verso l’alto, mentre
il vettore B originerà un’onda negativa, diretta in basso, e il vettore C non genererà alcuna onda, visto che
la sua proiezione sulla linea è puntiforme, cioè nulla.

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27 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 8 La linea della I derivazione, che ha il polo positivo a 0° e quello negativo a +/-180°, è divisa in due
parti: la metà positiva va dal centro della circonferenza al polo positivo e la metà negativa dal centro al polo
negativo.

L’ampiezza dell’onda sarà direttamente proporzionale alla lunghezza della proiezione del vettore sulla linea
di derivazione. Se noi suddividiamo la linea in unità arbitrarie, ci rendiamo conto che la proiezione del
vettore A misura 5,5 unità e quella del vettore B 3,5 unità. Ciò trova immediato riscontro nel tracciato:
l’onda generata dal vettore A è alta 5,5 mm, mentre quella dovuta al vettore B misura 3,5 mm.
Esprimendoci più correttamente, diremo che l’ampiezza di A è 0.55 mV (millivolt) e quella di B 0.35 mV.
Consideriamo ora il vettore A (Figura 10).

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28 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 10 Proiezione del vettore A sulla linea della I derivazione, ed espressione elettrocardiografica del
vettore.

Sappiamo che in I derivazione esso dà una deflessione positiva, ma non possiamo, con questa sola
informazione, calcolarne la direzione. Si può soltanto affermare, visto che esso proietta sull’emilinea
positiva della I derivazione, che è diretto a sinistra, compreso nell’angolo piatto segnato in verde nella
figura.
Analizziamo ora aVF (Figura 11), il cui polo positivo è a +90°: il vettore A proietta sulla metà positiva della
linea di questa derivazione, il che vuol dire che esso è diretto nell’angolo piatto segnato in verde nella
figura (fra 0° e ±180°). In altri termini, aVF ci dice che il vettore A è diretto in basso.

Figura 11 Proiezione del vettore A sulla linea della derivazione aVF, ed espressione elettrocardiografica del
vettore.

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29 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Se adesso mettiamo insieme le informazioni provenienti dalle due derivazioni fin qui studiate (Figura 12), ci
accorgiamo che è possibile circoscrivere la direzione del vettore nell’angolo retto che va da 0° a +90°
(segnato in verde), poiché l’ECG mostra un’onda positiva sia in I derivazione che in aVF: il vettore, perciò,
dev’essere diretto in basso e a sinistra.

Figura 12 Dal paragone fra gli elettrocardiogrammi registrati nelle derivazioni I e aVF si desume che il
vettore A è diretto nell’angolo retto compreso fra 0° e +90° (segnato in verde).

L’ÂQRS normale è diretto in basso e a sinistra; per questo motivo in un ECG normale il complesso QRS è
positivo sia in I derivazione che in aVF (Figura 13A).

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30 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 13 A: ÂQRS normale, diretto fra 0° e + 90°, il QRS è positivo in I e in aVF. B: ÂQRS deviato a sinistra,
diretto fra -90° e 0°: il QRS è positivo in I e negativo in aVF.

La deviazione assiale sinistra, invece è caratterizzata da un ÂQRS diretto nel quadrante superiore sinistro,
cioè in alto e a sinistra (Figura 13B); in questa situazione il complesso QRS sarà negativo in aVF (il vettore
proietterà sulla metà negativa della linea di derivazione) e positivo in I. Nella deviazione assiale destra,
invece, il vettore medio di QRS è diretto verso destra nel quadrante inferiore destro (Figura 14A) o in quello
superiore destro (Figura 14B).

Figura 14 A: ÂQRS deviato a destra, diretto fra 90° e +/-180; il QRS è negativo in I e positivo in aVF. B:
ÂQRS con deviazione assiale destra estrema, diretto fra +/-180 e -90°: il QRS è negativo in I e in aVF.

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31 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Ciò che contraddistingue la deviazione assiale destra, comunque, è la negatività del complesso QRS in I
derivazione; quando l’ÂQRS è diretto a destra e in basso, il QRS è positivo in aVF (Figura 14A), mentre se è
diretto a destra e in alto (cosiddetta deviazione assiale destra estrema, Figura 14B) sia la I derivazione che
aVF presentano un complesso ventricolare negativo (Tabella I).

L’INGRANDIMENTO DEGLI ATRI

Ingrandimento atriale sinistro. L’ingrandimento dell’atrio sinistro si esprime con aumento di durata
dell’onda P, che raggiunge o supera 0,12 secondi, con la comparsa di onde P bifide in alcune derivazioni
(per esempio, I, II o precordiali da V2 a V6) e di un’onda P difasica positivo/negativa in V1, caratterizzata da
una componente negativa rallentata (ECG 01, ECG 06, ECG 07, ECG 11).
Ingrandimento atriale destro. L’ingrandimento dell’atrio destro viene suggerito da onde P con durata
normale, ma alte, con voltaggio 0,25 mV (2,5 mm) e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF, e da onde P
positive o prevalentemente positive e appuntite in V1 (ECG 02, ECG 03, ECG 04, ECG 05).

L’IPERTROFIA DEI VENTRICOLI

L’ incremento della massa ventricolare si esprime con numerose alterazioni, di cui le più importanti sono
l’aumentato voltaggio del QRS, le alterazioni della ripolarizzazione (anomalie del tratto ST e dell’onda T) e,
per l’ipertrofia ventricolare destra, la deviazione assiale.
Ipertrofia ventricolare sinistra. Per diagnosticare l’ipertrofia ventricolare sinistra attraverso l’aumento del
voltaggio sono stati proposti molti indici, il più noto dei quali è l’indice di Sokolov, basato sulla somma
dall’onda S in V1 più l’onda R in V5 o V6. Quando questa somma raggiunge o supera 35 mm (3,5 mV) si può
diagnosticare l’ipertrofia ventricolare. Molto importanti, nell’ipertrofia ventricolare sinistra, sono le
alterazioni secondarie di ST-T (Figura 15), caratterizzate da un tratto ST sottoslivellato e da una T negativa
asimmetrica nelle derivazioni in cui il QRS è positivo. Casi di ipertrofia ventricolare sinistra si osservano

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32 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

nelle Figure ECG 06, ECG 07, ECG 08.

Figura 15 A: QRS normale (Derivazione V5 o V6). B: Ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da


aumento di voltaggio dell’onda R, scomparsa dell’onda q e alterazioni secondarie di ST-T.

Ipertrofia ventricolare destra. L’ipertrofia ventricolare destra si esprime all’ECG in primo luogo con una
deviazione assiale destra (Figura 14); la deviazione dell’ÂQRS a destra è normale nel neonato e nel bambino
piccolo mentre è un fenomeno anormale nell’adulto ed esprime quasi sempre l’ipertrofia del ventricolo
destro. Un altro segno è rappresentato dalle onde R alte nelle precordiali destre (V1,V2), con rapporto
R/S>1. Casi di ipertrofia ventricolare sinistra si osservano nelle Figure ECG 03, ECG 04, ECG 05.

I DISTURBI DELLA CONDUZIONE INTRAVENTRICOLARE

Il sistema di conduzione intraventricolare è costituito dalle branche e dalle loro diramazioni (il nodo A-V e il
fascio di His fanno, invece, parte della giunzione atrio-ventricolare). In condizioni fisiologiche l’impulso
nasce nel nodo del seno, attraversa gli atri e giunge al nodo A-V e da qui al fascio di His, da dove raggiunge
simultaneamente le due branche e, percorrendo le diramazioni di queste raggiunge la rete di Purkinje, la
quale permette la rapida distribuzione dell’impulso a un gran numero di cellule. La funzione del sistema di
conduzione intraventricolare è consentire l’attivazione (e di conseguenza la contrazione) simultanea dei
due ventricoli, fenomeno di grande importanza da un punto di vista fisiologico. Poiché la branca sinistra si
suddivide precocemente in due fascicoli (anteriore e posteriore), da un punto di vista elettrocardiografico, il
sistema di conduzione è costituito da 3 fascicoli: la branca destra, il fascicolo anteriore e quello posteriore
(Figura 16).

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33 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 16 Il sistema di conduzione atrio-ventricolare e intraventricolare. NAV = Nodo atrio-ventricolare.


HIS = Fascio di His. BD = Branca destra. BS = Branca sinistra,

Numerosi processi patologici possono alterare la conduzione in una o più sezioni del sistema di conduzione
intraventricolare; si distinguono, quindi, i blocchi di branca (blocco di branca destra, blocco di branca
sinistra), i blocchi fascicolari (blocco fascicolare anteriore, blocco fascicolare posteriore, definiti anche come
emiblocco anteriore ed emiblocco posteriore), i blocchi bifascicolari (blocco di branca destra + blocco
fascicolare anteriore, blocco di branca destra + blocco fascicolare posteriore) e quelli trifascicolari, nei quali
tutti e tre i fascicoli sono compromessi.

Blocco di branca destra


E’ caratterizzato da complessi con onda r (o R) terminale in V1 (morfologia rSr’, rSR’, rR’) e da complessi con
onda S larga in I e V6. La durata del QRS è aumentata e raggiunge o supera 0,12 secondi nel blocco di
branca destra completo, mentre è minore nella forma incompleta. Un blocco di branca destra si osserva
nell’ ECG 10.

Blocco di branca sinistra

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34 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

In questo blocco il complesso QRS è molto caratteristico nelle derivazioni I e V6, dove è intieramente
positivo, con morfologia “a M” o “R con plateau”, il tratto ST è sottoslivellato e la T negativa. Come nel
blocco di branca destra, la durata del QRS è aumentata, e raggiunge o supera 0,12 secondi nel blocco di
branca sinistra completo, mentre è minore nella forma incompleta. Casi di blocco di branca sinistra si
osservano nelle Figure ECG 11 ed ECG 12.

Blocco fascicolare anteriore (Emiblocco anteriore)


Si riconosce per la presenza di deviazione assiale sinistra (ÂQRS a -30° o più in alto, testimoniato da
complessi QRS positivi in I, negativi in aVF e isodifasici o negativi in II derivazione) associata a complessi qR
in I e aVL ed a complessi rS in III e aVF (ECG 13).

Blocco fascicolare posteriore (Emiblocco posteriore


E’ un disturbo di conduzione estremamente raro quando isolato, ed è caratterizzato da deviazione assiale
destra associata a complessi qR in II, III, aVF. Per affermare la presenza di un blocco fascicolare posteriore, è
necessario escludere un’ipertrofia ventricolare destra.

Blocco di branca destra + blocco fascicolare anteriore


Presenta i caratteri del blocco di branca destra isolato (complessi rSr’, rSR’, rR’ in V1, complessi con onda S
larga in I e V6) insieme alla deviazione assiale sinistra, come nel blocco fascicolare anteriore.
Elettrocardiogrammi tipici di blocco di branca destra associato a blocco fascicolare anteriore si osservano
nelle Figure ECG 14 ed ECG 15.

Blocco di branca destra + blocco fascicolare posteriore


Presenta i caratteri del blocco di branca destra isolato (complessi rSr’, rSR’, rR’ in V1, complessi con onda S
larga in I e V6) insieme alla deviazione assiale destra, come nel blocco fascicolare posteriore. Un esempio
tipico di blocco di branca destra associato a blocco fascicolare posteriore si osserva nell’ ECG 16.

LA CARDIOPATIA ISCHEMICA

L’ischemia miocardica si esprime all’ECG con una serie di anomalie che riguardano principalmente il
segmento ST, l’onda T e il complesso QRS. Esiste un considerevole disaccordo riguardo la nomenclatura
delle alterazioni ischemiche dell’ECG: i classici trattati di Elettrocardiografia impiegano i termini di
“ischemia”, “lesione” e “necrosi” per indicare rispettivamente le modificazioni ischemiche dell’onda T, del
tratto ST e del complesso QRS; questi termini, tuttavia, non sono esatti da un punto di vista fisiopatologico:
per esempio, l’alterazione di T nota come “ischemia” è in realtà un fenomeno postischemico, cioè si
manifesta al cessare dell’ischemia. Conserveremo in questo libro la nomenclatura consacrata dall’uso
(ischemia, lesione, necrosi) pur nella coscienza della sua inesattezza.

La lesione
Nella cardiopatia ischemica, il tratto ST può essere sopraslivellato (lesione subepicardica) o sottoslivellato
(lesione subendocardica); in realtà nessuna di queste due alterazioni è specifica dell’ischemia miocardica,
poiché si può riscontrare (specialmente il sottoslivellamento di ST) in molte altre condizioni indipendenti
dall’ischemia. Le modificazioni ischemiche del tratto ST, tuttavia, specialmente il sopraslivellamento,
possiedono ancora oggi un ruolo diagnostico cruciale in molte situazioni cliniche, nonostante siano
disponibili metodiche strumentali ben più sofisticate e costose.
La lesione subepicardica si riscontra prevalentemente nell’infarto miocardico acuto e nell’angina di

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35 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Prinzmetal (vediECG 20, ECG 21, ECG 22). Il sopraslivellamento di ST può essere a concavità superiore o a
convessità superiore (Figura 17). Solitamente è a concavità superiore nelle fasi inizialissime dell’infarto,
quando non si sono ancora verificate alterazioni significative del QRS, e allora il complesso ventricolare
somiglia a un potenziale d’azione monofasico (Figura 17a), mentre assume convessità superiore in una fase
successiva, se pure acuta, dell’infarto, quando cioè si delineano le onde q e la T inizia a divenire negativa
(Figura 17b).

Figura 17 Lesione subepicardica nella fase inizialissima dell’infarto miocardico acuto (a) e dopo alcune ore
o giorni (b). Il sopraslivellamento di ST è a concavità superiore in a e a convessità superiore in b, dove si
osserva anche l’onda q e l’onda T negativa.

Un carattere importante della lesione subepicardica è la sua evolutività: nell’infarto essa si manifesta
soprattutto durante la fase iniziale e persiste solo per ore o giorni. Cessata la fase acuta, l’ST ritorna
gradualmente verso l’isoelettrica, la T si negativizza e compare in genere un’onda q patologica nelle
derivazioni interessate (Figura 18).

Figura 18 I diversi stadi evolutivi dell’infarto miocardico.

La lesione subendocardica (il sottoslivellamento “ischemico” del tratto ST) è a volte difficilmente

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36 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

distinguibile dalle alterazioni secondarie osservabili in presenza di ipertrofia o blocco di branca, e ancora
più difficilmente separabile dalle anomalie di ST indotte da farmaci o da quelle alterazioni che vanno sotto il
nome di “alterazioni non specifiche della ripolarizzazione”. La situazione migliore per studiare la lesione
subendocardica è il test ergometrico, poiché in questa situazione si può paragonare l’ST in condizioni di
riposo con quello osservato durante lo sforzo. Quando il test è positivo, cioè indicativo di ischemia
miocardica, compare un sottoslivellamento di ST (Figura 19) che ha di solito un andamento dapprima
ascendente (schema b), poi rettilineo o piatto (c) e quindi discendente (d); quest’ultimo stadio si
accompagna a negativizzazione dell’onda T, o meglio a T bifasica negativo/positiva che può permanere
anche quando, con la cessazione dell’esercizio, il tratto ST si normalizza (e). In linea di massima, l’aspetto
morfologico più tipico della lesione subendocardica è il sottoslivellamento rettilineo del tratto ST (c);
tuttavia non vi sono indicatori che consentanodi discriminare con certezza, solo sulla base della morfologia, l
’alterazione ischemica da quella non ischemica di ST.

Figura 19 Comportamento del tratto ST e dell’onda T durante un test ergometrico positivo.

Un dato rilevante è offerto dall’evolutività del sottoslivellamento di ST: nel test ergometrico “positivo”
l’ECG diviene progressivamente anormale e poi torna alle condizioni basali entro breve tempo. Parimenti,
nell'angina pectoris, il sottoslivellamento di ST si riduce al migliorare della sintomatologia, mentre la
persistenza dell’alterazione per ore o giorni testimonia un infarto subendocardico. Elettrocardiogrammi
caratteristici di lesione subendocardica sono presentati nei casi ECG 18, ECG 19; in particolare l’ ECG
19b mostra la normalizzazione del tratto ST al risolversi dell’angina.

La necrosi
La necrosi è un’alterazione del QRS generalmente conseguente ad un infarto miocardico. Nella maggior
parte dei casi, la necrosi si esprime con la comparsa di onde q patologiche o con la scomparsa di onde r, per
cui si osservano in alcune derivazioni complessi QS. Si afferma comunemente che le onde q, per essere
indicative di necrosi, debbano avere una durata di almeno 0.04 secondi e un voltaggio non inferiore a ¼
della R successiva. Tuttavia, questo è un criterio non sempre utilizzabile: è a volte difficile distinguere
un’onda q “di necrosi” da un’onda q “normale”, anche perché l’estensione della zona necrotica è variabile,
e in alcuni casi è così piccola da non provocare un disordine elettrico tale da esprimersi con onde q di
ampiezza sufficiente. Elettrocardiogrammi dimostrativi di necrosi vengono presentati negli ECG 21, ECG
23, ECG 24.

L’Ischemia
In condizioni normali, l’onda T è positiva nelle derivazioni in cui il QRS è positivo, e viceversa. Nell’ischemia
subepicardica, invece, le onde T si presentano invertite rispetto a quanto atteso, cioè con una polarità

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37 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

opposta rispetto a quella del QRS, e hanno una morfologia simmetrica, con uguale pendenza delle due
branche, ed apice appuntito (Figura 20a). Questi ultimi caratteri della T ischemica la rendono differente
dalla T normale, dove la branca prossimale è più lenta di quella distale, e l’apice è arrotondato. Un’altra
configurazione caratteristica, anche se meno comune, della T ischemica è quella difasica positivo/negativa,
con componente terminale negativa appuntita (Figura 20b).

Figura 20 Diverse morfologie dell’onda T “ischemica”.

Nell’infarto miocardico, le onde T “ischemiche” non si manifestano nella fase iperacuta, ma solo dopo ore
o, a volte, giorni. Si può affermare che la T “ischemica” sia in realtà un fenomeno post-ischemico, che
compare cioè quando la fase acuta dell’ischemia si è conclusa. Il problema diagnostico, cioè la
corrispondenza o meno fra le onde T “ischemiche” e la cardiopatia ischemica, si pone quando il quadro ECG
dell’ischemia subepicardica compare in assenza di infarto miocardico o al di fuori di una situazione clinica
che deponga chiaramente per cardiopatia ischemica. In un paziente con pregresso infarto è possibile non di
rado osservare onde T ischemiche anche molti anni dopo l'episodio acuto (ECG 23, ECG 24) ma, in assenza
di dati che attestino l’esistenza di una cardiopatia ischemica, il quadro ECG definibile come ischemia
subepicardica non è di per sé dimostrativo di una vera ischemia, neanche quando è morfologicamente
tipico, cioè caratterizzato da onde T invertite simmetriche e appuntite.

LE ALTERAZIONI DELL’EQUILIBRIO ELETTROLITICO

Le disionie, in particolare le alterazioni riguardanti il potassio e il calcio, influenzano


l’ECG. L’iperkaliema (ECG 25,ECG 26) provoca aumentata durata (allargamento) del QRS e comparsa di
onde T alte e appuntite, mentrel’ipokaliema (ECG 27) induce sottoslivellamento di ST, appiattimento
dell’onda T, comparsa di onda U e allungamento del QT (vedi più avanti).
Anche l’ipocalcemia può essere responsabile di un allungamento del QT (ECG 28), ma in questa situazione
la T è pressoché normale mentre si allunga l’intervallo fra l’inizio del QRS e l’inizio della T.

L’INTERVALLO QT E I SUOI PROBLEMI

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38 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’intervallo QT esprime la durata globale dell’attività elettrica ventricolare, e comprende sia la fase di
depolarizzazione che quella di ripolarizzazione; la misurazione del QT, tuttavia, viene impiegata
esclusivamente per valutare la ripolarizzazione ventricolare. Ciò dipende dal fatto che mentre è semplice
determinare l’inizio e il termine della depolarizzazione, non è altrettanto immediato riconoscere l’inizio
della ripolarizzazione. Alcune cellule ventricolari, infatti, iniziano a ripolarizzarsi mentre altre si stanno
ancora depolarizzando, per cui è pressoché impossibile valutare la durata esatta del processo di recupero, e
si preferisce esprimere la durata totale della “sistole elettrica”, appunto l’intervallo QT, che va misurato
dall’inizio del complesso QRS alla fine dell’onda T.
Si tratta di un parametro molto importante, poiché numerose condizioni patologiche, e soprattutto l’effetto
di svariati farmaci, si manifestano con variazioni dell’intervallo QT, in genere con l’allungamento di esso, ed
eccezionalmente con l’accorciamento.
Il QT si modifica notevolmente con il variare della frequenza cardiaca, essendo più breve a frequenze alte e
più lungo per frequenze basse. Diviene perciò indispensabile correggere il QT per la frequenza cardiaca, ed
è quanto solitamente si fa con la formula di Bazett, in base alla quale il QT corretto (QTc) è uguale al
rapporto fra il QT e la radice quadrata dell’intervallo R-R (entrambe le misure vengono espresse in secondi).
Da questa formula si evince che il QTc è uguale al QT se la frequenza cardiaca è di 60 al minuto, poiché a
questa frequenza l’intervallo RR misura 1 secondo, e la radice quadrata di 1 è 1. Per frequenze maggiori di
60 il QTc è sempre maggiore del QT, mentre per frequenze minori di 60 il QTc è minore del QT.

Il QT lungo
L’allungamento del QT (QTc > 0.45 secondi negli uomini, > 0,46 secondi nei bambini di ambo i sessi, > 0.47
secondi nelle donne) può conseguire ad un’anomalia congenita, cioè ad una malattia dei canali ionici
dipendente da un’alterazione cromosomica (vedi Capitolo…), o essere di natura acquisita. Diversi geni sono
stati riconosciuti come responsabili della malattia, e differenti forme sono state identificate; le Figure ECG
33 ed ECG 34 riportano tracciati elettrocardiografici di pazienti con Sindrome da QT lungo congenito. Il QT
lungo acquisito riconosce una serie di cause; fra queste le disionie (Ipokaliemia, Ipocalcemia), numerosi
farmaci, particolarmente gli antiaritmici (Sotalolo, Amiodarone, Ibutilide, Chinidina, Disopiramide) diversi
antidepressivi e alcuni farmaci gastrointestinali; anche l’ischemia miocardica e il blocco A-V (ECG 35)
rientrano fra le possibili cause del QT lungo. L’allungamento del QT è temibile perché può provocare
aritmie gravi, particolarmente la tachicardia ventricolare a torsione di punte (vedi Capitolo…) e la
fibrillazione ventricolare.

Il QT corto
L’accorciamento dell’intervallo QT è molto più raro dell’allungamento. In linea di massima dipende, allo
stesso modo del QT lungo, da malfunzionamento su base genetica dei canali ionici, e può associarsi ad
aritmie gravi e a morte improvvisa (vedi Capitolo…). L’accorciamento acquisito del QT è di natura disionica
(ipercalcemia) o farmaco-indotta. L’ ECG 36 riporta un caso di Sindrome da QT corto.

LA PREECCITAZIONE

Si definisce con questo termine la condizione in cui una zona miocardica viene attivata prima di quanto
sarebbe avvenuto se l’impulso fosse stato condotto solo attraverso le normali vie di conduzione.
Responsabile della preeccitazione è sempre una via accessoria, cioè un fascio anomalo che connette, a
parte rare eccezioni, gli atri ai ventricoli; poiché la velocità di conduzione attraverso il fascio accessorio è
maggiore di quella attraverso la via normale (Nodo A-V, Fascio di His, etc.) la zona cui si distribuisce la via
anomala viene attivata in anticipo, cioè preeccitata. L’ECG di un paziente portatore di una via accessoria

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39 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(nella maggior parte dei casi definita come “Fascio di Kent”) può presentare i seguenti caratteri: 1) Onda
delta, rappresentata da un rallentamento iniziale del complesso QRS; 2) P-R corto; 3) QRS largo; 4)
Alterazioni secondarie della ripolarizzazione.
L’importanza della preeccitazione dipende dal fatto che la coesistenza di due vie di conduzione atrio-
ventricolare (quella nodo-hissiana e il fascio di Kent) rappresenta il presupposto per l’instaurarsi di un
circuito di rientro, che può dar luogo a una tachicardia parossistica da rientro atrio-ventricolare. La
condizione in cui la preeccitazione si associa a tachicardia parossistica da rientro viene definita “Sindrome
di Wolff-Parkinson-White” (vedi Capitolo…). Le Figure ECG 37 ed ECG 38 presentano casi di preeccitazione
ventricolare.

IL FENOMENO DI BRUGADA

Risale all’ultimo decennio del secolo scorso la descrizione di una nuova Sindrome, caratterizzata da morte
improvvisa per fibrillazione ventricolare e da un particolare quadro elettrocardiografico caratterizzato dalla
presenza, nelle derivazioni precordiali destre, di un’onda terminale positiva definita come “onda J”,
associata a un tratto ST sopraslivellato. L’onda J somiglia in qualche modo all’onda R’ del blocco di branca
destra, e per questo motivo era stato in un primo tempo ritenuto che il blocco di branca destra facesse
parte del quadro ECG associato alla “Sindrome di Brugada”.
Dopo la descrizione iniziale, sono stati riconosciuti numerosi soggetti nei quali era evidente il “Fenomeno di
Brugada” cioè il quadro elettrocardiografico caratteristico. E’ ancora oggetto di discussione l’iter
diagnostico per identificare, nella coorte di coloro che presentano all’ECG il Fenomeno di Brugada, quelli
che sono a rischio di morte improvvisa. Le Figure ECG 39 ed ECG 40 presentano esempi tipici del Fenomeno
di Brugada. Si ritiene che alla base del Fenomeno sia una malattia dei canali ionici, precisamente un
malfunzionamento del canale del sodio; è stata anche riscontrata nel 20% dei soggetti affetti un’alterazione
del gene SCN5A, ma le conoscenze sulla genetica della Sindrome di Brugada non sono ancora
sufficientemente progredite da permettere un inquadramento clinico affidabile.

L’IPOTERMIA

In soggetti che siano andati accidentalmente incontro a ipotermia, si riscontra un quadro ECG caratteristico.
Con l’abbassarsi della temperatura corporea compaiono diverse alterazioni elettrocardiografiche
(bradicardia sinusale, blocco A-V di I o di II grado, anomalie di ST-T, allungamento del QT, aumento della
durata del QRS) ma soprattutto l’onda J, detta anche onda di Osborn, che è il segno patognomonico
dell’ipotermia. Si tratta di una piccola deflessione positiva e relativamente larga che segue l’onda R ed è in
diretta continuità con questa, intervenendo fra il QRS e il tratto ST. L’onda J dell’ipotermia è simile a quella
osservabile nel fenomeno di Brugada, ma in quest’ultima condizione l’onda J si osserva solo in V1-V2 o al
massimo in V3, mentre nell’ipotermia essa è presente in numerose derivazioni. Un caso tipico di ipotermia
è presentato nell’ ECG 41.

LA PERICARDITE

Per quanto il pericardio non sia sede di attività elettrica, e quindi non contribuisca direttamente alla genesi
dell’elettrocardiogramma, la pericardite può provocare alterazioni dell’ECG perché l’infiammazione
dell’epicardio si accompagna quasi inevitabilmente ad interessamento flogistico degli strati miocardici
subepicardici, ed anche perché la presenza del versamento pericardico o dell’ispessimento fibro-calcifico
dei foglietti sierosi altera la trasmissione delle forze elettriche cardiache. Nella pericardite acuta l’ECG
mostra spesso un sopraslivellamento di ST a concavità superiore nelle derivazioni con QRS

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40 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

prevalentemente positivo, onde T relativamente alte e appuntite, e non di rado un tratto P-R
sottoslivellato. Successivamente il punto J ritorna all’isoelettrica, scompare il sottoslivellamento del P-R, la
T si riduce di voltaggio e quindi si negativizza, per normalizzarsi poi tardivamente. Esempi di
elettrocardiogrammi suggestivi di pericardite acuta si osservano nelle Figure ECG 42 ed ECG 43.
Quando la pericardite si accompagna ad abbondante versamento pericardico, può comparire la riduzione
del voltaggio di tutte le onde dell’ECG (il liquido pericardico è un cattivo conduttore di elettricità) e
l’alternanza elettrica, caratterizzata da un alternarsi di onde più ampie e meno ampie (ECG 44).

LE CARDIOMIOPATIE

Cardiomiopatia Ipertrofica
L’ECG è normale solo nel 7-15% dei pazienti affetti, mentre negli altri si può osservare: aumento del
voltaggio di QRS (ipertrofia ventricolare sinistra), alterazioni di ST-T, onde q anormali (apparente necrosi),
alterazioni della conduzione intraventricolare, ingrandimento atriale. Elettrocardiogrammi con quadri
caratteristici di cardiomiopatia ipertrofica vengono presentati nelle Figure ECG 45 ed ECG 46.

Cardiomiopatia dilatativa
In questa forma è molto comune il blocco di branca sinistra, ed è anche possibile osservare ipertrofia
ventricolare sinistra ed ingrandimento atriale sinistro.

Cardiomiopatia restrittiva
Il quadro più comune è rappresentato da ingrandimento atriale (spesso biatriale). I complessi QRS hanno a
volte basso voltaggio, sono presenti alterazioni di ST-T e spesso aspetti di apparente necrosi
(pseudonecrosi). Un caso tipico di questa malattia viene presentato nell’ ECG 47.

Cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro


A parte le aritmie, che sono quasi la regola in questa malattia, è possibile osservare all’ECG anomalie
dell’onda P, blocco di branca destra, onde T negative nelle derivazioni precordiali destre (o anche in tutte le
precordiali), ed a volte onde epsilon, espressione di attivazione ritardata di alcune zone del ventricolo
destro (ECG 48).

L’ENFISEMA E IL CUORE POLMONARE CRONICO

Enfisema
L’aumento del contenuto aereo polmonare, caratteristico dell’enfisema, influenza l’ECG soprattutto
perché, essendo l’aria un cattivo conduttore di elettricità, si realizza una difficoltà nella trasmissione dei
potenziali elettrici cardiaci alla superficie del corpo, con conseguente riduzione dei voltaggi delle onde
elettrocardiografiche. L’ECG nel paziente enfisematoso presenta, perciò, complessi ventricolari di basso
voltaggio, specialmente nelle derivazioni periferiche. Per convenzione, si considera basso il voltaggio dei
ventricologrammi quando la somma di tutte le onde del QRS nelle tre derivazioni periferiche bipolari (I, II,
III) non supera 15 mm. Un tracciato elettrocardiografico tipico si osserva nell’ECG 49.

Cuore polmonare cronico


Nella maggior parte dei casi, il cuore polmonare cronico consegue ad una broncopneumopatia ostruttiva
enfisematica. In tale situazione l’ECG riflette sia i segni dell’enfisema che quelli del cuore polmonare,
rappresentati dall’ipertrofia ventricolare destra, associata quasi invariabilmente all’ingrandimento atriale

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41 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

destro. L’anomalia dovuta all’enfisema è fondamentalmente la riduzione dei voltaggi di tutte le onde
dell’ECG, mentre il sovraccarico pressorio che grava sul cuore destro si esprime con i segni dell’ipertrofia
ventricolare (deviazione di ÂQRS a destra, aumento del voltaggio di R in V1 con rapporto R/S >1) e con
quelli dell’ingrandimento atriale destro (onde P appuntite nelle derivazioni inferiori, con voltaggio
aumentato, onde P prevalentemente positive e aguzze in V1-V2). L’ ECG 03 è stato registrato in un soggetto
con cuore polmonare cronico.

L’EMBOLIA POLMONARE

Le embolie polmonari di entità modesta non si associano ad alterazioni emodinamiche di rilievo né, tanto
meno, a modificazioni dell’ECG. Solo un’embolia polmonare massiva può dare segno di sé, provocando un
inatteso sovraccarico del ventricolo destro (cuore polmonare acuto), che si riflette anche
sull’elettrocardiogramma. In questa condizione, l’ECG può mostrare: 1) blocco di branca destra, completo
o, più spesso, incompleto, a volte associato a sopraslivellamento di ST e/o T positiva in V1; 2) onde T
negative nelle derivazioni precordiali; 3) S1Q3T3, cioè onda S in I derivazione e onda q associata a T
negativa in III. L’ ECG 50A e l’ ECG 50B mostrano un caso di embolia polmonare.

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42 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 4
L’ECOCARDIOGRAMMA
Maria Penco, Eleonora De Luca, Simona Fratini, Sergio Severino, Pio Caso, Raffaele Calabrò

INTRODUZIONE

L’ecocardiografia è la metodica che permette di eseguire uno studio anatomico e funzionale del cuore
mediante gli ultrasuoni. I primi tentativi di utilizzare gli ultrasuoni in medicina iniziarono appena dopo la
seconda Guerra Mondiale e si concretizzarono nel 1953 con la segnalazione, da parte di Hertz ed Hedler,
della possibilità di visualizzare strutture cardiache in movimento, in particolare la valvola mitrale. Da allora,
i notevoli sviluppi della tecnica, hanno fatto sì che l’ecocardiografia diventasse una metodica diagnostica di
grande rilievo per lo studio morfologico e funzionale dell’apparato cardiovascolare.
L’ecocardiografia è la metodica diagnostica che, insieme all’elettrocardiografia, è presente nella stragrande
maggioranza, se non nella totalità, dei percorsi clinici di un paziente cardiopatico o a rischio di cardiopatie.
Poche metodologie hanno subito un’applicazione così vasta ed una diffusione così capillare nella pratica
clinica come la diagnostica con ultrasuoni in generale, e come l’ecocardiografia in ambito cardiologico, in
particolare. Ciò è dovuto, da una parte, alla semplicità e sicurezza della metodica e dall’altra alla ricchezza
ed immediatezza dei risultati ottenibili. I continui progressi tecnologici, con il miglioramento della qualità
delle immagini e la disponibilità di apparecchi portatili, amplieranno ulteriormente lo spettro di
applicazione, e quindi di richiesta, della metodica.
Per una sua applicazione ottimale e per una corretta interpretazione dei dati ottenuti, servono una tecnica
adeguata e solide basi culturali, considerando che uno dei principali limiti dell’Ecocardiografia è il fatto di
essere operatore-dipendente. In ogni caso, il risultato dell’esame ecocardiografico va interpretato alla luce
dei dati anamnestici e del contesto clinico.
Le principali informazioni che si possono ottenere dall’esame ecocardiografico sono:

 Studio dell’anatomia cardiaca in fisiologia ed in patologia (dimensioni, spessori, cavità, valvole,


pericardio, aorta, arteria polmonare e suoi rami principali).
 Studio della funzione degli apparati valvolari e della funzione sistolica e diastolica dei ventricoli
 Studio della funzione contrattile globale e segmentaria delle pareti ventricolari

PRINCÍPI DELL’ECOCARDIOGRAFIA

Il suono è una forma di energia che attraversa la materia comprimendo e rarefacendo alternativamente le
molecole. E’ rappresentato graficamente da una sinusoide la cui dimensione orizzontale è il tempo, quella
verticale l’intensità o ampiezza. Si caratterizza per la lunghezza d’onda (che rappresenta la distanza tra due
fasi consecutive del ciclo) e per la frequenza (che esprime il numero di compressioni ed espansioni che
subiscono le particelle nell’unità di tempo). La frequenza del
suono è espressa in cicli al secondo o Hertz (Hz) (Figura 1).
L’orecchio umano percepisce suoni tra i 16 e 20.000 Hz; oltre
quel limite si parla di ultrasuoni. Le frequenze attualmente
utilizzate in cardiologia variano da 1 milione ad oltre 10
milioni di Hertz (MHz), tali da permettere l’attraversamento
dei tessuti con una velocità costante di 1540 m/sec. La
velocità del suono è il prodotto della frequenza per la

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43 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

lunghezza d’onda. Esiste dunque tra queste due componenti un rapporto inverso: all’aumentare di una
diminuisce l’altra.

CARATTERISTICHE FISICHE DEGLI ULTRASUONI

Gli ultrasuoni possono essere utilizzati nell’imaging diagnostico poiché, come la luce, sono orientabili e,
attraversando i tessuti, subiscono alcune modificazioni: attenuazione, riflessione e rifrazione

 Attenuazione: è un fenomeno di riduzione di intensità del raggio ultrasonoro e dipende


dall’assorbimento, dalla riflessione e dalla dispersione da parte del tessuto esaminato. Aumenta
all’aumentare della frequenza.
 Riflessione: una parte del raggio ultrasonoro viene riflesso a livello dell’interfaccia tissutale. L’onda
sonora che torna indietro, avvicinandosi alla sorgente, costituisce un’eco e viene utilizzata per
visualizzare l’immagine ultrasonora.
 Rifrazione: è la deviazione subita dall’onda quando passa da un mezzo ad un altro, cambiando
velocità di propagazione.

L’impedenza acustica (Z) è il prodotto della densità del mezzo che gli ultrasuoni attraversano (P) per la
velocità (C) dell’ultrasuono, e definisce le caratteristiche acustiche del mezzo stesso. I tessuti molli sono più
densi ed hanno maggiore impedenza acustica, perché la velocità di propagazione resta invariata. La
superficie di separazione tra due mezzi ad impedenza acustica diversa viene chiamata interfaccia acustica.
Ad ogni interfaccia acustica, una parte degli ultrasuoni viene riflessa e una parte viene rifratta nel mezzo
adiacente (Figura 2); l’intensità della componente riflessa dipende dalla differenza di impedenza acustica
dei mezzi e dall’angolo di incidenza: essa è, cioè, tanto maggiore quanto più la direzione del fascio
ultrasonoro è perpendicolare alla superficie. Se la superficie di contatto non è piana ma irregolare, una
parte dell’energia non sarà riflessa ma diffratta, cioè dispersa in tutte le direzioni.

Figura 2 Riflessione e rifrazione degli ultrasuoni.

Il potere di risoluzione è la capacità di distinguere fra loro due strutture distinte poste una dopo l’altra o una
accanto all’altra lungo la direzione del fascio ultrasonoro. E’ direttamente proporzionale alla frequenza
dell’ultrasuono.

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44 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il potere di penetrazione del raggio ultrasonoro è, invece, inversamente proporzionale alla frequenza.
Perciò sonde che lavorano con ultrasuoni ad alte frequenze hanno un elevato potere di risoluzione ma una
bassa capacità di penetrazione nei tessuti.
La diagnostica ecocardiografica utilizza trasduttori che lavorano con frequenze di almeno 2MHz.
La qualità delle immagini ottenute migliora con la modalità “harmonic imaging” (seconda armonica),
caratterizzata dal fatto che la sonda invia ultrasuoni ad una certa frequenza e li riceve ad una frequenza
doppia. Ciò consente una migliore qualità delle immagini.

IL TRASDUTTORE
Gli ultrasuoni vengono prodotti da un trasduttore. Esso è costituito da elettrodi e da un cristallo
piezoelettrico la cui struttura ionica, sfruttando le capacità di alcuni materiali (come il quarzo o la
ceramica), si deforma se esposta al passaggio di corrente elettrica generando onde sonore. Lo stesso
cristallo piezoelettrico poi, per effetto dell’energia meccanica generata da onde sonore riflesse, subisce una
deformazione che genera un segnale elettrico rilevato da elettrodi. Ciò significa che il trasduttore riceve e
invia contemporaneamente segnali ultrasonori (Figura 3).

Figura 3 Schema di un trasduttore.

SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE ECOCARDIOGRAFICA

La ricostruzione dell’immagine ecocardiografica si basa sul calcolo della distanza tra una data struttura
anatomica ed il trasduttore. Il trasduttore emette un fascio ultrasonoro che si dirige verso il cuore e
procede in linea retta fino a quando non raggiunge un’interfaccia tra strutture con diversa impedenza
acustica. A questo punto parte dell’energia viene riflessa, parte viene dispersa, e la parte restante continua
il proprio percorso rifratta. Il sangue non genera echi riflessi.
L’energia riflessa che torna verso il trasduttore costituisce il fondamento dell’immagine ecocardiografica.
Poiché la velocità di propagazione degli ultrasuoni nei tessuti molli è costante nel tempo (circa 1540 m/s), il
traduttore è in grado di calcolare la distanza tra esso e la struttura esaminata valutando l’intervallo

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45 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

temporale tra l’invio degli ultrasuoni e la ricezione dell’eco riflesso.

Figura 4

Sul monitor, alla distanza corrispondente, viene visualizzato il punto appena esaminato. I moderni
ecocardiografi (Figura 4) consentono di eseguire tutte le tecniche ecocardiografiche, da quelle tradizionali a
quelle più moderne, e sono dotati di diverse sonde, adatte alle varie metodiche (Figura 5).

Figura 5 Sonde per ecocardiografia: A sinistra, sonda transesofagea. A destra, sonde transtoraciche.

I sistemi di rappresentazione dell’immagine con l’ecocardiografia transtoracica attualmente in uso sono:

 Sistema Mono-dimensionale (M-Mode)


 Sistema Bidimensionale

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46 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 ECOCARDIOGRAFIA MONODIMENSIONALE

Il sistema monodimensionale permette di visualizzare le modificazioni dell’impulso ultrasonoro nel tempo


(asse orizzontale) e la profondità della struttura che riflette gli ultrasuoni (asse verticale). Ad ogni
interfaccia strutturale, gli ultrasuoni vengono riflessi e visualizzati alla distanza corretta sotto forma di punti
la cui intensità varia al variare della composizione del tessuto esaminato. Poiché queste strutture sono in
movimento, il trasduttore ricostruisce il movimento della struttura nel tempo. Il sistema M-Mode è dotato
di un elevato potere di risoluzione temporale, e risulta molto utile per studiare il movimento delle valvole e
per ottenere misure di cavità e spessori.

In corrispondenza della valvola mitrale, la struttura cardiaca più vicina al trasduttore è la parete libera del
ventricolo destro; seguono poi la cavità ventricolare destra (VD), il setto interventricolare (SIV), la cavità
ventricolare sinistra e la parete posteriore del ventricolo sinistro (Figura 6).

Figura 6 Ecocardiogramma M-mode che mostra il ventricolo destro, il setto interventricolare, il ventricolo
sinistro e la parete posteriore del ventricolo sinistro.

In questa proiezione è possibile valutare le dimensioni del ventricolo sinistro ed anche lo spessore del setto
(ECO 34) e della parete posteriore

Orientando il fascio ultrasonoro verso la valvola mitrale si valuta l’escursione dei lembi valvolari, l’anteriore
in corrispondenza del setto interventricolare, e il posteriore in corrispondenza della parete posteriore del

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47 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ventricolo sinistro (Figura 7) .

Figura 7 Immagine ecocardiografica monodimensionale della valvola mitrale.

Il movimento del lembo anteriore mitralico presenta una morfologia a M con un massimo nel punto E
(l’apertura protodiastolica della valvola). La distanza dal punto E al setto interventricolare non deve
superare, nel soggetto normale, i 3 mm. La mobilità della valvola è rispecchiata dalla rapidità del
movimento di chiusura nella proto-mesodiastole fino al punto F (pendenza EF). In fase telediastolica i lembi
si riaprono, in corrispondenza della contrazione atriale (punto A). La valvola, quindi, si chiude e i lembi
coaptano (punto C).
Il movimento del lembo posteriore mitralico ha una forma a W, speculare rispetto al lembo anteriore.
Lo studio della valvola mitrale è stata una delle prime applicazioni diagnostiche dell’ecocardiografia. Tra le
principali anomalie ecocardiografiche descritte sono l’aumento dello spessore, della densità e del numero
di echi riflessi in conseguenza dell’ispessimento fibroso e/o calcifico dell’apparato valvolare; e inoltre la
scomparsa del caratteristico movimento di apertura a M e W dei lembi, sostituito da un plateau più o meno
rettilineo e parallelo ai due lembi (ECO 01).

Orientando il fascio ultrasonoro in senso supero-mediale si visualizza l’atrio sinistro, la valvola aortica, con
la cuspide coronarica destra e la non coronarica, la radice dell’aorta ed il tratto prossimale dell’aorta

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48 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ascendente (Figura 8).

Figura 8 Immagine ecocardiografica monodimensionale che raffigura la radice aortica, la valvola aortica e
l’atrio sinistro.

Le dimensioni dell’atrio sinistro si misurano in telesistole, quelle della radice aortica in telediastole. Il
movimento sistolico di apertura delle cuspidi aortiche si visualizza come un parallelogramma i cui lati
superiore e inferiore corrispondono rispettivamente al movimento della cuspide coronarica destra e di
quella non coronarica. In caso di stenosi aortica, si nota un ispessimento dei lembi con aumento
dell’intensità e del numero degli echi e una riduzione dell’apertura sistolica delle cuspidi (ECO 15).

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49 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La Tabella I riporta i valori normali dei parametri ecocardiografici M-mode in soggetti adulti.

ECOCARDIOGRAFIA BIDIMENSIONALE

Il sistema bidimensionale permette di visualizzare l’immagine corrispondente ad una sezione delle cavità
cardiache sfruttando la capacità dei trasduttori di ricevere e trasmettere più linee di scansione in modo
indipendente.
Gran parte delle sonde attualmente in uso è costituita da una serie di cristalli (da 32 a 128), ciascuno dei
quali è in grado di ricevere e di trasmettere, allineati in una singola fila, sono attivati secondo una precisa
sequenza temporale in modo da provocare la fusione delle onde generate dai singoli elementi e ottenere
un unico fascio la cui direzione dipende dalla sequenza di attivazione dei singoli cristalli. L’immagine
ottenuta viene convertita in formato digitale: ad ogni punto, in base alla sua intensità, viene assegnato un
valore numerico che corrisponde a livelli di grigio per altrettanti elementi di visualizzazione (pixel) allineati
lungo assi cartesiani x ed y.
L’esame ecocardiografico si realizza con 4 posizioni standard del trasduttore: parasternale, apicale,
subxifoidea e soprasternale. Le prime due si realizzano con il paziente in decubito laterale sinistro, le altre
con il paziente supino.

SEZIONE ASSE LUNGO


In genere l’esame inizia dalla proiezione parasternale asse lungo: si posiziona il trasduttore a livello del
terzo-quarto spazio intercostale sulla linea margino-sternale di sinistra con la scanalatura di repere rivolta
verso la spalla destra del paziente in modo tale che il piano di scansione sia parallelo ad una linea di
congiunzione tra la spalla destra con il fianco sinistro. L’immagine è orientata in modo tale che l’aorta sia
disposta a destra e l’apice cardiaco a sinistra, ed è ottimale quando si visualizza contemporaneamente

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50 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

l’apertura della valvola mitrale e della valvola aortica (Figura 9,Figura 10, Figura 11, Figura 12).

Figura 9 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo.

Figura 10 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse lungo e schema anatomico corrispondente.

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51 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Questa proiezione consente uno studio accurato dell’anatomia e del movimento delle valvole del cuore
sinistro, di cui è facile rilevare l’ispessimento e la calcificazione in caso di stenosi mitralica o aortica (ECO
13).
Mantenendo il trasduttore nello stesso spazio ed imprimendogli una inclinazione inferomediale e una
leggera rotazione in senso orario si ottiene una sezione asse lungo del ventricolo e dell’atrio destro (Figura

13, Figura 14)

Figura 13 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse lungo dell’atrio e del
ventricolo destro.

Figura 14 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse lungo dell’atrio e del ventricolo destro.

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52 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

SEZIONE ASSE CORTO


Ruotando la testa del trasduttore in senso orario per 90 gradi, in modo tale che il piano di scansione sia
ortogonale a quello dell’asse lungo parasternale, si ottiene la proiezione parasternale asse corto a livello dei
grossi vasi. In questa posizione la scanalatura di repere è orientata verso la fossa sopraclaveare destra e il
piano di scansione è parallelo ad una linea che congiunge la spalla sinistra con il fianco destro del paziente

(Figura 15, Figura 16)

Figura 15 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione asse corto.

Da questa posizione si visualizza la valvola aortica al centro con le sue tre cuspidi, l’atrio sinistro e quello
destro separati dal setto interatriale, la valvola tricuspide, il tratto di efflusso del ventricolo destro, la

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53 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

valvola polmonare, il tronco dell’arteria polmonare con i suoi due rami, destro e sinistro (Figura 17, Figura

18).

Figura 17 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse corto e schema anatomico corrispondente

Questa proiezione è utile per studiare la valvola aortica, in particolare per determinare se questa ha, come
di norma, 3 cuspidi, oppure è bicuspide (ECO 20) o quadricuspide (ECO 21).
Alzando la coda del trasduttore, è possibile visualizzare la sezione asse corto a livello della valvola mitrale.
Sono ben evidenti i lembi valvolari con il classico aspetto “a bocca di pesce” in diastole e le rispettive
commissure. Da questa posizione è possibile calcolare l’area planimetrica della mitrale in caso di stenosi

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54 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(Figura 19, Figura 20, Figura 21,Figura 22, ECO 05).

Figura 19 Ecocardiogramma bidimensionale in asse corto a livello della valvola mitrale.

Un ulteriore movimento verso l’alto della coda della sonda, e si visualizzano i due muscoli papillari del
ventricolo sinistro (Figura 20, Figura 22), e quindi l’apice del ventricolo.

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55 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 20 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione asse corto a livello dei muscoli papillari e
schema anatomico corrispondente.

SEZIONE APICALE
Il trasduttore viene posto in corrispondenza dell’itto della punta, con la scanalatura di repere orientata
verso il fianco sinistro del paziente. Il fascio ultrasonoro è diretto superiormente e medialmente verso la
scapola destra del paziente.
Da questa posizione si visualizzano le quattro camere cardiache (proiezione apicale quattro camere). Alla
destra dello schermo si visualizzano le sezioni sinistre, e alla sinistra quelle destre. Il ventricolo destro, di
forma triangolare, si riconosce per l’impianto più alto della tricuspide, per la presenza della banda
moderatrice all’apice e per il muscolo papillare.
Gli atri, separati dal setto interatriale, sono visualizzati in basso; i ventricoli, separati dal setto
interventricolare, in alto (Figura 23, Figura 24, Figura 25).

Figura 23 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 4 camere apicale.

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56 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 24 Schema anatomico della proiezione 4 camere apicale.

Da questa posizione riusciamo a visualizzare il SIV posteriore.


Inclinando la coda del trasduttore verso il basso visualizziamo la valvola aortica, il tratto di efflusso del
ventricolo sinistro e il setto interventricolare anteriore (proiezione apicale cinque camere (Figura 26).

Ruotando la testa del trasduttore di 90 gradi circa si ottiene la sezione due camere apicale da cui è possibile

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57 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

studiare la parete inferiore e quella anteriore del ventricolo sinistro e a volte visualizzare l’auricola sinistra

(Figura 27, Figura 28, Figura 29).

Figura 27 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 2 camere apicale.

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58 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 28 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione 2 camere apicale e schema anatomico


corrispondente.

Con un’ulteriore minima rotazione del trasduttore si ottiene la sezione tre camere apicale in cui si visualizza
la parete postero-laterale del ventricolo sinistro, il setto interventricolare anteriore, la valvola aortica
(Figura30).
L’ecocardiografia bidimensionale dalle sezioni apicali permette di valutare la funzione sistolica globale del
ventricolo sinistro attraverso la misurazione della Frazione di Eiezione (FE) espressa dalla formula:

FE(%) = Volume telediastolico –Volume Telesistolico/Volume telediastolico x 100

Sono diverse le metodiche correntemente utilizzate per la stima della FE; il più utilizzato è il metodo di
Simpson in base al quale, dopo che l’operatore ha accuratamente delineato il bordo endocardico del
ventricolo sinistro , la macchina suddivide automaticamente il ventricolo stesso in un numero noto di
cilindri di uguale altezza. Il volume di ogni cilindro è calcolato automaticamente e poi sommato a quello
degli altri per ottenere il volume totale che corrisponde al volume totale del ventricolo. Tale stima viene
effettuata in sistole ed in diastole in sezione apicale 4 e 2 camere, permettendo di ottenere il valore della

FE (Figura31).

Figura 31 Schema del metodo di Simpson per il calcolo della frazione d’eiezione.

Dalle sezioni apicali è possibile, inoltre, valutare la cinetica segmentaria del ventricolo sinistro e, in caso di
cardiopatia ischemica, ricercare e documentare alterazioni morfofunzionali causate dall’ischemia, definire
la sede e l’estensione del danno ischemico, valutare la funzione cardiaca regionale e globale.
L’analisi segmentaria della cinetica ha lo scopo di quantificare l’estensione del danno ischemico e di
identificare la coronaria interessata in base al territorio in cui si verifica l’anomalo movimento della parete.
Esempi di alterazioni della cinetica ventricolare dovuti a un infarto miocardico vengono presentati nelle
immagini ECO 26, ECO 27, ECO 28, ECO 29.
L’American Society of Echocardiography ha proposto un modello a sedici segmenti, nel quale il ventricolo
sinistro è diviso in 3 regioni in senso longitudinale (basale: dall’anello mitralico all’estremità dei papillari;
media: dall’estremità alla base dei papillari; apicale: distalmente all’inserzione dei muscoli papillari). Le
regioni basali e medie sono ulteriormente suddivise in 6 segmenti: anteriore, laterale, posteriore, inferiore,

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59 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

setto inferiore e setto anteriore. L’apice è diviso in 4 segmenti (anteriore, laterale, inferiore e settale). Per
una valutazione semiquantitativa l’analisi della cinetica segmentaria può essere integrata attribuendo un
punteggio da 1 a 4: 1 = normale o ipercinesia, 2 = ipocinesia, 3 = acinesia, 4 = discinesia. Sommando i singoli
punteggi e dividendo per il numero di segmenti analizzati, si ottiene un indice di cinesi globale definito
“Wall Motion Score Index” (WMSI) o un punteggio indicizzato della cinetica parietale che combina la stima
della gravità del danno con quella della sua estensione spaziale (Figura32, Figura33).

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60 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 33 Rappresentazione schematica della relazione fra arterie coronarie e segmenti del ventricolo
sinistro.

SEZIONE SOTTOCOSTALE O SUBXIFOIDEA


E’ particolarmente utile nei pazienti con elevata impedenza acustica del torace, come obesi e
broncopneumopatici. Si ottiene con il paziente in decubito supino posizionando il trasduttore
immediatamente al di sotto della linea sottocostale con la scanalatura di repere orientata verso il fianco

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61 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

sinistro del paziente e la testa del trasduttore inclinata lievemente in basso (Figura34).

Figura 34 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione 4

A volte, per ottenere un’immagine ottimale del cuore, è necessario invitare il paziente a fare un respiro
profondo e a trattenere l’aria.
Da questa posizione si ottiene un’immagine simile a quella apicale, con le sezioni destre al di sotto del
fegato, gli atri in basso e i ventricoli in alto ma, poiché il fascio ultrasonoro è maggiormente perpendicolare

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62 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

al setto interventricolare ed interatriale, tale approccio è particolarmente utile per lo studio di queste

strutture (Figura35).

Figura 35 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione 4 camere sottocostale e schema anatomico


corrispondente.

Ruotando il trasduttore in senso orario e inclinandolo verso l’alto si visualizza l’aorta e i rapporti di essa con
la mitrale ed il ventricolo sinistro. Un’ulteriore rotazione in senso orario ed inclinazione verso l’alto, e si
ottiene una sezione in asse corto simile a quella ottenibile in parasternale asse corto; angolando
opportunamente la sonda si visualizzano il tratto di efflusso del ventricolo destro, l’arteria polmonare, la
vena cava inferiore e le vene sovraepatiche. Da questo approccio può essere, inoltre, studiata l’aorta
addominale.

SEZIONE SOPRASTERNALE
Si ottiene ponendo il trasduttore nella fossetta soprasternale con la scanalatura di repere rivolta verso la

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63 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

testa del paziente o verso la regione sovraclaveare destra (Figura36).

Figura 36 Schema raffigurante il piano che taglia il cuore nella proiezione soprasternale.

Si possono studiare : l’aorta ascendente, l’arco, l’origine dei tronchi brachiocefalici, l’aorta toracica
discendente (Figura37) ed il ramo destro dell’arteria polmonare visualizzato in asse corto al di sotto dell’

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arco; ancora più in basso c’è l’atrio sinistro.

Figura 37 Ecocardiogramma bidimensionale in proiezione soprasternale.

Ruotando il trasduttore in senso orario si visualizza l’aorta in asse corto, il ramo destro della polmonare
immediatamente sotto, nel suo asse lungo, e ancora più in basso l’atrio sinistro con le vene polmonari

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(Figura38,Figura39).

Figura 38 Schema delle strutture visualizzabili dalla proiezione soprasternale.

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66 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 39 Proiezione soprasternale. E’ visualizzabile l’aorta in asse corto (A), il ramo destro dell’arteria
polmonare (APD) nel suo asse lungo e l’atrio sinistro. Le frecce indicano le vene polmonari.

Con una ulteriore rotazione in senso orario può essere visualizzata la vene cava superiore a destra dell’
aorta.

In sintesi, l’Ecocardiografia bidimensionale consente un approccio approfondito all’anatomia e alla funzione


del cuore, permettendo non solo di valutare lo spessore delle pareti cardiache e la loro cinetica, le
dimensioni delle cavità, la struttura e il movimento delle valvole, ma anche di riconoscere masse
intracardiache (trombi, vegetazioni, tumori), che non di rado sarebbero decorse sconosciute senza
l’indagine ultrasonica (ECO 39, ECO 41, ECO 42, ECO 43, ECO 45), come pure di rilevare un versamento
pericardico (ECO 46, ECO 47). Nel campo delle Cardiopatie congenite, infine, l’Ecocardiografia
bidimensionale, insieme all’Ecocardiografia Doppler, ha segnato un tale progresso nella diagnostica da
mettere spesso in secondo piano il Cateterismo cardiaco e l’Angiocardiografia, che avevano rappresentato
per decenni il “gold standard” nello studio di queste malattie.

ECOCARDIOGRAFIA DOPPLER

Le misurazioni Doppler della velocità dei flussi ematici nel cuore e nei grossi vasi si basano sull’effetto
Doppler, descritto dal fisico austriaco Christian Doppler nel 1942. Il principio Doppler afferma che quando
un segnale sonoro (o luminoso) colpisce un oggetto in movimento, la frequenza del segnale si modifica in
modo proporzionale alla velocità e alla direzione dell’oggetto in movimento.
Quindi, quando un fascio ultrasonoro a frequenza nota viene inviato verso il cuore o i grossi vasi, è riflesso
dai globuli rossi. La frequenza degli ultrasuoni riflessi aumenta all’avvicinarsi dei globuli rossi alla sorgente
sonora e viceversa si riduce quando le emazie si allontanano. Il cambiamento di frequenza tra suono
emesso e suono riflesso dipende dalla frequenza degli ultrasuoni emessi, dalla velocità del bersaglio e
dall’angolo tra direzione del fascio e direzione del movimento delle emazie.
Se il fascio ultrasonoro è parallelo alla direzione del flusso ematico si ottiene la massima velocità; se il fascio
ultrasonoro è perpendicolare alla direzione del flusso, non si misura alcuna velocità. La visualizzazione dello
spettro Doppler è ottenuta attraverso un analizzatore di velocità (Fast Fourier Trasform) con
rappresentazione delle velocità dei flussi ematici sull’asse delle Y e del tempo sull’asse delle X. Tutti i flussi

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in avvicinamento al trasduttore vengono visualizzati in alto, quelli in allontanamento in basso

(Figura40).

Figura 40

Lo studio dei flussi può essere effettuato mediante tre sistemi:


-Doppler ad onda pulsata
-Doppler ad onda continua
-Color Doppler

DOPPLER AD ONDA PULSATA


Lo stesso cristallo piezoelettrico invia e riceve impulsi (Figura41).

Figura 41

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68 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’invio di un nuovo impulso è possibile solo dopo l’analisi di quello precedentemente inviato. La frequenza
di emissione degli ultrasuoni è definita PRF (pulse repetition frequency). La massima variazione di
frequenza (e dunque la massima velocità) determinabile con il Doppler ad onda pulsata è la metà del PRF
ed è chiamata limite di Nyquist. L’esaminatore ha la possibilità di definire il punto esatto dell’analisi
Doppler. Tale punto viene chiamato volume campione. La PRF varia inversamente al volume campione: più
il volume campione è vicino al trasduttore, più elevate saranno la PRF ed il limite di Nyquist; in altri termini
sarà possibile registrare velocità più alte.
Quando la velocità dell’onda riflessa è maggiore di quella inviata (quando, cioè, si supera il limite di
Nyquist) si ottiene un fenomeno noto come aliasing: lo spettro Doppler si interrompe, e una parte di esso
compare sul lato opposto della linea di base, cosicché sembra che il flusso sia contemporaneamente in
avvicinamento ed in allontanamento (Figura42). L’impossibilità di analizzare alte velocità rappresenta
dunque il principale limite del Doppler
pulsato.

Figura 42 Aliasing. Il flusso appare sia sopra (in avvicinamento) che sotto allontanamento la linea di base.

IL DOPPLER PIULSATO NELLO STUDIO DELLA FUNZIONE DIASTOLICA VENTRICOLARE SINISTRA


La valutazione dei diversi quadri velocimetrici del flusso transmitralico con il Doppler pulsato ha permesso
di comprendere che in diverse forme di cardiopatia si realizza, accanto alla disfunzione sistolica o anche in
assenza di questa, una disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Il pattern flussimetrico normale
(Figura43) è caratterizzato da un’onda E, espressione del riempimento rapido protodiastolico, e da un’onda
A che corrisponde al flusso transmitralico telediastolico legato alla sistole atriale. La velocità del flusso

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protodiastolico è maggiore di quella telediastolica, per cui il rapporto E/A è maggiore di 1.

Figura 43 Pattern flussimetrico transmitralico normale

Negli stadi precoci di disfunzione, l’alterato rilasciamento del ventricolo sinistro causa, in condizioni di
riposo, una riduzione del riempimento diastolico precoce a parità di pressioni di riempimento. Questo
effetto si traduce in un iniziale riduzione della velocità dell’onda E, in un prolungamento del tempo di
decelerazione dell’onda E ed in un incremento della percentuale di riempimento ventricolare dovuto alla
contrazione atriale; il rapporto E/A diviene, perciò, minore di 1 (Figura44).

Figura 44 Pattern flussimetrico transmitralico da anomalo rilasciamento (Disfunzione diastolica di 1°


grado). E’ evidente un rapporto E-A inferiore a 1, ed un tempo di decelerazione dell’onda E (DT) = 240
mm/sec

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70 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Con il progredire della disfunzione diastolica, la pressione atriale sinistra aumenta, aumentando a sua volta
il gradiente pressorio attraverso la valvola mitrale. A questa mutata situazione emodinamica si accompagna
un graduale incremento della velocità dell’onda E ed una ridotta durata dell’effettivo rilasciamento
ventricolare attivo: ne conseguono un accorciamento del tempo di decelerazione dell’onda E ed un
aumento del rapporto E/A. Negli stadi più avanzati della disfunzione, gli ulteriori incrementi delle pressioni
di riempimento, determinano più alti rapporti E/A e ad ancor più ridotti tempi di decelerazione dell’onda E

(Figura45).

Figura 45 Pattern flussimetrico transmitralico di tipo restrittivo (disfunzione diastolica di 3° grado) E’


evidente un rapporto E/A maggiore di 2 ed un tempo di decelerazione dell’onda E mitralica (DT) inferiore a
140 mm/sec.

DOPPLER A ONDA CONTINUA


Il trasduttore ha due cristalli: uno invia continuamente impulsi e l’altro li riceve sempre (Figura46).

Figura 46

Non esiste quindi il limite di Nyquist, e può essere misurata qualsiasi velocità. L’analisi viene effettuata
sull’intera linea del fascio ultrasonoro esplorante e non in un punto preciso come nel caso del Doppler
pulsato

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71 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

COLOR DOPPLER
Si basa sui principi del Doppler ad onda pulsata e misura le velocità in diversi punti per molteplici linee di
scansione su tutto il settore dell’immagine, al fine di creare una rappresentazione dinamica e spazialmente
corretta del sangue in movimento nel cuore e nei vasi. Usando speciali filtri, viene analizzata solo la velocità
del flusso ematico, che poi viene trasformata, mediante il confronto con linee adiacenti, (autocorrelazione)
in segnali colorati (Figura47).

Figura 47

I flussi in avvicinamento al trasduttore vengono codificati in rosso, quelli in allontanamento in blu


(Figura48, Figura49) e l’aliasing ha in genere un aspetto a mosaico di colore, caratterizzato dalla
commistione di pixel con colore e tonalità diverse in rapporto alla velocità e alla turbolenza del flusso (ECO
02, ECO 08). L’Ecocardiogramma Color Doppler è estremamente utile nell’identificare i rigurgiti valvolari
(ECO 06, ECO 08, ECO 18, ECO 24, ECO 35) o gli shunt intracardiaci (ECO 30, ECO 50), così come per
evidenziare il flusso turbolento attraverso valvole stenotiche (ECO 02,ECO 14)

IL CALCOLO DEI GRADIENTI


Una delle applicazioni più importanti dell’ecografia Doppler è rappresentata dal calcolo dei gradienti
pressori attraverso l’equazione di Bernoulli. Quest’ultima afferma che il gradiente di pressione attraverso
una stenosi è dovuto alla perdita di energia causata da tre fenomeni: accelerazione del flusso che
attraversa l’orifizio (accelerazione convettiva), intervento delle forze inerziali (accelerazione di flusso), e
resistenza al flusso all’interfaccia tra sangue ed orifizio (attrito viscoso). Pertanto il gradiente pressorio a

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livello di qualunque orifizio può essere calcolato come somma di queste tre variabili (Figura50).

Figura 50 Calcolo di un gradiente di pressione con l’Equazione di Bernoulli.

Nella maggior parte dei casi è possibile trascurare l’accelerazione di flusso e l’attrito viscoso, per cui il
gradiente pressorio può essere calcolato conoscendo la velocità del sangue prossimalmente all’orifizio
attraverso la formula:

gradiente = 4 x (velocità prossimale )2- (velocità di picco)2.

Se la velocità del sangue prossimalmente alla stenosi è ridotta (<1m/s) anche questa componente può
essere ignorata, per cui a formula diventa:

gradiente: 4 x velocità di picco2.

Tale metodo viene utilizzato per il calcolo dei gradienti in caso di stenosi mitralica, aortica (ECO 16, ECO 17)
o polmonare. Può essere applicato, se c’è insufficienza tricuspidale, per il calcolo della pressione sistolica in
arteria polmonare. La velocità del flusso di rigurgito tricuspidalico permette di calcolare il gradiente fra
ventricolo e atrio destro (Figura51); se a questo si aggiunge la pressione telediastolica in ventricolo destro,
che corrisponde alla pressione atriale destra, si ottiene la pressione arteriosa polmonare. La pressione in
atrio destro viene stimata indirettamente in base alle dimensioni della vena cava e al suo grado di

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73 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

collassabilità con l’inspirazione.

Figura 51 Calcolo del gradiente pressorio fra ventricolo e atrio destro attraverso la velocità del flusso di
rigurgito tricuspidale.

La formula per il calcolo della pressione in arteria polmonare è:

PAPS: 4 x (velocità del rigurgito attraverso la tricuspide)2+ pressione in atrio destro

Tale calcolo, tuttavia, non è possibile se è presente un ostacolo all’efflusso ventricolare destro, come in
presenza di stenosi valvolare polmonare.

ECOCARDIOGRAFIA TRANSESOFAGEA

L’ecocardiografia transesofagea studia il cuore attraverso l’esofago.


Il trasduttore è posto alla punta di una sonda flessibile che, introdotta attraverso l’orofaringe raggiunge la
parte medio-distale dell’esofago dove entra in diretto contratto con le strutture cardiache, permettendone
uno studio più completo ed accurato (Figura52, ECO 09, ECO 22, ECO 23, ECO 40, ECO 44, ECO 49). Non
necessita di anestesia ma solo di una blanda sedazione. Questa tecnica è particolarmente utile in caso di:

 Studio delle valvole native e delle valvole protesiche


 Sospetta endocardite
 Cardiopatie congenite
 Difetti interatriali
 Ricerca di fonti emboligene di natura cardica

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74 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 NUOVE TECNOLOGIE

Negli ultimi anni l’ecocardiografia si è arricchita di tecniche in grado di effettuare una valutazione
quantitativa della funzione miocardia e di studiare fenomeni che si sviluppano anche all’interno del
miocardio. Una delle nuove tecniche è il Doppler Tissutale (Figura53), che studia le velocità
intramiocardiche.

Figura 53 Doppler tissutale (tissue Doppler inaging), con a destra schema.

Tuttavia, esso è influenzato dal movimento cardiaco globale, dalla rotazione cardiaca e dal trascinamento di
segmenti adiacenti. Da qui lo sviluppo di metodiche (Figura54) in grado di studiare la deformazione
miocardica regionale: lo Strain (quantità totale di deformazione,Figura55), lo Strain rate (la velocità con cui
la deformazione avviene) e lo Strain 2D (che non è una metodica Doppler dipendente e dunque è angolo-

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indipendente)

Figura 54

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76 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 55

Altre metodiche sono il Backscatter Integrato (che analizza le variazioni della reflettività miocardica in
decibel ) e l’ Ecocontrastografia Miocardica (Figura56), che studia la cinetica delle microbolle del contrasto
ultrasonico a livello intramiocardico.
La più recente metodica ecocardiografica introdotta in Clinica è l’ecocardiografia tridimensionale (Eco 3D)
(Figura57,ECO 10, ECO 11)
L’eco 3D supera gli attuali limiti dell’ecocardiografia bidimensionale, permettendo un’analisi accurata e
riproducibile della morfologia e della funzione delle strutture cardiache.
I pricipali campi applicativi dell’Eco 3D sono: patologie valvolari, cardiopatie congenite, endocardite
infettiva, masse cardiache, cardiomiopatie

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Capitolo 6
METODICHE NUCLEARI
Pasquale Perrone Filardi, Massimo Chiariello

DEFINIZIONE

Le metodiche nucleari impiegate nella diagnostica cardiologica si basano sulla somministrazione endovenosa di
traccianti che emettono particelle radioattive (fotoni e positroni). Il tracciante raggiunge il cuore e penetra nelle
cellule miocardiche; intanto una gamma camera misura la radioattività cardiaca e un computer provvede a
costruire immagini che rispecchiano la concentrazione dell’isotopo nelle diverse aree miocardiche. E’ così
possibile, utilizzando determinate tecniche, esplorare sia la perfusione che la funzione miocardica. Le metodiche
attualmente in uso sono la tomografia ad emissione di fotone singolo (SPECT) e la tomografia ad emissione di
positroni (PET).

OMOGRAFIA AD EMISSIONE DI FOTONE SINGOLO (SPECT)

La miocardioscintigrafia è una tecnica che ha per obiettivo la valutazione semiquantitativa dalla perfusione
miocardica attraverso l’analisi di immagini tomografiche che riportano la distribuzione di un tracciante di perfusione
miocardica. In aggiunta, grazie all’impiego degli attuali traccianti tecneziati, è possibile anche la valutazione della
funzione contrattile regionale e globale, basata sulla acquisizione di immagini sincronizzate (gated)
sull’elettrocardiogramma, in maniera da consentire una ricostruzione affidabile del ciclo cardiaco. La SPECT è un
esame di valutazione di perfusione e funzione sistolica regionale e globale del ventricolo sinistro, che consente una
visualizzazione del ventricolo sinistro in movimento in varie proiezioni, in maniera da esplorare tutte le pareti
miocardiche (Figura 1).


I traccianti radionucleari di uso corrente
Tallio. Il tallio è stato il primo tracciante ad essere impiegato nell’uomo
per la valutazione della perfusione miocardica. Si tratta di un tracciante a bassa energia, che viene avidamente
estratto dal miocardio in maniera proporzionale al flusso regionale. Iniettando il tallio all’acme di uno sforzo, esso
viene captato dalla varie regioni miocardiche, e si accumula più nelle zone irrorate da coronarie normali che nei
territori dipendenti da coronarie stenotiche. Successivamente, il tallio ritorna dalle cellule nel torrente ematico e
può quindi penetrare nelle regioni in cui il flusso era ridotto all’acme dello sforzo. Questo processo, determinato
dalla libera circolazione del tracciante in relazione al flusso, rappresenta il fondamento del fenomeno della
redistribuzione che è peculiare di questo tracciante, e consente ai territori miocardici dipendenti da vasi stenotici
che abbiano ricevuto una minore quantità di tracciante nella fase di inadeguato aumento del flusso in risposta allo
stress di colmare questo deficit una volta terminata la fase di aumentata richiesta di flusso, o anche in condizioni di
riposo quando, anche in presenza di lesioni coronariche severe (fino all’80%), il flusso coronarico è normale. Il
fenomeno della redistribuzione si appalesa con la reversibilità a distanza dallo sforzo (generalmente dopo 3-4 ore)
di un iniziale difetto di perfusione presente durante l’esercizio, che consente di diagnosticare una stenosi coronarica
significativa. La mancata scomparsa di un iniziale difetto di perfusione nelle immagini a distanza, invece, è
espressione di tessuto miocardio necrotico, nel quale il flusso è praticamente assente in ogni momento. L’impiego
del tallio prevede dunque un’unica somministrazione di tracciante per ogni esame scintigrafico.

Traccianti marcati con 99Tecnezio. I due traccianti attualmente impiegati marcati con 99Tc,ovvero il sestamibi e la
tetrafosmina hanno in Italia largamente sostituito il tallio. Rispetto a quest’ultimo possiedono una maggiore energia,

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78 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

che consente una migliore visualizzazione delle immagini con minore attenuazione, ed una minore esposizione
radioattiva (circa la metà rispetto al tallio). Ma la differenza principale consiste nella cinetica di questi traccianti che,
dopo essere stati iniettati in circolo, vengono captati passivamente dalle cellule miocardiche in proporzione lineare
al flusso ed intrappolati in maniera pressoché irreversibile dai mitocondri. Rispetto al tallio, dunque, i traccianti
tecneziati non circolano liberamente tra esterno ed interno della membrana cellulare e non subiscono il fenomeno
della redistribuzione. Al contrario, essi rappresentano nelle immagini lo stato della perfusione miocardica al
momento della iniezione. La comparazione tra immagini a riposo e immagini al momento dello sforzo, quindi, potrà
avvenire solo con due distinte somministrazioni di tracciante, preferibilmente effettuate in giorni diversi (Figura 2).


FIGURA 2. Immagini SPECT di perfusione dopo somministrazione di tracciante tecneziato (Tc99-sestamibi) durante
sforzo (tomogrammi superiori) ed a riposo (tomogrammi inferiori) si nota difetto di perfusione nelle regioni
anterosettali ed apicali (frecce) durante esercizio non presente nelle immagini a riposo, espressioni di ischemia
miocardica inducibile.

Il valore clinico della miocardioscintigrafia
Diagnosi di cardiopatia ischemica. Come per tutte le metodiche
diagnostiche, l’accuratezza della miocardioscintigrafia è influenzata da una serie di variabili che la rendono
differente da soggetto a soggetto e che solo in parte dipendono dalla tecnica. In generale, l’accuratezza predittiva è
fortemente influenzata, secondo il teorema di Bayes, dalla prevalenza della malattia nella popolazione studiata,
ovvero dalla probabilità pre-test di malattia nel soggetto da studiare. Il secondo rilevante fattore di influenza sulla
accuratezza è legato alla possibilità di artefatti tecnici, ovvero di apparenti deficit di perfusione in alcune regioni
miocardiche. Tali deficit apparenti possono essere dovuti a difetti da attenuazione dei fotoni lungo il passaggio dal
cuore alla gamma camera attraverso i tessuti del corpo. Questo giustifica la presenza di falsi positivi in alcuni territori
come la parete inferiore nell’uomo, per effetto della interposizione del diaframma, e la parete anterolaterale nella
donna per l’interposizione del tessuto mammario, così come la presenza di falsi positivi in soggetti obesi di entrambi
i sessi.

Stratificazione prognostica. La miocardioscintigrafia rappresenta attualmente la tecnica più largamente convalidata


nella stratificazione prognostica di pazienti affetti da cardiopatia ischemica nota o sospetta, per la predittività a
breve-medio termine (generalmente 1-2 anni) di eventi cardiaci quali morte e infarto del miocardio. La negatività
del test è associata a una percentuale di eventi cardiaci maggiori estremamente bassa, sovrapponibile a quella della
popolazione generale (<1% all’anno).

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79 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

TOMOGRAFIA AD EMISSIONE DI POSITRONI (PET)

La PET consente una valutazione del flusso e del metabolismo regionale del glucosio e degli acidi grassi, nonché del
consumo di ossigeno, e rappresenta una metodica estremamente sofisticata e di grande ausilio per la ricerca in
vivo. A differenza della SPECT, è basata sulla emissione di particelle ad elevata energia, i positroni (511 kEv), e le
immagini provenienti dai tessuti del corpo (immagini di emissione) vengono sempre corrette attraverso la
acquisizione di una seconda scansione (immagini di trasmissione) ottenuta senza somministrazione di tracciante al
paziente, per il grado di attenuazione che le particelle radioattive subiscono nell’attraversamento delle strutture
corporee. Per la complessità di gestione e gli elevati costi la PET ha tuttora un uso clinico limitato pressoché
esclusivamente nei pazienti con cardiopatia ischemica e dilatazione ventricolare per la ricerca di aree di tessuto
miocardio disfunzionante ma vitale. In tali pazienti, la presenza di attività metabolica residua in un territorio
disfunzionante, valutata comparando la captazione di un analogo del glucosio (18F-fluorodesossiglucosio) in
proporzione al flusso (valutato con Rubidio82 o NH3), è predittiva di recupero funzionale dopo rivascolarizzazione
(Figura 3).

Limiti delle metodiche nucleari
Il principale, e spesso trascurato, limite di queste tecniche è rappresentato dalla
necessità di esposizione a particelle ionizzanti per il paziente. Sebbene l’impiego di traccianti tecneziati abbia
fortemente ridotto la dosimetria rispetto al tallio, è bene ricordare che una SPECT con traccianti marcati con
tecnezio99 corrisponde, in termini di radiazioni assorbite, ad alcune centinaia (da 300 a 500) di radiografie standard
del torace. Questo aspetto, ed il rischio stocastico tra esposizione radioattiva e insorgenza di neoplasie devono
dunque sempre essere considerati nella scelta diagnostica di indagini radionucleari.

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80 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 7 - Risonanza Magnetica Nucleare

Sabino Iliceto, Martina Marra Perazzolo, Luisa Cacciavillani,

INTRODUZIONE (VANTAGGI, POTENZIALITÀ, CONTROINDICAZIONI)

La Risonanza Magnetica Cardiaca (RMC) rappresenta una metodica di imaging avanzato che per le sue peculiari
caratteristiche sta trovando sempre più spazio nella pratica clinica quotidiana, a completamento di altre
indagini ormai codificate ed applicate. Pur nascendo come indagine di secondo livello le sue più recenti
applicazioni, in particolare nello studio della cardiopatia ischemica cronica e nelle cardiomiopatie, ne stanno
facendo emergere l’utilità di impiego anche in prima battuta, trattandosi di una metodica di integrazione tra
informazioni funzionali e di caratterizzazione tissutale. I vantaggi dell’impiego della RMC risiedono
essenzialmente nella sua non invasività. Il basso impatto biologico di questa metodica risiede nel fatto che il
principio fisico su cui si basa non coinvolge gli elettroni, notoriamente coinvolti nei processi radianti e
responsabili delle alterazioni del DNA. In RMC infatti l’interazione richiesta per la formazione delle immagini
risiede a livello del nucleo atomico, in particolare nei nuclei di idrogeno. Un secondo vantaggio della RMC
risulta dalla presenza di un elevato contrasto naturale tra il circolo sanguigno e le strutture cardiovascolari, con
conseguente ottima definizione dell’endocardio. Da non dimenticare infine la multiplanarità di questa
metodica, ovvero la possibilità di rappresentare le strutture anatomiche secondo qualsiasi piano, non solo in
quello assiale come per la TAC. Come conseguenza di quanto esposto, la RMC offre un’ottima risoluzione
spaziale dei piani esplorati, il che rappresenta il presupposto perché la RMC si proponga come gold standard
per una corretta definizione dei volumi, massa e funzione miocardica senza necessità di assunzioni
geometriche. Ancor più affascinanti e di interesse nella pratica clinica risultano le potenzialità della RMC dopo
somministrazione di mezzo di contrasto: infatti l’analisi della cinetica di distribuzione del gadolinio nel
miocardio consente di ottenere una caratterizzazione tissutale che eleva questa metodica di imaging ad una
sorta di anatomia patologica in vivo.Accanto a tali aspetti vanno annoverati quelli che, invece, controindicano
l’esame ed essenzialmente risiedono nelle caratteristiche del paziente: severa claustrofobia (in Letteratura
viene riportata un’incidenza pari al 2%), portatori di pacemaker, defibrillatori, clip per aneurismi (in particolare
cerebrali). Relativa risulta la controindicazione che riguarda le alterazioni del ritmo cardiaco (per esempio,
fibrillazione atriale o bradicardia severa) che rendono difficile l’esecuzione tecnica dell’esame e di scarsa
qualità le immagini ottenute. Non esistono al momento attuale delle linee guida precise sull’applicazione della
RMC: la Tabella I riporta le indicazioni più validate.

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81 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Un protocollo di studio standard con risonanza magnetica cardiaca con mezzo di contrasto prevede
generalmente i seguenti step:

• immagini preliminari per localizzare la posizione del cuore e dei grandi vasi all’interno del torace;
• immagini in movimento per la valutazione della funzione cardiaca, secondo gli assi ortogonali del cuore
(Figura 1, Figura 2);
• immagini per la caratterizzazione tissutale prima della somministrazione di mezzo di contrasto (edema
miocardico nell’area a rischio di un infarto miocardico (Figura 3); valutazione dell’infiltrazione adiposa
nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (Figura 4)

FIGURA3. In questo caso è rilevabile edema miocardico al setto ed alla parete laterale nell.immagine a sx, in

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82 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

sede inferiore basale e in ventricolo destro a desta.

FIGURA4.Sequenza per la visualizzazione della sostituzione fibro-adiposa nella cardiomiopatia aritmogena del
ventricolo destro: il tessuto adiposo mostra un’alta intensità di segnale che contrasta con il tessuto miocardico
ipointenso.

• immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto : in questo caso dopo circa 10 minuti dall’infusione
endovenosa del mezzo di contrasto le zone fibrotiche o necrotiche appaiono iperintense (>500%
rispetto al segnale basale), (zona bianca, late enhancement), consentendo una netta distinzione
rispetto al miocardio normale (nero) (Figura 5)

FIGURA5. Infarto miocardico transmurale in cui la necrosi (area bianca iperintensa) si localizza alla parete
anteriore media-apicale, all’apice e alla parete inferiore apicale. Il miocardio sano, vitale, risulta nero.

MEZZO DI CONTRASTO: IL GADOLINIO

I mezzi di contrasto utilizzati in risonanza magnetica vengono definiti indiretti in quanto agiscono alterando lo
stato di magnetizzazione dei protoni circostanti. Generalmente si utilizza il gadolinio che, in quanto altamente
tossico viene chelato con una molecola molto tenace, costituendo un prodotto a bassa tossicità. Il gadolinio è un
mezzo di contrasto paramagnetico inerte che si localizza preferenzialmente a livello della matrice extracellulare e

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83 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

non nelle cellule intatte con membrana cellulare integra. Infatti i miociti normocontrattili risultano disposti in
modo da ridurre al minimo la densità con scarsa sostanza intercellulare fibrotica: pertanto il miocardio normale ,
così come quello danneggiato da insulti ischemici, ma ancora vitale non mostra depositi di gadolinio ed appare
nero.

Nell’ambito dell’infarto miocardico il gadolinio si deposita nel miocardio secondo due meccanismi: in entrambi i
casi il risultato è un’area di hyperenhancement tardivo, cioè visibile come tale dopo 10-15 minuti dall’iniezione
del mezzo paramagnetico (Figura 6)

FIGURA6.Potenziali meccanismi di deposito di gadolinio nell’infarto acuto e nella cardiopatia ischemica cronica

In fase acuta la perdita dell’integrità di membrana dovuta alla miocitolisi associata all’edema della reazione
infiammatoria acuta permette al gadolinio di diffondere passivamente attraverso le membrane cellulari
danneggiate, invadendo quello che prima era spazio intracellulare ed aumentando così la sua concentrazione
tissutale.

Nella fase post-acuta si assiste alla formazione della cicatrice post-infartuale povera di miociti, ricca di fibre
collagene e matrice extracellulare: il gadolinio quindi si accumula a questo livello trovando nell’aumento del terzo
spazio il suo naturale tropismo.

Per quanto concerne la tossicità dei mezzi di contrasto utilizzati in risonanza, essa è legata per la maggior parte a
fenomeni allergici; essendo ad eliminazione prevalentemente renale, cautela va adoperata nei pazienti con
clearance < 30 ml/min.

RUOLO DELLA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA

NELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Infarto in fase acutaNella fase acuta di un infarto miocardico la RMC permette di identificare l’estensione
dell’area a rischio grazie alla valutazione dell’edema miocardico (Figura 3). La maggiore applicazione tuttavia
risiede nell’analisi delle immagini dopo somministrazione di mezzo di contrasto: infatti grazie all’impiego del
gadolinio è possibile una netta demarcazione spaziale tra area di necrosi e miocardio vitale. La RMC permette
di identificare i diversi gradi di transmuralità della necrosi permettendo di distinguere infarti transmurali (late
enhancement >75% dello spessore ventricolare) (Figura 5) da quelli subendocardici (late enhancement <75%
dello spessore ventricolare) (Figura 7).

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FIGURA7.Necrosi subendocardica in sede laterale ed inferiore.

Il segnale iperintenso del mezzo di contrasto permane evidente a distanza di mesi dall’evento acuto, anche
nel caso di piccoli infarti subendocardici. La RMC con mezzo di contrasto (late enhancement) si è dimostrata
molto sensibile soprattutto nell’identificare piccoli infarti sub-endocardici, quando la perfusione valutata con
la SPECT risulta invece normale (Figura 8).

FIGURA8.Infarto subendocardico rilevato (frecce) attraverso CE-RMI e istologia ma non attraverso la SPECT.

La RMC permette di identificare con ottima risoluzione spaziale non solo la sede e l’estensione dell’infarto,
mediante l’analisi dell’ hyperenhancement, ma anche di individuare alterazioni del microcircolo nella zona
sede di necrosi.

In RMC le alterazioni microcircolatorie nell’area di necrosi sono definite come una zona di hypoenhancement
all’interno delle aree di necrosi già definite come late hyperenhancement. Le alterazioni del segnale da
disfunzione microcircolatoria sono già visibili al primo passaggio del gadolinio nel miocardio alterato (“first-
pass ”, Figura 9). In alcuni casi inoltre, dopo 10-15 minuti, le alterazioni del microcircolo osservate in fase
precoce persistono in fase tardiva:queste appaiono come zone scure(hypoenhnacement tardivo, “dark
zones”) nel contesto di aree di necrosi transmurale (Figura 9).

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FIGURA9. Immagini due camere: a sinistra sequenza acquisita al primo passaggio del gadolinio (first pass) il
muscolo sano appare chiaro mentre l’alterazione microcircolatoria, in sede subendocardica, è nera (fisr pass
positivo). A dieci minuti (immagine dx) dall’iniezione del mezzo di contrasto è evidente all’interno dell’area di
necrosi la persistenza dell’alterazione microcircolatoria che appare nera (“dark zone”)

Quest’ ultimo reperto corrisponderebbe, secondo diversi studi sperimentali, ad un’area di severa ostruzione
microcircolatoria ed in alcuni casi anche ad emorragia. In alcuni studi questi reperti di RMC avrebbero un
impatto negativo sulla prognosi.

Infarto in fase subacuta o cronicaLa valutazione dell’estensione del danno miocardico è strettamente
correlata con la diagnosi di vitalità, intesa come presenza di tessuto miocardico con disfunzione contrattile, in
grado di recuperare spontaneamente o dopo rivascolarizzazione. Il miocardio disfunzionante ma vitale è
distinto in “miocardio ibernato ” (stato di persistente deficit funzionale da ridotto flusso coronarico, che può
essere in parte o del tutto risolto migliorando il flusso coronarico) e “miocardio stordito ” (prolungata
disfunzione post-ischemica di tessuto vitale dopo riperfusione, a risoluzione spontanea). La presenza di
tessuto miocardico vitale in un soggetto con disfunzione ventricolare regionale e globale è di grande
importanza clinica, in quanto permette di identificare i pazienti che maggiormente beneficeranno di un
trattamento di rivascolarizzazione. Studi con RMC hanno dimostrato come l’estensione dell’
hyperenhancement sia in grado di predire, in pazienti con infarto acuto, il recupero della funzione contrattile
ventricolare regionale dopo rivascolarizzazione percutanea o chirurgica, identificando come limite per un
recupero soddisfacente della funzione ventricolare un valore di transmuralità compreso tra il 25% e il 50%.

LA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA NELLE CARDIOMIOPATIE

Cardiomiopatia dilatativa (distinzione dalla Cardiopatia ischemica)Nell’ambito della cardiomiopatia dilatativa la


risonanza magnetica, accanto alle informazioni funzionali, analoghe a quelle dell’ecocardiografia, apporta come

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valore aggiunto la caratterizzazione tissutale, resa possibile dall’impiego dei mezzi di contrasto. In particolare
permette di distinguere le forme primitive, in cui il late enhancement è assente o comunque con distribuzione di
tipo non ischemico (intramurale Figura 10) da quelle post-ischemiche (aree di necrosi subendocardiche o
transmurali).

FIGURA10.Esempi di deposito di gadolinio a sede intramurale (middle striae) della miocardiopatia dilatativa.

Inoltre alcuni pazienti con dilatazione ventricolare non di origine ischemica è possibile rilevare late enhancement
di tipo diffuso (patchy) o epicardico, indicativo di probabile pregressa miocardite

Cardiomiopatia ipertroficaNella cardiomiopatia ipertrofica la RMC permette una precisa definizione della sede e
del grado di ipertrofia, anche in forme con localizzazione difficilmente espolarabile all’ecocardiogramma
transtoracico (ad esempio all’apice del ventricolo sinistro). Interessante anche da un punto di vista prognostico
risulta l’analisi del late enhancement, localizzato preferenzialmente a livello del setto nelle zone di maggior
ipertrofia, la cui entità sembra correlare con il rischio aritmico nel follow-up (Figura 11).

FIGURA11.Cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva; a) immagine senza mezzo di contrasto in proiezione due camere
; b) proiezione due camere dopo somministrazione di gadolinio: segni di late enhancement diffuso maggiormente
rappresentato sotto forma di spot nelle aree di maggior ipertrofia.

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Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro

Poiché questa patologia si caratterizza per delle alterazioni soprattutto a livello del ventricolo destro, camera
difficilmente esplorabile all’ecocardiogramma transtoracico, la RMC si propone come gold standard per la
valutazione delle sezioni destre del cuore. In particolare, secondo quanto indicato nei Criteri Diagnostici di
McKenna, è possibile un’analisi della dilatazione e della disfunzione del ventricolo destro, valutando le anomalie
della cinetica regionale (Figura 12). Si può, inoltre, eseguire uno studio per la presenza di infiltrazione adiposa: il
tessuto adiposo mostra un’alta intesità di segnale, che contrasta con il tessuto miocardico ipointenso (Figura 4).
Infine negli ultimi anni nel valutare i pazienti con sospetta cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro si è
valorizzato il ruolo del gadolinio che si è dimostrato in grado di evidenziare segni di late enhancement spesso
presente in questa patologia, sia a livello del ventricolo destro che sinistro (Figura 13).

FIGURA13.Segni di enhancement a livello della parete libera del ventricolo destro.

ALTRE APPLICAZIONI DELLA RISONANZA MAGNETICA CARDIACA

MiocarditiLa RMC trova una importante applicazione nelle miocarditi soprattutto nella diagnosi iniziale. La RMC,
grazie alla elevata risoluzione spaziale ed all’impiego del gadolinio rende possibile identificare specifici pattern di
late enhancement a distribuzione ora epicardica (soprattutto nei casi di miopericardite), ora focale a spot diffusi
(Figura 14).

FIGURA14.Esempio di miocardite con segni di deposito di gandolinio in sede epicardica tipo spot diffusi (aree
bianche di late enhancement).

Masse miocardicheLe potenzialità della RMC nello studio delle masse miocardiche trova la sua naturale
applicazione nella valutazione della loro morfologia, dimensioni, localizzazione, estensione e rapporti topografici
con le strutture viciniori (Figura 15).

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FIGURA15.Voluminosa massa in atrio sx che non presenta depositi tardivi di gandolinio: all’esame istologico si
rivelerà essere una voluminosa massa trombotica.

Accanto a ciò va aggiunta la capacità di caratterizzazione tissutale, utile nel caso di formazioni lipomatose. Ulteriori
informazioni si possono ottenere dalla somministrazione del mezzo di contrasto che si raccoglierà maggiormente e
più velocemente nelle formazioni a più elevata vascolarizzazione.

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Capitolo 9
TEST CARDIOPOLMONARE
Marco Guazzi


DEFINIZIONE

Il test da sforzo cardiopolmonare permette di misurare in modo preciso la capacità di un soggetto a compiere esercizio f
fisiologico, medico e sportivo, oltre che nella valutazione di molteplici stati morbosi che interessano apparato cardiocirc
principale del test è lo studio e la cura dell’insufficienza cardiaca.

Il test cardiopolmonare è volto a determinare la risposta antomo-funzionale di polmone, cuore e muscolo da cui dipend
dell’ossigeno (O2). Proprio la misura del consumo di O2, la produzione di anidride carbonica (VCO2), la risposta ventilato
cui il test si articola e da cui si elabora una serie di variabili derivate. A completamento della prova è utile registrare una
monitoraggio continuativo dell’elettrocardiogramma e dei parametri emodinamici ed emogasanalitici (Tabella I).

L’interpretazione del test avviene mediante analisi integrata delle variabili registrate, seguendo l’andamento dei princip
L’interpretazione sistematica dei dati permette di determinare il grado di limitazione funzionale e, soprattutto, di identif
funzionale.

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METODOLOGIA

Indipendentemente dal tipo di esercizio e dal protocollo utilizzato, il soggetto in esame deve essere collegato
mediante maschera facciale o boccaglio e stringinaso ad un tubo valvolato, dotato di valvola “non-rebreathing”,
tale, cioè, da permettere che l’aria espirata non si disperda nell’ambiente ma venga diretta all’apparecchio
analizzatore. L’acquisizione e l’analisi dei dati si basa sul sistema “breath-by-breath” o atto per atto respiratorio.
La pressione tele-espiratoria dei gas espirati (PETO2 e PETCO2) e il volume corrente respiratorio vengono
registrati in continuo, e agli analizzatori di O2 e CO2 perviene una quota variabile di aria espirata ad una
frequenza costante tra i 200 e i 500 ml/min. Ulteriori aspetti metodologici riguardano il tipo di esercizio,
l’incremento del carico lavorativo e la familiarizzazione con la metodica.

I due tipi di esercizio comunemente impiegati (tappeto rotante e cicloergometro) coinvolgono un numero
differente di unità muscolari: la diversa spesa energetica che ne consegue (circa il 10% in più per il tappeto
all’apice dello sforzo) giustifica, insieme alla mancanza di una precisa standardizzazione dei protocolli, la
discordanza tra test eseguiti in laboratori differenti. L’esercizio più fisiologico si ottiene incrementando
gradualmente il carico di lavoro (rampa) così che lo sforzo massimale abbia una durata complessiva tra i 10 e i 12

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minuti. Si rende, pertanto, necessario personalizzare preliminarmente il carico lavorativo in base a una
valutazione indiretta che tenga conto della condizione fisica e dell’abilità a compiere sforzo.

APPLICAZIONE NEL PAZIENTE CON INSUFFICIENZA CARDIACA

L’intolleranza all’esercizio costituisce una caratteristica peculiare del malato con insufficienza cardiaca, che
spesso presenta sintomi quali dispnea e fatica muscolare. Pur essendo ovvio che il grado di compromissione
funzionale e sintomatologico tende a crescere con il progredire dello scompenso, la limitazione funzionale e
l’insorgenza di sintomi si manifestano fin dagli stadi iniziali, e costituiscono il campanello di allarme in quei casi in
cui, pur in assenza di sintomatolgia rilevante, è già presente disfunzione ventricolare sinistra e attivazione
neuroormonale. In questo contesto, il test da sforzo cardiopolmonare offre un ampio bagaglio di informazioni
per la stadiazione e il follow-up clinico-prognostico del malato con insufficienza cardiaca.

Il malato cardiaco non sempre e non solo riconosce nel ridotto incremento della gittata cardiaca, per difetto
cronotropo o contrattile, la causa di limitazione funzionale: è sempre più evidente che alterazioni specifiche del
controllo ventilatorio, modificazioni funzionali e strutturali del muscolo scheletrico, oltre che la presenza di
anemia, cui consegue alterato trasporto e rilascio di O2 ai muscoli, giochino un ruolo di prim’ordine.

Il massimo consumo di O2 ottenibile all’apice di uno sforzo massimale (VO2 max) è il parametro di riferimento
più immediato per riconoscere se esista o meno limitazione funzionale e se la risposta dinamica ottenuta
raggiunga quella predetta. Per il malato cardiaco, tuttavia, il VO2 max rimane un valore teorico, e al suo posto si
considera il VO2 massimale (VO2 di picco), che corrisponde al consumo di O2 più elevato ottenuto all’apice dello
sforzo. Il VO2 di picco (Figura 1, grafico 3) si esprime generalmente come consumo di O2 al minuto rapportato al
peso corporeo, ed è stato proposto con successo quale elemento di classificazione dello scompenso cardiaco. Il
valore di VO2 di 20 ml/min/kg è il limite al di sopra del quale inizia il range di normalità (Classe A), mentre il
valore di 10 ml/min/kg (classe D) è quello al di sotto del quale la compromissione è tale che una prova
ergodinamica non è proponibile; tra questi due valori si inseriscono le classi B (VO2 di picco tra i 15 e i 20
ml/min/kg) e C (VO2 di picco tra i 10 e i 15 ml/min/kg). Studi pionieristici degli anni ’90 e successive
dimostrazioni su ampi numeri hanno permesso di identificare un valore di VO2 di picco di 10 ml/min/kg quale
cutoff di riferimento per inserire il paziente in lista attiva per trapianto di cuore. Occorre, tuttavia, che il soggetto
abbia raggiunto e superato il punto di soglia anaerobia in cui inizia la produzione di acido lattico e intervengono i
meccanismi di compenso, isocapnico prima e ventilatorio successivamente. In questo contesto, oltre al VO2 di
picco è stata recentemente dimostrata l’utilità di un altro importante parametro ottenuto con la registrazione
dei gas espirati, cioè la pendenza della relazione ventilazione (VE) versus VCO2 (Figura 1, grafico 4). Il
comportamento peculiare di questi malati è che, per una data produzione di CO2, l’entità della risposta
ventilatoria da sforzo risulta eccessiva: il grado di “inefficienza ventilatoria” è predittivo di morbidità e mortalità.
L’incremento della pendenza della relazione VE/VCO2 è documentabile anche nei quadri iniziali di insufficienza
cardiaca, e il suo potere predittivo è esteso anche ai pazienti con preservata funzione contrattile ma alterate
proprietà di rilasciamento diastolico. Nuove prospettive emerse propongono la necessità di utilizzare questa
variabile per meglio stratificare, rispetto al VO2 di picco, la compromissione clinica e i benefici della terapia nel
paziente scompensato.

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Capitolo 10
TECNICHE DI VALUTAZIONE DEL SISTEMA NERVOSO


NEUROVEGETATIVO
Federico Lombardi
DEFINIZIONE

Il sistema neurovegetativo è definito come la parte del sistema nervoso responsabile dell’innervazione viscerale, ed è ca
originano le fibre nervose efferenti dirette ai vari organi. Il sistema comprende neuroni postgangliari, gangli, neuroni pre
essere riuniti in tre gruppi principali: craniali, toracolombari e sacrali. Tale sistema viene anche definito col termine Siste
controllo: il Sistema Simpatico e Parasimpatico. Negli organi con doppia innervazione (ad esempio, il cuore), i sistemi so
innervazione simpatica, invece, lo stesso sistema provvede ad entrambe le funzioni: nel caso dei vasi arteriosi, per esem
vasocostrizione. La funzione di controllo viene svolta attraverso due principali modalità di scarica delle fibre nervose effe
stabilità (omeostasi) di parametri come, ad esempio, la frequenza cardiaca o la pressione arteriosa sistolica, e 2) un’attiv
in seguito a stimoli interni (ad es. ischemia miocardica, dolore) o esterni (ad es. stress, emozioni). E’ presente, inoltre, un
ad esempio, il Sistema Renina-Angiotensina-Aldosterone.

Il controllo nervoso della frequenza cardiaca è un tipico esempio dell’antagonismo e della complessa e continua interazi
simpatiche (noradrenalina) e vagali (acetilcolina) e le caratteristiche di risposta delle cellule pacemaker. Tale caratteristi
del sistema nervoso autonomo: l’analisi della variabilità della frequenza cardiaca e lo studio della sensibilità barocettiva.

Il sistema nervoso autonomo opera prevalentemente attraverso segnali che possono modificare il flusso di Calcio e di al
appartengono al sistema di recettori accoppiati alle proteine G, sono in grado di avviare un processo di trasduzione che
nell’attivazione, attraverso la fosforilazione di proteine intracellulari. A livello cardiaco, i recettori beta-adrenergici sono
beta2, che prevale a livello extracardiaco, costituisce solo il 20% dei beta recettori cardiaci. I recettori alfa-adrenergici ut
ruolo determinante nel regolare il flusso di calcio nella muscolatura vascolare liscia.

LA FREQUENZA CARDIACA.

Può sembrare sorprendente che la misura della frequenza cardiaca possa fornire valide e importanti informazioni
prognostiche sia nella popolazione sana sia in differenti condizioni cliniche. La frequenza cardiaca istantanea è,
con ogni probabilità, il più semplice indicatore dell’equilibrio autonomico e quindi può fornire importanti
informazioni sull’interazione simpato-vagale e sulla capacità di risposta del nodo del seno alla modulazione
autonomica. Una frequenza cardiaca elevata è un importante fattore prognostico negativo sia nella popolazione
generale sia in pazienti con differenti patologie cardiovascolari. Anche se è verosimile che i meccanismi che
possono determinare un aumento della frequenza cardiaca a riposo non possano essere ricondotti al solo
sistema neurovegetativo, quest’ultimo ne rimane il principale determinante. Informazioni sul controllo
autonomico possono essere anche ricavate dall’analisi delle variazioni di frequenza cardiaca indotte sia nelle
prime fasi di un esercizio fisico sia nel recupero. Un eccessivo aumento della frequenza cardiaca nei primi minuti
di esercizio e una scarsa riduzione nelle prime fasi di recupero sono state interpretate come segni di un alterato
equilibrio simpato-vagale ed associate ad un aumento di mortalità in pazienti con cardiopatia ischemica e
insufficienza cardiaca.

L’ANALISI DELLA VARIABILITÀ DELLA FREQUENZA CARDIACA.

Questa metodica si basa sul fatto che anche in condizioni di riposo la frequenza cardiaca istantanea ha una
variabilità battito-battito che può essere facilmente messa in evidenza se si analizza una serie temporale di
intervalli RR (tacogramma). La misura di queste oscillazioni può essere fatta con semplici metodi statistici, come
il calcolo della media o della deviazione standard, o con metodiche spettrali che permettono di identificare e

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misurare l’ampiezza delle principali componenti oscillatorie. Nell’analisi del breve periodo (5-30 minuti) l’analisi
spettrale (Figura 1) mostra due principali componenti oscillatorie a bassa (LF) e ad alta frequenza (HF) che
riflettono rispettivamente la modulazione simpatica e parasimpatica del nodo del seno.

FIGURA1.Analisi spettrale della frequenza cardiaca ottenuta da un breve periodo di registrazioni in condizioni di
controllo di un soggetto sano. Si identificano chiaramente le due principali componenti oscillatorie a bassa (LF)
ed a alta (HF) frequenza che riflettono la modulazione autonomica del nodo del seno.

Il rapporto LF/HF è comunemente utilizzato come indice dell’interazione simpato-vagale, e nel soggetto sano ha
un valore inferiore a 2. Un’attivazione simpatica come quella indotta dall’ortostatismo passivo si associa ad un
aumento della componente LF e ad una riduzione della componente HF. Un aumento della variabilità dei cicli
cardiaci legato all’attività respiratoria si associa ad un aumento della componente HF. L’analisi di lunghi periodi,
come quelli rilevabili nelle registrazioni Holter, è caratterizzata da numerose macro-oscillazioni, che possono
essere determinate dalla sequenza sonno veglia, dal livello di attività fisica e da altri fattori neuro-umorali. In
questo caso l’analisi spettrale indica che meno del 10% della potenza totale è ascrivibile alle componenti LF e HF,
mentre predominano le componenti a più basse frequenze che riflettono i fenomeni sopraindicati.

Nella pratica clinica la disponibilità di uno strumento in grado di misurare l’interazione simpato-vagale ha trovato
numerose applicazioni, soprattutto nella cardiopatia ischemica, nell’ipertensione arteriosa e nell’insufficienza
cardiaca. Il riconoscimento di un’alterazione del fisiologico equilibrio simpato-vagale nel post-infarto ha
permesso di identificare pazienti con un elevato rischio di morte cardiaca aritmica.

Attualmente tutti i sistemi di lettura dell’elettrocardiogramma dinamico, registrato per 24 ore (Holter) sono in
grado di fornire parametri come la deviazione standard degli intervalli RR normali (SDNN), che può essere
utilizzata nella stratificazione non invasiva del rischio di morte cardiovascolare. L’analisi spettrale delle 24 ore
fornisce, invece, informazioni di maggior difficoltà interpretativa, e recentemente è stata affiancata da ulteriori
elaborazioni del segnale di variabilità RR basate sull’analisi di dinamiche non lineari, che tuttavia vengono
utilizzate prevalentemente nei laboratori di ricerca.

L’ANALISI DELLA SENSIBILITÀ BAROCETTIVA

Questa metodica si basa su un modello stimolo risposta e quantifica l’aumento di durata degli intervalli RR in
risposta ad un aumento di pressione arteriosa indotta dalla somministrazione di una sostanza vasoattiva come la
fenilefrina (Figura 2).

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FIGURA2.Calcolo della sensibilità barocettiva durante test alla fenilefrina. Nella parte superiore vengono illustrate
le modificazioni battito-battito della pressione arteriosa sistolica e dell’intervallo RR durante l’incremento pressorio
indotto dal farmaco vasoattivo. Nella parte inferiore è rappresentata la correlazione pressione/RR che permette di
calcolare l’intercetta come misura della sensibilità barocettiva.

L’inclinazione della curva che descrive tale metodica si esprime in msec/mmHg, e in soggetti sani ha un valore
superiore a 12 msec/mmHg. Questa metodica fornisce quindi una misura della capacità di risposta dei meccanismi
nervosi di controllo, e riflette la capacità d’incremento dell’attività vagale efferente e la capacità d’inibizione
dell’attività simpatica efferente diretta al cuore. Va ricordato che tra i due sistemi di controllo esiste una continua
interazione che modula la capacità di risposta di ciascuna componente del sistema nervoso neurovegetativo. Una
ridotta sensibilità barocettiva caratterizza pazienti con un’elevata mortalità sia nel post-infarto sia nello scompenso
cardiaco.

L’ANALISI DELLA TURBOLENZA CARDIACA (HRT).

L’HRT è una metodica che si basa sull’analisi delle modificazioni di durata del ciclo cardiaco che seguono la pausa
compensatoria indotta da un battito prematuro ventricolare (Figura 3)

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FIGURA3.Analisi della turbolenza cardiaca (HRT). Nella parte superiore è rappresentata la serie temporale degli
intervalli RR che precedono e seguono la pausa compensatoria indotta da un battito prematuro ventricolare. Nella
parte inferiore viene indicato dove e come si calcolano i due parametri che descrivono tale metodica: TO e TS.

In un soggetto sano questo fenomeno è caratterizzato da un iniziale accorciamento di durata dell’intervallo RR e


quindi da un graduale allungamento che in 5-7 cicli cardiaci riporta la durata dell'intervallo RR ai valori precedenti il
battito prematuro ventricolare. L’iniziale accorciamento viene indicato come T0 e ha in un soggetto normale un
valore inferiore allo 0% (determinato dal rapporto percentuale tra l’intervallo RR post-pausa compensatoria e il
valore medio degli intervalli RR precedenti il battito prematuro ventricolare) La graduale decelerazione viene
indicata con il termine TS è ha in un soggetto normale un valore > 2,5 msec/RR. Si ritiene che l’accelerazione iniziale
sia dovuta ad un aumento dell’attività simpatica diretta al cuore mediata da una deattivazione barorecettiva legata
alla diminuzione di pressione arteriosa post-extrasistolica, mentre la successiva decelerazione riflette un
meccanismo di tipo barocettivo: incremento della pressione sistolica ed allungamento della durata degli intervalli
RR.

Questa metodica è stata utilizzata con successo nel post infarto e in pazienti con differenti tipi di
cardiomiopatia, ma necessita che la registrazione sui cui viene effettuata l’analisi presenti un numero
adeguato (non inferiore a 20) di battiti prematuri ventricolari.

CONCLUSIONI

Lo studio del Sistema Neurovegetativo non è limitato al laboratorio di fisiopatologia, ma ha importanti risvolti
applicativi anche in Clinica. Alterazioni del sistema neurovegetativo con aumento della modulazione simpatica
e riduzione dell’attività vagale caratterizzano condizioni patologiche come la cardiopatia ischemica,
l’insufficienza cardiaca, l’ipertensione arteriosa. Tali alterazioni non solo riflettono la severità della patologia
sottostante ma sono fattori spesso determinanti per la progressione della malattia e in grado di provocare
un’instabilità elettrica del miocardio. L’analisi della variabilità della frequenza cardiaca, della sensibilità
barocettiva e della HRT ha permesso di identificare nel post-infarto pazienti ad alto rischio e può quindi guidare
le nostre strategie terapeutiche per ridurre la mortalità aritmica.

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Capitolo 11
CATETERISMO CARDIACO E ANGIOCARDIOGRAFIA
Germano Di Sciascio, A. D’Ambrosio

DEFINIZIONE

Il cateterismo cardiaco e l’angiocardiografia forniscono una valutazione dettagliata dell’anatomia e della


fisiologia del cuore e del sistema vascolare. La metodica è stata applicata per la prima volta nell’uomo da
Werner Forssmann nel 1929, ma è stata ampliata ai fini diagnostici da André Cournard e Dickinson
Richards: questi tre ricercatori nel 1956 hanno ricevuto per la loro scoperta il premio Nobel per la medicina.
La coronarografia selettiva è stata introdotta da Mason Stones nel 1963 ed ulteriormente modificata da
Melvin Judkins.

Il cateterismo cardiaco consiste nell'inserimento, attraverso un vaso periferico, di un catetere sottile e


flessibile che viene poi sospinto fin dentro le cavità cardiache. Si distingue un cateterismo cardiaco destro
(o venoso) e sinistro (o arterioso). Il primo viene effettuato introducendo il catetere in una vena periferica
(femorale, brachiale, succlavia o giugulare) ed avanzandolo nelle sezioni destre del cuore e nel circolo
polmonare. Il cateterismo cardiaco sinistro viene realizzato raggiungendo le cavità sinistre del cuore per via
retrograda, dall’arteria femorale, brachiale o radiale.
Durante le varie manovre è possibile misurare le pressioni e le tensioni d’ossigeno presenti nei vari distretti,
collegando il catetere ad un trasduttore di pressione. Inoltre, mezzo di contrasto iodato può essere
iniettato attraverso i cateteri per visualizzare radiograficamente le cavità cardiache ed i
vasi (angiocardiografia); infine, può essere studiato il tempo di circolo del sangue, ricavando altri dati utili
sulla funzionalità cardiocircolatoria. Attraverso il catetere è possibile anche effettuare biopsie del muscolo
cardiaco (biopsia endomiocardica).
L’angiocardiografìa delle coronarie o coronarografia consiste nella visualizzazione selettiva dell’albero
coronarico in corso di cateterismo cardiaco.

TECNICA

Il cateterismo cardiaco viene eseguito in una sala sterile attrezzata con un sistema radiografico ad alta
risoluzione, apparecchi poligrafici per il monitoraggio continuo e la registrazione dei parametri fisiologici
(traccia ECG, onda pressoria e pulsossimetria transcutanea), un carrello con farmaci per le emergenze ed un
defibrillatore per il trattamento delle aritmie ventricolari. Inoltre, la sala deve essere dotata di un iniettore
per il mezzo di contrasto, un sistema per l’acquisizione di film cineangiografico con la possibilità di
elaborazione digitale delle immagini ed archiviazione successiva.
Il paziente deve essere a digiuno e leggermente sedato, ma sveglio. La procedura viene effettuata con
metodica percutanea, nella maggior parte dei casi attraverso l’arteria e la vena femorale; l’approccio
brachiale o radiale viene utilizzato in presenza di vasculopatia periferica che precluda l’accesso dagli arti
inferiori o l’avanzamento dei cateteri in aorta addominale oppure quando si vuole consentire una
deambulazione precoce del paziente dopo la procedura.
La Figura 11.1 illustra la tecnica di puntura vasale percutanea.

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97 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 11.1 Tecnica di Seldinger per la puntura vasale percutanea.

L’arteria e/o la vena periferica vengono punte con un ago, previa anestesia locale della cute e sottocute:
l’ago ha un calibro tale da consentire l’inserimento all’interno dello stesso di una guida metallica flessibile
che può essere avanzata nel vaso (Figura 11.1 A e Figura 11.1 B). A questo punto l’ago viene rimosso e con
la punta di un bisturi viene effettuata una piccola incisione di cute e sottocute al fine di consentire il
passaggio dell’introduttore (Figura 11.1 C). La guida lasciata in situ permette l’inserimento nel vaso
periferico di una cannula (detta introduttore), inizialmente dotata di svasatore (Figura 11.1 D e Figura 11.1
E): quest’ultimo viene rimosso assieme alla guida quando l’introduttore è posizionato completamente
all’interno del vaso (Figura 11.1 F). Il calibro dell’introduttore è variabile, a seconda della procedura che
viene eseguita; in genere, è dell’ordine di alcuni millimetri (da 4 a 8 French, considerato che 1 French = 0.3
mm, il calibro varia da 1.2 a 2.5 mm). Terminata la procedura di cateterismo, l’introduttore viene rimosso e
si ottiene l’emostasi locale mediante compressione manuale o mediante dispositivi meccanici per 15-20’: la
compressione sarà applicata a monte del sito di inserzione nel caso di puntura arteriosa, a valle nel caso di
puntura venosa.
Nella procedura di cateterismo cardiaco sinistro, un catetere pre-formato - ovvero, che presenta curvatura
predefinita all’estremità distale al fine di essere agevolmente introdotto nelle cavità cardiache – viene
avanzato per via retrograda sotto controllo dei raggi X (fluoroscopia) nell’arteria periferica fino all’aorta
ascendente e poi in ventricolo sinistro, attraverso la valvola aortica, ed eventualmente in atrio sinistro,
attraversando per via retrograda la valvola mitrale. A tutti i livelli (distretto vascolare e camere cardiache) è
possibile misurare attraverso il catetere i parametri emodinamici, così come effettuare prelievi per
determinare le saturazioni d’ossigeno. Le forme d’onda pressoria (tensiogrammi) possono essere
visualizzate su monitor e stampate su carta o memorizzate su di un supporto informatico.
Nei casi in cui non sia possibile eseguire un cateterismo retrogrado delle camere sinistre del cuore (ad
esempio: stenosi aortica serrata, protesi valvolare aortica), si può procedere per via trans-settale dalle
sezioni destre. Un catetere speciale (di Brockenbrough e Braunwald), introdotto per via percutanea dalla
vena femorale destra, viene passato dall’atrio destro al sinistro dopo aver punto il setto con un ago ricurvo
nelle regione della fossa ovale. Dall’atrio sinistro il catetere viene poi avanzato nel ventricolo sinistro
attraverso la valvola mitrale.
Per la procedura di cateterismo cardiaco destro viene generalmente utilizzato il catetere a palloncino
flottante di Swan Ganz (Figura 11.2). Il catetere, sotto controllo fluoroscopico e dopo aver gonfiato il
palloncino all’estremità distale, viene avanzato (Figura 11.3) attraverso la vena periferica nella vena cava
(inferiore o superiore, a seconda dell’approccio iniziale) e quindi in successione nell’atrio destro, nel
ventricolo destro e in uno dei due rami principali dell’arteria polmonare, fino ad “occludere”
transitoriamente un ramo periferico di quest’ultima. In questa posizione è possibile registrare la pressione

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98 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

di “incuneamento capillare polmonare”, la quale riflette quasi sempre in maniera accurata la pressione
striale sinistra.

Figura 11.2 Catetere a palloncino di Swan Ganz. All’estremità prossimale del catetere si riconoscono 4 possibili connessioni, tra cui
quella con siringa per gonfiare il palloncino distale e quella per il monitoraggio continuo della pressione. L’estremità distale del
catetere è dotata di palloncino e di un foro terminale.

Figura 11.3 Tecnica


del cateterismo cardiaco destro da approccio venoso femorale.
La riga in alto illustra (da sinistra a destra) l’avanzamento del catetere in vena cava superiore. La riga in basso evidenzia
l’attraversamento della valvola tricuspide e polmonare in successione.
VCS: Vena cava superiore. VCI: Vena cava inferiore. AP: arteria polmonare. APD: ramo destro dell’arteria polmonare. AD: Atrio
destro. VD: Ventricolo destro.

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99 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il catetere di Swan Ganz consente il cateterismo destro a letto dell’ammalato anche senza necessità di
radioscopia: l’uso di tale indagine si è esteso alle Unità di Terapia Intensiva Coronarica, per il monitoraggio
emodinamico di pazienti in condizioni critiche. Il termistore posto alla estremità del catetere consente di
misurare la gittata cardiaca mediante metodica diluizionale, fornendo quindi un quadro sufficientemente
completo della funzione cardiocircolatoria del paziente.
La ventricolografia sinistra viene eseguita di routine in corso di cateterismo cardiaco sinistro. Essa prevede
l’introduzione in ventricolo per via retrograda di un catetere particolare, denominato “pig-tail”, in quanto
presenta all’estremità distale un ricciolo che ricorda il codino del suino, ed è dotato di diversi fori a questo
livello. La specifica conformazione del catetere permette l’agevole introduzione nella camera cardiaca -
senza risultare traumatico per le pareti cardiache e quindi evitando di stimolare l’insorgenza di aritmie
ventricolari – e l’adeguata opacizzazione della stessa mediante iniezione di circa 40-50 ml di mezzo di
contrasto radiopaco ad alta velocità ed in pochi secondi (Figura 4). In tal modo è possibile osservare le
dimensioni del ventricolo sinistro, la contrazione ed il rilasciamento delle pareti e l’eventuale presenza di
insufficienza della valvola mitrale, evidenziabile come rigurgito sistolico di mezzo di contrasto in atrio
sinistro attraverso la valvola. In soggetti con dilatazione/disfunzione ventricolare sinistra, la ventricolografia
mette in evidenza la ridotta contrattilità generalizzata (Figura 5) o segmentaria.
La coronarografia viene eseguita portando a livello del piano valvolare aortico cateteri con curve
preformate all’estremità distale che permettono l’incannulazione selettiva dell’ostio coronario destro e
sinistro. Successivamente vengono iniettati pochi millilitri di mezzo di contrasto all’interno della coronaria e
viene registrato il riempimento e successivo svuotamento della coronaria (Figura 6, Figura 7, Figura 8). In
genere, vengono utilizzate diverse proiezioni radiografiche (oblique anteriori destre e sinistre, craniali e
caudali), ruotando il tubo radiogeno attorno al paziente, al fine di visualizzare le coronarie epicardiche
principali e le loro ramificazioni lungo tutto il loro decorso.
E’ quindi possibile mettere in evidenza stenosi a carico delle arterie coronarie (Figura 9). [Da Figura 4 a
figura 9 sono tutti video]

INDICAZIONI

Il cateterismo cardiaco viene effettuato per determinare la natura e l’estensione di un sospetto problema
cardiaco in un paziente nel quale si intenda effettuare un intervento chirurgico o una terapia interventistica
percutanea. Tale metodica serve anche per escludere patologie significative in presenza di risposte
equivoche ad altri esami non invasivi, quali test da sforzo o ecocardiogramma, oppure quando, in un
paziente fortemente sintomatico, l’acquisizione di una diagnosi definitiva sia rilevante ai fini del
trattamento. Il cateterismo cardiaco permette di:
• misurare direttamente le pressioni intravascolari (circolo arterioso sistemico e polmonare) ed
intracavitarie a livello della sezione destra e sinistra del cuore;
• visualizzare con mezzo di contrasto radiopaco sia i grossi vasi che le cavità cardiache, in particolare il
ventricolo sinistro, al fine di valutare la funzione contrattile globale, e la cinetica regionale del ventricolo e
la continenza valvolare aortica e mitralica.
La misurazione diretta dei gradienti transvalvolari è fondamentale nella valutazione dei pazienti con
valvulopatia: le Figura 11.10 e Figura 11.11 illustrano i tracciati pressori registrati in caso di stenosi aortica e
stenosi mitralica.
Anche dopo l’introduzione della TC coronarica, la coronarografia continua ad essere l’unica metodica in
grado di definire in maniera accurata la gravità e l’estensione della coronaropatia: è pertanto esame
essenziale nella valutazione dei pazienti per i quali venga presa in considerazione la rivascolarizzazione, sia
essa percutanea (angioplastica coronarica) o chirurgica (mediante intervento di by-pass aorto-coronarico).
Le Figura 6, Figura 7, Figura 8, e Figura 9 mostrano quadri coronarografici normali e con stenosi
significative.

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100 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 11.10 Registrazione della curva pressoria aortica (traccia azzurra - Ao) e ventricolare sinistra (traccia rossa - VS) con
dimostrazione del gradiente sistolico transvalvolare aortico in un paziente con stenosi aortica. Sono indicati il gradiente istantaneo
di picco (massima differenza di pressione tra ventricolo sinistro ed aorta quando le pressioni sono registrate nello stesso momento),
il gradiente picco-picco (differenza tra la massima pressione in ventricolo e la massima pressione in aorta) ed il gradiente medio
(area verde: integrale della differenza pressoria tra ventricolo sinistro ed aorta durante la sistole.

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101 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 11.11 Registrazione della curva pressoria atriale sinistra (traccia azzurra –AS, in genere ottenuta attraverso la pressione
capillare polmonare) e ventricolare sinistra (traccia rossa - VS) con dimostrazione del gradiente diastolico transvalvolare mitralico in
un paziente con stenosi mitralica. La pressione in atrio sinistro è superiore a quella in ventricolo sinistro in diastole, determinando un
gradiente pressorio (area verde)

CONTROINDICAZIONI, RISCHI E COMPLICANZE

Il cateterismo cardiaco è una procedura relativamente sicura, ma trattandosi di una tecnica invasiva, si
associa ad un rischio di morbilità e mortalità ben definito.
Esiste una sola controindicazione assoluta all’esecuzione di un cateterismo cardiaco: la presenza di
apparecchiature e personali non adeguati alla procedura. Le seguenti rappresentano controindicazioni
relative: sanguinamento acuto gastrointestinale con anemizzazione, diatesi emorragica incontrollata,
anticoagulazione efficace (INR>2), alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico (in particolare l’ipopotassimeia,
che predispone alle aritmie), infezioni e febbre, intossicazione da farmaci (ad esempio: digitale,
fenotiazina), gravidanza, recente evento cerebrovascolare (< 1 mese), insufficienza renale, scompenso
cardiaco instabile, ipertensione arteriosa non controllata, aritmie, paziente non collaborante.
Uno studio prospettico di 5 anni condotto nel 1968 riportava un’incidenza cumulativa di complicanze
(incluse: perforazione cardiaca, aritmie maggiori, emorragie, ipotensione severa, trombosi vascolare, ictus
embolico, infarto miocardico e morte) nei pazienti di tutte le età pari al 3.6%. Successivamente, il
miglioramento progressivo delle tecniche, l’esperienza sempre maggiore degli operatori e l’uso di cateteri
più flessibili e di mezzi di contrasto meno nefrotossici, ha determinato una riduzione notevole
dell’incidenza di complicanze, permettendo un’applicazione sempre più estesa di questa tecnica
diagnostica al fine di ottenere una precisa diagnosi anatomo-funzionale cardiovascolare in vista di
un’indicazione terapeutica.
Le complicanze legate al cateterismo cardiaco si possono distinguere in maggiori e minori. Le prime hanno
un’incidenza globale approssimativamente del 0.1-0.2% e sono elencate di seguito, con incidenza media
indicata tra parentesi: morte (0.11%), infarto miocardico acuto (0.05%), evento ischemico cerebrale
(0.07%), tachicardia o fibrillazione ventricolare o aritmie maligne (0.38%), complicanze vascolari (0.43%),
reazioni al mezzo di contrasto (0.37%), complicanze emodinamiche (0.26%), perforazione delle camere
cardiache (0.03%). Le complicanze minori si osservano in circa il 4% dei pazienti sottoposti a cateterismo
cardiaco; le più comuni sono le lievi reazioni vaso-vagali (ipotensione arteriosa e bradicardia transitorie,
secondarie alla puntura vasale ed all’uso di mezzo di contrasto) e gli episodi di angina che durano meno di
10 minuti.

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102 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 12
DIAGNOSTICA VASCOLARE
Alberto Balbarini, R. Di Stefano

INTRODUZIONE

La diagnostica vascolare può essere classificata in modi diversi, sulla base di molteplici criteri, fra cui i
seguenti:

 Diagnostica invasiva o non invasiva.


 Diagnostica di primo livello per lo screening e diagnostica di secondo livello più sofisticata o complessa,
per approfondimento o ricerca.
 Diagnostica per lo studio del flusso a riposo o per lo studio emodinamico.

A monte di ogni scelta sul tipo di esame, devono essere note le informazioni che si possono ottenere, oltre
che il rapporto costo/beneficio, in modo da richiedere indagini di secondo livello solo quando ne esista la
reale indicazione.
L’approccio diagnostico vascolare verrà presentato separatamente per i seguenti distretti :
- Distretto Carotideo
- Distretto Periferico
- Microcircolo

DIAGNOSTICA VASCOLARE DEL DISTRETTO CAROTIDEO

Le principali metodiche utilizzate nella diagnostica della malattia carotidea sono:

 L’ ecografia color Doppler


 l’ angioTC
 l’ angioRNM

La diagnostica invasiva viene attuata solo su casi selezionati, mediante arteriografia. Per il distretto
carotideo la metodica diagnostica ottimale dovrebbe fornire dati affidabili sulla sede della placca, sulla
composizione istologica (emorragia, fibrosi, contenuto lipidico) e la morfologia (superficie liscia o ulcerata).
Nella realtà clinica nessuna metodica è in grado di fornire allo stesso tempo e con la stessa precisione tutte
queste informazioni.

ECOCOLORDOPPLER
E’ la metodica di riferimento che consente, eventualmente in associazione a studio angio TC o angio RNM e
a Doppler transcranico, di pianificare interventi chirurgici di correzione di stenosi emodinamiche senza la
necessità di ricorrere ad una arteriografia preoperatoria.
La metodica eco Doppler si basa sull’utilizzo di un trasduttore posizionato con angolo di 90° a livello
cutaneo che agisce sia da trasmittente di emissioni di ultrasuoni che da ricevente degli echi trasmessi
originati dalle varie interfacce che vengono elaborati e convertiti in punti luminosi in grado di ricostruire
l’immagine anatomica del vaso o le caratteristiche della placca da analizzare.
Il colore permette di determinare l’orientamento spaziale del flusso e la relazione spaziale tra quest’ultimo
e le strutture anatomiche è visualizzata in tempo reale .
Tutti i sistemi color Doppler codificano la direzione del flusso in due colori, rosso e blu: la direzione del

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103 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

flusso in avvicinamento al trasduttore è codificata in rosso, quella in allontanamento in blu. La metodica


color, utilissima nella localizzazione spaziale dei flussi e nella determinazione diretta di alcune patologie,
non fornisce, però, una stima accurata della velocità. Per la determinazione della velocità è preferibile
ricorrere alla modalità B-mode (che codifica le strutture secondo una scala di grigi), utilizzando il Doppler
pulsato dove, mediante un cursore, viene selezionato un campione di circa 1-2mm³ all’interno del vaso ed
eseguita un’analisi spettrale per la determinazione del flusso.
La caratterizzazione ecografica della stenosi carotidea prevede l’analisi combinata del segnale Doppler
(velocità di picco sistolica e diastolica in corrispondenza della stenosi) e dell’ imaging bidimensionale: dallo
studio del segnale Doppler possiamo avere informazioni sull’entità della stenosi e le sue ripercussioni
emodinamiche; l’imaging bidimensionale consente di valutare, in maniera analoga all’angiografia, la
percentuale di stenosi lineare o planimetrica determinata dalla placca (Figura 12.1).

Figura 12.1 Placca carotidea dell’origine dell’arteria carotide interna destra: rilievo angiografico ed ECD

Se l’ indagine ecografica è la metodica di prima scelta per discriminare l’ entità della stenosi (percentuale),
la localizzazione (carotide comune, interna o esterna) e l’estensione, altri parametri importanti che
rendono la placca instabile, ovvero ad elevato rischio di eventi clinici, sono di più difficile acquisizione. I
principali parametri che sono risultati correlati all’ instabilità della placca sono :
- irregolarità di superficie o ulcerazione
- abbondante componente lipidica
- emorragia.
Questi dati sono oggi acquisibili con tecniche diagnostiche ecografiche più sofisticate, di secondo livello,
basate sull’ analisi densitometrica della placca ottenuta con l’ acquisizione della scala dei grigi ( back-
scattering ) .

ANGIO TC
La metodica angio TC, in particolare la TC spirale che consente di ottenere immagini tridimensionali ad alta
risoluzione, ha una sua particolare sensibilità e specificità nell’ identificare le percentuale di stenosi
superiori al 70% per il distretto carotideo extracranico e soprattutto per la diagnosi delle occlusioni.
Un’altra peculiarità della angio TC è la capacità di identificare eventuali ulcerazioni della placca con una

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104 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

sensibilità e specificità che supera il 90%.

ANGIO RNM
La risonanza, analogamente alla TC , trova indicazione nella diagnostica della stenosi carotidee nei casi in
cui l’ ecografia risulti dubbia. Rispetto all’ angio TC, offre il vantaggio di non richiedere l’uso di mezzo di
contrasto iodato e di avere una sensibilità nell’ identificare le stenosi superiori al 70 %.

DIAGNOSTICA VASCOLARE DEL DISTRETTO PERIFERICO

La diagnostica vascolare non invasiva nel paziente con sospetta arteriopatia periferica si basa sull’utilizzo
degli ultrasuoni, che coprono da soli gran parte della diagnostica vascolare anche in questo distretto. L’
arteriografia mantiene un ruolo fondamentale nei pazienti per i quali, sulla base dei dati eco -Doppler, si
ritenga indicato un intervento di rivascolarizzazione chirurgica.

ECOGRAFIA COLOR DOPPLER


La diagnostica ecografica è finalizzata a individuare :
-dilatazioni aneurismatiche
-compressioni estrinseche
-alterazioni di parete (stenosi ,occlusioni) comprese le valutazioni sulle caratteristiche della placca, come
già detto per il distretto carotideo e con gli stessi limiti già descritti
-trombi endoluminali

Anche per il distretto periferico l’ esame ecodoppler ha dei limiti tra cui la difficoltà, determinata da
rapporti anatomici, ad esplorare alcuni tratti dell’asse arterioso, come ad esempio il distretto di gamba
specialmente nei pazienti diabetici o con stenosi multiple, o la difficoltà legata alla presenza di “coni d’
ombra” che accompagnano placche calcifiche fortemente ecogene rendendo l’ area non esplorabile.
Tuttavia per la maggior parte delle placche o stenosi l’ indagine ecocolordoppler costituisce la metodica di
prima scelta, fornendo dati analoghi a quelli dell’ arteriografia (Figura 12.2).

Figura 12.2 Placca carotidea dell’origine della arteria carotide interna destra: rilievo angiografico ed ECD

ABI (Ankle/brachial index ) o indice di Winsor

In condizioni fisiologiche la pressione sistolica agli arti inferiori è maggiore di quella rilevabile agli arti
superiori, con valori che oscillano fra 12±8 mm Hg e 24±9 mm Hg. In presenza di una stenosi che restringa il

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105 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

vaso per almeno il 50% , si ha distalmente un calo pressorio determinato dalla riduzione compensatoria
delle resistenze periferiche. Per primo Winsor propose di registrare in contemporanea i valori pressori della
caviglia e del braccio, ottenendo un rapporto che in condizioni di normalità è uguale o maggiore di 1 (Figura
12.3).
L’ ABI costituisce il più rapido esame diagnostico per lo screening e il follow up di pazienti con arteriopatia
obliterante degli arti inferiori. Il limite fondamentale è dato dalla impossibilità di valutare arterie
incomprimibili per sclerosi calcifica della media, quale si ha ad esempio nei pazienti diabetici o con
insufficienza renale grave, e le lesioni emodinamicamente non significative a riposo che sono diagnosticabili
solo con opportuni tests da sforzo.

Figura 12.3 Calcolo indice di Winsor

Treadmill Test

Il test viene eseguito per valutare la presenza di stenosi che non sono rilevabili a riposo. L’ esercizio
determina, infatti, una dilatazione dei vasi di resistenza ed un aumento di flusso a livello muscolare: in
condizioni normali, per la presenza di basse resistenze a livello delle grandi arterie non si verificano
fenomeni di furto dalle zone più distali dell’ arto, mentre in presenza di un’occlusione o di una stenosi
emodinamicamente significativa il flusso muscolare dopo esercizio è ostacolato dalle alte resistenze
presenti nel circolo collaterale e dalla dilatazione arteriolare distale alla lesione.
L’ esame prevede la determinazione dell’ABI in condizioni di riposo e immediatamente dopo un periodo di
deambulazione a velocità ed inclinazione costante su un treadmill sino alla comparsa di claudicatio o per un
tempo definito; la misurazione dell’ ABI viene eseguita fino al recupero dei valori basali. Al termine dello
sforzo la pressione arteriosa nell’ arto superiore aumenta, nell’ arto inferiore in cui è presente una
arteriopatia scende per poi tornare ai valori basali. Il test da sforzo ha la sua indicazione quando esiste un
sospetto clinico non confermato dai valori di ABI a riposo o per valutare il peso funzionale di una lesione.

DIAGNOSTICA DEL MICROCIRCOLO

La valutazione della microcircolazione cutanea si basa su metodiche che consentono una valutazione
diretta, di tipo morfologico, della rete capillare (capillaroscopia), oppure una valutazione indiretta, di

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106 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

natura metabolica (tensiometria transcutanea di O2 e CO2 ) o funzionale (flussimetria laser-doppler).


Queste metodiche rivestono un ruolo nella diagnostica dei pazienti affetti dai gradi più severi di
arteriopatia, in particolare quelli con ischemia critica cronica che presentano dolore a riposo, necrosi
cutanee e gangrena

Capillaroscopia

La capillaroscopia consente uno studio selettivo del circolo nutrizionale che costituisce circa il 10 % del
flusso cutaneo, responsabile delle lesioni trofiche.
La capillaroscopia si basa sull’ utilizzo di uno stereomicroscopio collegato ad un sistema di rilevazione dell’
immagine. I distretti normalmente esplorati sono la piega ungueale, la cute e la congiuntiva bulbare.
In condizioni normali, il capillare studiato a livello della plica ungueale assume un aspetto a “forcina”, con
una parete arteriosa e una venosa ben distinguibili; le anse capillari sono di colorito roseo, parallele e
separate da spazi regolari. In condizioni patologiche si possono avere variazioni di numero, caratteristiche e
distribuzione (Figura 12.4).

Figura 12.4 Capillaroscopia: immagine delle anse capillari allo stadio II di Leriche-Fontaine

Tensione transcutanea di Ossigeno (TCpO2) e di Anidride Carbonica (TCpCO2)

Lo studio del plesso cutaneo più profondo sub papillare, destinato alla funzione termoregolatoria,
viene eseguito con paziente a riposo, in posizione supina, in ambiente a climatizzazione controllata, sia in
condizioni basali che dopo stress provocativi.
Nata dall’osservazione che nei neonati è possibile misurare le variazioni dell’ossigenazione in maniera
incruenta tramite sensori applicati sulla cute, la metodica è stata applicata in angiologia grazie alla messa a
punto di un elettrodo polarografico (elettrodo di Clark) che permette di eseguire misurazioni continue dell’
ossigeno.
Nelle arteriopatie, la TCpO2 valuta in modo non invasivo le conseguenze tissutali delle alterazioni
macrocircolatorie. In clinica la misurazione ossimetrica viene eseguita con sensore riscaldato a 44C°
posizionato sul I spazio intermetatarsale del piede sintomatico. Nel paziente con ischemia critica cronica i
valori ossimetrici , rilevati al piede sintomatico , non superano rispettivamente i 10 e 45 mmHg in posizione
supina e declive.
Negli ultimi anni si è resa possibile anche la misurazione della concentrazione transcutanea di anidride
carbonica , mediante un sensore combinato per O2 e CO2 e questo parametro costituisce un più sensibile
indicatore di acidosi metabolica indotta dal danno ischemico .

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107 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Flussimetria Laser Doppler

La flussimetria laser Doppler è una metodica per lo studio funzionale del microcircolo basata sull’utilizzo
dell’ effetto doppler. E’ una tecnica in atto più idonea ai fini di ricerca che clinici.

Capitolo 13
MALATTIA REUMATICA
Luigi Meloni, Massimo Ruscazio

DEFINIZIONE

La malattia reumatica è un processo morboso infiammatorio multifocale, a patogenesi autoimmune, che si


manifesta in seguito ad un’infezione faringea da streptococco emolitico del gruppo A. La malattia interessa
principalmente le articolazioni, il cuore, il sistema nervoso centrale, la cute e il sottocutaneo. Il 50 % circa
dei pazienti colpiti dalla malattia reumatica sviluppa negli anni un danno cardiaco permanente,
responsabile delle varie forme di valvulopatia reumatica cronica.

EPIDEMIOLOGIA

L’incidenza della malattia reumatica è diminuita drasticamente nei paesi industrializzati grazie soprattutto
alle migliorate condizioni socio-economiche e alla disponibilità della penicillina per il trattamento della
faringite streptococcica. La malattia è ancora presente in forma endemica nei paesi in via di sviluppo e tra
le popolazioni in cui sussistono condizioni ambientali e socio-sanitarie sono precarie (povertà,
malnutrizione, eccessivo affollamento, insufficiente prevenzione ed assistenza sanitaria).
Sebbene possa interessare tutte le fasce di età, la malattia reumatica colpisce principalmente i bambini e gli
adolescenti. La prevalenza della valvulopatia reumatica, al contrario, aumenta con l’età e raggiunge un
picco tra i 25 e i 34 anni.

PATOGENESI

La faringo-tonsillite da streptococco emolitico del gruppo A, non adeguatamente trattata con antibiotici, è
l’evento che precipita la malattia reumatica.
Sebbene l’esatto meccanismo che associa l’infezione streptococcica alla flogosi reumatica sia ancora
incerto, la malattia reumatica è comunemente considerata il risultato di una esagerata risposta immunitaria
alle componenti antigeniche dello streptococco. Le similitudini molecolari e immunologiche tra gli antigeni
batterici e i tessuti dell’organismo (mimetismo antigenico) sarebbero poi responsabili della successiva
risposta crociata di tipo autoimmune che scatena l’attacco acuto di malattia reumatica (Figura 13.1).
L’interesse nei confronti della patogenesi autoimmune è riemerso recentemente con la dimostrazione che
diversi antigeni della superficie batterica condividono affinità strutturali con le componenti tessutali degli
organi e dei sistemi coinvolti nella malattia reumatica. L’acido ialuronico contenuto nella capsula dello
streptococco possiede una struttura chimica identica a quella dell’acido ialuronico presente nel tessuto
articolare dell’uomo. Un’altra componente della parete cellulare dello streptococco, la N-
acetilglucosamina, si ritrova in alte concentrazioni nelle valvole cardiache; gli anticorpi diretti contro la
proteina-M della membrana cellulare batterica interagiscono anche con la miosina cardiaca; altre proteine
umane, la vimentina (tessuto sinoviale) e la cheratina (tessuto cutaneo), mostrano una reattività crociata
con la proteina-M streptococcica. Infine, esistono evidenze a sostegno dell’affinità strutturale tra gli
elementi somatici dello streptococco e alcune componenti del tessuto nervoso dell’uomo (gangliosidi).
Pertanto, i principali quadri clinici associati alla malattia reumatica sarebbero espressione di un danno
infiammatorio locale, indotto da una abnorme risposta immunologica di tipo crociato.

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108 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 13.1

ANATOMIA PATOLOGICA

Sul versante istopatologico, la fase acuta della malattia si caratterizza per una reazione essudativa e
proliferativa del tessuto connettivo. La cardite reumatica è una vera e propria pancardite perché interessa
l’endocardio, il miocardio e il pericardio. Nel miocardio si osserva edema ed infiltrazione cellulare del
tessuto interstiziale con frammentazione delle fibre collagene (miocardite). Successivamente, nella fase
proliferativa compaiono i noduli di Aschoff (Patologia 07), lesioni granulomatose patognomoniche della
malattia, riscontrabili anche nelle valvole cardiache e nel pericardio. La flogosi
reumatica dei foglietti pericardici (pericardite) è di tipo sierofibrinoso e si risolve, solitamente, senza
complicazioni. La componente più significativa del danno cardiaco è l’infiammazione delle valvole cardiache
(valvulite), responsabile della manifestazione clinica più importante dell’attacco acuto di malattia
reumatica, l’insufficienza valvolare. La valvulite reumatica colpisce prevalentemente la valvola mitrale e la
valvola aortica, raramente la valvola tricuspide e quasi mai la valvola polmonare. Il tessuto valvolare è
interessato da edema ed infiltrazione cellulare. Si possono osservare piccole formazioni verrucose sulla
superficie valvolare, in prossimità delle aree di coaptazione dei lembi valvolari (Patologia 40). Il processo
cicatriziale della valvulite porta lentamente, negli anni, a fibrosi dei lembi e a fusione delle commissure e
delle corde tendinee, a cui corrispondono sul piano funzionale stenosi o insufficienza valvolare
(valvulopatia reumatica).
Pertanto, il coinvolgimento del cuore durante la fase attiva della malattia reumatica (cardite reumatica),
deve essere distinto dal danno valvolare residuo che fa seguito alla risoluzione dell’episodio acuto
(valvulopatia reumatica).

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109 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Patologia 07. Granuloma di Aschoff nel miocardio in soggetto con miocardite reumatica.

Patologia 40. Endocardite reumatica:

-valvulite verrucosa tipica;

-istologia delle vegetazione trombotica antibatterica.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

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110 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Dal quadro clinico della malattia emergono 5 elementi fondamentali per la diagnosi: la cardite,
la poliartrite, lacorea, l’eritema marginato e i noduli sottocutanei. Questi elementi possono presentarsi
singolarmente o in combinazione tra loro e costituiscono nel loro insieme i
cosiddetti criteri maggiori di Jones. Altri reperti, come la febbre, le artralgie, la positività dei test
ematochimici di flogosi acuta, l’allungamento dell’intervallo P-R all’ECG, sono considerati invece
manifestazioni minori della malattia (Tabella I).

Secondo lo schema proposto da Jones, la presenza di 2 manifestazioni maggiori oppure di una


manifestazione maggiore e 2 minori in un paziente con evidenza di infezione streptococcica recente
(positività del tampone faringeo, titolo antistreptolisinico elevato) indica un’alta probabilità di malattia
reumatica acuta.
Il periodo di latenza tra la faringite streptococcica e l’inizio dei sintomi varia da 1 a 5 settimane. Nel 75 %
dei casi, la febbre e la poliartrite rappresentano i segni clinici iniziali dell’attacco di malattia reumatica.
L’artrite interessa prevalentemente le grandi articolazioni degli arti (ginocchia, gomiti, polsi e anche) in
modo asimmetrico e migrante, risponde prontamente all’aspirina e si risolve senza reliquati. A differenza
dell’artrite reumatoide, sono risparmiate le piccole articolazioni delle mani e dei piedi. Al quadro clinico
della poliartrite si sovrappone spesso quello della cardite, e in generale la gravità dei sintomi articolari è
inversamente proporzionale all’interessamento cardiaco: nei pazienti con forme gravi di artrite, le
manifestazioni cliniche della cardite tendono ad essere attenuate e viceversa.
La cardite, presente nel 50% circa dei pazienti con malattia reumatica acuta, è associata quasi sempre ad un
soffio cardiaco secondario alla valvulite. Il reperto ascoltatorio più frequente è un soffio olosistolico apicale,
ad alta frequenza, irradiato all’ascella, indicativo di un’insufficienza della valvola mitralica. Il soffio
dell’insufficienza valvolare aortica, se presente, si associa quasi sempre a quello dell’insufficienza mitralica.
Quest’ultima rappresenta pertanto l’elemento clinico più caratteristico della cardite reumatica.
Le ripercussioni emodinamiche della valvulite sono di entità variabile. Nelle forme più gravi di insufficienza
mitralica, compaiono i segni e i sintomi dello scompenso cardiaco. Più spesso, gli effetti acuti della valvulite
sono poco rilevanti sul piano clinico, e talora può essere difficile, all’ascoltazione cardiaca, cogliere i segni
delle lesioni valvolari. In questi casi, l’indagine ecocardiografica, coadiuvata dall’esame color Doppler, può
essere utile per confermare il sospetto di malattia reumatica.
Gli sfregamenti pericardici e il rilievo ecocardiografico di versamento pericardico documentano la presenza
della pericardite. L’interessamento flogistico del tessuto miocardico (miocardite) e del pericardio
(pericardite) non compare mai isolatamente, ma è sempre associato alle manifestazioni della valvulite.

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111 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Pertanto, un quadro clinico di pericardite o di miocardite con disfunzione sistolica del ventricolo sinistro
difficilmente potrà avere una patogenesi reumatica se l’ascoltazione cardiaca e l’ecocardiogramma
escludono la presenza di un’insufficienza della valvola mitrale o aortica.
La corea, secondaria all’interessamento flogistico del sistema nervoso centrale, è la terza manifestazione
clinica della malattia reumatica (15-30 % dei casi). Chiamata anche corea di Sydenham o ballo di San Vito,
esordisce più tardivamente, quando le altre manifestazioni della malattia sono scomparse o in via di
risoluzione, e si caratterizza per la presenza di movimenti irregolari e involontari, senza finalità, che
scompaiono con il sonno e con la sedazione. I sintomi neurologici hanno una durata variabile e, in genere, si
risolvono spontaneamente.
Le manifestazioni cutanee della malattia reumatica sono decisamente più rare (meno del 10% dei casi).
I nodulisottocutanei compaiono a distanza di diverse settimane dalla cardite, si localizzano in
corrispondenza delle articolazioni principali e delle prominenze ossee, sono indolori, mobili e si risolvono
spontaneamente. L’eritemamarginato è un rash cutaneo caratterizzato da margini rosati e serpiginosi che
circoscrivono aree centrali di aspetto normale. Si osserva prevalentemente sul tronco e sulle porzioni
prossimali degli arti, migra da una sede all’altra e non risponde alla terapia antinfiammatoria.

ESAMI DI LABORATORIO

La diagnosi di malattia reumatica è spesso non facile, non solo per la variabilità del quadro clinico, ma
anche per la mancanza di un test diagnostico sicuro e definitivo.
Gli indici di flogosi appaiono costantemente alterati nella fase acuta della malattia. La velocità di
eritrosedimentazione (VES) e la proteina-C reattiva (PCR) sono marcatori affidabili, ma aspecifici, della
risposta autoimmune e dell’infiammazione associata alla cardite o alla poliartrite.
In tutti i casi di sospetta malattia reumatica è indispensabile documentare, ai fini diagnostici, una recente
infezione streptococcica (vedi criteri di Jones). I test più utilizzati sono la ricerca di anticorpi diretti contro
alcune componenti dello streptococco (streptolisina O, desossoribonucleasi B) e l’esame colturale faringeo
(tampone faringeo).
La positività del tampone faringeo deve essere interpretata con cautela perché molti individui normali
possono ospitare streptococchi del gruppo A nelle vie aeree superiori. D’altra parte, la negatività
dell’esame colturale non permette di escludere in modo assoluto un episodio antecedente di infezione
streptococcica. L’aumento del titolo anticorpale antistreptococcico, specie se progressivo, è invece un
reperto provvisto di maggiore affidabilità nell’evidenziare una recente infezione streptococcica. A tal
proposito, giova ricordare che il titolo antistreptolisina O (ASLO) e antidesossiribonucleasi aumenta entro 1
mese dall’inizio dell’infezione streptococcica, raggiunge un plateau per 3-6 mesi, quindi si riduce
progressivamente.
Oltre alla tachicardia sinusale, l’ECG può mostrare un blocco atrioventricolare di primo grado, secondario
all’infiammazione dei tessuti perinodali. Il blocco atrioventricolare, riconoscibile in base all’allungamento
dell’intervallo P-R, non è, da solo, diagnostico di cardite reumatica (Tabella I), non influisce sulla prognosi
né predice lo sviluppo di sequele valvolari (valvulopatia reumatica).

DECORSO E PROGNOSI

La malattia si risolve spontaneamente entro 3 mesi dall’esordio acuto. Sebbene siano stati descritti casi
isolati di edema polmonare acuto fulminante, la mortalità della fase acuta è bassa e la prognosi dipende
fondamentalmente dalla gravità delle lesioni valvolari che fanno seguito al primo episodio della malattia
reumatica e/o alle recidive.
La malattia reumatica tende a recidivare. I pazienti che hanno sofferto di un precedente attacco di malattia
reumatica e che sviluppano successivamente nuovi episodi di faringite streptococcica sono ad alto rischio di
una recidiva della malattia. L’infezione streptococcica ricorrente, specie se sostenuta da ceppi virulenti,

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112 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riattiva la risposta autoimmune dell’organismo, favorendo così l’instaurarsi o il peggioramento del danno
anatomico valvolare (Figura 13.1).

CENNI DI TERAPIA E PREVENZIONE

Non esiste un trattamento specifico della malattia reumatica. Gli agenti anti-infiammatori sopprimono
rapidamente il dolore articolare e altri segni e sintomi della flogosi acuta, ma non curano la malattia né
prevengono la sua successiva evoluzione. Anche la terapia antibiotica con penicillina, obbligatoria nella fase
acuta per sradicare l’infezione streptococcica, non modifica il decorso dell’attacco acuto della malattia
reumatica né impedisce lo svilupparsi della cardite.
L’aspirina ad alte dosi è indicata nella poliartrite acuta, mentre l’impiego dei corticosteroidi è riservato ai
casi con cardite grave complicata da insufficienza cardiaca.

PREVENZIONE
La prevenzione primaria della malattia reumatica acuta si identifica nella diagnosi precoce e nel
trattamento antibiotico della faringo-tonsillite streptococcica. Il trattamento antibiotico se tempestivo e
mirato (penicillina) elimina quasi completamente il rischio di malattia reumatica.
La prevenzione secondaria è rivolta agli individui che hanno già avuto un attacco documentato di malattia
reumatica acuta o che soffrono di recidive dopo un’infezione streptococcica. Il caposaldo è rappresentato
dalla profilassi antibiotica continua delle recidive di infezione streptococcica, potenzialmente capaci di
innescare nuovi attacchi di malattia reumatica. La profilassi antimicrobica continua è necessaria perché il
trattamento antibiotico di una nuova infezione streptococcica, anche se ottimale, non protegge il paziente
con precedenti anamnestici di malattia reumatica dal rischio di una recidiva reumatica.
Lo schema terapeutico più efficace è costituito dalla benzilpenicillina somministrata in dose singola per via
intramuscolare ogni 4 settimane. La durata della profilassi antibiotica deve essere adattata nel singolo
paziente a seconda del rischio di recidiva. Il rischio di ricorrenze reumatiche diminuisce con l’aumentare
dell’età e con l’aumentare del tempo trascorso dall’ultimo attacco. I pazienti che non sviluppano la cardite
durante il loro primo attacco sono meno esposti al rischio di recidive reumatiche, e quando queste si
verificano hanno minori probabilità di manifestare una cardite. I pazienti che hanno sviluppato una cardite
nel corso dell’attacco acuto sono invece ad alto rischio di recidiva di cardite, con possibilità di ulteriore
danno valvolare in occasione di ogni ricorrenza (Figura 13.1).

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113 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 14
STENOSI MITRALICA
Giuseppe Oreto, Francesco Saporito

DEFINIZIONE

La stenosi mitralica è una malattia caratterizzata da alterazioni della valvola mitrale (fusione e retrazione
delle corde, ispessimento e adesione dei lembi) con esito in riduzione dell'area valvolare. La valvola
stenotica rappresenta un ostacolo al passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro, per cui la
pressione atriale sinistra aumenta, e tale aumento si riflette a monte sul circolo polmonare, ed infine sul
ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La malattia reumatica rappresenta la più importante e pressoché l'unica causa di stenosi mitralica. Per
quanto, infatti, esistano forme congenite di stenosi mitralica, i casi ad eziologia non reumatica sono
talmente rari da risultare trascurabili ai fini pratici. La malattia reumatica consegue ad infezione da
streptococco ß-emolitico del gruppo A, agente responsabile di infezioni spesso localizzate nelle tonsille;
qualche settimana dopo l’inizio del processo infettivo compaiono, nelle forme tipiche, manifestazioni
infiammatorie a carico di numerosi organi, comprendenti le grandi articolazioni, il cuore e il rene. Tali
alterazioni non dipendono da localizzazione dello streptococco negli organi bersaglio, ma conseguono ad
un processo autoimmunitario del quale il germe è solo l’avviatore. Il cuore viene solitamente interessato in
toto, e si manifesta un’endocardite associata spesso a miocardite e pericardite.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il reperto anatomico prevalente durante la fase acuta dell'endocardite reumatica è rappresentato da piccoli
noduli verrucosi osservabili lungo la linea di chiusura dei foglietti, sul versante atriale di essi. Queste
formazioni infiammatorie scompaiono con la risoluzione del processo carditico, ed occorrono diversi anni
prima che si determinino le alterazioni caratteristiche della stenosi mitralica. Al danno valvolare iniziale
consegue un'alterazione del flusso transvalvolare, che determina nel tempo ispessimento, fibrosi, saldatura
e calcificazione dei lembi e dell'apparato sottovalvolare. In altri termini, la lesione reumatica iniziale avvia
un processo automatico di lenta e graduale alterazione della valvola; il trauma provocato dal flusso
turbolento rappresenta verosimilmente il principale responsabile delle lesioni evolutive.
La valvola mitrale stenotica presenta corde fuse e retratte, mentre i foglietti sono ispessiti e parzialmente
aderenti fra loro; nella maggior parte dei casi coesistono calcificazioni sia dei lembi che delle corde (Figura
14.1, Patologia 08, Patologia 09). L'area valvolare, che nel normale misura da 4 a 6 cm2, è più o meno
significativamente ridotta sia per l'adesione dei foglietti che per l'obliterazione dei cosiddetti «orifici
secondari» (gli spazi compresi fra le corde tendinee), conseguente alla fusione delle corde. Nel complesso,
la valvola stenotica ha un aspetto a imbuto con la base rivolta verso l'atrio, che si presenta dilatato e spesso
sede di trombi, particolarmente a livello dell'auricola. Le vene polmonari sono dilatate e possono coesistere
alterazioni ostruttive delle arteriole polmonari, caratterizzate da iperplasia della media e dell'intima. In
diversi casi si rileva dilatazione del ventricolo e dell'atrio destro, e segni di stasi venosa sistemica cronica,
particolarmente a carico del fegato. Queste modificazioni conseguono all'ipertensione polmonare, che
induce sovraccarico e dilatazione del ventricolo destro, insufficienza tricuspidale, ed infine scompenso
congestizio.

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114 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 14.1 Valvola mitrale con stenosi reumatica: si osservi la grave riduzione dell’orifizio per fusione delle commissure nonché
l’ispessimento e la calcificazione dei lembi. (Immagine gentilmente concessa dal Prof. Gaetano Tiene)

Patologia 08. Stenosi mitralica da valvulopatia reumatica cronica. Si noti l’ispessimento dei lembi e la fusione delle commessure con
focale trombosi dell’endocardio valvolare e apparato sottovalvolare pressoché indenne.

Patologia 09. Stenosi mitralica da valvulopatia reumatica cronica valvolare e sottovalvolare:

-rappresentazione schematica della fusione dell’apparato sottovalvolare mitralico;

-corrispondente immagine anatomica.

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115 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

FISIOPATOLOGIA

Quando l'area valvolare mitralica si riduce, la progressione del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro è in
qualche modo ostacolata. Per consentire un normale riempimento ventricolare durante la diastole diventa
allora necessario un aumento della pressione atriale, così che il sangue riesca a passare dall'atrio al
ventricolo nonostante l'impedimento rappresentato dalla valvola stenotica. Nel normale non esiste alcuna
differenza significativa fra la pressione diastolica del ventricolo sinistro e quella vigente in atrio sinistro
(Figura 14.2 A ). Il flusso diastolico atrioventricolare, infatti, avviene senza un'apprezzabile differenza di
pressione fra le due camere perché la valvola mitrale normale non offre alcuna resistenza alla progressione
del sangue. Nella stenosi mitralica, invece, si realizza per tutta la fase diastolica un gradiente di pressione
fra atrio e ventricolo sinistro, ed è in virtù di questo gradiente che il flusso può essere mantenuto (Figura
14.2 B ).

Figura14. 2 Curve pressorie simultanee nell’atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione normale) non è
presente alcun gradiente pressorio, durante la diastole, fra l’atrio e il ventricolo, mentre in B” (Stenosi mitralica) la pressione atriale
è aumentata, ed è presente un gradiente atrio-ventricolare (area grigia) per tutta la durata della diastole.

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116 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’entità del gradiente transvalvolare dipende da due fattori: l'area mitralica e la velocità del flusso
attraverso la valvola. Quanto minore è la superficie valvolare e quanto maggiore è la velocità del flusso,
tanto più elevato sarà il gradiente. L'area valvolare misura nel normale da 4 a 6 cm2; la riduzione di essa
fino a 2,5 cm2 non comporta alterazioni emodinamiche di rilievo. In rapporto all'entità della riduzione
dell'area valvolare, si definisce la stenosi lieve quando l’area è compresa tra 2,5 e 1,5 cm2, moderata se
l’area è tra 1,5 e 1 cm2, e severa (serrata) se l'area è minore di 1 cm2.
La velocità del flusso attraverso la valvola è in relazione diretta con la portata cardiaca e la frequenza.
Aumentando la portata, infatti, una maggior quantità di sangue deve attraversare l'orificio valvolare
nell'unità di tempo, per cui è richiesta una maggiore velocità di flusso. Anche la tachicardia incrementa la
velocità di flusso, poiché aumentando la frequenza cardiaca si riduce la durata della diastole, cioè il tempo
disponibile per il passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo.*
Più è breve il periodo diastolico, maggiore deve essere la velocità del flusso per permettere ad una
determinata quantità di sangue di attraversare l'ostio valvolare stenotico.
L’aumento della pressione atriale sinistra genera un incremento pressorio a monte, cioè in tutte le sezioni
del circolo polmonare: vene, venule, capillari, arteriole, arterie. L’anello più debole di questa catena è il
capillare; quando la pressione s’incrementa oltre 25 mm Hg, viene superata la capacità che le proteine
plasmatiche hanno di trattenere i fluidi all’interno del vaso (pressione oncotica), e inizia la trasudazione: il
liquido invade dapprima l’interstizio polmonare e successivamente l’alveolo, generando disturbi respiratori
che vanno dalla dispnea da sforzo fino all’edema polmonare acuto.
In molti soggetti con stenosi mitralica lieve o moderata, la pressione nell’arteria polmonare non è di solito
molto elevata a riposo, e l'incremento di essa è direttamente correlato all'aumento della pressione
capillare: poiché il capillare non sopporta pressioni >25 mm Hg (valori più alti si accompagnano a sintomi
evidenti), in arteria polmonare si riscontrerà una pressione non maggiore di 35-40 mm Hg (Figura 14.3 A ).
In alcuni pazienti, invece, la pressione in arteria polmonare è nettamente più alta di quanto ci si
aspetterebbe in base alla pressione atriale sinistra. Il motivo di ciò è che si realizza un incremento delle
resistenze precapillari (arteriolari) polmonari, per cui l'ipertensione arteriosa che ne deriva è molto
maggiore di quella richiesta per generare il gradiente transvalvolare mitralico (Figura 14.3 C ): in casi del
genere non è impossibile riscontrare in arteria polmonare pressioni elevate fino a 100 mm Hg o più. In una
fase precoce della malattia, questa ipertensione polmonare dipende da vasocostrizione delle arteriole
polmonari, ed è perciò un fenomeno funzionale, ma successivamente consegue ad alterazioni anatomiche
obliterative del letto vascolare polmonare (vasculopatia polmonare).
Lo sviluppo dell'ipertensione polmonare modifica il quadro della stenosi mitralica: un eccessivo carico di
pressione grava sul ventricolo destro, che non è assuefatto a lavorare contro elevate resistenze, e per
sopperire al maggior lavoro si ipertrofizza e quindi si dilata. Alla dilatazione ventricolare consegue
insufficienza tricuspidalica, dilatazione dell'atrio destro e congestione venosa sistemica. In questa
situazione, la presenza di un significativo ostacolo al deflusso ventricolare destro (aumento delle resistenze
precapillari) riduce la portata cardiaca, ed impedisce il raggiungimento di una pressione capillare troppo
elevata. Di conseguenza il paziente andrà incontro meno facilmente a dispnea da sforzo ed edema
polmonare acuto (fenomeni dipendenti dall'ipertensione capillare), mentre prevarranno i segni della
ridotta gittata (astenia) e le manifestazioni della stasi venosa sistemica (turgore giugulare, epatomegalia,
edemi declivi, ascite).

(* La durata della fase sistolica è pressoché fissa (intorno a 0,3 secondi) e indipendente dalla frequenza
cardiaca. Perciò per una frequenza cardiaca di 60 al minuto ciascun ciclo cardiaco dura 1 secondo (0,3
secondi di sistole e 0,7 secondi di diastole): la durata complessiva della diastole sarà, perciò, 0,42 secondi.
Se la frequenza si raddoppia (120/m’) ciascun ciclo durerà 0,5 secondi (0,3 secondi di sistole e 0,2 di
diastole), per cui la durata della diastole sarà 0,24 secondi.)

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117 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 14.3 Regime pressorio nelle varie sezioni dell’apparato cardiocircolatorio in condizioni normali (A), nella stenosi mitralica (B)
e nella stenosi mitralica con vasculopatia polmonare (C). Nello schema B la valvola mitrale è fortemente ispessita e aumenta la
pressione in atrio sinistro e nel circolo polmonare. Nello schema C coesistono alterazioni obliterative del letto vascolare polmonare
(ispessimento della parete delle arteriole) che induce aumento della pressione arteriosa polmonare.

SINTOMI

I più precoci e più evidenti sintomi legati alla stenosi mitralica sono quelli determinati dalla congestione
polmonare: dispnea da sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare acuto. Tutte
queste manifestazioni dipendono da ipertensione capillare polmonare, con trasudazione di liquido
nell’interstizio e negli alveoli. Quando la capacità del sistema linfatico di drenare il trasudato diventa
insufficiente, si determina la congestione polmonare. La compliance polmonare è allora ridotta, ed il lavoro
respiratorio aumenta, cosicché il soggetto va incontro a dispnea, particolarmente quando si trova in
posizione supina. La trasudazione massiva di liquido negli alveoli provocata da un improvviso aumento della
pressione capillare è responsabile dell'edema polmonare; questa manifestazione viene spesso scatenata da
incremento della portata e/o della frequenza cardiaca (fibrillazione atriale parossistica, malattie febbrili
acute, interventi chirurgici, gravidanza, etc.).
Un altro sintomo con cui può presentarsi la stenosi mitralica è l'emoftoe, la quale dipende da ipertensione
nelle vene bronchiali: le comunicazioni fra sistema venoso polmonare e sistema venoso bronchiale fanno sì
che l'aumento pressorio nelle vene polmonari si rifletta anche sulle vene bronchiali, nelle quali possono
determinarsi piccole dilatazioni, la cui rottura produce emissione attraverso la bocca di sangue proveniente
dalle vie respiratorie. La congestione delle vene bronchiali, con la conseguente iperemia della mucosa
bronchiale è anche responsabile dell'iperproduzione di muco, da cui deriva la suscettibilità alla bronchite
dei pazienti con stenosi mitralica.
Il decorso della malattia è pressoché inevitabilmente caratterizzato dall'insorgenza della fibrillazione
atriale. L'aritmia consegue alla dilatazione dell'atrio sinistro ed alle alterazioni strutturali della parete
atriale, consistenti in un aumento del connettivo fino alla fibrosi. La disorganizzazione della muscolatura

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118 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

atriale che ne deriva si traduce in disomogeneità dei periodi refrattari: un impulso prematuro in fase
vulnerabile può, perciò, scatenare la fibrillazione atriale. L'aritmia può avere inizialmente andamento
parossistico, e in questo caso è responsabile di palpitazioni, ma poi diviene cronica. L'insorgenza della
fibrillazione atriale è legata alle dimensioni dell'atrio sinistro, e dipende anche dall’età: l'aritmia è più
frequente quando l'atrio è dilatato e nei pazienti in cui la malattia data da maggior tempo.
Alla fibrillazione atriale è legata un'altra fra le manifestazioni cliniche caratteristiche della stenosi mitralica:
l'embolia sistemica, la quale consegue a formazione di trombi parietali in atrio sinistro, specialmente
nell’auricola, con successiva immissione di materiale trombotico nel circolo sistemico. L'embolia non è
correlata con la gravità della stenosi, potendosi osservare anche nelle forme lievi, e rappresenta a volte la
prima manifestazione della malattia. Nel 50-75% dei casi la localizzazione dell'embolo è nelle arterie
cerebrali.

SEGNI CLINICI

I pazienti con stenosi mitralica rilevante e bassa portata cardiaca possono presentare la cosiddetta «facies
mitralica», caratterizzata da cianosi alle labbra con rossore ai pomelli. L'esame obiettivo del cuore è assai
caratteristico nei casi tipici, ed il quadro ascoltatorio comprende 1° tono forte, schiocco d'apertura
mitralico, soffio (rullio) diastolico (Figura 14.4 A); in presenza di ipertensione polmonare non lieve, la
componente polmonare del secondo tono può essere aumentata d’intensità. Il soffio diastolico consegue
alla turbolenza del flusso transvalvolare, determinata dall’ostacolo che la valvola stenotica rappresenta; si
tratta di un soffio a bassa frequenza, che viene denominato “rullio” perché ricorda lontanamente il rullare
di un tamburo. Nei soggetti a ritmo sinusale il rullio presenta un rinforzo presistolico che manca nei pazienti
in fibrillazione atriale (Figura 14.4 B).Il rinforzo del soffio è dovuto all’aumento del flusso transvalvolare
causato in telediastole dalla contrazione dell’atrio; poiché nella fibrillazione atriale l’attività meccanica
dell’atrio è praticamente assente, con l’insorgenza dell’aritmia scompare il rinforzo presistolico del soffio
della stenosi mitralica. Tuttavia, alcuni o anche tutti i segni ascoltatori caratteristici della stenosi mitralica
possono non essere apprezzabili: il segno ascoltatorio più importante per la diagnosi clinica di stenosi
mitralica è lo schiocco d'apertura, che si caratterizza per la cronologia protodiastolica, il timbro a tonalità
elevata, la sede di ascoltazione alla punta ed al mesocardio.
Nei pazienti con scompenso del ventricolo destro, infine, si manifestano i caratteristici segni della
congestione venosa sistemica, rappresentati da edemi declivi, epatomegalia, ascite, idrotorace, ecc.

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119 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 14.4 Quadro ascoltatorio nella stenosi mitralica. A: Ritmo sinusale. B: Fibrillazione atriale. I: primo tono. II: secondo tono.
A2: componente aortica del secondo tono. P2: componente polmonare del secondo tono. SAM: schiocco d’apertura della mitrale.
Rullio: soffio diastolico.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi mitralica l'Elettrocardiogramma mostra i segni dell'ingrandimento atriale sinistro,
fra i quali spicca l’onda P bifida, con durata aumentata ( 0.11 sec) (Figura 14.5);nei soggetti con
ipertensione polmonare si può anche riscontrare il quadro elettrocardiografico dell'ipertrofia ventricolare
destra.

Figura 14.5 Elettrocardiogramma


caratteristico di stenosi mitralica. Le onde P sono bifide in II derivazione e in V2, mentre in V1 la P è difasica positivo/negativa con
componente negativa ampia e rallentata. Il quadro è indicativo di ingrandimento atriale sinistro (Vedi Capitolo…).

L'esame radiologico fornisce una serie di elementi caratteristici, fra i quali particolarmente importanti sono
i segni di ingrandimento dell'atrio e dell'auricola sinistra, e quelli che testimoniano le modificazioni del
circolo polmonare. L'Ecocardiografia ha rivoluzionato la diagnostica della stenosi mitralica:
l'ecocardiogramma bidimensionale permette non solo un'accurata valutazione dell’anatomia e del
movimento valvolare (Figura 6, Figura 7), ma anche lo studio dell'apparato sottovalvolare ed il calcolo
dell'area mitralica; l'ecocardiogramma Doppler (Figura 8) fornisce dati emodinamici riguardanti sia il
gradiente pressorio attraverso la valvola che l'area valvolare, ed anche informazioni indirette sulla
pressione polmonare; l’ecocardiogramma tridimensionale, di recente introduzione, consente una visione
quasi «anatomica» della mitrale; l’ecocardiogramma transesofageo, eseguito collocando il transduttore
nell’esofago, in immediata prossimità del cuore, senza l’interposizione del tessuto polmonare, che rende
difficile il passaggio degli ultrasuoni, consente di studiare la morfologia valvolare nei dettagli e di analizzare
anche parti del cuore di difficile approccio con la tecnica transtoracica. Nei pazienti con stenosi mitralica,
l’esplorazione transesofagea può svelare la presenza di trombi in atrio, particolarmente nell’auricola,
elemento che riveste grande rilevanza clinica perché è associato ad elevato rischio di embolia
sistemica. Il cateterismo cardiaco fornisce numerosi dati fisiopatologici, in particolare l’area valvolare, il
gradiente transvalvolare (Figura 14.2), e la pressione polmonare; questi parametri, tuttavia, possono essere
ottenuti anche attraverso metodiche non invasive, per cui in molti pazienti, soprattutto giovani, il
cateterismo cardiaco non è indispensabile per stabilire l'indicazione all'intervento, e neppure per
determinare il tipo di intervento da preferire. Il cateterismo conserva, tuttavia, ancora un ruolo molto

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120 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

importante nei pazienti con stenosi mitralica, per la possibilità di eseguire una valvuloplastica
tranacatetere.

[Note: le figure 6, 7, 8 sono dei video]

CENNI DI TERAPIA

Il trattamento dei pazienti con stenosi mitralica può essere farmacologico, interventistico* chirurgico.
La terapia farmacologica della stenosi mitralica si basa sui seguenti principi: 1) profilassi delle recidive di
reumatismo; 2) prevenzione delle embolie sistemiche; 3) terapia della fibrillazione atriale; 4) mantenimento
di una frequenza ventricolare accettabile in presenza di fibrillazione atriale cronica; 5) terapia dei disturbi
legati alla congestione venosa polmonare.
La profilassi delle recidive di reumatismo prevede la somministrazione prolungata di antibiotici e
antinfiammatori. La prevenzione delle tromboembolie sistemiche va effettuata nei pazienti con atrio
sinistro dilatato e in tutti quelli con fibrillazione atriale. I farmaci di scelta sono gli anticoagulanti orali
dicumarolici.
Se insorge la fibrillazione atriale, è opportuno tentare di ripristinare il ritmo sinusale somministrando
farmaci antiaritmici, o, in alternativa, con la cardioversione elettrica. Restaurato il ritmo sinusale, si può
eventualmente proseguire un trattamento profilattico a lungo termine con farmaci antiaritmici, per evitare
finché possibile le recidive dell'aritmia. Se l’insorgenza della fibrillazione non è recentissima, la
cardioversione deve essere preceduta da una valutazione dell'atrio sinistro, e in particolare dell’auricola,
mediante ecocardiografia transesofagea, perché la presenza di trombosi atriale controindica qualunque
manovra volta a convertire la fibrillazione, per il rischio che, al ripristino del ritmo, si verifichi un’embolia.
Se la fibrillazione data da diversi giorni o mesi, è necessario un lungo periodo di anticoagulazione (almeno 1
mese) prima di procedere alla cardioversione.
Nei pazienti con fibrillazione atriale cronica è spesso necessaria una terapia volta a mantenere una
frequenza cardiaca non troppo elevata; per questo scopo viene spesso utilizzata la digitale, oppure i ß-
bloccanti o i calcioantagonisti. Questi farmaci aumentano il periodo refrattario del nodo A-V, diminuendo la
risposta ventricolare alla fibrillazione atriale, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli.
In casi particolari, nei quali risulti impossibile ottenere con i farmaci un accettabile controllo della frequenza
ventricolare, si può eseguire l’ablazione del nodo A-V associata all’impianto di un pacemaker ventricolare.
L’ablazione si ottiene erogando, attraverso un apposito elettrocatetere, energia a radiofrequenza in
corrispondenza del nodo: l’energia aumenta la temperatura del tessuto, provocando una lesione
irreversibile cui consegue il blocco A-V; l’attivazione dei ventricoli diviene così indipendente da quella degli
atri, governata solo dal pacemaker artificiale o da un segnapassi di scappamento posto a valle del blocco.
Un particolare intervento di ablazione transcatetere può anche essere eseguito con lo scopo di abolire il
substrato che sottende lo scatenamento e il mantenimento della fibrillazione atriale.
I sintomi legati a congestione polmonare (dispnea, ortopnea, edema polmonare acuto) vanno trattati con i
diuretici e la limitazione dell’apporto dietetico di sodio. I pazienti che presentano questi disturbi, tuttavia,
sono quasi sempre in III classe funzionale NYHA, per cui vanno quasi sempre avviati alla terapia chirurgica o
alla valvuloplastica percutanea. Questo intervento si esegue inserendo nell’atrio destro attraverso la vena
femorale un catetere con palloncino: dopo puntura del setto interatriale, eseguita con apposito ago, il
catetere viene spinto per via transettale in atrio sinistro ed attraversa la valvola mitrale, in maniera tale che
il palloncino si trovi a cavallo della valvola. Gonfiando quindi ripetutamente il palloncino per brevi periodi si
esercita sui lembi della valvola stenotica una pressione sufficiente a separarne i foglietti, fusi in
corrispondenza delle commissure, così da ridurre significativamente l’ostacolo al flusso ematico.
La stenosi mitralica può essere corretta chirurgicamente sia mediante un intervento conservativo
(commissurotomia) che sostituendo la valvola con una protesi. La commissurotomia viene ormai eseguita in
circolazione extracorporea e sotto visione diretta, mentre l’intervento “a cielo coperto”, che si esegue

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121 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

senza arrestare il cuore, è una procedura ormai non più impiegata.

(*Il trattamento interventistico prevede un intervento, cioè un’azione volta a modificare l’anatomia o lastrut
tura del cuore; l’intervento viene, però, eseguito senza ricorrere alla chirurgia tradizionale, ma agendosull’or
gano attraverso cateteri introdotti nel sistema vascolare e guidati fino al cuore sotto controlloradioscopico
o ecografico.)

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122 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 15
INSUFFICIENZA MITRALICA
Paolo Marino

DEFINIZIONE

L’insufficienza mitralica è una malattia caratterizzata da perdita della coordinata azione di una o più delle
componenti (anulus, lembi valvolari, corde tendinee, muscoli papillari) dell’apparto valvolare, con esito in
imperfetto collabimento dei lembi in sistole. La valvola insufficiente comporta un reflusso di sangue, in
sistole, dal ventricolo all’atrio sinistro, capace di causare aumento della pressione atriale dipendente dalla
quantità di sangue rigurgitato e dalle caratteristiche fisiche della parete atriale. Se l’aumento della
pressione atriale non viene compensato da un corrispondente aumento di volume dell’atrio, l’ipertensione
si riflette a monte sul circolo polmonare ed infine sul ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La degenerazione mixomatosa della valvola (nota anche con il termine di prolasso valvolare mitralico, vedi
più avanti) rappresenta la causa più frequente di insufficienza mitralica. Essa provoca incontinenza poiché i
lembi valvolari allungati e ridondanti protrudono eccessivamente all’interno dell’atrio sinistro durante la
sistole ventricolare, piuttosto che opporsi reciprocamente come fanno normalmente. La malattia
coronarica rappresenta un’altra causa importante di insufficienza mitralica, poiché può generare
disfunzione temporanea o permanente di un muscolo papillare, interferendo con la chiusura valvolare.
L’endocardite infettiva può causare insufficienza mitralica poiché l’infezione può indurre perforazione
valvolare o rottura delle corde infette. Anche la malattia reumatica rientra nell’eziopatogenesi
dell’insufficienza mitralica, se si accompagna ad eccessivo accorciamento e retrazione delle corde. Infine la
cardiomiopatia ipertrofica, malattia caratterizzata da un’abnorme ed asimmetrica ipertrofia ventricolare
(vedi Capitolo…), provoca una ostruzione dinamica endoventricolare cui corrisponde imperfetta chiusura
valvolare e significativa insufficienza mitralica.
Anche la significativa dilatazione ventricolare, comunque generata, può causare insufficienza mitralica
funzionale attraverso 2 meccanismi che interferiscono con la chiusura dei lembi valvolari: 1) la separazione
spaziale tra i due muscoli papillari è aumentata e 2) l’anulus mitralico è sovradisteso. Altra causa di
insufficienza mitralica è la calcificazione dell’anulus, che immobilizza la porzione basale dei lembi valvolari,
interferendo con la loro normale escursione e la coaptazione sistolica.

ANATOMIA PATOLOGICA

Nel prolasso valvolare mitralico le cuspidi sono iperdistese e le corde allungate. Nelle forme più gravi c’è
espansione dei lembi che assumono conformazione cupoliforme (Patologia 10). Vista dal lato atriale, la
valvola con degenerazione mixomatosa dimostra un variabile interessamento delle cuspidi: nella maggior
parte dei casi sono coinvolti uno o più segmenti del lembo posteriore o, meno frequentemente, entrambi i
foglietti. L’esame istologico rivela la sostituzione della struttura fibrosa con tessuto mixomatoso, ricco di
mucopolisaccaridi acidi e mastociti. La rottura delle corde (Patologia 11), nei pazienti affetti da insufficienza
mitralica, può essere il risultato dell’eccessivo stress meccanico a cui le stesse sono sottoposte (come nel
caso della degenerazione mixomatosa dei lembi) o la conseguenza di un insulto infettivo, come
nell’endocardite (Vedi Capitolo 34, Patologia 12). In questo caso, si possono anche notare lembi perforati e
frastagliati, con frequenti formazioni vegetanti. La calcificazione anulare rappresenta un’altra condizione
causa di insufficienza mitralica, con un’incidenza che tende ad aumentare con il crescere dell’età del
soggetto, ma che raramente si manifesta, macroscopicamente, prima dei 70 anni. La dilatazione anulare è
un’altra delle cause di insufficienza mitralica. Tale fenomeno può essere primario o secondario a condizioni
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123 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

di sovraccarico volumetrico. Infine, nei pazienti con un grave deficit ventricolare sinistro, il rigurgito
mitralico può essere presente indipendentemente dallo sfiancamento valvolare o da alterazioni dell’anulus.
In questi casi, la conformazione globosa del ventricolo sposta l’asse di trazione dei muscoli papillari rispetto
alle cuspidi (Figura 15.1); la correzione del deficit ventricolare comporta il recupero della conformazione
fisiologica che, a sua volta, ripristinando il normale asse di trazione, risolve il rigurgito.

Patologia 10. Insufficienza mitralica da degenerazione mixoide con prolasso dei lembi. Si noti la ridondanza del tessuto valvolare
(visione dall’altrio sinistro).

Patologia 11. Insufficienza mitralica da degenerazione mixoide con rottura spontanea di corde tendinee. Si notino il flail della
scallop centrale del lembo murale e le corde rotte (visione dall’atrio sinistro)

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124 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Patologia 12. Insufficienza mitralica acuta da endocardite infettiva ulcero-vegetante:

-rappresentazione schematica che evidenzia la perforazione e la rottura delle corde tendinee;

-reperto anatomico con ampia perforazione del lembo posteriore mitralico;

-evidenza di germi Gram positivi nella vegetazione settica.

Figura 15.1 Dilatazione del ventricolo sinistro, che assume una configurazione globosa, a causa della quale l’asse di trazione dei
muscoli papillari si sposta rispetto alle cuspidi, inducendo insufficienza mitralica.

FISIOPATOLOGIA

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125 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Nell’insufficienza mitralica una frazione della gittata sistolica è eiettata, in via retrograda, nella cavità
atriale, la quale è una camera a bassa pressione (Figura 15.2). La gittata anterograda in aorta, perciò, risulta
minore della gittata ventricolare, costituita dalla somma della gittata anterograda normale più quella,
patologica, retrograda. All’insufficienza mitralica consegue un incremento della pressione e del volume
atriale sinistro, una riduzione della gittata anterograda in aorta ed un sovraccarico di volume ventricolare
poiché in diastole il volume rigurgitato ritorna in ventricolo assieme al sangue refluo proveniente dai
polmoni. Per far fronte alla normale domanda ed espellere il volume addizionale, la gittata sistolica
ventricolare aumenta grazie al meccanismo di Frank-Starling dove l’aumentato stiramento miofibrillare,
causato dall’aumentato volume ventricolare in diastole, determina un aumento del volume eiettato.
Ovviamente, la conseguenza emodinamica dell’insufficienza mitralica varia a seconda della severità del
rigurgito e dalla sua durata nel tempo. La gravità del rigurgito dipende dalla dimensione dell’orifizio
rigurgitante in sistole e dal gradiente di pressione sistolico tra atrio e ventricolo sinistro. La frazione di
rigurgito nell’insufficienza mitralica è definita dal rapporto tra il volume rigurgitante e la gittata ventricolare
totale, rapporto che dipende, a sua volta, dall’entità delle resistenze periferiche che si oppongono flusso
anterogrado e dalla compliance dell’atrio sinistro. Ad esempio, l’ipertensione o la presenza di una
coatazione aortica aumenterà la frazione di rigurgito. L’entità dell’incremento della pressione atriale
sinistra in risposta al volume rigurgitante dipende dalla compliance atriale sinistra (la compliance è una
misura della relazione tra volume e pressione endocavitaria, definibile come variazione di volume per una
data variazione in pressione). Nell’insufficienza mitralica acuta (dovuta, ad esempio, all’improvvisa rottura
di una corda) la compliance atriale sinistra subisce un’improvvisa riduzione. Questo è dovuto al fatto che
l’atrio sinistro è una camera relativamente rigida, e quando si determina improvvisamente il rigurgito
l’aumento del volume atriale si realizza solo attraverso un importante incremento della sua pressione
endocavitaria (Figura 15.3). Questo aumento in pressione contribuisce a prevenire l’ulteriore incremento
del rigurgito. Va detto però che l’elevata pressione atriale sinistra si trasmette alla circolazione polmonare,
provocando rapida congestione fino all’edema. Nell’insufficienza mitralica acuta la curva pressoria atriale
sinistra o dei capillari polmonari (stima indiretta della pressione atriale sinistra), mostra
un’onda v prominente, la quale riflette l’aumentato riempimento atriale sinistro che si realizza, in modo del
tutto anomalo, durante la sistole ventricolare (Figura 15.3). Nell’insufficienza mitralica cronica il ventricolo
accomoda il sovraccarico volumetrico grazie al meccanismo di Starling, come sopra accennato. L’aumento
di volume ventricolare genera un aumento compensatorio della gittata sistolica, in modo da far sì che alla
fine della sistole il volume ventricolare sinistro si mantenga entro valori normali, almeno fino a che il cuore
mantiene il compenso, oltre ad un incremento delle pressioni di riempimento. Lo svuotamento sistolico del
cuore sinistro è favorito dal fatto che il cuore stesso può “sfiatare” in una cavità a bassa impedenza, e cioè
l’atrio, rispetto alla grande resistenza offerta dall’aorta. Diversamente che nella forma acuta, lo sviluppo
graduale dell’insufficienza mitralica cronica consente all’atrio sinistro di andare incontro a modificazioni
compensatorie che attenuano l’effetto del rigurgito sul circolo polmonare. La compliance atriale, infatti,
aumenta grazie alla proliferazione parietale, e consente all’atrio di accogliere un volume aumentato di
sangue senza un corrispettivo aumento di pressione. In questo modo l’effetto sulla pressione polmonare
viene ad essere in parte neutralizzato, benché l’atrio rischi di diventare una sorta di serbatoio a bassa
pressione dove gran parte del volume eiettato si accumula. In tale processo di cronicizzazione, con
l’aumentare del grado di rigurgito, i sintomi lamentati dal paziente passano da quelli dettati dalla
congestione polmonare a quelli legati alla bassa portata. La progressiva, cronica dilatazione dell’atrio
predispone, inoltre, allo sviluppo della fibrillazione atriale.Nell’insufficienza mitralica cronica anche il
ventricolo, così come l’atrio, va incontro ad una graduale dilatazione compensatoria in risposta al
sovraccarico di volume. Rispetto all’insufficienza mitralica acuta l’aumentata compliance ventricolare
accomoda il sovraccarico volumetrico pur mantenendo delle pressioni relativamente normali. Nel corso
degli anni, però il sovraccarico cronico induce un progressivo deterioramento della funzione sistolica, con la
comparsa, in fase terminale, di un quadro di insufficienza ventricolare sinistra.

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126 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 15.2 Nel soggetto normale, la valvola mitrale è continente e tutta la gittata ventricolare sinistra si dirige in aorta.
Nell’insufficienza mitralica moderata la gittata anterograda (in aorta) e quella retrograda (in atrio) sono pressoché equivalenti,
mentre nell’insufficienza mitralica severa il volume rigurgitante eccede la gittata anterograda.

Figura 15.3 Curve pressorie simultanee nell’atrio (in azzurro) e nel ventricolo sinistro (in rosso). In A (condizione normale) l’onda v è
modesta, mentre in B, in presenza di insufficienza mitralica acuta, si osserva un’onda c+v molto ampia, che corrisponde ad una
pressione atriale di circa 70 mmHg.

SINTOMI

I pazienti con insufficienza mitralica acuta si presentano generalmente con sintomi di congestione
polmonare. I sintomi dell’insufficienza mitralica cronica, invece, sono prevalentemente quelli della bassa
portata, particolarmente durante lo sforzo. I soggetti nei quali la funzione contrattile tende a scadere
lamentano dispnea fino all’ortopnea ed alla dispnea parossistica notturna. Nell’insufficienza mitralica
cronica grave possono comparire anche i sintomi legati all’insufficienza ventricolare destra.

SEGNI CLINICI

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127 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Nell’insufficienza mitralica, l’ascoltazione del cuore rivela un soffio olosistolico apicale (soffio da
rigurgito, Figura 15.4) che si irradia generalmente all’ascella sinistra, anche se questa regola riconosce
molte eccezioni. Oltre al soffio sistolico, la presenza di un III tono è frequente nell’insufficienza mitralica
rilevante, così come il poter palpare un itto lateralizzato a causa dell’ingrandimento cardiaco.

Figura 15.4 Soffio sistolico da rigurgito nell’insufficienza mitralica. In B è anche presente il III tono.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

L’ECG tipicamente dimostra segni di ingrandimento atriale sinistro ed ipertrofia ventricolare sinistra (vedi
Capitolo 3); anche la radiografia del torace può mostrare l’ingrandimento delle camere cardiache sinistre, e
a volte rivela calcificazioni anulari. L’ecocardiogramma può rivelare la causa strutturale dell’insufficienza
mitralica e graduarne la severità mediante l’impiego del Color-Doppler (ECO 06), ed anche mettere in luce
sia la dilatazione atriale e ventricolare che l’ipercinesia delle pareti ventricolari. (->video)
Il cateterismo cardiaco è utile per identificare una causa ischemica di insufficienza mitralica e per graduarne
la severità. La caratteristica alterazione emodinamica è rappresentata dalla presenza, nella curva di
pressione atriale, di una onda v, la cui ampiezza dipende dall’entità del rigurgito e dalla compliance
dell’atrio (Figura 15.3).

PROLASSO VALVOLARE MITRALICO

Il prolasso valvolare mitralico rappresenta una condizione ereditaria nell’ambito di un disordine autosomico
dominante o può verificarsi come manifestazione cardiaca nel contesto di malattie connettivali, più
frequentemente riscontrabile nelle donne giovani, specie quelle con habitus longilineo. Esso rappresenta
una condizione frequentemente asintomatica, ma che talora può accompagnarsi a precordialgie e
cardiopalmo. Viene identificato anche con il termine della sindrome del click e del soffio mesotelesistolico.
L’apparato valvolare ridondante, messo in tensione dalla sistole ventricolare, è responsabile del click
(Figura 15.5), mentre l’incontinenza della valvola è causa del soffio che caratteristicamente occupa la
mesotelesistole.

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128 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 15.5 A: click mesosistolico del prolasso mitralico. B: il click è seguito da un soffio mesotelesistolico.

Tra le indagini strumentali è l’ecocardiografia la diagnostica più importante, e può evidenziare la


ridondanza di uno od entrambi i lembi valvolari, che prolassano in atrio sinistro durante la mesotelesistole.
A poco serve invece l’elettrocardiogramma, che risulta, così come la radiografia del torace, sostanzialmente
normale, a parte l’eventuale presenza di battiti ectopici e/o, se l’insufficienza mitralica è importante, dei
segni di ingrandimento atriale e ventricolare sinistro.
Il decorso clinico è sostanzialmente benigno, giacché la condizione non richiede trattamento specifico, a
parte la necessità della profilassi dell’endocardite batterica in caso di prolasso con rigurgito significativo od
in presenza di strutture valvolari e cordali particolarmente ridondanti ed ispessite. Tra le complicanze, oltre
alla già citata infezione della valvola, va segnalata la possibile rottura di una o più corde, con il generarsi di
una insufficienza mitralica acuta, ed il rischio tromboembolico, legato alla deposizione di piastrine sulla
superficie valvolare. Da ultimo va ricordata la possibile presenza di manifestazioni aritmiche, che raramente
mostrano carattere di malignità.

CENNI DI TERAPIA

La storia naturale dell’insufficienza mitralica è legata alla sua eziopatogenesi, con un decorso molto lento
come nel caso dell’eziologia reumatica o molto rapido come nel caso di un improvviso aggravamento di una
forma cronica a causa della rottura di una o più corde tendinee.
Lo scopo della terapia è quello di ridurre l’entità del rigurgito e di accrescere la portata anterograda,
attenuando i sintomi ed i segni di congestione polmonare e quelli legati alla bassa portata. I diuretici ed i
vasodilatatori trovano spazio nel trattamento dell’insufficienza mitralica acuta. L’uso dei vasodilatatori,
come gli inibitori del sistema renina-angiotensina è limitato, nell’insufficienza mitralica cronica, ai casi
caratterizzati da un concomitante incremento dei livelli tensivi in aorta.
L’insufficienza mitralica può subdolamente sconfinare in un quadro di scompenso cardiaco legato al
cronico, inarrestabile deterioramento della funzione contrattile associato alla persistenza del sovraccarico
di volume. La chirurgia cardiaca appare indicata prima che un tale evento possa verificarsi. A più di 30 anni
dai primi impianti valvolari, l’esatto timing dell’intervento sostitutivo valvolare mitralico nell’insufficienza

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129 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

mitralica rimane una tra le decisioni cliniche più difficili per il cardiologo clinico. Una strategia interessante
è l’atteggiamento chirurgico conservativo, capace cioè di riparare (e non sostituire) la valvola eliminando
molti dei problemi propri delle protesi valvolari (vedi Capitolo 62). Nei pazienti così trattati la sopravvivenza
postoperatoria appare nettamente migliore rispetto al paziente non operato. In generale l’intervento
riparativo appare particolarmente indicato per i pazienti giovani, con malattia degenerativa della valvola,
mentre l’intervento sostitutivo trova indicazione principalmente negli anziani, con malattia valvolare estesa
e non suscettibile di riparazione.

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130 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 16
STENOSI AORTICA
Francesco Pizzuto, Francesco Romeo

DEFINIZIONE

La stenosi della valvola aortica è il restringimento dell'orifizio valvolare conseguente a processi patologici
che colpiscono i lembi, le commissure o l'anello valvolare. La valvola ristretta ostacola lo svuotamento del
ventricolo sinistro in sistole, e rende necessario che aumenti la pressione intraventricolare perché si
instauri fra il ventricolo sinistro e l’aorta un gradiente pressorio sufficiente a garantire un normale flusso
anterogrado. Come conseguenza del sovraccarico di pressione, il ventricolo sinistro va incontro ad
ipertrofia.

EZIOLOGIA

La stenosi valvolare aortica può essere congenita ed evidenziarsi già alla nascita (vedi Capitolo 51) o
acquisita; anche in quest’ultimo caso la malattia, pur manifestandosi nell’adulto o nell’anziano, dipende a
volte da un’anomalia congenita, la valvola aortica bicuspide (Figura 16.1). La bicuspidia aortica è presente
nel 2% della popolazione, e di per sé non comporta un significativo ostacolo all'efflusso ventricolare
sinistro. I lembi valvolari anomali, tuttavia, determinano una turbolenza del flusso, che nel tempo può
provocare una fibrosi valvolare, con esito in progressivo restringimento dell’ostio. Anche la normale valvola
a tre cuspidi può andare incontro a processi degenerativi, legati soprattutto all’invecchiamento ma anche a
processi degenerativi: la stenosi aortica degenerativa (o senile) è caratterizzata dalla presenza di cuspidi
rese ipomobili dal deposito di calcio lungo le commissure (Figura 16.2).
L’eziologia reumatica della stenosi aortica è relativamente rara, ed è più frequente nei casi di un vizio
combinato mitro-aortico. La stenosi aortica reumatica risulta dall’adesione e fusione delle commissure e
delle cuspidi, con retrazione e irrigidimento dei bordi liberi e presenza su entrambe le superfici delle cuspidi
di noduli calcifici che riducono l’orificio (Figura 16.3).

Figura 16.1 Cause di stenosi aortica in rapporto all’età. L’incidenza di stenosi aortica secondaria a valvola aortica bicuspide è
maggiore al di sotto dei settanta anni, mentre la stenosi aortica su base degenerativa è maggiormente presente al di sopra dei
settanta anni (modificata da Braunwald E: A text Book of Cardiovascular Disease, 1997).

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131 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 16.2 Valvola aortica stenotica, diffusamente calcifica, asportata ad un paziente ultrasettantenne. Si noti l’estrema
calcificazione dei lembi valvolari (per gentile concessione del Prof Pietro Gallo)

Figura 16.3 Stenosi valvolare aortica post-infiammatoria. Si nota l’ispessimento delle cuspidi valvolari, associato alla presenza di
noduli di Ashoff, caratteristici della malattia reumatica (per gentile concessione del Prof Pietro Gallo).

FISIOPATOLOGIA

Il progressivo restringimento valvolare rappresenta un ostacolo all’eiezione del sangue dal ventricolo
sinistro. Per vincere questa resistenza e mantenere un flusso anterogrado normale, la pressione sistolica
nel ventricolo sinistro deve sempre superare quella presente in aorta; la differenza pressoria tra ventricolo
sinistro ed aorta, definita gradiente pressorio, è proporzionale all’entità dell'ostruzione (Figura 16.4). L’area
valvolare aortica normale nell'adulto è compresa tra 1.6 e 2.6 cm2. Quando l’ostio della valvola si riduce a
meno di un quarto del normale, il gradiente supera 50 mmHg. Il sovraccarico pressorio che grava sul
ventricolo sinistro stimola, come meccanismo compensatorio, l’ipertrofia ventricolare, e induce un
aumento più o meno marcato dello spessore delle pareti e del setto interventricolare, mentre la cavità
ventricolare non si dilata. L’ipertrofia ventricolare che si realizza in seguito al sovraccarico di pressione,

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132 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

come nella stenosi aortica, è concentrica, caratterizzata dalla replicazione dei sarcomeri “in parallelo”
all’interno della fibra, per cui questa aumenta il suo spessore ma non diviene più lunga. Al contrario, il
sovraccarico di volume quale si realizza, per esempio, nell’insufficienza aortica, induce
un’ipertrofia eccentrica, poiché i nuovi sarcomeri si dispongono “in serie” e la fibrocellula si allunga anziché
ispessirsi. Nella stenosi aortica, l’ipertrofia concentrica consente al ventricolo sinistro di compiere un
maggior lavoro, e anche di mantenere a valori quasi normali lo stress di parete.
Secondo la legge di Laplace, lo stress di parete o postcarico (omega) è uguale al prodotto della pressione
endocavitaria (P) per il raggio della cavità (r), diviso per il doppio dello spessore della parete (h), secondo la
formula:

omega=Pr/2h.
Nella stenosi aortica, il ventricolo sinistro va incontro ad un aumento dello stress di parete per aumento
della pressione, mentre l’incremento dello spessore parietale riduce lo stress e quindi il postcarico. Il
meccanismo di compenso rappresentato dall’ipertrofia, però, comporta degli svantaggi perchè:

 l’aumento della massa muscolare determina un aumento del consumo miocardico di O2;
 l’incremento della pressione endocavitaria ostacola la perfusione miocardica, esercitando un’aumentata
compressione sui vasi coronarici;
 la distensibilità (compliance) del ventricolo sinistro diminuisce, alterando il rilasciamento del ventricolo
sinistro ed ostacolandone il riempimento diastolico, che diventa pertanto sempre più dipendente dal
contributo della sistole atriale.

Lo sforzo può mettere in crisi questi precari meccanismi di compenso in quanto produce:

 un aumento del consumo di O2 da parte del miocardio, non controbilanciato da una corrispondente
aumento della perfusione miocardica, con possibile comparsa di angina;
 un notevole aumento della pressione ventricolare sinistra necessaria per mantenere il flusso richiesto
dall’esercizio muscolare, con una accentuata stimolazione dei meccanocettori ventricolari (recettori
sensibili alle variazioni dello stiramento) che possono innescare a loro volta una vasodilatazione
periferica riflessa, provocando una sincope. Un aumento del postcarico, con conseguente aumento della
pressione ventricolare sinistra sotto sforzo cosicché il ventricolo sinistro, che già in condizioni di riposo
lavora a pressioni superiori alla norma, riduce la sua funzione contrattile e non riesce ad espellere il
sangue ricevuto in diastole. Si produce così un aumento della pressione in atrio sinistro, che a sua volta
determina un aumento della pressione a monte, nel circolo polmonare, con conseguente congestione
polmonare fino all’edema polmonare.

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133 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Misurazione contemporanea della pressione in ventricolo sinistro ed in aorta ascendente, ottenuta mediante
cateterismo cardiaco. La pressione massima in ventricolo sinistro è di 220 mm Hg, la pressione massima in aorta ascendente è di
138 mm Hg. Il gradiente di picco VS-AO e di 82 mm Hg, il gradiente istantaneo massimo è di 110 mm Hg.

QUADRO CLINICO

Sintomi. Il paziente con stenosi aortica è asintomatico per molti anni, nonostante la malattia si aggravi
progressivamente. Quando la valvulopatia diviene critica compaiono i sintomi: dispnea (scompenso
cardiaco),angina e sincope. Se, da quando insorgono i sintomi, la malattia decorre non trattata, il
peggioramento è progressivo e la sopravvivenza media è 2 anni nei pazienti con scompenso, 3 nei soggetti
con sincope e 5 anni in quelli con angina.
Nella maggior parte dei casi il primo sintomo è la dispnea da sforzo, seguita eventualmente da ulteriori
manifestazioni di insufficienza ventricolare sinistra (ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema
polmonare). L’angina è presente in circa 2/3 dei casi, ed è simile a quella dei pazienti con coronaropatia,
venendo scatenata dallo sforzo e scomparendo con il riposo. La sincope insorge tipicamente
durante sforzo (per la risposta inappropriata dei barocettori del ventricolo sinistro), ma può anche essere la
conseguenza di aritmie.
Segni Fisici. La palpazione della zona precordiale può evidenziare un fremito sistolico, espressione di un
flusso aortico particolarmente turbolento, dovuto a un notevole gradiente tra ventricolo sinistro ed
aorta. L’ascoltazionerivela un soffio sistolico eiettivo con epicentro al 2° spazio intercostale destro sulla
linea marginosternale (focolaio d’ascoltazione aortico) ed irradiazione verso i vasi del collo, cioè nel senso
del flusso.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi aortica, la radiografia del torace può mostrare un allargamento del margine
sinistro dell’ombra cardiaca, dovuto all'ipertrofia del ventricolo sinistro, ma anche un ingrandimento del
primo arco di destra (dilatazione dell’aorta ascendente) e una congestione degli ili polmonari (soprattutto
nelle fasi avanzate della malattia, in presenza di scompenso cardiaco). L'elettrocardiogramma rappresenta
il test diagnostico non invasivo maggiormente utilizzato per confermare la diagnosi clinica. Il segno

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134 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

elettrocardiografico principale è l’ipertrofia ventricolare sinistra, presente nell'80% circa dei pazienti con
stenosi aortica severa (Figura 16.5). L'ecocardiogrammaintegrato (M-mode, bidimensionale e Doppler)
rappresenta il test diagnostico non invasivo più utile e completo per la valutazione dei pazienti con stenosi
aortica (Figura 16.6). Permette, infatti, di quantificare l'entità del vizio aortico, determinando sia il grado di
ipertrofia del ventricolo sinistro e la sua funzione (ecocardiografia M-mode e bidimensionale) che l'entità
del gradiente transvalvolare aortico e l'area valvolare (ecocardiografia Doppler).
Il Cateterismo Cardiaco ha rappresentato per molti decenni l’accertamento diagnostico più importante per
valutare la stenosi aortica, consentendo la misurazione di tutti i parametri utili per diagnosticare e
quantizzare la valvulopatia, come il gradiente aortico, l'area valvolare e le pressioni polmonari. Tuttavia,
l'introduzione dell'ecocardiografia Doppler ha notevolmente ridotto la necessità di ricorrere allo studio
invasivo per la valutazione della stenosi aortica, limitando il cateterismo cardiaco ai casi dubbi, oppure
quando è possibile effettuare una terapia non chirurgica della valvulopatia (valvuloplastica aortica o
impianto percutaneo di una protesi valvolare).

Figura 16.5 Elettrocardiogramma di un paziente con stenosi aortica severa: ipertrofia ventricolare sinistra (onde R alte nelle
precordiali sinistre, sottolivellamento del tratto S-T in I, II, aVL, V5, V6).

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135 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 16.6 Registrazione contemporanea del velocitogramma Doppler transaortico (ottenuto con ecocardiografia transtoracica) e
delle pressioni invasive in ventricolo sinistro (225 mm Hg) ed in aorta ascendente (160 mm Hg), registrate durante cateterismo
cardiaco. Il gradiente massimo Doppler-derivato (88 mmHg) coincide con il gradiente istantaneo massimo emodinamico (90 mm
Hg), che rappresenta il momento in cui il gradiente sistolico fra il ventricolo sinistro e l'aorta è il più elevato. Il gradiente
emodinamico picco ventricolo sinistro-picco aorta è più basso perchè il picco di pressione in aorta è più tardivo rispetto al picco di
pressione in ventricolo sinistro.

CENNI DI TERAPIA

 I pazienti con stenosi aortica asintomatica non necessitano di trattamento; nei sintomatici la
terapia è chirurgica e consiste nella sostituzione della valvola aortica con protesi meccanica o
biologica (vedi Capitolo 62). La sostituzione valvolare aortica con trattamento percutaneo (tramite
cateterismo cardiaco) è ancora in fase iniziale, e benché i risultati ottenuti finora siano
incoraggianti, necessita di ulteriori conferme ed al momento attuale viene riservata soltanto a quei
pazienti che, pur necessitando della sostituzione valvolare, non possono essere sottoposti
all’intervento chirurgico.

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136 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 17
INSUFFICIENZA AORTICA
Corrado Vassanelli
DEFINIZIONE
L'insufficienza aortica è una malattia della valvola aortica, la quale diviene incontinente per anomalie dei
lembi valvolari, delle strutture di supporto (radice aortica ed annulus) o di entrambi. Si verifica, di
conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dall'aorta al ventricolo sinistro durante la diastole.

EZIOLOGIA E ANATOMIA PATOLOGICA


L'insufficienza aortica può essere provocata da anomalie congenite dei lembi (valvola aortica bicuspide,
stenosi subaortica con difetto del setto interventricolare e prolasso di una cuspide), oppure da alterazioni di
origine infiammatoria o degenerativa, fra cui quelle determinate dalla malattia reumatica (Figura 1),
dall'endocardite infettiva (Figura 2) o dalle malattie del connettivo. I lembi valvolari, inoltre, possono essere
danneggiati da traumi chiusi della parete del torace o da lesioni da getto conseguenti a stenosi subaortica
dinamica o fissa. Le patologie dell'annulus o della radice aortica comprendono la dilatazione idiopatica della
radice aortica, l'ectasia annuloaortica, la sindrome di Marfan, la sindrome di Ehlers-Danlos, l'osteogenesi
imperfetta, la dissezione aortica, l'aortite luetica, e varie malattie del connettivo, fra cui la spondilite
anchilosante. Una valvola aortica bicuspide si accompagna spesso a dilatazione della radice aortica e a
conseguente insufficienza (Tabella I). Una causa non infrequente della malattia è la degenerazione
strutturale di una bioprotesi valvolare.
L'insufficienza aortica cronica grave, di qualsiasi eziologia, può provocare dilatazione della radice aortica,
che esita in progressivo peggioramento del rigurgito valvolare. Le cause più frequenti di insufficienza
aortica acuta (più rara, ma a prognosi peggiore) sono l'endocardite infettiva, la dissezione aortica o un
trauma chiuso del torace.

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137 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

FISIOPATOLOGIA
Le conseguenza fisiopatologiche della valvulopatia variano a seconda che il rigurgito si stabilisca
improvvisamente e sia massivo (insufficienza aortica acuta) o sia inizialmente lieve e progredisca
lentamente nel tempo. Nell'insufficienza aortica acuta grave, un notevole volume ematico di rigurgito
diastolico va a sovraccaricare improvvisamente un ventricolo sinistro di normali dimensioni, che non ha
avuto il tempo per adattarsi. L' aumento del volume telediastolico fa incrementare drammaticamente la
pressione telediastolica ventricolare sinistra e la pressione atriale sinistra: poiché la camera ventricolare
non è in grado di dilatarsi in modo compensatorio, ne consegue una riduzione della gittata sistolica
anterograda. La tachicardia riflessa, che si instaura nel tentativo di mantenere una portata cardiaca
adeguata, è spesso insufficiente, ed i pazienti possono andare incontro a edema polmonare o shock
cardiogeno. L'insufficienza aortica acuta è particolarmente mal tollerata nei pazienti con ventricolo sinistro
ipertrofico piccolo e poco distensibile, come accade quando il rigurgito consegue a dissezione aortica in
pazienti ipertesi, o ad endocardite infettiva in soggetti con stenosi aortica preesistente. Questi pazienti
possono anche manifestare segni e sintomi di ischemia miocardica, poiché si riduce la pressione di
perfusione nel letto coronarico a causa del progressivo incremento della pressione telediastolica
ventricolare sinistra, che tende a eguagliare la pressione diastolica aortica e quella coronarica.
Nell'insufficienza aortica cronica grave, il sovraccarico al ventricolo sinistro è sia di volume che di pressione.
Il ventricolo sinistro aumenta di volume perché deve accogliere non solo il sangue che proviene dalle vene
polmonari, ma anche quello che refluisce dall’aorta durante la diastole. Il sovraccarico di volume è
conseguenza della quota rigurgitante, ed è direttamente correlato alla gravità del rigurgito. Nelle fasi
precoci, il ventricolo sinistro si adatta al sovraccarico di volume con una ipertrofia eccentrica, in cui i
sarcomeri si allineano in serie ed i miofilamenti si allungano: ne consegue un incremento della forza di
contrazione, in accordo alla legge di Starling. La gittata sistolica è aumentata, e con essa la pressione
sistolica. L'ipertensione sistolica può contribuire alla progressiva dilatazione della radice aortica che a sua

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138 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

volta peggiora l'insufficienza aortica. Nelle fasi più avanzate, la progressiva dilatazione del ventricolo
sinistro può produrre una grave disfunzione ventricolare, peggiorata dalla progressiva riduzione della
distensibilità del ventricolo, causata dall’ipertrofia e dalla fibrosi.

SINTOMI
I sintomi dell'insufficienza aortica dipendono dalla velocità con cui si realizza il danno valvolare, e sono tipici
dello scompenso cardiaco sinistro. Se il rigurgito aortico si instaura acutamente, non vi è tempo perché il
ventricolo sinistro possa mettere in atto i meccanismi compensatori dell'ipertrofia e della dilatazione, per
cui l’insufficienza ventricolare sinistra si manifesta rapidamente, anche con l’edema polmonare acuto.
I pazienti con insufficienza aortica cronica, invece, sono solitamente asintomatici ed hanno una buona
tolleranza allo sforzo per anni, fino a che, con il deficit del ventricolo sinistro, compaiono dispnea da sforzo,
astenia e talora ortopnea e dispnea parossistica notturna. Il paziente può anche avvertire palpitazioni a
causa della percezione dell'attività cardiaca dovuta all'ingrandimento del ventricolo. Anche in assenza di
malattia coronarica, le aumentate richieste di ossigeno da parte del ventricolo sinistro possono causare
angina pectoris, soprattutto nelle ore notturne.

SEGNI CLINICI
L'esame obiettivo nell' insufficienza aortica cronica è caratterizzato dallo stato iperdinamico della malattia.
La pressione arteriosa sistolica è aumentata, per l’incremento della gittata sistolica ventricolare sinistra,
mentre la pressione diastolica è ridotta sia per la vasodilatazione periferica, ma soprattutto per il flusso
retrogrado verso il ventricolo sinistro; la pressione differenziale, perciò, risulta notevolmente più ampia del
normale. Queste variazioni dipendono grossolanamente dall’entità della insufficienza: si ritiene che, in
assenza di scompenso cardiaco, questo vizio valvolare sia poco significativo quando la pressione diastolica
non è <70 mm Hg.
Alla palpazione, il polso è scoccante (ampio e celere), poiché da un lato la gittata sistolica è aumentata, e
dall’altro la valvola aortica insufficiente non trattiene il sangue nel letto arterioso: l'effetto è una pulsazione
che sembra schioccare bruscamente contro le dita e scomparire altrettanto rapidamente (polso a martello
pneumatico). L'impulso apicale è ipercinetico, di ampia superficie, spesso dislocato in basso ed a sinistra
rispetto al normale.
Il rigurgito diastolico del sangue attraverso la valvola aortica provoca un soffio: poiché il flusso retrogrado è
elevato quando la pressione nella radice aortica è al suo massimo, e declina quando la pressione aortica
cade, il soffio dell’insufficienza aortica è massimo in protodiastole e quindi decresce (Figura 3). Il soffio ha
timbro dolce, aspirativo, e si ascolta meglio con il paziente seduto, durante espirazione forzata; la sua
intensità è massima lungo la parte inferiore della linea margino-sternale sinistra. La durata del soffio indica
grossolanamente la gravità della malattia: nei casi lievi esso si ascolta solo quando il gradiente tra aorta e
ventricolo sinistro è elevato, cioè in protodiastole; con l’aumentare della gravità, il soffio diventa
olodiastolico. Con la comparsa dello scompenso, poi, l'incremento della pressione telediastolica
ventricolare sinistra e il rapido calo della pressione diastolica aortica riducono il gradiente di rigurgito, e il
soffio torna ad accorciarsi. Nell'insufficienza aortica acuta, il soffio diastolico può essere addirittura assente
a causa del rapido equilibrio tra le pressioni aortica e ventricolare sinistra.
Sul focolaio aortico è rilevabile quasi sempre un soffio sistolico eiettivo, dovuto all'eccessivo flusso
anterogrado, che può mimare una stenosi aortica (Figura 3B).
Il secondo tono è di solito singolo. Un tono aggiunto eiettivo aortico (click da eiezione) può essere ascoltato
soprattutto in presenza di valvola aortica bicuspide

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139 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 13 A: soffio diastolico in decrescendo dell'innsufficienza aortica. B: al soffio diastolico si associa un soffio sistolico eiettivo, che
non è necesariamente indicativo di concomitante stenosi della valvola

DIAGNOSTICA STRUMENTALE
L'ECG mostra spesso ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da onde R alte nelle derivazioni
precordiali sinistre ed S profonde nelle destre, sottoslivellamento di ST e T invertite in I , aVL e V5-V6. (vedi
Capitolo 3). La radiografia del torace mostra cardiomegalia che, associata alla dilatazione dell'aorta
ascendente e dell'arco aortico, conferisce al cuore la caratteristica configurazione “a scarpa”.
L'esame diagnostico più importante nella valutazione dell' insufficienza aortica è l'ecocardiogramma che
permette di: 1) valutare l'anatomia dei lembi valvolari e della radice aortica, 2) rilevare la presenza e
stimare la gravità del rigurgito (con il color-Doppler) (ECO 18), 3) caratterizzare la dimensione, la massa e la
funzione del ventricolo sinistro. Il cateterismo cardiaco, l'aortografia e l'angiografia coronarica sono
raramente necessari, soprattutto nei casi acuti, e dovrebbero essere eseguiti solo quando la diagnosi non
può essere fatta altrimenti o nei pazienti con coronaropatia nota o elevata probabilità di malattia
coronarica.

ECO18

CENNI DI TERAPIA
In caso di insufficienza aortica acuta, l'intervento cardiochirurgico immediato è necessario poiché il
sovraccarico improvviso di volume è potenzialmente fatale. In questi casi la correzione chirurgica è urgente
poiché la terapia medica usuale fallisce: i vasodilatatori utilizzati per incrementare il flusso anterogrado
peggiorano l'ipotensione, l'ischemia e la disfunzione ventricolare sinistra, ed i farmaci che incrementano la
pressione aumentano le resistenze periferiche e peggiorano il rigurgito.
La terapia medica non è in grado di ridurre significativamente il volume di rigurgito nell' insufficienza

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140 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

aortica cronica grave poiché l'area di rigurgito è relativamente fissa e la pressione diastolica già bassa: una
ulteriore riduzione di questa peggiorerebbe la perfusione coronarica. L'obiettivo principale della terapia
medica è quindi quello di ridurre l’ipertensione sistolica, al fine di diminuire lo stress parietale e migliorare
la funzione del ventricolo sinistro. Per questo possono essere usati farmaci vasodilatatori quali ACE-inibitori
o calcio-antagonisti diidropiridinici (vedi Capitolo 57).
Nei pazienti con insufficienza aortica isolata cronica, la sostituzione valvolare (o a volte la plastica valvolare
) è indicata solo nei casi gravi, mentre nei soggetti sintomatici ma con insufficienza aortica lieve devono
essere escluse altre cause di disfunzione ventricolare come coronaropatia, ipertensione o cardiomiopatia. I
migliori risultati chirurgici si ottengono prima che il diametro telediastolico del ventricolo sinistro superi i 55
mm e che la frazione di eiezione scenda al di sotto del 55%.
In presenza di concomitante malattia della radice aortica, alla sostituzione valvolare dovrebbe essere
associata la ricostruzione della radice e dell'aorta prossimale se il diametro dell'aorta supera i 5.0 cm.

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Capitolo 18
MALATTIE DELLA TRICUSPIDE E DELLA POLMONARE
Ketty Savino, Sandra D'Addario, Elisabetta Bordoni, Giuseppe Ambrosio

STENOSI TRICUSPIDALE
Definizione. La stenosi tricuspidale consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un
ostacolo al passaggio del sangue dall’atrio al ventricolo destro. Si viene, perciò, a creare un gradiente di
pressione tra atrio e ventricolo, e l’aumento della pressione atriale determina una dilatazione dell’atrio
destro.
Eziologia ed anatomia patologica. La stenosi tricuspidale riconosce varie cause ma la più frequente è
la malattiareumatica (vedi Capitolo 13), una sindrome infiammatoria acuta sistemica che coinvolge
l’endocardio valvolare. In genere la malattia tricuspidale non è isolata ma si associa ad una valvulopatia
mitralica ed aortica. Gli esiti sono la fibrosi e la retrazione delle strutture coinvolte. Il quadro anatomo-
patologico ricorda quello della stenosi mitralica con fibrosi e retrazione delle cuspidi valvolari, fusione delle
commissure e delle corde tendinee.
I tumori dell’atrio destro, se di cospicue dimensioni, possono provocare un’ostruzione al flusso trans-
valvolare e simulare una stenosi tricuspidale. In questi casi la stenosi è “funzionale”, cioè non sono presenti
alterazioni dell’anatomia valvolare. La sindrome da carcinoide (vedi oltre) può determinare una stenosi
tricuspidale anche se, in genere, è causa di insufficienza valvolare.
Fisiopatologia. La riduzione dell’area valvolare tricuspidale ostacola il riempimento ventricolare destro, che
tende ad essere mantenuto normale da un aumento della pressione atriale destra. Data l’assenza di valvole
tra vene cave e atrio, l’incremento della pressione atriale si ripercuote immediatamente sul circolo cavale,
determinando un’ipertensione venosa sistemica.
Sintomi e segni clinici. La stenosi tricuspidale è in genere ben tollerata: frequentemente i pazienti adulti
sono asintomatici e la patologia viene identificata esclusivamente in base ai reperti ascoltatori. L’esame
obiettivo evidenzia i segni dell’ipertensione venosa sistemica: edemi declivi, turgore giugulare,
epatomegalia ed ascite. L’ascoltazione cardiaca è simile a quella della stenosi mitralica, caratterizzata da
schiocco d’apertura e da rullio diastolico tricuspidale (vedi Capitolo 2). A differenza di quanto si verifica
nella stenosi mitralica, i reperti acustici si ascoltano in corrispondenza del focolaio tricuspidale (IV spazio
intercostale lungo la margino-sternale destra) e si accentuano durante l’inspirazione profonda (segno di
Rivero-Carvallo). Quest’ultima caratteristica consegue all’aumento del ritorno venoso indotto
dall’inspirazione: durante tale fase, l’incrementato passaggio di sangue attraverso la valvola induce un
aumento del gradiente trensvalvolare e quindi del rullio. Altro reperto obiettivo importante è la pulsazione
della vena giugulare, soprattutto a destra, per la presenza di un’ampia onda “a” che corrisponde alla sistole
atriale (vedi Capitolo2).
Diagnostica strumentale
ECG: All’esame elettrocardiografico l’ingrandimento atriale destro si evidenzia per la presenza di onde P
ampie e appuntite nelle derivazioni II, III, aVF e V1 (vedi Capitolo 3); quando l’atriomegalia diventa severa,
insorge la fibrillazione atriale.
Rx torace: L’esame radiologico del torace evidenzia una marcata atriomegalia con prominenza del profilo
cardiaco destro (secondo arco). Diversamente da quanto si osserva nella stenosi mitralica, il tronco
polmonare è di normali dimensioni e non vi sono segni di congestione polmonare.
Ecocardiografia: L’esame bidimensionale transtoracico consente un accurato studio anatomo-funzionale
dell’apparato valvolare tricuspidale. Valuta lo spessore dei lembi, la ridotta motilità valvolare,
l’ispessimento e la retrazione delle corde tendinee e la dilatazione dell’atrio destro. L’esame color-Doppler
consente di definire la presenza e l’entità della stenosi valvolare attraverso la valutazione del gradiente
pressorio tra atrio e ventricolo destro e le variazioni del gradiente durante l’inspirazione profonda. Un
gradiente medio superiore a 5 mmHg identifica una stenosi valvolare di severa entità.

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142 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Cateterismo cardiaco: Poiché lo studio dell’emodinamica valvolare tricuspidale è fattibile con elevata
sensibilità e specificità mediante ecocardiografia, il ricorso al cateterismo cardiaco è limitato solo a pochi
casi.
Cenni di Terapia. Il trattamento del vizio valvolare è influenzato sia dall’eziologia che dalla gravità della
valvulopatia: se questa è secondaria (per esempio ad endocardite infettiva o sindrome da carcinoide) deve
essere trattata la patologia di base. Se la stenosi tricuspidale ha eziologia reumatica generalmente si associa
ad una valvulopatia mitralica, per cui l’intervento chirurgico è volto principalmente alla sostituzione
valvolare mitralica ed alla riparazione tricuspidale (vedi Capitolo 63). Nei casi in cui la valvola tricuspide sia
particolarmente compromessa e le corde tendinee retratte è possibile dover ricorrere alla sostituzione
tricuspidale.

INSUFFICIENZA TRICUSPIDALE
Definizione. L’insufficienza tricuspidale è caratterizzata dalla incapacità dei lembi valvolari a collabire fra
loro, per occludere completamente l’ostio valvolare quando il ventricolo si contrae. Si verifica, di
conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dal ventricolo all’atrio destro durante la sistole.
Eziologia e anatomia patologica. L’insufficienza tricuspidale è, al contrario della stenosi, una patologia
frequente, determinata da numerose cause: la più frequente è
la dilatazione del ventricolo destro e dell’anello tricuspidale. Questo tipo di valvulopatia è “funzionale”,
poiché i lembi valvolari sono morfologicamente integri, e si instaura anche per lievi dilatazioni, dal
momento che l’area di coaptazione dei lembi tricuspidali è molto più limitata di quella che si osserva per la
valvola mitrale. Queste forme sono più spesso la conseguenza di ipertensione polmonare primitiva o
valvulopatie mitro-aortiche, cuore polmonare ed infarto ventricolare destro.
La causa più frequente di insufficienza tricuspidale organica è l’endocardite, che può essere infettiva o non
infettiva.L’endocardite infettiva del cuore destro si riscontra principalmente nei tossico-dipendenti, nei
portatori di shunt sinistro-destro (es. fistole, dialisi) e, molto più raramente, nei pazienti sottoposti a
cateterismo cardiaco (vedi Capitolo34). Gli agenti microbici principali sono gli stafilococchi, i gonococchi, i
funghi. È patognomonica la presenza di vegetazioni di consistenza friabile, composte da microorganismi e
detriti trombotici. Le lesioni possono complicarsi con perforazioni ed erosioni dei lembi valvolari o ascessi
anulari.
L’endocardite non infettiva si può riscontrare in corso di Lupus Eritematoso Sistemico (endocardite di
Libman-Sachs) ed è di tipo trombotico-abatterico. Essa è caratterizzata dalla deposizione di piccole
masserelle sterili, costituite da fibrina e da altri elementi del sangue, su lembi valvolari in genere indenni.
Altra causa di insufficienza tricuspidale è rappresentata dalla sindrome da carcinoide: questa condizione è
secondaria alla produzione di sostanze serotoninergiche da parte di tumori carcinoidi che favoriscono la
comparsa di ispessimenti localizzati di endocardio murale e valvolare (placche carcinoidi), con conseguente
alterazione della morfologia valvolare.
Quadri anatomo-patologici simili alla sindrome da carcinoide associati ad insufficienza tricuspidale possono
essere indotti da assunzione di una grande varietà di farmaci e tossici che fungono da agonisti
serotoninergici, condividendo quindi con la sindrome da carcinoide non solo il quadro anatomo-patologico
ma anche il meccanismo eziopatogenetico. Tra queste sostanze annoveriamo derivati dall’amfetamina quali
farmaci anoressizzanti (fenfluoramina e fentermina), ormai ritenuti pericolosi e quindi non più in uso,
agenti tossici (ecstasy e metilendiossimetamfetamina o MDMA), ma anche farmaci dopaminergici
comunemente utilizzati per il trattamento del morbo di Parkinson (pergolide e cabergolina) e dell’emicrania
(metisergide ed ergotamina). Fungendo da agonisti della serotonina e stimolando in particolare i recettori
5HT 2b, queste sostanze, attraverso l’attivazione di protein-chinasi, indurrebbero un’inappropriata
stimolazione mitogenica a livello valvolare (“overgrowth valvulopathy”) che esiterebbe nella formazione di
placche morfologicamente indistinguibili da quelle che caratterizzano la sindrome da carcinoide.
Cause più rare di insufficienza tricuspidale con alterazioni anatomiche valvolari sono i traumi toracici e

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143 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

i tumoricardiaci; vi sono anche forme iatrogene secondarie ad impianto di pacemaker o defibrillatore


cardiaco.
Infine, il prolasso valvolare tricuspidale e la disfunzione dei muscoli papillari del ventricolo destro possono
indurre insufficienza tricuspidale con le stesse modificazioni anatomiche e meccanismi eziopatogenetici
riconosciuti per la valvola mitrale ed il ventricolo sinistro.
Fisiopatologia. Il rigurgito di sangue in atrio destro durante la sistole ventricolare provoca aumento della
pressione atriale e dilatazione dell’atrio. Come nella stenosi tricuspidale, l’ipertensione atriale destra si
ripercuote immediatamente a monte, nel circolo cavale, instaurando una congestione venosa sistemica fino
a determinare, nelle forme severe, un’inversione del flusso venoso.
Sintomi e segni clinici. Le insufficienze valvolari del cuore destro sono in genere ben tollerate fino ad una
fase avanzata, e diventano clinicamente manifeste solo in presenza di ridotta portata cardiaca o di
ipertensione polmonare. Il quadro clinico è caratterizzato dai segni di congestione sistemica quali astenia,
facile affaticabilità, calo ponderale; si associano inoltre i sintomi e i segni di stasi venosa del sistema portale
quali senso di peso addominale, nausea, vomito, ascite ed epatomegalia dolente e, in caso di scompenso
ventricolare destro, da tutti i segni e sintomi ad esso correlati. Nell’insufficienza tricuspidale si apprezza alla
palpazione il margine debordante del fegato, con pulsazione epatica. Il polso venoso giugulare presenta
un’ampia onda “a” sistolica. La pulsazione (analogo dell’onda v al flebogramma) dipende dal rigurgito
sistolico in atrio destro che inverte il flusso nella vene cave. All’ascoltazione, sulla margino-sternale destra
lungo il IV spazio intercostale, si rileva un soffio olosistolico dolce, ad alta frequenza, che si accentua con
l’inspirazione per aumento del ritorno venoso (segno di Rivero-Carvallo). Spesso sono udibili un terzo tono
destro e, se è presente ipertensione polmonare, un’accentuazione della componente polmonare del
secondo tono.
Diagnosi strumentale
ECG: Non sono presenti peculiarità del tracciato elettrocardiografico, ma è possibile a volte rilevare segni di
ingrandimento atriale destro, ipertrofia ventricolare destra o blocco di branca destra. Spesso è presente
fibrillazione atriale.
Rx torace: L’esame radiologico del torace mostra una cardiomegalia con accentuazione del secondo arco
destro del cuore (da dilatazione atriale destra).
Ecocardiografia: L’indagine bidimensionale consente uno studio accurato della morfologia della tricuspide,
evidenzia la dilatazione dell’atrio e del ventricolo di destra, valuta la contrattilità del ventricolo destro e
l’eventuale movimento paradosso del setto interventricolare, espressione del sovraccarico di volume del
ventricolo destro. Segni di ridotta funzione ventricolare sono rappresentati da una riduzione dell’escursione
dell’anello tricuspidale (TAPSE), della frazione di eiezione ventricolare destra, e dalla riduzione
dell’ampiezza dell’onda sistolica (S’) dell’anello tricuspidale al Tissue Doppler Imaging (Vedi Capitolo 4). Il
color-Doppler permette di effettuare la stima dell’entità del rigurgito tricuspidale (ECO 24) e di valutare la
pressione in arteria polmonare, (Figura 1).
Cateterismo cardiaco: Attualmente lo studio dell’emodinamica valvolare tricuspidale è fattibile con elevate
sensibilità e specificità mediante ecocardiografia, per cui il ricorso al cateterismo cardiaco è limitato solo a
quei pochi casi in cui l’indagine ultrasonografica non risulta di qualità tecnica sufficiente.
Cenni di Terapia. Per l’insufficienza tricuspidale non è frequente il ricorso al trattamento chirurgico.
Tuttavia, se il vizio valvolare è importante è possibile ricorrere alla valvuloplastica tricuspidale nei casi di
insufficienza tricuspidale funzionale, mentre gravi alterazioni dell’anatomia tricuspidale necessitano di
sostituzione della valvola.

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144 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Esame ecocardiografico color CW della tricuspide. In alto esame 2D color, in basso analisi spettrale dell'insufficienza
tricuspidale.

STENOSI POLMONARE

Definizione. La stenosi polmonare consiste nel restringimento dell’orifizio valvolare, cui consegue un
ostacolo al passaggio del sangue dal ventricolo destro all’arteria polmonare.
Eziologia e anatomia patologica. La stenosi polmonare è quasi esclusivamente una malattia congenita
(Patologia57) e solo eccezionalmente può riconoscere come causa la malattia reumatica o la sindrome da
carcinoide. A volte può essere un reperto isolato ma, più spesso, fa parte di cardiopatie congenite
complesse quali la tetralogia di Fallot (vedi Capitolo 52). I lembi valvolari sono fibrotici, ispessiti ed a
superficie liscia e regolare.
Fisiopatologia. Il restringimento dell’orifizio valvolare polmonare determina un gradiente ventricolo-
arterioso; l’incremento dei valori pressori in ventricolo destro induce ipertrofia ventricolare. Con l’andar del
tempo, l’aumento della pressione ventricolare si ripercuote per via retrograda a livello atriale ed al circolo
cavale, determinando infine un ostacolo al ritorno venoso sistemico.
Sintomi e segni clinici. La stenosi isolata della polmonare è una valvulopatia ben tollerata e asintomatica o
paucisintomatica. La diagnosi viene sospettata dalla presenza di un soffio sistolico da eiezione in area
polmonare.
Diagnosi strumentale.
ECG: Il tracciato elettrocardiografico presenta di solito un quadro di ipertrofia del ventricolo destro, e
spesso anche di ingrandimento dell’atrio destro (ECG 04).
Ecocardiografia: L’ecocardiografia è la tecnica diagnostica più utilizzata per la diagnosi di stenosi
polmonare. All’esame bidimensionale è possibile rilevare la presenza di un anello polmonare di dimensioni
minori di quello aortico, i lembi valvolari sono ispessiti ed ipomobili con movimento di apertura a “cupola”
(doming). Se la stenosi è severa si riscontra dilatazione post-stenotica dell’arteria polmonare ed ipertrofia
del tratto di efflusso ventricolare destro. Al color-Doppler è possibile determinare il gradiente ventricolo-
arterioso e graduare la severità della valvulopatia.
Cenni di Terapia. La valvuloplastica polmonare con palloncino (vedi Capitolo 52) è la tecnica più utilizzata
per la correzione di questa valvulopatia (Figura 13/52). Il ricorso all’intervento chirurgico è giustificato solo

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145 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

se la stenosi polmonare è severa o quando fa parte di una cardiopatia congenita complessa (es. tetralogia
di Fallot).

4 - Ingrandimento atriale destro. Ipertrofia ventricolare destra.


La diagnosi d’ingrandimento dell’atrio destro è suggerita dalle onde P alte (0,35 mV in II) e appuntite nelle derivazioni inferiori.
L’ipertrofia ventricolare destra viene dimostrata dalla deviazione assiale destra, e dall’nda R alta in V1.

INSUFFICIENZA POLMONARE

Definizione
L’insufficienza polmonare è caratterizzata dalla incapacità delle cuspidi valvolari a collabire
sufficientemente durante la diastole, per cui si verifica un rigurgito di sangue dall’arteria polmonare al
ventricolo destro.
Eziologia e anatomia patologica
L’insufficienza polmonare è, di solito, secondaria a dilatazione dell’anello polmonare provocata
dall’ipertensione polmonare; solo eccezionalmente viene indotta da endocardite infettiva o malattia da
carcinoide. Nella forma secondaria a dilatazione dell’anello la morfologia della valvola è normale.
Fisiopatologia
Nell’insufficienza polmonare il rigurgito di sangue provoca sovraccarico di volume e dilatazione del
ventricolo destro, che va incontro ad ipertrofia eccentrica. Il vizio valvolare può essere ben tollerato anche
per molti anni.
Segni clinici
Il rigurgito provoca un soffio diastolico che inizia subito dopo la componente polmonare del II tono e
termina, abitualmente, in mesodiastole. Il soffio è ad alta tonalità, di timbro alitante e in decrescendo, si
percepisce meglio nella regione parasternale, tra il II ed il IV spazio intercostale, e aumenta di intensità
durante l’inspirazione. In caso di coesistenza di ipertensione polmonare, associata ad insufficienza
tricuspidale e/o polmonare, è possibile apprezzare altri segni quali un rinforzo della componente
polmonare del II tono, un tono di eiezione polmonare e un soffio sistolico di accompagnamento. Quando il
ventricolo destro si dilata è possibile palpare un itto iperdinamico.
Diagnosi strumentale
ECG: In genere l’ECG risulta normale ma, se l’insufficienza è significativa, sono presenti i segni del
sovraccarico di volume del ventricolo destro fino al blocco di branca destro.
Ecocardiogramma: La tecnica bidimensionale consente di visualizzare la dilatazione del ventricolo destro e
la vivacità della cinesi ventricolare destra. Il color-Doppler consente di visualizzare il rigurgito polmonare e
graduare l’entità dell’insufficienza.
Terapia
In genere l’insufficienza polmonare è una valvulopatia ben tollerata e non è necessario ricorrere a
correzione chirurgica.

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146 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 19
FISIOPATOLOGIA DELLO SCOMPENSO CARDIACO
Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali

DEFINIZIONE
Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono state
proposte numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo scompenso cardiaco
come una sindromein cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle richiest
e dei tessuti oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di
riempimento ventricolari.
La Società Europea di Cardiologia ha definito lo scompenso cardiaco
come una sindrome caratterizzata daiseguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea e/o astenia, a rip
oso e/o da sforzo, e/o edemi declivi)ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ecocardiografia) di u
na disfunzione cardiaca sistolica e/odiastolica.
L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei vari organi nel determinare la
progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori nella
definizione. Per scompenso cardiaco si deve quindi
intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo, della portata cardiaca, comunquedetermina
to ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una risposta multiorganica con attivazionecronica
neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente la funzione miocardica, nonostante unacontrorispost
a di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi circolatoria.

EPIDEMIOLOGIA
A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte
delle malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza
di scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da
scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe
portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da
scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è
spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i
soggetti di età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a
morire in un tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un
solo anno per il 50% dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento
della prognosi dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia.

CAUSE
Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione
cardiaca. Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da
valvulopatie, malattie del pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente
l’anemia, la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi
possono peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco.
Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato
da una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante
ipertensione arteriosa, ne è la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più
frequente l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una
storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica.
Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la
cardiomiopatia dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco.

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MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’ALTERATA FUNZIONE MIOCARDICA


Determinanti della funzione cardiaca. I principali determinanti della funzione cardiaca sono la frequenza
cardiaca, il precarico, il postcarico e la contrattilità.
Il precarico è il carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’iniizio della contrazione (telediastole). Viene
misurato dal volume o, meglio, dallo stress telediastolico. L’aumento del precarico causa un aumento della
forza di contrazione miocardica (legge di Starling) per migliore sovrapposizione tra actina e miosina. Il cuore
insufficiente è generalmente dilatato a tal punto da avere un esaurimento della riserva di precarico così che
le variazioni di quest’ultimo non comportano più variazioni della gettata cardiaca.
Il postcarico è il carico cui è sottoposto il cuore durante la contrazione. Viene misurato dallo stress sistolico,
ed è correlato all’impedenza aortica ed alle resistenze periferiche. Lo stress sistolico è direttamente
proporzionale al raggio ed alla pressione intraventricolare ed inversamente proporzionale allo spessore
parietale (legge di Laplace). L’aumento della pressione arteriosa comporta quindi un aumento del
postcarico. Il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal postcarico.
La contrattilità è la capacità del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle condizioni di carico. Il
deficit di contrattilità miocardica è l’alterazione fondamentale dello scompenso. Spesso questa non
comporta alterazioni della potata cardiaca e delle pressioni di riempimento ventricolari a riposo. Sotto
sforzo, tuttavia, il cuore insufficiente presenterà sempre una ridotta capacità di far fronte alle aumentate
richieste dei tessuti periferici con insufficiente incremento della contrattilità e della portata cardiaca ed
aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari.
Vengono qui di seguito riassunti i principali meccanismi responsabili del deficit di contrattilità.
Ipertrofia Miocardica
L’ipertrofia miocardica si verifica in risposta ad un aumento dello stress parietale. Questo può essere
dovuto sia a sovraccarico pressorio (per esempio, ipertensione, stenosi aortica) che di volume (per
esempio, rigurgito mitralico oppure aortico). Il ruolo svolto dall'ipertrofia miocardica nella patogenesi dello
scompenso cardiaco è tradizionalmente ritenuto fondamentale: l’ipertrofia è vista come lo stadio
intermedio tra un qualsiasi danno miocardico iniziale e la successiva insufficienza miocardica. Tuttavia,
nonostante numerose dimostrazioni sperimentali, pochi studi clinici sono stati finora in grado di
confermare questa ipotesi.
L’ipertrofia comporta modificazioni di tutte le componenti del miocardio che ne favoriscono, a loro volta, la
degenerazione con dilatazione ed ipocinesia ventricolare. A livello dei miociti, si verifica un aumento del
numero dei sarcomeri, che avviene in parallelo, con ispessimento delle fibre miocardiche, nel caso di un
sovraccarico pressorio (ipertrofia concentrica) o in serie, con loro allungamento (ipertrofia eccentrica), nel
sovraccarico volumetrico. In ogni caso, il volume delle fibre miocardiche aumenta in misura maggiore
rispetto al numero dei capillari, e all’interno di ciascuna cellula il numero dei sarcomeri aumenta in misura
maggiore rispetto ai mitocondri, così che il miocita viene a trovarsi in una condizione di relativa carenza di
ossigeno e di energia.
L’ipertrofia comporta, inoltre, un’accelerazione dei processi di morte cellulare (apoptosi) ed alterazioni
qualitative, con aumento della sintesi di proteine di tipo fetale che contribuiscono alla genesi della
disfunzione cardiaca. La fibrosi miocardica viene a compromettere ulteriormente l’apporto di ossigeno e
substrati alle cellule miocardiche e la capacità delle arteriole coronariche a dilatarsi.
Accelerata morte cellulare
Può verificarsi con i meccanismi sia della necrosi che dell’apoptosi. La necrosi si realizza nei pazienti affetti
da cardiopatia ischemica sia sotto forma di infarto clinicamente evidente che di microinfarti. E’ infatti
possibile rilevare un aumento della troponina plasmatica in pazienti con scompenso cardiaco ma senza
sindrome coronarica acuta. Questa evenienza può verificarsi anche in pazienti senza coronaropatia, a causa
del relativo deficit di apporto di ossigeno ai miociti favorito dall’ipertrofia, aumento dello stress miocardico
e della pressione telediastolica ventricolare.

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148 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in cui l’attivazione di
uno specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi con esito in degradazione del DNA
cellulare. Questo processo, normalmente presente solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è
attivato in corso di scompenso cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità.
Alterato rapporto fra le isoforme della miosina
Esistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin heavy chain). Una rapida,
ad elevata attività ATPasica, codificata dal gene alfa-MHC, prevalente nella vita adulta, ed una lenta, a
bassa attività ATPasica, codificata dal gene beta-MHC, prevalente nella vita fetale. Nel cuore insufficiente si
verifica la riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale, con maggiore sintesi di beta-
MHC.
Queste alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono antagonizzate, nella
maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante.
Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico
Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e substrati alla cellula miocardica ed a
compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad alto contenuto energetico. Questi
comprendono alterazioni nell’utilizzazione dei substrati (glucosio ed acidi grassi), nella fosforilazione
ossidativa e nel trasferimento ed utilizzazione dell’ATP. Vi è anche un’importante compromissione
dell’immagazzinamento di energia sotto forma di creatin-fosfato (CP). Il rapporto CP/ATP è un indice della
disponbilità di energia a livello miocardico e la sua riduzione in corso di scompenso, valutabile mediante
risonanza magnetica nucleare e spettroscopia, predice un’elevata mortalità nei pazienti.
Alterato metabolismo del calcio
Indipendentemente dalle alterazioni presenti a livello dei meccanismi di produzione di energia e
dell’apparato contrattile miocardico, la cellula miocardica mantiene una normale risposta contrattile alla
somministrazione di calcio. E’quindi logico ritenere che le alterazioni del metabolismo del calcio siano tra i
principali fattori responsabili dell’alterata funzione sistolica e/o diastolica del cuore insufficiente.
Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente del reticolo
sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio durante la diastole. A questo consegue
una compromissione del rilasciamento miocardico ed un ridotto accumulo di calcio all’interno del reticolo
sarcoplasmatico. Ciò determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole successiva, con
conseguente riduzione della contrattilità.
Un’altra alterazione riguarda l’iperfosforilazione del fosfolambano con conseguente maggiore perdita di
calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citoplasma durante la diastole.
Fibrosi interstiziale
A carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a livello sia della
componente cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti vanno incontro ad iperplasia, con un
aumento di sintesi di collagene sproporzionato rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si
verificano anche modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene tipo I,
più rigido, con maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento delle fibre miocardiche le
une sulle altre, disorganizzazione della normale architettura del ventricolo sinistro, che assume una
conformazione sferica. Questa comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile.
La fibrosi interstiziale rappresenta, insieme alla compromissione dei processi di ricaptazione del calcio da
parte della SERCA, il maggiore meccanismo responsabile delle alterazioni della funzione diastolica del cuore
insufficiente.

ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE
Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti alcuni meccanismi (sistemi simpato-adrenergico
e renina-angiotensina-aldosterone, in particolare) la cui azione consiste essenzialmente nel determinare
vasocostrizione periferica, ritenzione idro-salina ed ipertrofia e/o iperplasia cellulare. Questi meccanismi

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149 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

favoriscono la progressione dello scompenso cardiaco e, anche alla luce dei risultati degli studi clinici con
specifici antagonisti, sono da ritenerne i principali responsabili.

Attivazione simpato-adrenergica
I pazienti con scompenso cardiaco presentano, rispetto ai soggetti normali, un'aumentata eliminazione
urinaria di catecolamine ed elevate concentrazioni plasmatiche di norepinefrina. L'incremento dell'attività
simpatica non interessa in modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica soprattutto a livello renale e
cardiaco; qui le concentrazioni di norepinefrina sono aumentate di 5-20 volte rispetto al normale.
L'attivazione simpatoadrenergica è un fenomeno precoce nell'evoluzione dello scompenso, ed è già
presente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino
interessa globalmente tutto il sistema neurovegetativo, poiché all'aumento dell'attività simpatica è
associata la riduzione di quella parasimpatica.
L’importanza della stimolazione simpatoadrenergica nella progressione dello scompenso cardiaco è
dimostrata dal valore prognostico indipendente dei livelli di norepinefrina plasmatica e dall’effetto
estremamente favorevole sulla prognosi della terapia beta-bloccante.
Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere effetti dannosi sulla
cellula miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del numero dei beta1 recettori miocardici, per
cui il rapporto tra beta1 e beta2 recettori miocardici si sposta dai valori normali di 80:20 a valori di 60:40.
Ciò causa una ridotta risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al
ridotto incremento della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti..
La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando apoptosi ed alterazioni
dell’espressione genica nei cardiomiociti (aumento della beta-MHC, riduzione dell’alfa-MHC e della SERCA).
Essa può favorire l’ischemia e la necrosi miocardica attraverso l’aumento della frequenza e della
contrattilità, condizioni entrambe in grado di incrementare il consumo di ossigeno.
Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione periferica, sia diretta che
indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina, con conseguente aumento del postcarico e
riduzione della gittata sistolica; 2) l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3) l’attivazione
del sistema renina-angiotensina.

Sistema renina angiotensina aldosterone


L’attività reninica plasmatica aumenta soprattutto nei pazienti con più grave compromissione emodinamica
e funzionale. La sua importanza è dimostrata dagli effetti favorevoli degli ACE inibitori e degli antagonisti
dei recettori dell’angiotensina II sulla prognosi.
I meccanismi con cui l’angiotensina II può influenzare negativamente l’evoluzione dello scompenso sono
molteplici. In primo luogo, essa causa vasocostrizione periferica, aumento del postcarico e calo della gittata
sistolica. In secondo luogo, stimola la secrezione di aldosterone causando ritenzione idro-salina e quindi
aumento del precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente alla norepinefrina, anche
l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi).
L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare ritenzione idro-salina ed
ipokaliemia, provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica, aumento della stimolazione simpatica cardiaca e
disfunzione endoteliale. Tutti questi effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono
conto degli effetti favorevoli dei farmaci antialdosteronici sulla prognosi.

Vasopressina
Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate concentrazioni
plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere stimolata meno frequentemente che
quella di renina, aldosterone o norepinefrina.
La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1 determina

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150 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2
provoca ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale.
Differentemente che nel caso dei precedenti sistemi, in questo caso la somministrazione di antagonisti
della vasopressina non ha determinato variazioni nella sopravvivenza.

Fattori natriuretici
La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale (ANP), il peptide natriuretico
B o cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la prima volta nelle cellule del sistema nervoso
centrale di maiale, il peptide natriuretico C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso
centrale e dai vasi periferici.
La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale. In corso di
scompenso cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni
attivi nella vita fetale con conseguente produzione di ANP e BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di
pro-ormone (proBNP), che viene quindi clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un
frammento N-terminale (NT-proBNP). Entrambi vengono rapidamente immessi nel torrente circolatorio.
L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare: la concentrazione di ANP è
maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a livello ventricolare. Per questo motivo, oltre
che per la più rapida risposta della secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico, si impiega attualmente
nella pratica clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e prognostica dei
pazienti con socmpenso cardiaco.
I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione simpatica e la secrezione di
renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro secrezione si verifica precocemente nello
scompenso cardiaco. È quindi probabile che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel
mantenere un normale equilibrio idro-salino. Nelle fasi inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero
a controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi simpatoadrenergico e renina-angiotensina-
aldosterone.

Prostaglandine
Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello dell’arteriola afferente
renale, un ruolo importante, dimostrato indirettamente dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi
con antiinfiammatori non steroidei determina un netto peggioramento della funzione renale, per
vasocostrizione dell’arteriola afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei
pazienti con scompenso cardiaco.

Ossido nitrico
L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della
vasodilatazione NO-dipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo scompenso
cardiaco.

Endotelina
Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente più
importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività
vasocostrittrice, le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia
miocardica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce.
Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle concentrazioni di
ET-1, rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la somministrazione di antagonisti dei recettori dell’endotelina
non ha avuto effetti favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e la
prognosi dei pazienti con scompenso acuto.

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Stress ossidativo
Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a livello
vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità
di dilatazione vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e
l’apoptosi.

Citochine
I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con
scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con
la prognosi. Gli effetti negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e
comprendono un’attività inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei
cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica. Tuttavia, nonostante questi
presupposti fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle citochine non ha modificato l’evoluzione
dei pazienti con scompenso, e nessuna terapia antiinfiammatoria ha permesso di migliorare la prognosi dei
pazienti.

RITENZIONE IDRO SALINA E AUMENTO DEL PRE CARICO


La ritenzione idro-salina è dovuta, nello scompenso cardiaco, a due meccanismi fondamentali: le
modificazioni dell'emodinamica renale e l’attivazione neuro-ormonale.

Flusso ematico renale e filtrazione glomerulare


Nello scompenso cardiaco, l’attivazione simpatica determina una redistribuzione della portata cardiaca con
riduzione del flusso ematico renale. A questo fa riscontro una relativa conservazione della filtrazione
glomerulare, con aumento della frazione di filtrazione. Infatti, l'angiotensina II determina una
vasocostrizione maggiore nell'arteriola efferente che in quella afferente, per cui la pressione all'interno dei
capillari glomerulari aumenta. La filtrazione glomerulare, perciò, diminuisce in misura minore rispetto al
flusso plasmatico renale, e la frazione di filtrazione aumenta.
Ritenzione idrico-salina
La riduzione del flusso plasmatico renale e l'aumento della frazione di filtrazione determinano
ipoperfusione dei capillari peritubulari, con conseguente calo della pressione idrostatica ed aumento della
concentrazione di proteine e della pressione oncotica al loro interno. Queste modificazioni dell’equilibrio
tra pressione idrostatica ed oncotica intratubulare e nei capillari peritubulari portano ad un maggior
riassorbimento di sodio cui consegue, per osmosi, anche un maggior riassorbimento idrico.
L’iperattività simpatica e del sistema renina-angiotensina causano ritenzione idrosalina anche con altri
meccanismi. L’attivazione simpatica determina redistribuzione del flusso ematico intrarenale dai nefroni
corticali e quelli iuxtamidollari, dotati di più lunghe anse di Henle e quindi in grado di maggior
riassorbimento salino. L’angiotensina II stimola la secrezione di aldosterone, con maggior riassorbimento di
sodio, in scambio con il potassio, a livello del tubulo distale e del collettore. Infine, la vasopressina rende
permeabile all’acqua il tubulo collettore e favorisce il riassorbimento di acqua. Il riassorbimento di acqua
può verificarsi in misura maggiore del riassorbimento di sodio con conseguente iposodiemia da diluizione.

La ritenzione idro-salina viene tradizionalmente vista come una meccanismo finalistico, attraverso il quale
l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in condizioni in cui la portata cardiaca e la
pressione di perfusione tessutale tendono a calare per effetto della ridotta contrattilità miocardica. Queste
modificazioni sono, tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso cardiaco e rappresentano la
principale causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre che delle ospedalizzazioni
per peggioramento dello scompenso.

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152 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Modificazione del precarico


La ritenzione idro-salina è alla base della formazione di edema e comporta, a livello cardiaco, un aumento
del precarico. L’aumento di precarico può inizialmente comportare una maggior gittata sistolica attraverso
il meccanismo di Frank-Starling. Tuttavia, il cuore insufficiente esaurisce ben presto la propria riserva di
precarico (vedi sopra). L’aumento del volume ventricolare continua, invece, a determinare un aumento
dello stress parietale miocardico e quindi, per la legge di Laplace, anche del postcarico e del consumo
miocardico di ossigeno.

VASOCOSTRIZIONE PERIFERICA E AUMENTO DEL POST CARICO


Nello scompenso cardiaco, l’aumento delle resistenze vascolari periferiche è dovuto all’attivazione dei
meccanismi neuroumorali ad azione vasocostrittrice ed alle alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina,
etc). Questi fenomeni determinano vasocostrizione arteriolare e riduzione del diametro e della compliance
delle grosse e medie arterie.
Il ventricolo normale è in grado di mantenere una normale gittata sistolica anche in presenza di incremento
del postcarico. All’opposto, il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal post-carico, così che anche
minime variazioni dello stesso comportano un’importante riduzione della gittata sistolica. Questo motivo
ha guidato l’introduzione della terapia vasodilatatrice nello scompenso cardiaco.

RIDUZIONE DELLA TOLLERANZA ALLO SFORZO


La ridotta tolleranza allo sforzo è uno dei sintomi fondamentali del paziente con scompenso cardiaco.
Fattori emodinamici
La riduzione della capacità funzionale è innanzitutto conseguenza della compromissione emodinamica del
paziente con scompenso cardiaco. Nessun parametro emodinamico, valutato a riposo, tuttavia, è correlato
con la capacità funzionale. La risposta allo sforzo, a differenza dell’emodinamica a riposo, è strettamente
correlata con la capacità funzionale. Una correlazione significativa è stata osservata soprattutto con gli
indici di funzione sistolica ventricolare sinistra (portata cardiaca, indice di lavoro del ventricolo sinistro).

Flusso ematico muscolare scheletrico


Nei pazienti con scompenso cardiaco è stata osservata una ridotta capacità dilatatrice dei vasi della
muscolatura scheletrica. La riduzione della portata cardiaca e della vasodilatazione muscolare fanno sì che il
muscolo si venga a trovare, sotto sforzo, in una condizione di relativa ipoperfusione responsabile, a sua
volta, di più precoce comparsa di metabolismo anaerobio e di riduzione della tolleranza allo sforzo.
A questa ridotta capacità di dilatazione dei vasi della muscolatura scheletrica contribuiscono sia
l'attivazione neuroumorale che alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, citochine).
Caratteristiche biochimiche e funzionali della muscolatura scheletrica
Il 25-40% dei pazienti con scompenso cardiaco può presentare una riduzione della capacità funzionale, con
precoce comparsa di metabolismo muscolare anaerobio nonostante un normale incremento del flusso
ematico durante sforzo. In questi pazienti la muscolatura scheletrica sembra essere la principale
responsabile della ridotta capacità funzionale.
In corso di scompenso cardiaco, i muscoli scheletrici vanno incontro a modificazioni morfologiche (ipotrofia,
fibrosi interstiziale, depositi lipidici, riduzione della densità dei capillari) e biochimiche (riduzione degli
enzimi responsabili del metabolismo aerobio, con normale o aumentata attività degli enzimi della glicolisi
anaerobia).
Similmente alla riduzione della capacità dilatatrice dei vasi, anche le alterazioni della muscolatura
scheletrica possono essere considerate come il risultato di un processo di decondizionamento muscolare.
L’importanza di questo meccanismo è dimostrata dalla possibilità di ottenere un significativo
miglioramento della capacità funzionale con l'allenamento fisico.

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153 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Diffusione alveolo-capillare
Anche la diffusione alveolo-capillare dell'ossido di carbonio, valutata a riposo, è correlata con la massima
capacità lavorativa. Nello scompenso cardiaco, una riduzione della capacità di diffusione alveolo-capillare
può determinare incremento dello spazio morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e
capacità vitale (Vd/Vt).

Risposta ventilatoria allo sforzo


I pazienti con scompenso cardiaco presentano, durante sforzo, un respiro più rapido e più superficiale, con
maggiore incremento della ventilazione (VE), a parità di carico lavorativo, rispetto ai soggetti normali.

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154 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 20
QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO ACUTO
Francesco Fedele

DEFINIZIONE

L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è incapace di pompare sangue in quantità adeguata
alle esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle
pressioni di riempimento (vedi Capitolo 19).
L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a
disfunzione cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad
anomalie del ritmo o ad un “mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una
minaccia per la vita e necessita di un trattamento di emergenza.
L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza
disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca
cronica. Perciò, l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con
un’insufficienza cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso
infarto del miocardio o un improvviso aumento della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo
sinistro deficitario; 2) pazienti con peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica;
3) pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e vanno rapidamente
incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla
terapia medica e necessità di trattamenti non farmacologici.

EPIDEMIOLOGIA

L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più
comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%).
I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è particolarmente
elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad insufficienza cardiaca grave. Dati simili
sono stati riportati per l’edema polmonare acuto. Circa la metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza
cardiaca acuta vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due volte) entro un
anno. In questa popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva della capacità
funzionale (Figura 1), per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di
cardioprotezione.

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155 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

QUADRI CLINICI

I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1) alla diminuzione della
portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale;
2) all’aumento delle pressioni di riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione
sistemica e polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri clinici,
correlati anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla rapidità di insorgenza e alla gravità
(Figura 2).

LA DISPNEA
Sintomo base dello scompenso acuto del ventricolo sinistro è la dispnea, che consiste in una sensazione di
sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria. È la conseguenza della congestione
polmonare, dovuta alle aumentate pressioni intracavitarie nelle sezioni sinistre del cuore, che provoca
aumento del contenuto idrico extravascolare polmonare, riducendo la distensibilità polmonare e
aumentando il lavoro dei muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta la dispnea assume spesso le
caratteristiche di ortopnea e dispnea parossistica notturna.
L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea o
ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la
congestione polmonare. Ladispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali,

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156 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

durante le quali il paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto a sedersi sul letto con
i piedi penzoloni o a portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In alcuni casi compare tosse stizzosa e respiro
sibilante dovuto a broncostenosi (asma cardiaco).
L’EDEMA POLMONARE
L’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene provocato dall’accumulo
di liquido nello spazio extravascolare polmonare. Il passaggio di liquido dal capillare all’interstizio e
viceversa è, in condizioni normali, governato da due fattori: la pressione idrostatica del sangue capillare,
che tende a far fuoriuscire la parte liquida del sangue, e la pressione osmotica delle proteine plasmatiche,
(pressione oncotica) che tende, invece, a trattenere il liquido dentro il vaso. Quest’ultima corrisponde a una
pressione di circa 25 mm Hg. Quando la pressione all’interno dei capillari polmonari aumenta al di sopra dei
25 mmHg, si realizza dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido nell’interstizio (edema interstiziale); il
sistema linfatico si adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma quando la sua capacità di drenaggio viene
superata il liquido invade gli alveoli (edema alveolare), compromettendo la funzione polmonare, sia da un
punto di vista meccanico che degli scambi gassosi.
La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore peggioramento
della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare polmonare. La riduzione
della portata cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea,
muscolare e splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto
induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari
periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un cuore già insufficiente, e peggiora la
performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si innesca quindi un circolo vizioso,
sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale
perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).
Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto, fortemente agitato,
madido di sudore, dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e
sudata, e può essere presente cianosi alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari
rantoli crepitanti, che con l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto
l’ambito polmonare, come una “marea montante”, accompagnati da escreato schiumoso ed
eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare tende a
peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e
l’arresto di circolo, con esito fatale.
L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato
cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni.
La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione
arteriolare. Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori tensivi sistemici si riducono, sino a
raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si
può valutare osservando il grado di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a
45°).
La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo
compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi.
I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore)
unitamente all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente
ridotta, si può arrivare finoall’anuria (< 100 ml nelle 24 ore).
L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica;
esso è dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina.
L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La
frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso
presente un ritmo di galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi
Capitolo 2). Altro segno ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico puntale da
insufficienza mitralica acuta.All’esame del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei
capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare
rumori umidi (rantoli crepitanti) . Il reperto obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali,

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157 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

diffondendosi progressivamente ai campi superiori in seguito all’aggravarsi della condizione clinica ed in


assenza di adeguato trattamento.
Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è stata formulata
la classificazione diKillip, che suddivide i pazienti in quattro classi in base alla presenza di segni di
congestione polmonare e periferica, segni di bassa portata, e segni di aumentato volume telediastolico
ventricolare. La classe I è caratterizzata dall’assenza di segni clinici di insufficienza cardiaca. I criteri
diagnostici per la II classe includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore dei campi polmonari, terzo
tono e ipertensione venosa polmonare. La classe III include pazienti con insufficienza cardiaca severa
(rantoli estesi a tutti i campi polmonari o edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in shock
cardiogeno, con pressione arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e cianosi.
Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul reperto ascoltatorio
toracico (il paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda che presenti rantoli o no), distingue
quattro gruppi di crescente gravità clinica: il gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il
gruppo B pazienti “caldi e umidi”, il gruppo L pazienti “freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e
umidi” (Figura 3).

Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la
fase terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata
cardiaca scende al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi
Capitolo 22)

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta, bisognerà sempre
eseguire, oltre agli esami di routine, la ricerca degli indici di necrosi miocardica. Può essere, inoltre, dosato
il peptide natriuretico di tipo B (Brain Natriuretic Peptide-BNP, vedi Capitolo 14), che viene rilasciato dai
ventricoli in risposta allo stiramento delle pareti e al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per
escludere o identificare la presenza di scompenso cardiaco congestizio.
Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo stato metabolico del
paziente.

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158 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia cardiaca, ma soprattutto
sulla distribuzione del flusso polmonare.
L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni dipendenti dalla
cardiopatia di base.
L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta è l’ecocardiogramma,
che valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli spessori parietali, la cinesi globale e
segmentale, la frazione di eiezione e la contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli
apparati valvolari e di altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava
inferiore. Inoltre si può esaminare la funzione diastolica, impiegando la registrazione con il Doppler pulsato
del flusso transmitralico (Figura 4).

PRINCIPI DI TERAPIA

Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca acuta sono migliorare i
sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e proteggendo il tessuto miocardico. La terapia
dell’ insufficienza cardiaca acuta si prefigge, quindi, diverse finalità: ridurre la congestione, ridurre il
postcarico, migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5).

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159 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò riducono la massa liquida
circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida,
(furosemide e torasemide), spesso in associazione con i risparmiatori di potassio.
Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che ridistribuendo il volume ematico
aumentano la capacità del distretto venoso, e sequestrano in questa sede parte della massa circolante,
riducendo il riempimento cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il
nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso.
Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una minor ritenzione di
acqua e sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati nello scompenso acuto. Al contrario, i
farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono
essere di grande aiuto nella fase acuta.
Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui recettori beta-
adrenergici, migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina, precursore naturale della noradrenalina,
è utile nel trattamento degli stati ipotensivi; a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e
mesenterici, per stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di
sodio. A dosaggi più elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando una modesta
tachicardia riflessa, mentre a dosaggi elevati stimola anche i recettori a-adrenergici, innalzando i valori
tensivi sistemici. La dobutamina agendo sui recettori ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo,
abbassa le resistenze periferiche e determina un aumento di gittata cardiaca.
I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle fibre miocardiche,
con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò,
riducono la frequenza cardiaca e rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del
tono vagale), per cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di
fibrillazione atriale.
Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come il levosimendan, che agisce
tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame
con la troponina C, determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo
miocardio di ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti, provocando una
vasodilatazione periferica.

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160 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 21
QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO
Livio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari

QUADRI CLINICI

Sono state proposte numerose classificazioni dello scompenso cardiaco. Pur peccando di un’eccessiva
semplificazione e, spesso, di scarsa aderenza alla realtà, queste mantengono un loro valore soprattutto
didattico.
La distinzione più importante è quella tra scompenso cardiaco acuto e cronico. (vedi capitolo 20).
Nell’ambito dello scompenso cardiaco cronico, mantengono un loro valore le distinzioni tra scompenso
anterogrado e retrogrado, sinistro e destro, sistolico e diastolico.
Secondo la teoria anterograda dello scompenso, l’origine dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’inadeguata
portata cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda,
la causa dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli. Questo causa un
aumento della pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi venosi
tributari ed, infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa trasudazione di liquido ed
edema interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema alveolare.
La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della precedente teoria retrograda.
Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da accumulo di fluidi a monte del ventricolo sinistro con
congestione ed edema polmonare. Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa sistemica ed
epatica.
La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata sul riscontro o meno
di bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche
nei pazienti con frazione d’eiezione normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica
ventricolare sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti anche
nei pazienti con bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce usare il termine
di scompenso cardiaco con normale frazioned’eiezione piuttosto che quello di scompenso diastolico. I
pazienti con normale frazione d’eiezione possono corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per
scompenso cardiaco e la loro prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei
pazienti con bassa frazione d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più spesso anziani, di
sesso femminile ed affetti da ipertensione arteriosa.

SINTOMI

Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco.
Nelle fase iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta
anche a riposo con le caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema
polmonare acuto (vedi Capitolo 1).
La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente
avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso
cardiaco vi è una riduzione del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità
dello scompenso cardiaco, tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la
classificazione della New York Heart Associaton (Tabella I).

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161 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita all’aumento delle
pressioni capillari polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In realtà la correlazione con la
compromissione della funzione ventricolare sinistra, soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che
contribuiscono a causare dispnea nei pazienti con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della
portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione dei muscoli scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed
ipoperfusione dei muscoli respiratori, decondizionamento della muscolatura scheletrica, ridotta compliance
polmonare, aumento della resistenza delle vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo.
Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione
sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della
posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del
precarico e congestione polmonare.
Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il
risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono
con la posizione seduta, spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori
da broncospasmo per edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema
interstiziale.
Edema polmonare acuto (vedi Capitolo 20)
Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente incremento della
portata cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice periferica, le alterazioni biochimiche ed
istologiche e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza
relativa dei meccanismi muscolari scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione
della portata cardiaca, varia da paziente a paziente.
Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che possono essere causati
da numerose malattie non cardiovascolari.
Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta
all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi
avanzate dello scompenso cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale.
Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è
disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula epatica
e dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i
pasti. Questi pazienti possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea.
Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare
vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti
anziani con coesistente aterosclerosi cerebrale.

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162 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

SEGNI CLINICI

La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi
giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico.
Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico;. nelle fasi
più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e
segni di attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica.
Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di
un aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo
sinistro immediatamente dopo la fase di riempimento rapido (vedi Capitolo 2). E’ molto raramente udibile
in soggetti normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è
spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione della
componente polmonare del 2° tono.
Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione
differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata
cardiaca.
Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si
evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra.
Nei casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare.
Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base
destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua
comparsa è frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi.
Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non strumentale per valutare la
presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui
vena giugulare interna ed anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore,
favorendo la trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare,
la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45° (vedi Capitolo 2).
Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in
ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro
a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso.
Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione
dell’ipocondrio destro.
Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione
nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità
dei capillari peritoneali.
Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare
l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono
simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi
venosi (piedi, caviglie, zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente
è rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto
compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca).
Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La
genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento
intestinale per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio,
aumento del consumo miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine.

ESAMI STRUMENTALI

Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso cardiaco cronico,
ma non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per sé, la presenza di scompenso; tuttavia
un QRS con durata >120 ms, specialmente associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la probabilità
di una disfunzione ventricolare .

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163 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare cardiomegalia, congestione
polmonare ed eventuali patologie polmonari associate.
Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici, creatininemia,
glicemia, enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può essere valutata se indicata in base ai
reperti clinici.
Gli esami ematochimici hanno un importante significato prognostico. L’anemia è presente in un 20-30% dei
pazienti,. ed è più frequente nei pazienti con scompenso cardiaco più grave . La sua patogenesi è
multifattoriale: insufficienza renale, terapia con ACE inibitori, attivazione infiammatoria cronica, etc.
L’iposodiemia è dovuta a dliluizione con ritenzione idrica maggiore di quella salina. E’ almeno parzialmente
dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia può verificarsi come conseguenza della
terapia con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre che per aumentata secrezione di aldosterone. Va corretta in
quanto possibile causa di aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può svilupparsi per insufficienza renale e/o
terapia con antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad ipoperfusione renale.
Può essere favorita dalla terapia medica (diuretici, antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del
sistema renina-angiotensina-aldosterone).
Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di scompenso cardiaco.
Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non trattato rendono la diagnosi di scompenso
poco probabile. Oltre allo scompenso cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare
sinistra, l’ischemia miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli
plasmatici di peptici natriuretici.
Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare una disfunzione
cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la frazione d’eiezione ventricolare sinistra,
misurata dal rapporto fra la gittata sistolica e il volume telediastolico. In pratica, si sottrae dal volume
telediastolico il volume telesistolico, ottenendo la gittata sistolica, e si divide questa per il volume
telediastolico. La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti con disfunzione ventricolare
sinistra sistolica da quelli con conservata funzione sistolica. L’aumento dei volumi telesistolico e
telediastolico ventricolare sinistro è un’altra caratteristica dei pazienti con scompenso cardiaco dovuto a
disfunzione ventricolare sistolica.
La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento dell’anulus mitralico
mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una valutazione della severità della disfunzione
diastolica ventricolare sinistra. Più spesso, la funzione diastolica è valutata mediante lo studio del solo
flusso trans mitralico. I tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-normale e
restrittivo, corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado lieve, moderato e grave
(vedi capitolo 4).
Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di evidenziare un’eventuale
insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente presenti in questi pazienti, o anche altre alterazioni
(es. una stenosi aortica) che possono avere causato lo scompenso cardiaco.
Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e riproducibile per la
valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione ventricolare sinistra globale e regionale,
dello spessore miocardico, della rigidità di parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi
Capitolo 7).. E’ limitata dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore
automatico.
Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari della dispnea e nel
valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante.
Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni d’ischemia
miocardica.
Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e nella valutazione
prognostica. (vedi Capitolo 9)

PRINCIPI DI TERAPIA

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164 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di migliorare la prognosi
(riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro fondamentale obiettivo è la prevenzione della
disfunzione cardiaca nei pazienti a rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc)
e la prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti con disfunzione
cardiaca.
Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi per migliorare la
prognosi e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima categoria appartengono gli inibitori del
sistema renina-angiotensina-aldosterone ed i beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale.
ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei pazienti con disfunzione
ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi. L’indicazione a questi farmaci è basata su ampi studi
controllati con placebo che hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza, sintomi, capacità
funzionale ed una riduzione delle ospedalizzazioni nei pazienti trattati con questi farmaci. I loro effetti
favorevoli sembrano essere principalmente ascrivibili al rallentamento, se non inibizione, dei fenomeni di
rimodellamento ventricolare sinistro ed, in minore misura, alla prevenzione di nuovi eventi ischemici e delle
aritmie.
Beta-bloccanti. In assenza di controindicazioni, i beta-bloccanti devono essere somministrati a tutti i
pazienti con scompenso cardiaco cronico, in condizioni di stabilità clinica. La loro efficacia è stata
dimostrata in pazienti con scompenso cardiaco di grado lieve, moderato e severo (classe NYHA dalla II alla
IV), dovuta a cardiopatia ischemica o non-ischemica e con ridotta frazione d’eiezione ventricolare sinistra,
già in trattamento con diuretici e ACE inibitori, nonché in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra
postinfartuale, con o senza sintomi di scompenso. In questi pazienti, gli studi clinici controllati hanno
dimostrato una riduzione della mortalità, ospedalizzazioni ed episodi di peggioramento dello scompenso
cardiaco ed un miglioramento della classe funzionale con la terapia beta-bloccante, rispetto al placebo.
Antialdosteronici. Gli antagonisti dell’aldosterone sono raccomandati, in aggiunta all’ACE-inibitore, al beta-
bloccante e al diuretico, nello scompenso cardiaco avanzato (NYHA III-IV) per migliorare la sopravvivenza,
morbilità e classe funzionale.
Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. I bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II hanno effetti simili
o equivalenti agli ACE inibitori sulla mortalità e sulla morbilità dei pazienti con scompenso cardiaco cronico
e dei pazienti con recente infarto. Possono essere quindi usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di
intolleranza a questi (tosse, edema angioneurotico). Hanno avuto anche effetti favorevoli sulle
ospedalizzazioni e sulla mortalità in associazione agli ACE inibitori in pazienti ancora sintomatici per
scompenso.
Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso cardiaco in presenza di
ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto
che nelle forme di scompenso cardiaco lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i
diuretici dell’ansa (furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime necessarie
per mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro somministrazione favorisce
l'attivazione dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e simpatoadrenergico, il peggioramento della
funzione renale ed alterazioni elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il
paziente con scompenso cardiaco.
I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono essere associati agli
altri diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia. Lo spironolattone ha altri effetti favorevoli indipendenti da
quello diuretico (vedi sopra).
Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso cardiaco sintomatico. Nei
pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in
particolare quelle per scompenso cardiaco.
Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso cardiaco sono i nitrati,
per il trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei
pazienti con concomitante fibrillazione atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici,
nei casi con cardiopatia ischemica, l’amiodarone, per il trattamento o profilassi delle tachiaritmie.
L’impianto del defibrillatore automatico e la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker
biventricolare sono indicati in pazienti selezionati.

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Capitolo 22
LO SHOCK CARDIOGENO
Gian Paolo Trevi, Serena Bergerone, Claudio Chirio, Davide Castagno

DEFINIZIONE

Lo shock cardiogeno è una condizione di ipotensione arteriosa e inadeguata perfusione tissutale con ipos
siacausata da disfunzione cardiaca, più frequentemente di natura ischemica, in presenza di un adeguatov
olume intravascolare. Questa situazione di ipossia tissutale va distinta in una forma transitoria, cui
consegue il rapido ripristino di normali valori di pressione sistemica, chiamata collasso cardiocircolatorio, e
una forma che si protrae a lungo, con danni ipossici più marcati, che rappresenta lo shock cardiogeno vero
e proprio.
I criteri diagnostici per lo shock cardiogeno comprendono:

 pressione sistolica inferiore a 80 mm Hg per almeno 30 minuti, non incrementata dalla somministrazione
di liquidi endovena;
 segni di ipoperfusione (estremità fredde), alterato stato di coscienza, agitazione psico-motoria;
 diuresi oraria inferiore a 20 ml;
 indice cardiaco inferiore a 1,8 l/min/m2;
 pressioni di riempimento ventricolare sinistro elevate (pressione capillare polmonare > 18 mm Hg).

EPIDEMIOLOGIA

 Lo shock cardiogeno rappresenta la causa più comune di morte per causa cardiovascolare dopo
l’infarto miocardico.
L’incidenza di shock cardiogeno negli anni precedenti la diffusione delle metodiche di
rivascolarizzazione (farmacologica e meccanica) era pari al 20% di tutti gli infarti miocardici acuti
con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). Dalle più recenti casistiche si stima che lo shock si
verifichi oggi nel 7% dei pazienti con STEMI e nel 3% dei pazienti con infarto miocardico acuto senza
sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI).
Quando lo shock cardiogeno non è secondario ad un fattore modificabile (per esempio aritmie,
bradicardia, alterazioni meccaniche) la mortalità a breve termine è dell’80%.

EZIOLOGIA

Lo shock cardiogeno può essere dovuto alle seguenti condizioni (Tabella I):

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167 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 deficit di eiezione ventricolare: un deficit acuto della funzione ventricolare sistolica può derivare dalla
compromissione grave di una grande parte della massa miocardica. Tra le cause principali di questa
situazione va menzionato innanzitutto l’infarto esteso del miocardio; tuttavia, anche infarti miocardici di
piccole dimensioni, soprattutto quando si verificano in pazienti con preesistente compromissione del
ventricolo sinistro, possono evolvere in shock cardiogeno. Un deficit di eiezione può essere, peraltro,
sostenuto anche da aritmie ventricolari o da insufficienze valvolari ad insorgenza acuta;
 difetti di riempimento ventricolare: possono essere dovuti a:
 cause estrinseche, quali tamponamento cardiaco, pericardite costrittiva;
 cause intrinseche, quali trombi o mixomi atriali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata.

FISIOPATOLOGIA

La brusca riduzione della pressione sistolica al di sotto di 80 mm Hg induce la stimolazione dei barocettori (i
principali sono quelli del seno carotideo e del seno aortico), determinando:

 vasocostrizione delle arteriole e delle meta-arteriole attraverso una stimolazione del sistema nervoso
simpatico;
 aumento della frequenza cardiaca attraverso l’inibizione del sistema nervoso parasimpatico.

La caduta della pressione sistemica induce:

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168 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 aumento della stimolazione dei chemocettori (i principali sono situati nell’arco aortico e alla biforcazione
delle carotidi), determinando:
 iperventilazione, per migliorare l’ossigenazione del sangue;
 tachicardia riflessa (il riflesso tachicardizzante è di origine polmonare, prodotto dall’iperventilazione);
 aumento dei livelli di catecolamine circolanti, responsabili della vasocostrizione arteriosa e venosa;
 attivazione dell’asse renina-angiotensina-aldosterone, quale risposta renale all’ipoperfusione sistemica,
con conseguente ritenzione di sodio e di liquidi.

Tali risposte hanno come effetto l’aumento della pressione telediastolica e dei volumi del ventricolo
sinistro. Sebbene ciò compensi parzialmente la riduzione della funzione ventricolare sinistra, un’elevata
pressione telediastolica del ventricolo sinistro determina edema polmonare, con alterazione degli scambi
gassosi polmonari. La conseguente acidosi respiratoria aumenta ulteriormente l’ischemia miocardica, la
disfunzione ventricolare sinistra e la trombosi intravascolare (Figura 1).

Se la causa che ha provocato il collasso cardiocircolatorio è reversibile e agisce per breve tempo, la crisi può

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169 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

risolversi con il ripristino di normali valori di pressione sistemica. Quando, invece, questa reazione
compensatoria è insufficiente a far fronte all’ipotensione, si innesca una spirale discendente che conduce,
attraverso il perpetuarsi di una condizione di ischemia miocardica, ad un progressivo peggioramento della
funzione cardiaca, fino alla morte (Figura 2).

In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, le porzioni di miocardio non ischemiche
diventano ipercontrattili ed aumentano il loro consumo di ossigeno. Le conseguenze di questa risposta
dipendono dall’estensione del danno e dal precedente stato del miocardio, dalla gravità della patologia
coronarica sottostante, dalla presenza di altre patologie valvolari.
Si possono verificare tre condizioni:

 compenso: ripristino della normale pressione arteriosa e normale pressione di perfusione miocardica
 compenso parziale: stato di pre-shock con portata cardiaca e pressione arteriosa moderatamente ridotte
e conseguente aumento della frequenza cardiaca ed elevata pressione telediastolica ventricolare sinistra
 shock: si sviluppa rapidamente e determina una marcata ipotensione e peggioramento dell’ischemia
miocardica globale. Senza un’immediata riperfusione, i pazienti in questa condizione presentano una
limitata possibilità di sopravvivenza.

SINTOMI E SEGNI CLINICI

 A fronte di un elevato numero di segni clinici, lo shock cardiogeno può teoricamente manifestarsi in
assenza di sintomi avvertiti dal paziente; quando questi sono presenti, si tratta per lo più dei
sintomi di un infarto miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, cardiopalmo, nausea, vomito,
astenia).
Il paziente in shock cardiogeno presenta solitamente alterazioni dello stato di coscienza, come
risultato della ridotta perfusione cerebrale; altri segni di ipoperfusione d’organo conseguenti alla
ridotta gittata cardiaca sono la contrazione della diuresi, l’insufficienza epatica, la cianosi, la
marezzatura delle estremità. Queste alterazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano
abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la gittata cardiaca rapportata alla superficie
corporea) non scende sotto il valore di 2,2 l/min/m2.
L’esame obiettivo mostra cute pallida ipotermica e sudata, distensione giugulare, aumentata
frequenza cardiaca. Il polso arterioso è iposfigmico, irregolare in presenza di aritmie; un polso
paradosso compare se la causa dello shock è il tamponamento cardiaco (vedi Capitoli 2 e 32).
L’ascoltazione del torace rivela rantoli se è presente edema polmonare alveolare.
L’obiettività cardiaca presenta spesso un ritmo di galoppo (terzo e/o quarto tono); se lo shock

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170 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

cardiogeno deriva dalle complicanze meccaniche di un infarto miocardico, possono essere udibili
anche i soffi da insufficienza mitralica (vedi Capitolo 15) o da difetto del setto interventricolare.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Per la diagnosi di shock cardiogeno è necessario confermare la presenza di disfunzione cardiaca o di


eventuali ostacoli meccanici al riempimento ventricolare (per esempio tamponamento cardiaco, pericardite
costrittiva, trombi o mixomi striali, embolia polmonare massiva, stenosi mitralica serrata). E’ altresì
importante escludere altre potenziali cause di grave ipotensione come l’ipovolemia, l’emorragia e la sepsi.
L’iter diagnostico, partendo dall’anamnesi e dall’esame obiettivo del paziente, procede considerando i
seguenti esami diagnostici:

 Elettrocardiogramma:

Può mostrare segni di infarto miocardico acuto o di precedenti cardiopatie, o mettere in luce aritmie. Un
ECG normale, tuttavia, non esclude la diagnosi di shock cardiogeno.

 Radiografia del torace

E’ utile nel valutare le dimensioni cardiache, la presenza di congestione polmonare o di altre eventuali
patologie polmonari. Fornisce inoltre una stima approssimativa delle dimensioni del mediastino e della
radice aortica, utili per escludere una dissezione dell’aorta.

 Esami ematochimici

La determinazione dei marker di necrosi miocardica può essere fondamentale per diagnosticare un infarto
miocardico acuto quale causa di shock cardiogeno nei casi in cui il tracciato elettrocardiografico non sia
interpretabile. E’ anche utile misurare la concentrazione dei gas ematici nel sangue arterioso
(emogasanalisi arteriosa), dal momento che la presenza di acidosi può avere effetti particolarmente
dannosi sul miocardio.
4. Ecocardiogramma
Permette di ottenere informazioni circa la funzione sistolica globale e segmentaria dei ventricoli e consente
di giungere rapidamente al riconoscimento delle cause meccaniche di shock, quali rottura di un muscolo
papillare con insufficienza mitralica acuta, rottura acuta del setto interventricolare o della parete libera
ventricolare con tamponamento cardiaco, malfunzionamento di apparati valvolari protesici.
5. Monitoraggio invasivo e cateterismo cardiaco destro.
L’incannulamento di un’arteria permette il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa, mentre quello
di una vena, incuneando un catetere (catetere di Swan-Ganz, vedi Capitolo 11) a livello dei capillari
polmonari, permette di ottenere parametri emodinamici fondamentali per la diagnosi, quali la portata
cardiaca e le pressioni di riempimento ventricolare.

GESTIONE INIZIALE DEL PAZIENTE

Il trattamento dello shock cardiogeno ha innanzitutto lo scopo di migliorare la funzione cardiaca.


L’approccio iniziale al paziente con shock cardiogeno dovrebbe includere:
1) Gestione delle vie aeree
Il paziente in stato di shock ha spesso un diminuito livello di coscienza che lo rende incapace di proteggere
adeguatamente le proprie vie aeree e di provvedere spontaneamente alla respirazione. In questi casi
l’intubazione endotracheale e la ventilazione meccanica sono provvedimenti obbligati. Se il paziente è
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171 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ancora in grado di ventilare in maniera adeguata è comunque indispensabile fornirgli ossigeno ad alti flussi,
utilizzando maschere, per avvicinarsi quanto più possibile al 100% di ossigeno inspirato.
2) Reperimento di un accesso venoso
Può essere un accesso venoso periferico o, meglio, un accesso venoso centrale (vena femorale, giugulare o
succlavia). Attraverso questa via possono essere somministrati liquidi e farmaci. L’introduzione dei fluidi
deve essere effettuata con attenzione, in modo da assicurare un adeguato precarico e ottimizzare la
funzione ventricolare (specialmente in presenza di infarto ventricolare destro), evitando l’eccessiva
somministrazione di liquidi, che potrebbe condurre all’edema polmonare.
3) Monitoraggio elettrocardiografico
Tachicardie e blocchi atrioventricolari possono ridurre in maniera significativa la gittata cardiaca. Il loro
tempestivo riconoscimento e trattamento è un elemento di estrema importanza.
4) Monitoraggio emodinamico
Consente il controllo continuo della pressione di riempimento (pressione diastolica ventricolare sinistra)
attraverso la misurazione della pressione atriale sinistra “indiretta”, ottenibile mediante misurazione della
pressione polmonare con catetere di Swan Ganz (vedi Capitolo 11).
5)Posizionamento di un catetere vescicale
E’ di estrema importanza il monitoraggio della diuresi oraria, essendo la contrazione della diuresi uno dei
primi segni di bassa portata cardiaca.

CENNI DI TERAPIA

Terapia farmacologica

 Morfina: nell’infarto miocardico può alleviare l'intenso dolore toracico, contribuire a ridurre gli elevati
livelli di catecolamine circolanti e diminuire il precarico e il postcarico. La risposta deve essere
attentamente monitorata perché la morfina causa depressione respiratoria, provoca dilatazione venosa e
può ridurre la pressione arteriosa.
 Agenti inotropi: se la pressione arteriosa sistemica è inferiore a 80-90 mm Hg, è necessario infondere un
agente pressorio come la dopamina. A dosi relativamente basse, 2-5 µg/kg per minuto, il farmaco induce
aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, mediato dalla stimolazione ß-adrenergica, e
incremento del flusso renale mediato da recettori specifici dopaminergici. Gli effetti vasocostrittori a-
adrenergici si manifestano a dosi superiori ai 5 µg/kg per minuto.

Se si rendono necessarie alte dosi di dopamina per mantenere una perfusione adeguata, si deve prendere
in considerazione il passaggio all’infusione di noradrenalina. Questo farmaco è un potente costrittore
arteriolare e venoso, la cui azione è mediata attraverso una stimolazione a-adrenergica, mentre la
stimolazione ß-adrenergica è relativamente modesta.
Quando la pressione arteriosa sistemica è 90 mm Hg o superiore, il farmaco di scelta è la dobutamina, che
può produrre un aumento della pressione sistemica attraverso l’incremento della gittata cardiaca.

 Vasodilatatori: visto che questi farmaci riducono la pressione arteriosa, il loro impiego deve essere
associato a quello di un agente inotropo. Il farmaco principalmente utilizzato è il nitroprussiato di sodio, il
quale riduce sia il precarico che il postcarico del ventricolo sinistro.
 Diuretici: il loro impiego è riservato ai casi di shock cardiogeno con edema polmonare acuto. I diuretici più
utilizzati sono quelli dell’ansa (per esempio, furosemide), associati ai risparmiatori di potassio (per
esempio, spironolattone).

Supporto meccanico
La stabilizzazione del paziente in shock cardiogeno può essere ottenuta mediante un supporto circolatorio
meccanico, cioè con l’impiego del contropulsatore aortico. Questo consiste in un palloncino montato su un

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172 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

catetere vascolare e collegato tramite un tubo ad una consolle di comando che è in grado di monitorizzare
l'ECG e la curva di pressione arteriosa, sincronizzando l'insufflazione e la desufflazione del palloncino con il
ciclo cardiaco. Il catetere viene inserito per via percutanea attraverso l'arteria femorale, e la sua punta è
posizionata in aorta discendente 1-2 centimetri sotto l'emergenza della arteria succlavia di sinistra e sopra
l'origine delle arterie renali (Figura 3).

Il gonfiaggio del pallone del contropulsatore avviene precocemente in diastole, determinando un notevole
aumento della pressione aortica diastolica fin quasi ai livelli della pressione aortica sistolica, e aumentando
di conseguenza il flusso sanguigno coronarico. Inoltre, lo sgonfiaggio del pallone all’inizio della sistole
riduce la pressione aortica, con conseguente diminuzione del consumo di ossigeno da parte del miocardio e
delle resistenze periferiche (postcarico). La contropulsazione aortica è generalmente riservata ai pazienti in
shock cardiogeno dovuto a una condizione potenzialmente reversibile, o nei quali si prenda in
considerazione il trapianto cardiaco (Tabella II).

Tali condizioni comprendono l’infarto miocardico ancora in evoluzione e l’infarto associato a una grave
complicanza meccanica (insufficienza mitralica o difetto del setto interventricolare).
In caso di shock cardiogeno secondario a infarto miocardico acuto, il ripristino del flusso ematico coronarico
è la terapia più efficace per salvare i pazienti che non rispondono all’infusione di liquidi o al trattamento
farmacologico. Le possibilità comprendono l’angioplastica e il by-pass aorto-coronarico. Nei casi in cui,
invece, lo shock cardiogeno è causato da una complicanza meccanica dell’infarto miocardico, la terapia
chirurgica di riparazione della lesione e/o sostituzione valvolare è la sola strada percorribile.

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Capitolo 23
FISIOPATOLOGIA DELL’ISCHEMIA MIOCARDICA
Filippo Crea, Gaetano A. Lanza

METABOLISMO DELLE CELLULE MIOCARDICHE

Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un apporto continuo di
ossigeno. Il loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e già di base comporta l’estrazione di circa il
70% dell'ossigeno dal sangue durante il suo passaggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento
significativo della richiesta di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso
coronarico (Figura 1).

Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel processo di
contrazione, la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale del consumo miocardico di ossigeno.
Di fatto, un raddoppio della sola FC (ad esempio, durante pacing atriale) comporta un raddoppio del
consumo miocardico di ossigeno.
Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno sono la pressione
arteriosa (PA,postcarico), la pressione e il volume ventricolare in diastole (precarico) e l’inotropismo
cardiaco.
Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del ritorno venoso (precarico)
contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di ossigeno, e quindi la richiesta di un aumento
del flusso coronarico (Figura 2).

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175 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Mentre la misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi invasivi, una
valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA
sistolica (doppioprodotto), largamente utilizzato nella pratica clinica per stimare il consumo miocardico di
ossigeno, in particolare il suo incremento durante sforzo.

LA CIRCOLAZIONE ARTERIOSA CORONARICA

Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta in tre principali
compartimenti, collegati in serie (Figura 3).

Il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza epicardiche, che hanno funzione
conduttiva e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la pressione rimane sostanzialmente
costante lungo il loro decorso. Durante la contrazione miocardica il sangue viene spinto in senso retrogrado
dai vasi intramiocardici verso i vasi epicardici, il cui contenuto aumenta quindi di circa il 25%. L'energia
elastica accumulata durante la sistole si trasforma in energia cinetica durante la diastole, contribuendo a
garantire un adeguato flusso coronarico in questa fase. Le arterie coronarie di conduttanza modificano il
loro tono in risposta a variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-dipendente dei

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176 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

vasi, e per effetto di sostanze vasoattive locali o circolanti e di stimoli neurogeni.


I vasi distali sono vasi di resistenza ed hanno dimensioni inferiori a 0.5 mm. Per le loro dimensioni, questi
vasi non sono visibili all’angiografia coronarica e costituiscono la vasta area del microcircolo coronarico. Dal
punto di vista funzionale, le piccole arterie cardiache possono essere divise in due distretti, uno prossimale,
rappresentato dalle prearteriole, ed uno distale, rappresentato dalle arteriole.
Le prearteriole hanno dimensioni di 100-500 µm e contribuiscono per il 25-30% alla resistenza coronarica
totale. La loro funzione principale è di mantenere la pressione di perfusione all'origine delle arteriole a
livelli ottimali. A tale scopo vanno incontro a vasocostrizione miogena in presenza di un aumento, e a
vasodilatazione in caso di riduzione, della pressione arteriosa sistemica.
Le arteriole hanno dimensioni <100 µm di diametro e contribuiscono per il 40% circa alla resistenza
coronarica. Esse sono la sede della regolazione metabolica del flusso coronarico. Per la loro posizione,
infatti, esse risentono dell’attività metabolica delle cellule miocardiche, modificando il loro tono vasale in
modo da adattare il flusso coronarico alle richieste energetiche. Così, le arteriole si dilatano in caso di un
aumento del metabolismo cardiaco, che comporta un’aumentata richiesta di ossigeno, consentendo un
adeguato aumento di flusso. Nei casi di maggiore richiesta di ossigeno miocardico, la riduzione massimale
della resistenza coronarica consente un aumento anche di 4-5 volte del flusso coronarico, e quindi
dell’apporto di ossigeno, come nel caso di sforzi intensi. La capacità di aumento massimale del flusso
coronarico rispetto al basale costituisce la cosiddetta riserva coronarica (che è espressa matematicamente
come rapporto tra flusso durante vasodilatazione massimale e flusso basale). Oltre che dallo stato
metabolico delle cellule miocardiche, comunque, il tono delle arteriole è anch’esso modulato da fattori
autacoidi locali, da sostanze vasoattive circolanti e da stimoli neurogeni.

CONTROLLO DEL FLUSSO CORONARICO

Diversi fattori contribuiscono alla complessa regolazione del flusso coronarico.

Forze meccaniche extravascolari


Una caratteristica esclusiva del cuore è che esso stesso genera la pressione di perfusione del suo sistema
arterioso. Durante la sistole le forze extravascolari intramiocardiche superano quella intravascolari: i vasi
intramiocardici vengono, quindi, occlusi e il sangue in parte addirittura espulso verso i vasi epicardici. Il
flusso anterogrado è quindi praticamente abolito durante la sistole, soprattutto negli strati subendocardici,
che ricevono quindi sangue esclusivamente in diastole (Figura 4).

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177 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Regolazione del tono vascolare coronarico


I fattori che contribuiscono a regolare il tono vascolare coronarico, e quindi il flusso coronarico, sono
numerosi e possono variare nei diversi compartimenti arteriosi.
a) La regolazione miogenica fa sì che il tono vasale arterioso aumenti quando la pressione arteriosa
aumenta, mentre si riduce quando la pressione decresce, ed ha, quindi, lo scopo di mantenere costante il
flusso in proporzione alle variazioni della pressione di distensione del vaso. Essa sembra esplicarsi
soprattutto nelle prearteriole.
b) La regolazione metabolica del tono vascolare avviene a livello delle arteriole. L’aumento della domanda
di ossigeno causa il rilascio, da parte dei miocardiociti, di sostanze vasodilatatrici che determinano
dilatazione arteriolare, consentendo così l’aumento del flusso. Tra le sostanze implicate nella regolazione
del flusso coronarico, un ruolo rilevante sembra essere svolto dall'adenosina, che, con l'aumento del
metabolismo energetico, viene prodotta in maggiori quantità dai miocardiociti, in seguito alla maggiore
scissione delle molecole di adenosin trifosfato (ATP). L’adenosina agisce sui recettori adenosinici A2 delle
cellule muscolari lisce vascolari, attivando l'adenilato-ciclasi intracellulare, che determina la produzione di
AMP ciclico. Altri fattori, tuttavia, possono contribuire alla vasodilatazione metabolica (pressione tissutale
di ossigeno, pH, concentrazione di potassio, pressione osmotica, attivazione dei canali ATP-sensibili del
potassio, bradichinina). L'aumento del flusso conseguente alla vasodilatazione arteriolare può continuare
ad essere garantito grazie anche alla vasodilatazione flusso-mediata, in larga parte endotelio-dipendente,
che si determina nei vasi prossimali, in particolare nelle pre-arteriole, come conseguenza dell’aumento
della velocità di flusso.
c) La regolazione neurogenica del tono vasale è dovuta agli effetti esplicati sui vasi dal sistema nervoso
autonomo simpatico e parasimpatico.
La stimolazione simpatica causa un aumento del tono vasomotore e della resistenza coronarica tramite
stimolazione dei recettori 1 2 da parte della noradrenalina. Un -tono sembra presente già in condizioni
di riposo, in quanto la somministrazione di -bloccanti causa un aumento di circa il 10% del flusso
coronarico basale. D’altro canto, la stimolazione dei recettori ß1 e ß2 determina una vasodilatazione, con
riduzione del 20-30% della resistenza coronarica. L’effetto complessivo della stimolazione
adrenergica in vivo (ad esempio, durante uno sforzo) è comunque quello di un aumento del flusso
coronarico. Ciò è soprattutto secondario all'aumento del consumo miocardico di ossigeno che essa
determina, con conseguente vasodilatazione metabolica.
Il ruolo del sistema nervoso parasimpatico nella regolazione del circolo coronarico non è completamente

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178 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

chiaro: invivo la stimolazione vagale tende a determinare un aumento del tono vasomotore, soprattutto
come effetto secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del consumo miocardico di
ossigeno.
d) Un ruolo molto importante è svolto dalla regolazione endotelio-mediata del circolo coronarico, diventata
evidente in anni recenti. Molti studi hanno infatti dimostrato che l'endotelio può essere considerato come
un vero e proprio organo endocrino, in grado di produrre numerose sostanze, alcune delle quali svolgono
un ruolo cruciale nella regolazione del flusso sanguigno (vedi Capitolo 47).
Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto attività vasodilatatrice, e
comprendono l'endothelium-derived relaxing factor (EDRF), la prostaciclina (PGI2) e l'endothelium-
derived hyperpolarizing factor (EDHF) (Figura 5,Figura 6).

L'EDRF ha emivita breve (5 secondi) ed è stato identificato con l'ossido nitrico (NO). Esso agisce attivando la

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179 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, che risulta nella fomazione di guanosin-monofosfato ciclico
(cGMP). L’EDRF sembra avere un ruolo nel determinare il tono vascolare basale; la somministrazione
dell’inibitore NG-monometil-L-arginina, infatti, riduce il flusso ematico a vari livelli. Molte sostanze
vasoattive (ad esempio, acetilcolina, serotonina, bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore
determinando il rilascio di EDRF da parte delle cellule endoteliali(vasodilatazione endotelio-
mediata). L'EDRF, inoltre, sembra essere la sostanza principalmente responsabile della vasodilatazione che
si ottiene in risposta all'aumento del flusso coronarico (vasodilatazione flusso-mediata).
La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall'acido arachidonico. Ha anch’essa emivita breve (10 secondi) ed è
rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a diverse sostanze (ad esempio., bradichinina, trombina,
serotonina). Sembra contribuire anch'essa al tono vasale basale e alla vasodilatazione flusso mediata.
L'EDHF non è stato ancora ben identificato chimicamente; probabilmente deriva anch'esso dall'acido
arachidonico ed ha emivita breve. Dati sperimentali suggeriscono che esso causi vasodilatazione mediante
apertura dei canali del potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce. Sembra
venire anch'esso rilasciato in risposta allo shear stress ed al flusso pulsatile, oltre che a diverse sostanze (ad
es., acetilcolina, sostanza P, bradichinina, CGRP).
Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in particolare l'endotelina-1 (ET-
1), l'angiotensina II, l'endothelium-derived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai radicali
liberi dell'ossigeno (Figura 5, Figura 6). Se queste sostanze abbiano un qualche ruolo nella regolazione
fisiologica del circolo coronarico non è chiaro. Viceversa, l’attività vasocostrittrice
dell’endotelio (attivazione dell’endotelio) può aumentare in alcune condizioni patologiche (per esempio,
ipertensione arteriosa, diabete, aterosclerosi, ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai
loro effetti negativi.
L’ET-1, in particolare, è il più potente vasocostrittore conosciuto nell'uomo, agisce su due tipi di recettori
principali, ETAed ETB. L’azione vasocostrittrice è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule
muscolari lisce. La stimolazione di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce rilascio di NO
ed inibisce quello di ET-1, tendendo a contrastare così gli effetti vasocostrittori dell’ET-1.

Integrità della parete vasale


Lo svolgimento di un normale flusso coronarico comporta l’integrità della parete vasale. Ancora una volta, è
soprattutto l'endotelio a garantire questa integrità. Esso, infatti, previene la diffusione di sostanze
aterogene nella parete arteriosa, produce costituenti della lamina basale e della matrice extracellulare
dell'intima (che possono riparare danni vasali), ed inibisce la crescita e la migrazione cellulare mediante la
sintesi di eparan-solfato ed NO (Figura 6). L'endotelio ha inoltre un ruolo chiave nel preservare la fluidità
del sangue, in quanto il suo rivestimento interno con proteoglicani forma una barriera elettronegativa che
previene l'adesione delle piastrine e delle altre cellule circolanti. La sintesi di NO e PGI2, inoltre, ostacola
l'adesione e l'aggregazione piastrinica. Infine, le cellule endoteliali secernono diverse sostanze con attività
anticoagulante, come l'eparan-solfato, che catalizza l'inattivazione della trombina da parte
dell'antitrombina III, e la trombomodulina, che si lega a trombina e proteina C, e sostanze in grado di
attivare il plasminogeno, e quindi la fibrinolisi, come lo urokinase type plasminogen activator (u-PA) ed
il tissue typeplasminogen activator (t-PA).

FISIOPATOLOGIA DELL’ISCHEMIA MIOCARDICA


Filippo Crea, Gaetano A. Lanza

DEFINIZIONE

L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare le richieste di
ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule miocardiche per svolgere le proprie funzioni.
Quando sufficientemente grave e prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa, in
caso di occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati subendocardici,
più sensibili al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più tardivamente quelli subepicardici.
L’ischemia miocardica può essere causata da due principali meccanismi, che possono, tuttavia, combinarsi

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180 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

tra loro nel determinare gli episodi ischemici: (1) impossibilità di aumentare in modo adeguato il flusso
coronarico per soddisfare un aumento della domanda miocardica di ossigeno, in genere a causa della
presenza di una stenosi coronarica, e (2) riduzione primaria del flusso coronarico, dovuta a vasocostrizione,
spasmo o trombosi coronarica.

STENOSI CORONARICHE EPICARDICHE

Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il substrato più frequente
dell’ischemia miocardica. Una stenosi coronarica è emodinamicamente significativa quando è in grado di
opporre, già a riposo, una resistenza al flusso ematico, tale da determinare una caduta della pressione a
valle. Ciò comincia a verificarsi, in genere, quando il diametro del lume viene ridotto del 50%. Oltre questa
riduzione critica, ogni ulteriore aumento della stenosi causa una sempre maggiore riduzione della pressione
a valle, con una relazione di tipo esponenziale. La relazione tra caduta pressoria e flusso a livello di una
stenosi, tuttavia, non è semplicemente lineare, essendo la riduzione del flusso superiore a quella predetta
dalla riduzione della pressione (Figura 7).

Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua riduzione a valle di una
stenosi tende a ridurre il flusso. In condizioni basali, tuttavia, in corrispondenza di una stenosi non si
osserva riduzione del flusso coronarico, in quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione
della resistenza coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche. Questa
vasodilatazione compensatoria, tuttavia, riduce lariserva coronarica, vale a dire la capacità di aumento
massimo del flusso in risposta all’aumento del fabbisogno metabolico del miocardio. Il livello di lavoro
cardiaco oltre il quale non è più possibile incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per
cui si sviluppa ischemia, è definito soglia ischemica.
L'ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente limitata agli strati
subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore riserva coronarica, e sono quindi più
suscettibili all’ischemia, rispetto agli strati subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule
subendocardiche è di base maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress
sistolico parietale cui sono soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 15-20%
superiore a quello subepicardico, nonostante sia sottoposto a maggiori forze compressive extramurali, con
conseguente minore capacità di incremento relativo durante aumento della domanda di ossigeno (Figura
8).

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181 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Oltre queste condizioni sfavorevoli, altri fattori, in presenza di una stenosi, possono contribuire a facilitare
l'ischemia subendocardica in caso di aumento del lavoro cardiaco, come l’accorciamento della diastole
(durante una tachicardia) e un aumento ulteriore delle forze extravascolari (per esempio, in caso di
aumento della pressione telediastolica ventricolare sinistra).
Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito dal furto coronarico transmurale, che si
verifica quando, in presenza di un vaso con una stenosi, in genere molto critica, il flusso ematico si
ridistribuisce dal subendocardio al subepicardio come conseguenza della vasodilatazione massimale dei vasi
di resistenza subepicardici. Infatti, poiché la riserva coronarica subendocardica e’ inferiore a quella
subepicardica, una volta che la riserva subendocardica si esaurisce (per vasodilatazione massimale dei vasi
subendocardici), un’ulteriore vasodilatazione epicardica comporterà un’ulteriore caduta della pressione
post-stenotica, con conseguente riduzione della perfusione subendocardica, che diventera’ insufficiente
per le richieste metaboliche del subendocardio (Figura 9).

Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata all’angiografia coronarica

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182 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

visivamente o usando metodi di misurazione quantitativa. La semplice valutazione del grado di una stenosi
coronarica all’angiografia, tuttavia, ha diverse limitazioni. Altri fattori, infatti, possono avere importanza nel
determinare le conseguenze emodinamiche della stenosi, come il diametro del vaso originario, la lunghezza
e la concentricità o eccentricità della stenosi e la presenza di altre stenosi nel vaso. Le conseguenze
emodinamiche della stenosi possono ancora essere influenzate dalla modulazione dinamica del tono vasale
a livello della stenosi e di quello del microcircolo distale, dalla presenza ed estensione di vasi collaterali e
dalla resistenza extravascolare.
In particolare, le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè, variazioni vasomotorie del
lume in grado di modificare il grado di stenosi, e quindi la riserva coronarica, dando origine ad un pattern
anginoso caratterizzato da una significativa variabilità della la soglia ischemica, in contrasto con la stabilità e
predicibilità della soglia ischemica nei casi di stenosi coronariche fisse. La dinamicità di una stenosi può
essere valutata saggiando la risposta vasomotoria alla somministrazione intracoronarica di sostanze
vasodilatatrici e vasocostrittrici.
Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi coronarica è lo sviluppo di
unacircolazione coronarica collaterale verso il territorio ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da
vasi anastomotici preesistenti, sia, più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione. Lo sviluppo e
l'entità di una circolazione collaterale varia consistentemente da paziente a paziente, e il flusso nei vasi
collaterali è influenzato sia da fattori nervosi e umorali, sia da sostanze vasoattive autacoidi locali.

TROMBOSI CORONARICA

I fenomeni trombotici costituiscono il meccanismo fisiopatologico principale dell’ischemia miocardica nelle


sindromi coronariche acute (Figura 10).

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183 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Quando transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea; se prolungata o persistente, tuttavia,
essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di tessuto miocardico.
I meccanismi responsabili della trombosi coronarica sono complessi e ancora non del tutto chiariti. I trombi,
tuttavia, si formano in genere a livello di placche aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura,
fissurazione o emorragia), che espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare
efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e procoagulanti, e,
quindi, trombotica (vedi Capitolo 45).
In almeno il 30% circa dei casi, tuttavia, trombi coronarici sono riscontrati a livello di placche non fissurate
ed esenti da stenosi di rilievo e da apparenti danni della parete vasale. In questi casi, la formazione di un
trombo è probabilmente facilitata da lesioni microscopiche (erosioni) e/o da alterazioni funzionali
dell'endotelio, secondarie a stimoli di varia natura (meccanici, anossici, chimici, infettivi, immunologici), in
grado di compromettere in modo rilevante le funzioni antitrombotiche e vasodilatatrici delle cellule
endoteliali, che sono anzi stimolate a produrre potenti sostanze vasocostrittrici ed esporre recettori di
adesione leucocitaria e piastrinica (attivazione dell’endotelio).
Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a livello di stenosi), e
possono essere causate da molteplici fattori, meccanici (alterato shear stress), chimici (LDL ossidate),
infettivi (virus, batteri), e immunologici (anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati). In
anni recenti, inoltre, è stata accumulata evidenza che un'importante componente patogenetica della
formazione di trombi intracoronarici, e quindi delle sindromi coronariche acute, è costituita da processi
infiammatori delle placche aterosclerotiche, che ne favoriscono le complicanze e stimolano localmente sia
meccanismi trombotici che vasocostrittori.
Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è costituita dall’adesione
di piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una serie di meccanismi che portano alla
formazione di un trombo piastrinico, che, in presenza di stenosi critiche, può di per sé causare
subocclusione o occlusione del vaso (e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale).
Più frequentemente, soprattutto in presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale piastrinico viene
seguito dalla formazione di un trombo più stabile, per l’attivazione del sistema emostatico, che porta a
deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina, globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale
occlusione del vaso.
Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da quanto esso riduce il
lume, dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti, variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in
poco tempo, per cui causa solo un'ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo
parzialmente, rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della
preesistente stenosi con successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte, infine, subisce una rapida
crescita che causa l'occlusione totale del vaso, con grave ischemia e necrosi miocardica. Il destino finale del
trombo è il frutto di una complessa interazione tra fattori protrombotici e antitrombotici, che coinvolge
anche fattori emodinamici, vasomotori e fibrinolitici.
Va osservato come trombi, sia ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a microembolie distali che
causano aree di ischemia o necrosi miocardica circoscritta. Va infine ricordato come una trombosi può
localmente complicare uno spasmo coronarico, facilitando l'occlusione e l'infarto miocardico in pazienti con
angina vasospastica.

SPASMO CORONARICO

Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle cellule muscolari lisce di un
segmento di un’arteria coronaria epicardica, che occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con
conseguente ischemia miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia in vasi
completamente normali e, dal punto di vista clinico, è anzitutto il meccanismo responsabile dell’angina
variante di Prinzmetal (Figura 11).

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184 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il substrato che rende un vaso coronarico suscettibile allo spasmo non è noto. E’ probabile, tuttavia, che
esso risieda in una o più alterazioni delle vie intracellulari post-recettoriali di trasmissione e modulazione
dei segnali che regolano la contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una loro
iperreattività agli stimoli vasocostrittori. Ciò è suggerito dal fatto che lo spasmo può essere indotto, in
genere, da vari stimoli vasocostrittori (catecolamine, acetilcolina, alcalosi, ergonovina, serotonina,
istamina) che agiscono su recettori differenti (Figura 12).

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185 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 23
FISIOPATOLOGIA DELL’ISCHEMIA MIOCARDICA
Filippo Crea, Gaetano A. Lanza

DISFUNZIONE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO

Diversi dati, in anni recenti, hanno suggerito come alterazioni del flusso coronarico a livello dei piccoli vasi
coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole), che non sono visibili all’angiografia coronarica, possano
essere responsabili di un’ischemia miocardica. Ad esempio, è stato osservato che l'infusione intracoronarica
di neuropeptide Y o di alte dosi di acetilcolina in soggetti con arterie coronarie epicardiche normali può
indurre ischemia miocardica in assenza di variazioni significative delle arterie epicardiche, ma in presenza di
una diffusa vasocostrizione dei rami distali e di un lento run off del mezzo di contrasto, indicativo di
un’intensa vasocostrizione microvascolare.
Una disfunzione microvascolare sembra implicata nei meccanismi che causano ischemia miocardica in
alcune condizioni cliniche. In pazienti con occlusione totale isolata di un vaso epicardico la
somministrazione di ergonovina può causare riduzione del flusso collaterale in assenza di modificazioni dei
vasi epicardici, suggerendo che variazioni rilevanti della soglia ischemica siano conseguenti a variazioni del
tono dei vasi di resistenza. In pazienti
con stenosiisolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazione percutaneo, la
persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG durante sforzo, a dispetto del successo
della procedura, suggerisce una causa microvascolare, come indicato da anomalie nell’incremento del
flusso coronarico in risposta a stimoli vasodilatatori (Figura 13).

Alterazioni della resistenze coronariche sono state, inoltre, dimostrate distalmente a stenosi coronariche in
pazienti con cardiopatia ischemica stabile o instabile, in vasi non stenotici di pazienti con stenosi ostruttive
in altri rami coronarici epicardici, e in pazienti con fattori di rischio per malattia coronarica ma con arterie
epicardiche angiograficamente normali. Infine, una disfunzione microvascolare è ritenuta essere
responsabile dellasindrome X cardiaca, una condizione clinica caratterizzata da episodi anginosi, indotti
prevalentemente dallo sforzo, in presenza di arterie coronarie angiograficamente normali.
I meccanismi della disfunzione dei piccoli vasi arteriosi coronarici sono al momento poco noti, ma sono
verosimilmente molteplici e differenti non solo nelle diverse condizioni cliniche, ma anche all’interno di uno

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186 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

stesso gruppo di pazienti. In pazienti con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in
genere attribuita all'aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi perivascolare,
ipertrofia della media) associate ad eventuali malattie sistemiche concomitanti (ad es., ipertensione,
diabete). Di contro, nei pazienti con sindrome X cardiaca, in cui non sono presenti ostruzioni epicardiche,
sono state riportate alterazioni strutturali dei piccoli vasi coronarici solo in alcuni casi, mentre sono state
descritte diverse alterazioni in grado di determinare disfunzione del microcircolo ed ischemia miocardica.
Uno schema dei meccanismi potenzialmente coinvolti nella sindrome X è riportato nella Figura 14.

Capitolo 24
SINDROMI CORONARICHE CRONICHE
Mario Marzilli

DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche croniche si identificano con l’angina stabile o angina cronica, termine che definisce
una sindrome caratterizzata da attacchi di ischemia miocardica che si producono in circostanze simili,
relativamente prevedibili e riproducibili, generalmente associate a sforzo fisico.
Meno della metà degli episodi ischemici si accompagna a sintomatologia dolorosa e la gran parte degli
attacchi ischemici è quindi silente.
L’esordio dell’angina pectoris rappresenta sempre, per definizione, un momento di instabilità:
successivamente la forma, se non evolve verso eventi coronarici maggiori, può entrare nella forma
cosiddetta “stabile”.
L’aggettivo stabile che caratterizza questa sindrome coronarica deve essere inteso:

 come espressione della costanza e ripetibilità delle condizioni in cui si produce l’episodio ischemico
 come espressione della stabilità nel tempo della frequenza e della severità degli episodi di angina.

Questa sindrome ischemica è caratterizzata da una bassa incidenza di eventi maggiori (morte improvvisa,
infarto miocardico) a breve e medio termine.
Il livello di attività a cui compare l’angina o l’ischemia viene definito soglia del dolore o dell’ischemia. La
soglia del dolore può essere calcolata empiricamente, dal racconto del paziente, sulla base della comparsa

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dei sintomi e del momento di inizio e del tipo di attività fisica che ha provocato l’angina, oppure può essere
definita da parametri ergometrici (minuti di esercizio, doppio prodotto, carico di lavoro) al momento della
comparsa di ischemia elettrica (sottoslivellamento di ST) o del dolore.
Quando le variazioni della soglia sono particolarmente evidenti, l’angina perde la sua caratteristica di
stabilità sintomatica (angina a soglia variabile) ma può mantenere la stabilità clinica e la scarsa incidenza di
eventi maggiori nel follow up a breve e medio termine.

PATOGENESI

Il meccanismo patogenetico più comune dell’angina stabile è l’aumento del consumo miocardico di
ossigeno, per lo più dovuto ad esercizio fisico, non accompagnato da un parallelo aumento del flusso
coronarico. Pertanto l’angina cronica stabile è generalmente una angina da sforzo.
L’incapacità di aumentare il flusso coronarico in maniera adeguata all’aumento delle richiesta metaboliche
del miocardico può dipendere da una molteplicità di fattori tra cui: presenza di una stenosi coronarica
severa che riduce marcatamente la riserva coronarica, risposta vasocostrittiva del microcircolo distalmente
ad una placca aterosclerotica, alterazioni del metabolismo energetico miocardico, etc
In qualche caso, l’angina può comparire in condizioni di riposo muscolare, quando, per altri meccanismi, si
verifica comunque un aumento della frequenza cardiaca e/o della pressione arteriosa.

DIAGNOSI CLINICA

In pazienti che si presentano con dolore toracico, una anamnesi accurata, un esame obiettivo mirato ed
una valutazione dei fattori di rischio coronarico consentono, nella maggior parte dei casi, una attendibile
definizione diagnostica.

Il dolore anginoso
Un dolore toracico può aver origine da numerose strutture (cuore, pericardio, grossi vasi, polmone, pleura,
esofago, stomaco) e dipendere da patologie osteo-articolari, nervose o muscolo-cutanee della parete
toracica. L’anamnesirappresenta il primo e spesso anche il più utile approccio nella diagnosi di angina pec
toris.
Il dolore anginoso tipico è definito coi termini di costrizione, oppressione, peso, bruciore, ed è
frequentemente associato a malessere generale ed ansia. La sede tipica è retrosternale con irradiazione
lungo il lato ulnare dell’avambraccio sinistro e la mano, oppure alla mandibola, al collo, ad entrambe le
braccia ed ai polsi o al dorso. Altre sedi del dolore sono l’epigastrio o l’emitorace destro con irradiazione
all’avambraccio omolaterale. Tipicamente il dolore insorge gradualmente, raggiunge la massima intensità
entro un minuto e recede spontaneamente dopo 2-10 minuti con la cessazione del fattore scatenante o con
la somministrazione sub-linguale di nitrati. Altre condizioni che possono determinare l’insorgenza di angina
sono il rapporto sessuale, gli stress emotivi, l’esposizione al freddo, un pasto abbondante o una
associazione di questi fattori (Figura 1).

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188 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Pertanto in alcune condizioni l’attacco anginoso può


manifestarsi anche indipendentemente da uno sforzo
fisico.
Anche se un dolore anginoso tipico si associa
generalmente ad una o più stenosi coronariche, è
importante tener presente che si può avere angina da
sforzo anche in pazienti con valvulopatia, miocardiopatia
ipertrofica, ipertensione, miocardiopatia dilatativa ed in
soggetti senza evidenti anomalie miocardiche o
coronariche (sindrome X).
In ciascun paziente, in caso di recidiva anginosa, la
sintomatologia tende a riprodursi sempre con le stesse
caratteristiche di sede, irradiazione, etc, anche a distanza
di molto tempo.
Pur essendo la sintomatologia anginosa il cardine della
diagnosi di angina, bisogna sempre tener presente che gli episodi ischemici possono manifestarsi con
sintomi diversi dal dolore come dispnea e facile stancabilità, e che oltre la metà degli episodi ischemici
possono essere privi di sintomi (ischemia silente).
Le più comuni forme morbose da considerare in diagnosi differenziale con l’angina stabile sono:
l’aneurisma dell’aorta toracica, l’ernia hiatale con esofagite da reflusso, lo spasmo o reflusso esofageo da
sforzo, la distensione diaframmatica, l’ipertensione polmonare, il pneumotorace, le patologie osteo-
articolari o neuro-muscolari della parete toracica.

Esame obiettivo
L’esame obiettivo di un paziente con angina stabile non evidenzia di solito reperti diagnostici. Si possono,
tuttavia, identificare elementi che aumentano la probabilità di coronaropatia, come la presenza di
vasculopatia aterosclerotica sistemica, l’ipertensione arteriosa, i depositi lipidici cutanei. L’esame obiettivo
eseguito durante un episodio ischemico può evidenziare reperti significativi come la comparsa di 3° o 4°
tono, di soffio da rigurgito mitralico, uno sdoppiamento paradosso del 2° tono (vedi Capitolo II) o di rantoli
basilari che scompaiono poco dopo la cessazione dell’episodio anginoso.

DIAGNOSI STRUMENTALE

In un paziente con dolore toracico, il momento diagnostico più importante rimane l’anamnesi, che
condizionerà la successiva strategia. In un uomo con fattori di rischio e storia di dolore tipico, nessuna
ulteriore indagine negativa potrà ridurre significativamente la probabilità di malattia; la richiesta di indagini
aggiuntive può essere giustificata dall’esigenza di completare la diagnosi di malattia con informazioni
relative alla gravità, sede ed estensione della ischemia miocardica. In un paziente con bassa probabilità
(donna giovane, dolore toracico atipico, assenza di fattori di rischio) un test diagnostico positivo modifica di
poco la probabilità di malattia, ma può innescare una interminabile e spesso inutile serie di esami
aggiuntivi.

Le modificazioni transitorie dell’attività elettrica e contrattile cardiaca e della perfusione miocardica che si
accompagnano ad episodi ischemici provocati in laboratorio possono essere documentate con adeguate
metodologie. Questa documentazione costituisce la base della diagnosi strumentale di angina da sforzo.

Metodiche strumentali per la diagnosi di angina stabile

ECG basale
L’elettrocardiogramma a riposo è generalmente non diagnostico nei pazienti con angina stabile, anche se

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189 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

nell’inquadramento clinico e prognostico del paziente è importante il rilievo di pregresso infarto


miocardico, ipertrofia ventricolare sinistra o anomalie della ripolarizzazione ventricolare.

ECG da sforzo
L’elettrocardiografia da sforzo è la metodica diagnostica di prima scelta in quanto indagine semplice,
ovunque disponibile, a basso costo, relativamente sicura. Il criterio elettrocardiografico più significativo di
ischemia miocardica è rappresentato dalle modificazioni del tratto ST (vedi Capitolo 26).
Una prova da sforzo è considerata positiva quando induce dolore tipico e/o sottoslivellamento discendente
o orizzontale di ST uguale o superiore a 1 mm 0.08 secondi dopo il punto J. L’innalzamento del tratto ST di
almeno 0.5 mm, peraltro piuttosto raro durante test ergometrico nei pazienti senza pregressa necrosi, è di
solito espressione di ischemia transmurale per ostruzione organica o per vasospasmo. Al contrario, il
sopraslivellamento di ST da sforzo nei pazienti con pregressa necrosi deve essere considerato non specifico
per ischemia.
È importante ricordare che talora un test ergometrico mostra alterazioni significative di ischemia non
durante o al picco dello sforzo, ma in fase di recupero.

ECG dinamico.
La registrazione Holter è di scarsa utilità diagnostica nella angina stabile. L’ECG dinamico può essere
riservato alla determinazione, in pazienti già noti, del carico ischemico totale quotidiano, in considerazione
della frequente sovrapposizione di attacchi sintomatici e non.

Metodiche di imaging
Stimoli diversi dall’esercizio fisico impiegati per indurre ischemia in laboratorio sono rappresentati dal test
al dipiridamolo, all’adenosina o alla dobutamina (vedi Capitolo 26). Questi stressor hanno dimostrato di
possedere, quando associati ad un test di immagine, un’accuratezza diagnostica per malattia coronarica
comparabile a quella ottenuta con test da sforzo.
Un test di immagine è indicato:
1) quando il test ergometrico non è fattibile o non interpretabile o controindicato,
2) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di positività ECG ad alto carico in
assenza di angor,
3) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di angor durante test ergometrico in
assenza di modificazioni ECG.

Coronarografia.
Sebbene l’angiografia coronarica (vedi Capitolo 11) non rappresenti una metodica utile per la diagnosi di
angina stabile, una coronarografia è indicata quando ogni tentativo diagnostico strumentale per
confermare o escludere un sospetto clinico sia risultato inefficace.
La coronarografia si rende indispensabile anche quando, una volta raggiunta la diagnosi di angina stabile, il
paziente, sulla base dei dati raccolti, sia definito ad alto rischio e quindi siano indicate procedure di
rivascolarizzazione oppure queste si rendano necessarie per inefficacia della terapia.

STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA

Premessa
Nella stratificazione prognostica dei pazienti con angina stabile è importante tener presente che il rischio di
andare incontro a eventi cardiovascolari gravi è basso: in questi pazienti l’incidenza di morte cardiaca è
stata calcolata fra l’1,5 e il 2% ad un anno, e quella dell’infarto non fatale intorno all’1% per anno.

La clinica
Nei pazienti con sindromi coronariche croniche, il rischio aumenta con l’aumentare della gravità dell’angina
e con il peggiorare della funzione ventricolare sinistra secondo la classe NYHA, con la comparsa di sintomi e
segni di insufficienza di pompa durante sforzo o angor, e se sono presenti episodi sincopali, eventualmente

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190 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

associati allo sforzo o all’angina.


La prognosi peggiora inoltre con l’età avanzata, se il paziente ha nella storia un infarto miocardico, se soffre
di ipertensione arteriosa, se continua a fumare.

ECG ed Ecocardiogramma di base


La presenza di un ECG di base alterato è considerata segno prognostico sfavorevole. Un esame
ecocardiografico in condizioni di base è utile per definire l’eventuale presenza e grado di disfunzione
ventricolare sinistra, segno prognostico rilevante.

ECG da sforzo
Il test da sforzo rimane la modalità di valutazione più frequentemente utilizzata nella gestione del paziente
ischemico.
Il test, analizzato in termini quantitativi relativamente al momento di comparsa e alla entità delle
alterazioni ECG, all’andamento dei parametri emodinamici e clinici rilevabili durante esercizio, consente di
ottenere informazioni prognostiche sufficienti per un corretto inquadramento clinico del paziente.
L’entità del sottoslivellamento di ST si correla con la gravità della coronaropatia: maggiore è il grado di
sottoslivellamento di ST più alta è la prevalenza di stenosi del tronco comune o di malattia trivasale. Anche
il sottoslivellamento asintomatico di ST è prognosticamente importante, indipendentemente dalla presenza
o assenza di angina: la gravità della coronaropatia e la mortalità a distanza dei pazienti con
sottoslivellamento asintomatico di ST sono analoghe a quelle dei pazienti che manifestano angina durante
sforzo.
Il mancato incremento della pressione arteriosa o la sua riduzione durante esercizio individua pazienti con
coronaropatia estesa ed è indicativo di un rischio elevato di eventi cardiaci gravi. La comparsa di sintomi
e/o segni di ischemia per bassi carichi di lavoro identifica pazienti a rischio elevato.

Coronarografia
La prognosi è peggiore nei pazienti con malattia del tronco comune dell’arteria coronaria sinistra, nei
pazienti con malattia coronarica multivasale o con lesione critica sul tratto prossimale dell’arteria
discendente anteriore, nei pazienti con depressa funzione ventricolare sinistra.

CENNI DI TERAPIA
Gli obiettivi della strategia terapeutica nell’angina stabile sono il miglioramento della qualità della vita
attraverso la riduzione dei sintomi, l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico e il prolungamentro della
sopravvivenza attraverso la riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto miocardico non
fatale). Il primo obiettivo è solitamente raggiungibile con i farmaci convenzionali. Non vi sono invece
evidenze cliniche certe che essi possano influenzare favorevolmente la prognosi di questi pazienti. Per
contro, il trattamento aggressivo dei fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità,
tabagismo, dislipidemia) e la profilassi antiaggregante si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità e di
prevenire gli eventi coronarici maggiori nel follow-up.
Il trattamento farmacologico classico dell’angina stabile si basa sull’impiego
di nitrati, betabloccanti ecalcioantagonisti (vedi Capitolo 57).
I nitrati sono vasodilatatori endotelio-indipendenti che riducono il consumo d’ossigeno miocardico e
migliorano la perfusione miocardica. Ai dosaggi comunemente impiegati, la diminuzione del consumo
d’ossigeno è legata prevalentemente ad una riduzione del volume ventricolare sinistro e della pressione
arteriosa secondari soprattutto ad una riduzione del precarico.
I nitrati sono farmaci di prima scelta nel trattamento dell'attacco anginoso (nella formulazione sublinguale)
e sono raccomandati nel trattamento cronico dell'angina stabile, particolarmente nei pazienti con
disfunzione ventricolare sinistra.
I betabloccanti sono farmaci che agiscono bloccando gli effetti della stimolazione beta-adrenergica sul
cuore e sui vasi. Ne deriva una riduzione della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della

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191 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

contrattilità miocardica, ovvero dei maggiori determinanti il consumo di ossigeno miocardico.


I calcioantagonisti sono farmaci che inibiscono la contrazione delle cellule muscolari lisce attraverso il
blocco dei canali lenti del Ca . Il risultato è una vasodilatazione arteriosa (sia coronarica che periferica). Gli
effetti antianginosi sono principalmente legati alla vasodilatazione dei vasi coronarici epicardici e del
microcircolo coronarico con riduzione delle resistenze ed aumento del flusso coronarico. L'azione
vasodilatante arteriosa periferica concorre all'effetto favorevole mediante una riduzione del post-carico.
Inoltre il modesto effetto cronotropo negativo di alcuni di essi (verapamil e diltiazem) è in grado di
contenere il consumo di ossigeno a riposo e durante sforzo.

Un’alternativa ai farmaci tradizionali è offerta da farmaci come la trimetazidina e la ranolazina, che non
hanno effetti apprezzabili sul flusso coronarico nè sul consumo d’ossogeno miocardico ma modulano il
metabolismo energetico della cellula miocardica interferendo con la betaossidazione degli acidi grassi.

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192 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 25
SINDROMI CORONARICHE ACUTE
Raffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone

DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche acute (SCA) sono un gruppo di manifestazioni cliniche imputabili ad ischemia
miocardica acuta, la cui causa è generalmente la rottura di una placca aterosclerotica coronarica
“vulnerabile” con successiva aggregazione piastrinica, sovrapposizione trombotica e riduzione o arresto del
flusso.
In base all’entità della stenosi/occlusione ed alla sua persistenza, si determina uno dei seguenti quadri
clinici.

 Angina instabile : ischemia miocardica acuta senza significativa necrosi miocardica.


 Infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (non ST-
segment elevation myocardialinfarction, NSTEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi
miocardica subendocardica.
 Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (ST-
segment elevation myocardial infarction,STEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi
miocardica transmurale.

SEGNI E SINTOMI

 Il sintomo principale è il dolore anginoso oppressivo o costrittivo. Il malato descrive in genere il


dolore come una sensazione di pesantezza, di compressione, di soffocamento o di costrizione
toracica. Il dolore ha tipicamente sede retrosternale, più raramente è avvertito all’epigastrio o solo
nelle sedi di irradiazione (il lato ulnare dell’avambraccio sinistro, il braccio e la spalla sinistra,
l’epigastrio, il collo, la mandibola, il braccio destro, il dorso).
Il dolore insorge spesso a riposo, e se compare durante uno stress psico-fisico non regredisce con il
cessare dell’attività. Nell’angina instabile il dolore ha di solito durata inferiore a 20 minuti; se
persiste per oltre 20 minuti è verosimile che si associ anche necrosi del miocardio, cioè che si
determini un infarto. Nello STEMI, in assenza della riapertura del vaso occluso, il dolore si protrae
per diverse ore, con intensità variabile.
La sintomatologia dolorosa si associa frequentemente a sudorazione fredda, sensazione di
angoscia, nausea e vomito. Tali sintomi (detti neurovegetativi) possono essere talvolta gli unici
presenti; il dolore, infatti, è assente in oltre il 30% dei casi, soprattutto nei soggetti in età avanzata
e nei diabetici. Alcuni pazienti hanno una SCA in assenza di qualsiasi sintomo; in questi la malattia
viene diagnosticata a posteriori mediante ECG, scintigrafia o ecografia, oppure in seguito ad una
complicanza acuta, la più temibile delle quali è la morte improvvisa per fibrillazione ventricolare.

ELETTROCARDIOGRAMMA

L'ECG è un’indagine chiave nella diagnosi delle sindromi coronariche acute. I reperti variano notevolmente
in base a quattro fattori principali:
1) durata del processo ischemico (acuto, in evoluzione, cronico);
2) estensione del processo ischemico (transmurale o subendocardico);
3) localizzazione del processo ischemico (parete anteriore, laterale, infero-posteriore, o ventricolo destro);
4) presenza di altre alterazioni che possono mascherare o modificare il classico quadro ECG (per esempio:
blocco di branca sinistra, preeccitazione).
Il segno iniziale e caratteristico di una SCA è il sottoslivellamento o il sopraslivellamento del segmento ST.
Tuttavia, un ECG completamente normale in un paziente con dolore toracico non esclude la possibilità di

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SCA, poiché dall’1% al 6% dei pazienti con SCA hanno un ECG normale.
Elettrocardiogramma nello STEMI
L’alterazione ECG caratteristica dell’infarto transmurale è il sopraslivellamento del tratto ST >1 mm con
convessità in genere rivolta verso l’alto (onda di lesione subepicardica). L’evoluzione del tracciato ECG può
essere sintetizzata nelle seguenti fasi (Figura 1):

 Fase acuta: tratto ST sopraslivellato, con entità che tende a ridursi progressivamente (schemi a,b,c).
 Fase subacuta: comparsa di onda Q patologica; persistenza del sopraslivellamento del tratto ST; onda T
difasica (positivo/negativa) o negativa (schemi d,e).
 Fase cronica: normalizzazione del tratto ST; persistenza dell’onda Q patologica (schema f).

Le Figure ECG 20, ECG 21, ECG 22 riportano elettrocardiogrammi caratteristici di STEMI.

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194 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Elettrocardiogramma nel NSTEMI e nell’angina instabile


L’alterazione dell’ECG caratteristica in caso di angina instabile o NSTEMI è il sottoslivellamento del tratto ST
>1 mm, di tipo orizzontale o discendente (ECG 18, ECG 19).

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195 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Questa alterazione della ripolarizzazione ventricolare deve essere sempre valutata nel contesto clinico; in
particolare, per essere considerata espressione di ischemia miocardica deve essere transitoria e/o associata
a dolore toracico. Il sottoslivellamento di ST, infatti, si riscontra spesso in condizioni diverse dall’ischemia
miocardica, per esempio nell’ipertrofia ventricolare o nel blocco di branca.

Elettrocardiogramma e prognosi
Oltre ad avere un ruolo centrale nella diagnosi di SCA e a condizionarne la terapia, l’ECG fornisce importanti
informazioni prognostiche. La mortalità dei pazienti con infarto anteriore è maggiore di quella dei pazienti
con infarto inferiore; in quest’ultimo gruppo la mortalità aumenta quando l’infarto coinvolge anche il
ventricolo destro. In generale, maggiore è il numero di derivazioni con il sotto- o sopraslivellamento del
segmento ST, maggiore è il rischio di morte per il paziente.
I pazienti con SCA che presentano anche aritmie (per esempio, tachicardia ventricolare sostenuta o blocco
atrioventricolare di III grado oppure di II grado tipo Mobitz 2 ) hanno una prognosi peggiore di quelli in cui
non si manifestano aritmie.

MARKER DI NECROSI MIOCARDICA

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196 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Per la diagnosi di infarto miocardico acuto è necessario un aumento, seguito da una diminuzione graduale,
dei marcatori biochimici di necrosi associato ad una delle seguenti condizioni: 1) sintomi suggestivi di
ischemia miocardica, 2) alterazioni ECG indicative di ischemia, 3) comparsa di onde Q patologiche.
I miociti che vanno incontro a necrosi liberano alcune sostanze (enzimi o proteine) il cui riscontro nel siero
è indispensabile per porre diagnosi di infarto miocardico acuto; le più utilizzate sono la troponina e la
creatinchinasi.
Troponina (Tn). La Tn è una proteina ad alto peso molecolare presente specialmente nel tessuto
muscolare, ed è costituita da 3 sub-unità. La TnC si trova sia nel muscolo cardiaco che nel muscolo
scheletrico, mentre TnT e TnI sono presenti solo nel cuore e rappresentano marcatori sensibili e specifici
per il riconoscimento del danno miocardico. Sono dosabili nel sangue dopo 2-4 ore dall'inizio dei sintomi,
ed il picco è raggiunto dopo 8-12 ore. La curva enzimatica di questo marker è simile a quella della CK-MB
(Figura 2).

Creatinchinasi (CK). La CK è un enzima costituito da due monomeri, M e B. L’isoenzima MB è contenuto in


maggior quantità nel cuore, l’isoenzima BB nel rene e nel cervello, l’isoenzima MM nel muscolo scheletrico.
Il dosaggio del CK-MB è considerato patologico, quando è maggiore del 6-10% del CK totale, che a sua volta
deve essere almeno il doppio del normale. La Figura 2 rappresenta le concentrazioni dei marker di
miocardio-necrosi in relazione al tempo.
La latticodeidrogenasi (LDH) è utile nella diagnosi di infarto miocardico, quando il paziente giunge
all’osservazione tardivamente, in quanto è dosabile fino a 14 giorni dall’evento acuto.

COMPLICANZE DELL’INFARTO MIOCARDICO ACUTO

Le complicanze di un infarto possono essere suddivise in tre gruppi:

 Complicanze aritmiche.
 Complicanze emodinamiche (compromissione della funzione di pompa; rottura di muscoli papillari, setto,
o parete libera del ventricolo sinistro; aneurisma ventricolare).
 Complicanze ischemiche (estensione della necrosi, angina precoce postinfartuale).

COMPLICANZE ARITMICHE
Le complicanze aritmiche sono estremamente comuni durante una SCA ed in particolare durante le prime
ore dell’infarto acuto. Extrasistoli ventricolari o sopraventricolari si osservano pressoché nel 100% dei
pazienti, ma nella maggior parte dei casi non hanno significato sfavorevole. Alcune aritmie
(tachicardia ventricolare sostenuta,fibrillazione ventricolare, blocco atrioventricolare di III grado)
mettono a serio rischio la vita del paziente e richiedono un intervento terapeutico immediato.
La fibrillazione e il flutter atriale sono frequenti, e possono determinare, se la risposta ventricolare è
elevata, una riduzione della gittata cardiaca ed un aumento del consumo miocardico di O2.
La tachicardia ventricolare non sostenuta è comune ed in genere ben tollerata, e non richiede
necessariamente un trattamento, mentre la tachicardia ventricolare sostenuta (vedi Capitolo 40) può
degenerare in fibrillazione ventricolare. In questi casi la lidocaina è abitualmente il farmaco di prima scelta
se non vi è compromissione emodinamica, nel qual caso è necessaria la cardioversione elettrica; in
alternativa alla lidocaina si può usare l’amiodarone.
La fibrillazione ventricolare è l’aritmia più temuta, e porta al decesso il paziente in pochi minuti, se non si
interviene immediatamente con la defibrillazione (vedi Capitolo 44).
Un blocco atrioventricolare di I grado o di II grado tipo Wenckebach (Mobitz 1) è comune nell’infarto
inferiore, ma raramente causa compromissione emodinamica, e può essere trattato, se necessario, con
atropina. Il bloccoatrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2 (vedi Capitolo 41) ed
il blocco atrioventricolare di III gradorappresentano indicazioni all’inserimento di un elettrocatetere per

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197 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

eseguire la stimolazione ventricolare con un pace-maker esterno.

COMPLICANZE EMODINAMICHE
Insufficienza ventricolare sinistra
In corso di SCA, numerose condizioni possono indurre un’insufficienza del ventricolo sinistro, che può
essere strettamente legata all’estensione dell’area ischemica (un’area ischemica vasta determina un
marcato deficit di contrazione), o anche essere la conseguenza di aritmie o della disfunzione valvolare
mitralica provocata dall’infarto. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza ventricolare sinistra consistono
in dispnea, tachicardia sinusale, comparsa di terzo tono e di rantoli polmonari inizialmente localizzati alle
basi. L’esame obiettivo consente di classificare la gravità dell’insufficienza ventricolare utilizzando le classi
di Killip: la classe 1 si caratterizza per l’assenza di rumori umidi polmonari, la classe 2 per la presenza di
rantoli in meno del 50% dei campi polmonari, nella classe 3 i rantoli si ascoltano in più del 50% dei campi
polmonari, e i pazienti in classe 4 presentano il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22),
caratterizzato da ipoperfusione generalizzata: il soggetto ha una pressione sistolica <90 mmHg, oligo-anuria
(diuresi <20 ml/ora), agitazione psico-motoria, tachicardia sinusale, pallore, sudorazione e cianosi.

Rottura del cuore


Questa complicanza dell’infarto acuto può interessare la parete libera del ventricolo sinistro, il setto
interventricolare o i muscoli papillari. In genere si verifica nelle prime 24 ore dall’esordio dell’infarto, ma
può avvenire anche a distanza di giorni, ed è più frequente nelle donne anziane con infarto anteriore.
La rottura della parete libera provoca un emopericardio con tamponamento cardiaco (vedi Capitolo 32).
Clinicamente esordisce con dolore toracico, shock cardiogeno e dissociazione elettromeccanica (persistenza
per qualche minuto di un’attività elettrica ordinata e regolare in assenza di attività meccanica del cuore).
Non risponde alle misure di rianimazione cardiopolmonare, e la mortalità è quasi del 100%. Raramente la
rottura può determinare uno pseudoaneurisma, quando si manifesta non un emopericardio massivo ma
uno stillicidio ematico nel cavo pericardico, con tendenza all’autolimitazione.
La rottura del setto interventricolare è generalmente apicale ed avviene in corso di infarto antero-settale o
infero-posteriore; il difetto acquisito del setto interventricolare provoca, così come accade nelle forme
congenite, uno shunt sinistro-destro, poiché la pressione è maggiore nel cuore sinistro. Questa condizione
provoca la comparsa di un soffio mesocardico rude accompagnato da fremito, dispnea e rapida evoluzione
verso l’edema polmonare e lo shock. L’ecocardiogramma color Doppler consente di riconoscere
rapidamente la perforazione settale (ECO 30). La rotturatotale o parziale di un muscolo papillare determina
una grave insufficienza mitralica acuta, rivelata da un soffio olosistolico puntale irradiato all'ascella (vedi
Capitolo 15). Si manifesta tipicamente come un peggioramento improvviso del quadro, spesso con edema
polmonare e shock. A parte la rottura, anche una disfunzione ischemica del muscolo papillare può
provocare un’insufficienza mitralica.

COMPLICANZE ISCHEMICHE
Il paziente con infarto miocardico acuto può andare incontro ad angina postinfartuale precoce (nuovo
ripresentarsi del dolore dopo che questo era cessato, ma senza segni biochimici o ECG di necrosi) o anche
ad estensione dell’infarto, con ulteriore incremento dei marker dopo che questi erano già in diminuzione, e
modificazioni dell’ECG tali da suggerire un’ischemia ulteriore sovrapposta al quadro infartuale (per
esempio, aumento del sopraslivellamento di ST a distanza di qualche giorno dalla fase iperacuta).
Probabilmente in questa situazione l’arteria coronaria che dopo un’occlusione transitoria si era riaperta è
tornata ad occludersi, provocando una nuova ischemia, oppure si è verificata l’occlusione di un ramo
coronarico precedentemente non interessato. Questi pazienti vanno immediatamente avviati a
coronarografia ed angioplastica.

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198 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ALTRE COMPLICANZE DELL’INFARTO ACUTO


Pericardite. Nell’infarto miocardico acuto si possono riscontrare due forme di interessamento pericardico:
una è la conseguenza diretta della necrosi transmurale, dovuta a deposizione di fibrina all’interno del
pericardio che ricopre la zona infartuale, mentre l’altra dipende da una reazione autoimmune post-
infartuale (pericardite di Dressler). Nel primo caso i segni e i sintomi compaiono in 2 -6 giornata. Il paziente
lamenta una ripresa del dolore toracico, che però varia con i movimenti del torace e/o gli atti respiratori, e
l’ascoltazione del cuore mette in evidenza sfregamenti pericardici. L’ECG può mostrare un persistente
sopraslivellamento del tratto ST in più derivazioni, l’ecocardiogramma evidenzia talvolta un versamento
pericardico, in genere di lieve entità. La pericardite di Dressler si manifesta dopo 2-4 settimane
dall’episodio acuto. Ai segni e sintomi sopra descritti possono associarsi febbre e versamento pleurico.
Tromboembolia. In pazienti con infarto esteso, specialmente anteriore, l’acinesia della zona infartuata può
favorire il formarsi di un trombo intracavitario, il quale può, a sua volta, provocare un’embolia sistemica.
L’incidenza di questo evento si è drasticamente ridotta da quando si impiega la terapia anticoagulante ed
antiaggregante nei pazienti con SCA.

CENNI DI TERAPIA

Numerosi farmaci possono essere impiegati nelle Sindromi Coronariche Acute: fra questi l’ossigeno, gli
antiaggreganti piastrinici, gli anticoagulanti, i fibrinolitici, i betabloccanti, gli ACE-inibitori, i calcioantagonisti, gli
analgesici. La distinzione fra STEMI, e NSTEMI/angina instabile è di primaria importanza per il trattamento
d’emergenza. In particolare, nei pazienti con STEMI, il rapido ripristino del flusso nell'arteria occlusa, tramite
terapia fibrinolitica o mediante interventi percutanei di rivascolarizzazione coronarica è determinante per la
prognosi. Nei pazienti con NSTEMI/angina instabile, invece, la terapia fibrinolitica è controindicata.
OssigenoLa somministrazione di O2 è utile durante la fase iniziale di una SCA, in particolare nei pazienti con STEMI
.
Aspirina
Numerosi studi hanno dimostrato i potenti benefici dell’aspirina nelle SCA; il farmaco inibisce l’aggregazione
piastrinica, contrastando il meccanismo della trombosi endoluminale attraverso il blocco irreversibile della
formazione di trombossano A2.
Altri anti-aggreganti
Le tienopiridine sono farmaci antiaggreganti il cui meccanismo d’azione consiste nell’antagonizzare i recettori
dell’adenosina difosfato a livello piastrinico. L’effetto antiaggregante è irreversibile, e si realizza dopo 2-3 giorni di
terapia.
Il clopidogrel è una tienopiridina entrata solo recentemente nella pratica clinica. Il suo maggiore impiego è nei
pazienti con SCA, in associazione all’aspirina. La doppia antiaggregazione piastrinica (aspirina e clopidogrel) riduce
maggiormente gli eventi cardiovascolari rispetto alla sola aspirina.
La ticlopidina è tra le tienopiridine quella da più tempo in commercio; è usata con successo nei pazienti che non
tollerano l’aspirina.
Antagonisti del recettore GP IIb/IIIa piastrinica. Durante l’attivazione piastrinica, il recettore glicoproteico IIb/IIIa
delle piastrine subisce un cambiamento di conformazione ed aumenta la propria affinità per il fibrinogeno,
favorendo l'aggregazione piastrinica. Gli antagonisti dei recettori GP IIb/IIIa inibiscono l'aggregazione piastrinica
per diverse ore (da 4 a 8 ore).
Eparina
La terapia anticoagulante è un punto fondamentale nella terapia delle SCA: si esegue con l’eparina non frazionata o
l’eparina a basso peso molecolare. L’effetto anticoagulante dell'eparina non frazionata si esplica mediante il
potenziamento dell’attività dell’antitrombina (conseguente all’inattivazione del fattore IIa) e parzialmente
mediante l'inattivazione del fattore Xa. Il farmaco richiede il monitoraggio dell'effetto anticoagulante mediante la
determinazione del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT).
L'eparina a basso peso molecolare accelera l'azione di un enzima proteolitico che inattiva i fattori Xa, IXa, e IIa.
Questo farmaco offre il vantaggio di non dover monitorare l’effetto anticoagulante.

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199 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La combinazione di eparina e terapia anti-aggregante è un cardine della terapia delle SCA in quanto riduce
significativamente gli eventi ischemici e il numero di interventi di rivascolarizzazione coronarica.
Nitrati
La nitroglicerina è un vasodilatatore ed è tra i farmaci di prima scelta nel sospetto di una sindrome coronarica
acuta, soprattutto per ridurre o far cessare il dolore toracico. La vasodilatazione venosa che essa determina
comporta un aumento del sequestro (pooling) di sangue in periferia, e quindi una riduzione del ritorno venoso al
cuore e, in definitiva, del precarico. In accordo con la legge di Laplace, la diminuzione del diametro ventricolare
riduce la tensione (stress) parietale, e anche il consumo di O2, che allo stress parietale è direttamente correlato. La
nitroglicerina ha effetti modesti sul post-carico; diminuisce, però, la pressione arteriosa sistemica, ed anche con
questo meccanismo riduce il consumo di O2.
Beta-bloccanti
I beta-bloccanti antagonizzano gli effetti delle catecolamine sui recettori beta delle membrane cellulari. L'inibizione
dei recettori beta-1 riduce la contrattilità miocardica (effetto inotropo negativo), la frequenza di scarica
dell’impulso da parte del nodo del seno (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione dello stimolo
(effetto dromotropo negativo). Queste azioni consentono una riduzione del consumo di O2 da parte del miocardio.
ACE-Inibitori
Gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I in angiotensina II sono in grado di ridurre la mortalità nei
pazienti con SCA. L'inibizione dell'enzima di conversione ha come conseguenza una diminuita concentrazione
dell’angiotensina II, la quale è il più potente costrittore delle arteriole. Per effetto del farmaco cade il tono
arteriolare, cioè si riduce il post-carico, ovvero la pressione arteriosa, con conseguente riduzione del consumo di
ossigeno. A livello cellulare, gli ACE-I antagonizzano gli effetti mitogeni esercitati dall'angiotensina II, responsabili,
dopo un infarto miocardico, di alterazioni sfavorevoli (rimodellamento ventricolare).
Calcio-antagonisti
I calcio-antagonisti non diidropiridinici (verapamil e diltiazem) possono essere utilizzati, in assenza di insufficienza
ventricolare sinistra, nei pazienti con angina instabile/STEMI che presentino ischemia ricorrente ed in cui è
controindicato l’uso dei beta-bloccanti.
Morfina
Nei pazienti con STEMI i cui sintomi non sono alleviati dalla nitroglicerina, a scopo antidolorifico ed in assenza di
controindicazioni quali ipotensione, è consigliata la morfina.
Terapia fibrinolitica
I farmaci fibrinolitici (streptochinasi, reteplase, alteplase, tenecteplase, etc.) trasformano il plasminogeno in
plasmina, la quale degrada la fibrina e disgrega il trombo, con conseguente ricanalizzazione dell’arteria coronarica
occlusa. Il ripristino di un flusso normale varia in base alla precocità del trattamento (inizio ideale entro 2 ore), alla
risposta del paziente e al farmaco utilizzato.
Angioplastica primaria
Sebbene la trombolisi sia un trattamento semplice, rapido e consolidato, non sempre è pienamente efficace nel
ricanalizzare il vaso occluso, per cui si è diffusa l’angioplastica primaria, cioè la ricanalizzazione meccanica, con o
senza impianto di stent, del vaso responsabile dell’infarto nei pazienti con STEMI (vedi Capitolo 59). Numerose
ricerche hanno dimostrato che l’angioplastica primaria offre notevoli vantaggi rispetto alla trombolisi in termini di
eventi (mortalità, reinfarto, stroke, angina). Inoltre, maggiore è il rischio dei pazienti, maggiore è il beneficio
osservato. Gli svantaggi che l’angioplastica primaria offre rispetto alla trombolisi sono legati a limitazioni tecnico-
logistiche (non tutte le unità coronariche dispongono di una sala di emodinamica) ed economiche (la procedura è
molto più costosa del trattamento medico).

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200 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 26
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
Carmen Spaccarotella, Ciro Indolfi

DEFINIZIONE

La diagnostica strumentale della cardiopatia ischemica è basata su tutte quelle indagini che permettono di
dimostrare la presenza di un’ischemia miocardica. In questo senso l’Elettrocardiografia, l’Ecocardiografia, la
Scintigrafia miocardica, la Coronarografia, la Tomografia computerizzata, la Risonanza magnetica, La TC
coronarica, etc possono mettere in luce diversi fenomeni suggestivi o dimostrativi dell’ischemia. Nel
presente Capitolo vengono esaminati soltanto alcuni aspetti relativi a: 1) il riconoscimento della cardiopatia
ischemica nei casi in cui questa non sia accertata, ma soltanto possibile in base ai dati clinici; 2) la
valutazione del rischio di eventi maggiori (infarto miocardico, morte improvvisa) in soggetti con cardiopatia
ischemica già nota. Per gli scopi suddetti vengono impiegati test volti a provocare un’ischemia miocardica,
in particolare il test ergometrico e l’eco-stress; la scintigrafia miocardica viene trattata nel Capitolo 6.

IL TEST DA SFORZO

E’ basato sulla registrazione dell’ECG prima a riposo e poi mentre il soggetto compie uno sforzo; l’eventuale
ischemia viene suggerita dalle modificazioni caratteristiche dell’ECG, associate o meno a sintomi, che si
verificano durante l’attività fisica. Questa indagine è in grado di identificare un’ischemia miocardica assente
a riposo e di stratificare il rischio in pazienti con angina stabile da sforzo.
Il test ergometrico viene effettuato di solito al cicloergometro o al treadmill (tappeto rotante); nel primo
caso il torace e le braccia del paziente sono relativamente stabili, permettendo di registrare una traccia
elettrocardiografica senza troppi artefatti. Il test al treadmill, tuttavia, sarebbe preferibile perchè consente
di effettuare uno sforzo più fisiologico, potendosi adattare la velocità e l’inclinazione del tappeto rotante
all’agilità del paziente. Il protocollo più utilizzato per quest’ultimo test è quello di Bruce, che prevede un
aumento di velocità e di inclinazione del tappeto ogni tre minuti.
Lo scopo dello sforzo è quello di incrementare gradualmente la frequenza cardiaca fino a raggiungere la
frequenza massimale (220 meno l’età del soggetto); in caso di test ergometrico effettuato dopo infarto
miocardico, tuttavia, viene solitamente utilizzato un protocollo sottomassimale (85% della frequenza
massima teorica). Il test è divenuto ormai pratica corrente perché utile nel predire il successivo andamento
della malattia; un test da sforzo positivo identifica il paziente ad alto rischio e rappresenta un’indicazione
ad eseguire un esame coronarografico.
I parametri più importanti deducibili dal test ergometrico sono la massima capacità di esercizio, l’entità del
sottoslivellamento o del sopraslivellamento del tratto ST, il tempo di recupero delle alterazioni
elettrocardiografiche (tempo necessario affinché le alterazioni dell’ECG indotte dallo sforzo regrediscano), il
numero di derivazioni in cui compaiono le anomalie del tratto ST, la soglia a cui compare il dolore anginoso
e le aritmie che si manifestano durante l’esercizio.

L’esercizio fisico provoca una complessa serie di eventi:

 Aumenta il ritorno venoso al cuore destro per l’azione di pompa dei muscoli delle gambe e l’aumentata
pressione negativa intratoracica nell’inspirazione profonda, con conseguente aumento della portata
cardiaca).
 Aumenta la frequenza cardiaca.
 Aumenta la gittata sistolica.
 Aumenta sia la forza di contrazione miocardica (per l’aumento del ritorno venoso, cioè del precarico, in
accordo con la legge di Frank-Starling) che la contrattilità, per l’incremento delle catecolamine circolanti.

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L’ischemia miocardica è dovuta ad uno squilibrio fra apporto e richiesta miocardica di ossigeno. Questa è
principalmente influenzata dalla frequenza cardiaca, dalla tensione di parete e dallo stato contrattile. In
presenza di stenosi coronariche, il flusso si mantiene costante almeno fino ad un certo grado di stenosi,
grazie al meccanismo di autoregolazione coronarica (vedi Capitolo 23). In condizioni di riposo, il flusso
coronarico si riduce drasticamente solo quando la stenosi diventa molto serrata (> 90 %), mentre una
stenosi del 75% non riduce il flusso in condizioni basali. L’esercizio fisico provoca un incremento del
consumo miocardico di O2, e fa sì che il flusso coronarico divenga insufficiente a mantenere un normale
metabolismo già in presenza di una stenosi del 50%. Per tale motivo, lo sforzo può essere utilizzato per
diagnosticare una stenosi coronarica.

INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI AL TEST DA SFORZO

Il test da sforzo può essere indicato per motivi diagnostici, prognostico-valutativi o di screening.

 Indicazioni Diagnostiche:

- cardiopatia ischemica sospetta in base ai dati clinico-anamnestici;


- pazienti con angina instabile a basso rischio (12-24 ore dall’ultimo sintomo);
- pazienti con angina instabile a rischio intermedio (2-3 giorni dall’ultimo sintomo);
- diagnosi differenziale in soggetti con sintomi da sforzo quali sincope, palpitazioni o vertigini;
- aritmie ricorrenti durante lo sforzo;
- diagnosi di ipertensione precoce borderline.

 Indicazioni prognostico-valutative:
 dopo infarto miocardico acuto (alla dimissione del paziente colpito da infarto, per la stratificazione del
rischio);
 angina cronica stabile dopo rivascolarizzazione miocardica (angioplastica o by-pass aortocoronarico);
 nell’insufficienza cardiaca cronica;
 nella valutazione dell’efficacia della terapia antianginosa ed antiaritmica.
 Indicazioni per screening:
 follow-up nei pazienti con cardiopatia ischemica nota;
 maschi oltre i 40 anni con attività lavorativa ad elevata responsabilità sociale, oppure con due o più fattori
di rischio coronarico maggiore, o che intraprendono attività fisica intensa;
 ipertesi asintomatici che intraprendono attività fisica intensa;
 per scopi assicurativi.

Sono controindicazioni all’esecuzione di un test ergometrico:

 L’infarto miocardico acuto.


 La miocardite o pericardite acuta.
 L’angina instabile.
 Le tachicardie ventricolari o atriali osservate subito prima dell’esecuzione del test.
 Il blocco AV di secondo o terzo grado.
 La stenosi severa, già nota, del tronco comune della coronaria sinistra.
 I tumori cardiaci.
 Lo scompenso cardiaco acuto.
 La sospetta embolia polmonare.
 L’ anemia severa, le infezioni gravi, l’ipertiroidismo.
 I disturbi importanti della deambulazione.

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202 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Controindicazioni relative sono: la stenosi aortica (se di grado severo il test è controindicato, se di grado
moderato deve essere eseguito con cautela); l’ipertensione grave (il test può essere eseguito se
l’ipertensione è controllabile farmacologicamente); l’ostruzione rilevante del tratto di efflusso del
ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica nelle sue varie forme); il marcato sottoslivellamento del
tratto ST già in condizioni basali; gli squilibri elettrolitici.

CRITERI DI INTERRUZIONE DEL TEST DA SFORZO.

Il test da sforzo deve essere interrotto quando si verifica :

 Angina ingravescente.
 Associazione del dolore con alterazioni significative del tratto ST.
 Aritmie minacciose (extrasistoli ventricolari con carattere di ripetitività (coppie) o tachicardia
ventricolare).
 Fibrillazione o flutter atriale.
 Blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado.
 Riduzione della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa nonostante la prosecuzione dello sforzo (in
particolare repentina diminuzione della pressione sistolica > 10 mmHg).
 Dolore muscolo-scheletrico importante.
 Sintomi da bassa gittata (pallore, vasocostrizione e sudorazione).
 Estremo aumento della pressione arteriosa .
 Raggiungimento della frequenza cardiaca massimale (220 meno l’età).

INTERPRETAZIONE DEL TEST DA SFORZO

Il test ergometrico viene interpretato in relazione a parametri clinici e strumentali. I parametri clinici sono i
sintomi (dolore toracico, dispnea, sincope) e i segni (pallore, cianosi, terzo tono, rantoli) dell’ischemia
miocardica da sforzo. Altri parametri importanti sono la capacità funzionale, cioè la capacità massima di
compiere lavoro muscolare, larisposta cronotropa, espressa dall’incremento della frequenza cardiaca
correlato allo sforzo, la risposta pressoria,e il doppio prodotto, rappresentato dal prodotto della frequenza
cardiaca per la pressione arteriosa sistolica.
L’analisi dell’elettrocardiogramma si concentra sulle alterazioni del tratto ST. Sono indicative di ischemia le
seguenti alterazioni:

 Il sottoslivellamento del tratto ST. Indica positività della prova da sforzo un sottoslivellamento orizzontale
del tratto ST > 1mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre complessi consecutivi (Figura 1B).

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203 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il sottoslivellamento discendente (Figura 1C)

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204 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

è un indicatore più netto di positività, mentre il sottoslivellamento ascendente (Figura 1D,

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205 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2) viene considerato diagnostico di ischemia in caso di depressione persistente a 80 msec.

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206 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

 Il sopraslivellamento del tratto ST è diagnostico se > 1 mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre
complessi consecutivi (Figura 1E).

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207 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’ECO-STRESS

 L’ecocardiografia da stress è una metodica alternativa al tradizionale ECG da sforzo. Il principio alla
base è che l’ischemia miocardica altera l’attività meccanica del cuore: il paragone fra la cinetica
ventricolare in condizioni basali (Figura 3) e quella osservata durante stress può suggerire la
presenza di una stenosi coronarica, se lo stress si accompagna a un peggioramento contrattile
(Figura 4). Lo stress può essere fisico (in genere effettuato al cicloergometro) o farmacologico; in
questo caso è possibile impiegare farmaci inotropi come la dobutamina, che aumenta il consumo
miocardico di ossigeno attraverso l’incremento della frequenza e della contrattilità, o farmaci

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208 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

vasodilatatori come il dipiridamolo e l’adenosina, che aumentano la perfusione dei tessuti irrorati
da coronarie sane e riducono la perfusione dei territori irrorati da coronarie stenotiche: un
fenomeno definito “furto coronarico”.
L’eco-stress trova indicazione soprattutto nei pazienti con alterazioni dell’ECG a riposo, (blocco di
branca sinistra, sottoslivellamento del tratto ST>1mm, ritmo da pacemaker o sindrome di Wolff-
Parkinson-White) e in quelli con ECG da sforzo non dirimente.

LA TOMOGRAFIA ASSIALE COMPUTERIZZATA MULTISTRATO

 È una metodica non invasiva per la diagnosi di coronaropatia che va rapidamente estendendosi
come indicazioni cliniche. Un’applicazione emergente della TC è la valutazione del paziente con
dolore toracico, in particolare nella diagnosi differenziale tra sindrome coronarica acuta, dissezione
aortica e trombo-embolia polmonare, nonché nella distinzione di queste dalle malattie pleuriche o
polmonari. La TC è in grado di identificare le placche coronariche, specialmente quelle calcifiche, e
di valutarne la morfologia; in caso di occlusioni coronariche croniche, può dare informazioni sulla
lunghezza dell’occlusione, e sulla presenza di calcificazioni.

CARATTERISTICHE TECNICHE

 La “sfida” nella TC è rappresentata essenzialmente dalle dimensioni delle arterie coronarie (2-4
mm), dal loro decorso complesso, tortuoso, e soprattutto, dal loro continuo movimento.
Requisiti fondamentali ed imprescindibili di una metodica diagnostica non invasiva nello studio del
circolo coronarico sono l’elevata risoluzione spaziale e temporale, l’elevata velocità di esecuzione,
tale da consentire l’acquisizione dei dati durante una singola apnea e ridurre così gli artefatti da
movimenti respiratori, e la corretta sincronizzazione delle immagini ricostruite con il ciclo cardiaco.
Nel caso di frequenze cardiache superiori a 65 battiti per minuto, è possibile impiegare algoritmi
multi-segmentali, ottenendo i dati necessari per la ricostruzione delle immagini da cicli cardiaci
contigui e non da un singolo ciclo.
E’ consigliabile, pertanto, studiare pazienti con frequenza cardiaca <65, impiegando in caso di
frequenze superiori ed in assenza di controindicazioni farmaci ß-bloccanti, somministrabili per os
45-60 minuti prima dell’esame TC o per via endovenosa poco prima dell’acquisizione TC.

LIMITI ATTUALI

 Le aritmie, la capacità di apnea del paziente ed il tempo necessario per il post-processing e


l’adeguata valutazione delle immagini costituiscono, sino ad ora, le principali limitazioni della TC
coronarica.
A tali limitazioni vanno aggiunte quelle che riguardano la valutazione del lume coronarico in caso di
marcata ateromasia calcifica, e la valutazione della pervietà/stenosi dei bypass e delle loro
anastomosi distali in caso di elevato numero di clip chirurgiche lungo il decorso dei graft arteriosi; la
valutazione del lume degli stent è invece legata in parte alle loro dimensioni: è difficile analizzare
stent con diametro inferiore ai 3 mm, come accade per la maggior parte di quelli impiantati in
segmenti coronarici non prossimali .

INDICAZIONI CLINICHE

 In attesa delle imminenti innovazioni, è possibile ipotizzare per la TC un ruolo diagnostico concreto
come:
- alternativa all’angiografia in pazienti con precedente stress-test equivoco;
- alternativa a stress-test o all’angiografia in pazienti con rischio basso-intermedio di malattia

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209 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ischemica;
- follow-up in individui con sintomatologia atipica e precedentemente sottoposti ad intervento
chirurgico di rivascolarizzazione miocardica per lo studio dei by-pass;
- definizione delle anomalie coronariche.

Lo studio dei by-pass aortocoronarici (Figura 5) rappresenta attualmente la più indiscussa


applicazione della tomografia assiale computerizzata cardiaca.

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210 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 27
DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini

INTRODUZIONE

 Il problema riguardante la definizione e la classificazione delle cardiomiopatie (CMP) rappresenta


uno dei punti maggiormente controversi nell’ambito della cardiologia.
L’introduzione nel linguaggio medico del termine “Cardiomiopatie” (= “Malattie del Muscolo
Cardiaco”) risale a circa mezzo secolo fa, ma è solo nel 1980 che venne pubblicato – da parte di un
gruppo di esperti nominato dalla World Health Organization e dalla International Society and
Federation of Cardiology (WHO/ISFC) – il primo documento ufficiale in tema di definizione e
classificazione delle CMP. In quel documento, le CMP venivano definite come malattie del muscolo
cardiaco “da causa sconosciuta”; la loro natura “idiopatica” ne rappresentava, pertanto, uno dei
caratteri distintivi fondamentali da altre malattie cardiache ad eziopatogenesi nota quali le
cardiopatie ischemica, ipertensiva, valvolare, ecc.
Tuttavia, i progressi compiuti dalla ricerca – soprattutto nel campo della genetica – e la sempre più
ampia diffusione di nuove metodiche d’indagine non invasive, in particolare l’ecocardiografia,
hanno condotto negli anni successivi ad un significativo incremento delle conoscenze sulle CMP,
rendendo inadeguato il documento del 1980. Pertanto, nel 1995 la WHO e la ISFC hanno redatto
congiuntamente un nuovo report che tuttora costituisce il documento di riferimento in materia di
definizione e classificazione delle CMP (Tabella I).
Gli aspetti salienti di tale documento sono:
1) la nuova definizione delle CMP come Malattie del Muscolo Cardiaco “associate a disfunzione
cardiaca” sia sistolica che diastolica. La precedente espressione “da causa sconosciuta” veniva
soppressa, essendo divenuta nel frattempo impropria alla luce delle nuove acquisizioni
eziopatogenetiche;
2) la sottoclassificazione delle CMP in 4 tipi o forme principali: la CMP dilatativa (CMPD), la CMP
ipertrofica (CMPI), la CMP restrittiva (CMPR) e la CMP/displasia aritmogena del ventricolo destro
(CMP/DAVD).
L’importanza del primo punto risiede nell’esplicito riconoscimento che, accanto ai casi “idiopatici”
di CMP, ne esistono altri in cui è viceversa possibile identificare la causa della malattia (ad esempio,
nella quasi totalità dei casi di CMPI ed in circa un terzo dei casi di CMPD è oggi documentabile
un’eziologia genetica).
L’importanza del secondo punto è dovuta invece al fatto che la sottoclassificazione delle CMP viene
operata sulla base di quadri morfo-funzionali di semplice riconoscimento (in tal senso, un ruolo
fondamentale è svolto dall’indagine ecocardiografica), quali la dilatazione/ipocinesia ventricolare
sinistra (CMPD), l’ipertrofia ventricolare sinistra (CMPI), la severa compromissione di tipo
“restrittivo” del riempimento diastolico (CMPR), il prevalente coinvolgimento del ventricolo destro
associato a spiccata aritmogenicità (CM/DAVD). Tale approccio classificativo si rivela di grande
utilità nella pratica clinica perché richiama immediatamente gli aspetti essenziali e caratteristici di
ciascuna CMP, orientando il cardiologo verso la corretta diagnosi e l’impiego appropriato delle
strategie terapeutiche attualmente disponibili.
Restano indubbiamente margini di incertezza classificativa che riguardano disordini aritmogeni
“isolati” dovuti ad alterazioni di funzione dei canali ionici o forme con interessamento miocardico
ma difficilmente iscrivibili nei 4 gruppi principali come il “miocardio non compatto”, la
“cardiomiopatia peripartum” e la “malattia tako-tsubo”.
A differenza di quanto proposto nel documento del 1995 della WHO/ISFC, non andrebbero invece
utilizzati termini fuorvianti come “cardiomiopatia ischemica”, “cardiomiopatia valvolare” e
“cardiomiopatia ipertensiva”.
(Tabella I)

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211 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 28
CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA
Sandro Betocchi, Maria Angela Losi, Massimo Chiariello

DEFINIZIONE

 La cardiomiopatia ipertrofica è definita come ipertrofia ventricolare sinistra non spiegata da cause
comuni d'ipertrofia (Patologia 28, Patologia 29), come l'ipertensione arteriosa o alcune
valvulopatie (ad esempio, stenosi aortica). La definizione si basa, clinicamente, sul rilievo
ecocardiografico di aumentato spessore parietale del ventricolo sinistro: ciò non significa
necessariamente che ci sia ipertrofia (aumento della massa muscolare da prevalente aumento delle
dimensioni dei miocardiociti), perché situazioni in cui c'è, ad esempio, accumulo intra- o
extracellulare di sostanze (come nell'amiloidosi, nella malattia di Fabry, in alcune glicogenosi etc.)
ricadono, impropriamente, in questa definizione. Con questa definizione, la cardiomiopatia
ipertrofica è malattia relativamente frequente, con una prevalenza di 1/500, che la rende la più
comune cardiopatia su base genetica.

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212 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

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213 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

EZIOLOGIA E PATOGENESI

 La cardiomiopatia ipertrofica è una malattia autosomica dominante a penetranza incompleta. Le


forme tipiche (a cui andrebbe riservato il nome di cardiomiopatia ipertrofica) sono dovute a
mutazioni di geni codificanti per proteine sarcomeriche. I geni più frequentemente interessati sono
quelli delle catene pesanti della beta-Miosina, della proteina C legante la Miosina, e della
Troponina T, ma tutti i geni codificanti per proteine sarcomeriche (contrattili, modulatrici o
strutturali) possono determinare la malattia.
La penetranza è incompleta, cioè possono esserci individui genotipo+ e fenotipo-, e dipende
dall'età in modo variabile a seconda del gene causale: mentre la penetranza è quasi completa entro
la terza decade per le mutazioni delle catene pesanti della beta-Miosina e della Troponina T, per
quelle della proteina C legante la Miosina la penetranza cresce costantemente fino alla vecchiaia.
Individui appartenenti alla stessa famiglia (e dunque portatori della stessa mutazione causale)
possono avere fenotipi molto diversi per morfologia del ventricolo sinistro e per quadri clinici. Ciò è
spiegabile solo se si pensa che la mutazione causale interagisce con altri geni e con fattori
ambientali per determinare il fenotipo. È ancora soltanto un'ipotesi (ma basata su alcune evidenze
solide) che l'incorporazione di una proteina mutata nel sarcomero ne determini una ridotta
efficienza contrattile; questa aumenta lo stress sarcomerico con conseguente attivazione del
signaling responsivo allo stress e sintesi di fattori trofici. I fattori trofici agiscono sui miocardiociti,
determinandone ipertrofia, sui fibroblasti inducendo fibrosi interstiziale, e sulle cellule muscolari
lisce della media delle arteriole coronariche, provocandone l'iperplasia. Questa ipotesi spiega le tre
fondamentali caratteristiche morfologiche della cardiomiopatia ipertrofica: ipertrofia e
malallineamento (disarray) dei cardiomiociti (Patologia 28), fibrosi interstiziale ed ispessimento
della media delle arteriole. Questa ipotesi patogenetica è ulteriormente supportata
dall'osservazione, finora confinata all'animale transgenico, che il fenotipo è reversibile o prevenibile
con l'uso di farmaci di cui è nota l'interazione con lo sviluppo ed il mantenimento dell'ipertrofia.

FISIOPATOLOGIA

 Le tre principali caratteristiche fisiopatologiche della cardiomiopatia ipertrofica sono la disfunzione


diastolica, l'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro e l'ischemia.
La disfunzione diastolica dipende da alterata affinità per il Ca++ delle proteine mutate, e da
rallentato re-uptake del Ca++ da parte del reticolo sarcoplasmatico. Ne deriva un incompleto
rilasciamento ed un'aumentata rigidità del muscolo. Un'altra causa di disfunzione diastolica, forse
più rilevante clinicamente, è secondaria all'ipertrofia ed alla fibrosi interstiziale, che determinano
una ridotta distensibilità del ventricolo sinistro (cioè è richiesta una maggiore pressione atriale per
riempirlo).
Altra rilevante caratteristica fisiopatologica
è l'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro. Il setto ipertrofico sporge nel tratto
d'efflusso del ventricolo sinistro, e lo restringe progressivamente durante la sistole. Il sangue è
costretto ad accelerare fino al punto in cui si genera l'effetto Venturi, cioè lo sviluppo di forze
centripete che attirano il lembo della mitrale nel tratto d'efflusso (Systolic Anterior Movement, o
S.A.M.). Ciò provoca un'ulteriore riduzione della sezione del tratto di efflusso e lo sviluppo di
ostruzione (Figura 1). Ovviamente, il S.A.M. determina anche insufficienza mitralica. In
conseguenza del meccanismo di generazione, l'ostruzione al tratto d'efflusso del ventricolo sinistro
è meso-sistolica e dinamica (cioè l'entità dell'ostruzione varia a seconda del volume ventricolare e
dello stato inotropo).
I pazienti con cardiomiopatia ipertrofica hanno spesso segni d'ischemia, anche in assenza di stenosi
coronariche epicardiche. L'ischemia è la conseguenza dell'ispessimento della media arteriolare,
dell'ipertrofia (a causa dell'aumentato spessore non seguito da analogo aumento della densità
capillare), e dell'aumento della pressione telediastolica del ventricolo sinistro (che determina un
aumento delle resistenze coronariche estrinseche in diastole).

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214 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

QUADRO CLINICO

La cardiomiopatia ipertrofica ha un decorso clinico benigno nella maggioranza dei pazienti. I pazienti
sintomatici lamentano soprattutto dispnea (dovuta a disfunzione diastolica e/o ad ostruzione al tratto
d'efflusso), palpitazioni, angina pectoris (anche in assenza di malattia coronarica, vedi sopra), e sincope (in
circa 1/3 dei pazienti).
La caratteristica clinica più temuta di questa malattia è la morte improvvisa. Si definisce come tale la morte
entro 24 ore dall'esordio di sintomi, ed è tipicamente dovuta a fibrillazione ventricolare. I bambini sono
maggiormente interessati, con un'incidenza più che doppia di quella degli adulti. In questi ultimi, l'incidenza
è circa 1%/anno, e declina con l'età. Non molto è noto circa i meccanismi della morte improvvisa, ma si è
osservata un'associazione epidemiologica tra alcuni eventi (definiti fattori di rischio) e la morte improvvisa.
Questi sono:

 familiarità per morte improvvisa


 storia di sincope recente inspiegata
 presenza di ipertrofia ventricolare sinistra massiva (massimo spessore di parete >= 30 mm)
 risposta pressoria anomala all'esercizio (normalmente, la pressione arteriosa cresce costantemente
durante l'esercizio; in circa 1/3 dei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica la pressione invece aumenta e
poi diminuisce durante l'esercizio, oppure diminuisce fin dall'inizio)
 tachicardia ventricolare non sostenuta all'ECG Holter

La tachicardia ventricolare sostenuta è considerata equivalente di morte improvvisa abortita e non un


fattore di rischio.
Il paziente adulto con cardiomiopatia ipertrofica ha un rischio 6 volte maggiore rispetto alla popolazione
generale di sviluppare fibrillazione atriale parossistica o permanente, ed infatti circa 1/3 dei pazienti soffre
di questa aritmia, ed è pertanto frequente riscontrarla o durante Holter o durante visita clinica.

DIAGNOSI

La cardiomiopatia ipertrofica è generalmente sospettata per la presenza di un soffio cardiaco o di anomalie


elettrocardiografiche. L’ostacolo all’eiezione ventricolare sinistra dipendente dall’ipertrofia settale genera

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215 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

un soffio sistolico eiettivo, che si ascolta soprattutto al mesocardio, lungo la margino-sternale sinistra. La
relazione fra l’intensità del soffio e il volume ventricolare (il soffio è tanto più intenso quanto più il
contenuto di sangue nel ventricolo si riduce) può permettere di diagnosticare all’ascoltazione del cuore la
cardiomiopatia ipertrofica, e soprattutto distinguerla dalla stenosi valvolare aortica (vedi Capitoli 2 e 16).
Se, mentre si ascolta il cuore, si fa eseguire al soggetto la manovra di Valsalva, ci si accorge che il soffio
della stenosi valvolare aortica si riduce d’intensità mentre quello della cardiomiopatia ipertrofica aumenta.
La manovra di Valsalva (espirazione forzata a glottide chiusa), infatti, riduce la pressione negativa
endotoracica, cioè la forza “aspirativa” (vis a fronte) che favorisce il ritorno venoso: diminuisce quindi il
riempimento diastolico dei ventricoli e con esso la gittata sistolica. La riduzione del volume ventricolare fa sì
che nella cardiomiopatia ipertrofica il soffio aumenti di intensità con la manovra di Valsalva, mentre
diminuisce nella stenosi aortica, dove l’intensità del soffio è proporzionale alla gittata sistolica, cioè alla
quantità di sangue che attraversa la valvola.
L’ECG è anormale nella quasi totalità dei casi, anche se le anomalie presenti non sono patognomoniche e
possono essere diverse: più comunemente si osserva ipertrofia ventricolare sinistra, onde Q anomale e
segni di ischemia ventricolare.
L'ecocardiogramma è esame fondamentale, che mostra ipertrofia generalmente asimmetrica, coinvolgente
il setto interventricolare (Figura 2).

La distribuzione dell’ipertrofia è eterogenea e in una piccola percentuale di pazienti è localizzata al solo


apice ventricolare (forma apicale, identificata dapprima nelle popolazioni orientali, ma ubiquitaria; è
caratterizzata da buona prognosi). Una stima dell'ipertrofia è data dallo spessore parietale massimo,
particolarmente rilevante poiché quando è particolarmente aumentato (>= 30 mm) rappresenta un fattore
di rischio per morte improvvisa. In circa 1/3 dei pazienti è presente ostruzione al tratto di efflusso del
ventricolo sinistro a riposo. Nei pazienti con sintomi e senza ostruzione a riposo è indicata l’esecuzione di
esercizio fisico con valutazione del gradiente al picco dell’esercizio; con questo approccio il 70% dei pazienti
ha ostruzione.
Con la risonanza magnetica nucleare (RMN) cardiaca è possibile evidenziare tutte le pareti miocardiche e

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216 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pertanto quando la caratterizzazione anatomica risulta difficile con l’eco, vi è indicazione ad eseguirla.
Inoltre, con la RMN viene misurata la massa ventricolare sinistra, non possibile con l’ecocardiogramma per
l’eterogenea distribuzione dell’ipertrofia. La somministrazione di un mezzo di contrasto, il gadolinio, che si
accumula tardivamente nell'interstizio (late-enhancement) consente di avere un'immagine della
distribuzione di fibrosi in questi pazienti.
Vista l'eziologia di questa malattia, dopo aver identificato un probando (primo paziente identificato in una
famiglia) si deve procedere ad uno screening familiare con ECG, ecocardiogramma e, se disponibile, analisi
genetica.

TRATTAMENTO

Dopo aver determinato il profilo di rischio per morte improvvisa, si può individuare una strategia
terapeutica. Ai pazienti con almeno 2 fattori di rischio per morte improvvisa va consigliato l'impianto di un
defibrillatore (ICD). I pazienti con un solo fattore di rischio costituiscono una zona grigia, e l'impianto di un
ICD va valutato caso per caso.
I pazienti senza fattori di rischio per morte improvvisa ed asintomatici non richiedono trattamento. I
pazienti sintomatici vengono posti in terapia con beta-bloccanti e/o Ca++-antagonisti non diidropiridinici
(verapamil o diltiazem o gallopamil). La terapia ha la finalità di ridurre i sintomi, ma non ha effetto sulla
prognosi.
Se è presente ostruzione al tratto d'efflusso, ai beta-bloccanti si può aggiungere la disopiramide (un
antiaritmico qui usato solo per il suo marcato effetto inotropo negativo, che contribuisce alla riduzione
dell'ostruzione). Se la terapia medica non è efficace nella riduzione dell'ostruzione, questa può avvalersi di
intervento chirurgico di miotomia-miectomia (asportazione di un cuneo di setto sottoaortico per allargare
in tratto d'efflusso), o dell'ablazione alcoolica (iniezione di etanolo in uno o più rami perforanti settali in
modo da indurre infarto chimico della porzione alta del setto, sempre allo scopo di allargare in tratto
d'efflusso).
I pazienti che hanno fibrillazione atriale persistente o cronica debbono essere riportati in ritmo sinusale: ciò
non è sempre possibile, ma è importante tentare il ripristino del ritmo sinusale finché è ragionevole. Il
ripristino del ritmo sinusale si ottiene mediante cardioversione elettrica o farmacologica. La prevenzione
delle recidive di fibrillazione atriale è usualmente ottenuta con l'uso di amiodarone. In caso di fibrillazione
atriale parossistica o persistente o cronica, per l'anticoagulazione si applicano le linee guida usuali.

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217 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 29
CARDIOMIOPATIA DILATATIVA
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda

DEFINIZIONE

La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo Cardiaco caratterizzata da
dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme
alle forme ipertrofica, restrittiva ed alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro
sottotipi principali di Cardiomiopatia.

EPIDEMIOLOGIA

La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso ogni 2.500 abitanti e
l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia, la sua reale frequenza è certamente
superiore, considerando che la maggior parte dei soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate”
della malattia (dilatazione e disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non
compaiono i primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della conduzione.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è rappresentato dalla più o meno
cospicua dilatazione di una od entrambe le camere ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi
avanzate della malattia, sono dilatati (Patologia 30).

La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza contrattile del miocardio

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218 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di trombi endocavitari, di riscontro non
infrequente in sede autoptica e documentabili prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di
sinistra(Patologia 31).

La dilatazione delle camere cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente concorrono anche a
determinare l’allargamento degli osti atrio-ventricolari e lo stiramento delle corde tendinee da diastasi dei
muscoli papillari, con conseguente insufficienza valvolare “funzionale” mitralica e/o tricuspidale.
Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di stenosi “critiche” a carico
dei grossi vasi epicardici.
Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali essendo rappresentate da degenerazione
miocellulare e diminuzione del numero delle miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed
interstiziale, infiltrati flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio.

EZIOPATOGENESI

Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare con precisione la
causa. Come per le altre forme di cardiomiopatia, anche per la CMPD i maggiori progressi in termini di
conoscenze eziopatogenetiche riguardano il campo della genetica. A differenza di quanto si riteneva in
passato, le forme familiari di CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). Le diverse modalità di
trasmissione ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, legata al cromosoma X) e di
presentazione clinica (in relazione al grado di penetranza, all’età di insorgenza, all’interessamento isolato o
meno del miocardio, ecc) della CMPD familiare indicano l’esistenza di una marcata eterogeneità genotipica
e fenotipica. L'analisi del tipo di trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di
genetica molecolare ha importanza non solo conoscitiva ma anche clinica perché le differenti forme
possono non solo avere differente quadro clinico ma anche differente prognosi e differente rischio di
malattia per i familiari.

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219 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Fattori infettivi/immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel determinismo della CMPD, anche
se i meccanismi con cui in questo caso si realizza il danno miocardico non sono del tutto chiariti. I virus
possono indurre un effetto citolitico diretto correlato alla loro virulenza come pure attivare una reazione
autoimmune secondaria a “mimetismo” molecolare tra epitopi virali e costituenti normali del miocardio ad
essi simili.

QUADRO CLINICO

La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi l’esordio avviene tra i
20 ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso maschile, con un rapporto maschi/femmine di
circa 3:1.
Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso cardiaco od aritmie
ventricolari o sopraventricolari. In oltre il 50% dei pazienti, la presentazione clinica è rappresentata da un
quadro di scompenso cardiaco sinistro; in una minore percentuale di casi, possono essere prevalenti i segni
di scompenso destro.
Le aritmie sono un’evenienza frequente nella CMPD e non di rado costituiscono le prime manifestazioni
cliniche; tuttavia, solo raramente sincope e morte improvvisa rappresentano l'esordio della malattia.
Un dolore toracico, per lo più da sforzo e talora con le caratteristiche di un’angina, rappresenta il sintomo
principale d’esordio della CMPD nel 10-20% dei casi; in questi pazienti, è stata dimostrata una minore
riserva coronarica.
Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione ventricolare e marcata
cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da un episodio embolico sistemico o
polmonare(Patologia 32).

Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi scoperti fortuitamente in
occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di un soffio cardiaco) o di un’indagine
strumentale (ad esempio, per il riscontro di blocco di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di
cardiomegalia alla radiografia del torace) effettuate per altri motivi.

DIAGNOSI

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220 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Di fronte ad una presentazione clinica suggestiva per CMPD, è necessario integrare i dati anamnestici e
clinici con le opportune indagini strumentali e di laboratorio.
Elettrocardiogramma. La tachicardia sinusale è un dato di frequente riscontro all’ECG standard. Possono
essere presenti anche turbe della conduzione atrio-ventricolare ed intra-ventricolare, in particolare il
blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 3), e anche onde Q di “pseudo-necrosi” in sede anteriore, in
associazione con estesa fibrosi di questa regione. Anche le alterazioni della ripolarizzazione sono di
frequente riscontro, come pure l’intero spettro delle aritmie sopraventricolari e ventricolari.
Radiogramma toracico. La cardiomegalia (rapporto cardio-toracico > 0.5) è di comune riscontro, come pure
i segni di redistribuzione a carico del circolo polmonare. Congestione interstiziale ed alveolare sono spesso
documentabili nelle forme più avanzate.
Ecocardiogramma. L’anamnesi, l’esame obiettivo, l’ECG e la radiografia del torace non sono in grado di
fornire elementi specifici che consentano con sicurezza una diagnosi di CMPD, la quale richiede la presenza
di alcuni criteri evidenziabili solamente con l’esecuzione di un ecocardiogramma.
La CMPD è classicamente caratterizzata, da un punto di vista ecocardiografico, dalla presenza di una
dilatazione globale del ventricolo sinistro associata a diffuse alterazioni della cinetica parietale con ridotta
funzione di pompa (frazione di eiezione < 45%). Nei casi in fase avanzata, il ventricolo sinistro, oltre che
essere di volume notevolmente aumentato, assume una geometria caratterizzata da una morfologia più
globosa e quindi meno ellissoidale che di norma. L’ecocardiogramma è anche in grado di documentare
eventuali asincronie nella contrazione inter- ed intra-ventricolare (conseguenti a disturbi di conduzione, in
particolare il blocco di branca sinistra), che possono contribuire a peggiorare la funzione di pompa
cardiaca.
Un’insufficienza mitralica “funzionale”, cioè in assenza di alterazioni strutturali dei lembi, è un reperto
frequente nella CMPD, e l’ecocardiogramma rappresenta l’indagine di elezione per confermarne la
presenza e quantificarne la rilevanza emodinamica.
Metodiche invasive. La coronarografia rimane un’indagine di fondamentale importanza per la diagnosi
differenziale tra CMPD e cardiopatia ischemica in fase dilatativo-ipocinetica. E’ indicata soprattutto nei
pazienti di sesso maschile ed età > 35 anni, con uno o più fattori di rischio coronarico e/o indicatori clinico-
strumentali suggestivi di coronaropatia (angina, alterazioni segmentarie della cinetica ventricolare
all’ecocardiogramma, ischemia miocardica alla scintigrafia miocardica od all’ecocardiogramma da stress).
Il cateterismo cardiaco consente uno studio emodinamico dettagliato con la misurazione delle pressioni di
riempimento ventricolare e della portata cardiaca, e mantiene un ruolo importante nella valutazione della
gravità e nella stratificazione prognostica dei pazienti con CMPD.

DIAGNOSI DI CMPD FAMILIARE

Lo studio di una famiglia con CMPD si basa su un’accurata costruzione dell’albero genealogico e della storia
familiare (volta ad individuare il possibile pattern di trasmissione della malattia) e sullo screening clinico-
strumentale (ECG, ecocardiogramma) di tutti i parenti di primo grado (genitori, fratelli/sorelle, figli) del
probando (primo individuo affetto di una famiglia che giunge all’osservazione). La valutazione clinico-
strumentale andrebbe ripetuta periodicamente non solo nei familiari affetti anche in quelli sani per
escludere un’evoluzione tardiva della malattia dovuta alla bassa penetranza.
La CMPD viene definita familiare: 1) in presenza di due o più individui affetti in una famiglia o 2) in presenza
di un parente di primo grado di un paziente con CMPD che abbia avuto una morte improvvisa,
documentata ed inaspettata, ad una età inferiore di 35 anni.

PROGNOSI

La prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità (all’inizio degli anni ’80 era stimata essere
del 50% a 2 anni dalla diagnosi), risultando in linea di massima tanto peggiore quanto maggiori sono le
alterazioni morfo-funzionali a carico del ventricolo sinistro (marcata dilatazione, bassa frazione di eiezione)
e quanto più severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato che una
diagnosi precoce ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come gli ACE-inibitori ed i
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221 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

betabloccanti possono significativamente contribuire a modificare favorevolmente la storia naturale dei


pazienti con CMPD (sopravvivenza libera da trapianto cardiaco del 60% a 10 anni dalla diagnosi).

CENNI DI TERAPIA

Non sono attualmente disponibili terapie specifiche per la CMPD. Gli obiettivi principali del trattamento
consistono nel limitare la progressione dello scompenso cardiaco e nel controllare le aritmie. Tra le misure
generali sono incluse l’educazione del paziente, la restrizione dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con
limitazione dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e l’esecuzione di un moderato esercizio fisico
aerobico.
Terapia medica. La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente impiegati nel
trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco. Fra questi, i più importanti sono gli
ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o
dell’ansa, gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone.
Gli ACE-inibitori ed i betabloccanti sono efficaci nei pazienti con scompenso cardiaco da lieve a severo
(NYHA II-IV); gli ACE-inibitori lo sono anche in quelli con disfunzione ventricolare ancora in fase
asintomatica (classe NYHA I). Nei casi in cui vi sia intolleranza agli ACE-inibitori, appare giustificato l’impiego
dei sartani.
I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il fenomeno della ritenzione
idro-salina, modulando le dosi in funzione del grado di congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti
recettoriali dell’aldosterone sono indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo.
La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con fibrillazione atriale e in quelli
in ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante la terapia con antagonisti neuro-ormonali e
diuretici.
Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via endovenosa,
particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto predominante beta1-agonista) o
gli inibitori delle fosfodiesterasi (amrinone, milrinone ed enoximone) che sono allo stesso tempo inotropi e
vasodilatatori. Dati recenti suggeriscono l’efficacia del levosimendan, un farmaco sensibilizzatore al calcio
con proprietà anche di vasodilatazione.
Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene raccomandato nei
pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con trombosi endocavitaria e/o pregressa
embolia, e anche nei soggetti con marcata dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%.
Terapia meccanica. L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con CMPD, sia per quanto
riguarda la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile) che per il ripristino della
sincronia della contrazione cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker
biventricolare), trova indicazione in selezionati sottogruppi di pazienti.
Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia. Sono state proposte procedure chirurgiche
complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto” od a questo alternative. In
pazienti selezionati, è possibile limitare la progressione della malattia correggendo l’insufficienza mitralica
mediante valvuloanuloplastica.
Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in attesa di trapianto, giunti
allo stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono
temporaneamente la funzione di pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza
ventricolare meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione tissutale
adeguata sostituendo la funzione di pompa del cuore con dispositivi meccanici di vario tipo. Sono in corso
di valutazione nuove prospettive per un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa
alla sostituzione cardiaca.
Trapianto cardiaco. La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile rimane allo stato
attuale la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di
terapia medica (vedi Capitolo 66). La sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata
rispettivamente intorno all’80, 68 e 56%. Il problema maggiore è costituito dalla carenza di donazioni.

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222 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

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223 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 30
CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVA
Gianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani, Andrea Perkan

DEFINIZIONE

Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del muscolo cardiaco
accomunate dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado, entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern
di riempimento diastolico di tipo restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti
incostantemente aumentate di spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta. L’espressione
“pattern restrittivo” indica che durante la diastole vi è un ostacolo al riempimento del ventricolo, il quale
non riesce ad accogliere il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la
pressione diastolica ventricolare aumenta e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta
ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie dell’atrio, nei capillari, ecc.
Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in cui il pattern
restrittivo costituisce l'elemento caratterizzante il quadro fisiopatologico.

EZIOPATOGENESI ED ANATOMIA PATOLOGICA

Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la cosiddetta CMPR idiopatica
(talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico dominante), la sindrome di Löffler e la fibrosi
endomiocardica. Le forme secondarie comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e
quelle da accumulo (emocromatosi, ecc).
Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Tuttavia, in linea generale, il reperto
macroscopico è quello di un cuore con atri marcatamente dilatati e spesso sede di trombi, mentre i
ventricoli appaiono grossolanamente normali(Patologia 33).

QUADRO CLINICO

Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da sintomi e segni di
scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia, dispnea da sforzo, dispnea parossistica
notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite. La comparsa di fibrillazione atriale è un evento frequente nei

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224 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

soggetti con forme idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare
episodi tromboembolici. Nonostante la relativamente bassa frequenza di aritmie minacciose (blocco atrio-
ventricolare di III grado o tachicardia ventricolare), la morte improvvisa rappresenta comunque un evento
possibile.
L'esame obiettivo consente di rilevare valori di pressione arteriosa normali o ridotti con tendenza
all'ipotensione ortostatica in una significativa percentuale di pazienti. E' spesso presente tachicardia a
riposo. Il I ed il II tono sono in genere normali, ma si ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E' possibile
rilevare un soffio olosistolico da rigurgito mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il
fegato si presenta aumentato di volume e le vene giugulari sono distese.

DATI DI LABORATORIO E STRUMENTALI

In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei parametri ematochimici.
Il riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle forme
da amiloidosi possono essere presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della velocità
di eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva, ipofibrinogenemia, iposideremia, monoclonalità
all’immunoelettroforesi proteica o segni di compromissione della funzione renale ed epatica.
La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca, segni
di congestione interstiziale od alveolare e versamento pleurico.
Le possibili anomalie elettrocardiografiche includono i bassi voltaggi dei complessi QRS nelle derivazioni
periferiche, le onde Q di “pseudonecrosi” nelle derivazioni antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST;
sono frequentemente descritti anche segni di ingrandimento atriale (ECG 47), di ipertrofia ventricolare
sinistra ed aritmie di vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non
sembrano particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso documentabili
blocchi atrio-ventricolari ed intra-ventricolari.

L’ecocardiogramma è l’indagine diagnostica cardine, mediante la quale è possibile evidenziare un


ventricolo sinistro non ingrandito, con spessori parietali normali o solo lievemente aumentati e con
funzione di pompa normale o quasi. L'ispessimento e l’aspetto granulare delle pareti del ventricolo sinistro
ed in particolare del setto interventricolare ("a vetro smerigliato") è caratteristico delle forme
amiloidosiche. Il ventricolo destro può presentarsi dilatato, specie nei casi con ipertensione polmonare. E’
pressoché costantemente documentabile una dilatazione biatriale. Le valvole atrio-ventricolari appaiono
frequentemente ispessite, e spesso si associa un rigurgito mitralico e/o tricuspidale. Lo studio del

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225 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riempimento ventricolare sinistro mediante analisi Doppler del flusso a livello della valvola mitrale
documenta un pattern di tipo “restrittivo” (ECO Figura45).

L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in modo più accurato l’eventuale
presenza di trombi endocavitari.
Sebbene l'integrazione degli dati ottenibili dalla valutazione clinica e dagli esami strumentali non invasivi
consenta nella maggior parte dei casi di porre correttamente la diagnosi, il cateterismo cardiaco e la biopsia
endomiocardica conservano un ruolo importante nello studio della CMPR.
In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il “segno della radice quadrata”
(“dip and plateau”), che si apprezza nella curva della pressione protodiastolica ventricolare ed è dovuto ad
una ripida discesa della pressione ventricolare all’inizio della diastole seguita da un brusco incremento e da
un plateau in protodiastole. La pressione sistolica e la pressione di riempimento ventricolare destro
possono essere elevate. Le pressioni di riempimento nelle sezioni di sinistra sono usualmente maggiori di 5
mmHg rispetto alle sezioni di destra, e la pressione capillare polmonare (“pressione di incuneamento”) è in
genere elevata.
La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica, immunoistichimica ed
ultrastrutturale delle diverse CMPR.
Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia cellulare e fibrosi
interstiziale in assenza, tranne che per quel che riguarda la sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari.
La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo, che conferisce al
tessuto una tipica birifrangenza all'esame con luce polarizzata. L'indagine immunoistochimica consente di
differenziare i vari tipi di amiloide (catene leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina,
lisozima, beta2 microglobulina, fattori natriuretici).
La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno frequenti di CMPR da
accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è facilmente evidenziabile con la colorazione di
Pearls; nella sindrome di Löffler, la biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione
eosinofila dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la presenza di ampie
deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano l’endocardio, il subendocardio ed il
miocardio.
Studi scintigrafici mirati o metodiche di risonanza magnetica cardiaca con gadolinio possono contribuire alla
diagnosi e caratterizzazione di alcune di queste forme

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con problemi di diagnosi
differenziale difficili da risolvere (vedi Capitolo 32). Una storia di pericardite acuta, pregressa infezione
tubercolare, trauma toracico, intervento cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare
verso la diagnosi di pericardite costrittiva. All’indagine invasiva, il rilievo di una pressione telediastolica del
ventricolo sinistro inferiore di almeno 5 mmHg rispetto alla pressione telediastolica del ventricolo destro, di
una pressione sistolica del ventricolo destro 50 mmHg ed di un rapporto pressione

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226 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

telediastolica/pressione sistolica del ventricolo destro 0.33 orienta verso una pericardite costrittiva.
La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire informazioni più complete
su eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della parete miocardica. Anche la biopsia
endomiocardica può essere di ausilio nella differenziazione della CMPR dalla pericardite costrittiva,
particolarmente nei casi in cui è possibile riscontare un’infiltrazione miocardica.

CENNI DI TERAPIA

In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una terapia sintomatica della
congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei diuretici deve essere stabilito
con cautela, per evitare una sindrome da bassa portata conseguente ad eccessiva riduzione del precarico.
Nei pazienti affetti da amiloidosi cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti in quanto
questi farmaci possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici.
In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché l’assenza del
contributo atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale peggioramento della disfunzione
diastolica. A questo scopo, sono indicati sia la cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante
l’impiego di agenti antiaritmici, in particolare l’amiodarone. In casi di difetti di conduzione atrio-
ventricolare di grado avanzato può rendersi necessario l’impianto di un pace-maker.
Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio tromboembolico, in particolare
in quelli con riscontro ecocardiografico di trombi endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi ricorrenti
di fibrillazione atriale parossistica o fibrillazione atriale cronica.
Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con trattamenti
farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta l’unica valida opzione
terapeutica.

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227 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 31
CARDIOMIOPATIA/DISPLASIA ARITMOGENA DEL VENTRICOLO DESTRO
Luciano Daliento, Barbara Bauce, Cristina Basso, Alessandra Rampazzo, Gaetano Thiene, Andrea Nava

DEFINIZIONE
La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è una malattia caratterizzata, dal punto di vista
morfologico, da una sostituzione fibro-adiposa di tratti più o meno estesi del ventricolo destro (Figura 1),
con un non raro interessamento del ventricolo sinistro.
Le alterazioni anatomiche sono responsabili di modificazioni morfofunzionali delle pareti ventricolari,
riconoscibili mediante le tecniche di imaging (Figura 2), e fungono da substrato per l’instaurarsi di aritmie
da rientro (Figura 3). La malattia è di origine genetica, nella maggior parte dei casi con trasmissione
autosomica dominante; sono stati finora identificati diversi geni-malattia. L’espressione clinica può essere
diversa da soggetto a soggetto, sia per quanto riguarda le modificazioni morfo-funzionali cardiache che per
il grado di instabilità elettrica, anche in pazienti portatori di un’identica mutazione.

Figura 3
A. Reperto istologico di parete miocardica: ben evidente la sostituzione adiposa e i tralci di fibrosi.
B. Sezione longitudinale di reperto autoptico di ventricolo destro La parete anteriore in tutta la sua estensione, particolarmente
nella regione dell'infundibolo, presenta aree di sostituzione adiposa (macchie giallastre).

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228 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Segni ecocardiografici diagnostici di cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro.


A: Dilatazione della cavità ventricolare destra con alterazione della disposizione architettonica delle trabecole (proiezione 4
camere).
B: aumento del diametro dell’infundibolo (proiezione asse corto).
C, D: bulging sottotricuspidale.

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229 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 5 Episodi di tachicardia ventricolare registrati durante un ECG dinamico (Holter) delle 24 ore.

QUADRO CLINICO
La presenza, in giovani adulti, di aritmie ventricolari con morfologia tipo blocco di branca sinistra, associate
ad alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro, soprattutto delle zone che definiscono il cosiddetto
“triangolo della displasia” (la regione sottotricuspidale, la punta e la regione dell’infundibolo) caratterizzano
il quadro clinico e rendono possibile la diagnosi. Prevalgano in genere le forme di malattia con estensione
lieve, e raramente il processo di sostituzione fibro-adiposa è così diffuso da provocare importante
cardiomegalia o severa riduzione della funzione di pompa. Il fatto che venga interessato soprattutto il
ventricolo destro spiega perché i pazienti affetti siano capaci, nella maggior parte dei casi, di ottime
prestazioni funzionali; molti di essi, anzi, svolgono attività sportiva e spesso gli eventi aritmici maggiori si
avverano proprio durante una intensa attività fisica. Non è raro, infatti, che la morte improvvisa sia la prima
manifestazione clinica nei giovani pazienti.

DIAGNOSI
Una Task Force della Società Europea di Cardiologia ha definito i criteri diagnostici per la Cardiomiopatia
aritmogena, basati oltre che sui dati clinico-anamnestici anche sulle modificazioni morfo-funzionali
individuate con le varie tecniche di imaging (Tabella I).
Nello studio clinico di un soggetto con aritmie ventricolari è fondamentale eseguire un’attenta e completa
anamnesi familiare riguardo la presenza, nel gentilizio, di morti precoci ed inattese o episodi sincopali. Le
metodiche di imaging (ecocardiogramma, risonanza magnetica cardiaca ed angiografia) sono
indubbiamente le più valide per la definizione diagnostica delle alterazioni morfo-funzionali delle pareti
ventricolari; l’elettrocardiogramma, l’esame Holter delle 24 ore e l’elettrocardiogramma ad alta
amplificazione, assieme allo studio elettrofisiologico e alla ricostruzione della mappa elettroanatomica
ventricolare destra, sono utili soprattutto per la stratificazione del rischio aritmico.

Elettrocardiogramma
L’ECG è normale in circa il 20% dei soggetti con diagnosi clinica di cardiomiopatia aritmogena; in questi è
generalmente presente una scarsa sostituzione fibro-adiposa. La maggior parte dei pazienti, invece,

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230 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

presentano ondeT negative nelle precordiali destre (Figura 4), ed in alcuni sono anche evidenti in queste
derivazioni onde epsilon, piccole deflessioni presenti nel tratto ST o nell’onda T che esprimono la
depolarizzazione estremamente ritardata di alcune zone del ventricolo destro (Figura 5).
Extrasistoli ventricolari o tachicardia ventricolare con morfologia tipo blocco di branca sinistra sono molto
comuni nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro; esistono anche forme con aritmie
ventricolari ripetitive polimorfe, associate ad un maggior rischio di morte improvvisa. La morfologia dei
complessi ectopici somiglia a quella del blocco di branca sinistra poiché le aritmie nascono nel ventricolo
destro. L’impulso ectopico genera un’attivazione non simultanea dei ventricoli: dapprima si depolarizza il
ventricolo destro, sede in cui l’impulso nasce, e poi il processo di attivazione si comunica al ventricolo
sinistro; questa sequenza di diffusione dell’impulso nei ventricoli è identica a quella che si realizza nel
blocco di branca sinistra. In quest’ultimo caso, però, il meccanismo da cui essa dipende è l’incapacità della
branca sinistra a condurre l’impulso, per cui il processo di depolarizzazione si realizza prima nel ventricolo
destro, la cui branca è integra, e solo tardivamente il fronte d’onda si trasmette anche al ventricolo sinistro.
All’elettrocardiogramma amplificato si registrano potenziali tardivi (Figura 6) nella quasi totalità dei pazienti
che presentano forme severe di cardiomiopatia aritmogena, nel 70-80 % dei pazienti con forme moderate e
in poco più del 50% dei pazienti con forme lievi.
Il test ergometrico viene utilizzato non tanto per misurare la capacità funzionale, quanto per osservare il
comportamento delle aritmie e la loro eventuale scomparsa o insorgenza durante lo sforzo.

Metodiche di imaging
L’ecocardiografia (Figura 7), la risonanza magnetica nucleare (Figura 8) e la cineventricolografia (Figura 9)
sono metodiche idonee alla diagnosi anche nelle forme con scarsa compromissione parietale. La presenza
di un bulging (rigonfiamento) diastolico o di discinesie sistoliche della parete infero-basale del ventricolo
destro, giusto sotto la inserzione del lembo posteriore della valvola tricuspide, la disomogeneità della
architettura trabecolare, la dilatazione dell’infundibolo, l’alterata configurazione dei margini della parete
libera, soprattutto dell’apice, sono segni caratteristici della malattia.
Riguardo la risonanza magnetica (Figura 8), si dà ormai più importanza al riscontro di alterazioni della
cinetica dei ventricoli che all’aumento del segnale riferibile a grasso. Dati incoraggianti stanno arrivando
dall’utilizzo del mezzo di contrasto gadolinio, capace di identificare le aree miocardiche che presentano
fibrosi (vedi Capitolo 7).
Al momento attuale, l’indagine di imaging a maggior grado di sensibilità e specificità rimane la
cineventricolografia (Figura 9). La presenza di bulging diastolici della parete anteriore e sottotricuspidale,
associata a trabecole disposte trasversalmente, ispessite e intervallate da profonde fessure, raggiungono la
più elevata sensibilità e specificità diagnostica. L’interessamento del ventricolo sinistro è più frequente di
quanto non si ritenesse in passato e solitamente lo si ritrova nei soggetti adulti.

Biopsia endomiocardica
La biopsia endomiocardica rappresenta un valido supporto sia per la diagnosi, quando è presente nel
prelievo sostituzione fibro-adiposa, sia per la stratificazione del rischio aritmico, poiché la presenza di una
significativa componente infiammatoria o necrotica o di elementi apoptosici possono essere messi in
relazione con una fase attiva della malattia, in cui l’instabilità elettrica è particolarmente spiccata.

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231 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

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232 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 Elettrocardiogramma di un paziente con sospetto clinico di cardiomiopatia aritmogena. In tutte le derivazioni si osserva
una riduzione delle ampiezze del QRS; le onde T sono invertite nelle precordiali destre.

Figura 7 Complesso QRS con evidenti alterazioni all’inizio della fase di ripolarizzqzione (tratto ST).

Figura 8 - A sinistra: reperto bioptico di paziente con cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, con severa sostituzione
fibrosa dei miociti. I dati numerici riportano i risultati dell’analisi morfometrica del miocardio.
A destra: una registrazione ECG ad alta risoluzione, che mostra la presenza di potenziali tardivi.

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233 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 9 - Segni ecocardiografici diagnostici di cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro: dilatazione della cavità e bulging
diastolico nella regione sottotriicuspidale.

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234 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 10 - L’esame RMN cardiaco mostra nelle varie proiezioni una dilatazione della cavità ventricolare destra, più accentuata
nella regione dell’infundibolo e sotto la valvola tricuspide, e la presenza di grasso intraparietale nella parete anteriore del
ventricolo.

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235 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 11 – Cineventricolografia destra. Segni angiografici patognomonici della cardiomiopatia aritmogena: dilatazione della cavità
ventricolare con disarrangiamento delle trabecole, alterazione dei profili parietali con bulging diastolico sottotricuspidale della
parete anteriore, mammellonature della punta.

GENETICA

Sono stati finora riconosciuti 11 loci di mutazione genetica associati alla cardiomiopatia aritmogena
(Tabella II). Una forma autosomica recessiva associata a keratoderma palmo-plantare e capelli ricci è stata
descritta in pazienti che vivono nell’isola greca di Naxos. Questa forma è causata da una mutazione del
gene della Plakoglobina, localizzato nel cromosoma 17q21, che codifica per un componente chiave dei
desmosomi. In pazienti che presentavano criteri clinico-diagnostici per la cardiomiopatia aritmogena del
ventricolo destro sono state identificate mutazioni del gene della Desmoplakina e della Desmogleina-2,
proteine presenti nei desmosomi, dove svolgono un ruolo fondamentale nell’assicurare la giunzione tra una
cellula e l’altra (Figura 10).
In una famiglia con alta ricorrenza di morte improvvisa giovanile, aritmie ventricolari polimorfe, e lievi
alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro è stata identificata una mutazione del gene RyR2 che
regola l’attività del recettore rianodinico cardiaco. Questo gene è fra i più grandi del genoma umano,
essendo costituito da 106 esoni, e codifica per il recettore rianodinico, che regola l’omeostasi intracellulare
del calcio (Figura 11). La mutazione di questo gene provoca un aumento della concentrazione di ioni calcio
all’interno del miocita e favorisce l’insorgenza delle aritmie ventricolari durante sforzo.
Sulla base delle conoscenze genetiche, si può ipotizzare che la patogenesi molecolare di questa malattia
risieda nel fatto che il danno della parete ventricolare con successivo processo riparativo sia la conseguenza
di una debolezza del sistema delle giunzioni desmosomiali (Figura 12). Dato che i desmosomi sono presenti
in tutto il miocardio, le alterazioni della proteine desmosomiali nei soggetti con mutazione genica sono
espresse sia a livello del miocardio ventricolare destro che sinistro. Il fatto che in questa malattia siano
prevalenti le alterazioni morfologiche a carico del ventricolo destro è verosimilmente dovuto al diverso

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236 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

spessore della parete ventricolare, molto più sottile a destra rispetto al versante sinistro. Gli studi più
recenti, eseguiti con risonanza magnetica ed iniezione di gadolinio, un mezzo di contrasto che individua la
fibrosi miocardica, supportano questa spiegazione, mostrando a livello dell’epicardio ventricolare sinistro la
presenza di fibrosi, che in genere non comporta alterazioni della cinetica ventricolare sinistra.

Figura 12 – Schema della struttura di un desmosoma e delle proteine coinvolte. Aspetto al miscroscopio elettronico di una giuntura
desmosomiale.

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237 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 13 – Raffigurazione schematica del recettore rianodinico di tipo 2 che, localizzato a livello del reticolo sarcoplasmatico (SR),
regola l’omeostasi intracellulare dello ione calcio. Rappresentazione del tatto di gene che codifica per il recettore RyR2 interessato
dalle mutazione rilevate nei centri di Padova, Pavia ed Helsinki in pazienti con tachicardia ventricolare catecolaminergica o
tachicardia polimorfica da sforzo.

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238 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 14 – Schema del meccanismo di traduzione moderato dal fattore di crescita TGF?3.

CENNI DI TERAPIA

Nella maggior parte dei casi l’intervento terapeutico è rivolto alla prevenzione della morte improvvisa
attraverso il controllo delle aritmie ventricolari. In presenza di aritmie complesse, soprattutto se queste
sono polimorfe o si aggravano sotto sforzo, il primo provvedimento è quello di limitare l’attività fisica ed
iniziare un trattamento antiaritmico farmacologico. In presenza di episodi ripetuti di tachicardia
ventricolare sostenuta o di importanti sintomi aritmici si ricorre all’impianto di un defibrillatore automatico.
Esiste inoltre l’opzione dell’ablazione con radiofrequenza (vedi Capitolo 60) in presenza di una lesione
localizzata, se durante lo studio elettrofisiologico endocavitario si dimostra essere questa la fonte primaria
dell’aritmia ventricolare.

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239 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 32
PERICARDITI
Antonio Barsotti, Gian Marco Rosa

DEFINIZIONE
Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale del pericardio, la cui
eziologia può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica, immunitaria. Tra le malattie del pericardio
possono essere enucleate le forme seguenti :
 Pericarditi acute e subacute
 Pericardite cronica essudativa
 Tamponamento cardiaco
 Pericardite cronica costrittiva

PERICARDITI ACUTE E SUBACUTE


Sono processi infiammatori del pericardio a decorso acuto o subacuto, distinguibili in forme fibrinose,
caratterizzate da abbondante formazione di fibrina e scarso versamento, e forme essudative, caratterizzate
da formazione di versamento.

Eziologia
Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o tubercolari; le forme virali
sono di gran lunga le più frequenti (virus Coxackie A e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes
simplex, varicella, adenovirus, epstein barr e virus influenzali). (Tabella I)
Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione diretta del pericardio da
parte di una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie polmonari, della mammella o linfomi). Altre condizioni
morbose come patologie metaboliche (uremia o mixedema) e le collagenopatie (lupus eritematoso
sistemico, sclerodermia, artrite reumatoide, dermatomiosite, poliartrite nodosa) possono interessare il
pericardio. Sono state segnalate pericarditi da farmaci (Isoniazide, Procainamide, Idralazina e Antracicline),
su base verosimilmente immunitaria. L’infarto miocardico acuto può essere complicato dalla pericardite
epistenocardica (II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler, pericardite autoimmune ad insorgenza più
tardiva. Altre forme di infiammazione asettica del pericardio sono le post-pericardiotomiche, che si
osservano dopo interventi cardiochirurgici.
Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da raccolta di liquido di tipo
trasudatizio, come accade nello scompenso cardiaco e nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può
formare una raccolta ematica (emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche
la terapia radiante ad alte dosi può essere associata a interessamento pericardico, quando le radiazioni
siano dirette sul mediastino.

Fisiopatologia
Normalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al suo interno vige una
pressione negativa. Quando un agente patogeno di tipo chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità
funzionale dei foglietti pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere sieroso,
siero-fibrinoso, ematico, purulento, colesterolico, chiloso (Tabella II).
Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il trasudato presenta bassa densità,
basso contenuto proteico, e scarse cellule mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior
quantità di proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del versamento, la
pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il rilasciamento delle camere cardiache,
aumentano le pressioni di riempimento ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione
intrapericardica dipende dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il versamento

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240 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pericardico si forma lentamente, senza che si realizzi un tamponamento cardiaco, la pressione


intrapericardica subisce solo un modesto incremento, e la gittata sistolica, la portata cardiaca, e la
pressione arteriosa sono mantenute nei limiti della norma. Solo se la pressione intrapericardica aumenta
ulteriormente, il riempimento diastolico e la gittata sistolica diminuiscono. In questa situazione la portata
cardiaca è mantenuta entro limiti normali dall’aumento della frequenza cardiaca.

Quadro clinico
Il quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla quantità di liquido e dalla
velocità con cui questo si accumula. In genere, dopo due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale,
compaiono i sintomi della pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici:
presenta irradiazione verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e verso la spalla sinistra; talvolta
può avere localizzazione epigastrica tanto da simulare un addome acuto. La sua intensità può variare,
esacerbandosi con l’ inspirazione, la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in alcune
posizioni antalgiche (la posizione seduta o quella genupetturale oppure flettendo il torace in avanti). Il
dolore ha di solito durata protratta (giorni), e si riduce o scompare quando compare il versamento.
Esame obiettivo
Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite acuta: essi originano dall’attrito
tra i foglietti pericardici, resi scabri dalla deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente
variabili, transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di pericardite; possono
accentuarsi con la compressione esercitata dal fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il paziente
.
Indagini di laboratorio
Sono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione della PCR, rialzo della VES. I
reperti di laboratorio possono essere utili per la diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia)
o per la diagnosi di mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del titolo
anticorpale contro il virus responsabile. L’intradermoreazione alla tubercolina è utile nella diagnosi di
pericardite tubercolare. La determinazione del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va
eseguita nel caso si sospetti una malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la
pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere molto indicativo: si tratta di un trasudato nelle sindromi
edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di un liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi,
sindrome di Dressler.

Esami strumentali
Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento del tratto ST, generalmente a
concavità superiore, nelle derivazioni con QRS positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può
risultare sottoslivellato (Figura 1). Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T diventa
negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi differenziale elettrocardiografica con le
alterazioni in corso di infarto miocardico è l’assenza di onde q di necrosi. Quando la pericardite si
accompagna ad abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte le onde
dell’ECG, e a volte alternanza elettrica (vedi Capitolo 3).
Esame radiologico: le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso versamento, non sono
evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali standard. L’RX del torace può essere utile solo se
la raccolta di liquido è superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale
configurazione ed assume aspetto a “fiasca” (Figura 2).
Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento pericardico (vedi Capitolo
4). L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno spazio ecoprivo compreso tra il pericardio
posteriore e la parete posteriore del ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente
uno spazio analogo tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del ventricolo destro.

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241 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’indagine bidimensionale permette di visualizzare in modo più completo il pericardio (Figura 3).
Risonanza magnetica nucleare: la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici sullo stato del pericardio,
permettendo una miglior evidenziazione dei recessi pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso
misconosciuti.

Diagnosi differenziale
Il quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il dolore precordiale e per la
presenza di alterazioni elettrocardiografiche. Gli sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici, l’assenza
di aumento nel siero dei marker di necrosi miocardica (vedi Capitolo 24) permettono di dirimere il dubbio.

Complicanze
Si dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive e pericardite costrittiva). La
più importante complicanza dei versamenti pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti).

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242 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tabella 1

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243 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tabella II

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244 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 15 – ECG registrato in un paziente di 35 anni con pericardite acuta. In tutte le derivazioni in cui i complessi ventricolari sono
positivi, è presente un netto sopraslivellamento del tratto ST con concavità superiore. Le onde T sono appuntite e di voltaggio
relativamente elevato. Il tratto PR appare sottoslivellato nelle derivazioni inferiori e da V3 a V6, e sopraslivellato in aVR. Queste
alterazioni sono indicative di pericardite acuta: la diagnosi è suggerita dalla mancanza di alterazioni reciproche del tratto ST, che
sono, invece, di comune riscontro nel sopraslivellamento di ST dovuto a ischemia miocardica.

Figura 16 – Radiografia del torace di un paziente con versamento pericardico. Si noti la presenza dell’aspetto a “fiasca” dell’ombra
cardiaca.

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245 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 17 – Proiezione subxifoidea 4 camere sottocostale: evidente versamento pericardico.

PERICARDITE CRONICA ESSUDATIVA

Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei mesi. Tutti i processi
infettivi cronici, le collagenopatie, le malattie metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori
pericardici possono provocare versamenti pericardici ad andamento cronico.

Quadro clinico
I pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista cardiaco, pur presentando
versamento pericardico all’ ecocardiogramma. I principali sintomi consistono in ridotta tolleranza
all’esercizio fisico e nella dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come
tosse, disfagia, disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche. All’ascoltazione cardiaca i
toni risultano ovattati e si possono apprezzare a volte sfregamenti pericardici . Il decorso clinico della
pericardite cronica essudativa dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di
cardiopatia sottostante. E’ possibile l’evoluzione verso la forma costrittiva .

Diagnosi
L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica essudativa.
L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso evidenzia QRS di basso voltaggio e alterazioni
aspecifiche della ripolarizzazione. Il radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra
cardiaca.

TAMPONAMENTO CARDIACO

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246 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si
verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre una
grave limitazione del riempimento del cuore in diastole.

Eziologia:
Le cause più frequenti sono:

 pericardite acuta o recidiva

 sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco,


impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante;

 rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;

 versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica

Fisiopatologia
Il tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di
distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva
riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo
sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione
dell’afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la
rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste
quantità di liquido (per esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza.
Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono:
1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole.
2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la venosa
pressione a monte degli atri.
Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico:
tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione
della portata, e l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella
norma. Quando i meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a
ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).

Quadro clinico
E’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con
obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del
liquido (pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso,
sudorazione fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano
ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso
paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di ampiezza del polso e della pressione arteriosa
durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2).

Esami strumentali
L’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia
un versamento pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui
un collasso diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del
ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco.

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247 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PERICARDITE CRONICA COSTRITTIVA

Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche, caratterizzata da un addensamento
sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di molto la compliance del sacco pericardico, interferisce con
il normale riempimento diastolico del cuore.

Eziologia
Una pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite acuta o cronica. Le
principali cause di pericardite cronica costrittiva sono: le pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma
tubercolare, le neoplasie, la terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio.

Fisiopatologia
Alcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose, hanno come esito la
formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò, un involucro rigido che avvolge il cuore e
ostacola gravemente il riempimento dei ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano
essenzialmente in fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale. In
protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente perché l’afflusso del
sangue ai ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il cuore. La curva pressoria di entrambi i
ventricoli, perciò, assume un aspetto a radice quadrata (dip and plateau) (Figura 4). Il riempimento
ventricolare avviene principalmente in protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la
pressione telediastolica tende ad essere equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg nelle forme
più gravi). Gli effetti della costrizione pericardica sono più marcati a carico delle sezioni destre. Il
meccanismo di Frank Sktarling non è operante, essendo il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre
le modificazioni della gittata cardiaca dipendono quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza
cardiaca.

Figura 18 – Pressione ventricolare sinistra (VS) e ventricolare destra (VD) registrate simultaneamente in corso di pericardite
costrittiva. Si noti l’aspetto a “radice quadrata” (dip-and-plateau) delle curve pressorie durante la fase diastolica.

Quadro clinico
La malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il quadro clinico della
pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco congestizio, da deficit del ventricolo destro.
I sintomi sono la dispnea da sforzo e l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre
raramente si verificano dispnea a riposo e ortopnea. L’astenia è il sintomo prevalente. I toni cardiaci sono di
intensità normale o ridotta, si può a volte ascoltare un tono aggiunto protodiastolico (pericardial knock), da
attribuirsi al brusco impedimento diastolico dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione
pericardica). Sono presenti segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica:
epatosplenomegalia, edemi declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere presente polso
paradosso (vedi Capitolo 2).

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248 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Diagnosi
Non sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i complessi QRS sono di basso
voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare ingrandimento atriale (vedi Capitolo 3), e nel 20-30 % dei
casi si può riscontrare una fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali
dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma si nota un
ingrandimento atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del pericardio, la dilatazione delle
vene epatiche e della vena cava inferiore; l’esame doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare.
Il cateterismo cardiaco si rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una
diagnosi certa. La TAC e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard per la
diagnosi.

Diagnosi differenziale
La pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai ecocardiografici, dallo
scompenso cardiaco congestizio secondario a valvulopatie acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi
differenziale con la cardiomiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: l’esame emodinamico è
dirimente giacché nella cardiomiopatia restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni
sinistre che in quelle destre, mentre nella pericardite costrittiva tende ad essere uguale in entrambe le
camere ventricolari. La diagnosi differenziale con il cuore polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’infarto del
ventricolo destro è semplice, e si basa sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali.

CENNI DI TERAPIA DELLE PERICARDITI

La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro eziologia: per esempio,
nelle forme uremiche il trattamento necessario è quello dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico
con farmaci chemioterapici. Nelle pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio
terapeutico è dato dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per
impedire la comparsa di recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace ma aumenta in maniera
significativa la frequenza delle recidive entro un anno dalla risoluzione del versamento. Nelle forme lievi
con versamento modesto si consiglia l’utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento
pericardico importante si possono utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono
controindicati i farmaci corticosteroidei, che possono indebolire la formazione della cicatrice infartuale. Il
trattamento del tamponamento cardiaco è costituito dalla rimozione del liquido pericardico mediante
pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con creazione della finestra pleuropericardica.

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249 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 33
MIOCARDITI
Antonello Ganau, Pier Sergio Saba

DEFINIZIONE
Le miocarditi rappresentano le malattie infiammatorie del tessuto miocardico. Sebbene abbiano
frequentemente una evoluzione benigna, recenti dati autoptici le hanno chiamate in causa nella genesi
della morte improvvisa dei giovani adulti, poiché in una percentuale compresa tra l’8% e il 12% dei casi
l’esame istologico del miocardio di giovani deceduti improvvisamente ha mostrato i caratteristici aspetti
infiammatori. In ampi studi prospettici, le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della
cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…) in circa il 10% dei casi.

EZIOLOGIA
I potenziali agenti eziologici delle miocarditi sono molto numerosi (Tabella I). La causa più frequente è una
infezione virale, spesso da enterovirus ed in particolare da virus Coxsackie del serotipo B. Altri ceppi virali
identificati come possibili cause di miocardite sono gli adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e il virus
dell’immunodeficienza acquisita (HIV). Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e parassiti possono agire come
agenti patogeni.
Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i diuretici, la digossina,
gli antidepressivi triciclici e gli antipsicotici possono indurre miocardite mediante reazioni da ipersensibilità.
Tra le malattie autoimmunitarie, anche la celiachia può determinare una miocardite.

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250 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tabella 1

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251 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PATOGENESI

Gran parte delle conoscenze sulla patogenesi delle miocarditi deriva da modelli animali che hanno
identificato tre fasi. Nella prima fase si verifica l’invasione diretta del miocardio da parte di virus cardiotropi
o di altri agenti infettivi. Dopo la risoluzione o l’attenuazione della infezione virale può insorgere la seconda
fase di attivazione immunologica, nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che determina
ulteriore miocitolisi, aggravamento della infiammazione locale e produzione di anticorpi circolanti anti-
muscolo cardiaco. La terza e ultima fase è conseguenza del danno virale e autoimmunitario, ma può
continuare autonomamente dopo l’insulto iniziale. E’ caratterizzata da infiltrazione miocardica da parte di
cellule infiammatorie, compresi i macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente espressione di citochine
pro-infiammatorie come la interleukina-1, la interleukina-2, il tumor necrosis factor (TNF), e l’interferone- .
Il TNF, in particolare, attiva le cellule endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la
produzione di citochine e ha un effetto inotropo negativo diretto.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie elettrocardiografiche
asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una
infezione virale, quali febbre, mialgie, sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi
e segni di insufficienza cardiaca acuta (vedi Capitolo…). La manifestazione clinica più drammatica è la
dilatazione cardiaca ad insorgenza acuta, con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e rapida
insorgenza di scompenso.
Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un aumento dei
marcatori di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni elettrocardiografiche tipiche
dell’ischemia miocardica, quali sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q
patologiche o sottoslivellamento diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della
cinetica ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni da lesioni all’esame coronarografico.
Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul ritmo cardiaco, e
sono in grado di provocare blocchi di branca (vedi Capitolo…), blocco A-V (vedi capitolo…), battiti ectopici
(vedi Capitolo…) o tachicardie. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo…) si presenta raramente all’esordio
della malattia, ma si osserva frequentemente durante il follow-up a lungo termine di questi pazienti.

VALUTAZIONE DIAGNOSTICA

La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi, dell’elettrocardiogramma, di valori
elevati della proteina C reattiva e dei marker di danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle
IgM specifiche per virus a tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia.
Elettrocardiogramma
I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione dell’onda T, ma può
anche comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto nelle forme di miocardite con
interessamento pericardico (Figura 1).
Marcatori di infiammazione e di necrosi.
La VES, la proteina C reattiva ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in caso di miocardite, ma
sono del tutto aspecifici e non si sono dimostrati particolarmente utili nella valutazione diagnostica e
prognostica dei pazienti con miocardite. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con
sospetta miocardite, anche se la loro sensibilità diagnostica è risultata in genere bassa e variabile.
Ecocardiogramma
In tutti i pazienti con sospetta miocardite dovrebbe essere eseguito un ecocardiogramma per la ricerca di
anomalie della contrattilità ventricolare sinistra. Il reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni

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252 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

della cinetica parietale del ventricolo sinistro, in assenza di significativa dilatazione della camera. La
disfunzione del ventricolo destro è meno frequente.
Risonanza magnetica nucleare
La metodica più promettente per la diagnosi delle miocarditi è la risonanza magnetica nucleare con
contrasto di gadolinio. Tale tecnica è in grado di individuare le aree miocardiche interessate
dall’infiltrazione infiammatoria e consente l’effettuazione di biopsie mirate per la conferma della diagnosi
( Figura 2).
Biopsia endomiocardica
La biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di certezza della
miocardite. Il tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico occupato da edema e infiltrato
infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi, e la presenza di quadri di necrosi focale di miociti ( Figura 3)
Tuttavia, le classificazioni istopatologiche proposte attualmente forniscono informazioni clinicamente utili
soltanto in una minoranza dei casi. Per tale motivo la biopsia endomiocardica è generalmente riservata ai
pazienti con una cardiomiopatia rapidamente progressiva e refrattaria alla terapia standard o con una
cardiomiopatia di origine sconosciuta associata a progressiva alterazione del sistema di conduzione o
aritmie ventricolari minacciose per la vita.

Figura 19 – Elettrocardiogramma di un giovane paziente di 25 anni affetto da miocardio.pericardite acuta. Sono presenti tachicardia
e sopralivellamento del diffuso tratto ST.

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253 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 20 – Risonanza magnetica di un paziente con miocardite acuta. Le frecce indicano edema miocardico nelle immagini T2
pesate con soppressione del grasso, in proiezione in asse lungo (A) e asse corto (B).

Figura 21 – Interstizio miocardico con abbondante edema ed infiltrato infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi con distruzione
focale di miociti.

STORIA NATURALE

La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le miocarditi che simulano
un infarto del miocardio evolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I

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254 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pazienti che esordiscono con scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione
miocardica (frazione di eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi. In una
piccola percentuale di soggetti, tuttavia, la miocardite può avere inizio con una funzione sistolica
gravemente depressa (frazione di eiezione del ventricolo sinistro minore del 35%) e in tal caso la metà circa
dei pazienti evolve verso lo scompenso cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo
nel rimanente 25% si assiste ad un progressivamente miglioramento della funzione ventricolare.
Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni nelle forme che alla
biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La presentazione clinica caratterizzata da sincope,
disturbo della conduzione intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è
gravata da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto.

TERAPIA

La terapia della miocardite è principalmente di supporto. Solo i pazienti che si presentano con un quadro di
scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci
inotropi positivi, diuretici, e vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia
dovrebbe includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica (III e IV classe
funzionale NYHA), un diuretico.
Risultati non ancora univoci suggeriscono l’impiego di farmaci immunosoppressori nelle miocarditi. Al
momento questo tipo di terapia non è da considerare di scelta nella gestione routinaria di questi pazienti,
sebbene dati incoraggianti siano stati ottenuti in quelli con miocardite a cellule giganti.

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255 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 34

ENDOCARDITE INFETTIVA

Sergio Dalla Volta

DEFINIZIONE

Questa malattia è stata nota, per molti decenni, con i termini di endocardite lenta o di endocardite
batterica subacuta, che definiscono il primo l’andamento abitualmente, ma non necessariamente, torpido
ed il secondo l’eziologia batterica della maggior parte dei casi.

Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già precedentemente leso, per lo più
sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano
attraverso la lesione stessa (endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di
microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle piastrine (endocardite
infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie.
Oltre che sulle valvole, le colonie si localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di
Botallo o sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di
dispositivi intracardiaci come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti.

Particolari condizioni, come la tossicodipendenza, le diminuite resistenze immunitarie, e l’emodialisi


favoriscono la malattia, la cui frequenza è oggi stimabile tra il 2,5 ed il 6,0 per 100.000 persone.

EZIOLOGIA

Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere causa della malattia,
non più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi.

Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi, pneumococchi o
enterococchi; nei tossicodipendenti lo stafilococco aureo è presente nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la
candida.

I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali, meno spesso cute. Essi
aderiscono ai trombi nella quasi totalità dei casi, eccetto lo stafilococco aureo che può colpire direttamente
l’endotelio sano. Una patologia cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi,
ma la frequenza di complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è variabile: il rischio è
massimo nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite dalla persistenza del dotto arterioso e dai
difetti del setto ventricolare, mentre è minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola
mitralica. Nei portatori di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia che ha
richiesto l’inserzione della protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti che fanno uso di siringhe non
sterili con trasferimento della droga a più persone, la sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più
gravi sono la localizzazione mitralica od aortica.

I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre strumentali sulla bocca (estrazioni dentarie) o
dopo endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie, cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a
permanenza nelle vene, raramente a causa di infezioni cutanee o ustioni.

ANATOMIA PATOLOGICA

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256 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

I germi si localizzano nelle strutture sopra ricordate in presenza di endotelio non normale (quello intatto è
assai resistente all’impianto di microrganismi) dal lato della cavità a minore pressione (per esempio, sulla
faccia atriale dei lembi mitralici). Si depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che
formano le “colonie”, mescolati a globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del tessuto
valvolare. A volte i germi si moltiplicano in modo violento, formando vere e proprie ulcerazioni, ma più
spesso la moltiplicazione è lenta.

Poiché le vegetazioni (Figura 1 ho provato ad aprire e dice ‘immagine non ancora disponibile) sono
costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente, comportando la reimmissione in circolo del
materiale che comprende i microrganismi (batteriemia), e provocando nuove localizzazione in vari organi e
tessuti: cute, mucose, reni, milza, cervello.

PATOGENESI

Le caratteristiche del quadro clinico e gli studi sperimentali hanno dimostrato che le manifestazioni della
malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre meccanismi attivi simultaneamente: 1) le
conseguenze della infezione; 2) le metastasi trombo-emboliche; 3) le alterazioni immunologiche. Le
conseguenze dell’infezione sono legate alla tossicità dei microrganismi ed alla intensità della loro
propagazione ai vari organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità delle vegetazioni,
colpiscono in modo particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la conseguenza della
stimolazione del sistema immunitario da parte dei germi, con formazione di autoanticorpi.

QUADRO CLINICO

I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici: tra quelli generali la
febbre di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori a 39°, compare nell’80-90% dei casi,
mancando solo negli immunocompromessi o nei grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza,
perdita di peso e malessere; meno comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare
la comparsa di nuovi soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, ed indica la valvola
interessata. La tachicardia è presente nella metà dei casi. La splenomegalia, oggi che la terapia antibiotica è
disponibile, è rilevabile in non più del 50% dei casi, essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi,
sono riscontrabili petecchie nelle congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno
frequentemente si osservano i noduli di Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili alle
estremità delle dita e di durata da molte ore a pochi giorni. Le conseguenze emboliche della malattia
comprendono: le macchie di Janeway, manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o
le piante dei piedi (7-10% dei malati), l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria
retinica; più rari gli ascessi embolici cerebrali con sindrome neurologica di focolaio.

Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali (insufficienza renale da
glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o
di anticorpi antisarcolemmatici ed antiendocardio.

Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da rottura di corde tendinee, l’emorragia cerebrale da
rottura di emboli micotici, lo shock settico, l’insufficienza renale, che può riconoscere più meccanismi,
compresa la terapia antibiotica in eccesso o con farmaci nefrotossici.

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257 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi neutrofila, aumento della
velocità di sedimentazione. Di estrema utilità è l’esecuzione di ripetute emoculture, volte all’isolamento del
germe responsabile. L’emocultura conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e
permette di iniziare una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della
emocultura, ma in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso poco patogeni,
l’emocultura può non essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo.

Dati di notevole importanza offre l’ecocardiografia, per via transtoracica e sopratutto transesofagea: tale
esame è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto di endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle
vegetazioni aderenti alle valvole o alle altre sedi della infezione, sotto forma di ammassi translucidi (ECO
39,ECO 40,ECO 41,ECO 42,ECO 43). L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei casi, per cui è la
prima ricerca da eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è obbligatoria nel
sospetto fondato di endocardite se l'ecocardiografia transtoracica è negativa. Il significato prognostico delle
vegetazioni è piuttosto controverso, anche se il rischio embolico è particolarmente frequente se le
vegetazioni sono voluminose. Durante il decorso, le vegetazioni mostrano, quando la malattia tende alla
guarigione, una riduzione, sino alla loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate, anche a
lungo termine, negli altri. In presenza di complicanze, ascessi dell'anello valvolare, aneurismi micotici dei
seni di Valsalva, fistole, e così via, l'ecocardiografia è di grande valore.

Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono di solito dati utili alla
diagnosi dell’endocardite infettiva.

Riconoscimento della malattia. Gli aspetti polimorfi della endocardite, specie oggi, visto che la terapia
antibiotica ha modificato il quadro clinico, hanno sempre fornito difficoltà non piccole, per cui si è presto
ricorsi alla ricerca di criteri di certezza. Oggi i criteri della Duke University (Tabella I), che classifica i dati
disponibili in maggiori e minori, sono seguiti quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e
tre minori o, in modo meno attendibile, cinque minori, sono considerati necessari per la diagnosi definiva.
La difficoltà di riconoscimento della malattia, favorita dalla dimenticanza del postulato di Osler “qualsiasi
processo febbrile che dura più di 5 giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva” rende spesso
tardivo il riconoscimento, per cui la diagnosi viene raggiunta dopo oltre due mesi, anche per la difficoltà di
distinguere la malattia da altre patologie infettive e no, tra cui il lupus eritematoso, la brucellosi, la
tubercolosi polmonare, le glomerulonefriti, le vasculiti, i tumori.

Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e nella prognosi
dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia cardiaca. In assenza di
trattamento, l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il 90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può
guarire se la terapia, medica o chirurgica, è ben condotta. Chiaro è che una terapia iniziata tardivamente
può portare alla compromissione della situazione cardiaca, soprattutto a un aggravamento di lesioni
valvolari preesistenti.

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258 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

CENNI DI TERAPIA

La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e sulla dimostrazione
della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto con i dosaggi
massimi del farmaco e per via endovenosa, in modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le
24 ore. In caso di risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è
possibile il trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può iniziare una terapia
empirica a largo spettro, che comprenda un macrolide ed un antibiotico attivo sui gram negativi a dosi
elevate e, possibilmente, sostituito dalla terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il
microrganismo responsabile.

La terapia chirurgica ha ben precise indicazioni, e può essere impiegata nelle seguenti condizioni:

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259 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

infezioni incontrollate dai farmaci, dopo due settimane, in presenza di germi particolari, quali stafilococco
aureo nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo pseudomonas o talune infezioni fungine;

mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca;

lesione valvolare mitralica aortica o di entrambe le valvole con decorso tempestoso;

ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie ricorrenti;

vegetazioni molto grandi in sede valvolare.

Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti batteriemia (vedi sopra),
queste dovrebbero essere precedute e seguite immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram
positivi o negativi secondo le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del
rischio, ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui la possibilità
di una batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato respiratorio o dentario, l’amoxacillina è
abitualmente adeguata, ma può essere sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di
intolleranza: per le manovre comportanti il rischio di germi gran negativi, la gentamicina è il farmaco più
largamente impiegato.

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260 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 35

I TUMORI DEL CUORE

Gaetano Thiene, Cristina Basso, Marialuisa Valente

I TUMORI DEL CUORE

Anche il cuore, seppur raramente, può essere colpito da tumori, ma la loro malignità è legata più a fattori
emodinamici che biologici.

Va detto innanzitutto che le neoplasie secondarie (metastasi al cuore) sono molto più frequenti che le
neoplasie primitive, con un rapporto di circa 10:1. I tumori maligni che più frequentemente metastatizzano
al cuore sono il cancro del polmone, seguito da quello renale, del laringe, della mammella, del fegato e dai
linfomi-leucemie. L’interessamento del cuore nel carcinoma polmonare avviene per lo più sotto forma di
diffusione pericardica (“carcinosi pericardica”) e la diagnosi può essere fatta con un esame citologico del
liquido pericardico.

Per quanto concerne i tumori primitivi del cuore, le forme benigne sono di gran lunga più frequenti (90%)
rispetto a quelle maligne (10%).

Fra i tumori benigni, primeggia il mixoma: tre su quattro neoplasie benigne del cuore e del pericardio sono
costituite da mixomi.

Il mixoma è una neoformazione endocardica a crescita endocavitaria, di origine da una cellula


indifferenziata che tende a produrre una matrice mixoide e strutture vascolari (“endotelioma
mixomatoso”). Sede prediletta è l’atrio sinistro (75%), seguito dall’atrio destro (20%), dal ventricolo destro
(3%) ed eccezionalmente dal ventricolo sinistro (1%). È per questa ragione che è conosciuto anche con il
nome di mixoma atriale.

Colpisce le donne nei due terzi dei casi, per lo più in una fascia d’età fra i 40 e i 70 anni. Rari sono i mixomi
in età pediatrica.

La presentazione clinica è varia. Prevalgono i sintomi di ostruzione al transito ematico, con dispnea e
sincope nei mixomi atriali sinistri (Figura 1) e perfino morte improvvisa in quelle masse che si impegnano e
si intrappolano nell’orifizio mitralico. La superficie friabile, specie nelle forme villose, può dar luogo ad
embolie, che possono essere il sintomo di esordio (Figura 2) anche in neoplasie di piccole dimensioni. Il
peso può variare da una decina a oltre 100 grammi, e le dimensioni essere tali da occupare quasi tutta la
cavità atriale.

La produzione da parte del tumore di interleuchina rende ragione dei cosidetti sintomi costituzionali:
febbricola, astenia, dolori osteo-articolari, malessere.

Infine, esistono i mixomi cosiddetti “silenziosi” che non danno segni di sé e rappresentano un reperto
occasionale autoptico o, oggi molto più frequentemente, ecocardiografico incidentale. L’evoluzione
naturale di questi mixomi silenziosi può essere con gli anni la trasformazione calcifica (“litomixoma”).

La diagnosi di mixoma è facilmente e rapidamente eseguibile con l’ecocardiografia transtoracica. Possono


simulare un mixoma atriale sinistro i trombi complicanti le valvulopatie reumatiche della mitrale (compreso
il cosiddetto “trombo a palla”) e neoplasie maligne, primitive o secondarie, a prevalente crescita
endocavitaria.

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261 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La terapia è costituita dalla resezione chirurgica in circolazione extracorporea. L’asportazione della base di
impianto del setto interatriale previene la possibilità di recidive.

Il papilloma endocardico, detto anche fibroelastoma papillare, rappresenta la seconda più frequente
neoplasia cardiaca benigna (Figura 3). Tumore prevalentemente di piccole dimensioni (1-2 cm), è costituito
da papille con asse fibroelastico, per cui a differenza del mixoma non è friabile. Cresce più spesso
dall’endocardio delle valvole cardiache, ma anche da quello murale, ed ha una crescita endocavitaria. La
sintomatologia è dovuta alla potenzialità emboligena, soprattutto per le stratificazioni trombotiche che si
sovrappongono. Se localizzato nelle cuspidi sigmoidi aortiche, può incunearsi negli osti coronarici e dare
morte improvvisa.

La diagnosi è ecocardiografica, ma può non essere visibile se di piccole dimensioni. Se situato nel settore
sinistro del cuore, l’asportazione chirurgica è d’obbligo per la potenzialità emboligena.

Un tumore cardiaco benigno tipico dell’infanzia è il rabdomioma. Presenta una crescita più frequentemente
intramurale ma anche endocavitaria con sintomatologia ostruttiva neonatale ed è da considerarsi un
amartoma, in quanto costituito da cardiomiociti carichi di glicogeno. Diagnostica è la cosiddetta “spider
cell”, ovvero l’aspetto a ragno del cardiomiocita con accumulo di glicogeno e dispersione a ragnatela dei
miofilamenti. Frequente è l’associazione del rabdomioma con la sclerosi tuberosa.

Il fibroma è un’altra tipica forma di tumore cardiaco benigno. È classicamente a crescita intramurale e può
assumere anche dimensioni gigantesche, che possono impedire la sua enucleazione chirurgica e imporre un
trapianto (Figura 4). Trattasi di una fibromatosi del cuore in quanto la proliferazione connettivale ingloba i
miociti residui. Caratteristiche all’istologia sono le calcificazioni. La sintomatologia può anche essere
ostruttiva quando le grosse dimensioni obliterano la cavità. Frequenti le aritmie da circuito di rientro, con
rischio di morte improvvisa elettrica.

Da segnalare, fra gli altri tumori benigni del cuore, il lipoma del setto interatriale e il tawarioma, ovvero il
tumore cistico del nodo atrioventricolare (nodo di Tawara), di derivazione celomatica pericardica, che si
può manifestare con blocco atrioventricolare.

Le neoplasie maligne primitive del cuore (sarcomi) sono rare e si originano sia dalla componente
parenchimale che mesenchimale. Sono per lo più a crescita intramurale infiltrante (angiosarcoma,
rabdomiosarcoma), ma possono anche avere una prevalente crescita endocavitaria e simulare un mixoma
(leiomiosarcoma, fibroistiocitoma). Si impone in questi casi l’esame istologico di tutte le masse resecate
chirurgicamente, anche quelle che mimano un mixoma, perché possono riservare sorprese con aspetti di
malignità ed avere pertanto una prognosi infausta. Nelle neoplasie a crescita endocavitaria, la diagnosi può
essere conseguita senza toracotomia chirurgica, attraverso la biopsia endomiocardica.

Il controllo istologico delle masse resecate chirurgicamente o prelevate con la biopsia può rivelare una
natura diversa da quella neoplastica: trombi (compresa la endocardite fibroplastica parietale di Loeffler
della sindrome eosinofila) o infezioni (batteriche, fungine, protozoarie quali le cisti da echinococco).

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262 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

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263 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 36

DEFINIZIONE E MECCANISMI DELLE ARITMIE

Giuseppe Oreto, Marco Cerrito

DEFINIZIONE

Le Aritmie sono state classicamente definite come alterazioni della formazione e/o della conduzione
dell’impulso. Secondo una definizione più recente Aritmia è ogni situazione non classificabile come ritmo
cardiaco normale, inteso come ritmo ad origine dal nodo del seno, regolare e con normale frequenza e
conduzione.

CLASSIFICAZIONE

Una task force Italiana, incaricata nel 1999 di rivedere la classificazione delle Aritmie, ha affermato
l’opportunità di abbandonare definitivamente la vecchia nomenclatura, che divideva la aritmie in
ipercinetiche e ipocinetiche. Questi termini non andrebbero più impiegati per due ordini di motivi: da un
lato essi utilizzano la parola “cinetica”, che di solito esprime il movimento delle pareti del cuore più che il
ritmo stesso, per cui possono essere fonte di confusione, e dall’altro divergono nettamente da quelli
utilizzati oltre i confini d’Italia, rendendo meno semplice la comunicazione fra gli Italiani ed il resto del
mondo.

La classificazione attuale delle Aritmie prevede 3 categorie: Tachicardie, Bradicardie, Battiti ectopici.

Le tachicardie vengono suddivise in sopraventricolari e ventricolari, e ciascuna di queste classi ha diverse


forme (Tabella I). Le bradicardie comprendono la bradicardia sinusale, il blocco seno-atriale e il blocco atrio-
ventricolare. I battiti ectopici possono essere sopraventricolari (atriali e giunzionali) o ventricolari.

MECCANISMI ELETTROGENETICI

Vi sono meccanismi differenti per le tachicardie e i battiti ectopici da un lato, e le bradicardie dall’altro.
Nelle tachicardie e anche nei battiti ectopici prematuri (extrasistoli) gli impulsi nascono quasi sempre al di
fuori dal nodo del seno e sono anticipati rispetto al normale ritmo sinusale, per cui il problema
fondamentale è l’alterata formazione dell’impulso. Nelle bradicardie, invece, il disordine principale riguarda
(tranne che nella bradicardia sinusale) la conduzione più che la formazione dell’impulso.

Le tachicardie e le extrasistoli condividono i tre seguenti meccanismi aritmogeni: 1) L’aumentato


automatismo, 2) Il rientro, 3) I postpotenziali.

L’AUTOMATISMO

Esistono nel cuore due popolazioni fondamentali di cellule: quelle segnapassi e quelle di lavoro. Soltanto le
prime possiedono la capacità dell’automatismo, cioè sono in grado di iniziare il processo di

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264 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

depolarizzazione, che poi si trasmette alle altre cellule. In altri termini, durante la fase 4 il potenziale di
riposo di queste cellule non è costante, a circa -90 mV, ma diviene gradualmente meno negativo fino a
raggiungere il potenziale soglia, in corrispondenza del quale scatta la depolarizzazione rapida (fase 0 del
potenziale d’azione). In altri termini, mentre le cellule di lavoro si attivano solo quando vengono raggiunte
da un impulso esterno, quelle segnapassi (denominate anche cellule pacemaker) vanno incontro a
depolarizzazione diastolica spontanea durante la fase 4. La frequenza con cui le cellule segnapassi generano
gli impulsi dipende dalla pendenza della fase 4 di depolarizzazione diastolica spontanea.

Un segnapassi può incrementare la propria frequenza di scarica con tre diversi meccanismi: l’aumentata
pendenza della fase 4, lo spostamento del livello massimo di polarizzazione diastolica verso valori meno
negativi, lo spostamento del potenziale soglia verso valori più negativi (Figura 1). In alto (pannello 1) è
rappresentata l’aumentata pendenza della fase 4: il potenziale b (tratteggiato) ha una maggiore pendenza
rispetto ad a, e di conseguenza la frequenza di formazione degli impulsi aumenta.

Nel pannello di mezzo (2) viene presentata la differenza fra una cellula polarizzata a -90 mV (potenziale a,
linea continua) e una in cui la polarizzazione è minore, per esempio, -75 mV (potenziale b, linea
tratteggiata). La seconda raggiungerà il potenziale soglia più in fretta, poiché è minore il percorso che
separa il potenziale iniziale dalla soglia, e avrà una frequenza di scarica maggiore rispetto a quella dell’altra.

In basso (3) si può osservare l’effetto dello spostamento della soglia verso valori meno negativi. Se la soglia
si sposta da -60 mV (a) a circa -70 mV (b, linea tratteggiata) la cellula raggiungerà più in fretta il potenziale
soglia e la sua frequenza di scarica aumenterà.

Nel cuore vi sono numerosi pacemaker, ciascuno con il proprio automatismo, espresso dalla frequenza di
scarica potenziale; i segnapassi sono soprattutto contenuti nel sistema di conduzione, particolarmente in
alcune zone degli atri, nel fascio di His, nelle branche e nelle loro diramazioni, nelle cellule di Purkinje; il
nodo del seno è normalmente il segnapassi dominante perché è il più rapido, e il suo impulso,
diffondendosi per tutto il cuore, scarica tutte le altre cellule pacemaker prima che il loro impulso “maturi”,
cioè raggiunga la soglia. Il ritmo fisiologico è, perciò, sinusale.

In condizioni patologiche, altri pacemaker possono prendere il comando perché il loro automatismo, per
uno dei meccanismi sopra descritti, diventa maggiore di quello del nodo del seno: ecco generarsi un battito
ectopico, se il segnapassi diverso dal nodo del seno riesce a guadagnare il comando del cuore una sola
volta, o un ritmo ectopico, nel caso in cui tale segnapassi riesca a depolarizzare il cuore per diversi battiti
consecutivi. Vi sono molte condizioni patologiche in cui l’automatismo di un segnapassi ectopico può essere
esaltato; fra queste la stimolazione simpatica, l’ischemia, l’acidosi, gli squilibri elettrolitici. Inoltre, anche
una cellula che normalmente non ha attività pacemaker, può assumerla in determinate circostanze, per
esempio in corso d’infarto miocardico.

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265 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

IL RIENTRO

Inteso in senso “classico”, il rientro è il fenomeno in cui un impulso generatosi in una camera torna indietro
a riattivare la camera da cui proveniva. In realtà lo stesso termine si applica quando un impulso torna a
riattivare il tessuto da cui proveniva, indipendentemente dal concetto di “camera”.

Perché il rientro abbia luogo, è necessario che siano contemporaneamente presenti 3 elementi
fondamentali: il circuito, il blocco unidirezionale, la conduzione rallentata.

Il circuito rappresentato nella Figura 2 corrisponde approssimativamente a quello che si realizza nel nodo A-
V. Nello schema vi è una zona ineccitabile al centro (il disco) e due vie (a e ß) che si riuniscono in alto in una
via superiore comune (x) e in basso in una via inferiore comune (y). Un impulso proveniente dalla via
superiore comune penetra in entrambe le vie; poiché la via ß ha una elevata velocità di conduzione,
l’impulso l’attraversa in un tempo breve e raggiunge la via inferiore comune quando ancora la via a, che ha
una bassa velocità di conduzione, è stata percorsa solo in parte. L’impulso che proviene dalla via ß può,
quindi, invadere la via a in senso retrogrado e collidere con il fronte d'onda anterogrado che sta
percorrendo questa via. In questo caso vi è il circuito, ma il rientro non si realizza per la mancanza degli altri
due elementi.

Il blocco unidirezionale viene schematizzato nella Figura 3. Esso si può realizzare perchè le due vie (a e ß),
oltre a possedere una diversa velocità di conduzione, hanno anche un differente periodo refrattario, che è
più lungo per la via rapida ß. Può sembrare strano che in un tessuto l’elevata velocità di conduzione si
associ con un lungo periodo refrattario, mentre un altro tessuto possiede bassa velocità conduttiva e breve
periodo refrattario. In realtà la velocità di conduzione dipende dalla pendenza (Vmax) della fase 0 del
potenziale d’azione, mentre la refrattarietà dipende dalla durata del potenziale d’azione, soprattutto dalle

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266 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

fasi 2 e 3. E’ quindi comprensibile che una via abbia lungo periodo refrattario ed elevata velocità di
conduzione, mentre l’altra ha periodo refrattario breve e bassa velocità di conduzione.

Nella Figura 3, un impulso prematuro (fulmine) raggiunge simultaneamente le due vie: la via ß è ancora
refrattaria, per cui l’impulso vi si blocca, mentre la via a è già uscita dalla refrattarietà, e riesce a condurre.
L’impulso raggiunge attraverso la via a la via inferiore comune (y), e da qui retroinvade la via ß. Giunto
all’estremità superiore della via ß, però, incontra ancora tessuto in periodo refrattario a causa della
precedente attivazione anterograda, e si blocca. Il rientro, perciò, non avviene, visto che solo due elementi
(il circuito e il blocco unidirezionale) sono presenti.

La conduzione rallentata, rappresentata nella Figura 4, consente infine il realizzarsi del rientro. Qui, a
somiglianza della Figura 3, l’impulso prematuro proveniente dalla via superiore comune si blocca nella via ß
e viene condotto dalla via a; raggiunta la via inferiore comune, poi, retroinvade la via ß. Diversamente da
quanto accadeva nella Figura 3, però, qui l’impulso viene condotto così lentamente che, al momento in cui
esso giunge alla parte prossimale della via ß, questa è già uscita dalla refrattarietà. Questo impulso, perciò,
può “rientrare” nella via x, cioè nel tessuto dal quale proveniva, e contemporaneamente ripercorrere in
senso anterogrado la via a. Il rientro può essere unico, oppure l’impulso può percorrere ininterrottamente il
circuito, dando luogo a una tachicardia da rientro (Figura 4).

Il rientro si può verificare in qualsiasi sede del cuore, tanto negli atri che nella giunzione A-V e nei ventricoli.
Il nodo A-V è la struttura ideale per il realizzarsi del rientro, poiché possiede già in condizioni fisiologiche 2
vie con diversa refrattarietà e velocità di conduzione. Altra situazione in cui si verifica il rientro è la
Sindrome di Wolff-Parkinson-White, nella quale il circuito di rientro comprende una via accessoria di
conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 38). Anche il flutter atriale è un’aritmia da rientro, dovuta a un
macrocircuito che, nella maggior parte dei casi, è contenuto nell’atrio destro.

Nei ventricoli, il rientro si realizza in presenza di fibrosi miocardica, soprattutto in seguito a un infarto:
l’esistenza di aree inattivabili (fibrotiche) all’interno di zone miocardiche eccitabili consente il formarsi di un
circuito, da cui può originare una tachicardia ventricolare.

Figura 2 Il circuito. Il rientro non si realizza perché l’impulso provieniente dalla via beta e retrocondotto
nella via alfa collide con i fronte anterogrado che attraversa la via alfa

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267 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Il circuito e il blocco unidirezionale L’impulso prematuro trova la via beta refrattaria e viene
condotto in senso anterogrado solo dalla via alfa. La via beta viene retroinvasa, ma l’impulso giunge alla
zona critica quando questa non ha ancora recuperato l’eccitabilità e vi si blocca

Figura 4 Il circuito, il blocco unidirezionale e la conduzione rallentata. Il rientro si completa perché nella via
a l’impulso viene condotto con un rallentamento sufficiente a permettere che la via ß recuperi l’eccitabilità
prima di essere raggiunta.

I POSTPOTENZIALI (ATTIVITÀ TRIGGERATA)

Una forma particolare di automatismo caratterizza l'attività triggerata. Diversamente dall'automatismo


propriamente detto, nel quale la cellula segnapassi inizia la depolarizzazione autonomamente e senza
l'intervento di un evento esterno scatenante, nell’attività triggerata è necessario un potenziale estraneo
(trigger) che provochi la formazione dell'impulso prematuro. Il battito scatenante viene seguito da post-
potenziali che, in determinate circostanze, generano un nuovo potenziale d'azione. I post-potenziali sono
oscillazioni del potenziale di membrana che seguono un potenziale d'azione o si sovrappongono ad esso.

Sono stati descritti due tipi di post-potenziali: precoci e tardivi (Figura 5). I post-potenziali precoci si
manifestano nel corso della ripolarizzazione (fasi 2 e 3 del potenziale d'azione), prima che questa si

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268 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

completi. Essi si osservano solitamente durante bradicardia o ripolarizzazione prolungata, ma possono


anche essere indotti dalle catecolamine e da tutta una serie di condizioni quali ipokaliemia, ipocalcemia,
acidosi, ipossia, somministrazione di alcuni farmaci.

I post-potenziali tardivi, che si osservano quando la ripolarizzazione si è completata (fase 4), sono
oscillazioni verso la positività del potenziale di membrana, che fanno seguito ad una temporanea
iperpolarizzazione (Figura 5). Quando il post-potenziale tardivo è sufficientemente ampio da raggiungere la
soglia, si genera un nuovo potenziale d'azione. La durata della ripolarizzazione influenza l'ampiezza dei
post-potenziali tardivi: quanto più prolungata è la ripolarizzazione tanto maggiore è il voltaggio dei post-
potenziali tardivi, e di conseguenza tanto più è probabile che si inneschi l'attività triggerata. I farmaci che
prolungano il potenziale d'azione, come la chinidina, possono aumentare l'ampiezza dei post-potenziali
tardivi e rendere più facile lo sviluppo dell'attività triggerata.

Fra le aritmie da post-potenziali vi sono la “Torsione di punte”, una tachicardia ventricolare che si associa in
genere a QT lungo, le aritmie da digitale, quelle da disionia e quelle indotte da catecolamine.

Figura 5 A: il potenziale s’azione è seguito da un postpotenziale tardivo. B: il postpotenziale dà origine a un


nuovo potenziale d’azione. C: il potenziale d’azione è seguito da un postpotenziale precoce. D: il
postpotenzale precoce genera un nuovo potrnziale d’azione

ELETTROGENESI DELLE BRADICARDIE

Le bradicardie possono conseguire a due meccanismi (vedi Capitolo 41): ridotta frequenza di formazione
degli impulsi o alterata conduzione di impulsi che si formano con frequenza normale. L’avviatore primario
del cuore è il nodo del seno (il segnapassi dotato di maggiore automatismo), e il sistema di conduzione
trasmette il suo impulso a tutte le cellule miocardiche secondo una sequenza prestabilita e costante.
Diffondendosi per il miocardio, l’impulso sinusale scarica tutti gli altri potenziali segnapassi più lenti, posti
un pò dovunque, prima che essi riescano ad emettere il loro impulso.

Se, tuttavia, il nodo del seno diviene deficitario, tanto da emettere impulsi a frequenza troppo bassa, i
segnapassi secondari possono intervenire, dando inizio alla depolarizzazione del cuore. Questo meccanismo

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269 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

prende il nome di scappamento, e i complessi atriali e ventricolari così generati vengono detti appunto
battiti di scappamento (vedi Capitolo 37).

Altro possibile meccanismo delle bradicardie è la mancata conduzione degli impulsi sinusali. Il problema
può riguardare la conduzione fra il nodo del seno e l’atrio circostante (blocco seno-atriale) o la trasmissione
dell’impulso dagli atri ai ventricoli (blocco atrio-ventricolare). Anche in queste circostanze possono
intervenire, a depolarizzare il miocardio che l’impulso sinusale non riesce a raggiungere, i segnapassi di
scappamento.

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270 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 37

BATTITI ECTOPICI

Francesco Luzza, Scipione Carerj, Sebastiano Coglitore

DEFINIZIONE

In condizioni normali, il ritmo cardiaco è governato dal nodo senoatriale, che rappresenta il naturale
pacemaker del cuore e, a intervalli regolari, emette impulsi elettrici che depolarizzano tutto il miocardio
(Figura 1). In particolari condizioni l’attivazione del cuore, o anche di parte di esso, può dipendere da un
impulso che origina in una sede diversa dal nodo senoatriale; in tali casi l’impulso è definito ectopico e il
battito che ne deriva è un battito ectopico.

L’emissione di un impulso ectopico può essere “anticipata” rispetto al momento in cui è atteso il complesso
del ritmo di base; in tali casi si generano dei battiti prematuri detti anche extrasistoli. A seconda della sede
di origine, le extrasistoli possono essere distinte in atriali, giunzionali e ventricolari.

Un battito ectopico può anche manifestarsi “in ritardo” rispetto al momento in cui era atteso un complesso
del ritmo di base; il fenomeno si può verificare quando viene meno il battito normale, per cui un pacemaker
secondario, solitamente “silente” perchè depolarizzato dalla scarica del segnapassi primario, dà origine a un
impulso che attiva il miocardio. Questi complessi ectopici si manifestano dopo un ciclo più lungo di quello di
base e sono definiti battiti di scappamento. Come le extrasistoli, anche i battiti di scappamento possono
essere atriali, giunzionali o ventricolari.

Figura 1 Ritmo sinusale regolare.

A. Rappresentazione schematica del cuore. L’impulso attiva gli atri, attraversa la giunzione atrioventricolare
e si diffonde ai ventricoli.

B. Rappresentazione schematica di un elettrocardiogramma; il ritmo è sinusale. Il diagramma a scala


sottostante raffigura gli atri (A), la giunzione atrioventricolare (AV) e i ventricoli (V). I punti rappresentano il
momento in cui il nodo senoatriale emette i propri impulsi. In A i numeri esprimono la durata dei cicli P-P
(ipotizzata pari a 100 centesimi di secondo), in AV quella del tempo di conduzione atrioventricolare (20) e,
in V, quella dei cicli R-R (100).

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271 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

CRITERI GENERALI

Le extrasistoli sono un fenomeno molto frequente nella popolazione generale, e possono manifestarsi sia in
pazienti cardiopatici sia in soggetti clinicamente sani. Spesso non provocano sintomatologia alcuna e il loro
riscontro è assolutamente casuale; a volte, tuttavia, sono avvertite dal paziente e rappresentano la più
frequente causa di cardiopalmo. Nella maggior parte dei casi, il paziente percepisce non il battito anticipato
bensì il lungo intervallo che di solito segue il complesso prematuro (pausa postextrasistolica) e lo descrive
come una sensazione di “vuoto”, di “battito mancante” o di “cuore che si ferma”. In altre occasioni, invece,
è il battito del ritmo di base successivo all’extrasistole ad essere avvertito: la pausa postextrasistolica,
infatti, determina un prolungamento della diastole, cioè del tempo di riempimento ventricolare, che
provoca un incremento della gittata sistolica, per cui il battito cardiaco viene sentito dal paziente come un
“colpo”, un “tonfo” o un “senso di calore al volto”.

Alla palpazione del polso, l’extrasistole viene avvertita come un battito anticipato seguito da una pausa o,
non di rado, come un “battito mancante”; infatti, se l’extrasistole è molto precoce e la diastole è breve, il
ventricolo sinistro si contrae mentre contiene pochissimo sangue e la gittata sistolica è così ridotta da non
generare un’onda sfigmica apprezzabile al polso.

In presenza di battiti prematuri è necessario analizzare all’ECG alcuni elementi necessari per una diagnosi
corretta e una completa valutazione del fenomeno.

Morfologia del complesso prematuro

Le extrasistoli presentano generalmente una morfologia differente da quella dei battiti del ritmo di base.
L’attivazione della camera cardiaca in cui ha origine l’extrasistole, infatti, inizia in un punto diverso e
procede con una sequenza differente rispetto a quanto si verifica in condizioni normali; ciò determina nei
complessi prematuri un aspetto dell’onda P e/o del QRS differente rispetto a quello dei battiti sinusali. In
molti casi, specie in soggetti esenti da cardiopatia, i complessi prematuri sono uguali tra loro (extrasistoli
monomorfe); non di rado, però, la loro morfologia è variabile (extrasistoli polimorfe).

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272 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Intervallo di accoppiamento tra l’extrasistole e il precedente battito del ritmo di base

Questo intervallo, detto copula, è generalmente costante o presenta minime oscillazioni per battiti
prematuri che hanno la stessa origine; ciò suggerisce che l’emissione dell’impulso prematuro sia in qualche
modo legata alla precedente depolarizzazione dovuta al ritmo di base. Quando la copula è molto breve
l’extrasistole è detta precoce, in caso contrario è detta tardiva; se la durata della copula è solo di poco
inferiore a quella del ciclo di base, cosicché il complesso prematuro si manifesta appena prima del battito
del ritmo di base, l’extrasistole si definisce telediastolica. A volte, battiti prematuri con identica morfologia
mostrano una copula notevolmente variabile; in questi casi è molto probabile che l’impulso ectopico origini
da un focus la cui attività sia indipendente da quella del ritmo di base e proceda secondo un ritmo proprio.
Il fenomeno è definito parasistolia.

Intervallo tra l’extrasistole e il battito seguente del ritmo di base

Il ciclo cardiaco successivo a un complesso prematuro è generalmente più lungo di quello del ritmo di base
ed è definito pausa postextrasistolica. A seconda della durata, questa può essere compensatoria o non
compensatoria. Nel primo caso, frequente soprattutto nelle extrasistoli ventricolari, la somma tra la durata
della copula e quella della pausa equivale al doppio del ciclo di base, cosicché l’accorciamento del ciclo
cardiaco provocato dall’extrasistole è perfettamente “compensato” dalla pausa successiva.

Quando la pausa è non compensatoria la somma della sua durata con quella della copula è inferiore al
doppio di un ciclo di base. Il fenomeno è frequente nelle extrasistoli sopraventricolari, ma a volte si può
osservare anche dopo un battito prematuro ventricolare.

Modalità di comparsa dei complessi prematuri

I battiti ectopici possono manifestarsi sporadicamente o, al contrario, essere relativamente frequenti.


Spesso possono presentare un ritmo circadiano (ad esempio, incidenza elevata durante le ore diurne e
scomparsa pressoché totale durante il riposo notturno) o comparire in occasione di eventi specifici. A volte,
inoltre, possono manifestarsi con una cadenza regolare e dar luogo a sequenze più o meno prolungate di
bigeminismo (alternanza regolare di un complesso del ritmo dominante e di un’extrasistole), trigeminismo
(ogni extrasistole si manifesta dopo due complessi del ritmo di base), quadrigeminismo (un’extrasistole
ogni tre complessi del ritmo di base) e così via.

Nella maggior parte dei casi, le extrasistoli sono isolate (un solo complesso ectopico si manifesta tra due
battiti del ritmo dominante) ma, a volte, possono essere ripetitive e presentarsi sotto forma di coppia (due
battiti ectopici consecutivi non separati da complessi del ritmo di base) o di tripletta (tre extrasistoli
consecutive). La tripletta configura già una tachicardia non sostenuta (sopraventricolare o ventricolare).

EXTRASISTOLI ATRIALI

(Figura 2, Figura 3, Figura 4, Figura 5)

Sono riconoscibili per la presenza di:

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273 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

onda P prematura di morfologia differente da quella delle onde P sinusali;

pausa postextrasistolica generalmente non compensatoria;

QRS solitamente identico a quelli sinusali.

Gli impulsi atriali prematuri sono generalmente condotti ai ventricoli in modo analogo a quanto avviene nei
complessi di origine sinusale; tuttavia è possibile che, a causa della loro prematurità, trovino parte del
sistema di conduzione ancora in stato di refrattarietà e vadano incontro a un rallentamento o blocco della
conduzione. Il più delle volte è il nodo A-V a non avere ancora totalmente recuperato la propria eccitabilità
e gli impulsi prematuri atriali possono essere condotti ai ventricoli con un intervallo PR prolungato rispetto
a quello dei complessi di base o, se molto precoci, possono addirittura bloccarsi nella giunzione
atrioventricolare e, in tal caso, la P prematura non è seguita da un QRS (extrasistole atriale non condotta).
In altre occasioni, invece, il rallentamento o blocco della conduzione interessa il sistema di Purkinje e le
extrasistoli atriali sono condotte con un blocco di branca (extrasistoli atriali condotte con aberranza).
(Figura 6)

I battiti prematuri atriali sono una delle cause più comuni di irregolarità del ritmo cardiaco, anche se spesso
il loro riscontro è casuale; in genere, richiedono un trattamento solo nei casi in cui sono scarsamente
tollerati dal paziente o quando costituiscono un potenziale meccanismo di innesco di aritmie maggiori,
quali il flutter e/o la fibrillazione atriale.

Figura 2 Extrasistole atriale isolata seguita da pausa non compensatoria.

A. Un impulso prematuro origina negli atri, li attiva, depolarizza il nodo senoatriale e si diffonde ai
ventricoli.

B. L’ECG schematico mostra un’extrasistole atriale (freccia). Nel diagramma a scala l’impulso prematuro
attiva i ventricoli e depolarizza il nodo del seno. L’impulso sinusale successivo emerge dopo 110 centesimi
di secondo, (ciclo sinusale più il tempo impiegato dall’impulso ectopico per raggiungere e depolarizzare il
nodo senoatriale).

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274 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Extrasistole atriale isolata; registrazione simultanea delle derivazioni V1 e V2.

L’extrasistole atriale è indicata con una freccia; la P prematura è ben visibile in V1, mentre in V2 è
scarsamente visibile perchè nascosta nella branca discendente dell’onda T precedente. La pausa
postextrasistolica è non compensatoria.

Figura 4 Extrasistoli atriali bigemine; II derivazione.

Il quarto e il sesto complesso sono extrasistoli atriali. Le P premature (indicate con frecce) si inscrivono
sull’apice dell’onda T dei complessi che precedono i QRS prematuri. Le extrasistoli atriali sono separate da
un solo battito sinusale e, pertanto, hanno cadenza bigemina.

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275 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 5 Extrasistoli atriali ripetitive (tripletta); II derivazione.

Il quarto, quinto e sesto QRS sono una tripletta di extrasistoli atriali. La prima onda P prematura (freccia)
deforma l’onda T precedente, la due P premature successive sono meno evidenti perché nascoste nei
complessi che le precedono.

Figura 6 Extrasistole atriale a conduzione aberrante; II derivazione.

Il quarto QRS è anticipato e ha una morfologia differente rispetto ai complessi sinusali; è preceduto da
un’onda P prematura (freccia) e, pertanto, la diagnosi corretta è di extrasistole atriale con conduzione
intraventricolare aberrante.

EXTRASISTOLI GIUNZIONALI

Questi impulsi prematuri hanno origine nel fascio di His, prima della sua suddivisione nelle branche, e sono
considerati sopraventricolari dal momento che la diffusione dell’impulso all’interno dei ventricoli procede
in modo analogo a quella degli impulsi sinusali o atriali. (Figura 7)

Sono caratterizzate da:

QRS prematuro uguale a quelli del ritmo di base;

assenza di rapporti tra il QRS prematuro e la P sinusale. L’onda P, infatti, può precedere il QRS
extrasistolico, ma a una distanza più breve del normale e non compatibile con la conduzione A-V, oppure
può coincidere con il complesso ventricolare o anche manifestarsi immediatamente dopo di esso. In altri
casi, invece, l’impulso prematuro attiva gli atri prima dell’impulso sinusale e si manifesta un’onda P dovuta
alla retroconduzione dell’impulso giunzionale agli atri; in questo caso la P retrocondotta può precedere,
seguire o anche coincidere con il QRS prematuro.

Figura 7 Extrasistole giunzionale isolata.

A. Un impulso prematuro hissiano si diffonde ai ventricoli; in via retrograda, può collidere con l’impulso
sinusale.

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276 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

B. Un’extrasistole giunzionale si manifesta dopo la terza P sinusale. Il QRS è dissociato dalla P precedente
(l’intervallo tra le due onde è più breve del normale e non compatibile con la normale conduzione). Nel
diagramma a scala, si osserva come l’impulso giunzionale può collidere con quello emesso dal nodo del
seno.

EXTRASISTOLI VENTRICOLARI

(Figura 8, Figura 9, Figura 10)

La diagnosi si basa sui seguenti elementi:

QRS prematuri, slargati, differenti da quelli del ritmo di base;

mancanza di rapporti precisi tra i QRS prematuri e le onde P sinusali o, in alternativa, comparsa di onde P
retrocondotte che seguono i QRS extrasistolici;

pausa postextrasistolica generalmente di tipo compensatorio.

La diagnosi delle extrasistoli ventricolari è meno semplice quando il ritmo di base è una fibrillazione atriale
e le onde P sono assenti. In questo caso, infatti, l’improvvisa comparsa di QRS larghi, differenti da quelli di
base, potrebbe essere l’espressione di una conduzione aberrante degli impulsi sopraventricolari e non di
un’origine ventricolare dei QRS.

A volte asintomatiche, le extrasistoli ventricolari sono in genere più facilmente causa di cardiopalmo di
quelle sopraventricolari soprattutto per la lunga pausa postextrasistolica che le caratterizza. La loro
prognosi dipende dal contesto clinico: generalmente è favorevole nei soggetti esenti da cardiopatia, nei
quali può non essere necessario alcun trattamento specifico, viceversa può essere sfavorevole in presenza
di una cardiopatia, in particolar modo nel corso di eventi ischemici acuti.

Figura 8 Extrasistole ventricolare seguita da pausa compensatoria.

A. Un impulso prematuro origina nei ventricoli e li attiva. L’impulso extrasistolico penetra solo parzialmente
nella giunzione atrioventricolare ancora refrattaria. L’impulso sinusale successivo si arresta a sua volta nella
giunzione atrioventricolare.

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277 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

B. L’ECG schematico mostra un’extrasistole ventricolare (freccia). Nel diagramma a scala la barra
orizzontale nella giunzione AV esprime la durata del periodo refrattario seguente il passaggio dell’impulso
ectopico.

Figura 9 Extrasistole ventricolare isolata; derivazione V6.

Il terzo complesso è un’extrasistole ventricolare (freccia); il QRS anticipato, slargato, non è preceduto da
un’onda P. Subito dopo il QRS prematuro, è riconoscibile l’onda P sinusale dissociata dal QRS extrasistolico.
La pausa è compensatoria.

Figura 10 Extrasistoli ventricolari monomorfe a cadenza bigemina; II derivazione.

Il terzo e il quinto complesso, prematuri, slargati sono extrasistoli ventricolari bigemine. La prima è
telediastolica, dissociata dalla precedente P sinusale; la seconda, viceversa, è più precoce e precede l’onda
P che si può riconoscere nel tratto ST del complesso extrasistolico.

I BATTITI DI SCAPPAMENTO

Si manifestano quando un pacemaker secondario, dotato di bassa frequenza di scarica e solitamente


depolarizzato dal segnapassi dominante, riesce a emettere il proprio impulso. Il fenomeno si osserva in caso
di un improvviso rallentamento del pacemaker dominante (conseguente a patologia intrinseca come nella
malattia del nodo del seno, ipertono vagale, effetto di farmaci, etc.) o anche per un disturbo di conduzione
dell’impulso del ritmo dominante (blocco senoatriale o A-V, vedi Capitolo 41). In alcuni casi anche una

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278 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pausa postextrasistolica particolarmente prolungata può causare l’insorgenza di un complesso di


scappamento. I battiti di scappamento non necessitano di terapia, ma spesso bisogna trattare la condizione
che ne ha determinato la comparsa.

Scappamento atriale

La diagnosi si basa sulla presenza di un’onda P differente da quella sinusale, che si inscrive al termine di un
intervallo più lungo del ciclo di base.

Scappamento giunzionale (Figura 11, Figura 12)

Può essere riconosciuto per la presenza di QRS identici a quelli del ritmo di base, che si manifestano al
termine di intervalli più lunghi di quello sinusale e non sono preceduti da un’onda P. A volte la P sinusale
compare prima dello scappamento giunzionale, ma con un intervallo molto breve, incompatibile con la
conduzione A-V.

Scappamento ventricolare (Figura 13)

E’ facilmente riconoscibile per la comparsa di un QRS largo, differente da quelli del ritmo di base, al termine
di un intervallo relativamente lungo, più del ciclo sinusale. Analogamente a quanto accade per lo
scappamento giunzionale, la P sinusale può essere riconoscibile ma appare dissociata dal QRS di
scappamento, oppure manca, ed è sostituita da una P retrocondotta.

Figura 11 Scappamento giunzionale.

A. Il nodo del seno non scarica al momento atteso e un pacemaker hissiano prende il comando. L’impulso
giunzionale attiva i ventricoli e, in via retrograda, gli atri.

B. I primi due complessi sinusali sono seguiti da una pausa che è interrotta da un battito giunzionale; il QRS
di scappamento è seguito da una P retrocondotta (freccia). Nel diagramma sottostante, in A, il cerchio
indica il momento della mancata scarica senoatriale.

Figura 12 Extrasistole ventricolare seguita da uno scappamento giunzionale; derivazione V1. Al termine
della pausa postextrasistolica, un’onda P è seguita da un QRS, identico a quelli sinusali, a una distanza
nettamente inferiore alla durata dell’intervallo PR dei battiti sinusali. Ciò indica che P e QRS sono dissociati
e che i ventricoli sono stati attivati da un segnapassi secondario giunzionale.

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279 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 13 Scappamento ventricolare.

A. L’impulso sinusale si blocca nella giunzione; un pacemaker secondario ventricolare prende il comando.
Nell’esempio, l’impulso di scappamento non retroattiva gli atri.

B. L’impulso corrispondente alla terza P va incontro a un blocco; la pausa seguente é interrotta da uno
scappamento ventricolare. Nel diagramma a scala, in V, un punto indica la scarica del pacemaker
secondario; in AV, la barra orizzontale esprime la durata del periodo refrattario seguente il passaggio
dell’impulso di scappamento.

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280 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 38

TACHICARDIE PAROSSISTICHE SOPRAVENTRICOLARI

Rossella Troccoli, Matteo Di Biase

DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia parossistica sopraventricolare (TPS) una sindrome clinica caratterizzata da una
tachicardia rapida e regolare, con improvviso inizio ed improvvisa interruzione. La maggior parte delle TPS è
dovuta ad un meccanismo di rientro (vedi Capitolo 36), che può realizzarsi nel nodo atrio-ventricolare
(tachicardia da rientro nodale) oppure in un circuito che include atri, ventricoli, il normale sistema di
conduzione (nodo AV, Fascio di His, Branche ) ed una connessione atrio-ventricolare anomala (tachicardia
da rientro atrio-ventricolare).

TACHICARDIA DA RIENTRO NODALE

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La tachicardia da rientro nodale rappresenta i 2/3 circa di tutte le TPS e si riscontra nel 2-3% della
popolazione generale. La sua più comune manifestazione avviene nel quarto decennio di vita. Colpisce
prevalentemente il sesso femminile (rapporto 2:1).

Fisiopatologia

Alla base di questa tachicardia vi è un rientro intranodale dovuto alla dissociazione longitudinale del nodo
in una via rapida e una via lenta (Figura 1). Il rientro si può realizzare perché le due vie sono caratterizzate
da una diversa velocità di conduzione (nella via rapida la conduzione è più veloce) e un differente periodo
refrattario, che è più breve nella via lenta. Durante ritmo sinusale, l’impulso percorre entrambe le vie
(Figura 2A). La via rapida verrà attraversata in un tempo più breve e raggiungerà la via inferiore comune
quando la via lenta è stata attivata solo in parte. L’impulso che proviene dalla via rapida può, quindi,
percorrere la via lenta in senso retrogrado e collidere con il fronte d’onda anterogrado che sta percorrendo
questa via (vedi Capitolo 36). L’impulso sinusale, pertanto attiva i ventricoli soltanto attraverso la via
rapida, e l’intervallo P-R, espressione del tempo di conduzione atrio-ventricolare, sarà breve.

Un impulso prematuro (extrasistole) atriale può incontrare la via rapida nel periodo refrattario e bloccarsi,
mentre la via lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile (Figura 2B). L’impulso che percorre la via
lenta raggiunge la via inferiore comune e può invadere in senso retrogrado la via rapida: a causa del lungo
tempo che l’impulso ha impiegato a percorrere la via lenta, la via rapida sarà uscita completamente dalla
refrattarietà e potrà, essere percorribile in senso retrogrado (Figura 2C). L’impulso può, quindi, raggiungere
gli atri e contemporaneamente invadere il fascio di His progredendo verso i ventricoli. Se questo
meccanismo si mantiene, si instaura una tachicardia da rientro nodale.

L’impulso atriale prematuro che scatena il rientro si associa ad un marcato allungamento dell’intervallo PR
(“salto” della conduzione dalla via rapida alla via lenta). La tachicardia da rientro con conduzione
anterograda lungo la via lenta e retrograda lungo la rapida viene definita di tipo “comune”.

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281 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Caratteristiche cliniche

I pazienti con una TPS da rientro nodale possono lamentare cardiopalmo ritmico ad insorgenza improvvisa,
non correlata con eventi particolari, ed interruzione altrettanto brusca. Talora presentano lipotimie o, in
presenza di elevata risposta ventricolare dispnea, angina, sincope. Un sintomo non infrequente è la poliuria
pallida, dovuta ad aumentata increzione di peptide natriuretico atriale durante la tachicardia.

Elettrocardiogramma

La tachicardia da rientro nodale è caratterizzata da QRS stretti con intervalli R-R costanti, a frequenza in
genere compresa tra 120 e 200/m’. Nella forma tipica l’onda P è nascosta nel QRS, poiché atri e ventricoli si
attivano simultaneamente, o può essere inscritta appena prima o appena dopo il complesso QRS simulando
un’onda r’ in V1 o una pseudo-s nelle derivazioni II, III e aVF (Figura 3).

La stimolazione atriale, eseguita durante studio elettrofisiologico transesofageo o intracavitario, permette


di indurre la tachicardia, caratterizzata dalla contemporanea attivazione degli atri e dei ventricoli.

Terapia

L’interruzione della tachicardia da rientro nodale si ottiene stimolando il vago in modo da indurre il blocco
dell’impulso in una parte del circuito. Poiché la persistenza della tachicardia dipende dall’ininterrotto
circolare dell’impulso, l’impossibilità del fronte d’onda a proseguire il suo percorso corrisponde al cessare
della tachicardia. Le manovre che incrementano il tono vagale come la manovra di Valsalva, il massaggio
del seno carotideo, il conato di vomito, l’immersione del viso in acqua fredda, sono utili e di solito
rappresentano il primo tentativo per l’interruzione dell’aritmia. Se le manovre vagali sono inefficaci si
possono utilizzare farmaci somministrati per via venosa, fra i quali l’adenosina, il Verapamil e gli antiaritmici
della Classe 1C (vedi Capitolo 58).

Nel trattamento a lungo termine della tachicardia da rientro nodale l’approccio di scelta è l’ablazione
transcatetere (vedi Capitolo 61), ottenuta erogando energia a radiofrequenza sulla via nodale lenta
attraverso un catetere ablatore posto in corrispondenza del triangolo di Koch (area compresa tra seno
coronarico, tendine di Todaro e lembo settale della tricuspide).

Figura 1 Rappresentazione schematica della doppia via nodale. VCS: vena cava superiore; Nodo AV: Nodo
atrio-ventricolare; SC: seno coronarico; VCI: vena cava inferiore.

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282 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Schema raffigurante il nodo A-V con le due vie, a (via lenta) e ß (via rapida).

A: l’impulso sinusale percorre entrambe le vie raggiungendo la via finale comune.

B: Un impulso prematuro (extrasistole) incontra la via rapida nel periodo refrattario e si blocca mentre la
via lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile.

C: L’impulso che percorre la via lenta raggiunge la via inferiore comune dirigendosi verso i ventricoli ma
invade in senso retrogrado la via rapida.

Figura 3 Tachicardia da rientro nodale. Si può osservare un’onda pseudo r’ in V1 (freccia).

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283 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

TACHICARDIA DA RIENTRO ATRIO-VENTRICOLARE

Le vie anomale di conduzione atrio-ventricolare forniscono il substrato per queste tachicardie reciprocanti,
che vengono distinte in ortodromiche e antidromiche.

Fisiopatologia

Le vie accessorie sono connessioni atrio-ventricolari anomale congenite, derivanti da una incompleta
separazione dell’atrio dal ventricolo primitivo da parte dell’anello fibroso durante lo sviluppo embrionale
del cuore. Normalmente la comunicazione elettrica fra atri e ventricoli è affidata solo al sistema di
conduzione (nodo A-V, fascio di His, branche), mentre in alcuni soggetti esiste un’altra (a volte più di una)
via di conduzione che connette direttamente l’atrio al ventricolo: il fascio di Kent (Patologia 44). La
presenza di due vie crea un circuito che comprende l’atrio, il nodo A-V, il fascio di His, una branca, un
ventricolo e il fascio di Kent (Figura 4): è quindi possibile lo scatenarsi di una tachicardia da rientro, definita
atrio-ventricolare poiché sia l’atrio che il ventricolo fanno parte del circuito.

Il fascio di Kent è formato da miocardio comune, cioè da fibre rapide Na dipendenti, per cui possiede una
velocità di conduzione maggiore rispetto alla via nodo-hissiana, ed è in grado di trasmettere l’impulso sia in
senso anterogrado che retrogrado; in diversi casi, tuttavia, la conduzione è solo retrograda. Durante ritmo
sinusale, la via accessoria riesce a depolarizzare una parte più o meno grande dei ventricoli prima che
questi vengano raggiunti dall’impulso condotto attraverso il normale sistema di conduzione. Si realizza così
il quadro della preeccitazione, caratterizzata da intervallo P-R breve, onda delta e QRS largo (vedi Capitolo
3) (ECG 37). Quando a questi caratteri ECG si associa la tachicardia parossistica sopraventricolare da rientro
A-V, si delinea la sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW).

Le tachicardie da rientro A-V si distinguono in ortodromiche e antidromiche. Nelle prime la conduzione


anterograda avviene lungo il normale sistema di conduzione e quella retrograda lungo la via accessoria,
mentre nelle forme antidromiche la conduzione anterograda avviene lungo la via accessoria e quella
retrograda attraverso il normale sistema di conduzione. L’impulso proveniente dall’atrio si diffonde nei
ventricoli mediante il normale sistema di conduzione (branche e rete di Purkinje) nelle tachicardie
ortodromiche, mentre nelle antidromiche l’impulso raggiunge i ventricoli tramite la via accessoria, e quindi
si diffonde attraverso il miocardio comune. In quest’ultimo caso la tachicardia sarà a QRS larghi, mentre
nelle forme ortodromiche i complessi saranno stretti (tranne che non vi sia un blocco di branca), in accordo
con la normale conduzione intraventricolare dell’impulso.

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284 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Caratteristiche cliniche

La maggior parte dei pazienti con tachicardia sopraventricolare da rientro atrio-ventricolare non presenta
cardiopatie organiche sottostanti. Tuttavia, in circa il 20% dei bambini con preeccitazione è possibile
riscontrare una cardiopatia congenita (anomalia di Ebstein, vedi Capitolo 53).

I pazienti in genere lamentano cardiopalmo ritmico o aritmico, talora associato a dispnea o sincope. La
tachicardia, spesso correlata allo sforzo, insorge e si risolve improvvisamente.

Elettrocardiogramma

A ritmo sinusale l’ECG può presentare i segni della preeccitazione o essere normale. Durante tachicardia
ortodromica il QRS è generalmente stretto, gli intervalli RR sono regolari, e l’onda P si localizza nel tratto ST
o nell’onda T, con intervallo RP > 70 msec.

Durante tachicardia antidromica, invece, il QRS è largo come nelle tachicardie ventricolari, e la morfologia
del QRS è simile a quella che si ha durante preeccitazione massima.

In circa il 10% dei pazienti con Sindrome di WPW compare una fibrillazione atriale (Figura 5). In questi è
possibile che per la rapida conduzione degli impulsi di fibrillazione lungo la via accessoria si raggiunga
un’alta frequenza ventricolare, che può degenerare in fibrillazione ventricolare.

Terapia

Farmaci in grado di bloccare la conduzione atrio-ventricolare, come l’adenosina e i calcio-antagonisti,


bloccano o rallentano la conduzione nel nodo A-V, parte del circuito, ed interrompono il rientro, arrestando
la tachicardia Nel trattamento a lungo termine sono efficaci i farmaci di classe I e III (vedi Capitolo 58). Nei
pazienti sintomatici, con TPS mal tollerata, oppure sincope o fibrillazione atriale pre-eccitata l’ablazione
transcatetere (vedi Capitolo 61) rappresenta la terapia di scelta. Questo trattamento viene attualmente
indicato anche in tutti i Pazienti paucisintomatici ed in tutti quelli che svolgono particolari attività lavorative
(atleti, piloti, ecc.).

44 - Sindrome di Wolff-Parkinson-White

Tachicardie. Sindrome di Wolff Parkinson White:

derivazioni precordiali del tracciato ECG che evidenziano l’onda delta da peeccitazione ventricolare;

esame istologico seriato dell’anello ventricolare sinistro che conferma la presenza di una via accessoria
atrioventricolare di miocardio ordinario che connette la muscolatura atriale con quella ventricolare sinistra;

particolare della precedente.

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285 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Il circuito della tachicardia da rientro A-V ortodromica in presenza di un fascio di Kent sinistro.

37 - Preeccitazione

Questo ECG mostra le caratteristiche tipiche della preeccitazione: il P-R corto, l’onda delta (il rallentamento
iniziale del QRS meglio visibile nell’ingrandimento di aVF e nel particolare a destra in basso dove l’onda
delta è colorata in rosso) e il QRS largo (in questo caso la durata del QRS è intorno a 0,13 secondi). Questi
fenomeni dipendono dalla presenza di un fascio di conduzione anomalo (il fascio di Kent) che unisce
direttamente gli atri ai ventricoli, senza passare per il nodo A-V. Il fascio di Kent conduce più rapidamente

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286 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

della via nodo-hissiana, per cui una parte della massa ventricolare è “preeccitata”, cioè viene attivata prima
di quanto sarebbe avvenuto se l’impulso sinusale fosse stato condotto solo attraverso il normale sistema di
conduzione.

Figura 5 Fibrillazione atriale associata a pre-eccitazione: l’attività elettrica atriale, rapida e asincrona, è
condotta ai ventricoli mediante via accessoria, realizzando gradi variabili di preeccitazione (QRS larghi,
intervallo variabile tra i complessi, morfologia dei complessi differente da un battito all’altro).

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287 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 39

FIBRILLAZIONE E FLUTTER ATRIALE

Antonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino, Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita

DEFINIZIONE

La fibrillazione atriale (FA) è un’aritmia nella quale il ritmo cardiaco non è governato dal nodo del seno, ma
si generano negli atri impulsi a frequenza elevata (fino a 600 al minuto), con cicli irregolari; solo alcuni di
essi, però, sono condotti i ventricoli, mentre un numero più o meno grande di impulsi atriali va incontro a
un blocco nel nodo atrio-ventricolare, per cui la frequenza ventricolare è molto minore di quella atriale.

EZIOLOGIA

Le cause della FA possono essere molteplici (Figura 1). In passato la patologia sottostante più frequente era
rappresentata da patologie valvolari (soprattutto a carico della valvola mitrale), mentre nell’ultimo
ventennio le malattie che più frequentemente determinano un aumento della pressione in atrio sinistro,
con conseguente aumento di volume atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA, sono l’ipertensione
arteriosa e le cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna patologia: in tali casi la FA
viene definita come idiopatica o “lone fibrillation”.

Figura 1 Cause di fibrillazione atriale. Nella popolazione con età < 50 anni è più frequente la fibrillazione
atriale parossistica isolata o associata a distiroidismo o a patologie dei canali ionici mentre nella
popolazione anziana più dell’ 80% delle forme di FA è a carattere persistente/permanente e si associa a
cardiopatie strutturali.

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288 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ELETTROGENESI E FISIOPATOLOGIA

Diversamente da altre aritmie, la FA non ha un meccanismo elettrogenetico unico, ma più fattori


concorrono a determinare la sua genesi e il suo mantenimento. Sono stati identificati, specialmente nelle
vene polmonari, segnapassi capaci di emettere impulsi a frequenza molto elevata, ed inoltre si realizzano
negli atri multipli circuiti di rientro, che operano indipendente gli uni dagli altri. Nella FA non esiste un unico
fronte di attivazione che, partendo dal nodo del seno, invada progressivamente in maniera ordinata tutta la
massa atriale in un tempo relativamente breve, ma si realizzano multipli fronti d’onda che,
disordinatamente e in maniera continuamente variabile, attivano ciascuno una regione più o meno limitata
dell’atrio. Mentre nel ritmo sinusale la depolarizzazione degli atri occupa solo una piccola parte del ciclo
cardiaco (circa 70-90 millisecondi, come espresso dalla durata dell’onda P normale), nella FA l’atrio si attiva
ininterrottamente: in ogni momento del ciclo cardiaco, infatti, vi sono aree atriali che si depolarizzano
mentre altre zone si stanno ripolarizzando. Ciò spiega la presenza di onde atriali (onde f, vedi più avanti)
per tutto il ciclo cardiaco.

Da un punto di vista meccanico, la FA corrisponde ad una paralisi atriale: le singole fibrocellule si


contraggono, ma la loro contrazione non è efficace nel favorire la progressione del sangue perchè non vi è
sincronismo nell’attività delle diverse aree atriali, ciascuna delle quali si contrae in un momento diverso. La
mancanza della spinta atriale non necessariamente compromette il riempimento diastolico ventricolare,
soprattutto se la frequenza ventricolare non è elevata e se non vi è disfunzione ventricolare: anche quando
il ritmo è sinusale, infatti, la maggior parte del sangue passa dall’atrio al ventricolo durante la proto e
mesodiastole, cioè passivamente, e la contrazione dell’atrio interviene solo in telediastole a completare il
riempimento ventricolare. Quando, invece, la funzione diastolica del ventricolo sinistro è compromessa
(per esempio, per via dell’ipertrofia ventricolare) il ruolo della contrazione atriale diviene preminente nel
favorire il riempimento ventricolare, per cui la FA, con la perdita dell’attività meccanica atriale, può
provocare una importante riduzione della gittata cardiaca, ed essere causa determinante dello scompenso
cardiaco.

EPIDEMIOLOGIA

La fibrillazione atriale è molto frequente nella pratica clinica, e la sua incidenza aumenta con l’età; circa il
5% della popolazione con età maggiore di 65 anni ne è affetto. Pur non rappresentando sempre una
condizione clinica di emergenza, la FA è una importante causa di incremento di mortalità per malattie
cardiovascolari ed è associata ad un aumento di episodi di stroke ed a peggioramento della qualità di vita.

QUADRO CLINICO

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La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza ventricolare media
generalmente elevata, ed è rappresentata dalle palpitazioni. In corso di FA vi è la perdita della contrazione
atriale con conseguente possibile riduzione della gittata cardiaca e per tale ragione essa può anche
manifestarsi con dispnea, affaticabilità, dolore toracico (Figura 2). In circa il 20% dei casi la FA è
completamente asintomatica: e questo avviene frequentemente in soggetti con condizioni fisiologiche
(ipertono vagale) che rallentino la conduzione atrio-ventricolare.

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289 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa irregolarità del ritmo e la
variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo fenomeno esprime il rapporto tra gittata sistolica e
durata della diastole: durante una diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di ricevere una elevata
quantità di sangue, per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio; dopo una diastole breve,
invece, il ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e di conseguenza la gittata sistolica
è modesta e il polso piccolo. Quando la diastole diventa brevissima, come in caso di elevata risposta
ventricolare, in alcune (o in molte) delle contrazioni il ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire
provocare l’apertura delle cuspidi aortiche; in questo caso non si genera un’onda sfigmica e al polso il
battito è del tutto assente. In questa situazione, la frequenza cardiaca valutata al polso è minore di quella
reale (“deficit cuore-polso”): in pazienti con FA, perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso
ma anche mediante ascoltazione cardiaca sul focolaio della punta.

La frequenza ventricolare durante FA è influenzata in modo significativo dal tono del sistema nervoso
autonomo: può diventare molto rapida quando aumenta il tono simpatico e diminuisce il tono
parasimpatico, come accade durante esercizio fisico.

Le complicanze della FA possono essere dovute alla sua irregolarità, alla elevata frequenza cardiaca e alla
perdita della contrazione atriale. L’irregolarità e l’elevata frequenza cardiaca possono provocare una
riduzione della funzione contrattile ventricolare sinistra, che in presenza di altre patologie concomitanti
può esitare in scompenso cardiaco. La perdita della contrazione atriale, inoltre, determina un
rallentamento del flusso ematico che facilita la formazione di trombi all’interno degli atri, specialmente
nelle auricole. I trombi sono generalmente adesi alla parete atriale, ma possono anche staccarsi,
specialmente quando, col ripristino del ritmo sinusale, l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi
nell’atrio sinistro può quindi, attraverso la circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto
periferico: non di rado viene colpito l’encefalo e si manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma
soprattutto le complicanze tromboemboliche, sono la causa dell’aumentata mortalità nei pazienti con FA.

Figura 2 Sintomi più frequenti nei pazienti con fibrillazione atriale.

ELETTROCARDIOGRAMMA

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290 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L'ECG mostra l’assenza delle onde P (che sono l’espressione dell’attività elettrica atriale normale) e la
presenza delle caratteristiche onde fibrillatorie rapide (onde f), le quali appaiono come irregolari
ondulazioni della linea isoelettrica (Figura 3), e sono continue, durando per tutto il ciclo cardiaco. La loro
frequenza varia tra 380 e 600 al minuto; l’ampiezza e la morfologia mostrano notevole variabilità da
momento a momento. Le onde fibrillatorie possono essere di basso voltaggio e quindi scarsamente visibili
(FA ad onde fini, Figura 3A), oppure di voltaggio più elevato (FA ad onde grossolane Figura 3B).

Gli intervalli fra i complessi ventricolari (intervalli R-R) sono irregolari, essendo molti stimoli bloccati a livello
del nodo atrio-ventricolare che funge da “filtro” nel passaggio degli impulsi elettrici tra atri e ventricoli.

Figura 3 L’Elettrocardiogramma della fibrillazione atriale. A: FA ad onde fini. B: FA ad onde grossolane.

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291 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

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292 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

CLASSIFICAZIONE

Sono stati proposti diversi schemi di classificazione clinica della FA, ma nessuno comprende in modo
completo tutti gli aspetti dell’aritmia. Dal punto di vista clinico (Figura 4) è utile distinguere un primo
episodio documentato indipendentemente dai sintomi e dalla durata. Nel caso in cui il paziente presenti 2 o
più episodi, la FA è considerata ricorrente. Se l’aritmia termina spontaneamente, la recidiva di FA viene
definita parossistica; mentre se dura più di 7 giorni, la FA viene detta persistente. Nella FA persistente, il
ripristino del ritmo sinusale (cardioversione) si ottiene con farmaci o con mezzi elettrici (vedi più avanti). La
categoria della FA permanente comprende i soggetti nei quali la cardioversione è fallita o non è stata
tentata.

Figura 4 Classificazione clinica della fibrillazione atriale basata sul numero e sulla durata degli episodi.

TRATTAMENTO

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Profilassi degli eventi cardioembolici

Poiché la FA aumenta significativamente il rischio di eventi tromboembolici, esiste unanime consenso sul
fatto che tutti i pazienti con patologia cardiaca valvolare e FA richiedano l’anticoagulazione con
dicumarolici. In pazienti con FA non valvolare l’indicazione al trattamento anticoagulante dipende dal
rischio tromboembolico (Figura 5) calcolato in base ai fattori di rischio (scompenso cardiaco, ipertensione

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293 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

arteriosa, età > 75 anni, DIABETE mellito, precedente storia di ictus o TIA). E’ necessario comunque
conoscere che la terapia anticoagulante con dicumarolici comporta un rischio di stroke emorragico pari
all’1% per anno.

Cardioversione

Con tale termine si definisce l’interruzione della FA, con ripristino del ritmo sinusale. Quando la
cardioversione non avviene spontaneamente, un episodio di FA persistente può essere interrotto
eseguendo una cardioversione elettrica o farmacologica.

La cardioversione elettrica (CVE) consiste nella somministrazione di una scarica elettrica per mezzo di due
piastre applicate al torace del paziente, cui consegue l’azzeramento del potenziale di azione di tutte le
cellule cardiache e quindi l’interruzione dell’aritmia.

Numerosi farmaci antiaritmici possono essere utilizzati per eseguire una cardioversione farmacologica; tra
questi il propafenone, la flecainide e l’amiodarone sono quelli maggiormente efficaci. Il successo della CV
farmacologica dipende dalla durata della FA, raggiungendo l’80% in caso di FA con durata minore di 24 ore,
mentre la percentuale di successo è inferiore al 35% in caso di FA persistente.

Un rischio della cardioversione, indipendente dal fatto che il ripristino del ritmo sinusale sia spontaneo o
indotto elettricamente o con farmaci, è che si verifichi un’embolia arteriosa sistemica. Se, infatti, durante il
periodo in cui l’aritmia è stata presente si è formato un trombo in atrio sinistro, la ripresa della contrazione
atriale favorisce il distacco del trombo, che migra quindi nel circolo sistemico. Per questo motivo si può
cardiovertire elettricamente la FA se questa è insorta da meno di 48 ore, mentre se l’episodio di FA ha una
durata maggiore, la cardioversione, sia elettrica che farmacologica, deve essere preceduta da un periodo di
anticoagulazione efficace di almeno 4 settimane.

Controllo del ritmo e controllo della frequenza

Nei pazienti con FA, la terapia farmacologica può avere come scopo il mantenimento del ritmo sinusale
(controllo del ritmo) o, nella FA permanente, il mantenimento di una frequenza ventricolare media
accettabile (controllo della frequenza). La prima strategia viene scelta solitamente in soggetti giovani o
molto sintomatici o con deterioramento emodinamico dovuto alla fibrillazione atriale. La seconda è
generalmente preferita in pazienti anziani o paucisintomatici.

Per il controllo del ritmo i farmaci antiaritmici più utilizzati (vedi Capitolo 58) sono quelli della classe I
(chinidina, flecainide, propafenone) e III (sotalolo, amiodarone, dronedarone, azimilide). Tali farmaci hanno
una efficacia nel mantenere il ritmo sinusale ad un anno che va dal 45-50% per quelli della classe I al 70-75
% per i farmaci della classe III. Purtroppo l’incidenza di importanti effetti collaterali coinvolge quasi un
quarto dei pazienti trattati. In caso di inefficacia e/o di effetti collaterali della terapia farmacologica, la
strategia del controllo del ritmo può essere perseguita utilizzando metodiche di ablazione transcatetere o
chirurgiche che consistono nell’isolamento elettrico delle vene polmonari e nell’esecuzione di lesioni lineari
(Figura 6).

Per quanto riguarda il controllo della frequenza, evidenze cliniche hanno dimostrato come, soprattutto nei
pazienti anziani, tale strategia possa risultare una valida alternativa terapeutica. Essa può essere raggiunta
con l’impiego di tre diversi farmaci: la digossina più utilizzata nei pazienti con scompenso cardiaco, i ß-
bloccanti generalmente più efficaci per il loro effetto nel controllo della frequenza sotto sforzo e i Calcio-
antagonisti.

Figura 5 Aumento del rischio tromboembolico in base al numero di fattori di rischio in pazienti con FA non
valvolare.

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294 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 Ricostruzione elettroanatomica dell’atrio sinistro. I pallini rossi demarcano i siti di ablazione
eseguiti con l’intento di isolare le vene polmonari e creare lesioni lineari sul tetto e sull’istmo (linea tra vena
polmonare inferiore sinistra e anello mitralico) dell’atrio sinistro.

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295 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

DEFINIZIONE

Il flutter atriale è un’aritmia caratterizzata da un’attivazione atriale regolare e rapida con una frequenza
generalmente compresa tra i 240 e i 300/m’. La risposta ventricolare, cioè il numero di impulsi atriali che
raggiungono i ventricoli, dipende dal nodo atrio-ventricolare, che funge da filtro, impedendo che la
frequenza ventricolare raggiunga livelli troppo elevati. Generalmente la conduzione atrio-ventricolare
avviene con un rapporto 2:1 (solo un impulso atriale su due è condotto ai ventricoli) ma talora può
presentare rapporti di conduzione diversi (3:1, 4:1, 3:2).

L’incidenza del flutter atriale nella popolazione generale è stimata in 88 su 100000 abitanti. Molto spesso il
flutter atriale si associa a fibrillazione atriale; la maggior parte dei casi si verifica in presenza di una
condizione predisponente o di una malattia cardiaca strutturale.

ELETTROGENESI

Il meccanismo elettrogenetico del flutter atriale è il rientro (vedi Capitolo 36). Si tratta, nelle forme tipiche,
di un circuito posto nell’atrio destro, delimitato dall’anello tricuspidalico, dalla crista terminalis e dalla
valvola di Eustachio. Il fronte d’onda può percorrere il circuito in direzione antioraria (flutter comune) o

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296 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

oraria (flutter non comune) dando luogo a due quadri diversi da un punto di vista
dell’Elettrocardiogramma. La zona critica per l’innesco ed il mantenimento dell’aritmia è rappresentata
dall’istmo cavo-tricuspidale, compreso fra l’anulus della tricuspide e l’orificio della vena cava inferiore. Sono
possibili altri macrocircuiti di rientro sia nell’atrio destro che in quello sinistro; quando la sede del circuito è
diversa da quella classica, il flutter atriale viene definito atipico.

QUADRO CLINICO

I sintomi del flutter atriale sono simili a quelli della fibrillazione atriale e dipendono in larga misura dalla
frequenza ventricolare: il disturbo più comune è la palpitazione, ma possono anche verificarsi vertigini,
dispnea, debolezza, e raramente angina o sincope.

CLASSIFICAZIONE

Il flutter atriale si presenta all’ECG con una serie di onde atriali (onde F) regolari, a frequenza intorno a 300
al minuto; il numero dei complessi ventricolari è quasi sempre minore, dato che solo alcuni impulsi atriali
vengono condotti ai ventricoli. In base alla morfologia delle onde F, il flutter si distingue in tipico ed atipico.

Nel flutter atriale tipico le onde F hanno un aspetto a dente di sega, e si susseguono senza interruzione, non
essendo separate da linea isoelettrica (Figura 7); nel flutter atipico, invece, le onde F non hanno morfologia
a denti di sega e sono separate da linea isoelettrica (Figura 8). Nel flutter tipico comune (antiorario) le onde
F sono negative nelle derivazioni inferiori (II, III, aVF) e positive in V1, mentre nella forma non comune
(oraria) hanno polarità positiva nelle derivazioni inferiori e negativa in V1.

Figura 7 ed 8 non disponibili

TRATTAMENTO

Il trattamento del flutter atriale può avere come scopo il mantenimento di una frequenza ventricolare non
troppo elevata oppure l’interruzione dell’aritmia. I calcioantagonisti e i beta-bloccanti (vedi Capitolo 58)
sono farmaci di prima scelta per rallentare la frequenza ventricolare, poiché essi aumentano la refrattarietà
del nodo A-V e quindi diminuiscono il numero degli impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. Per far
cessare il flutter atriale e ripristinare il ritmo sinusale, viene comunemente impiegata l’ibutilide
somministrata per via endovenosa .

Un altro metodo efficace per interromper il flutter è la cardioversione elettrica (vedi il paragrafo
“Trattamento” della sezione Fibrillazione atriale). Come per la fibrillazione, anche i pazienti con flutter
atriale che dura da più di 48 ore richiedono un opportuno periodo di scoagulazione. Anche la stimolazione
elettrica atriale può efficacemente porre fine al flutter; essa si esegue con un elettrocatetere introdotto
nell’atrio destro per via venosa oppure con un elettrodo inserito nell’esofago e posto a stretto contatto con
l’atrio sinistro, che si trova in immediata continuità con l’esofago. Gli stimoli elettrici ad elevata frequenza,
erogati da un apposito stimolatore, possono far cessare il flutter perché rendono refrattaria una parte del
circuito di rientro, impedendo l’ulteriore progressione dell’impulso e quindi il perpetuarsi dell’aritmia.

E’ possibile curare il flutter atriale radicalmente, rendendo inagibile in modo definitivo il circuito di rientro
mediante un intervento di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61). Nel flutter tipico l’ablazione viene
eseguita inserendo un elettrocatetere nel cuore destro ed inducendo, con erogazioni di energia a
radiofrequenza, una lesione stabile a livello dell’istmo cavo-tricuspidalico. Quando questo tessuto diventa

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297 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

incapace di condurre l’impulso, l’aritmia non può più essere scatenata per l’impossibilità che l’impulso
percorra il circuito, una parte del quale è divenuta ineccitabile in seguito al trattamento.

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298 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 40
TACHICARDIE VENTRICOLARI
Stefano Favale, Pierangelo Basso, Franceso Capestro, Valentina D’Andria, Annalisa Fiorella

DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia ventricolare (TV) una successione di almeno 3 battiti ectopici di origine ventricolare
con frequenza =100 al minuto. La TV viene classificata come sostenuta se ha durata >30 secondi o, pur
avendo durata inferiore, richiede un immediato intervento terapeutico per l’insorgenza di grave
compromissione emodinamica, e non sostenuta se ha durata inferiore a 30 secondi. In base alla morfologia
dei complessi ventricolari all’elettrocardiogramma, la TV si definisce monomorfa se tutti i QRS sono identici
e polimorfa quando sono evidenti variazioni nella configurazione del QRS. Si distinguono, inoltre, le forme
seguenti: TV Iterativa (episodi di TV non sostenuta a regressione spontanea, generalmente a frequenza
<150 b/m), TV Incessante (persistente per oltre l'80% della giornata), TV lenta (a frequenza compresa tra
100 e 150 b/m).

ELETTROGENESI

La genesi delle TV è dovuta alla presenza di un anomalo generatore di impulsi nei ventricoli, da ricondurre a
uno dei seguenti meccanismi: rientro, esaltato automatismo, attività triggerata (vedi Capitolo 36).
Un esempio paradigmatico di rientro è dato dalla tachicardia ventricolare post-infartuale. Il miocardio
ventricolare andato incontro ad infarto è costituito da aree cicatriziali frammiste ad aree di miocardio
ancora vitale che nell’insieme costituiscono un circuito fibrocellulare chiuso, con disomogeneità dei periodi
refrattari in vari punti di esso. Un extrastimolo precoce può subire un blocco unidirezionale nella zona con
periodo refrattario più lungo (quindi ancora ineccitabile) e percorrere con rallentamento della conduzione
la zona con periodo refrattario più corto, e che quindi è già eccitabile. Una volta percorsa l’area di
miocardio eccitabile, l’impulso può rientrare in senso opposto nella zona precedentemente ineccitabile
(che nel frattempo ha recuperato dalla refrattarietà) e percorrere l’intero circuito. In questo modo il fronte
d’onda trova sempre davanti a sé tessuto eccitabile e ciò consente l’automantenimento dell’aritmia che si è
generata.

EZIOLOGIA

Le TV possono verificarsi in presenza o in assenza di alterazioni anatomiche macroscopicamente evidenti


del cuore. In quest’ultimo caso esiste un’alterazione anatomica di dimensioni troppo piccole per essere
messa in evidenza dai comuni presidi diagnostici (tachicardie cosiddette idiopatiche) o esiste un difetto
funzionale dei canali ionici, generalmente su base congenita (per esempio, sindrome del QT lungo
congenito, Sindrome di Brugada). Le forme idiopatiche costituiscono circa il 10% di tutte le TV. Le TV che si
associano ad una alterazione anatomica del cuore possono complicare, talora con significato di evento
terminale, tutte le cardiopatie, alcune in particolare.

TV ASSOCIATA AD ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

La Cardiopatia ischemica rappresenta il principale fattore eziologico della TV: nell’infarto miocardico acuto
una TV sostenuta si presenta nel 5-10% dei casi, ed è frequente anche in pazienti con pregresso infarto
miocardico. In seguito alla necrosi miocardica, infatti, si creano aree adiacenti non omogenee costituite da
tessuto fibroso e miocardio vitale, che rappresentano il substrato ideale per il rientro.
Nella Cardiomiopatia dilatativa, la TV fa parte della storia naturale (vedi Capitolo 29). La morte improvvisa,
in questi pazienti, è prevalentemente tachiaritmica (80%) nelle classi NYHA meno avanzate (II-III), mentre
nelle fasi più avanzate incidono anche le bradicardie, la dissociazione elettromeccanica e le tromboembolie.

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299 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La frazione d’eiezione ridotta e la comparsa di sincope sono i fattori maggiormente predittivi di morte
improvvisa nella cardiomiopatia dilatativa.
Nella Cardiomiopatia ipertrofica la presenza, oltre che di ipertrofia ventricolare, di malallineamento dei
miociti (disarray) rappresenta il substrato per la genesi di aritmie ventricolari (vedi Capitolo 28). Non
raramente questa cardiopatia si manifesta per la prima volta con sincope o con morte improvvisa aritmica
in pazienti prevalentemente giovani e peraltro asintomatici. La presenza di una marcata ipertrofia
ventricolare sinistra, di una storia familiare di morte improvvisa, di sincope, risultano altamente predittivi
del rischio di morte improvvisa in questi pazienti.
La Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro si manifesta essenzialmente con aritmie
ventricolari maligne e in particolare con TV sostenuta con morfologia tipo blocco di branca sinistra (vedi
Capitolo 31).
Nella Stenosi aortica circa il 20% dei pazienti muore improvvisamente per aritmie ventricolari maligne (vedi
Capitolo 16).
Anche il Prolasso valvolare mitralico, quando è di entità severa, con rilevante insufficienza valvolare, può
dare luogo alla comparsa di aritmie, inclusa la TV (vedi Capitolo 15).

TV IN ASSENZA DI ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

Può verificarsi per difetto funzionale dei canali ionici (Sindrome del QT lungo, Sindrome di Brugada), per
l’effetto di farmaci, squilibri elettrolitici o ipossia.
La Sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia su base genetica, caratterizzata da alterazioni strutturali
dei canali ionici, in grado di provocare un’anomalia nella ripolarizzazione delle cellule cardiache (vedi
Capitolo 43). In questi pazienti, la sincope, che può esitare in morte improvvisa, è causata dall’insorgenza di
una “torsione di punta”, una tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS di
ampiezza variabile e con progressiva inversione di polarità. La morte improvvisa può essere determinata
dalla degenerazione della torsione di punta in una fibrillazione ventricolare.
La Sindrome di Brugada è una malattia elettrica primaria su base genetica, in cui all’alterazione di un canale
ionico consegue l’accorciamento del potenziale d’azione, soprattutto a livello epicardico, per cui si crea un
gradiente elettrico dopo la completa attivazione del miocardio ventricolare. Ciò è responsabile di alcune
alterazioni dell’ECG di base (onda J, sopraslivellamento di ST in V1 e V2) e della possibilità di innesco di
tachicardia ventricolare. (vedi Capitolo 43).
Alcuni Farmaci, ad esempio digitale, simpaticomimetici, antiaritmici ed alcuni Squilibri idroelettrolitici
come Ipokaliemia, iperkaliemia, ipercalcemia, possono provocare una TV.

CONSEGUENZE EMODINAMICHE

I principali fattori che incidono nel deterioramento emodinamico indotto dalla TV sono: 1) la frequenza, 2) il
mancato coordinamento fra gli atri e i ventricoli, 3) l’attivazione eccentrica del miocardio.
Per frequenze elevate, la fase di riempimento diastolico risulta compromesso e diviene insufficiente per
permettere l’adeguato riempimento ventricolare, per cui la portata si riduce la pressione arteriosa tende a
cadere. Nella TV, inoltre, vi è in circa il 50% dei casi la dissociazione fra l’attivazione atriale e quella
ventricolare, mentre nel restante 50% l’impulso ventricolare viene retrocondotto agli atri. In questi casi, la
contrazione atriale si verifica sempre (retroconduzione) o spesso (dissociazione) a valvole AV chiuse, con
aumento della pressione atriale, inversione del flusso dall’atrio alle vene e perdita totale del contributo
atriale al riempimento ventricolare.
Un altro fenomeno che caratterizza le TV è l’attivazione eccentrica del miocardio. L’attivazione del
miocardio ventricolare secondo le normali vie di conduzione del segnale elettrico è necessaria per una
contrazione efficace dei ventricoli. Nella TV, invece, l’attivazione ventricolare è abnorme: dal punto di
origine dell’ aritmia (circuito o focus ) l'impulso segue vie non fisiologiche, con il risultato di una
desincronizzazione tra le varie parti dei ventricoli, in grado di compromettere l’efficacia della contrazione
La funzione ventricolare sinistra e l'eziologia della TV ne influenzano in modo determinante le
manifestazioni cliniche. In un cuore sano, con normale frazione di eiezione, il quadro emodinamico è

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300 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

compromesso solamente per le caratteristiche intrinseche della TV (frequenza, dissociazione ed


eccentricità). Una TV in un paziente con severa disfunzione ventricolare sinistra (bassa frazione di eiezione),
invece, può determinare importanti riduzioni di portata cardiaca anche a frequenze non molto elevate.

QUADRO CLINICO

La sintomatologia della TV è estremamente variabile, e si possono osservare tanto pazienti asintomatici


quanto pazienti che arrivano a presentare sincope o arresto cardiocircolatorio. I fattori fondamentali nel
determinare la sintomatologia sono la frequenza dell’aritmia, la durata della stessa e la cardiopatia di base.
La sensazione più comunemente riportata dai pazienti è quella del cardiopalmo, legata all’aumento della
frequenza delle contrazioni ventricolari. In certi casi il paziente può riferire angor legato in questo caso alla
discrepanza (squilibrio tra richiesta e apporto di O2) soprattutto nei pazienti che presentano di base una
cardiopatia ischemica. Altro sintomo può essere la dispnea, associata alla slatentizzazione di un sottostante
scompenso cardiaco.
All’esame obiettivo va posta particolare attenzione al polso che si presenterà frequente, piccolo e ritmico.
Un dato non raro, e generalmente sottovalutato, è la variabilità dell’ampiezza del polso, che si rileva in
presenza di dissociazione atrio-ventricolare, cioè in circa il 50% dei casi. Quando l’attività ventricolare è
dissociata da quella atriale, la contrazione degli atri potrà avvenire in qualunque momento del ciclo
cardiaco; se essa cade a valvole A-V chiuse non ci sarà alcun contributo dell’atrio al riempimento
ventricolare, mentre quando gli atri si contraggono poco prima della sistole ventricolare, nella fase in cui le
valvole A-V sono aperte, aumenterà il riempimento ventricolare, e con esso la gittata sistolica di quel
battito. In questa circostanza anche l’ampiezza del polso sarà maggiore rispetto a quando gli atri si
contraggono a valvole A-V chiuse, e poiché la corretta sincronizzazione A-V (onda P poco prima del QRS) è
casuale, si avrà ogni tanto una pulsazione più ampia, pur mantenendosi ritmico il polso. L’ascoltazione
cardiaca evidenzierà toni ritmici e tachicardici, con a volte variabile intensità del I tono (la genesi di questo
fenomeno è identica a quella che governa la variabile ampiezza del polso), mentre quella polmonare potrà
essere silente o evidenziare rumori umidi (rantoli a piccole o medie bolle) nel caso in cui la tachicardia
ventricolare porti ad un quadro di edema polmonare.
Infine, a seconda della compromissione emodinamica, subentrano quelli che sono i sintomi legati alla bassa
portata quali l’ipotensione (sudorazione, pallore, etc.), le vertigini o la sincope (per ipoperfusione della
sostanza reticolare).

ELETTROCARDIOGRAMMA
La diagnosi di Tachicardia Ventricolare si avvale fondamentalmente dell’elettrocardiogramma, che mette
in evidenza:
- una sequenza di 3 o più battiti ventricolari consecutivi;
- complessi QRS di durata uguale o superiore a 0.12 sec;

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301 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

- la possibile dissociazione atrio-ventricolare (Fig.1)

Figura 1 Tachicardia ventricolare con dissociazione A-V. Le onde P sinusali indipendenti dai complessi QRS
sono molto evidenti in II derivazione (frecce).

Il QRS, in corso di TV, ha una durata sempre (0.12 sec, mentre la sua morfologia assumerà un aspetto tipo
blocco di branca destra o sinistra a seconda del ventricolo in cui insorge l’aritmia. Nella TV, infatti, il
ventricolo da cui nasce l’aritmia si attiva prima del controlaterale, che viene raggiunto dal processo di
depolarizzazione tardivamente; lo stesso sfasamento si realizza nel blocco di branca, dove il ventricolo la cui
branca è incapace di condurre si attiva in ritardo. Perciò quando la TV nasce nel ventricolo destro la
morfologia del QRS somiglierà a quella di un blocco di branca sinistra (prima si attiva il ventricolo destro,
poi il sinistro), e una TV originatasi nel ventricolo sinistro avrà un aspetto simile a un blocco di branca
destra. Bisogna fare attenzione alla non semplice diagnosi differenziale fra le TV e le tachicardie
sopraventricolari a QRS largo per conduzione aberrante frequenza-dipendente o per blocco di branca
preesistente; inoltre anche le tachicardie sopraventricolari condotte ai ventricoli attraverso una via
anomala hanno QRS larghi (vedi Capitolo 38).
Particolare è il quadro elettrocardiografico in caso di Torsione di Punta dove, su un ritmo di base
solitamente bradicardico e con QT allungato (soprattutto nei casi di ipokalemia), si osserva una sequenza di
ventricologrammi con continua e graduale variazione della polarità, che diviene da positiva a negativa e
viceversa.
Altri mezzi diagnostici sono una registrazione più dettagliata dell’attività atriale tramite l’ECG
transesofageo (registrato ponendo un sondino munito di un elettrodo a livello esofageo) che permette di
valutare meglio il rapporto atrio-ventricolare, e l’ECG endocavitario, registrato tramite cateteri in atrio e in
ventricolo.

CENNI DI TERAPIA

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302 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Bisogna innanzitutto differenziare la terapia da effettuare in acuto rispetto a quella volta a prevenire le
recidive. Nei casi di TV con compromissione emodinamica trovano spazio innanzitutto presidi elettrici quali
il DC Shock sincronizzato (scariche di defibrillatore a 200-250 joules) o il pacing ventricolare (stimolazione a
frequenze superiori a quelle dell’aritmia nel tentativo di interromperla). Per quanto riguarda l’approccio
farmacologico, il farmaco più comunemente usato in acuto è la Lidocaina. In alternativa, è possibile usare
l’Amiodarone, la Mexiletina o il Propafenone a seconda dell’eziologia della TV e dalla cardiopatia di base del
paziente.
Per la prevenzione delle recidive va innanzitutto chiarita l’eziologia della TV (strutturale o idiopatica) e va
fatta un’attenta valutazione del paziente, comprendente un Holter (ECG dinamico delle 24 ore) e, se
necessarie, indagini invasive (studio elettrofisiologico, coronarografia). La profilassi delle recidive verrà
condotta esclusivamente con terapia farmacologia (amiodarone, mexiletina, ß-bloccanti) nei pazienti a
minor rischio, mentre i farmaci verranno affiancati da supporti elettrici (defibrillatore impiantabile) nei
pazienti con rischio più elevato di recidive, soprattutto in quelli con grave disfunzione ventricolare.

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303 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 41
BRADICARDIE
Francesco Arrigo, Giuseppe Andò

DEFINIZIONE

Ogni ritmo cardiaco diverso dalla fisiologica cadenza degli impulsi regolata del NSA, con frequenza e
conduzione normali, si definisce aritmia. Secondo la nomenclatura oggi condivisa, le alterazioni del ritmo
che si manifestano con riduzione della frequenza cardiaca vengono definite bradicardie. Nel capitolo delle
bradicardie sono tuttavia incluse alcune manifestazioni aritmiche che non si accompagnano
necessariamente a riduzione della FC, come l’aritmia sinusale, il segnapassi migrante, il blocco A-V (BAV) di I
grado (Tabella I).

Tabella 1

Le aritmie con riduzione della frequenza cardiaca sono causate da deficit dell’automatismo o da
compromissione della conduzione e sono riconducibili a due grandi gruppi, le disfunzioni sinusali e i BAV.

Legenda degli acronimi impiegati nel testo

AV - atrio-ventricolare
BAV - blocco atrio-ventricolare
BSA - blocco seno-atriale
bpm - battiti per minuto
ECG - elettrocardiogramma
FC - frequenza cardiaca
MAS - Sindrome di Morgagni-Adams-Stokes
NAV - nodo atrio-ventricolare (nodo di Tawara)
NSA - nodo seno-atriale (nodo di Keith e Flack).
SSS - sick sinus syndrome, sindrome del seno malato.

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304 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

MECCANISMI ELETTROFISIOLOGICI
I meccanismi che possono indurre bradicardia sono fondamentalmente la depressione dell’automatismo e
le alterazioni della conduzione seno-atriale ed atrio-ventricolare (AV).
La stimolazione regolare e continua del cuore è assicurata da fibrocellule specializzate, poste
principalmente nel NSA, ma anche - in misura sempre minore - nel tessuto di conduzione e nel miocardio di
lavoro. Queste cellule sono dotate di automatismo, cioè della proprietà di depolarizzarsi spontaneamente a
riposo (depolarizzazione in fase 4): il potenziale di riposo decresce gradualmente fino a raggiungere il
potenziale soglia che innesca il potenziale d’azione (vedi Capitolo 40). Le fibrocellule specializzate poste nel
NSA (cellule P) sono immerse in una matrice fibrosa e circondate da un alone di cellule di transizione
(cellule T o tessuto perinodale) nelle quali la trasmissione dell’impulso è rallentata. La depolarizzazione
cardiaca, iniziata dalle cellule del NSA, si estende poi attraverso vie di conduzione specifiche prima al
miocardio atriale e, attraverso il NAV, al sistema di conduzione intraventricolare (fascio di His e branche) ed

al miocardio di lavoro (Figura 1).

Figura 1 Il sistema di conduzione cardiaco.


Il NSA, che si trova nell’atrio destro, rappresenta il segnapassi fisiologico. Lo stimolo generato dal NSA si
diffonde agli atri e, seguendo delle vie di conduzione intra-atriale preferenziali, giunge al NAV, situato
anch’esso nell’atrio destro, anteriormente allo sbocco del seno coronarico e subito sopra l’inserzione del
lembo settale della tricuspide. Dal NAV gli impulsi sono condotti al fascio di His, che attraversa il corpo
fibroso ed entra nella parte membranosa del setto interventricolare prima di suddividersi nella branca
destra e nella branca sinistra. La branca destra attraversa la porzione anteriore del setto interventricolare
raggiungendo l’apice del ventricolo destro e la base del muscolo papillare anteriore. La branca sinistra si
suddivide in un fascicolo anteriore (o antero-superiore) ed un fascicolo posteriore (o postero-inferiore). I
tre fascicoli, cioè l’anteriore, il posteriore e la branca destra, si ramificano nelle fibre del Purkinje, che sono
situate nella porzione subendocardica dei due ventricoli e ne assicurano l’attivazione.

La frequenza di depolarizzazione del NSA è posta sotto il controllo dell’equilibrio autonomico tra il sistema
nervoso simpatico ed il parasimpatico e presenta nelle diverse specie animali una grossolana correlazione
inversa con le dimensioni corporee. Nell’uomo adulto, la FC viene convenzionalmente definita normale
quando è compresa tra 60 e 100 bpm; pertanto una FC inferiore a 60 bpm è definita bradicardia, una FC
superiore a 100 bpm è definita tachicardia.

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305 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Una FC inferiore a 60 bpm è un reperto comune nella pratica clinica e, pur essendo spesso un riscontro
occasionale e del tutto benigno, può talora determinare una sensibile riduzione della portata cardiaca con
conseguenze cliniche di rilievo. Occorre tenere ben presente che la FC varia fisiologicamente da individuo a
individuo in base all’età, al grado di allenamento fisico ed al momento dell’osservazione. Ad esempio, negli
atleti allenati è facile osservare una FC a riposo inferiore a 40 bpm, senza che ciò abbia un significato
patologico. Anche durante il sonno, specie durante la fase REM, una FC inferiore a 40 bpm è del tutto
normale.
Un importante aspetto per la valutazione di una FC bassa è la risposta cronotropa allo sforzo fisico, ovvero
la capacità del cuore di aumentare la frequenza in base al grado di esercizio. Una risposta cronotropa
inadeguata (incompetenza cronotropa), insieme all’incapacità di raggiungere la FC massima teorica prevista
per l’età del soggetto al picco dello sforzo (definita in bpm dalla formula 220 - età in anni) suggeriscono
fortemente l’esistenza di un’alterata funzione sinusale che richiede attenzione clinica.
In conclusione, anche se scolasticamente è definita come una FC inferiore a 60 bpm, la bradicardia può
essere meglio caratterizzata come una frequenza inappropriatamente bassa in relazione all’età, al livello di
attività fisica ed al grado di allenamento. Pertanto, la bradicardia deve essere oggetto di ulteriori
approfondimenti diagnostici o di una terapia specifica solo quando è associata a sintomi acuti o cronici di
bassa portata cardiaca, a riposo o durante esercizio fisico.
Le fasi necessarie per la definizione della natura fisiologica o “patologica” della bradicardia e per una
corretta gestione clinica del paziente bradicardico sono dunque:

 la comprensione del meccanismo fisiopatologico (alterazione della formazione e/o della conduzione
dello stimolo) responsabile della bassa o inappropriata frequenza cardiaca;
 l’identificazione delle cause, reversibili o irreversibili, della bradicardia;
 la valutazione del rischio di potenziali conseguenze infauste come la sincope, l’insufficienza cardiaca, le
tachicardie , i fenomeni trombo-embolici e la morte improvvisa per asistolia prolungata;
 la scelta di una terapia individualizzata

ASPETTI CLINICI

 Le bradicardie possono essere congenite o acquisite. Le disfunzioni sinusali congenite sono


estremamente rare, mentre il BAV congenito è spesso associato ad altre cardiopatie. Fra le forme
acquisite, le più frequenti sono quelle legate a fenomeni degenerativi senili ed alla cardiopatia
ischemica. Altre cause frequenti sono le cardiomiopatie infiltrative, come la sarcoidosi, l’amiloidosi
e l’emocromatosi. Più rari sono oggi i BAV dovuti a malattia reumatica. Particolare attenzione va
posta alle forme iatrogene causate sia da farmaci che deprimono la conduzione, in particolare i
glucosidi della digitale, sia dalle procedure interventistiche cardiache che possono provocare lesioni
del sistema di conduzione.
La presenza di manifestazioni cliniche dipende dal grado e dalla rapidità di riduzione della portata
cardiaca. Finché l’aumento compensatorio della gittata sistolica controbilancia la diminuzione della
frequenza, anche i pazienti con bradicardia spiccata possono rimanere asintomatici e la loro
bradicardia essere scoperta occasionalmente. All’altro estremo dello spettro clinico, il paziente può
presentarsi con un’ampia varietà di segni e sintomi. Le bradicardie sono associate a due quadri
fisiopatologici principali, la sindrome da ipoperfusione cerebrale e la sindrome da bassa portata.
Tra questi la sincope (vedi Capitolo 42), cioè la perdita di coscienza che segue un arresto cardiaco
prolungato, è il più drammatico. Brevi periodi di arresto della durata di pochi secondi possono,
infatti, passare inosservati, ma se l'arresto cardiaco si prolunga, per 5-6 secondi in posizione eretta
e per 8-10 secondi in posizione supina, in assenza di un ritmo di scappamento che possa mantenere
l'attività cardiaca, si verifica l’improvvisa perdita della coscienza con caduta a terra per mancanza
del tono posturale. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, quando si verifica un arresto per
disfunzione sinusale o per mancata conduzione dell'impulso dagli atri ai ventricoli, centri automatici
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306 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

inferiori si depolarizzano spontaneamente e danno luogo a ritmi di scappamento che mantengono


un'attività cardiaca emodinamicamente sufficiente anche se a bassa frequenza. Pertanto la
condizione essenziale perché si verifichi un arresto cardiaco sintomatico in corso di bradicardia è la
mancata attivazione di un centro ectopico vicariante.
Gli episodi sincopali maggiori dovuti a bradicardie parossistiche sono stati definiti come Sindrome
di Morgagni-Adams-Stokes (MAS), dal nome degli autori che per primi hanno descritto questo
quadro: perdita improvvisa della coscienza, con caduta ed eventuali fasi convulsive con scosse
tonico-cloniche, non preceduta da alcun sintomo ed indipendente dalla posizione o da altre
situazioni note per indurre sincope. Si ha anche la perdita del controllo degli sfinteri e compaiono
cianosi, gasping respiratorio e morte, in caso di prolungamento della asistolia.
Altre volte, i sintomi della bradicardia possono essere non specifici ed avere un andamento cronico:
le vertigini transitorie, lo stato confusionale, la sensazione di “testa vuota” sono fenomeni che
riflettono uno stato di ipoperfusione cerebrale relativa dovuta alla ridotta portata cardiaca; gli
episodi di facile stancabilità e la debolezza muscolare con intolleranza all’esercizio fisico sono
espressione del mancato o insufficiente aumento dell’apporto ematico ai muscoli scheletrici.
La bradicardia può inoltre essere percepita soggettivamente sotto forma di palpitazioni,
particolarmente se intervengono battiti prematuri, a causa della maggiore gittata sistolica del
battito che segue quello prematuro e del più energico itto della punta. Chiare manifestazioni di
insufficienza cardiaca, a riposo o durante sforzo, possono anch’esse essere determinate da
bradicardia spiccata, specialmente nei pazienti con ridotta funzione ventricolare sinistra.

LA DISFUNZIONE SINUSALE
Eziologia
La degenerazione fibrosa è considerata la più comune se non l’unica causa di disfunzione del NSA. Infatti, le
modificazioni strutturali si associano alla progressiva riduzione della frequenza intrinseca di scarica del NSA
che si verifica con l’invecchiamento. La malattia coronarica è molto frequente nei pazienti con disfunzione
sinusale e l’ischemia della regione del NSA probabilmente contribuisce alla genesi delle bradiaritmie (ed
anche delle tachicardie nella sindrome bradicardia-tachicardia).

Aspetti diagnostici
bradicardia sinusale. E’ definita dalla presenza di depolarizzazioni sinusali ad una frequenza inferiore a 60
bpm.
La bradicardia sinusale è un reperto fisiologico negli atleti allenati, che spesso hanno una frequenza a
riposo da svegli tra 40 e 50 bpm e possono avere una frequenza durante il sonno anche di 30 battiti al
minuto; l’elevato tono vagale di questi soggetti può determinare anche pause sinusali o fasi di BAV di II
grado tipo Wenckebach che producono pause asistoliche finanche di 3 secondi. In altri casi va posta molta
cura nell’escludere cause farmacologiche attraverso un’accurata anamnesi.
aritmia sinusale. In presenza di ritmo sinusale, gli intervalli P-P sono relativamente costanti, con variazioni
da un intervallo dell'altro che non eccedono 0,16 secondi . Quando la differenza tra il ciclo più lungo e
quello più corto è superiore a 0,16 secondi si parla di aritmia sinusale. Generalmente le onde P sono
normali per asse e morfologia e l'intervallo PR resta costante, nonostante l’irregolarità dei cicli.
La forma più frequente di aritmia sinusale è correlata all'attività respiratoria, con un accorciamento
dell’intervallo P-P durante l'ispirazione per inibizione del tono vagale (aritmia sinusale respiratoria). Si
tratta di una variante di normalità tipica dei giovani, senza alcun significato patologico. L’aritmia sinusale

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non respiratoria (Figura 2A)

Figura 2 Manifestazioni ECG della disfunzione sinusale.


A) Aritmia sinusale. Si osserva la continua variabilità degli intervalli R-R, espressa in secondi, dovuta alla
continua variabilità degli intervalli tra le onde P, che a loro volta vengono normalmente condotte ai
ventricoli.
B) Arresto sinusale. Questo ECG mostra un ritmo sinusale alla frequenza di 62 bpm. Si osserva l’improvvisa
mancanza di un’onda P che determina una pausa di circa 2,9 secondi.
C) Blocco seno-atriale. In questo caso si osserva una pausa la cui durata è circa il doppio di un ciclo P-P,
ovvero di un ciclo R-R, in quanto la conduzione AV è normale. Pertanto è possibile interpretare il fenomeno
come un blocco seno-atriale tipo Mobitz.
D) Pausa pre-automatica. Questo ECG mostra l’interruzione di una tachicardia parossistica a QRS larghi e
frequenza di circa 220 bpm. Si osserva una lunga pausa (pausa pre-automatica) che precede l’emergenza
della prima onda P sinusale. Le pause pre-automatiche possono rappresentare una delle manifestazioni
della disfunzione sinusale.

è invece caratterizzata da variazioni irregolari dell'intervallo P-P non correlate all'attività respiratoria e può
essere espressione di una disfunzione sinusale.
Arresto sinusale, blocco seno-atriale e sindrome bradicardia-tachicardia. La pausa sinusale (definita come
un’assenza di attività elettrica più lunga del 150% di un ciclo cardiaco sinusale basale) può essere dovuta
alla mancata formazione dell’impulso nel NSA (arresto sinusale) o ad un difetto nella conduzione
dell’impulso dal NSA al tessuto atriale circostante (BSA).
La manifestazione elettrocardiografica è in entrambi i casi l’assenza di un’onda P sinusale; nel BSA
l’intervallo P-P durante la pausa è generalmente, ma non sempre, un multiplo dell’intervallo P-P normale
(Figura 2C),

Figura 2 Manifestazioni ECG della disfunzione sinusale.


A) Aritmia sinusale. Si osserva la continua variabilità degli intervalli R-R, espressa in secondi, dovuta alla

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continua variabilità degli intervalli tra le onde P, che a loro volta vengono normalmente condotte ai
ventricoli.
B) Arresto sinusale. Questo ECG mostra un ritmo sinusale alla frequenza di 62 bpm. Si osserva l’improvvisa
mancanza di un’onda P che determina una pausa di circa 2,9 secondi.
C) Blocco seno-atriale. In questo caso si osserva una pausa la cui durata è circa il doppio di un ciclo P-P,
ovvero di un ciclo R-R, in quanto la conduzione AV è normale. Pertanto è possibile interpretare il fenomeno
come un blocco seno-atriale tipo Mobitz.
D) Pausa pre-automatica. Questo ECG mostra l’interruzione di una tachicardia parossistica a QRS larghi e
frequenza di circa 220 bpm. Si osserva una lunga pausa (pausa pre-automatica) che precede l’emergenza
della prima onda P sinusale. Le pause pre-automatiche possono rappresentare una delle manifestazioni
della disfunzione sinusale.

mentre nell’arresto sinusale (Figura 2B) non è possibile dimostrare alcun rapporto numerico tra la durata
del ciclo P-P basale e la durata della pausa.
Le pause sinusali di durata inferiore a 3 secondi non hanno un significato clinico, ma l’emergenza di un
ritmo di scappamento da un segnapassi atriale o giunzionale può favorire l’insorgenza di tachiaritmie atriali,
come la fibrillazione atriale o il flutter atriale. Pause più lunghe possono invece causare episodi sincopali.
La sindrome bradicardia-tachicardia è una manifestazione della disfunzione sinusale che determina sintomi
importanti ed è caratterizzata dalla coesistenza di fasi di bradicardia o asistolia e di tachiaritmie atriali. La
coesistenza dei due tipi di aritmia non è casuale, in quanto da un lato la spiccata bradicardia o le pause
prolungate dovute ad arresto sinusale o a BSA possono facilitare l'innesco di una tachiaritmia atriale;
dall’altro un’aritmia rapida atriale deprime l'automatismo del NSA di modo che alla sua cessazione la
ripresa dell'attività spontanea sinusale è lenta e possono manifestarsi bradicardia molto spiccata o pause
prolungate, dette pause pre-automatiche (Figura 2D).

Aspetti fisiopatologici e clinici


Le manifestazioni cliniche delle disfunzioni sinusali risultano spesso dalla combinazione di più tipi di aritmia
e sono riportabili a due quadri specifici, la sindrome del seno malato e la sindrome del seno carotideo. La
bradicardia sinusale isolata è un reperto generalmente benigno, di osservazione clinica frequente, e solo in
casi selezionati necessita di trattamento.
La sindrome del seno malato (sick sinus syndrome, SSS, o malattia aritmica atriale) è una delle cause più
frequenti di bradicardia nel soggetto anziano e comprende non solo una depressione dell’automatismo del
NSA, ma anche un’alterazione della conduzione seno-atriale ed intra-atriale ed aritmie atriali rapide tra cui
soprattutto la fibrillazione atriale. La SSS si esprime clinicamente con vari gradi di gravità che vanno dalle
forme più semplici di bradicardia sinusale o di FC inappropriata, generalmente benigna ed asintomatica (1°
stadio), alle forme persistenti con bradicardia spiccata, arresto sinusale o BSA e sintomi di bassa portata o
di ipoperfusione cerebrale e sincope (2° stadio), alle forme con alternanza di bradicardia e tachicardia
(sindrome bradicardia-tachicardia o bradi-tachi) per lo più fortemente sintomatiche, anche con episodi
sincopali maggiori.
Per il corretto inquadramento diagnostico e per operare scelte terapeutiche mirate è di fondamentale
importanza mettere in relazione eventuali sintomi con le suddette aritmie, finalità per la quale spesso l’ECG
convenzionale non è sufficiente, poiché gli episodi aritmici sono intermittenti: nello stesso paziente ed in
diversi momenti di osservazione possono essere presenti manifestazioni aritmiche differenti. In questi casi,
la diagnostica strumentale deve essere integrata con l’ECG dinamico (Holter), i sistemi di registrazione
elettrocardiografica impiantabili e lo studio elettrofisiologico. In particolare, per rivelare la presenza di una
depressione dell'automatismo sinusale si ricorre alla stimolazione atriale rapida, mediante la quale viene
calcolato il cosiddetto tempo di recupero del NSA; con la stessa metodica può esser misurato il tempo di
conduzione seno-atriale.
Poiché la disfunzione sinusale può essere espressa da un’incompetenza cronotropa, l’esercizio fisico o uno
stress farmacologico possono rivelare l’incapacità del NSA di incrementare la frequenza; un incremento
della FC inferiore al 50% in risposta all'esercizio fisico ed inferiore al 30% dopo somministrazione di
atropina sono indici di disfunzione sinusale.

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309 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La sindrome del seno carotideo, nella sua variante cardio-inibitoria, consiste nella comparsa di episodi di
asistolia per arresto sinusale o BSA. Meno frequentemente il fenomeno è causato da un BAV parossistico.
La sindrome viene innescata dalla stimolazione del seno carotideo, anche meccanica, che induce una
marcata risposta vagale. Nella variante vaso-depressiva si osserva una diminuzione della pressione sistolica
uguale o superiore a 50 mmHg. I pazienti con sindrome del seno carotideo (vedi Capitolo 42) sono
sintomatici per sincopi o lipotimia, ma non sempre l'evento clinico è riferibile all'aritmia. Occorre anche in
questo caso dimostrare la coincidenza tra l’alterazione elettrocardiografica ed il fenomeno clinico,
dimostrazione che può essere ottenuta con relativa semplicità mediante l’esecuzione di un massaggio del
seno carotideo o durante il tilt test che si esegue per lo studio della sincope vaso-vagale. Nella forma
puramente cardio-inibitoria la stimolazione cardiaca permanente può risolvere i sintomi.

IL BLOCCO ATRIO-VENTRICOLARE
Lo stimolo generato dal NSA si diffonde agli atri, attraversa il nodo AV e viene condotto ai ventricoli per
mezzo del fascio di His e del sistema di conduzione intraventricolare. Tutto ciò avviene fisiologicamente in
un tempo compreso tra 0,12 e 0,20 secondi. Alterazioni organiche o funzionali del sistema di conduzione
possono determinare un rallentamento della conduzione dell’impulso atriale, con prolungamento
dell’intervallo PR oltre 0,20 secondi (BAV di I grado), o un blocco parziale della conduzione, con la
conseguenza che alcune onde P non sono seguite da complessi QRS (BAV di II grado), o una completa
interruzione della conduzione, per cui nessun impulso sinusale viene condotto ai ventricoli (BAV di III grado
o completo).
Il rallentamento o il blocco della conduzione possono verificarsi, in maniera transitoria o stabile, a livello di
tutte le componenti del sistema di conduzione, ovvero a livello del NAV (blocco intra-nodale o sopra-
hisiano), a livello del fascio di His (blocco intra-hisiano), o nelle branche (blocco sotto-hisiano). Di norma, i
blocchi sotto-hisiani si associano a complessi QRS larghi (superiori a 0,12 secondi), particolarmente se il
ritmo di scappamento è ventricolare. La distorsione della depolarizzazione ventricolare, espressa all’ECG dal
QRS largo, determina un’alterazione del sincronismo di contrazione ventricolare la quale produce effetti
emodinamici negativi indipendenti da quelli dovuti alla bradicardia ed alla dissociazione AV ed additivi
rispetto ad essi; pertanto, i blocchi sotto-Hisiani sono emodinamicamente tollerati peggio dei blocchi più
prossimali.

Aspetti diagnostici

BAV di I grado. É riconoscibile all'elettrocardiogramma per il prolungamento dell’intervallo PR al di sopra di


0,20 secondi, con onde P sempre seguite da un complesso ventricolare. Dal punto di vista elettrofisiologico
la sede del ritardo può essere a tutti i livelli del sistema di conduzione (NAV, fascio di His o branche).

BAV di II grado. Del BAV di II grado si distinguono 4 diversi tipi.


1) BAV di II grado tipo 1 (o tipo Wenckebach). Questa forma è caratterizzata dal progressivo allungamento
dell’intervallo PR, fin quando un impulso si blocca e non viene condotto ai ventricoli, cioè un’onda P non è
seguita da un QRS, per cui si verifica una pausa. Subito dopo questa, l’intervallo PR è normale o comunque
più breve di quello del ciclo precedente il blocco, mentre nei battiti successivi il PR si allunga di nuovo in
maniera progressiva fino al blocco di un altro impulso, realizzando così dei periodismi, detti di Luciani-

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310 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Wenckebach (Figura 3A).

Figura 3 Manifestazioni ECG del blocco A-V di II grado.


A) BAV di II grado tipo Wenckebach. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza 72, espresso da una
regolare sequenza di onde P con morfologia normale. Il primo intervallo PR è normale, il secondo è
allungato, e la terza onda P non viene seguita da un QRS. La conduzione dell’impulso che segue la pausa
(quarta onda P) è nuovamente normale. Si verifica poi un progressivo allungamento dell’intervallo PR dopo
la quinta e la sesta onda P, mentre la settima P è nuovamente bloccata. Le pause durano meno del doppio
di un ciclo sinusale.
B) BAV di II grado tipo Mobitz. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza 60. I primi tre impulsi
sinusali sono condotti normalmente ai ventricoli con intervalli P-R costanti; i complessi QRS sono larghi e
mostrano un blocco completo di branca sinistra. La quarta onda P non è seguita da un QRS, mentre la
quinta è condotta normalmente, con un P-R identico a quello dei primi tre battiti. Questo fenomeno indica
un BAV di II grado tipo Mobitz.
C) BAV di II grado 2:1. Ritmo sinusale a frequenza 70, con l’alternanza di onde P condotte ai ventricoli e
bloccate.
D) BAV di II grado avanzato. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza 90. Le prime tre onde P
vengono regolarmente condotte ai ventricoli. La quarta onda P non viene condotta e dà origine ad una
serie di tre onde P consecutive non condotte, seguite poi da un battito di scappamento ventricolare, dopo il
quale riprende la conduzione AV 1:1. Si tratta di un BAV parossistico di II grado avanzato, poiché tre onde P
consecutive non vengono condotte ai ventricoli.

Il BAV di II grado tipo Wenckebach è in genere dovuto ad una lesione, per lo più reversibile, in sede nodale
ed è particolarmente sensibile alle influenze vegetative (tono vagale) e farmacologiche.
2) BAV di II grado tipo 2 (o tipo Mobitz). Questa forma è caratterizzata dall’improvviso blocco della
conduzione di un impulso, con una pausa asistolica uguale al doppio di un ciclo sinusale. Gli intervalli PR
sono costanti prima e dopo il ciclo bloccato, senza allungamento dell’intervallo PR nel ciclo che precede la P
bloccata; anche nel ciclo successivo all’impulso bloccato l’intervallo PR è identico a quello del ciclo
precedente (Figura 3B). Il BAV di II grado tipo Mobitz è in genere dovuto ad una lesione intra-Hisiana, o
sotto-Hisiana.
3) BAV di II grado 2: 1. Il BAV 2:1 è caratterizzato dall’alternanza di un impulso condotto e di un impulso
bloccato (Figura 3C).

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311 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

4) BAV di II grado avanzato. È definito dal blocco di due o più onde P consecutive (Figura 3D).
BAV di III grado. Il BAV di III grado (o BAV completo) è caratterizzato dall’assenza della conduzione degli
impulsi atriali ai ventricoli e dalla completa dissociazione dell’attività atriale, più rapida e caratterizzata
dalle onde P sinusali, da quella ventricolare, che è governata da un ritmo di scappamento la cui analisi può
fornire un’indicazione sulla sede del blocco (Figura 4).

Figura 4 Manifestazioni ECG del blocco A-V di III grado.


A) BAV di III grado con ritmo di scappamento ventricolare. Questo ECG mostra ritmo sinusale normale.
Tuttavia nessuna delle onde P è condotta ai ventricoli, che sono governati da un ritmo di scappamento a
frequenza di circa 30 con complessi QRS larghi (di durata molto maggiore di 0,12 secondi). Questo
fenomeno è l’espressione di un BAV di III grado con dissociazione AV completa.
B) BAV di III grado con ritmo di scappamento fascicolare. Questo ECG mostra tachicardia sinusale a
frequenza 115. Tuttavia nessuna onda P è condotta ai ventricoli, che sono governati da un ritmo di
scappamento a frequenza 35 con complessi QRS relativamente larghi (la durata del QRS è esattamente 0,12
secondi) e morfologia tipo blocco di branca destra. Questo fenomeno è l’espressione di un BAV di III grado
con dissociazione AV completa. I complessi QRS non sono eccessivamente larghi ed hanno morfologia da
blocco di branca destra, suggerendo che il ritmo di scappamento abbia origine dalla branca sinistra.
C) BAV di 3° grado con ritmo di scappamento giunzionale. Questo ECG mostra ritmo sinusale a frequenza
di circa 100, espresso dalla regolare sequenza delle onde P. E’ presente un BAV di III grado con
dissociazione AV completa. I ventricoli sono sotto il controllo di un segnapassi sussidiario che determina un
ritmo di scappamento a QRS stretti (di durata < 0,12 secondi) a frequenza di circa 40 e con morfologia
pressoché normale. Pertanto in questo caso la sede anatomica del BAV è verosimilmente localizzata a
livello del NAV (blocco sopra-Hisiano) ed il ritmo di scappamento è di origine giunzionale.
D) BAV di 3° grado parossistico con asistolia prolungata. Questo ECG mostra tachicardia sinusale a
frequenza 115. Le prime due onde P sono condotte regolarmente ai ventricoli. Dopo la terza onda P si
verifica un BAV parossistico di 3° grado con una serie di 20 onde P bloccate. La prolungata asistolia viene
interrotta da tre battiti di scappamento a QRS largo, di origine ventricolare.

La presenza di un ritmo stabile, con frequenza tra 40 e 50 e complessi QRS stretti, suggerisce un ritmo di
scappamento giunzionale; un ritmo di scappamento a complessi QRS larghi e a frequenza inferiore a 40,
invece, suggerisce un blocco a livello più distale (blocco sotto-hisiano) e pertanto la necessità più urgente di

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312 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

un intervento terapeutico di elettrostimolazione cardiaca.


Dissociazione AV. Con il termine dissociazione AV si indica la condizione in cui gli atri ed i ventricoli si
attivano indipendentemente gli uni dagli altri; un segnapassi, in genere il NSA, attiva gli atri, un altro
segnapassi, posto a livello giunzionale, fascicolare o ventricolare attiva i ventricoli. La dissociazione AV
rappresenta una conseguenza implicita del BAV completo, ma non si identifica con esso in quanto è un
fenomeno elettrofisiologico che può essere riconosciuto in diverse manifestazioni aritmiche, come ad
esempio nel BAV di II grado o nella tachicardia ventricolare.

Aspetti eziologici, fisiopatologici e clinici


Il BAV di I grado è presente nel 5% circa della popolazione apparentemente sana ed è un reperto
relativamente frequente anche fra i cardiopatici, poiché i fattori capaci di alterare la conduzione A-V,
soprattutto a livello del NAV, sono numerosi. In forma isolata, è spesso un reperto elettrocardiografico
occasionale, poiché nella maggior parte dei casi non determina sintomi e non necessita quindi di
approfondimenti diagnostici specifici, se non per il riconoscimento della eziologia, potendo essere la prima
manifestazione di una malattia reumatica passata inosservata, di una malattia infiltrativa cardiaca, di una
disfunzione tiroidea, ecc. (Tabella II).

Tabella 2

Quando si può stabilire con sicurezza l'insorgenza recente del blocco, se si tratta di un paziente giovane
occorre pensare a una malattia reumatica. In pazienti anziani con anamnesi di sincope ed in assenza di
farmaci che deprimono la conduzione AV, un BAV di I grado di recente insorgenza è fortemente suggestivo
di BAV parossistico di grado avanzato e richiede l'impianto di un pacemaker.
Generalmente, il BAV di I grado non ha alcuna conseguenza emodinamica di rilievo. E’ possibile tuttavia che
intervalli PR particolarmente lunghi, superiori a 0,30 secondi, possano determinare sintomi anche in
assenza di gradi maggiori di BAV. Infatti, a causa del ritardo elevato, la sistole atriale si può verificare
durante la protodiastole del ciclo cardiaco precedente o addirittura durante la sistole precedente,
producendo una contrazione atriale contro le valvole atrio-ventricolari chiuse. In questi casi, il riempimento
ventricolare viene compromesso, si perde il sincronismo atrio-ventricolare e possono conseguirne un
aumento della pressione di incuneamento nei capillari polmonari ed una riduzione della portata cardiaca.
Il BAV di II grado tipo 1 (Wenckebach) raramente si manifesta con sincope e più di frequente è un riscontro
ECG incidentale o associato a sintomi aspecifici. Nella quasi totalità dei casi è l’espressione di un disturbo
funzionale e reversibile della conduzione a livello del NAV, spesso causato dalla somministrazione di

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313 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

farmaci attivi sul NAV come la digitale, i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti non diidropiridinici. È frequente
l’associazione con l’infarto miocardico acuto inferiore, nel quale è in genere transitorio, non modifica la
prognosi e raramente richiede una terapia specifica (corticosteroidi endovena o elettrostimolazione
temporanea).
I BAV di II grado tipo 2 (Mobitz), ed avanzato sono espressione di un danno organico del sistema di
conduzione sotto-hisiano e quasi sempre progrediscono improvvisamente verso il BAV completo. Per tali
motivi, queste forme di BAV di II grado richiedono in tutti i casi l’elettrostimolazione cardiaca permanente.
Il BAV di III grado provoca in genere evidenti segni e sintomi, dovuti alla riduzione della portata cardiaca. I
sintomi possono insorgere in maniera improvvisa con una sincope, o in maniera più lenta ed insidiosa,
causando ad esempio astenia marcata o dispnea da sforzo, soprattutto se il BAV ha sede nodale ed è
presente un ritmo di scappamento giunzionale che assicuri una portata cardiaca sufficiente a non
determinare una importante riduzione della perfusione cerebrale, ma incapace di garantire un buon
adattamento allo sforzo o ad altre situazioni in cui è richiesto un aumento della portata.

PRINCIPI DI TRATTAMENTO DELLE BRADICARDIE

La decisione di trattare una bradicardia è basata soprattutto sulla presenza di sintomi attribuibili
direttamente ad essa.
Il primo approccio sta nel riconoscimento delle bradicardie reversibili, spesso indotte da farmaci o legate a
situazioni identificabili e clinicamente reversibili come gli squilibri elettrolitici o l’infarto miocardico acuto,
nell’eliminazione del meccanismo fisiopatologico e nella cura della causa scatenante. Ad esempio, nella
malattia di Lyme, il BAV è reversibile, come pure in presenza di iperpotassiemia. Al contrario, nelle malattie
neuromuscolari ed in alcune patologie infiltrative del miocardio, come la sarcoidosi e l’amiloidosi,
l’impianto di un pacemaker è da raccomandare anche quando il BAV sia stato transitorio, a causa della
imprevedibile possibilità di progressione del disturbo di conduzione.

Terapia farmacologica
Un intervento terapeutico non è quasi mai necessario nei pazienti con bradicardia sinusale, aritmia
sinusale, pause sinusali o arresti sinusali inferiori a 3 secondi. Per bradicardie più rilevanti l’atropina
endovenosa rappresenta un presidio terapeutico di emergenza che può essere impiegato per accelerare la
frequenza cardiaca sinusale e migliorare la conduzione AV, quando la sede del BAV sia chiaramente a livello
nodale. Per la cura del BAV completo è stato impiegato, in condizioni di emergenza, l’isoproterenolo
endovena per aumentare la frequenza di un eventuale segnapassi di scappamento ventricolare; tale
farmaco è ormai poco usato per i rischi connessi al suo potenziale aritmogeno e per la maggiore efficacia e
sicurezza della elettrostimolazione cardiaca temporanea. Pertanto, tutti i pazienti che si presentano con
sintomi legati ad una disfunzione del nodo del seno o a disturbi della conduzione AV dovrebbero essere
presi in considerazione per l’impianto di un pacemaker cardiaco temporaneo o definitivo.

I pacemaker cardiaci
I pacemaker cardiaci sono generatori di impulsi che erogano stimoli elettrici, trasmessi attraverso uno o più
elettrocateteri a determinate zone del cuore. L’impulso elettrico erogato dal generatore si propaga a tutto
il miocardio e ne determina la depolarizzazione. L’attivazione elettrica delle camere cardiache indotta dal
pacemaker non si propaga attraverso le normali vie di conduzione ma è trasmessa attraverso il miocardio di
lavoro, il che può avere delle importanti conseguenze elettriche e meccaniche, provocando dissincronia
inter- ed intra-ventricolare, e dissociazione AV in caso di sola stimolazione ventricolare.
La necessita di ottenere una stimolazione cardiaca “fisiologica” ha portato allo sviluppo di pacemaker che
mirano a preservare e/o ripristinare il normale sincronismo AV o interventricolare stimolando
sequenzialmente prima l’atrio destro e poi l’apice del ventricolo destro (pacemaker bicamerali) ed
eventualmente anche la parete laterale del ventricolo sinistro (pacemaker tricamerali). Inoltre sono stati
messi a punto sensori che modulano la frequenza di stimolazione cardiaca (pacemaker rate-responsive) in
base all’attività del paziente in maniera da simulare le variazioni fisiologiche del cronotropismo.
Date le ampie possibilità di scelta, la terapia di elettrostimolazione definitiva con pacemaker deve essere

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314 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

adattata individualmente ad ogni singolo paziente tenendo conto del tipo di difetto di conduzione, della
condizione emodinamica del paziente e del suo livello di attività.

Principi di terapia della disfunzione sinusale


La disfunzione sinusale è una delle cause più frequenti di indicazione all’impianto di un pacemaker
cardiaco; tuttavia, pur permettendo un evidente miglioramento o la scomparsa dei sintomi dovuti alla
bradicardia, l’elettrostimolazione cardiaca permanente non è chiaramente associata ad un aumento della
sopravvivenza.
Tutte le forme di disfunzione sinusale, inclusa la sindrome bradi-tachi, quando determinano sintomi
rappresentano un’indicazione assoluta alla elettrostimolazione cardiaca. Anche la bradicardia iatrogena che
consegue a trattamenti farmacologici a lungo termine, per i quali non esistano alternative (per esempio i
beta-bloccanti), rappresenta un’indicazione all’impianto di un pacemaker.
L’indicazione all’impianto è meno perentoria, ma tendenzialmente accettata, in pazienti sintomatici quando
non vi sia stata una chiara dimostrazione che i sintomi siano effettivamente dovuti alla bradicardia, ma la
disfunzione sinusale, spontanea o iatrogena, determina una FC inferiore a 40 bpm. Lo stesso criterio si
applica quando, a seguito di una sincope da causa inspiegata, venga dimostrata allo studio elettrofisiologico
una marcata anomalia della funzione sinusale, pur senza la coincidenza documentata con eventi clinici.

Principi di terapia del BAV


L’elettrostimolazione cardiaca permanente migliora non solo la qualità di vita dei pazienti con BAV ma
soprattutto la prognosi a lungo termine; le indicazioni all’impianto di un pacemaker in presenza di un BAV
dipendono dai sintomi e da semplici indicatori quali in primo luogo la durata del QRS e la durata delle
pause.
Il BAV di III grado e il BAV di II grado avanzato hanno una indicazione assoluta all’impianto di pacemaker,
indipendentemente dalla sede elettrofisiologica del blocco, quando sono presenti sintomi dovuti alla
bradicardia oppure, in pazienti svegli ed asintomatici, pause superiori a 3 secondi o un ritmo di
scappamento a frequenza inferiore a 40 bpm.
Anche nei pazienti con BAV di II grado tipo Mobitz sintomatici l’indicazione all’impianto di pacemaker è
assoluta. L’indicazione è meno perentoria ma tendenzialmente accettata nei pazienti con BAV di II grado
tipo Mobitz asintomatici, specialmente se con QRS largo, per l’elevata probabilità di progressione verso
gradi più avanzati di blocco. In questi casi, l’indicazione alla cardiostimolazione potrebbe essere posta in
dubbio solo se il BAV fosse asintomatico e associato a QRS stretti, ma la sussistenza di entrambe le
condizioni è di rarissima osservazione clinica.
Il BAV 2: 1 può avere, come detto, una localizzazione sopra-Hisiana (nodale), intra-Hisiana o sotto-Hisiana,
ma in genere determina sintomi a causa dell’importante riduzione della frequenza cardiaca; pertanto
richiede quasi sempre l’impianto di pacemaker.
Il BAV di I grado isolato ed il BAV di II grado tipo Wenckebach con complessi QRS stretti sono in genere
manifestazione di una lieve alterazione della conduzione nodale e non hanno alcun significato prognostico
negativo. Inoltre queste forme di BAV, quando insorte in seguito ad infarto miocardico inferiore, ad
interventi cardiochirurgici o come effetto di farmaci, sono quasi sempre reversibili. Tuttavia, nei pazienti
con BAV di II grado tipo Wenckebach non dovuto a cause reversibili e sintomatici, l’indicazione all’impianto
di pacemaker è assoluta.

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315 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 42
SINCOPE
Luigi Padeletti, Alfonso Lagi

DEFINIZIONE

La sincope è una perdita improvvisa della coscienza e del tono muscolare, di breve durata e a risoluzione
spontanea. E’ la conseguenza dell’ischemia generalizzata di entrambi gli emisferi cerebrali e/o del tronco.
La sincope è un sintomo comune a molte malattie, al pari della febbre o dell’anemia. La sua importanza
deriva da due considerazioni: la prima, esclusivamente medica, che la sincope può essere anticipatrice di
una morte improvvisa nel futuro prossimo; la seconda, riguardante il grande impatto emotivo sull’individuo
che ne soffre e sulla famiglia, che la sincope rappresenta una vera interruzione della vita, anche se breve ed
a risoluzione spontanea, così da far pensare che l’esperienza si possa ripetere con risultati non altrettanto
favorevoli. Se l’etimologia della parola significa “interrompere” (dal greco) bisogna ben considerare
che “the only difference between syncope and sudden death is that in one you wake up”.
Il momento fisiopatologico determinate della sincope è la ipoperfusione dell’encefalo, ma ciò non significa
che il fenomeno dipenda necessariamente da una ipotensione acuta e transitoria. I fattori determinanti la
pressione arteriosa sono il volume circolante nel distretto arterioso, la gittata cardiaca, e le resistenze
periferiche. Le alterazioni di uno o più di questi parametri possono portare alla sincope.
La riduzione della gittata cardiaca può conseguire a diminuzione della gittata sistolica, a critiche variazioni
della frequenza cardiaca (tachicardie o bradicardie estreme ) o a diminuzione del volume circolante; la
riduzione delle resistenze periferiche è l’effetto di mediatori fisiologici o patologici (farmaci con azione
simpaticolitica, eventi riflessi, malattie neurologiche).
E’ fondamentale tener presente che varie malattie possono mimare la sincope, soprattutto le epilessie
generalizzate non convulsive (crisi di piccolo male), i disturbi del sonno e le forme psicogene (crisi di ansia
generalizzata).

EPIDEMIOLOGIA

La sincope è molto frequente. Si calcola che nel nostro paese vi siano oltre 100.000 casi/anno. Il 75% della
popolazione sana va incontro ad almeno un episodio sincopale in un arco di tempo di 26 anni; nei nostri
Ospedali la sincope rappresenta il 3% delle presentazioni, e nel 25 % dei casi si manifesta una recidiva.
La sincope colpisce tutte le età, con un’incidenza progressivamente crescente con il passare del tempo. La
ricorrenza della sincope è molto frequente, stimata al 30% della popolazione che già ne ha sofferto.

CLASSIFICAZIONE

La sincope è una fra le transitorie perdite di coscienza. Una adeguata classificazione deve prendere in
considerazione anche quelle affezioni che possono mimare la sincope, per poter avviare una adeguata
diagnosi differenziale. Queste situazioni vengono spesso indicate come “syncope like” La sincope può
essere classificata come segue.

 Neuromediata: vasovagale, situazionale, sindrome da ipersensibilità del seno carotideo, nevralgia


glossofaringea e trigeminale
 Ipotensione ortostatica: disautonomia, farmaci, deplezione di volume
 Aritmica
 Cardiopatia strutturale: cardiopatia ischemica, cardiomiopatie , cardiopatie con ostruzione all’efflusso
 Cerebrovascolare: furto della succlavia

Syncope like

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Epilessia generalizzata

 Sincope psicogena: attacchi di panico, ansia generalizzata


 Ipossiemia acuta transitoria: intossicazione da CO, esposizione a base concentrazioni di ossigeno

La sincope neuromediata è la forma più comune, e consegue ad un riflesso che può essere scatenato da
molteplici fattori (odori, dolore, emozioni, vista di episodi sgradevoli, prolungata stazione eretta). In genere
si accompagna ad un insieme di sintomi (nausea e/o vomito, pallore, sudorazione) la cui presenza permette
un alto grado di sospetto.
La sincope da ipersensibilità del seno carotideo (SSC), frequente nella popolazione anziana, è caratterizzata
dal fatto che uno stimolo anche lieve, portato nella zona del seno carotideo (massaggio del seno carotideo
– MSC) diventa efficiente nel provocare la sintomatologia. Questo ha un’evidente corrispondenza in clinica
nella comparsa degli episodi spontanei.
La sincope situazionale, più frequente nel giovane, permette una diagnosi di certezza solo su base
anamnestica (minzione, defecazione, deglutizione).
Marker diagnostico di tutte le forme neuromediate, quando esse sono colte dall’osservatore o provocate in
laboratorio durante il tilt test o il MSC, è la presenza di bradicardia e/o ipotensione da vasodilatazione, con
differente prevalenza dei due aspetti patogenetici
La sincope ortostatica è comune, e si manifesta a seguito dell’assunzione della posizione eretta. Può essere
accompagnata da sintomi che esprimono la riduzione più o meno rapida della pressione arteriosa in
ortostatismo (sensazione di testa vuota, vertigine, astenia) con recupero della sensazione di benessere alla
riassunzione della posizione seduta o distesa. Una disfunzione autonomica deve essere sospettata
nell’anziano, associata o meno a sintomi di malattie sistemiche (amiloidosi e diabete) o neurologiche
degenerative (Morbo di Parkinson). Altre cause sono l’uso di farmaci ipotensivi o di diuretici e alcune
malattie endocrine (Ipocorticosurrenalismo primitivo o secondario).
Le aritmie cardiache sono causa di sincope quando inducono un’eccessiva bradicardia o tachicardia.
Entrambi i fenomeni provocano la caduta della gittata cardiaca e quindi della perfusione cerebrale. Le
bradicardie secondarie a disfunzione del nodo del seno (sick sinus sindrome) e quelle legate a disturbi della
conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 40), sono le più frequenti, seguite dalle tachicardie ventricolari
(vedi Capitolo 39). La perdita di coscienza si può verificare all’inizio dell’aritmia o alla fine, quando
interrompendosi improvvisamente il ritmo anomalo, si registra una pausa prolungata che precede il
recupero del ritmo normale.
La sick sinus syndrome (SSS) esprime una combinazione di bradicardia (sinusale, pause sinusali, blocchi
senoatriali ) e di tachicardia, in genere flutter o fibrillazione atriale. I periodi di bradiaritmia sono
considerati più frequentemente in causa nella patogenesi della sincope. I disturbi della conduzione AV
possono esser causa di sincope. Si deve dare poca importanza al blocco AV di I grado e a quello di II grado
tipo Mobitz I (Wenckebach), mentre più frequente è la sincope in corso di blocco AV di II grado tipo Mobitz
II o di blocco AV di III grado.
La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo 39) è una frequente causa di sincope.
La sindrome del QT lungo congenita o acquisita (vedi Capitolo 42) favorisce la comparsa di una tachicardia
ventricolare a torsione di punta, specialmente in associazione a periodi di bradicardia o in concomitanza di
ipokaliemia. La tachicardie sopraventricolari sono di rado causa di sincope, solo quando si associano a bassa
gittata; in genere i soggetti anziani sono quelli che presentano più frequentemente la sincope in corso di
tachicardia sopraventricolare .
La malattie cerebrovascolari sono cause rare di sincope. In particolare il furto della succlavia (vedi Capitolo
53) provoca, in condizione critiche, una ipoperfusione a livello del circolo cerebrale posteriore che rientra

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317 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

fra gli attacchi ischemici transitori.


Le situazioni raggruppate sotto la dizione “syncope like” comprendono un’ampia varietà di condizioni
morbose, che vanno da crisi epilettiche generalizzate non convulsive associate a ipotonia muscolare
(attacchi di piccolo male), a episodi critici in corso di ansia generalizzata (crisi di panico), a disturbi del
sonno, a episodi di amnesia globale transitoria. Alcune di queste evenienze sono di facile diagnosi, se
accadono in presenza di testimoni che possono descrivere il comportamento dei paziente, ma sono di
difficile inquadramento quando il paziente ne soffre senza che alcuno sia presente all’episodio critico.

DIAGNOSI

L’obiettivo primario della strategia diagnostica è definire il profilo di rischio del paziente: l’obiettivo
fondamentale a cui devono mirare le indagini è l’esclusione di una patologia cardiaca. Quando questa possa
essere esclusa, l’identificazione della causa della sincope permetterà di mettere in atto una serie di
provvedimenti che migliorino la qualità di vita e riducano la morbilità associata. Una volta esclusa la
patologia aritmica (bradicardie o tachicardie critiche), il medico ha a che fare con una sincope anamnestica.
E’ quindi necessario un algoritmo diagnostico che miri alla individuazione delle cause cardiogene e, una
volta escluse queste, alla ricerca di altre malattie.
L’anamnesi è il momento diagnostico più importante poiché permette la diagnosi in oltre il 70% dei casi,
specialmente quando essa può essere confermata da un testimone. Nella pratica clinica, occorre richiedere
al paziente di concentrarsi e descrivere l’ultimo evento critico, poiché si presuppone che esso sia più
facilmente riferibile, e successivamente valutare e confrontare con l’ultimo gli episodi precedenti. Alcuni
elementi sono fortemente indicativi per la diagnosi: si devono valorizzare precedenti patologici quali la
presenza di cardiopatia, di malattie del sistema nervoso centrale, (per esempio, malattia di Parkinson,
epilessia), di morte improvvisa nella famiglia, della recente assunzione di farmaci, di malattie psichiatriche.
Successivamente si deve ricercare la presenza dei sintomi e segni elencati nella Tabella I come post critici,
critici e pre critici in relazione al periodo di comparsa.
Nel dare un peso ai sintomi e ai segni rilevabili durante la raccolta dell’anamnesi si deve ricordare che nelle
forme ospedalizzate la sincope neuromediata giustifica il 66% delle osservazioni, la forma cardiogena ne
comprende l’11% e le forme sincope-like rappresentano il 6% della casistica. La perdita di coscienza in
soggetto con età superiore a 54 anni, con meno di due episodi, in associazione a palpitazioni orienta per
una forma cardiogena, mentre l’associazione di nausea, sudorazione, visione confusa o sensazione di testa
vuota che precedono o seguono la sincope è indicativo di una forma neuromediata. La sincope cardiogena
appare molto probabile quando vi è rilievo anamnestico di cardiopatia, mentre l’assenza di cardiopatia
anamnestica esclude la sincope cardiogena nel 97% dei pazienti.

STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO

La sincope cardiogena è la prima diagnosi da confermare o escludere poiché può essere annunciatrice di
morte o di gravi complicanze. E’ quindi necessario per ogni paziente definire il profilo di rischio, cioè la
probabilità di essere affetto da una malattia potenzialmente letale.
I due più forti indicatori di sincope cardiogena
sono l’anamnesi di cardiopatia strutturale e l’ECG patologico. La registrazione dell’elettrocardiogramma
tradizionale a 12 derivazioni è troppo breve per potere cogliere aritmie significative, ma fornisce
informazioni sul ritmo e sulla conduzione AV. La bradicardia sinusale, l’intervallo PR prolungato (blocco A-V
di I grado) o la presenza di un blocco di branca aumentano la possibilità di una disfunzione sinusale o di un
blocco atrio-ventricolare intermittente (vedi Capitolo 40) da cui la sincope può dipendere. L’esame del
complesso QRS può permettere di identificare un’onda delta, indice di una via accessoria (vedi Capitoli 3 e
38) e di una sindrome di Wolff-Parkinson-White, potenzialmente responsabile della sincope. Le malattie
genetiche classificate oggi come canalopatie o malattie dei canali ionici (Sindrome del QT lungo e Sindrome
di Brugada, vedi Capitolo 42), possono essere identificate con l’ECG, come anche, in alcuni casi, la
cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro o altre cardiomiopatie; anche i segni di necrosi

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318 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

miocardica, indicativi di un pregresso infarto, vengono rivelati dall’ECG. In tutte queste condizioni, la
sincope può essere provocata da una tachicardia ventricolare.

ITER DIAGNOSTICO SUCCESSIVO ALLA SINCOPE

In assenza di cardiopatia strutturale e di pregresse aritmie si deve considerare fortemente sospetta la


forma neuromediata (nei giovani) o da ipotensione ortostatica (negli anziani). In questi casi l’indagine
diagnostica di scelta è il tilt test (test all’ortostatismo passivo), eseguito ponendo il soggetto su un letto che
viene poi inclinato, in modo che la persona assuma una posizione ortostatica, con i piedi che poggiano su
un’apposita pedana. Quando un essere umano sta in piedi, muove necessariamente le gambe, e la
contrazione dei muscoli (pompa muscolare) favorisce il ritorno venoso al cuore. Quando, invece,
l’ortostatismo viene mantenuto passivamente per un certo tempo (in genere da 40 minuti a un’ora), si
verifica un sequestro di sangue negli arti inferiori, e il ritorno venoso si riduce. I ventricoli, perciò, si
contraggono mentre sono relativamente vuoti di sangue, e la portata cardiaca tende a diminuire: ciò
provoca un incremento reattivo del tono simpatico, che aumenta la contrattilità ventricolare; la vigorosa
contrazione dei ventricoli che contengono poco sangue stimola i meccanocettori delle pareti ventricolari,
generando un riflesso vagale che esita infine in bradicardia e ipotensione indotta dalla vasodilatazione
arteriolare. Questi meccanismi (cardioinibizione e vasodepressione) possono indurre la sincope, che può
essere cardioinibitoria, vasodepressiva o mista, a seconda della prevalenza di una componente sull’altra. Il
tilt test è positivo per sincope neuromediata quando si verifica una perdita di coscienza o comunque una
condizione di pre-sincope associata a bradicardia e ipotensione; di contro l’ipotensione ortostatica viene
diagnosticata per la presenza di ipotensione senza bradicardia. La perdita di coscienza durante tilt test in
assenza di modificazioni significative della pressione arteriosa e/o della frequenza cardiaca invece, indica
una sincope psicogena.
Anche il massaggio del seno carotideo, manovra che induce una stimolazione vagale riflessa, trova
indicazione nei casi di sincope senza dimostrata cardiopatia strutturale, quando i dati anamnestici orientino
verso la diagnosi di sincope senocarotidea (sincope che fa seguito a bruschi movimenti del collo).
Teoricamente la manovra dovrebbe essere condotta in posizione semi-ortostatica per valutare sia la
risposta cardioinibitoria, che quella vasodepressiva, ma in pratica il test viene eseguito in posizione distesa,
valorizzando solo la risposta cardioinibitoria, che viene considerata patologica quando l’intervallo fra due
battiti cardiaci supera 3,5 secondi .
L’Ecg da sforzo raramente trova indicazione nell’iter diagnostico della sincope, a meno che la
sintomatologia non abbia una stretta correlazione con l’attività fisica. In questi casi esiste la possibilità di
una patologia dell’efflusso dal ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, vedi Capitolo 28)
che in genere è evidenziata con l’ecocardiogramma, ma esiste anche la possibilità di una cardiopatia
ischemica o di una malattia disautonomica.
La registrazione ambulatoriale dell’ECG (Holter-24 ore) viene spesso utilizzata in pazienti con sincope per
cogliere aritmie potenzialmente pericolose (tachicardia ventricolare sostenuta o non sostenuta,
asintomatica o sintomatica, bradicardia paucisintomatica). Se gli episodi sincopali sono rari, è possibile
utilizzare registratori che il paziente porta per periodi più lunghi di 24-48 ore. Esistono i “loop-recorder”
esterni che permettono la registrazione dell’elettrocardiogramma per diversi giorni e quelli impiantabili
sottocute, che possono arrivare a registrare fino a 18 mesi di attività cardiaca. Nelle sincopi la cui causa
rimane indeterminata alla fine del percorso diagnostico standard, il loop recorder impiantabile permette di
giungere alla diagnosi fino al 43% dei casi.
L’ecocardiogramma (vedi Capitolo 4) e l’esame Doppler dei tronchi sopraortici (vedi Capitolo 12)
permettono di individuare cardiopatie strutturali (per esempio, stenosi aortica, mixoma atriale) o anomalie
vascolari che giustifichino la sincope.
Lo studio elettrofisiologico (SEF, vedi Capitolo 60) valuta la funzione del nodo sinusale, la conduzione AV e
la suscettibilità a sviluppare tachicardie sopraventricolari o ventricolari.
Le malattie neurologiche, syncope like (vedi classificazione), richiedono accertamenti orientati e specifici.
Esse sono sospettate sulla base di sintomi focali che precedono o accompagnano la perdita di coscienza

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319 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(aura, parestesie, diplopia, disartria). I test da utilizzare in questi casi sono indagini neurologiche di tipo
funzionale (Elettroencefalogramma) e di imaging (TC ed RM dell’encefalo).

CENNI DI TERAPIA
A stretto rigore di termini dobbiamo parlare di prevenzione delle recidive sincopali piuttosto che di terapia
della sincope. I nostri sforzi sono diretti a prevenire nuovi episodi sincopali trattando la malattia e i
meccanismi patogenetici che sottendono la sincope.
La sincope neuromediata o vasovagle, di gran lunga la forma più frequente, ha poche possibilità di
un’efficace prevenzione. Molti sono infatti i fattori scatenanti che devono essere individuati ed evitati. Il
paziente deve essere educato ad evitare tutte le condizioni favorenti e scatenanti il riflesso
patogeneticamente efficiente, come gli ambienti affollati, i luoghi con temperatura eccessiva, le condizioni
fisiche e farmacologiche che favoriscono la disidratazione e l’ipovolemia. Egli dovrà essere sensibilizzato al
riconoscimento dei sintomi premonitori e dovrà conoscere le manovre che sono in grado di far abortire la
crisi sincopale, prima fra tutte il mettersi in posizione supina non appena egli avverte i sintomi premonitori.
Il soggetto deve essere rassicurato sulle sue condizioni di salute e reso edotto della benignità dell’evento di
cui ha sofferto e della possibilità di una recidiva, al fine di evitare gli aspetti psicologici, come ansia e
depressione, che possono accompagnare uno o più episodi sincopali. In caso di sincope vasovagale
ricorrente e in pazienti molto motivati, la prescrizione di periodi prolungati di postura eretta od altre
manovre fisiche specificamente orientate possono essere utili nel ridurre gli episodi ricorrenti. Scarsa
indicazione trovano oggi, alla luce delle esperienze attuali, i numerosi farmaci che sono stati proposti in
passato quali i (-bloccanti e i vasocostrittori.
L’impianto di un pacemaker si è dimostrato efficace nella Sindrome del seno carotideo cardioinibitoria, di
cui è ormai diventato il trattamento di scelta. Lo stesso non si può dire per la sincope vasovagale, che è
stata oggetto di numerosi trial in cui il braccio terapeutico efficace era rappresentato da un pacemaker.
Dopo alcuni studi condotti su popolazioni limitate di pazienti e non in doppio cieco, è stata dimostrata la
non superiorità del trattamento con pacemaker rispetto al placebo. L’efficacia dei pacemaker, invece, è
dimostrata in tutte le forme da disfunzione del nodo sinusale o da blocco AV (vedi Capitolo 40).
Le tachicardie parossistiche sopraventricolari hanno indicazione all’uso di farmaci antiaritmici, ed in realtà
molte se ne giovano, anche se transitoriamente. L’uso sempre più diffuso delle tecniche di ablazione
transcatetere (vedi Capitolo 60) ha permesso il successo anche nei casi non sensibili ai farmaci, evitandone
gli effetti collaterali e rendendo permanente l’efficacia della terapia.
Quando è la tachicardia ventricolare a indurre la sincope, trova indicazione il trattamento farmacologico o
l’impiego di specifici device. I farmaci antiaritmici di Classe I (vedi Capitolo 58) non sono indicati per il loro
effetto inotropo negativo; l’amiodarone è invece il farmaco di scelta per la virtuale assenza di effetti
inotropi negativi. In alternativa, si può impiegare il defibrillatore impiantabile
(ICD, implantable cardioverter defibrillator), che riconosce la tachicardia e la fibrillazione ventricolare e la
tratta con uno shock elettrico in grado di interromperla (vedi Capitolo 43).

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320 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 43
MORTE CARDIACA IMPROVVISA
Lia Crotti, Peter J. Schwartz

DEFINIZIONE

Definizione
Con il termine “morte cardiaca improvvisa” si intende il decesso per cause naturali di origine cardiaca che
consegua ad una improvvisa perdita di coscienza entro un’ora dall’esordio dei sintomi. I soggetti possono
anche essere cardiopatici noti, ma la modalità e il momento dell’insorgenza della perdita di coscienza
devono essere inattesi.

EPIDEMIOLOGIA

Epidemiologia
Negli Stati Uniti la morte cardiaca improvvisa è all’origine di 300000-400000 vittime all’anno e nei paesi
industrializzati è la causa di morte più frequente per i soggetti in età produttiva (20-65 anni), in particolare
di sesso maschile. Nella stragrande maggioranza dei casi la morte cardiaca improvvisa è dovuta ad una
tachiaritmia fatale (fibrillazione ventricolare primaria o tachicardia ventricolare degenerante in fibrillazione
ventricolare). Nel 10-15% dei casi la causa è un’asistolia (assenza del battito cardiaco); più raramente una
dissociazione elettro-meccanica (presenza di attività elettrica in assenza di contrazione efficace del cuore).
La patologia coronarica è senz’altro la causa più frequente di morte cardiaca improvvisa e per tale motivo
sia la distribuzione sia i principali fattori di rischio sono comuni alle due condizioni.
L’incidenza della morte cardiaca improvvisa mostra un ritmo circadiano con una prevalenza tra le ore 6 del
mattino e mezzogiorno. Questo ritmo circadiano è molto simile a quello osservato per l’insorgenza di altri
eventi cardiaci acuti quali l’infarto del miocardio e l’ischemia miocardica transitoria. Anche se il
meccanismo di questo picco mattutino non è noto con certezza, è verosimile che dipenda almeno in parte
dall’aumento di attività simpatica che compare al risveglio. Infatti, nelle prime ore del mattino si osserva un
aumento del tono vasocostrittore coronarico, della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, delle
catecolamine plasmatiche e dell’adesività piastrinica. Esistono due picchi di incidenza della morte
improvvisa; il primo nei primi sei mesi di vita (Sudden Infant Death Syndrome o SIDS) e il secondo tra i 45 e
75 anni di età. Poiché la morte cardiaca improvvisa nel primo anno di vita riconosce meccanismi
fisiopatologici diversi rispetto alla morte improvvisa dell’adulto, alla sua trattazione è riservato un
paragrafo a parte.

FISIOPATOLOGIA

Fisiopatologia
La genesi della morte cardiaca improvvisa coinvolge una serie di fattori con ruoli diversi. Un modello
efficace di morte cardiaca improvvisa prevede l’esistenza di un substrato miocardico, di fattori scatenanti e
di fattori modulanti o favorenti che interagiscono a causare la tachicardia o fibrillazione ventricolare (la
causa più frequente di arresto cardiaco).
Con il termine substrato si intende la presenza di alterazioni strutturali o elettriche cardiache che
favoriscono il rischio aritmico: 1) alterazioni strutturali possono ad esempio essere rappresentate da una
cardiopatia congenita, da alterazioni conseguenti alla ipertrofia o alla fibrosi miocardica, che possono ad
esempio seguire ad un infarto del miocardio; 2) alterazioni elettriche sono tipicamente quelle presenti in
cardiopatie aritmogene ereditarie, legate a difetti di canali ionici cardiaci, quali la Sindrome del QT Lungo o
la Sindrome di Brugada (vedi Capitolo…).
Un fattore scatenante importante è costituito, ad esempio, da un episodio ischemico acuto. La frequente
assenza, nei vasi coronarici esaminati all’autopsia, di lesioni occlusive sottolinea la possibilità che a
scatenare l’episodio di arresto cardiaco sia una ischemia miocardica solo transitoria. In accordo con questa

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321 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ipotesi è il fatto che solo una minoranza dei soggetti risuscitati dopo arresto cardiaco sviluppa un infarto del
miocardio.
Con il termine “fattore modulante” si intende un fattore variabile nel tempo, che possa in talune
circostanze presentarsi con caratteristiche tali da favorire l’insorgenza, la perpetuazione o la degenerazione
di un’aritmia ventricolare minacciosa. Esempi tipici sono rappresentati dalla presenza di alterazioni
elettrolitiche quali l’ipopotassiemia. Altre possibilità sono costituite da situazioni transitorie di ipossia o di
acidosi o dall’utilizzo di farmaci con potenziale effetto proaritmico. Un posto di primaria importanza
nell’ambito dei fattori modulanti spetta al sistema nervoso autonomo. Numerosi studi sperimentali hanno
indicato l’effetto sfavorevole rappresentato da una eccessiva attivazione simpatica nella genesi delle
aritmie ventricolari maligne, in particolare in occasione di ischemia miocardica acuta. Una eccessiva
attivazione adrenergica esercita una serie di effetti sfavorevoli sia nel senso di un aumento della gravità
dell’ischemia (per aumento del consumo di ossigeno e delle resistenze coronariche) sia di un aumento della
probabilità di aritmie. Ciò si verifica per una facilitazione sia delle aritmie da rientro (favorite dalla riduzione
della refrattarietà ventricolare) sia di aritmie scatenate da un alterato automatismo (vedi Capitolo…).
L’attivazione parasimpatica si è dimostrata in grado di antagonizzare efficacemente gli effetti sfavorevoli di
una aumentata attività adrenergica. Questi concetti hanno trovato applicazione nella pratica clinica, grazie
all’utilizzo di indici autonomici, quali la sensibilità barocettiva e la variabilità della frequenza cardiaca, che si
sono dimostrati di estrema utilità per la stratificazione del rischio nel post-infarto e per l’individuazione dei
pazienti a maggior rischio di morte cardiaca improvvisa (vedi Capitolo…).

PRINCIPALI CONDIZIONI PATOLOGICHE ASSOCIATE A MORTE CARDIACA IMPROVVISA

Principali condizioni patologiche associate a morte cardiaca improvvisa


La cardiopatia ischemica è responsabile di circa l’80% delle morti improvvise nei paesi occidentali e le
cardiomiopatie si rendono responsabili di un altro 10-15%. Tuttavia, la completa comprensione della morte
cardiaca improvvisa richiede il riconoscimento di altre cause, che sebbene più rare, sono importanti, da una
parte, per una miglior comprensione delle basi fisiopatologiche della morte improvvisa e dall’altra, per la
possibilità di agire a livello preventivo attraverso l’attuazione di adeguate misure terapeutiche. Tra l’altro
molte di queste “entità minori” sono tra le principali cause di morte improvvisa in adolescenti e giovani
adulti in cui è molto più bassa la prevalenza della aterosclerosi coronarica.
Ci sono inoltre dei casi in cui la causa della morte cardiaca improvvisa o della fibrillazione ventricolare
resuscitata non riesce ad essere identificata e si parla quindi di “Fibrillazione Ventricolare Idiopatica”. A
cinque anni di follow-up questi pazienti hanno un rischio del 30% di avere un nuovo arresto; per tale
motivo esiste un’indicazione assoluta all’impianto del defibrillatore automatico, un apparecchio simile ad
un pace-maker, ma in grado di riconoscere e trattare attraverso shock elettrico le aritmie ventricolari
maligne.

Cardiopatia ischemica
Circa il 5% dei pazienti che giungono vivi in ospedale con un infarto miocardio acuto, ha un episodio di
fibrillazione ventricolare (FV) nelle prime 24 ore successive all’infarto. In generale l’occorrenza dell’episodio
di fibrillazione ventricolare non è giustificata né dall’estensione particolarmente importante dell’infarto né
dalle condizioni di particolare compromissione della funzione ventricolare sinistra. Da cosa dipenda questa
predisposizione a rispondere all’ischemia miocardica acuta con aritmie fatali è uno dei problemi maggiori
ancora irrisolti della cardiologia contemporanea. Il “Paris Prospective Study”, uno studio condotto su oltre
7500 dipendenti pubblici ha dimostrato che la morte cardiaca improvvisa di uno dei due genitori aumenta il
rischio relativo di tale evenienza nel soggetto di circa due volte e addirittura di nove volte se entrambi i
genitori sono morti improvvisamente. Due recenti studi clinici hanno confermato che la storia familiare di
morte cardiaca improvvisa è il principale predittore di FV durante la fase acuta di un infarto del miocardio,
supportando l’ipotesi che esista una predisposizione, almeno in parte geneticamente trasmessa, ad una
aumentata instabilità elettrica che possa favorire l’insorgenza di FV in presenza di un appropriato substrato
clinico.
I pazienti sopravvissuti ad un infarto del miocardio sono quelli studiati più a fondo in senso prognostico, in

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quanto è stato facile rendersi conto che molti di essi muoiono improvvisamente e che l’incidenza massima
di questo evento è nel primo anno successivo all’infarto. Diversi sono i fattori di rischio che sono stati
identificati, quali la riduzione della frazione di eiezione, la presenza di frequenti battiti ectopici ventricolari,
un intervallo QT costantemente prolungato ed un episodio di FV nella fase acuta di un infarto a sede
anteriore. Negli ultimi anni sono aumentati i dati che indicano uno stretto rapporto tra morte improvvisa e
sistema nervoso autonomo. In particolare nei pazienti con infarto del miocardio uno squilibrio autonomico
caratterizzato da una ridotta attività vagale e da una aumentata attività simpatica si associa in modo
significativo ad un aumento della mortalità cardiaca e di quella improvvisa. I parametri clinici più utilizzati
per valutare il profilo autonomico sono la variabilità della frequenza cardiaca e la sensibilità barocettiva,
che si è rivelata predittiva anche nei soggetti con frazione di eiezione conservata e anche oltre i 65 anni
(vedi Capitolo…).
Dall’insieme di queste considerazioni dovrebbe essere chiaro che un notevole progresso è stato fatto nella
identificazione di quei soggetti che, dopo un infarto del miocardio, sono ad alto rischio di morte improvvisa.
E’ anche chiaro però che stiamo parlando di morti improvvise non totalmente inattese.
Da un punto di vista pratico il problema dell’identificazione dei soggetti a rischio di morte improvvisa
rimane molto complesso. Infatti, non si può prescindere dal numero totale di eventi e dalla popolazione di
pazienti nei quali tali eventi si verificano. Se è vero che vi sono dei gruppi di pazienti, ad esempio quelli che
hanno avuto un episodio di tachicardia o FV dopo un infarto miocardico, con un rischio molto alto di morte
cardiaca improvvisa, è anche vero che il contributo in termini assoluti al numero totale delle vittime di
morte improvvisa è relativamente modesto. E’ infatti nella popolazione non selezionata, nella quale
l’incidenza di morte cardiaca improvvisa è estremamente ridotta (1-2 per mille per anno), che si verifica il
numero maggiore di eventi. In questi soggetti la morte improvvisa rappresenta generalmente la prima
manifestazione della malattia (per lo più coronarica) e si tratta quindi di morte cardiaca improvvisa
totalmente inattesa.

Cardiomiopatie
Tre sono le principali cardiomiopatie che si associano al rischio di morte improvvisa:

 Cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…). E’ una malattia del miocardio caratterizzata da dilatazione e
da compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli. La
cardiomiopatia dilatativa è rappresentata in prevalenza da forme primitive, ad etiologia non nota, le
cosiddette forme idiopatiche. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il sesso maschile fra la
terza e la quinta decade di vita. La morte improvvisa è responsabile di circa la metà delle morti dei
pazienti con questa patologia; tuttavia, tende a manifestarsi più tardivamente, quando sono spesso già
presenti sintomi da compromissione emodinamica.
 Cardiomiopatia ipertrofica (vedi Capitolo…). E’ una patologia primitiva del muscolo cardiaco, a
trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da un’ipertrofia ventricolare sinistra e/o destra di
eziologia ignota, associata ad un aspetto istologico di disorganizzazione (disarray) delle fibrocellule
miocardiche. Tipicamente l’ipertrofia è asimmetrica ed il setto interventricolare è il distretto più
frequentemente interessato. Nel 70% circa dei casi la cardiomiopatia ipertrofica riconosce un andamento
familiare e sono stati identificati una serie di geni, codificanti per proteine del reticolo sarcoplasmatico,
alla base della malattia. In questa patologia il rischio di aritmie ventricolari maligne è elevato e la morte
improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia. La cardiomiopatia ipertrofica è la prima
causa di morte improvvisa negli atleti al di sotto dei 35 anni di età.
 Cardiomiopatia-Displasia aritmogena del ventricolo destro. E’ una patologia primitiva del muscolo
cardiaco, caratterizzata da sostituzione fibroadiposa dei miocardiociti, che tipicamente interessa il
ventricolo destro e può successivamente andare ad interessare anche il ventricolo sinistro. Nel 30-50%
dei casi tale patologia sembra avere una distribuzione familiare, con modalità di trasmissione di tipo
autosomico dominante. Tale patologia si associa ad un elevato rischio di aritmie ventricolari sostenute,
tipicamente a partenza dal ventricolo destro, che possono anche portare alla morte improvvisa,
frequentemente indotta dall’esercizio fisico. Per tale motivo, specialmente nel Veneto dove questa

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patologia ha un’elevata prevalenza, essa rappresenta una delle principali cause di morte improvvisa nei
giovani atleti.

Patologie valvolari
Se non trattata chirurgicamente, la stenosi valvolare aortica severa (vedi Capitolo…) si associa ad un elevato
rischio di morte cardiaca improvvisa. Dopo sostituzione valvolare, l’incidenza di morte improvvisa si riduce
moltissimo, tuttavia permane, data la possibilità di disfunzioni protesiche, aritmie o coesistenza di
coronaropatia.
E’ tuttora controverso se il prolasso della valvola mitrale (vedi Capitolo…) si correli con un incremento del
rischio di morte improvvisa. Considerata l’alta prevalenza di prolasso mitralico, è verosimile che il rilievo
anatomopatologico di prolasso nei soggetti deceduti improvvisamente rappresenti una coincidenza casuale
più che una condizione causale. Tuttavia, se il prolasso è complicato da insufficienza mitralica significativa,
disfunzione ventricolare sinistra o degenerazione mixomatosa della valvola, il rischio di eventi
tromboembolici, endocardite infettiva e morte improvvisa aumenta notevolmente.

Cardiopatie aritmogene ereditarie


Le cardiopatie aritmogene ereditarie, sono un gruppo di patologie geneticamente trasmesse che si
associano ad un rischio di morte cardiaca improvvisa per lo più in giovane età. In queste patologie il cuore
risulta strutturalmente normale, ma sono presenti difetti a carico di canali ionici cardiaci che favoriscono la
genesi di aritmie ventricolari maligne. Si riconoscono quattro principali cardiopatie aritmogene ereditarie:

 Sindrome del QT Lungo (LQTS). E’una cardiopatia a trasmissione per lo più autosomica dominante,
caratterizzata da un prolungamento dell’intervallo QT all’ECG di superficie (QTc>440 msec) e da un
elevato rischio di aritmie ventricolari maligne che tendono a manifestarsi più frequentemente in giovane
età e che sono tipicamente indotte da stress fisici od emotivi. Date le caratteristiche della LQTS, il caso
tipico non presenta particolari difficoltà dal punto di vista della diagnosi per il medico che ha familiarità
con questa malattia. Tuttavia, i casi borderline sono più complessi e richiedono l’attenta valutazione di
più variabili, oltre ovviamente all’anamnesi e all’intervallo QT, quali la storia familiare, le anomalie
morfologiche dell’onda T e la variabilità dell’intervallo QT durante le 24 ore e a seguito di test quali il test
ergometrico e quello all’iperventilazione. Lo screening molecolare è ormai un componente importante
del processo diagnostico, specialmente per i casi borderline. Tuttavia è bene ricordare che circa il 25-30%
di casi indubbi di LQTS sfuggono alla diagnosi molecolare. Un’area in cui lo screening molecolare dà un
apporto importante ed unico è nella diagnosi dei familiari con QT normale. Esistono tre varianti genetiche
principali di Sindrome del QT Lungo, pur essendo ad oggi noti ben 10 geni alla base della malattia. Nella
variante LQT1, dovuta a difetti sul gene KCNQ1, la maggior parte degli eventi si manifestano in condizioni
di stress fisico ed il nuoto è un’attività particolarmente rischiosa. In questi pazienti la terapia beta-
bloccante è estremamente efficace. I pazienti LQT2 hanno la maggior parte dei loro eventi in condizioni di
stress emotivo e tipicamente a seguito di rumori improvvisi specie se al risveglio; in questo sottogruppo
genetico l’efficacia dei beta-bloccanti è buona. I pazienti LQT3 sono quelli di più difficile gestione. Essi
hanno mutazioni sul gene SCN5A e la maggior parte dei loro eventi avviene a riposo o durante il sonno. La
terapia beta-bloccante è solo parzialmente efficace e spesso si devono considerare misure terapeutiche
aggiuntive quali il bloccante del sodio mexiletina, la denervazione simpatica cardiaca di sinistra o
l’impianto del defibrillatore. La morte improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia in un
10-12% dei casi di Sindrome del QT Lungo ed in uno studio recente mutazioni responsabili della LQTS
sono state identificate in ben il 20% delle morti improvvise di giovani con autopsia negativa (9). Poiché in
questa malattia esiste una terapia (farmaci beta-bloccanti) in grado di ridurre significativamente il rischio
di aritmie fatali, non vi sono giustificazioni per l’esistenza di pazienti sintomatici senza diagnosi.
 Sindrome del QT Corto. E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica dominante di recente descrizione.
E’ caratterizzata dalla presenza di un intervallo QT corto all’ECG di superficie (QTc<340 msec) e da un
elevato rischio di aritmie ventricolari maligne. Purtroppo nessuna terapia farmacologia si è dimostrata

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fino ad ora in grado di ridurre in maniera significativa il rischio aritmico, pertanto l’impianto di un
defibrillatore rimane per il momento l’opzione di scelta per la prevenzione della morte improvvisa.
 Sindrome di Brugada. E’ una cardiopatia caratterizzata all’ECG da un’onda terminale positiva larga (onda
J), che simula un blocco di branca destra completo o incompleto, e da un sopraslivellamento del tratto ST
da V1 a V3. Questa patologia si associa ad un significativo rischio di morte improvvisa, che avviene
tipicamente nel sonno o in condizioni di riposo. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il
sesso maschile fra la terza e la quinta decade di vita. Anche in questo caso l’unico strumento di
prevenzione della morte improvvisa è l’impianto del defibrillatore, che viene riservato a quei pazienti con
un elevato profilo di rischio (pregresso arresto cardiaco o sincope di verosimile origine aritmica, pattern
diagnostico spontaneo con inducibilità di aritmie ventricolari maligne allo studio elettrofisiologico,
familiarità per morte improvvisa)
 Tachicardia Ventricolare Catecolaminergica (CPVT). E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica
dominante caratterizzata dallo sviluppo di tachicardie ventricolari polimorfe, tipicamente bidirezionali,
che possono degenerare in fibrillazione ventricolare e quindi morte improvvisa. Le aritmie sono
tipicamente indotte dall’esercizio fisico, pertanto per fare una diagnosi corretta è necessario effettuare
un test ergometrico od un ECG Holter delle 24 ore, mentre l’ECG di base è solitamente normale. Da uno
studio è emerso che mutazioni responsabili della CPVT sono state identificate nel 15% delle morti
improvvise di giovani con autopsia negativa. Anche per questa malattia esiste una terapia (beta-
bloccante) in grado di ridurre il rischio di aritmie fatali. Se la terapia beta-bloccante non è sufficiente sono
disponibili misure terapeutiche aggiuntive come la denervazione simpatica cardiaca di sinistra ed
eventualmente l’impianto del defibrillatore.

Cardiopatie Congenite
Un aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa è stato descritto fondamentalmente in quattro
condizioni, e cioè nella tetralogia di Fallot, nella trasposizione delle grandi arterie, nella stenosi aortica e
nell’ostruzione vascolare polmonare (vedi Capitolo…). Il rischio persiste dopo l’intervento cardiochirurgico
ed è presente anche nell’ipertensione polmonare primitiva e secondaria. Nella tetralogia di Fallot la durata
del QRS si correla con le dimensioni del ventricolo destro e con il rischio di morte improvvisa.

Altre patologie cardiovascolari


Altre patologie cardiovascolari che possono associarsi al rischio di morte improvvisa sono l’embolia
polmonare (vedi Capitolo…), la dissezione aortica (vedi Capitolo…), e tutti quei processi infiammatori,
infiltrativi, neoplastici e degenerativi che possono interessare il miocardio. Alcuni esempi sono
rappresentati dall’amiloidosi, dalla sarcoidosi dall’emocromatosi e da tutte le possibili diverse forme di
miocardite.

SIDS
Il termine “Sudden Infant Death Syndrome” (SIDS) identifica una morte improvvisa nel primo anno di vita
che risulta inaspettata in base alla storia clinica del soggetto ed in cui l’esame autoptico non riesce a
dimostrare un’adeguata causa di morte. La SIDS è la principale causa di morte infantile nei paesi occidentali
e colpisce circa 1 bambino ogni 2000 nati vivi. Esistono diverse ipotesi riguardo la genesi della SIDS, le due
più accreditate sono la teoria respiratoria e quella cardiaca. Già negli anni settanta era stato ipotizzato che
alcuni casi SIDS fossero legati a fibrillazione ventricolare ed era stato proposto che la Sindrome del QT
Lungo potesse essere responsabile di alcuni di questi casi. Questa ipotesi venne supportata dai risultati di
uno studio prospettico su 34442 neonati dimostranti che i neonati con un QTc > 440 ms avevano un rischio
di SIDS 41 volte superiore a quelli con intervallo QT normale. La dimostrazione finale della validità
dell’ipotesi per cui un certo numero di casi di SIDS può dipendere dalla LQTS è giunta da uno studio
molecolare in oltre 200 casi SIDS ed un simile numero di controlli. E’ emerso che il 10% delle vittime SIDS ha
mutazioni sui geni responsabili per la Sindrome del QT Lungo. Questo dato indica che almeno una parte di

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queste tragedie con devastanti effetti familiari può essere evitata, e pone l’attenzione sulla necessità di
effettuare screening elettrocardiografici nel primo mese di vita, per individuare il più precocemente
possibile pazienti affetti da Sindrome del QT Lungo e potenzialmente a rischio di morte cardiaca
improvvisa, sia nel primo anno di vita che più avanti, se non correttamente diagnosticati e trattati.

Capitolo 44 – non caricato nel sito

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Capitolo 45
L’IPERTENSIONE ARTERIOSA
Massimo Volpe, Sebastiano Sciarretta

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

Definizione ed epidemiologia
Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata da un aumento
anomalo stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli di pressione arteriosa. Tale
aumento riguarda più frequentemente entrambe le pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di
ipertensione caratterizzate da aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata),
condizione più frequente negli anziani, o più raramente solo della diastolica.
In base alle ultime Linee Guida europee sulla gestione clinica del paziente iperteso, la presenza di
ipertensione arteriosa viene definita arbitrariamente da valori di pressione arteriosa > 140 mmHg per
quanto riguarda la pressione sistolica e/o > 90 mmHg per quanto riguarda la pressione diastolica. Sulla base
dei livelli pressori inoltre, la malattia ipertensiva può essere classificata in 3 diversi gradi di severità clinica
(grado I: 140-159/90-99 mmHg; grado II: 160-179/100-109 mmHg; grado III: > 180/>110 mmHg) che, come
è intuibile, possono avere un diverso impatto sulla storia naturale della malattia.
L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad una eziologia
chiaramente identificabile alla base del suo sviluppo, e questa rende conto di oltre il 90% dei casi di
ipertensione arteriosa. Di contro, quando l’aumento dei valori pressori è secondario a disordini d’altra
natura, l’ipertensione arteriosa viene definita “secondaria”.
L’ipertensione arteriosa essenziale è una condizione di enorme rilevanza epidemiologica, pressoché
ubiquitaria nel nostro pianeta. Nella maggioranza dei casi, interessa soggetti adulti con prevalenza
direttamente correlata all’età. Si presume che nel mondo vi siano circa 690 milioni di soggetti attualmente
affetti da ipertensione arteriosa. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma sale ad oltre
il 50% nella popolazione d’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, la prevalenza
d’ipertensione è maggiore nei maschi quando si considerano soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è
uguale tra i 2 sessi per età superiori. In termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone
urbane rispetto a quelle rurali, in particolare nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati,
mentre per quanto riguarda la razza, la prevalenza d’ipertensione è maggiore in quella nera. In base a
queste considerazioni si prevede che entro il 2025 vi saranno nel mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di
ipertesi, con un impatto di gran lunga superiore a qualunque altra condizione in termini di “carico di
malattia”.

EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA

Eziopatogenesi e fisiopatologia
Se l’ipertensione di tipo secondario riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella malattia primitiva a cui è
associata, alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale vi sono molti fattori causali per lo
più non identificati. L’ipertensione arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale,
dove elementi di tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e
metabolici che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i più importanti sono
legati allo stile di vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo stress psichico, l’abitudine tabagica, una
dieta ipersodica ed iperlipidica, ed il frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori genetici
identificati e più probabilmente coinvolti, vanno annoverati invece quelli determinanti una maggiore
attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, un aumento costituzionale del tono adrenergico, un
aumento della risposta vascolare a sostanze vasocostrittrici quali l’endotelina, una ridotta escrezione renale
di sodio ed infine una ridotta sintesi endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…).

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Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle resistenze periferiche per la gittata
cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto della frequenza cardiaca per la gittata sistolica.
Pertanto è proprio sulle resistenze periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che agiscono i
differenti meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze periferiche
sono condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare, così come lo è la frequenza cardiaca,
mentre la gittata sistolica è prevalentemente regolata dalla contrattilità miocardica e dal precarico, a sua
volta correlato alla volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della pressione arteriosa
possono essere distinti in meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi a breve termine
possono essere annoverati i sistemi baro- e chemo-recettoriali, che modificano in pochi secondi il tono
simpatico modulando l’attività cardiaca, il tono arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a medio termine
sono invece quelli di tipo umorale mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-aldosterone,
dalla vasopressina e dal sistema delle chinine. Il rene è invece deputato al controllo a lungo termine della
pressione arteriosa, principalmente attraverso la regolazione della volemia.
Pertanto qualsiasi alterazione patologica dei suddetti determinanti fisiologici della pressione arteriosa e dei
suoi meccanismi di regolazione può determinare l’insorgenza di uno stato ipertensivo. In particolare, tra i
meccanismi fisiopatologici responsabili dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli
maggiormente implicati sono legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al
rimodellamento vascolare, ad un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una ridotta
sensibilità insulinica ed in ultimo ad una funzione endoteliale alterata.
Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella genesi della malattia
ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume plasmatico ed un aumento delle resistenze
periferiche. Tuttavia studi clinici hanno mostrato come solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi
una riduzione dell’introito di sodio determini una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla base di tale
risposta individuale alla riduzione dell’introito di sodio è stata coniata la definizione di ipertensione
arteriosa sodio-sensibile.
Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il potassio ed il calcio, le
cui concentrazioni sono inversamente associate ai valori pressori. Tuttavia diversi studi che hanno valutato
gli effetti di un aumento dell’assunzione dietetica di potassio e calcio sulla riduzione della pressione hanno
fornito finora risultati controversi.
L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle resistenze periferiche,
e se nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso secondario ad una vasocostrizione arteriolare
di origine funzionale, dipendente da un aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali
catecolamine, angiotensina II o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca,
successivamente un rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori
pressori. Infatti l’incremento della pressione ed il costante insulto meccanico sulle pareti dei vasi stimolano
lo sviluppo di un’ipertrofia delle cellule muscolari lisce vascolari, con ulteriore riduzione del lume
arteriolare, ed il conseguente aumento delle resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od
anche il peggioramento dello stato ipertensivo, anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a
mancare.
Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema renina-angiotensina-
aldosterone, il quale esercita importanti azioni regolatorie sulla pressione arteriosa anche attraverso la
regolazione dell’omeostasi elettrolitica e del riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre,
attraverso effetti di tipo autocrino e paracrino, in alcuni tessuti l’attività del sistema renina-angiotensina-
aldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e favorisce lo sviluppo di fibrosi tissutale, in
particolare a livello vascolare. Pertanto, una disregolazione dell’attività del sistema renina-angiotensina-
aldosterone, ad esempio un’attività sproporzionata rispetto all’assunzione di sodio o ai livelli pressori stessi,
determina un aumento dei valori pressori e progressive modificazioni strutturali vascolari e cardiache, tali
da giustificare l’intervento farmacologico su questo sistema.
Anche l’insulina svolge delle azione regolatorie importanti sulla pressione arteriosa: legandosi ai recettori
tirosin-kinasici essa determina a livello endoteliale una cascata trasduzionale intracellulare che porta
all’aumentata trascrizione genica e successivamente alla sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale
catalizza la produzione di ossido nitrico, sostanza con potente azione vasodilatatoria ed anti-infiammatoria.

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Quindi nelle condizioni caratterizzate da una ridotta sensibilità insulinica a livello vascolare si assiste ad una
riduzione della sintesi di ossido nitrico con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori
pressori. Inoltre, l’aumento compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulino-resistenza
si associa ad un incremento del tono simpatico con un ulteriore aumento del tono vascolare ed una
riduzione della funzionalità endoteliale.
Quest’ultima è sicuramente un altro importante elemento sottostante allo sviluppo di ipertensione
arteriosa. L’endotelio, infatti, svolge importanti azioni protettive a livello vascolare, attraverso la
produzione di sostanze vasodilatanti ad azione autocrina e paracrina quali l’ossido nitrico, le prostacicline e
l’endothelium-derived relaxing factor (EDRF), ed anche attraverso la produzione di sostanze
antitrombotiche (vedi Capitolo 48). Tuttavia quando questo è sottoposto all’azione dannosa dei diversi
fattori di rischio quali fumo e diabete, si realizza a livello vascolare e cellulare un’infiammazione subclinica
ed un aumento dello stress ossidativo, i quali danneggiano le cellule endoteliali e conseguentemente
portano allo sviluppo della loro disfunzione. Quando si instaura una disfunzione endoteliale vengono meno
le suddette funzioni protettive collegate ad un endotelio integro, con conseguente aumento della reattività
vascolare, aumentata espressione di molecole d’adesione leucocitaria che portano al perpetuarsi
dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo un’aumentata suscettibilità alla evoluzione aterosclerotica e alla
formazione di trombosi. Questi processi promuovono in ultima istanza lo sviluppo di eventi aterotrombotici
(vedi Capitolo 46).

IMPATTO CLINICO

Impatto clinico
Nella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di sintomi o disturbi, né di
complicanze a breve termine, bensì può decorrere asintomatica per molti anni, determinando progressive e
sempre più gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e cerebrale.
Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico, possono palesarsi
improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e lo
scompenso cardiaco.
La relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento dell’incidenza di patologie cardiovascolari fu illustrato in
maniera molto chiara dalle ormai mitiche tabelle elaborate dagli studi condotti da una compagnia
assicurativa nordamericana, la Metropolitan Life Insurance Company, che dimostravano come in una
popolazione di uomini di quarantacinque anni, valori pressori di 130/90 mmHg rispetto a valori pressori
inferiori erano in grado di determinare una riduzione dell’aspettativa di vita di 3 anni, e, se ci si spingeva
fino a valori pressori di 140 su 95 mmHg l’aspettativa di vita si riduceva di 6 anni. Ancor più, se si
consideravano uomini con valori pressori di 150 su 100 mmHg l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5
anni. Una conferma di questi dati ci è stata fornita da diversi studi epidemiologici tra cui quello condotto da
Wilhelmsen, nel quale veniva dimostrato come l’aumento dei valori pressori anche se limitato a 10 mmHg,
corrispondesse ad un brusco incremento della incidenza di coronaropatia, anche nell’ambito del range dei
valori pressori normali. La Prospective Studies Collaboration ha comunque fornito le evidenze più
importanti sulla relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento del rischio cardiovascolare. Questa analisi
ha preso in esame circa 1 milione di pazienti in 61 studi prospettici osservazionali per 12 anni. A partire da
un’età compresa tra 40 e 69 anni, ogni aumento di 20 mmHg di pressione arteriosa o di 10 mmHg di
pressione diastolica è risultato associato ad aumenti di 2 volte di mortalità per cardiopatia ischemica e circa
4 volte per ictus. La mortalità vascolare risultava superiore al 50% nella decade 80-89 anni, mentre il rischio
relativo era maggiore nei soggetti più giovani, con un aumento di circa 10 volte.
L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un classico fattore di rischio per lo sviluppo di malattie
cardiovascolari.
Il significato ed il valore predittivo dei valori di pressione arteriosa nei confronti delle principali malattie
cardiovascolari quali la cardiopatia ischemica e l’ictus cerebrale è stato già identificato da alcuni decenni. E’
stato a tal proposito dimostrato che persino nell’ambito di popolazioni non ipertese il progressivo
incremento dei valori pressori corrisponde ad una graduale riduzione dell’aspettativa di vita. Se da un lato
valori pressori elevati sono associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, parallelamente la loro

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riduzione è in grado di prevenire lo sviluppo di una considerevole percentuale di complicanze soprattutto di


natura cerebrovascolare.
La relazione tra ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare aumentato non è comunque secondaria
solo alla presenza di elevati valori pressori, bensì è una conseguenza anche di altri fattori di rischio
cardiovascolari che sono frequentemente presenti nel paziente iperteso, quali la dislipidemia, il diabete
mellito, l’obesità ed il fumo. La presenza contemporanea di fattori di rischio multipli è stata indagata nel
corso dello studio di Framingham che ha dimostrato come la presenza isolata d'ipertensione arteriosa si
osservi solo nel 20% dei pazienti, mentre nel 50% dei casi elevati valori pressori si associano a 2 o 3 fattori
di rischio concomitanti. Questa frequente associazione tra ipertensione arteriosa ed altre anomalie del
profilo metabolico quali il diabete mellito e la dislipidemia suggerisce come queste associazioni non siano
casuali ma siano probabilmente legate alla presenza di fattori eziopatogenetici comuni alla base dello
sviluppo di tali anomalie.
Il riscontro di alterazioni del profilo lipidico caratterizza un'ampia percentuale della popolazione ipertesa e
contribuisce in maniera sostanziale allo sviluppo di complicanze cardiovascolari. L'alterazione del profilo
lipidico più frequentemente associata alla presenza di ipertensione è certamente l’ipercolesterolemia,
presente in oltre il 40% dei pazienti con valori pressori francamente elevati e con una prevalenza
progressivamente crescente al crescere della gravità del quadro ipertensivo, supportando un’eventuale
correlazione tra tali due fattori di rischio anche in ambito patogenetico. Dislipidemia ed elevati valori
pressori sono inoltre elementi costitutivi della cosiddetta sindrome metabolica, condizione clinica
frequentemente associata alla presenza di ipertensione arteriosa. Questa sindrome è caratterizzata, da un
punto di vista clinico, dalla presenza di più fattori di rischio associati, mentre da un punto di vista
fisiopatologico dalla presenza di un’obesità viscerale, particolarmente aterogena, da una condizione di
insulino-resistenza, ed infine da uno stato infiammatorio cronico subclinico.
Anche il diabete mellito di tipo 2 risulta associato frequentemente all’ipertensione arteriosa con la quale
condivide la responsabilità di una significativa quota della mortalità e morbilità cardiovascolare, nonché
alcuni importanti tratti fisiopatologici.
Le conseguenze patologiche dell’ipertensione arteriosa possono essere di tipo preclinico e clinico; le prime
sono caratterizzate da modificazioni strutturali e funzionali a carico degli organi bersaglio senza che queste
si manifestino con sintomi o segni clinici, le seconde consistono invece in alterazioni organiche più gravi che
si palesano con dei quadri clinici ben definiti, soprattutto l’infarto del miocardio, lo scompenso cardiaco e
l’ictus cerebri.
In generale la conseguenza patologica classica della malattia ipertensiva è lo sviluppo di aterosclerosi, che
vede maggiormente coinvolti il cuore con i vasi arteriosi, il rene ed il sistema nervoso centrale.
Le principali alterazioni precliniche cardiache associate all’ipertensione sono legate ai processi di
rimodellamento ventricolare sinistro in risposta allo stato ipertensivo e sebbene siano asintomatiche,
configurano comunque una condizione clinica fortemente predittiva di eventi cardiovascolari futuri,
condizione identificata con il termine di “cardiopatia ipertensiva” (Patologia 46)

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330 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

46 - Cardiopatia ipertensiva
Cardiopatia ipertensiva sezione lungoassiale: si noti l’ipertrofia concentrica con dilatazione atriale.

Tali alterazioni cardiache riconoscono nell’ipertrofia ventricolare sinistra e nella disfunzione diastolica le
manifestazioni principali. La prima è caratterizzata dall’aumento della massa cardiaca soprattutto in
risposta all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione elevata, e può essere di tipo
concentrico od eccentrico. Il primo tipo è caratterizzato dall’ispessimento delle pareti ventricolari per la
classica apposizione di nuovi sarcomeri “in parallelo”, senza un aumento della cavità ventricolare, il
secondo tipo è invece caratterizzato dall’aumento del diametro ventricolare consensuale all’aumento degli
spessori parietali, secondariamente all’apposizione, a livello miocardico, di nuovi sarcomeri “in serie”.
La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata all’ECG (vedi Capitolo 3) è del 3-8% nei
pazienti con ipertensione lieve-moderata, mentre all’esame ecocardiografico (vedi Capitolo 4) la massa
ventricolare è aumentata in ipertesi non selezionati dal 12 al 30%, e dal 20 al 60% nei centri di riferimento.
L’ ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente fattore di rischio
indipendente per eventi avversi cardiovascolari maggiori, ed aumenti progressivi della massa ventricolare
sono correlati continuativamente con il rischio cardiovascolare sia negli uomini che nelle donne, come
dimostrato in numerosi studi.
Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa camera cardiaca,
durante la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di riempimento, per cui il ventricolo può
raggiungere un volume telediastolico tale da garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di
un’aumentata pressione diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio
sinistro e nelle vene polmonari.
Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere conseguenza di alterazioni funzionali
della fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole, o essere secondaria ad alterazioni della
geometria ventricolare sinistra o dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche
proprietà elastiche del ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico.

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331 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al 25%, ed è stato
dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di eventi cardiovascolari avversi.
Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa sono identificate invece
nella cardiopatia ischemica, rappresentando l’infarto del miocardio la più frequente causa di mortalità nel
paziente iperteso, e la complicanza meno efficacemente influenzata dal trattamento antiipertensivo. Le
manifestazioni ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di placche
aterosclerotiche coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da una disfunzione del microcircolo
subendocardico che determina una riduzione della riserva coronarica.
La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico o diastolico (vedi
Capitolo 19). Il primo si verifica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica insorta
secondariamente alla presenza di una cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta
attraverso lo sviluppo di una disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa
invece ad una normale funzione contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla presenza di una
disfunzione diastolica.
In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le aritmie, in particolare la
fibrillazione atriale. Questa aritmia è considerata secondaria alle modificazioni strutturali dell’atrio sinistro
conseguenti all’ aumento cronico delle pressioni atriali solitamente secondario alla presenza di una
disfunzione diastolica. Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono
precipitare in una morte improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un ruolo fenomeni di
rientro elettrico ventricolare causati da un progressivo disarrangiamento dell’architettura miocardica,
caratterizzato soprattutto da un aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle
alterazioni della geometria ventricolare sinistra.
L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il 20% degli ipertesi è
affetto da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione dall’ipertensione non complicata
all’insufficienza renale non è rapida, bensì dura anni, periodo nel quale si verificano progressive alterazioni
strutturali a carico dei reni che, se dapprima non hanno delle ripercussioni funzionali importanti,
successivamente determinano una progressiva riduzione del filtrato glomerulare e lo sviluppo di
insufficienza renale.
Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la presenza di
microalbuminuria, che consiste in un’aumentata escrezione di albumina nelle urine, compresa per
definizione tra i 30 ed i 300 mg/die, infatti oltre i 300 mg questa si definisce invece macroalbuminuria. Un
aumento dell’escrezione di albumina può semplicemente rappresentare una conseguenza dell’aumento
della pressione idrostatica intraglomerulare, ma può anche derivare da un danno della barriera
glomerulare, o da un’alterazione del riassorbimento tubulare dell’albumina filtrata. Anche la
microalbuminuria rappresenta un predittore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari maggiori,
particolarmente negli ipertesi diabetici, ed è stato dimostrato come un rischio aumentato sussiste già per
valori di microalbuminuria al di sotto del “cut-off” di normalità.
Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione inesorabile del danno
renale, particolarmente quando si associa al diabete, verso una riduzione significativa del filtrato
glumerulare con lo sviluppo d’insufficienza renale cronica, che è anche conseguente all’aumento
importante delle resistenze vascolari intraparenchimali renali. Questa evoluzione spinge i valori pressori ad
aumentare ulteriormente rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento.
Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo significativo
l’encefalo, in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi, nonché attraverso lo stimolo
meccanico costituito dagli elevati valori pressori. Alterazioni relativamente precoci sono osservate a carico
del distretto carotideo, e possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento del complesso intima-
media carotideo, o da lesioni aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche che determinano stenosi
di variabile severità del lume vascolare. Tutte queste alterazioni, anche quando ancora nello stato
preclinico, sono associate ad un rischio aumentato di sviluppare eventi acuti cerebrovascolari, e per tal
motivo una loro precoce individuazione permette una migliore stratificazione del rischio del paziente
iperteso e di conseguenza la scelta corretta della strategia terapeutica più efficace.
Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere caratterizzata da un

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332 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

quadro di emorragia cerebrale, o più frequentemente dall’ictus ischemico o da un attacco ischemico


transitorio (TIA), da un infarto lacunare, od in ultimo da un’encefalopatia acuta ipertensiva.

VALUTAZIONE CLINICO-STRUMENTALE E STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Valutazione clinico-strumentale e stratificazione del rischio cardiovascolare


L'ipertensione arteriosa rappresenta una condizione clinica che comporta un incremento del rischio
cardiovascolare, sia di per sé, attraverso i valori pressori elevati, sia perché tipicamente associata alla
presenza di una serie complessa di altri fattori di rischio ed alterazioni morfo-funzionali i quali,
presentandosi nello stesso soggetto secondo diverse possibili combinazioni, contribuiscono a definirne il
profilo di rischio globale. Pertanto la classificazione dell'ipertensione arteriosa basata sulla sola valutazione
dei valori pressori non permette un'adeguata rappresentazione del rischio individuale della patologia, che è
invece la risultante dell'interazione tra incremento pressorio e profilo di rischio concomitante.
Negli ultimi anni è di conseguenza radicalmente mutato l’orientamento clinico nei confronti del paziente
iperteso, con un approccio non più mirato solo alla riduzione dei valori pressori, ma basato innanzitutto
sulla valutazione del rischio cardiovascolare globale il quale deve successivamente guidare la condotta
terapeutica.
Nell'approccio razionale al rischio cardiovascolare nel paziente iperteso, uno degli elementi essenziali è
certamente rappresentato dalla possibilità di quantificare il rischio del paziente attraverso una valutazione
integrata del contributo relativo di ciascuno dei fattori di rischio prima elencati (Tabella I). Secondo questa
logica, in un paziente con un aumento lieve dei valori di pressione arteriosa, la presenza di altri fattori di
rischio associati determina una probabilità di sviluppo di complicanze cardiovascolari comparabile o
addirittura maggiore rispetto a quella che caratterizza i pazienti con un aumento pressorio più marcato, ma
isolato (Figura 45.1).

Figura 45.1 Classificazione dell’ipertensione arteriosa in base ai valori pressori e stratificazione del rischio CV secondo le Linee
guida ESC/ESH 2007.

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333 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Sulla base di tali considerazioni, l’obiettivo principale della valutazione clinico-strumentale del paziente
iperteso è dunque quello di definirne il profilo di rischio globale, sia attraverso una buona raccolta
anamnestica, che permetta di capire quali altri fattori di rischio sono associati alla presenza di ipertensione,
sia attraverso il loro riscontro diretto mediante esami ematochimici o strumentali. Attraverso gli esami
strumentali possiamo valutare soprattutto se sono già presenti segni di danno d’organo causato dallo stato
ipertensivo, la cui presenza, come già precedentemente discusso, identifica una condizione a rischio
aumentato.

 Anamnesi. Nella raccolta della storia clinica occorre porre particolare attenzione ad individuare tutti
quegli elementi che possono indicare un aumento del rischio cardiovascolare.

Anzitutto è importante una raccolta di informazioni sui fattori che possono determinare un aumento della
pressione arteriosa del soggetto in esame, quali l’età, il sesso, l’ereditarietà, la razza, il consumo di alcool e
di caffè e lo stress. Successivamente è fondamentale chiedere informazioni sulla presenza di altri elementi
che possono influenzare il profilo di rischio, quali il diabete, la dislipidemia, il fumo di sigaretta, lo stile di
vita e la familiarità per malattie cardiovascolari.
Durante la raccolta anamnestica si deve porre attenzione inoltre all’eventuale uso di farmaci che possono
determinare un aumento dei valori pressori, quali i FANS, gli spray nasali ed i cortisonici, ed escludere
l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare i simpatico-mimetici indiretti come la cocaina e
l’anfetamina. Bisogna infine indagare se già si sono verificati degli eventi cardiovascolari maggiori, quali
l’angina o l’infarto, o l’ictus, perché in tal caso il rischio cardiovascolare del soggetto è molto elevato
(Tabella II).

 Esame obiettivo.

Anche se la maggior parte dei pazienti risulta normale all’esame fisico, un’attenta valutazione del paziente
iperteso è necessaria al fine di scoprire se vi sono segni che facciano sospettare un’ipertensione secondaria
e per valutare l’eventuale presenza di complicanze cardiovascolari (Tabella III).

Tabella 45. 3 Fattori di rischio e condizioni cliniche associate da valutare nella stratificazione del rischio cardiovascolare, come
suggerito dalle Linee Guida ESC/ESH.

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334 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Un momento importante nella raccolta dei dati obiettivi durante la visita medica è la misura della pressione
arteriosa. Grande attenzione deve essere posta nell'ottenere una misurazione corretta, focalizzandosi in
particolare sui seguenti aspetti:

 il paziente non deve aver fumato o assunto caffeina nei 30 minuti precedenti la misurazione;
 il paziente deve essere seduto comodamente con il bracciale posto a livello del cuore;
 la misurazione deve essere effettuata dopo almeno 5 minuti di riposo;
 si devono misurare le pressioni sistolica e diastolica utilizzando rispettivamente il I e il V tono di
Korotkoff; va quindi effettuata la media fra due o più misurazioni, separate da un intervallo di almeno 2
minuti;
 devono essere impiegati sfigmomanometri a mercurio (tipo Riva-Rocci) o in alternativa apparecchi
aneroidi tarati di recente; i bracciali devono essere di dimensioni appropriate, cioè con un manicotto che
circondi il braccio del paziente completamente o almeno per l'80%; nei bambini e negli obesi è opportuno
utilizzare bracciali specifici.

Nella valutazione del paziente in esame, oltre all’ esame obiettivo generale e cardiovascolare, è importante
rilevare il peso e la distribuzione del grasso corporeo, in particolare mediante la misurazione della
circonferenza addominale. L'obesità addominale rappresenta, infatti, un riconosciuto fattore di rischio
cardiovascolare. Inoltre tra massa corporea e ipertensione arteriosa vi è una correlazione significativa che è
indipendente dall'età e dal sesso, e tale relazione è confermata anche quando vengono impiegate le
tecniche più raffinate per lo studio del grasso corporeo. A tal proposito i normotesi obesi hanno maggiori
probabilità di diventare ipertesi e gli ipertesi magri di diventare obesi. Infine, a conferma dell'importanza di
questo fattore, è stato dimostrato che diminuzioni del peso corporeo di 12 kg e 3 kg indurrebbero riduzioni
pressorie sistolica e diastolica rispettivamente di 21/13 mmHg e di 7/4 mmHg.

 Esami ematochimici e strumentali. Anche nelle recenti Linee Guida è stato raccomandato di effettuare
una serie di esami bioumorali e strumentali, allo scopo non solo di definire la presenza di danno d'organo
nel paziente, ma anche di identificare altri eventuali fattori di rischio associati. Alcune di queste indagini
devono essere orientate da informazioni desunte dall'anamnesi e dall'esame obiettivo.

- Esame emocromocitometrico: studia la crasi ematica, gli stati anemici, gli stati infettivi, etc…
- Creatininemia e clearance della creatinina: studio della funzione renale. Queste analisi permettono di
scoprire alterazioni renali che possono concorrere allo sviluppo di ipertensione o esserne una conseguenza.
Se la creatininemia inizia a elevarsi quando la funzione renale scende sotto i 50-45 ml/min, il calcolo della
clearance invece, fornisce informazioni più precise.
- Glicemia basale, colesterolemia totale e le sue frazioni LDL ed HDL, la trigliceridemia e l’uricemia: quando
alterati, questi parametri amplificano gli effetti lesivi dell'ipertensione costituendo ulteriori fattori di rischio
cardiovascolare.
- Potassiemia: in genere è marcatamente alterata (ipopotassiemia) nella sindrome di Conn, nella sindrome
di Cushing, nell'ipertensione nefrovascolare e durante l'assunzione non controllata di diuretici.
- Esame delle urine: può mostrare una microalbuminuria od una proteinuria franca, oppure la presenza di
cilindri, leucociti, emazie, etc.
- Elettrocardiogramma (vedi Capitolo 3): può evidenziare un sovraccarico o un'ipertrofia del ventricolo
sinistro mediante i criteri di Sokolow- Lyon (SV1+RV5 o V6 = 3,8 mV) o di Cornell-voltaggio (SV3+Ra Vl = 2,8
negli uomini e 2,0 mV nelle donne). Rispetto all'ecocardiogramma è comunque un test molto meno
sensibile anche se specifico.
- Ecocardiogramma (vedi Capitolo 4): fornisce dati più affidabili su un'eventuale presenza di ipertrofia e

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335 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

sulla geometria e funzionalità del ventricolo sinistro. Consente inoltre di determinare la presenza di una
disfunzione diastolica e di classificarla nei suoi 3 pattern di disfunzione a gravità crescente.
- Eco-Doppler arterioso (vedi Capitolo 12): per lo studio dei distretti arteriosi epiaortico e degli arti inferiori.
Particolarmente importante lo studio ecoDoppler delle arterie carotidi, per la quantificazione dello
spessore del complesso intima-media carotideo.
- Monitoraggio dinamico della pressione arteriosa per 24 ore (ABPM): consiste nella registrazione per 24 h
dei valori di pressione arteriosa campionati circa ogni 30 minuti. Può fornire importanti informazioni
quando vi sono marcate differenze fra i valori pressori riscontrati in più visite, o quando ci sono discordanze
tra i livelli riscontrati dal medico e quelli registrati dal paziente; è inoltre utile per verificare il ritmo
circadiano della pressione e l’efficacia della terapia antiipertensiva.
- Automisurazione della pressione arteriosa a domicilio dal paziente: consente la raccolta di valori pressori
per diversi giorni e offre la possibilità di ottenere la loro media anche su molti mesi, coinvolgendo il
paziente nella gestione del suo problema. La Tabella IV propone i valori di riferimento della popolazione
normale con le differenti tecniche di misurazione della pressione arteriosa.
- Esame del fondo dell'occhio: rileva le alterazioni delle arterie retiniche legate allo stato ipertensivo.
Secondo le ultime Linee Guida assume un valore specifico solo in forme gravi di ipertensione, in grado di
determinare la comparsa di essudati ed emorragie della retina (III-IV stadio della classificazione della
retinopatia secondo Keith e Wegener).

Tabella 45.4 Dati anamnestici da raccogliere durante la valutazione del paziente iperteso, secondo le Linee Guida ESC/ESH 2007.

IPERTENSIONE ARTERIOSA SECONDARIA

Ipertensione arteriosa secondaria


L’ipertensione arteriosa secondaria rappresenta circa il 5% dei casi di ipertensione ed è la conseguenza di
un disordine primitivo soprattutto di tipo renale od endocrinologico.
La ricerca di un'ipertensione secondaria dev'essere attuata con massimo scrupolo, soprattutto nei soggetti
giovani, in quanto nella maggior parte dei casi la sua causa può essere rimossa ed in questi casi
l’ipertensione può essere curata evitando una terapia per il resto della vita. Per tal motivo, quando vi è il
sospetto di un’ipertensione arteriosa secondaria è necessario procedere con la valutazione strumentale del
paziente con l’ausilio di esami specifici.

 Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una riduzione
dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone
provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a malattie renali acute quali
l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche, o a disordini di tipo
cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica. Cause più rare di ipertensione
nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina.

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336 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici per valutare la
funzionalità renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale.

 Ipertensione nefrovascolare. Questa frequente causa di ipertensione secondaria è associata ad una


stenosi mono o bilaterale dell’arteria renale dovuta ad un processo aterosclerotico, o, nel caso di soggetti
giovani soprattutto se donne, alla presenza di una displasia fibro-muscolare. La riduzione del flusso renale
secondaria alla stenosi determinerà un’aumentata e non regolata secrezione di renina e la successiva
formazione di angiotensina II con un aumento della vasocostrizione periferica, aumento del
riassorbimento di acqua e sodio, e incremento rapido dei valori di pressione arteriosa. Ed è proprio uno
sviluppo rapido di uno stato ipertensivo non controllabile con la terapia medica, od insorto in un paziente
giovane, che deve assolutamente porre il sospetto di un’ipertensione nefrovascolare.

Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un aumento combinato dei
livelli di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler
dell’arterie renali nel caso di stenosi prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La
metodica “gold standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia delle
arterie renali. Nel sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna prescrivere con estrema cautela ed a
bassi dosaggi i farmaci ACE-inibitori, per il rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della
perfusione renale con lo sviluppo di insufficienza acuta.

 Iperaldosteronismo primitivo. Le sindromi da eccesso primitivo di mineralcorticoidi sono rappresentate


nel 30% dei casi da un adenoma surrenalico, più frequente nelle donne e nei bambini, e nel 70% dei casi
da un’iperplasia surrenalica. Condizioni più rare sono secondarie al carcinoma surrenalico o
all’iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi. Un iperaldosteronismo va sospettato in presenza di
un’ipertensione resistente alla terapia, eventualmente associata ad astenia, crampi muscolari, poliuria,
polidipsia e palpitazioni. Il dato ematochimico più importante è l’ipopotassiemia associata ad
un’aumentata potassiuria, con un pH ematico che risulta aumentato per incremento dei bicarbonati. I
livelli di aldosterone sono aumentati, mentre quelli di renina soppressi, per cui il rapporto aldosterone
plasmatico/attività reninica plasmatica è generalmente aumentato. Per la diagnosi definitiva di
iperaldosteronismo primario ci si può avvalere di test dinamici di conferma. Tra questi il più diffuso è
quello del ”carico salino”: se i livelli sierici di aldosterone non risultano soppressi dopo il test si può fare
diagnosi di iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi di iperaldosteronismo può essere confermata anche
dal test di soppressione al fludrocortisone. In presenza di iperaldosteronismo primario la
somministrazione per 4 giorni di fludrocortisone non determina la soppressione dei livelli plasmatici di
aldosterone.
 Feocromocitoma. Il feocromocitoma è un tumore del tessuto cromaffine della midollare del surrene o del
tessuto paragangliare, e si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata increzione di adrenalina e
noradrenalina. Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di ipertensione arteriosa, ma se non
riconosciuta mette seriamente in pericolo la vita del paziente. Uno stato ipertensivo è presente in tutti i
soggetti affetti, più frequentemente a crisi o talora cronico. I sintomi più comuni sono l’ansietà, le
palpitazioni, la cefalea, l’arrossamento improvviso del viso (flushing) e le sudorazioni profuse.

La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle catecolamine plasmatiche ed
urinarie e dei loro metaboliti, più facilmente se i campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I
dosaggi dell’acido vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli
esami più attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di test farmacologici di
inibizione o stimolazione, con clonidina e glucagone rispettivamente, o utilizzare subito metodiche
d’”imaging” quali l’ecografia, la TC o la RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore.

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 Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita dell’aorta
generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad altre anomalie quali
la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa rara di ipertensione arteriosa
secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi è di solito clinica ed è legata al
riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti superiori e di un ipotensione a livello degli
arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un
soffio continuo al dorso, nella regione interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle
arterie intercostali. La diagnosi di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un
angio-TC del torace ed un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea,
mediante l’apposizione di stent, o chirurgica.
 Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare un’ipertensione
arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i contraccettivi orali, i FANS, i
corticosteroidi, la ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso
di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi rapida.

TRATTAMENTO

Trattamento
La finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto nella prevenzione
dello sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali benefici terapeutici possono essere
raggiunti non solo mediante la riduzione dei valori pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di
alcune complicanze, ma anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente
associati all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento
antiipertensivo, una valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al meglio il suo profilo di
rischio cardiovascolare, sia sulla base dell’entità della malattia ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di
rischio associati.
Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non farmacologico, basati
sulle modifiche dello stile di vita e delle abitudini comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico,
basati sull’impiego di diverse classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime
Linee Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione arteriosa, nei pazienti a
rischio cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato iniziare solo un trattamento non
farmacologico rivalutando dopo pochi mesi i soggetti, ed associando successivamente un trattamento
farmacologico qualora i valori pressori non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in
genere opportuno un approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici
con una terapia farmacologica (monoterapia o terapia di associazione) (Figura 45.2).

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338 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 45.2 Strategie di approccio terapeutico raccomandate dalle Linee guida ESC/ESH 2007.

 Interventi di tipo non farmacologico

Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il rischio cardiovascolare
globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più contenuto alla terapia farmacologica.
Sebbene siano spesso di non facile attuazione pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera
completa gli effetti a lungo termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non
farmacologici non presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di impiego.
Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti antipertensivi: il calo
ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare.
Considerata l'evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo, distribuzione anatomica
del grasso corporeo e pressione, non sorprende che una restrizione dell'apporto calorico si sia dimostrata in
grado di ridurre i valori pressori, essendo l'entità dell'effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione
di circa 1,5 mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di peso
corporeo perso.
Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di numerose meta-analisi,
che complessivamente hanno evidenziato un’azione antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la
sistolica e 2-3 per la diastolica). La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero
<2 grammi NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e stimoli il
sistema renina-angiotensina ed il sistema nervoso adrenergico.
Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4 grammi NaCI) è indicata
nel trattamento del paziente iperteso, specie considerando come questo intervento non farmacologíco si
sia dimostrato in grado di potenziare l'efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica.
Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che l'esercizio fisico regolare di
moderata intensità (rappresentato da un incremento pari a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a
riposo) è in grado, dopo un congruo periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8
mmHg a seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni si
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339 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

accompagnano ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù degli effetti emodinamici
(vasodilatazione) e metabolici favorevoli (miglioramento dell’ insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un
training fisico costante.

 Interventi antiipertensivi di tipo farmacologico

Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso quando non si ottengono
risultati sufficienti con gli interventi non farmacologici, o quando i valori pressori basali ed il rischio
cardiovascolare del paziente sono molto elevati.
L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di valori pressori ottimali,
e se questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è consigliabile adottare un’associazione tra
due o, se necessario, più molecole. La scelta del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non
è però basata solo sulla efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del
danno d’organo cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle alterazioni metaboliche
concomitanti, quali il diabete o la dislipidemia, ed in ultimo, deve tener conto della tipologia del paziente
(età, sesso, comorbidità), degli effetti collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze
terapeutiche e di aspetti socio-economici (Tabella V).

Le principali classi di farmaci anti-ipertensivi (vedi Capitolo 58) sono:

 Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata da
effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia ischemica,
disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per rallentare la progressione del
danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo metabolico sostanzialmente neutro.
Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da prima dose e raramente l’angio-edema della
glottide. Le principali controindicazioni sono l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi
bilaterale delle arterie renali.
 Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore (non
diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori periferici
(diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione anti-ipertensiva e si sono
dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in prescrizione singola od in
associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone.
 Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben tollerati anche in
quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei recettori AT-1
dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione arteriosa, in particolare nei
pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza di diabete o sindrome metabolica.
 Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono
particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono inoltre
spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina. Le
controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance” del paziente legata ad
effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio elettrolitico, in particolare
l’ipopotassemia, l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo glico-lipidico.
 Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia ischemica,
disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono controindicati nei
pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con asma o con broncopneumopatia
cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulino-resistenza.

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340 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere associati tra loro
specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e complementari, se l’efficacia ipotensivante è
superiore quando associati rispetto a quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è
ben tollerata.
Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano raggiunti gli obiettivi,
includono glialfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con ipertrofia prostatica, gli anti-
ipertensivi ad azione centrale, soprattutto alfa-metildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che
trovano indicazione soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o
resistente.

URGENZE ED EMERGENZE IPERTENSIVE


Urgenze ed emergenze ipertensive
Le urgenze ed emergenze ipertensive sono forme cliniche caratterizzate da un notevole rialzo pressorio
(solitamente PAD >130 mmHg) che richiedono un abbassamento rapido della pressione. Queste condizioni
possono essere distinte in urgenze ed emergenze ipertensive. Per urgenza ipertensiva s’intende un marcato
e rapido rialzo pressorio peraltro non associato a segni di danno d’organo acuto cardiaco o neurologico e
possono essere risolte nell’arco delle 24 ore. Le emergenze ipertensive sono invece quelle situazioni nelle
quali, per la presenza di segni di danno d'organo collegati al rialzo pressorio, e per grave pericolo di vita, è
indispensabile una riduzione della pressione arteriosa entro 1 ora.
Le alterazioni d’organo che possono essere riscontrate nell’emergenza ipertensiva sono l’infarto miocardico
acuto o l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, la dissezione aortica e l’emorragia cerebrale. Un
altro tipo particolare ed altrettanto grave di emergenza ipertensiva è l’encefalopatia ipertensiva,
caratterizzata da disturbi neurologici reversibili come la cefalea, alterazioni visive e dello stato di coscienza,
nausea e vomito. Questa, se non trattata può evolvere rapidamente in uno stato di coma e
successivamente in exitus. La fisiopatologia dell’encefalopatia ipertensiva è legata alla presenza di una
necrosi fibrinoide arteriolare generalizzata e di una dilatazione sproporzionata delle arterie cerebrali con un
conseguente iperafflusso sanguigno.
Nelle emergenze ipertensive il trattamento deve essere iniziato il più rapidamente possibile con l'obiettivo
non di ottenere l'immediato ripristino di livelli pressori normali, ma di arrivare a limiti di "sicurezza" senza
indurre, nello stesso tempo, complicanze cerebrali, coronariche o renali legate all’induzione di ipotensione
troppo rapida.
I farmaci di elezione nell’emergenza ipertensiva somministrati per via endovenosa sono la clonidina, il
nitroprussiato o nitroglicerina ed il labetalolo. Di solito è sempre consigliabile embricare alla terapia
endovenosa una terapia per via orale.

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341 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 46
L’Aterosclerosi
Paolo Golino

DEFINIZIONE

L’aterosclerosi, dal greco atére (sostanza pastosa) e sclerosis (indurimento), è un processo degenerativo che
si sviluppa a carico della parete delle arterie di grosso e medio calibro. La lesione anatomo-patologica
fondamentale dell’aterosclerosi è rappresentata dall’ateroma o placca, una deposizione rilevata, focale,
fibro-adiposa della parete arteriosa. L’ateroma è costituito da un centro, o core, composto
prevalentemente da lipidi e matrice extracellulare, ma anche da una componente cellulare (cellule
muscolari lisce, macrofagi, linfociti); un cappuccio fibroso riveste il core lipidico e lo separa dal sangue
circolante (Figura 1).

Figura 1: Sezione traversa di un’arteria coronaria umana normale (A) e di una aterosclerotica (B). In questa
il lume arterioso risulta in gran parte occupato da una placca aterosclerotica eccentrica. Si distinguono il
core lipidico (asterisco) che appare giallastro a causa dell’elevato contenuto in lipidi e il cappuccio fibroso

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342 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(frecce) che racchiude il core e lo separa dal sangue circolante. (C) Sezione istologica di un’arteria coronaria
umana aterosclerotica. Le tre tonache arteriose (intima, media e avventizia) sono ben visibili; la placca
aterosclerotica protrude all’interno del lume. L’asterisco identifica il core lipidico, separato dal lume da un
sottile cappuccio fibroso (frecce).

ANATOMIA PATOLOGICA

Considerazioni introduttive 
L’aterosclerosi è la causa principale di numerose importanti malattie del


sistema cardiovascolare, quali l’infarto miocardico, l’angina pectoris, e l’ictus cerebrale, che insieme
rappresentano di gran lunga la causa di morte più frequente nei paesi occidentali. Fino a venti anni or sono,
il nostro concetto dell’aterosclerosi era quello di una lenta malattia da accumulo di lipidi: i depositi lipidici
che si venivano a formare sulla superficie delle arterie crescevano sporgendo all’interno del lume fino a
compromettere ed eventualmente bloccare completamente il flusso ematico ai tessuti interessati,
causandone la necrosi ischemica. Questo concetto “tradizionale” dell’aterosclerosi guardava alle arterie
come condotti passivi sui quali si andavano a depositare i lipidi circolanti che rappresentavano quindi il
centro fisiopatologico della malattia. Questa teoria è stata oggi soppiantata, in quanto sappiamo che la
parete arteriosa non possiede un ruolo passivo ma, al contrario, è una struttura complessa formata da
numerosi tipi cellulari che partecipano attivamente al processo aterosclerotico. Sappiamo inoltre che
l’infiammazione gioca un ruolo chiave in tutti gli stadi di sviluppo dell’aterosclerosi, dalla formazione della
lesione iniziale, allo sviluppo della placca, fino alla sua complicanza (erosione, ulcerazione, etc) con
conseguente formazione di un trombo intravascolare. E’ proprio il trombo che, causando una improvvisa
ostruzione al flusso ematico, si rende responsabile delle conseguenze più gravi e temibili dell’aterosclerosi,
come l’infarto miocardico e l’ictus cerebrale. Negli ultimi anni, data la difficoltà a tenere separati il processo
aterosclerotico da quello trombotico, si preferisce parlare di aterotrombosi, a sottolineare la presenza di un
continuum fisiopatologico che unisce i due fenomeni (Figura 2 - video).

Le fasi dell’aterosclerosi 

Fase di inizio. 
Le prime fasi dell’aterogenesi nell’uomo rimangono largamente
speculative. Tuttavia, l’integrazione di osservazioni ottenute in giovani adulti deceduti per cause
traumatiche con quelle degli studi condotti negli animali da esperimento possono dare utili spunti. In
condizioni normali, il monostrato di cellule endoteliali che riveste tutto l’albero vascolare si oppone
all’adesione dei leucociti. Tuttavia, la presenza di alcuni elementi induttori, quali una dieta ad alto
contenuto di grassi saturi, il fumo di sigaretta, l’ipertensione e l’iperglicemia possono favorire l’espressione
da parte delle cellule endoteliali di alcune proteine cosiddette di adesione, in grado cioè di legare alcuni
recettori presenti sulla membrana dei leucociti. Tra queste, la “vascular cell adhesion molecule-1” (VCAM-1)
sembra particolarmente importante perché si lega ad un recettore presente sulla membrana dei monociti e
dei linfociti T, due tipi cellulari presenti pressoché costantemente nelle lesioni aterosclerotiche iniziali
(Figura 3). Una volta che i leucociti abbiano aderito all’endotelio, devono ricevere un segnale specifico per
penetrare nello spazio sottoendoteliale. Diversi mediatori chimici di natura proteica, denominati
chemochine, con proprietà chemiotattiche nei confronti dei leucociti, sono deputati a svolgere questo
compito (Figura 3).

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343 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Fase iniziale della lesione aterosclerotica. Normalmente, l’endotelio vasale ricopre in monostrato
tutto l’albero vascolare e rappresenta una interfaccia tra la parete vasale e il sangue circolante,
contribuendo ad impedire l’adesione dei leucociti e delle piastrine. I pannelli A e B rappresentano due
fotografie (la B a maggiore ingrandimento) ottenute con il microscopio elettronico a scansione: cellule
endoteliali di forma allungata rivestono la parete arteriosa senza soluzioni di continuo. Dopo una dieta
particolarmente ricca di lipidi, questi si possono depositare in eccesso nello spazio sottoendoteliale,
causando l’attivazione dell’endotelio, che esprime molecole di adesione per i leucociti. Il pannello C
rappresenta un segmento di aorta di coniglio alimentato con una dieta aterogena: sono riconoscibili
numerosi leucociti che aderiscono all’endotelio. Nei pannelli D ed E (sezione traversa del preparato C) due
leucociti sono stati sorpresi nel momento di passare per diapedesi attraverso lo spazio tra due cellule
endoteliali. I leucociti, soprattutto i macrofagi, una volta raggiunto lo spazio sottoendoteliale, sono in grado
di fagocitare le lipoproteine qui presenti ed eventualmente trasformarsi in cellule schiumose,
determinando la formazione della stria lipidica, la lesione aterosclerotica iniziale.

Due gruppi di chemochine sono particolarmente importanti nel reclutare i monociti all’interno delle lesioni
iniziali: una è la cosiddetta “monocyte chemoattractant protein-1 (MCP-1), che viene prodotta dalle cellule
endoteliali e muscolari lisce in risposta ad alcuni stimoli nocivi come le lipoproteine ossidate. MCP-1
promuove la migrazione unidirezionale (chemiotassi) dei monociti all’interno della parete vasale.
L’importanza di MCP-1 nel contribuire all’iniziale reclutamento dei monociti all’interno della parete vasale
durante le fasi precoci dell’aterogenesi è dimostrata da alcuni studi condotti nell’animale da esperimento in
cui la produzione di MCP-1 veniva inibita attraverso tecniche di ingegneria genetica. Negli animali
geneticamente modificati e sottoposti a dieta aterogena, le lesioni aterosclerotiche risultavano più piccole
e meno numerose rispetto agli animali di controllo. Altre chemochine importanti nel reclutare i monociti in
questa fase dell’aterogenesi sono l’interleuchina-8 e l’interferone , ambedue presenti in alte
concentrazioni all’interno delle lesioni iniziali.

Focalità delle lesioni aterosclerotiche 
E’ interessante
notare che le lesioni aterosclerotiche non si sviluppano a caso all’interno dell’albero coronarico ma al
contrario tendono a crescere con maggior frequenza in zone specifiche, come ad esempio le biforcazioni,
probabilmente a causa del tipo di flusso ematico che in queste aree si forma. Un ruolo importante nella

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344 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

regolazione delle funzioni endoteliali è infatti svolto dallo “shear stress”, cioè dalle forze tangenziali che il
sangue esercita sulla parete vasale. Uno shear stress laminare ed uniforme induce l’aumento di espressione
di una serie di geni, quali la superossido-dismutasi, la ciclo-ossigenasi e la NO-sintetasi, enzimi che
possiedono attività antiossidanti, antitrombotiche ed antiadesive nei riguardi delle piastrine e dei leucociti
e quindi, in definitiva, svolgono attività di protezione nei riguardi del vaso rispetto all’aterogenesi. Lo shear
stress turbolento o comunque non laminare non induce i suddetti geni ateroprotettivi, per cui l’endotelio
per flussi lenti e turbolenti, quali quelli che si formano in corrispondenza delle biforcazioni, è meno protetto
dagli agenti aterogeni.

Formazione delle strie lipidiche 
Una volta giunti nello spazio sottoendoteliale, i
monociti si trasformano in macrofagi, esprimono elevate quantità di recettori “spazzini” sulla loro
membrana, soprattutto nei confronti delle lipoproteine modificate dallo stress ossidativo, e cominciano a
fagocitare le lipoproteine, fino a riempire gran parte del citoplasma, diventando cellule schiumose, cellule
di grosse dimensioni il cui citoplasma è letteralmente stipato di lipidi, esteri del colesterolo e lipoproteine
ossidate. Allo stesso tempo, i macrofagi proliferano, aumentando di numero, e producono numerosi fattori
di crescita e citochine che agiscono sostenendo e amplificando i segnali pro-infiammatori. A questo stadio,
la lesione aterosclerotica è rappresentata dalla cosiddetta stria lipidica che macroscopicamente appare
come una stria giallastra (dato l’alto contenuto in lipidi) sulla superficie della tonaca intima (Figura 4).

Figura 4 Aspetto macroscopico della faccia endoteliale di un segmento di aorta umana tagliata
longitudinalmente ottenuta da un giovane deceduto per cause traumatiche. La maggior parte della
superficie endoteliale è ricoperta da lesioni giallastre, lunghe diversi millimetri e larghe un paio, che
rappresentano le cosiddette strie lipidiche.

Non tutte le strie lipidiche però evolvono verso la formazione di una placca avanzata e, d’altra parte, esse
vengono evidenziate all’esame autoptico molto frequentemente anche in soggetti giovani e sani. La stria
lipidica, quindi, non possiede necessariamente un significato patologico. Tuttavia, nella società moderna
dove prevale uno stile di vita caratterizzato da una elevata sedentarietà e da un eccesso di disponibilità di
cibo, la progressione della lesione aterosclerotica dalla stria lipidica alla formazione della placca conclamata
è purtroppo un evento frequente che può verificarsi precocemente nel corso della vita. Studi autoptici
hanno dimostrato che negli Stati Uniti 1 teenager su 6 mostra un ispessimento patologico delle arterie
coronarie, indicando che nelle società contemporanee l’aterosclerosi è un processo che comincia
precocemente nella vita di un individuo, anche se le sue complicanze sono caratteristiche della mezza età.

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345 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia


Formazione della placca conclamata 
Da un punto di vista istologico la stria lipidica è principalmente
caratterizzata dalla presenza di macrofagi che hanno fagocitato elevate quantità di lipidi (cellule
schiumose). Caratteristiche più complesse, come la fibrosi, la necrosi del core lipidico, la trombosi e
l’elevato grado di calcificazione, sono tipicamente assenti nelle strie lipidiche, che rappresentano lesioni
iniziali e largamente reversibili, almeno in determinate condizioni. Che cosa allora si rende responsabile, in
alcuni individui, della progressione della stria lipidica verso la placca conclamata? Nell’ultima decade la
ricerca medica è stata particolarmente attiva in questo ambito e numerosi studi, sia clinici che sperimentali,
hanno dimostrato un ruolo fondamentale dell’infiammazione e del sistema immunitario nel processo
dell’aterogenesi.
Nella fase precoce della formazione dell’ateroma, il macrofago-cellula schiumosa
reclutato all’interno della parete vasale serve non solo come deposito dei lipidi in eccesso ma anche come
promotore di fenomeni infiammatori. Infatti, tale cellula è in grado di produrre una grande quantità di
citochine e chemochine pro-infiammatorie, nonché alcuni mediatori chimici di derivazione dall’acido
arachidonico, come i leucotrieni e le prostaglandine. Inoltre, i macrofagi sono in grado di produrre elevate
quantità di specie molecolari altamente ossidanti, come l’anione superossido, che contribuisce ad ossidare
ulteriormente le lipoproteine presenti all’interno della lesione, aumentando quindi i fenomeni di
infiammazione locale e contribuendo alla formazione di un circolo vizioso che culmina con la progressione
della lesione aterosclerotica. In questo contesto, il sistema immunitario gioca un ruolo di primaria
importanza nel sostenere e favorire la progressione della placca.
Il termine immunità innata si riferisce
quella serie di eventi che amplificano la risposta infiammatoria in assenza di stimolazione antigenica (Figura
5).

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346 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 5 A. Schema dell’organizzazione del sistema immunitario. Classicamente, il sistema immunitario è


stato diviso in due “bracci”, l’immunità innata e quella acquisita. L’essenza della immunità acquisita è di
generare recettori specifici sulle cellule T (immunità cellulo-mediata) e sulle cellule B (immunità umorale)
che possiedono grande specificità ed affinità nei confronti di antigeni esterni. I componenti dell’immunità
acquisita comprendono le cellule B, le cellule T e, almeno in parte, le cellule dendritiche. Le cellule B sono
responsabili della produzione di anticorpi, mentre le cellule T sono specializzate a produrre e secernere
fattori solubili che regolano la funzione di altre cellule effettrici, nonché la produzione di anticorpi da parte
delle cellule B. Le cellule T, inoltre, possono agire esse stesse come effettrici e causare la lisi della cellula
bersaglio. Le cellule dendritiche sono specializzate nel presentare l’antigene alle cellule T attraverso le
molecole di istocompatibilità (HLA).

Fanno parte dell’immunità innata i fenomeni di fagocitosi, la produzione di molecole pro-infiammatorie


come le proteine di fase acuta, tipicamente rappresentate dalla proteina C-reattiva, ecc.
Oltre all’immunità
innata, numerose evidenze hanno ampiamente dimostrato l’importanza dell’immunità acquisita nel
modulare i fenomeni aterosclerotici. L’immunità acquisita, o antigene-specifica, costituisce la risposta
dell’organismo nei confronti di sostanze estranee (antigeni) ed è un fenomeno di grande complessità non
ancora compreso completamente (Figura 5). Viene oggi largamente riconosciuto che la lesione
aterosclerotica possiede tutte le caratteristiche di una malattia infiammatoria cronica a progressione lenta

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347 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

con coinvolgimento di molti tipi cellulari a funzione immuno-infiammatoria come i monociti/macrofagi, le


mast cellule, le cellule dendritiche, i linfociti T e le cellule “natural killer”. Inoltre, nelle lesioni avanzate si
ritrovano anche componenti del sistema del complemento in stretta vicinanza alla proteina C reattiva e ad
immunoglobuline spesso legate ad antigeni specifici a formare immuno-complessi. E’ stato poi osservato
che componenti cellulari costitutivi della parete vasale, come le cellule muscolari lisce, possono, in
determinate condizioni, aumentare l’espressione delle molecole HLA di classe II che sono coinvolte nel
processo di riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti T. Infine, il ruolo del sistema immunitario nel
modulare lo sviluppo e la crescita delle lesioni aterosclerotiche viene anche indirettamente dimostrato
dalle numerosi osservazioni ottenute nell’animale da esperimento che dimostrano come l’andamento
dell’aterogenesi possa essere significativamente modificato da interventi che interferiscono con i vari
aspetti della risposta immune.
Se da un lato esistono pochi dubbi circa l’importanza dell’immunità
acquisita nella formazione e nell’evoluzione della lesione aterosclerotica, dall’altro le ipotesi riguardo
l’identità dell’antigene(i) coinvolto(i) in tale fenomeno rimangono largamente speculative. Possibili
candidati sono le lipoproteine ossidate che, esposte ad un microambiente altamente ossidante quale lo
spazio sottoendoteliale, vengono modificate nella loro struttura terziaria in modo da renderle estranee
(“non-self”) al sistema immunitario. Un’altra possibilità è rappresentata dalla presenza di antigeni batterici
o virali che risultano simili ad alcune sostanze dell’organismo. In tal caso, si verrebbe a creare l’attivazione
del sistema immunitario nei confronti di antigeni propri dell’organismo perché simili antigenicamente a
sostanze estranee (fenomeno della somiglianza antigenica). Un esempio a tale riguardo potrebbe essere la
proteina legata allo shock termico (Heat Shock Protein, HSP). Le HSP sono una famiglia di proteine che
hanno lo scopo di riparare altre molecole proteiche che hanno subito un danno da agenti nocivi, come ad
esempio il riscaldamento eccessivo, da cui il nome. Esse sono molto importanti filogeneticamente per
l’economia cellulare, tant’è che sono presenti praticamente in tutti gli esseri viventi, dai batteri agli
organismi complessi come i mammiferi. E’ stato osservato che alcune HSP batteriche, in particolare quelle
della Clamidia Pneumoniae, hanno una forte somiglianza antigenica con la HSP 45 umana, ed è quindi
possibile che una infezione da Clamidia con successiva localizzazione dell’agente patogeno all’interno della
placca aterosclerotica possa portare alla attivazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni “self”.
In ogni caso, una volta che l’antigene viene riconosciuto come estraneo, si verifica l’attivazione delle cellule
T che, a loro volta, secernono una grande quantità di citochine che vanno a modulare i vari processi
dell’aterosclerosi.
Mentre gli eventi iniziali della formazione dell’ateroma coinvolgono primariamente la
disfunzione endoteliale e il reclutamento dei leucociti, la successiva evoluzione verso la formazione di una
placca complessa coinvolge anche le cellule muscolari lisce della parete arteriosa. Le cellule muscolari lisce
presenti nella lesione aterosclerotica provengono per migrazione da quelle normalmente presenti nella
tonaca media; lo stimolo chemiotattico è in questo caso rappresentato principalmente dal “platelet-derived
growth factor” (PDGF), secreto dalle piastrine e dai macrofagi, che possiede anche potenti effetti mitogeni.
Infatti, all’interno della lesione, le cellule muscolari lisce vanno incontro sia a fenomeni proliferativi,
aumentando di numero, che di aumento della produzione e secrezione della matrice extracellulare. I due
fenomeni, proliferazione cellulare e secrezione della matrice, sommati insieme contribuiscono in questa
fase dell’aterogenesi alla crescita della placca, anche se la matrice piuttosto che la componente cellulare
contribuisce maggiormente al volume della placca. Le macromolecole più importanti che costituiscono la
matrice cellulare sono il collagene (tipo I e III), alcuni proteoglicani e le fibre di elastina. Le cellule muscolari
lisce sono i principali tipi cellulari responsabili della produzione della matrice extracellulare la cui sintesi
viene favorita da alcune sostanze, quali il PDGF e il “transforming growth factor-beta” (TGF-ß) che vengono
prodotti da numerosi tipi cellulari all’interno della placca.
E’ importante sottolineare che la crescita della
placca non è un fenomeno lineare e costante come si è ritenuto fino a pochi anni or sono, ma è piuttosto
caratterizzato da una crescita non costante, dove accelerazioni improvvise si alternano a periodi di relativa
quiescenza. Queste crisi proliferative possono essere messe in relazione ad episodi di danno meccanico
della placca stessa, con attivazione delle piastrine circolanti e della cascata coagulativa e successiva

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348 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

esposizione delle cellule muscolari lisce a mitogeni potenti quali la stessa trombina.

La lesione avanzata:
necrosi e calcificazione 
Le placche avanzate spesso sviluppano aree di calcificazione al loro interno, ed
infatti già gli studi dell’inizio del secolo scorso avevano descritto la presenza all’interno delle placche di
caratteristiche morfologiche tipiche del processo di ossificazione. In anni più recenti si è scoperto che alcuni
sottotipi di cellule muscolari lisce, sotto l’effetto di citochine particolari con effetti osteogenetici come il
TGF-ß, sono in grado di produrre zone di intensa calcificazione della placca. Inoltre, nelle placche avanzate
vi sono proteine contenenti numerosi residui di acido glutammico carbossilato in posizione gamma
specializzate nel sequestro di ioni calcio e quindi nel favorire i fenomeni di calcificazione.
Un’altra
caratteristica delle placche avanzate è la presenza di aree di necrosi, nelle quali si è avuto la morte delle
cellule muscolari lisce ad opera di fenomeni di apoptosi che quindi possono contribuire all’indebolimento
della placca favorendone la rottura.

FISIOPATOLOGIA

I fattori di rischio 
In Italia le malattie cardiovascolari costituiscono una delle principali cause di mortalità,
di morbosità e di invalidità. Nel 2004 sono stati registrati quasi 600.000 decessi, di cui 80.000 per le
malattie ischemiche del cuore e 65.000 per le malattie cerebrovascolari: quindi, in Italia, un decesso su 4 è
dovuto a queste malattie che riconoscono una genesi comune. Secondo i dati dell’Osservatorio
Epidemiologico Cardiovascolare, nella popolazione italiana, su 1000 adulti tra 25 ed 84 anni, 15 uomini e 4
donne hanno una storia di infarto del miocardio, mentre ogni anno, nelle stesse età, 2 uomini su 1000 e 1
donna su 1000 va incontro ad un evento coronarico maggiore.
Non esiste una causa unica
dell’aterosclerosi. Sono però noti da lungo tempo diversi fattori, denominati fattori di rischio, che
aumentano il rischio di sviluppare la malattia e predispongono l’organismo ad ammalare (vedi Capitolo 46).
I più importanti sono: l’abitudine al fumo di sigaretta, il diabete, l’obesità, i valori elevati della
colesterolemia, l’ipertensione arteriosa e la scarsa attività fisica, oltre alla familiarità, all’età e al sesso. 


Dai fattori ambientali ai fattori genetici
La malattia aterosclerotica è una malattia multifattoriale la cui
espressione fenotipica è il risultato di un'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali: da un lato può
essere presente una predisposizione genetica alla malattia aterosclerotica, dall'altro vi sono i fattori
ambientali che possono modificare l'espressione di alcuni geni favorendo lo sviluppo della malattia stessa.
Nella valutazione del rischio cardiovascolare individuale e nella conseguente elaborazione di strategie
preventive e terapeutiche personalizzate, in futuro si dovrà tener conto sia dei classici fattori di rischio
legati allo stile di vita e all'età, sia dei fattori genetici.

PRESENTAZIONE CLINICA

L’aterosclerosi è una malattia cronica che progredisce lentamente al di sotto dell’orizzonte clinico,
rimanendo asintomatica per molti anni, spesso anche per decadi. Tuttavia, la velocità con cui la lesione
aterosclerotica evolve dalla semplice stria lipidica alla placca conclamata è estremamente variabile da un
individuo all’altro, e non è raro trovare soggetti sintomatici anche molto precocemente. E’ questo il caso di
pazienti che sviluppano un evento cardiovascolare maggiore nella terza/quarta decade di vita, mentre altri
soggetti, magari con numerosi fattori di rischio, non sviluppano mai eventi cardiovascolari. Questa
apparente discrepanza dipende sostanzialmente dall’interazione geni/ambiente, cioè dall’interazione del
background genetico di un determinato individuo con gli eventuali fattori di rischio; questa interazione è
tale da rendere particolarmente suscettibili di ammalare quei soggetti che hanno un profilo genetico

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349 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

particolarmente sfavorevole, e particolarmente resistenti coloro i quali possiedono un profilo genetico


“protettivo”. Al pari del diabete, non esiste un solo gene coinvolto nell’aterogenesi, ma piuttosto essi sono
numerosi (l’aterosclerosi è una malattia poligenica) e non ancora identificati completamente.

Le stenosi
arteriose 
Anche quando l’aterogenesi è nella sua fase “florida”, la crescita della placca può essere
compensata da fenomeni di rimodellamento positivo, cioè di crescita della placca verso l’esterno. Tuttavia,
da un certo punto in poi la crescita della placca eccede la capacità di rimodellamento positivo del vaso e la
placca stessa comincia a sporgere all’interno del lume arterioso riducendolo in maniera più o meno
significativa. Anche questa fase può rimanere per un certo periodo di tempo largamente asintomatica, fino
a quando la placca diventa emodinamicamente significativa. Con questo termine intendiamo definire quelle
placche che restringono il lume del vaso colpito, causando un ostacolo al flusso ematico. Il principale
meccanismo di compenso mediante il quale viene mantenuto un adeguato flusso ematico a riposo è
rappresentato dalla vasodilatazione delle arteriole di resistenza sottostanti al vaso malato (vedi capitolo
23). E’ a questo punto che la placca vira dalla fase asintomatica a quella in cui diventa apparente sul piano
clinico. Le manifestazioni cliniche dell’aterosclerosi cronica sono quindi conseguenti al restringimento
dell'arteria colpita, che rende il flusso ematico relativamente fisso, cioè incapace di aumentare quando le
condizioni funzionali lo richiedono, come ad esempio durante gli sforzi fisici. Di conseguenza la
sintomatologia, in particolare il dolore ischemico, tende ad essere assente a riposo e a presentarsi in
occasione di esercizio fisico più o meno intenso, a seconda della gravità dell'ostruzione arteriosa. Tipiche
sindromi croniche sono: l’angina pectoris stabile, l’angina abdominis, la claudicatio intermittens, nella quale
il dolore insorge durante la deambulazione e scompare tipicamente dopo pochi minuti di riposo.

La
rottura della placca e la trombosi 
L’aterosclerosi, esclusivamente intesa come formazione e sviluppo delle
placche aterosclerotiche, è una malattia relativamente benigna. Infatti, anche in quei casi in cui l’ateroma
progredisce fino ad occludere completamente il lume del vaso interessato, generalmente ciò accade in un
arco di tempo piuttosto lungo. In queste circostanze, il letto vascolare interessato ha il tempo di adattarsi
alla nuova condizione sfavorevole attraverso un processo denominato neoangiogenesi, mediante il quale si
formano circoli collaterali vicarianti che sostituiscono funzionalmente il vaso occluso. Il risultato finale è
quello di evitare la necrosi ischemica del tessuto interessato che invece accadrebbe se l’occlusione
arteriosa fosse improvvisa. Al contrario, l’occlusione acuta di natura trombotica rappresenta la complicanza
più temibile dell’aterosclerosi: poiché l’organo interessato non ha il tempo sufficiente per stimolare lo
sviluppo di un adeguato circolo collaterale, l’inevitabile conseguenza della trombosi arteriosa è di solito la
necrosi (morte cellulare) del tessuto ischemico. Tale processo si può localizzare a livello del circolo
coronarico, causando l’insorgenza di una cosiddetta sindrome coronarica acuta (infarto miocardico o angina
instabile), o a livello del circolo cerebrale, causando un ictus, o in un qualsiasi tessuto periferico, causando
la necrosi dello stesso.
La complicanza (rottura, ulcerazione, erosione) di una placca aterosclerotica è stata
identificata come la causa più frequente di trombosi arteriosa. La rottura della placca espone sostanze pro-
trombotiche contenute nella placca stessa (tissue factor, collageno, fattore di von Willebrand, etc) che
attivano la cascata della coagulazione e le piastrine circolanti e che culminano quindi con la formazione di
un trombo intrarterioso (Figura 6).

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350 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 Formazione della trombosi intravascolare. A: quando la placca si complica (ulcerazione, rottura,
etc), viene a perdersi il rivestimento endoteliale con esposizione di numerose sostanze pro-trombogene
presenti nel sottoendotelio. Tra queste le più importanti sono il tissue factor (TF), il collageno e il fattore di
von Willebrand (vWf). Il tissue factor, legando il fattore VII della coagulazione è in grado di attivare il fattore

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351 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

X e quindi di dare inizio alla cascata coagulativa. Le piastrine aderiscono al collageno e al vWf andando a
ricoprire le aree deendotelizzate. Nel frattempo, il FXa formatosi ad opera del complesso TF/FVIIa, insieme
al FVa forma il complesso della protrombinasi che attiva la protrombina, o fattore II in trombina (FIIa). Le
piccole quantità di trombina che si formano vanno ad attivare ulteriormente le piastrine adese al danno
endoteliale (B), portando all’assemblaggio sulla loro membrana di numerosi complessi di protrombinasi
(FXa/FVa). Poiché sulla superficie piastrinica l’efficienza del complesso della protrombinasi è molto elevata,
come conseguenza si ha la formazione di elevate quantità trombina (C) che in definitiva contribuisce alla
formazione del trombo.

Le placche che sono destinate a rompersi sono difficili da identificare, anche perché la severità della stenosi
causata dalla placca aterosclerotica misurata con l’angiografia mal si correla con l’insorgenza clinica di un
evento acuto. Infatti, molti studi hanno dimostrato in maniera inequivocabile che le placche cosiddette
vulnerabili, cioè quelle maggiormente prone alla rottura, causano in genere stenosi non significative, in
molti casi addirittura meno del 50% del diametro luminale. Queste placche vulnerabili e instabili, poiché
non sono significative dal punto di vista emodinamico, sono di solito silenti sul piano clinico, fino a quando
vanno incontro a rottura e, attraverso l’ostruzione trombotica del flusso ematico coronarico, causano
l’insorgenza di un evento acuto.
La sequenza di eventi che porta alla complicanza della placca non è nota
con esattezza, ma fattori meccanici, come lo stress tangenziale di parete e l’assottigliamento del cappuccio
fibroso che riveste il core lipidico giochino sicuramente un ruolo importante nell’influenzare il destino della
placca. Accanto a questa teoria puramente “meccanica”, nel corso degli ultimi 15 anni una grande massa di
dati ha contribuito a far avanzare le nostre conoscenze sulla fisiopatologia della complicanza della placca,
suggerendo che l’infiammazione e il coinvolgimento del sistema immunitario giocano un ruolo importante
non solo nella formazione della lesione aterosclerotica, ma anche della sua complicanza. Questa
affascinante ipotesi venne inizialmente formulata sulla scorta di alcune osservazioni morfologiche che
dimostrarono la presenza di linfociti T e macrofagi in numero molto più elevato nelle placche complicate
rispetto alle loro controparti stabili. Qual è allora il ruolo preciso e come può il sistema immunitario alterare
la stabilità di una placca aterosclerotica? E’ affascinante pensare ad un ruolo dei macrofagi come cellule
effettrici del fenomeno. Queste cellule infatti, una volta attivate, sono in grado di rilasciare radicali
dell’ossigeno e vari enzimi proteolitici, come le metalloproteasi, enzimi ad azione litica nei confronti della
matrice cellulare, che possono ridurre la resistenza del cappuccio fibroso e quindi favorirne la rottura
(Figura 7).

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352 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 7 La complicanza della placca (rottura, ulcerazione) è un fenomeno multifattoriale. In passato


grande importanza è stata data a fattori meccanici quali l’aumento dello shear stress. Tuttavia, attualmente
l’ipotesi più accreditata è rappresentata dai fenomeni immuno-infiammatori che vengono attivati
all’interno della placca instabile. Infatti, la sintesi e la degradazione della matrice extracellulare (collageno,
elastina, etc) sono in continuo equilibrio tra loro. Quando però un linfocita T incontra il suo antigene
specifico si attiva e produce una serie di citochine in grado di attivare i macrofagi presenti all’interno della
placca. Questi producono e rilasciano le metalloproteasi (collagenasi, gelatinasi, elastasi) che in ultima
analisi aumentano la velocità di degradazione della matrice, indebolendola e favorendone la rottura.

Questa teoria trova riscontro nell’osservazione che le metalloproteasi sono presenti in elevate
concentrazioni nelle placche complicate insieme ad altri prodotti di derivazione macrofagica. Poiché è noto
che i macrofagi possono essere attivati dai linfociti T, l’attivazione di tali cellule all’interno della placca può
rappresentare un meccanismo fisiopatologico importante nella complicanza della placca stessa. In questo
senso vi sono diverse evidenze, anche se indirette, dell’esistenza di tale fenomeno. Per esempio, studi
autoptici hanno rivelato l’esistenza di cellule T attivate all’interno della placca instabile, mentre altri studi
hanno dimostrato la presenza di linfociti T attivati in campioni di placca instabile prelevati da pazienti in
corso di procedure di rivascolarizzazione percutanea.

CENNI DI TERAPIA

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353 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Modificazione dei fattori di rischio. 
Evidenze scientifiche dimostrano che la riduzione dei livelli medi dei
fattori di rischio riduce l’incidenza delle complicanze dell’aterosclerosi, sia diminuendo l’incidenza delle
malattie cardiovascolari che la mortalità a loro correlata. La prevenzione dell’aterosclerosi coincide in gran
parte con gli sforzi della collettività per l’adozione di stili di vita salutari: alimentazione sana, esercizio fisico,
non dipendenza dal fumo di tabacco. 

Terapia farmacologica 
Attualmente il medico ha a disposizione
alcuni farmaci molto efficaci nel diminuire i livelli ematici di colesterolo, uno dei più importanti fattori di
rischio per l’aterosclerosi. In particolare, le statine si sono dimostrate molto efficaci in questo ambito. Tali
farmaci riconoscono come meccanismo d’azione il blocco della prima tappa biochimica della sintesi del
colesterolo in quanto inibiscono l’enzima idrossi-metil-glutaril Coenzima A redattasi, enzima chiave sulla via
biosintetica del colesterolo. Come conseguenza di tale inibizione, le cellule dell’organismo e quelle epatiche
in particolare, si “impoveriscono” di colesterolo endogeno. Poiché il colesterolo costituisce un elemento
fondamentale per la vita della cellula (è un componente molto importante, tra l’altro, delle membrane
cellulari), la cellula reagisce aumentando l’espressione dei recettori di membrana per le LDL, le lipoproteine
responsabili del trasporto ematico del colesterolo. L’aumento dei recettori di membrana per le LDL, a sua
volta, causa l’abbassamento dei livelli ematici di colesterolo fino al 50%. E’ stato dimostrato che l’uso delle
statine nei soggetti a rischio particolarmente elevato di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori non solo
abbassa il loro livello di rischio ma, in alcuni casi, porta ad un rallentamento della crescita delle lesioni
aterosclerotiche e talvolta addirittura alla loro regressione.

CONCLUSIONI E POSSIBILI SVILUPPI FUTURI

L’aterosclerosi è una malattia degenerativa e progressiva delle arterie di grande e medio calibro a grande
componente infiammatoria: l’infiammazione è infatti in grado di modulare fortemente tutte le fasi
dell’aterogenesi, dalla formazione della lesione iniziale alla complicanza della placca con occlusione
trombotica del lume vasale. La Figura 8 (immagine ancora non disponibile) riassume in maniera visiva
quanto detto in questo capitolo.

Sebbene molto sia stato fatto in termini di chiarimento dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base
dell’aterosclerosi, ancora poco si può fare per identificare le placche vulnerabili, quelle cioè
particolarmente a rischio di complicanza. La sfida per la moderna cardiologia nei prossimi 5-10 anni è
proprio rappresentata dalla identificazione di metodiche non invasive che possano distinguere le placche
stabili da quelle a rischio, indirizzando quindi verso quest’ultime i maggiori sforzi terapeutici.

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354 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 47
La Valutazione del Rischio Coronarico
Salvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina Novo

DEFINIZIONE

La probabilità di coronaropatia aumenta in presenza dei fattori di rischio cardiovascolare i quali, se in


numero > 1, potenziano il rischio in maniera non additiva ma esponenziale. 
Un fattore di rischio è tale se
trial prospettici su popolazioni numerose hanno dimostrato un’associazione di tipo statistico tra presenza
del fattore di rischio e incidenza di nuovi casi di malattia, e se esiste la dimostrazione che correggendo il
fattore di rischio si riduce prospetticamente l’incidenza di nuovi casi di malattia. 
I fattori di rischio possono
essere distinti in tradizionali ed emergenti. Per questi ultimi non vi è ancora la possibilità di correzione
farmacologica e/o la dimostrazione che correggendo il fattore di rischio diminuiscono i nuovi casi di
malattia.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI

Distinguiamo fattori di rischio non modificabile e modificabile, cioè correggibile con modifiche
comportamentali o con trattamenti farmacologici. I non modificabili sono l’età, il genere e la familiarità. Tra
i modificabili i più importanti sono sicuramente la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito e
il fumo di sigaretta. Vanno menzionati, come fattori di rischio minori, anche: l’inattività fisica, l’alcool,
l’obesità, lo stress, la frequenza cardiaca elevata. 


FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI NON MODIFICABILI



Età
Il rischio di coronaropatia aumenta con l’età, in particolare dopo i 65 anni, essendo la malattia
aterosclerotica una patologia cronico-degenerativa. In particolare, con l’età aumenta l’attivazione del
sistema renina-angiotensina-aldosterone e la produzione di radicali tossici dell’ossigeno che favoriscono la
disfunzione endoteliale e l’innesco di fenomeni apoptotici. 



Genere
L’incidenza di coronaropatia è più elevata negli uomini rispetto alle donne in età fertile, in quanto
sembra che gli estrogeni svolgano un ruolo protettivo. Dopo la menopausa tale differenza si annulla, poiché
la carenza di estrogeni comporta variazioni sfavorevoli dell’assetto lipidico, con aumento delle LDL e
riduzione delle HDL, modificazioni dell’emostasi in senso procoagulante e disfunzione endoteliale.
Familiarità
Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato una predisposizione familiare alla malattia
coronarica che sarebbe determinata dall’interazione tra ereditarietà a carattere poligenico e fattori
ambientali. Si considera a rischio un individuo in cui un familiare di primo grado abbia presentato un evento
coronarico ad un’età < 55 anni se uomo e < 60 anni se donna.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI
MODIFICABILI



Dislipidemia
Elevati livelli di colesterolo totale si associano ad un’aumentata incidenza di malattia


aterosclerotica, mentre una loro riduzione mediante dieta e/o terapia farmacologica, rallenta la
progressione della stessa e favorisce la stabilizzazione delle placche. 
Particolarmente importante è il

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355 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riscontro di elevati livelli di colesterolo-LDL, essendo queste lipoproteine ricche in colesterolo e capaci di
infiltrare la parete vasale, quando ossidate (vedi Capitolo 46). Il colesterolo LDL si può calcolare
semplicemente applicando la formula di Friedewald: LDL-C = CT – HDL-C – TG/5. Elevati livelli di trigliceridi
sono anche un fattore di rischio; infatti, spesso si associano al diabete o alla sindrome da resistenza
insulinica, e sono in grado di ridurre la fibrinolisi attraverso un’inibizione dell’attivatore del plasminogeno.
Le lipoproteine HDL, invece, riescono a mobilizzare il colesterolo dagli ateromi trasportandolo al fegato per
la metabolizzazione; inoltre, esplicherebbero azioni protettive quali l’inibizione dell’adesione dei monociti
all’endotelio, la riduzione della proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’induzione della vasodilatazione
endotelio-mediata e l’inibizione dell’ossidazione delle LDL. Pertanto, elevati livelli di HDL-C esplicano
un’azione protettiva, mentre bassi livelli di HDL-C sono un fattore di rischio. Per qualunque livello di
colesterolo totale o LDL il rischio aumenta se contemporaneamente vi sono bassi livelli di HDL-C.
Soltanto
l’esercizio fisico e il consumo moderato di vino rosso aumentano il livello di HDL-C, mentre l’obesità e il
fumo lo riducono. 



Diabete
Il diabete costituisce un importante fattore di rischio, tanto che è stato considerato dalle Linee
Guida una condizione di “cardiopatia ischemica equivalente”. Nel paziente diabetico coesistono in genere
multipli fattori di rischio, essendo comuni l’obesità viscerale, alterazioni del metabolismo lipidico, con
elevazione dei trigliceridi, riduzione di HDL-C e presenza di LDL piccole e dense, aumento dei radicali liberi
dannosi per l’endotelio, iperaggregabilità piastrinica e iperfibrinogenemia.
Nel paziente con diabete la
riserva coronarica è spesso diminuita, e la malattia coronarica è severa e plurivasale, con lesioni
prevalentemente distali, tali da rendere difficoltoso sia l’approccio interventistico che quello chirurgico. I
pazienti diabetici hanno anche un maggiore rischio di sviluppare insufficienza cardiaca a causa della
cardiomiopatia diabetica.



Ipertensione arteriosa
Molti studi epidemiologici hanno dimostrato l’inequivocabile correlazione lineare


tra ipertensione arteriosa e malattie cardiovascolari, in particolare ictus cerebrale e infarto del miocardio.
Da un lato l’ipertensione favorisce la disfunzione endoteliale attraverso l’aumento dello shear-stress,
dall’altro si associa spesso ad elevati livelli di angiotensina II, che esercita un’azione vasocostrittrice e
proinfiammatoria e stimola la proliferazione delle cellule muscolari lisce.



Fumo di sigaretta
Il fumo aumenta il rischio di cardiopatia ischemica, proporzionalmente con il numero di
sigarette fumate e gli anni di fumo; sembra che anche il fumo passivo sia un fattore di rischio.
La nicotina
attiva il sistema simpatico adrenergico con conseguente aumento della frequenza cardiaca, del lavoro
cardiaco, della pressione arteriosa e possibile riduzione del flusso coronarico per vasocostrizione. Il
monossido di carbonio agisce con un meccanismo tossico diretto sull’endotelio che diventa più permeabile
alle lipoproteine, e provoca ipossia relativa secondaria all’aumento della carbossiemoglobina. Il fumo,
inoltre, aumenta l’aggregabilità piastrinica e la viscosità ematica.
I benefici della cessazione del fumo sono
già evidenti dal primo anno, e dopo circa tre-cinque anni, il rischio relativo dell’ex-fumatore diviene simile a
quello del non fumatore. 



Obesità
L’obesità, e soprattutto l’accumulo di grasso viscerale, si associano a dislipidemia e resistenza


insulinica, con livelli elevati di trigliceridi, bassi di HDL-C e ridotta tolleranza al glucosio; tale cluster di fattori
di rischio è comunemente indicato come sindrome metabolica.



Inattività fisica
I più importanti studi epidemiologici hanno dimostrato che la vita sedentaria e la mancanza
di attività fisica regolare costituiscono un fattore di rischio. Viceversa, l’attività fisica svolta con regolarità
riduce significativamente il rischio cardiovascolare, sia in prevenzione primaria sia in prevenzione
secondaria. Essa determina una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sotto sforzo,
e quindi del consumo di ossigeno del miocardio; favorisce, inoltre, l’aumento del colesterolo HDL, la

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356 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riduzione dei trigliceridi, della glicemia (nel diabete) e dell'obesità, e diminuisce l'aggregabilità piastrinica. 


Alcool
Recenti studi hanno messo in evidenza un possibile ruolo dell’abuso di alcool come fattore di rischio
cardiovascolare. Al contrario, un uso controllato e limitato di vino rosso, sembra favorire l’aumento del
colesterolo HDL e svolgere azione antiossidante grazie alla presenza di polifenoli e rosveratrolo.



Frequenza Cardiaca
Negli ultimi anni è stato dimostrato un ruolo dell’incremento della frequenza cardiaca
e della riduzione della sua variabilità, anche in soggetti sani, nel predire eventi patologici cardiovascolari. 



Pattern comportamentale
Numerose osservazioni hanno evidenziato che una particolare condizione


comportamentale, definita come personalità di “tipo A” e caratterizzata da atteggiamenti caratteriali quali
fretta, impazienza, eccessiva competitività ed ostilità verso l'ambiente sociale, lavorativo e familiare, possa
aumentare il rischio coronarico. Il meccanismo imputabile è verosimilmente un’aumentata reattività
cardiovascolare secondaria ad una maggiore liberazione di catecolamine e all’ipercortisolemia. Tuttavia, in
tali soggetti il rischio aumenterebbe solamente quando non si realizzino gli obiettivi prefissati.

FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI

Sindrome Metabolica
La sindrome metabolica è costituita da una combinazione di fattori di rischio che,
coesistendo, conferiscono un rischio elevato di sviluppare cardiopatia ischemica. Esistono diverse
classificazioni della malattia: secondo quella del NECP-ATP III la sindrome è definita dalla coesistenza di
almeno tre dei seguenti fattori di rischio: 1) circonferenza vita > 102 cm nell’uomo e di 88 cm nella donna,
2) trigliceridemia =150 mg/dL, HDL-C < 40 mg/dL nell’uomo e < 50 mg/L nella donna, 3) pressione arteriosa
= 130/85mmHg, 4) glicemia a digiuno = 100 mg%. La prevalenza della sindrome metabolica aumenta con
l’età con maggiore frequenza nel sesso maschile fino a 45 anni di età e successivamente nel sesso
femminile. Infiammazione 
Recenti studi, hanno dimostrato che le lesioni aterosclerotiche sono il frutto di
un processo infiammatorio cronico, e che la stessa flogosi contribuisce alla rottura e/o all’erosione della
placca predisponendo allo sviluppo di una sindrome coronarica acuta (vedi Capitolo 46). 
Alcune noxae
(LDL ossidate, ipertensione, fumo, diabete, agenti infettivi, etc.) sono in grado di alterare la funzione
dell’endotelio inducendo la produzione di citochine proinfiammatorie (IL1, TNFalfa, IL6, sCD40L, etc.) e
rendendolo suscettibile all’infiltrazione di lipidi e cellule infiammatorie. Queste amplificano il processo
infiammatorio producendo altre citochine, fattori di crescita e fattori chemiotattici. Più una placca è ricca di
lipidi e cellule infiammatorie (in particolare macrofagi in grado di produrre proteasi capaci di lisare il
cappuccio fibroso, come le metalloproteinasi) più è incline alla rottura e quindi all’insorgenza di una
sindrome coronarica acuta (SCA). In tal senso l’infiammazione costituisce un fattore di rischio. La PCR, una
proteina di fase acuta prodotta a livello epatico, è il marker di flogosi più ampiamente studiato anche
perchè essa é dosabile nel sangue periferico in maniera semplice e poco dispendiosa. I livelli plasmatici di
PCR (ultrasensibile = hsPCR) costituiscono un marker di rischio in pazienti asintomatici con fattori di rischio
e un predittore prognostico in pazienti con angina instabile e SCA. La PCR è in grado di attivare il
complemento e di indurre l’espressione di tissue factor, quindi di attivare la cascata coagulativa.
Esiste
anche un’associazione forte fra livelli di fibrinogeno ed eventi cardiovascolari. Il fibrinogeno aumenta la
viscosità ematica, incrementa la trombogenicità del sangue ed esalta l’aggregazione piastrinica favorendo
la trombosi e, infine, incrementa la formazione di fibrina portando conseguentemente ad un aumento delle
dimensioni dei trombi e ad una riduzione della loro suscettibilità alla lisi. 


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357 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Iperomocisteinemia
L’omocisteina è un composto intermedio del metabolismo della metionina. L’assenza


genetica dell’enzima metilentetraidrofolatoreduttasi (MTHFR) che trasforma l’omocisteina in metionina
rappresenta una delle cause di iperomocisteinemia e si associa ad aterosclerosi accelerata ed a trombosi
arteriosa e venosa. L’omocisteina sembrerebbe indurre il danno vascolare interferendo con la produzione
di ossido nitrico da parte dell’endotelio, e con la funzione piastrinica e incrementando la tendenza alla
trombosi. Tuttavia, gli studi di intervento finora condotti non sono stati in grado di dimostrare che
riducendo le concentrazioni di omocisteina si riducano gli eventi cardiovascolari.



Microalbuminuria
Il termine microalbuminuria indica l’aumento subclinico dell’escrezione urinaria di


albumina, con valori di compresi tra 30 e 300 mg/24 h, in assenza di macroproteinuria e di nefropatia
conclamata. L’aumento della permeabilità dei capillari glomerulari favorirebbe il passaggio transmembrana
di albumina ma anche di lipoproteine aterogene nella parete vascolare, e sarebbe un indice di disfunzione
endoteliale. La microalbuminuria rappresenta un marker di danno vascolare globale utile principalmente
nella stratificazione del rischio di pazienti diabetici e ipertesi.



Infezioni 
Vi sono evidenze che alcuni microrganismi come cytomegalovirus, herpes virus, chlamydia
pneumoniae, helicobacter pylori (in particolare, il ceppo citotossici), possano contribuire all’insorgenza
della malattia aterosclerotica, nonché rendere instabili le placche aterosclerotiche, agendo come noxae
sull’endotelio. L’incremento del titolo anticorpale verso tali patogeni è stato utilizzato come predittore di
eventi cardiovascolari futuri in pazienti con infarto acuto del miocardio. L’ipotesi infettiva dell’aterosclerosi
resta tuttavia ancora controversa e i trial finora condotti con antibiotici non hanno dato alcun risultato
significativo nel ridurre gli eventi cardiovascolari.

MARKER STRUMENTALI DI DANNO VASCOLARE PRECLINICO

Nella stratificazione del rischio coronarico oltre alla valutazione dei fattori di rischio è utile la ricerca di
segni di aterosclerosi preclinica, oggi possibile mediante lo studio ultrasonografico delle arterie carotidi, la
misurazione dell’Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI) e la valutazione non invasiva della funzione
endoteliale. 



Ispessimento Intima-Media (IMT) e Placca Asintomatica Carotidea 
Diversi studi epidemiologici hanno
dimostrato un’associazione tra l’incremento dello spessore medio-intimale carotideo (IMT) o la presenza di
placche aterosclerotiche asintomatiche (PCA) delle carotidi e l’incidenza di malattia cerebro- e
cardiovascolare (ictus ed infarto miocardico) nella popolazione generale (vedi Capitolo 54). 



Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI)
Normalmente misurando la pressione arteriosa sistolica alla


caviglia (tibiale posteriore) o alla tibiale anteriore e rapportandola alla pressione sistolica brachiale il
rapporto è > 1. Se tale rapporto è < 0.9 questo significa che il paziente è portatore di aterosclerosi
preclinica a livello dell’albero arterioso iliaco-femoro-popliteo (vedi Capitolo 12). Numerosi studi
epidemiologici hanno evidenziato che una riduzione dell’ABI è associato ad aterosclerosi in altri distretti
(coronarie e carotidi) ed a futuri eventi cerebro- e cardiovascolari. 



Disfunzione Endoteliale 
La disfunzione endoteliale rappresenta il primum movens nella patogenesi
dell’aterosclerosi (vedi Capitolo 48). La disfunzione endoteliale può essere dimostrata dalla vasocostrizione
conseguente all’iniezione intrarteriosa di acetilcolina, in arteria brachiale o durante angiografia coronarica.
Invece, se l’endotelio è integro, tale sostanza provoca vasodilatazione stimolando la liberazione di
Nitrossido (NO) da parte dell’endotelio. Recentemente è stata messa a punto una tecnica non invasiva per

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358 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

lo studio la valutazione della funzione endoteliale attraverso lo studio della dilatazione flusso mediata
(FMD) dell’arteria brachiale con tecnica ultrasonografica. Pazienti con scarsa FMD hanno un’alta probabilità
di sviluppare eventi cardiovascolari rispetto a quei soggetti con normale FMD. Tale risultato evidenzia,
infatti, una carente sintesi di ossido nitrico (NO) da parte dell’NO sintetasi endoteliale, fattore cruciale della
disfunzione endoteliale.

RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE E CARTE DEL RISCHIO

Il rischio cardiovascolare è un processo complesso, influenzato da fattori genetici, ambientali, sociali e


culturali. Pertanto, al fine di valutarlo in maniera obiettiva si è reso necessario introdurre il concetto di
Rischio Cardiovascolare Globale (RCVG) e formulare le carte del rischio. Queste, mediante algoritmi e/o
sistemi a punteggio che valutano una serie di parametri, consentono di stimare il rischio di eventi
cardiovascolari nei successivi 10 anni. La prima carta del rischio è stata quella di Framingham, che si basa
sul calcolo del risk score ottenuto dalla somma del punteggio attribuito ai singoli fattori di rischio presenti.
La carta europea del rischio utilizza per il calcolo una mappa di mortalità cardiovascolare a codifica di colore
e distingue in Europa 2 zone, una ad alto ed una a basso rischio, di cui fa parte l’Italia. Per stimare il rischio
di presentare un evento cardiovascolare maggiore a 10 anni, l'Istituto Superiore di Sanità ha elaborato una
carta italiana (Progetto Cuore), che distingue 4 categorie di soggetti: uomo diabetico (Figura 1),

Figura 1 Carta italiana del rischio (uomo diabetico)

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uomo non diabetico (Figura 2)

Figura 2 Carta italiana del rischio (uomo non diabetico)

donna diabetica (Figura 3)

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360 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Carta italiana del rischio (donna diabetica)

donna non diabetica (Figura 4)

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361 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Carta italiana del rischio (donna non diabetica)

in cui il rischio è attribuito in base alla presenza o meno, e al valore crescente, di: età, genere, diabete,
abitudine al fumo, valori di pressione arteriosa sistolica e colesterolemia. Il RCVG è calcolabile per uomini e
donne esenti da precedenti eventi cardiovascolari, di età compresa fra 40 e 69 anni. Il livello di rischio a 10
anni è distinto in: < 5%; tra 5 e 10%; tra 10 e 15%; tra 15 e 20%; tra 20 e 30%; > 30%. 
La stratificazione del
rischio coronarico non costituisce un mero calcolo matematico, ma ha delle ovvie implicazioni di ordine
pratico nella prevenzione di eventi cardiovascolari (Tabella I).

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362 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PREVENZIONE PRIMARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Per prevenzione primaria s’intende la messa in atto di una strategia d’intervento sulla popolazione mirata a
prevenire un evento mai manifestatosi in precedenza. 
Il fulcro della prevenzione primaria è la correzione
dei fattori di rischio ovvero l'abolizione dell'abitudine al fumo, la dieta alimentare (ridurre l'assunzione di
zuccheri semplici, di alcool, di proteine animali, di sale e di colesterolo, prediligendo gli acidi grassi insaturi),
il controllo del peso corporeo, l’attività fisica regolare, il trattamento dell’ipertensione, delle dislipidemie e
dell’iperglicemia. I pazienti ipertesi ad alto rischio dovrebbero mirare a raggiungere una pressione arteriosa
< 130/80 mm Hg, mentre valori < 140/90 mm Hg sono accettabili per l’ipertensione non complicata. Inoltre,
se il rischio globale è > 20% va istituito un trattamento farmacologico dell’ipercolesterolemia anche lieve.

Nella Tabella II

sono riportati i target raccomandabili per il colesterolo-LDL, per categoria di rischio, secondo le Linee Guida
NCEP-ATP III e le indicazioni ad instaurare una terapia.
Per quanto riguarda le HDL-C il valore desiderabile
dovrebbe essere > 40 mg/dl per gli uomini e > 50 mg/dl per le donne, per i trigliceridi < 150 mg/dl.
Le
modificazioni dello stile di vita prima discusse comportano un aumento del 10-20% dei livelli plasmatici
delle HDL-C ed una riduzione dei trigliceridi. Nelle ipertrigliceridemie elevate > 500 mg/dl, l’intervento
farrmacologico è necessario. 
Nel paziente diabetico, per il rischio particolarmente elevato è fondamentale
l'ottimale controllo glicemico e lo stretto controllo di tutti i concomitanti fattori di rischio.



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363 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Prevenzione nei pazienti a rischio intermedio, con aterosclerosi preclinica
I soggetti con almeno 2 fattori
di rischio, i quali secondo il Progetto Cuore hanno un rischio intermedio, in realtà se coesistono segni
strumentali di aterosclerosi preclinica (IMT > 1 mm o PCA, o ABI < 0.9 o ridotta FMD) si collocano ad un
livello di rischio molto più elevato. Tali soggetti necessitano di una strategia di prevenzione più aggressiva e
di misure farmacologiche anche se in tal senso il consenso non è ancora unanime.

PREVENZIONE SECONDARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Per prevenzione secondaria si intende l’attuazione di una strategia terapeutica in soggetti che hanno avuto
un evento cardiovascolare. Si basa sull’interazione tra modifiche dello stile di vita ed uso ragionato dei
farmaci. Numerosi studi clinici hanno dimostrato l'utilità delle statine sia per il controllo dell'assetto lipidico
sia per gli effetti di stabilizzazione sulla placca. Nel controllo dei valori pressori vanno considerati di prima
scelta gli ACE-inibitori, i sartani e i beta-bloccanti; questi ultimi hanno effetto cardioprotettivo, riducono il
consumo di ossigeno e la mortalità. Inoltre, un ruolo fondamentale è svolto dai farmaci antitrombotici, in
particolare dall’acido acetilsalicilico, che assunto con dosaggio da 75 a 325 mg/die riduce del 33% il rischio
di reinfarto e del 25% la mortalità.

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364 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 48
Le Funzioni dell’Endotelio
Marika Massaro, Egeria Scoditti, Maria Annunziata Carluccio, Raffaele De Caterina

L’ENDOTELIO VASCOLARE: DAL CONCETTO DI “CONTENITORE PER LA CIRCOLAZIONE” A QUELLO DI


“CONTROLLO DELL’ OMEOSTASI VASCOLARE”

I vasi sanguigni giocano un ruolo chiave nel mantenimento dell’omeostasi cellulare e della fisiologia
d’organo. Essi infatti permettono al sangue di circolare ininterrottamente attraverso tutte le parti
dell’organismo, e così assicurano sia la distribuzione capillare dei nutrienti e dell’ossigeno sia la rimozione
dei cataboliti e degli xenobiotici da tutti gli organi e dai tessuti. William Harvey fu il primo a descrivere, agli
inizi del quindicesimo secolo, i principi fondamentali della circolazione del sangue. Egli rimase talmente
impressionato dalla sua complessità da affermare nel suo libro “Exercitatio Anatomica de Motu Cordis et
Sanguinis in Animalibus” che sentiva quasi “che il moto del cuore e del sangue potesse essere compreso
realmente solo da Dio”. Gli esperimenti di Harvey confermavano i principi secondo i quali il sangue rifluiva e
circolava nel sistema vascolare, un’idea già presente nelle convinzioni di Galeno quindici secoli prima e che
era stata successivamente sviluppata da Andrea Cesalpino nella seconda metà del ‘500. Da Cisalpino infatti
per la prima volta il moto del sangue fu definito “circulatio” e fu puntualizzato che il cuore, e non il fegato,
costituiva il centro del movimento. Ma la genialità della concezione di Harvey fu quella di considerare, per
la prima volta nella storia della medicina, la circolazione da un punto di vista “meccanico e dinamico”. Egli
tuttavia non riuscì a stabilire quale fosse il punto di unione tra sistema arterioso e venoso ossia come il
sangue passa dalle arterie alle vene. Quindi, il suo “circolo” anatomico restò “aperto” almeno fino a quando
Marcello Malpighi non rivelò, nel 1661, che arterie e vene erano collegate da una finissima rete di capillari,
un’osservazione tanto importante da essere considerata la seconda maggiore scoperta, dopo quella di
Harvey, della medicina vascolare. Il passo successivo nella caratterizzazione strutturale e funzionale dei vasi
sanguigni, fu ad opera di von Recklinghausen, il quale, nel 1861 dimostrò che i vasi sanguigni non sono delle
semplici strutture di conduzione che si affondano inerti nei tessuti, ma sono costituiti, e internamente
ricoperti, da organizzazioni cellulari vitali. Altrettanto importanti acquisizioni furono ottenute verso la fine
dello stesso secolo da Starling, il quale attraverso la formulazione delle leggi sulla “meccanica degli scambi
capillari” (1896) dell’apprezzò l’endotelio come una “barriera selettiva”. Tuttavia è stato solo con gli studi di
microscopia elettronica condotti da Palade nella metà degli anni ‘50 e con quelli di fisiologia cellulare
condotti da Gowans poco anni dopo che si è dimostrata la possibilità di un’interazioni fisica fra linfociti e
cellule endoteliali e quindi si è sancito in via definitiva il ruolo “attivo” giocato dall’endotelio nella fisiologia
vascolare. Altra tappa fondamentale nella storia della biologia vascolare è stata la scoperta nel 1976 ad
opera di Moncada e Vane, della prostaciclina (PGI2), per la cui importanza biologica Vane è stato insignito
del premio Nobel nel 1982. Infine, nel 1980, Furchgott e Zawadzki hanno dimostrato in vitro che il
rilassamento arterioso in risposta all’acetilcolina era subordinato alla produzione, da parte delle cellule
endoteliali, di un “fattore” poi identificato da Moncada come nitrossido (NO), e per il quale riconoscimento
Furchgott è stato insignito del premio Nobel nel 1987. Questa importante osservazione è stata la scintilla
per l’esplosione di nuova serie di conoscenze tutte concordanti nell’indicare che l’endotelio svolge un ruolo
chiave nell’assicurare la flessibilità funzionale dell’albero vascolare. Gli innumerevoli studi che da allora si
sono succeduti hanno infatti permesso la caratterizzazione dell’endotelio vascolare come l’organo a più
ampia diffusione, eterogeneità e dinamicità dell’organismo umano espletando funzioni vitali di carattere
sintetico, secretorio, metabolico ed immunologico. Queste funzioni, come si apprezzerà nei paragrafi

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365 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

successivi, appaiono costantemente volte al mantenimento dell’omeostasi vascolare: in condizioni


fisiologiche le cellule endoteliali garantiscono l’integrità vascolare attraverso una modulazione funzionale
della liberazione di vari fattori vasoattivi, mentre negli stati patologici questa flessibilità, e dunque le
potenzialità omeostatiche dell’endotelio, diminuiscono a favore di un’attività specifica che prende il
sopravvento (Figura 1).

Figura 1 Ruolo dell’endotelio nel mantenimento dell’omeostasi vascolare.
Prodotti di derivazione


endoteliale agiscono in concerto per regolare il tono vascolare, la proliferazione delle cellule muscolari
lisce, la trombosi, la fibrinolisi e l’infiammazione. La perdita di una o più di queste proprietà caratterizza lo
stato di “disfunzione endoteliale”. NO = ossido nitrico; PGI2 = prostaciclina; EDHF = Endothelium-derived
hyperpolarizing factor; tPA = tissue-type plasminogen activator; ECPR = endothelial cell protein C receptor;
ELAMs = endothelial-leukocyte adhesion molecules; IL-8 = interleuchina-8; MCP-1 = monocyte
chemoattractant protein-1; ET-1 = endotelina-1; Ang II = angiotensina II, TAFI = thrombin activatable
fibrinolysis inhibitor; PAI = plasminogen activator inhibitor-1; VEGF = vascular endothelial growth factor.
(Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De Caterina, M. Massaro, and P. Libby, in
“Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P. Libby, Editors, Blackwell-Futura, New
York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

RUOLO DELL’ENDOTELIO NELL’OMEOSTASI VASCOLARE

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366 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Le cellule endoteliali svolgono un ruolo importante in molti processi fisiologici ed eseguono una grande
quantità di funzioni, come la regolazione del trasporto di acqua e di soluti, la regolazione delle reazioni
immunologiche ed infiammatorie, il mantenimento della fluidità del sangue nonché la regolazione del
calibro dei vasi sanguigni nelle diverse condizioni emodinamiche od ormonali. Per la loro strategica
localizzazione anatomica, tra il sangue circolante e la muscolatura liscia, le cellule endoteliali hanno la
capacità di percepire variazioni emodinamiche (come le forze di shear stress e di pressione) e chimiche
(ormoni, sostanze liberate dalle piastrine e peptidi prodotti localmente), e di rispondere a tutti questi
stimoli con la produzione di molti fattori biologicamente attivi. Tali fattori includono il nitrossido (NO), la
prostaciclina (PGI2) e il fattore iperpolarizzante di derivazione endoteliale (endothelium-derived
hyperpolarizing factor, EDHF), ma anche sostanze con effetti opposti, ad azione vasocostrittrice, pro-
aggregante e pro-mitogena, come il trombossano(TX) A2 la prostaglandina (PG)H2, l'endotelina(ET)-1 e
l’angiotensina(Ang) II (Figura 1).

E’ per questo motivo che l’endotelio viene considerato uno dei più importanti organi che partecipano
all’omeostasi cardiovascolare (Tabella I).

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367 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Cambiamenti in alcune di queste funzioni indotte da stimoli qualitativamente o quantitativamente anormali


possono risultare nell’alterazione localizzata delle proprietà anti-emostatiche, del controllo del tono
vascolare, e nell’acquisizione di un fenotipo iperadesivo verso i leucociti circolati o in una produzione
aumentata di citochine e fattori di crescita. Queste alterazioni sono collettivamente indicate con il termine
di “disfunzione endoteliale”, e poiché sono diverse, con fenotipo spesso diverso (vedi l’endotelio
nell’infiammazione acuta contro l’endotelio nell’aterosclerosi), appare appropriato il termine di
“disfunzioni”, al plurale. Il termine di “attivazione endoteliale” più specificatamente designa l’insieme delle

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368 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

disfunzioni endoteliali caratterizzate dall’acquisizione, sotto l’influenza di stimuli specifici, di nuove


proprietà antigeniche e funzionali che condizionano soprattutto le interazioni dell’endotelio con i leucociti
circolanti.

MORFOLOGIA DELLE CELLULE ENDOTELIALI

Morfologicamente le cellule endoteliali si presentano di forma approssimativamente poligonale, appiattite


verso l’estremità e leggermente ingrossate al centro in corrispondenza del nucleo cellulare. Esse
costituiscono un monostrato dello spessore di 0.2-4 µm che riveste, in maniera ininterrotta, la superficie
interna dei vasi. Si stima che l’endotelio possa coprire in media un’area di 5,000 m2 e che la rete vascolare
possa svilupparsi su 100,000 km di lunghezza. Inoltre, con un peso totale approssimativo di 1 kg per 6
trilioni di cellule, l’endotelio, rappresenta l’1% dell’intera massa corporea, e per questo motivo può a ben
ragione essere considerato fra i più “grossi” organi del corpo umano. Sia la forma che l’orientamento delle
cellule endoteliali dipendono dall’organizzazione del citoscheletro. In particolare l’orientamento delle
cellule endoteliali, tipicamente nella direzione del flusso ematico, dipende dai processi di riorganizzazione
cui vanno incontro le fibre di stress in seguito alle sollecitazioni emodinamiche. Tali sollecitazioni sono in
grado infatti di determinare la riorganizzazione dei fasci di filamenti di actina ed actinina soprattutto verso
la periferia della cellula determinando così l’orientamento cellulare. Marcatori delle cellule endoteliali sono
l’enzima di conversione dell’angiotensina (angiotensin converting enzyme, ACE), il fattore di von Willebrand
(vWF, immagazzinato nei corpi di Weibel-Palade), i recettori per il fattore di crescita endoteliale (vascular
endothelial growth factor receptor, VEGFR) di tipo 1 e di tipo 2, la vascular endothelial (VE)-caderina, la
platelet-endothelial cell adhesion molecole(PECAM)-1 (o CD31), la P-selettina, la molecola simil-mucina
CD34, e la E-selettina. Tuttavia, mentre la VE-caderina, la E-selettina e i recettori per il VEGF sono marcatori
specifici per l’endotelio, l’ACE, il vWF, il CD31, la P-selettina e il CD34 sono presenti anche sui megacariociti,
sulle piastrine e su diversi altri tipi cellulari ematopoietici (Figura 2).

Figura 2 Marcatori endoteliali.
Vascular endothelial growth factor receptors (VEGFR) -1 e -2, VE-caderina
ed E-selettina sono specifici delle cellule endoteliali; l’angiotensin converting enzyme (ACE), il fattore di von
Willebrand (vWF), immagazzinato nei corpi di Weibel-Palade), la platelet-endothelial cell adhesion
molecule-1 (PECAM-1; CD31), la P-selettina, e la mucin-like molecule CD34 sono comuni ad altri tipi cellulari
come megacariociti e piastrine. (Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De Caterina, M.

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369 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Massaro, and P. Libby, in “Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P. Libby, Editors,
Blackwell-Futura, New York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

LA FUNZIONE DI BARRIERA DELL’ENDOTELIO

Il monostrato endoteliale si presenta strutturalmente molto compatto. Esso infatti mostra degli spazi
intercellulari molto ristretti tanto da costituire una barriera altamente selettiva al passaggio di sostanze tra
il sangue e i tessuti. Diversi fattori regolano la permeabilità e l’integrità del monostrato endoteliale. Questi
includono a) le giunzioni intercellulari, b) alcune proteine di legame espresse sulla superficie cellulare, c) le
cariche elettrostatiche della membrana cellulare e d) la struttura e la composizione della membrana basale.

Le giunzioni intercellulari sono delle strutture che determinano uno stato di aderenza stretta tra le
membrane cellulari appartenenti a due cellule contigue. Esse sono formate da proteine trans-membrana
possibilmente legate a proteine citoplasmatiche e/o a proteine del citoscheletro, e costituiscono un sistema
così dinamico e reversibile da assicurare entro pochi minuti, attraverso un cambiamento nella propria
organizzazione strutturale, il passaggio dei componenti del sangue all’interno dei tessuti. I tre principali tipi
di giunzioni intercellulari identificabili in un monostrato endoteliale sono: le giunzioni strette (o tight
junctions), le giunzioni comunicanti (o gap junctions) e le giunzioni aderenti (zonulae adherentes) (Figura 3).

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370 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Rappresentazione schematica dell’organizzazione molecolare delle giunzioni cellulari


molecolari.
Vedere il testo per i dettagli. (Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De
Caterina, M. Massaro, and P. Libby, in “Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P.
Libby, Editors, Blackwell-Futura, New York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

Le giunzioni strette
Le giunzioni strette sono quelle che determinano un contatto serrato fra due cellule
endoteliali adiacenti, tanto da impedire il passaggio paracellulare dei fluidi e dei soluti. La frequenza delle
giunzioni strette varia in relazione al letto vascolare: mentre nelle arterie cerebrali e nelle arterie di grosso
calibro la loro frequenza è molto elevata, l’endotelio delle venule postcapillari può addirittura non mostrare
alcuna giunzione stretta. Strutturalmente sono costituite da una proteina transmembrana, detta occludina,
che sul versante intracellulare si associa con alcune proteine citosoliche a localizzazione periferica come la
zonula occludens(ZO)-1 e -2, la cingolina, e la rabl3 le quali, complessivamente, collegano l’occludina al
citoscheletro (Figura 3A).

Figura 3 Rappresentazione schematica dell’organizzazione molecolare delle giunzioni cellulari


molecolari.
Vedere il testo per i dettagli. (Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De
Caterina, M. Massaro, and P. Libby, in “Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P.
Libby, Editors, Blackwell-Futura, New York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

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371 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Nell’endotelio, in particolare, la ZO-1 si localizza immediatamente al di sotto della membrana plasmatica ed


interagisce direttamente con l’occludina, mentre la cingolina e la ZO-2 fanno da ponte tra la ZO-1 e i
microfilamenti di actina del citoscheletro (Figura 3A). Studi recenti evidenziano che le giunzioni strette
proteggono l’endotelio dallo sviluppo di lesioni aterosclerotiche. E’ stato osservato infatti che il numero
delle giunzioni strette aumenta nelle cellule endoteliali in coltura esposte a forze frizionali di tipo laminare.
Ciò spiegherebbe quanto avviene in vivo in quelle regioni dell’aorta esposte ad alti livelli di forze frizionali
(shear stress) e in cui la deposizione dei lipidi e la formazione delle lesioni aterosclerotiche sono eventi
piuttosto rari. 



Giunzioni comunicanti 
Le giunzioni comunicanti o “gap junctions” (sinonimi: nexuses, giunzioni facilitanti
intervallate, maculae communicantes) sono costituite da canali transmembrana che connettono i comparti
citoplasmatici di cellule adiacenti permettendo uno scambio diretto di ioni e secondi messaggeri. I canali
delle giunzioni comunicanti consistono di due emicanali chiamati connessoni ognuno dei quali è costituito
da sei unità denominate connessine (Figura 3B).

Figura 3 Rappresentazione schematica dell’organizzazione molecolare delle giunzioni cellulari


molecolari.
Vedere il testo per i dettagli. (Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De
Caterina, M. Massaro, and P. Libby, in “Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P.
Libby, Editors, Blackwell-Futura, New York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

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372 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Le connessine fanno capo ad una famiglia multigenica composta da 15 membri, ognuno dei quali esibisce
differenti proprietà di permeabilità, di trasporto e d’interazione con gli altri membri della stessa famiglia. Le
giunzioni comunicanti costituiscono il mezzo di comunicazione intercellulare d’elezione sia tra tipi cellulari
omologhi (comunicazione “omotipica” se ad esempio tali giunzioni sono stabilite fra due cellule endoteliali)
che fra tipi cellulari diversi (comunicazione “eterotipica” se ad esempio stabilita fra cellule endoteliali e
cellule muscolari lisce o fra cellule endoteliali e leucociti). Questo genere di comunicazione “giunzionale”
gioca, ad esempio, un ruolo critico nella coordinazione della migrazione, della replicazione e della
successiva organizzazione strutturale delle cellule endoteliali, dei periciti e delle cellule muscolari di
supporto durante l’angiogenesi. Inoltre è stato recentemente ipotizzato un loro possibile coinvolgimento
nell’aterogenesi, essendo stata osservata un’alterazione nel quadro di espressione delle connessine
endoteliali e muscolari sia nelle placche aterosclerotiche umane che nelle lesioni sperimentalmente indotte
in animali da laboratorio. 



Giunzioni aderenti (zonulae adherentes)
Le giunzioni aderenti sono costituite da una serie di proteine
transmembrana conosciute con il termine di caderine (Figura 3C).

Figura 3 Rappresentazione schematica dell’organizzazione molecolare delle giunzioni cellulari


molecolari.
Vedere il testo per i dettagli. (Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De
Caterina, M. Massaro, and P. Libby, in “Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P.
Libby, Editors, Blackwell-Futura, New York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

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373 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Esse assicurano alle cellule endoteliali il riconoscimento omotipico calcio-dipendente, ed è per questa
ragione che molti autori sostengono la loro essenzialità nell’organizzazione dei contatti inter-endoteliali. Le
giunzioni aderenti sembrano inoltre giocare un ruolo importante nel controllo della migrazione, della
crescita e della differenziazione delle cellule endoteliali. L’endotelio esprime caderine specifiche e non
specifiche. Le caderine non specifiche, e quindi presenti in diversi tipi cellulari, includono la N-caderina, la
P-caderina e la E-caderina. Il loro ruolo nel mantenimento della struttura endoteliale rimane controverso.
Diversamente, la VE-caderina è espressa solo dalle cellule endoteliali tanto da rappresentarne un marker di
riconoscimento specifico. Solo recentemente è stata investigata la sua espressione in relazione
all’aterosclerosi. A questo riguardo è emersa un‘alterazione della sua espressione nelle lesioni
aterosclerotiche in corrispondenza delle cellule endoteliali che hanno dato luogo a fenomeni di
neovascolarizzazione intraplacca. In particolare, la riduzione dell’espressione della VE-caderina in questi
neovasi sembra coincidere con un aumento dell’entrata di cellule immunocompetenti nella matrice
intimale circostante le strutture neovascolari. Ciò suggerisce che la disorganizzazione delle interazioni fra le
cellule endoteliali entro la neovasculatura può costituire un evento significativo alla base della progressione
della malattia aterosclerotica.

LA REGOLAZIONE DEL TONO VASCOLARE E DELLA FUNZIONE PIASTRINICA

L’NO: biochimica e funzioni
L’NO è il principale vasodilatatore prodotto dalle cellule endoteliali. Esso viene
sintetizzato per azione della ossido nitrico sintasi (nitric oxide synthase - NOS), che catalizza l’ossidazione
dell’azoto contenuto nella L-arginina, producendo NO e L-citrullina in presenza di NADPH. Una serie di studi
di biologia molecolare ha portato all’identificazione di tre distinti geni che codificano tre diverse isoforme
dell’enzima NOS: la “NOS di tipo I” o “nNOS”, contenuta nei neuroni e nel muscolo scheletrico; la “NOS di
tipo II” o “iNOS”, inducibile in molti tipi cellulari (leucociti, endotelio, cellule muscolari lisce e miociti
cardiaci); e la “NOS di tipo III” o “eNOS”, espressa soprattutto nell’endotelio, ma anche dalle piastrine, dai
miociti cardiaci e dai neuroni dell’ippocampo. Le tre isoforme enzimatiche condividono molte
caratteristiche strutturali e presentano dei meccanismi catalitici largamente sovrapponibili. Ad esempio,
richiedono una serie di cofattori e gruppi prostetici per esplicare la loro attività, fra i quali il flavin adenina
dinucleotide (FAD), il flavin mononucleotide (FMN), l’eme, la calmodulina (CaM) e la tretraidrobiopterina
(BH4). Per la loro attività catalitica sono necessari tre distinti domini, che – a partire dall’estremità C-
terminale – sono: un dominio reduttasico, un dominio di legame della CaM, ed un dominio ossigenasico. Il
dominio reduttasico accoglie il FAD e l’FMN e trasferisce gli elettroni dal NADPH al dominio ossigenasico. Il
dominio ossigenasico catalizza la conversione dall’arginina in citrullina ed NO, e contiene i siti di legame per
l’eme, la BH4 e l’arginina.
La NOS di tipo II è l’unica isoforma inducibile e calcio-insensibile, dal momento
che viene espressa solo dopo attivazione cellulare ed è attiva anche a basse concentrazioni di Ca2+. Questo
avviene perché la CaM rimane costantemente legata all’enzima, comportandosi come una sua subunità. La
sua espressione può essere indotta in diversi tipi cellulari, primi fra tutti i macrofagi, in seguito a
stimolazione con citochine proinfiammatrie come l’interleuchina(IL)-1 ed il fattore di necrosi
tumorale(TNF)a. Si tratta dell’isoforma responsabile della produzione massiva di NO che è alla base
dell’azione battericida e tumoricida dei macrofagi e dei neutrofili. Le isoforme NOS I e NOS III sono invece
espresse costitutivamente, e sono calcio-sensibili, in quanto l’attività basale può essere aumentata dal
legame della CaM a seguito dall’aumento dei livelli intracellulari di calcio. Le tre isoforme differiscono per la
localizzazione intracellulare: la NOS I nel tessuto nervoso è localizzata nella membrana post-sinaptica,
mentre nel muscolo scheletrico è associata con il citoscheletro, tramite un’interazione con il complesso
della distrofina; la NOS II, inizialmente ritenuta citoplasmatica, è risultata invece essere associata alla
membrana plasmatica, sia pure in modo ancora indefinito; la NOS III, infine, è situata nella membrana

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374 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

plasmatica, in corrispondenza di microdomini altamente specializzati detti “caveole”. Le caveole si


presentano come invaginazioni della membrana plasmatica composte essenzialmente da glicosfingolipidi e
colesterolo, mentre le principali proteine che ne formano l’impalcatura strutturale sono le “caveoline”,
proteine palmitoilate di 20-24 kDa, di cui si conoscono almeno tre isoforme: la caveolina 1, presente in
un’ampia varietà di cellule, endotelio compreso; la caveolina 2 espressa principalmente negli adipociti; la
caveolina 3 contenuta soprattutto nei muscoli striati, compreso il miocardio. Le caveole svolgono una
funzione chiave nella regolazione dell’attività enzimatica. La eNOS infatti lega la caveolina o la CaM in una
maniera mutualmente esclusiva: in condizioni basali il legame della eNOS alla caveolina riduce l’attività
enzimatica, mentre in condizioni di attivazione cellulare l’aumento dei livelli intracellulari di calcio (in
seguito ad esempio a stimolazione con acetilcolina o bradichinina) promuove la dissociazione reversibile
della eNOS dalla caveolina e il successivo legame alla CaM che ne determina l’attivazione. La produzione
endoteliale di NO è tuttavia regolabile non solo a livello dell’attività enzimatica, ma anche a livello pre- e
post-trascrizionale. Gli estrogeni, alcuni componenti delle low density lipoprotein (LDL) come la
fosfatidilcolina e lo shear stress inducono l’espressione della eNOS a livello trascrizionale. Diversamente, gli
inibitori dell’enzima 3-idrossi-3-metilglutaril-CoA reduttasi, fra i quali la simvastatina, aumentano
l’espressione della eNOS prolungando l’emivita del suo messaggero. Infine sono state mostrate forme di
modulazione post-traduzionali dovute a meccanismi di interazione proteina-proteina come con le heat
shock protein 90 (hsp90), oppure ad eventi di fosforilazione a carico di siti specifici come in ser1177 che
aumentano l’attività enzimatica potenziando il flusso di elettroni dal dominio di riduzione a quello
ossigenasico.
L’NO ha un’emivita approssimativa di 3-5 secondi. Una volta prodotto, esso diffonde
facilmente verso le cellule della muscolatura liscia dove, attivando la guanilato ciclasi, determina il
rilassamento della muscolatura e la vasodilatazione. L’attivazione della guanilato ciclasi è dovuta al legame
dell’NO con l’eme dell’enzima: quest’interazione altera la conformazione dell’eme e disloca il Fe3+ dal piano
dell’anello porfirinico. In questa maniera viene rimossa l’inibizione che il ferro esercita sull’enzima, e
s’innesca una produzione massiva di guanosin monofosfato ciclico (cGMP) a partire dalla guanosina-5’-
trifosfato (GTP). Il cGMP determina il rilassamento muscolare attraverso diversi meccanismi, fra i quali la
fosforilazione delle chinasi della catena leggera della miosina (MLCK), che determina la riduzione nei tassi di
fosforilazione della miosina e quindi aumenta la stabilità della miosina inattiva, nonché attraverso la
riduzione dei livelli intracellulari di calcio. Oltre che in direzione abluminale, le cellule endoteliali liberano
NO anche in direzione luminale e quindi, nella circolazione sanguigna. Qui l’NO può venire in contatto con
le piastrine e i leucociti circolanti e sortire altrettanti importanti effetti biologici in termini sia di riduzione
dell’adesività leucocitaria che dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica, sempre secondo meccanismi
cGMP-dipendenti. 



L’NO nelle malattie cardiovascolari
Le alterazioni funzionali della trasduzione del segnale lungo la via
biosintetica della L-arginina/NO possono svolgere un ruolo importante nella fisiopatologia delle malattie
cardiovascolari, in quanto si associano ad una riduzione della vasodilatazione endotelio-dipendente con
conseguente riduzione potenziale del flusso ematico locale e ad un ridotto potere antitrombotico e
antiaterogeno dell’endotelio. Nell’uomo le coronarie con aterosclerosi presentano una ridotta risposta
vasodilatatoria all’acetilcolina rispetto alle arterie normali; anche nei vasi di soggetti ipertesi tale risposta
risulta diminuita, ma non è chiaro se questi comportamenti anomali siano primari o secondari alla malattia.
Il fatto che questa alterata vasomotilità sia presente anche in coronarie angiograficamente integre ne
suggerisce un ruolo primario. Corrispondentemente, in modelli animali di ipercolesterolemia l’inibizione
farmacologica della NOS accelera l’aterosclerosi, mentre un’aumentata disponibilità di NO diminuisce o
addirittura reverte la formazione delle lesioni aterosclerotiche. Tuttavia sebbene la somministrazione orale
di L-arginina in animali ipercolesterolemici abbia generalmente sortito effetti benefici, i risultati nell’uomo
sono stati più contrastanti, probabilmente a causa del numero limitato di soggetti arruolati e dei brevi
periodi di osservazione cui gli stessi soggetti erano sottoposti. 



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375 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Prostanoidi
Il termine “eicosanoidi” indica diverse famiglie di mediatori lipidici bioattivi, quali le
prostaglandine (compresa la prostaciclina), i trombossani, i leucotrieni e gli acidi idrossieicosatetraenoici.
Queste sostanze derivano dal metabolismo di acidi grassi poliinsaturi a venti atomi di carbonio, fra i quali il
più comune e il più rappresentato è l’acido arachidonico, un componente dei fosfolipidi della membrana
plasmatica. La prima tappa nella biosintesi degli eicosanoidi è la liberazione dell’acido arachidonico dalla
membrana per azione della fosfolipasi A2 (Figura 4).

Figura 4 Produzione ed azione dei principali prostanoidi nell’endotelio. 
L’acido arachidonico, acido
grasso a venti atomi di carbonio contenente 4 doppi legami, è liberato dalla posizione sn2 dei fosfolipidi di
membrana dalla fosfolipasi A2. Esso è convertito dalla prostaglandina H sintasi (-1 e -2), che possiede
attività cicloossigenasica (COX) e perossidasica (HOX), nell’intermedio instabile prostaglandina H2. La
prostaglandina H2 è successivamente convertita da isomerasi tessuto-specifiche in vari prostanoidi. Questi
lipidi bioattivi attivano specifici recettori appartenenti alla superfamiglia dei recettori accoppiati alle
proteine G per esplicare le loro funzioni cellulari. In basso sono riportati i tessuti in qui i prostanoidi
esplicano un ruolo prominente. IP =recettore della prostaciclina; TP= recettore del trombossano; DP=
recettore della prostaglandina D2; EP= recettore della prostagrandina E2; FP = recettore della prostaglandina
F2. (Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De Caterina, M. Massaro, and P. Libby, in
“Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P. Libby, Editors, Blackwell-Futura, New
York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

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376 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Una volta liberato, l’acido arachidonico può essere convertito in prodotti ossigenati da distinti sistemi
enzimatici, fra i quali le “prostaglandine H sintasi-1 e -2, detti anche cicloossigenasi(COX)-1 e -2, i cui
prodotti, raggruppati sotto il termine di prostanoidi, sono tra i più importanti mediatori prodotti dalla
parete vasale. Mentre molti tessuti umani esprimono costitutivamente COX-1, tanto da far considerare
questa una “housekeeping molecule”, l’espressione di COX-2 è inducibile in risposta a stimolazione con
fattori di crescita, promotori tumorali, citochine, lipopolisaccaride batterico (LPS) e trombina. Entrambi gli
isoenzimi COX possiedono un’attività cicloossigenasica, responsabile della captazione di due molecole di
ossigeno e della ciclizzazione della catena idrocarburica dell’acido arachidonico, e un’attività perossidasica,
che catalizza la riduzione del gruppo idroperossido legato al carbonio 15 in gruppo idrossile, essenziale per
l’attività biologica. Il prodotto dell’attività cicloosigenasica, la PGH2, ha un’emivita molto breve, dell’ordine
dei 5 minuti, e causa vasocostrizione. Esso tuttavia costituisce solo un prodotto intermedio, e infatti subisce
un’immediata conversione enzimatica in una prostaglandina(PG) del tipo D2, E2, F2a, o in PGI2, oppure in
TXA2, a seconda del tipo di isomerasi/sintasi che opera la trasformazione (Figura 4).

Poiché esiste una variazione tessutale nell’espressione delle isomerasi, il profilo dei prostanoidi prodotti
varia in maniera tessuto-specifica. I prostanoidi realizzano i loro effetti cellulari previo legame a recettori
appartenenti alla superfamiglia dei recettori accoppiati alle proteine G. Nell’endotelio in condizioni basali
(di non attivazione), l’azione costitutiva e concertata della COX-1 e della PGI2 sintasi (PGIS) produce PGI2.
Questa, attraverso l’attivazione del corrispondente recettore IP presente sulle cellule muscolari lisce e sulle
piastrine, causa vasodilatazione e inibisce l’aggregazione piastrinica secondo un meccanismo che prevede
l’attivazione della adenilato ciclasi e l’aumento dei livelli intracellulari dell’adenosin monofosfato ciclico
(cAMP). Tuttavia, in condizioni proinfiammatorie (attivazione cellulare mediata da citochine e fattori di
crescita), l’induzione di COX-2 determina, oltre all’accumulo di PGI2, un aumento significativo nella
produzione di PGE2 (e in minor misura di PGD2), anche per effetto della concomitante induzione della PGE
sintasi microsomiale (mPGES). Inoltre, le cellule endoteliali sono anche in grado di sintetizzare il TXA2, un
prostanoide fino a pochi anni fa ritenuto di esclusiva produzione piastrinica. Altri prodotti endoteliali
dell’acido arachidonico sono rappresentati da una nuova classe di biolipidi, noti come isoprostani. Gli
isoprostani sono prodotti di perossidazione dell’acido arachidonico e strutturalmente possono essere
considerati isomeri delle prostaglandine convenzionali. Pur essendo mediata dai radicali liberi, la
produzione di isoprostani nell’endotelio è inibibile dall’indometacina. E’ stato perciò ipotizzato un modello
secondo il quale COX-2 contribuisce alla produzione endoteliale di isoprostani non in termini di catalisi
enzimatica classica ma attraverso la generazione di specie radicaliche. 
Il contributo relativo di COX-1 e di
COX-2 alla fisiopatologia dell’aterosclerosi rimane ancora molto dibattuto nonostante l’enorme interesse
scientifico e la mole di lavoro prodotto. A differenza delle arterie normali che esprimono prevalentemente
COX-1, RNA messaggero sia per COX-1 che per COX-2 è stato dimostrato nelle placche aterosclerotiche
umane in corrispondenza dei macrofagi, delle cellule muscolari lisce e dell’endotelio. E’ stato ipotizzato che
l’induzione di COX-2 in sede lesionale possa contribuire all’instabilizzazione della placca favorendo la
digestione del cappuccio fibroso, secondo un meccanismo di accoppiamento funzionale fra COX-2 e la
produzione, PGE2-mediata, di metalloproteinasi della matrice(MMP). Inoltre, fenomeni di neoangiogenesi
intraplacca sono stati riconosciuti essere criticamente implicati nella crescita e nella instabilizzazione delle
placche aterosclerotiche umane. Poiché diverse linee di evidenze sperimentali indicano un ruolo
proangiogenico dei prodotti enzimatici di COX-2, e poiché è stato osservato che COX-2, la MMP di tipo 9, e
la “membrane type-1 MMP” colocalizzano nelle cellule endoteliali dei vasa vasorum di aorte
aterosclerotiche umane, si ipotizza che la produzione di prostaglandine COX-2-mediata possa contribuire

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377 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

alla crescita e all’instabilizzazione della placca aterosclerotica anche attraverso l’induzione e il


mantenimento dei processi di neoangiogenesi. 



L’ EDHF
Già nei primi anni ’80 diverse linee di evidenza cominciavano a indicare che la vasodilatazione
endotelio-dipendente non poteva essere spiegata esclusivamente con la produzione endoteliale di PGI2 ed
NO. Infatti, soprattutto nelle arterie di resistenza, l’inibizione farmacologica o il silenziamento genico delle
NOS, con e senza inibizione della produzione di PGI2, non riusciva ad inibire completamente il
vasorilassamento endotelio-dipendente indotto sia in risposta a stimoli chimici (acetilcolina e bradichinina)
che meccanici (shear stress). Si constatò in seguito che tale attività vasorilassante residua implicava
l’iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce (oltre che dello stesso endotelio), indipendentemente
dall’aumento dei livelli intracellulari di nucleotidi ciclici. Per queste ragioni si sospettò l’esistenza di quello
che fu denominato “fattore iperpolarizzante di derivazione endoteliale”(o endothelium-derived
hyperpolarizing factor, EDHF), e s’ipotizzo che l’EDHF avrebbe potuto sortire i suoi effetti inducendo,
direttamente o indirettamente, l’apertura dei canali del potassio sulle cellule muscolari lisce oppure
determinando l’iperpolarizzazione delle cellule endoteliali che sarebbe stata, a sua volta, trasmessa alle
cellule muscolari lisce da un’accoppiamento elettrico tra i due tipi cellulari. Rimangono tutt’ora aperte
molte questioni, prima fra tutte quella dell’identità chimica dell’EDHF. Si ritiene che l’eterogeneità tessutale
e di specie comporti l’esistenza di forme diverse di EDHF, tanto che fino ad ora sono stati proposti almeno
quattro candidati. Evidenze ben documentate propongono un ruolo per i prodotti dell’acido arachidonico
ottenuti attraverso la via dell’epossigenasi P450, ossia degli acidi epossieicosatetraenoici (EET), che almeno
in alcuni letti vascolari funzionano come EDHF. Ciò è basato sull’osservazione che, a seguito di un’adeguata
stimolazione recettoriale, gli EET sarebbero sintetizzati e liberati dall’endotelio e diffonderebbero verso le
cellule muscolari lisce nelle quali indurrebbero l’iperpolarizzazione in seguito all’apertura dei canali del
potassio ad alta conduttanza (BKCa). Una seconda candidatura è stata proposta per un altro prodotto
dell’acido arachidonico, ossia per il cannabinoide endogeno anandamide. L’anandamide infatti, attivando i
recettori dei cannabinoidi sia nelle cellule endoteliali che nelle cellule muscolari, induce iperpolarizzazione
e vasorilassamento. Una terza ipotesi riconosce gli ioni potassio (K+) come possibili EDHF. E’ stato ipotizzato,
infatti, che un’adeguata stimolazione dei recettori endoteliali possa attivare l’apertura dei canali del
potassio a bassa e media conduttanza (SKCa e IKCa) nelle cellule endoteliali, che porterebbe alla liberazione di
K+ e quindi all’aumento del K+ extracellulare. Questo, a sua volta, indurrebbe l’iperpolarizzazione e il
rilassamento delle cellule muscolari attivando i canali del K+ di tipo rettificante in entrata (KIR) e la Na+ -K+ -
ATPasi. Una quarta ipotesi, quella oggi più accreditata, riconosce nelle giunzioni comunicanti mio-
endoteliali la struttura essenziale alla base dell’attività vasodilatatoria endotelio-dipendente mediata
dall’EDHF. Il numero di queste giunzioni eterocellulari infatti aumenta con la diminuzione del diamentro
dell’arteria, osservazione che coincide con la prevalente attività dell’EDHF nei vasi di minori dimensioni. Si
ritiene che questi meccanismi non siano mutualmente esclusivi, ma anzi possano realizzarsi
simultaneamente o sequenzialmente così da determinare un effetto additivo o sinergico. Gli effetti biologici
dell’EDHF sono ridotti nella malattia vascolare aterosclerotica associata all’invecchiamento e
dall’ipercolesterolemia. Perciò è stato suggerito che una diminuizione della produzione di EDHF possa
essere responsabile, almeno in parte, delle alterazioni della risposta vascolare nell’aterosclerosi.



Endoteline 
In netto contrasto con tutte le sostanze descritte fino ad ora, le endoteline (ET) sono dei
potenti vasocostrittori. Si tratta di polipeptidi strettamente affini alla safratossina (componente tossico di
alcuni veleni di serpente) e prodotti da diversi tessuti in tre forme: l‘ET-l, l’ET-2 e l’ET-3. Le cellule
endoteliali producono solo l’ET-l, che è stata isolata per la prima volta, nel 1988, proprio dal mezzo
condizionato di cellule endoteliali di aorta porcina. L’ET-1 deriva da un precursore a 203 residui
amminoacidici, detto pre-pro-endotelina, che viene processato in successione per essere definitivamente
convertito, in una reazione catalizzata dall’enzima di conversione dell’endotelina (ECE), nella forma
biologicamente attiva a 21 aminoacidi. In natura esistono diverse isoforme dell’ECE, fra le quali la ECE-la, la

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378 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ECE-lb e la ECE-2, ma le cellule endoteliali esprimono esclusivamente l’isoenzima-1a. Il 75% della


produzione endoteliale di ET-1 diffonde abluminalmente verso le cellule muscolari lisce, mentre il restante
25% è liberato nel lume vasale, cosicché bassi livelli di ET-1 sono misurabili nel plasma anche in soggetti
sani. L’ET-1 realizza i suoi effetti biologici attraverso la stimolazione di specifici recettori accoppiati alle
proteine G, noti come recettori di tipo A (ETA) e di tipo B (ETB). Le cellule muscolari lisce esprimono
soprattutto il recettore ETA e solo scarsamente il recettore ETB. La stimolazione di entrambi i recettori
induce vasocostrizione attraverso due differenti meccanismi: aumento dell’influsso di calcio e attivazione
della fosfolipasi C e della fosfolipasi A2. Gli stessi recettori ETB sono espressi anche dalle cellule endoteliali,
nelle quali la loro stimolazione induce la produzione e la liberazione di NO e PGI2, allo scopo di ripristinare il
normale tono vascolare. Un’alterata produzione endoteliale di ET-1 caratterizza gli stati di disfunzione
endoteliale legati alla malattia aterosclerotica. In accordo con questo, molti dei fattori associati allo
sviluppo delle lesioni aterosclerotiche, come le citochine infiammatorie e le LDL ossidate, inducono la
produzione endoteliale di ET-l. Inoltre l’aumento nella produzione e nell’espressione di ET-1 nelle placche
aterosclerotiche umane ne conferma un potenziale ruolo patogenetico. Si ipotizza inoltre che l’ET-1 possa
contribuire allo sviluppo dell’aterosclerosi non solo inducendo perturbazioni del flusso ematico, ma anche
stimolando la proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’espressione endoteliale delle molecole di
adesione e la chemiotassi dei leucociti circolanti. 



Il sistema renina-angiotensina nell’endotelio
Il sistema renina-angiotensina è un complesso apparato


enzimatico-ormonale deputato alla regolazione a lungo termine del bilancio idro-salino, della pressione
sanguigna e del volume dei liquidi extra-cellulari. In condizioni fisologiche, il sistema viene attivato quando
si verifica ipovolemia o una caduta di pressione (ad esempio in seguito ad un’emorragia). In queste
condizioni, la diminuita perfusione dell’apparato iuxtaglomerulare dei reni stimola le cellule
iuxtaglomerulari a liberare un enzima, la renina (che può anche essere liberata dai vasi sanguigni in seguito
ad insulto meccanico o di altra natura), che converte un peptide inattivo di derivazione epatica,
l’angiotensinogeno, in angiotensina (Ang) I; questo peptide viene a sua volta convertito in Ang II dall’enzima
di conversione dell’angiotensina (angiotensin converting enzyme, ACE) espresso principalmente dai capillari
polmonari e in generale dall’endotelio vascolare. L’Ang II agisce da vasocostrittore, aumentando la
pressione sanguigna e stimolando la secrezione di aldosterone, che a sua volta promuove la ritenzione di
sodio. Nei vasi sanguigni, l’ACE è localizzato sulla superficie luminale delle cellule endoteliali dove, oltre a
convertire l’Ang I in Ang II, degrada e inattiva la bradichinina, aumentando così, con la sua attività, l’effetto
vasocostrittorio. Gli effetti biologici dell’Ang II sono generalmente mediati da una classe di recettori che
comprende: AT1A, AT1B e AT2. Nelle cellule muscolari lisce, gli effetti di contrazione e di stimolazione della
proliferazione cellulare sono mediati esclusivamente da AT1. Moltissime linee di evidenza suggeriscono un
profondo coinvolgimento del sistema renina-angiotensina nello sviluppo della malattia cardiovascolare.
L’accumulo dei lipidi all’interno della parete vascolare aumenta l’espressione di tutti i componenti del
sistema renina-angiotensina, con il risultato di un aumento netto nella produzione di Ang II e quindi dei suoi
effetti vasocostrittori e pro-mitogeni. Inoltre l’Ang II può modulare, in via diretta, lo sviluppo delle lesioni
aterosclerotiche attraverso un effetto pro-infiammatorio sulle cellule endoteliali. Ciò è stato ampiamente
dimostrato in vitro dall’induzione, Ang II-mediata, di una serie di molecole di adesione, quali la vascular cell
adhesion molecule(VCAM)-1 e la intercellular adhesion molecule(ICAM)-1, caratteristicamente implicate
nelle fasi precoci di reclutamento leucocitario che accompagna la formazione della lesione aterosclerotica.
Inoltre è stato accertato che questi effetti pro-infiammatori sono mediati dall’attivazione dei recettori
endoteliali di tipo AT1, dal momento che il loro blocco farmacologico previene ogni effetto pro-
infiammatorio dell’AngII.

RUOLO DELL’ENDOTELIO NEL CONTROLLO DELL’EMOSTASI

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379 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’endotelio gioca un ruolo chiave nel controllo dell’emostasi, influenzando la funzionalità piastrinica, la
coagulazione e la fibrinolisi. In condizioni normali l’endotelio possiede proprietà anti-piastriniche, anti-
coagulanti e pro-fibrinolitiche; l’instaurazione di uno stato disfunzionale è caratterizzato dallo spostamento
della bilancia emostatica da uno stato anti-trombotico verso un franco stato pro-trombotico (Figura 1,
Figura 6).


Figura 6 Mediatori cellulari e molecolari delle proprietà anti-trombotiche ed anti-aterogene


dell’endotelio.
L’endotelio in condizioni normali (sinistra e verde) produce diverse sostanze vasodilatatorie
(come la prostaciclina (PGI2), il nitrossido (NO) e l’endothelium-derived hyperpolarizing factor -EDHF-) che
complessivamente contribuiscono al mantenimento del normale tono vascolare. Inoltre le cellule
endoteliali contrastano l’aggregazione piastrinica, la produzione di fibrina (attraverso la produzione di
trombomodulina -TM-, endothelial cell protein C receptor -EPCR-, proteina S -PS-, e di tissue factor pathway
inhibitor -TFPI-), inibiscono l’attività del fattore tessutale (TF) e promuovono la fibrinolisi (attraverso la
produzione di tissue- e urokinase-type plasminogen activators tPA, uPA).
L’endotelio disfunzionale (destra
e rosso) favorisce l’aterotrombosi sia favorendo la produzione di sostanze pro-coagulanti (come il TF), anti-
fibrinolitiche (come il PAI-1) e vasocostrittrici (come l’endotelina(ET)-1 e l’angiotensina(Ang) II), sia
sostenendo l’adesione e la migrazione nel sotto-endotelio dei leucociti, attraverso la produzione delle
endothelial-leukocyte adhesion molecules (ELAM) e di sostanze chemoattrattanti (come la monocyte
chemotactic protein(MCP)-1 e l’interleuchina(IL)-8) così favorendo l’infiammazione, la formazione e la
crescita delle lesioni aterosclerotiche, la vasocostrizione e la trombosi. ==> induce; ----- inibisce; FDP =

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380 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

prodotti di degradazione della fibrina; TXA2 = trombossano A2; VEGF = vascular endothelial growth factor;
TAFI = thrombin activatable fibrinolysis inhibitor; AT= anti-trombina; VR = recettore della vibronectina. (Dal
capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De Caterina, M. Massaro, and P. Libby, in
“Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P. Libby, Editors, Blackwell-Futura, New
York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

Controllo della funzionalità piastrinica
In condizioni normali le piastrine circolanti non interagiscono con
l’endotelio vascolare sia a causa della liberazione costitutiva di NO e PGI2 da parte dell’endotelio, sia per
l’espressione endoteliale, anch’essa costitutiva, dell’enzima anti-piastrinico noto come ecto-ADPasi/CD39.
L’NO, oltre ad esplicare un potente effetto vasodilatatorio, inibisce l’adesione, l’attivazione e l’aggregazione
piastrinica attraverso diversi meccanismi. Esso induce l’aumento dei livelli intrapiastrinici di cGMP, inibisce
l’espressione della P-selettina, previene l’aumento intrapiastrinico di calcio, e promuove la disaggregazione
piastrinica inibendo l’attività della fosfatidil-inositolo 3-chinasi. Anche la PGI2, oltre a regolare il tono
vascolare, inibisce fortemente l’aggregazione piastrinica, attraverso l’attivazione dei recettori IP presenti
sulle piastrine e il successivo aumento dei livelli di cAMP.
Altra attività anti-piastrinica messa in atto
dall’endotelio normale è quella che fa capo all’espressione della ecto-nucleasi di membrana conosciuta
come ecto-ADPasi/CD39. L’ADP, interagendo con il recettore piastrinico P2Y12, funziona da potente
attivatore delle piastrine. La ecto-ADPasi endoteliale, essendo una ATP-difosfoidrolasi, metabolizza
efficientemente l’ADP in AMP, contribuendo in tal modo al mantenimento delle piastrine in una condizione
basale di non attivazione. 



Proprietà anticoagulanti dell’endotelio
La coagulazione del sangue è il risultato di una serie di processi
che possono realizzarsi all’interno o all’esterno di un vaso sanguigno, e che portano alla formazione di un
coagulo o un di trombo. Pur essendo il processo di coagulazione unico, è possibile distinguere una forma
fisiologica, detta emostasi, che avviene all’esterno di un vaso e conduce alla riparazione di una ferita, e una
forma patologica, detta trombosi, consistente nella formazione di una massa solida nelle cavità cardiache o
vascolari, e che può portare a conseguenze cliniche anche gravi. In entrambe le situazioni, la stabilizzazione
dell’aggregato piastrinico primario è subordinata alla formazione e alla deposizione di un reticolo
polimerico di fibrina. La fibrina deriva dalla scissione del fibrinogeno ad opera della trombina, una serin-
proteasi che oltre all’attivazione del fibrinogeno contribuisce all’attivazione di diversi altri enzimi e cofattori
della cascata coagulativa (Figura 5).

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381 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 5 Rappresentazione schematica delle vie intrinseca ed estrinseca nella coagulazione del sangue.

In verde sono evidenziate le vie di regolazione a funzione attivante, mentre in rosso le vie di regolazione a
funzione inibitoria. Vedi testo per ulteriori dettagli. TF= fattore tessutale; TFPI=tissue factor pathway
inhibitor. (Dal capitolo “Endothelial functions and dysfunctions”, di R. De Caterina, M. Massaro, and P.
Libby, in “Endothelial Dysfunctions in Vascular Disease”, R. De Caterina e P. Libby, Editors, Blackwell-Futura,
New York-London, 2007, con permesso dell’Editore).

Non è sorprendente quindi che diverse “vie di contro-regolazione” si siano evolute per contrastare
fisiologicamente la generazione eccessiva di trombina. In questo senso l’endotelio gioca un ruolo di primo
piano, orchestrando almeno tre meccanismi anti-coagulanti: a) il sistema eparina-antitrombina; b) il
sistema di inibizione della via del fattore tessutale; c) il sistema anticoagulante della trombomodulina-
proteina C. La matrice extracellulare a contatto con l’endotelio è particolarmente ricca di eparansolfati e
glicosamminoglicani di derivazione endoteliale, molecole che promuovono l’attivita dell’anti-tromina(AT).
Questo complesso inattiva la trombina, il fattore VIIa legato al fattore tessutale (TF), il fattore X e Xa (Figura
5). L’espressione degli eparansolfati e dei glicosaminoglicani da parte dell’endotelio è ridotta in condizioni
pro-infiammatorie. L’endotelio previene la formazione di trombina anche attraverso la produzione
dell’inibitore della via del TF (tissue factor pathway inhibitor, TFPI), il quale lega e inattiva il fattore Xa in un
complesso quaternario costituito da TF/VIIa/Xa/TFPI (Figura 5). Sia la produzione di TFPI che di AT sono
alterate negli stati protrombotici che accompagnano le complicanze cliniche su base aterosclerotica. La
trombomodulina è una proteina di 74 kDa sintetizzata dalle cellule endoteliali, ed espressa sulla superficie
luminale delle stesse a livello dei capillari, delle arterie, delle vene, e dei vasi linfatici. E’ stato stimato che le
cellule endoteliali della vena del cordone ombelicale possono esprimere fino a 50,000 molecole di
trombomodulina per cellula. Quando la trombina viene legata dalla trombomodulina (Figura 5), essa perde

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382 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

le sue proprietà procoagulanti e il complesso diviene un potente attivatore della proteina C, proteina a
funzione anticoagulante prodotta e liberata dal fegato fino al raggiungimento di una concentrazione
plasmatica di 4 µg/mL. Il tasso di attivazione della proteina C è più alto quando essa si lega, in maniera
reversibile (KD ˜ 30 nM), al rispettivo recettore espresso dalle endoteliali noto come “recettore endoteliale
della proteina C” (EPCR). Una volta attivata, la proteina C (ora “activated protein C”, APC), mantiene la sua
affinità di legame per ECPR, ma questo complesso non sembra più possedere attività anticoagulante. L’APC
infatti, quando si dissocia da ECPR, forma un complesso con la proteina S, una molecola sintetizzata nel
fegato e nelle cellule endoteliali, catalizzando l’inattivazione dei fattori Va e VIIIa (Figura 5). Il TNFa riduce
l’espressione della trombomodulina inibendo la trascrizione del suo RNA messaggero e favorendo la
degradazione della proteina matura nei lisosomi. Il riscontro di una ridotta espressione in pazienti con
angina instabile ha fatto ipotizzare un ruolo per la proteina S nello sviluppo della malattia vascolare. 



Proprietà procoagulanti dell’endotelio
Il passaggio chiave nella trasformazione dell’endotelio da una


superficie anti-coagulante ad una pro-coagulante consiste nell’espressione del TF. Il TF è una glicoproteina
di 263 residui aminoacidici strutturati in un dominio extracellulare di 219 residui, in una singola sequenza
trans-membrana e in un corto dominio intracitoplasmatico. Poiché il TF catalizza l’attivazione della via
estrinseca della coagulazione (Figura 5), in condizioni normali esso non è espresso. Esso invece risulta
sovraespresso in corrispondenza di molte lesioni aterosclerotiche, e ciò giustificherebbe l’elevata
trombogenicità di alcune placche. Corrispondentemente, l’espressione del TF è inducibile in vitro in risposta
a diversi fattori pro-aterogeni, fra i quali le LDL ossidate, lo shear stress, le IL1a e ß, il TNFa, oltre che
dall’attivazione del recettore del CD40 da parte di linfociti T e di piastrine esprimenti il corrispondente
ligando (CD40 ligando). Le cellule endoteliali possono anche liberare il TF nel plasma, e questo avviene
attraverso l’immissione del TF all’interno di strutture microparticellari. Infine le cellule endoteliali
contribuiscono agli eventi coagulativi esprimendo sulla propria superficie i recettori per la fibrina e per i
suoi prodotti di degradazione. 



Controllo della fibrinolisi
La fibrinolisi è il processo mediante il quale il reticolo di fibrina viene dissolto
dalla plasmina così da evitare la persistenza del coagulo e/o la formazione di trombi. La fibrinolisi ha inizio
con la trasformazione del plasminogeno in plasmina per azione degli attivatori del plasminogeno come il
tissue-type plasminogen activator (tPA) o l’urokinase-type plasminogen activator (uPA). Sebbene
inizialmente si ritenesse che la produzione e la secrezione di tPA fosse propria di tutte le cellule endoteliali,
studi più recenti condotti in vivo hanno dimostrato la produzione di tPA solo in alcune sotto-popolazioni di
cellule endoteliali microvascolari. Analogamente, l’uPA non viene prodotto in condizioni basali, ma solo
dopo stimolazione con plasmina. L’endotelio è anche in grado di produrre gli inibitori dell’attivatore del
plasminogeno (plasminogen activator inhibitor, PAI). Sebbene il fegato rappresenti la maggiore sorgente di
PAI, l’esposizione a diversi stimoli pro-infiammatori stimola le cellule endoteliali a produrre abbondanti
quantità di PAI indipendentemente dal distretto tissutale di appartenenza. Infine il legame della trombina
alla trombomodulina determina l’attivazione di una proteasi conosciuta come “inibitore della fibrinolisi
attivabile dalla trombina” (thrombin-activatable fibrinolysis inhibitor, TAFI). Il TAFI è una carbossipeptidasi
in grado di scindere i residui carbossiterminali della fibrina. Ciò risulta in una perdita dei siti di legame per il
t-PA, con conseguente rallentamento del processo fibrinolitico.

DANNO ENDOTELIALE E LESIONE ATEROSCLEROTICA

Le lesioni aterosclerotiche hanno origine in punti critici della circolazione sanguigna, principalmente nei

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383 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

punti di diramazione di collaterali, nelle biforcazioni e sul lato convesso di arterie curve, dove gli shear
stress, cioè le forze frizionali messe in gioco dallo scorrimento del sangue contro una parete vascolare
ferma, sono bassi od oscillanti. Tali condizioni circolatorie probabilmente favoriscono sia il trasporto
passivo di componenti del sangue arterioso nella parete vascolare che l’espressione di componenti della
matrice (proteoglicani ricchi in condroitina), altamente ritensivi verso le LDL, che così vengono intrappolate
nel sotto-endotelio. Le lesioni aterosclerotiche avanzate, come abitualmente osservate nell’adulto,
prendono aspetti assai diversi e variegati, riflettendo stadi diversi dell’evoluzione delle placche e
probabilmente storie naturali diverse tra placche diverse. A fronte di questa notevole varietà di aspetti
“tardivi”, il primo stadio di sviluppo della placca aterosclerotica è ritenuto essere una lesione precoce
denominata “stria lipidica”. Questo tipo di lesione è il primo a comparire nei modelli di aterosclerosi da
ipercolesterolemia in diverse specie animali, compreso quello della scimmia con ipercolesterolemia
moderata, il modello animale sicuramente più vicino alla patologia aterosclerotica umana, ed è stato
riscontrato nelle coronarie del 50% di adolescenti tra i 10 e i 14 anni, venuti all’osservazione autoptica. La
stria lipidica è un’area di ispessimento intimale focale, determinato dall’accumulo di macrofagi carichi di
lipidi (cellule schiumose), circondato da una matrice extracellulare e da un numero variabile di linfociti.
Molti considerano questa lesione reversibile, ma il consenso attuale è che la stria lipidica, benché
potenzialmente reversibile, proceda invariabilmente verso lesioni più avanzate. Placche aterosclerotiche si
sviluppano negli stessi siti dell’albero vascolare dove si localizzano inizialmente le strie lipidiche. Per questi
motivi, l’origine dell’aterosclerosi può essere ragionevolmente ricondotta alla patogenesi della stria lipidica.
Oggi è generalmente accettato che l’inizio dell’aterosclerosi non richieda un “danno” endoteliale, nella
forma di desquamazione focale con denudamento intimale, ma piuttosto l’intero processo sembra avere
origine da un insieme meno evidente di alterazioni che non richiedono la perdita fisica dello strato
endoteliale. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, in condizioni normali l’endotelio vascolare
contribuisce all’omeostasi della parete modificando adattativamente il proprio stato funzionale. Alterazioni
delle funzioni endoteliali indotte da stimoli qualitativamente o quantitativamente abnormi possono
modificare l’interazione tra componenti cellulari e macromolecolari che agiscono all’interfaccia sangue-
parete vascolare. In generale, l’adesione di leucociti all’endotelio viene riscontrata in un gran numero di
disturbi infiammatori ed immunologici. Famiglie diverse di proteine, ognuna con una distinta funzione,
forniscono “segnali di traffico” per i leucociti. Queste famiglie comprendono: a) le “selettine”, che
riconoscono come ligandi i carboidrati sialilati o fucosilati; b) i chemoattrattanti, alcuni dei quali, “classici”,
come gli N-formil-peptidi, componenti del complemento, il leucotriene B4 e il platelet-activating factor-
PAF-, agiscono ad ampio spettro, su neutrofili, eosinofìli, basofìli e monociti, altri, di più recente
caratterizzazione, come la monocyte chemoattractant protein-1 (MCP-1) e l’IL-8 mostrano un’elevata
selettività per monociti e linfociti T; c) la superfamiglia delle immunoglobuline endoteliali quali ICAM-l, -2, e
-3, e VCAM-1, che riconoscono come ligandi “integrine” sulla superficie leucocitaria.
Mentre le selettine
mediano il legame iniziale dei leucociti all’endotelio, rallentandone la corsa e provocando il loro
“rotolamento” sulla superficie endoteliale, il legame più tenace dei leucociti all’endotelio richiede
l’interazione dei ligandi integrinici sulla superficie leucocitaria con immunoglobuline endoteliali quali
VCAM-1 e ICAM-1. ICAM-1, il cui ligando coniugato integrinico leucocitario è la molecola CD11/CD18, è
costitutivamente espressa a bassi livelli sulla superficie delle cellule endoteliali non stimolate, ma in seguito
alla stimolazione con citochine infiammatorie quali l’IL-1, il TNFa e l’interferone(IFN)-( la sua espressione
aumenta notevolmente. Il suo picco di espressione viene raggiunto dopo sei ore dalla stimolazione e
rimane costante per almeno 72 h. L’espressione di ICAM-1 è regolata soprattutto a livello trascrizionale.
Diverse sequenze induttrici sono state riconosciute nel promotore di ICAM-1, fra le quali siti di legame per
nuclear factor(NF)- B, Spl, l’activator protein(AP)-1, elementi responsivi all’acido retinoico e C/EBP. VCAM-
1 sembra giocare un ruolo chiave nel reclutamento leucocitario dell’aterosclerosi, in quanto media
specificatamente l’adesione dei monociti, dei linfociti e dei basofili all’endotelio attivato, ma non l’adesione
dei neutrofili. Noti induttori di VCAM-1 comprendono citochine come il TNFa, e l’IL-1, le LDL modificate e i

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384 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

prodotti di glicazione avanzata del diabete (advanced glycation endproducts, AGE). In maniera simile a
quella di ICAM-1, la regolazione trascrizionale di VCAM-1 richiede l’attivazione di NF- B e AP-1. La recente
osservazione di un ridotto numero di lesioni aterosclerotiche in topi geneticamente predisposti allo
sviluppo dell’aterosclerosi, ma esprimenti un forma ipofunzionale di VCAM-1, ha fornito una forte evidenza
a sostegno del ruolo causale di VCAM-1 nell’aterogenesi precoce. La fase finale di emigrazione dei leucociti
attraverso l’endotelio implica invece un ruolo più attivo per la PECAM-1. Questa molecola è normalmente
localizzata in corrispondenza delle giunzioni intercellulari, dove interazioni omodimeriche legano due
cellule endoteliali adiacenti (Figura 2, Figura 6). Poiché PECAM-1 è anche espressa sulla superficie dei
leucociti, la rottura del dimero endoteliale PECAM-1/PECAM-1 a favore della formazione di un nuovo
dimero fra leucocita emigrante e la cellula endoteliale costituisce l’evento alla base della diapedesi dei
leucociti, Tuttavia il ruolo patogenetico di PECAM-1 nell’aterogenesi è ancora incerto poiché non si
osservano modificazioni significative della sua espressione in corrispondenza delle placche aterosclerotiche
umane o in topi geneticamente predisposti allo sviluppo dell’aterosclerosi.



Ruolo del fattore di trascrizione NF- B nella disfunzione endoteliale


L'espressione genica delle molecole di adesione endotelio-leucociti come VCAM-1, ICAM-1 e di alcuni
chemoattrattanti endoteliali solubili quali MCP-1 e IL-8, è aumentata di parecchie volte in risposta ai diversi
mediatori molecolari del rischio cardiovascolare, come le LDL modificate, gli AGE o le citochine
infiammatorie IL-1 e il TNFa. Le cellule endoteliali a riposo, non attivate, esprimono quantità trascurabili o
assai basse di tali molecole, con l’eccezione di ICAM-1. Poiché la maggior parte delle molecole di adesione
non viene espressa in condizioni basali, l’attivazione richiede evidentemente l’inizio di una trascrizione del
corrispondente gene. Inoltre l’espressione delle diverse molecole di adesione procede simultaneamente
all’espressione dei fattori endoteliali solubili. Dunque è necessario che avvenga un’attivazione concertata di
tali geni, e ciò è reso possibile dall’attivazione di uno o di pochi fattori di trascrizione, tra cui NF- B.
Quest’ultimo, in particolare, ha ricevuto un’attenzione crescente negli ultimi anni come denominatore
comune dell’attivazione endoteliale, legato causalmente all’espressione delle molecole di adesione.
Sequenze nucleotidiche capaci di legare specificamente fattori NF- B-simili sono stati identificati in molti
geni, tra cui quelli delle molecole di adesione inducibili e delle citochine solubili. Il sistema NF- B
comprende una famiglia di fattori di trascrizione originariamente identificati nelle cellule B e poi scoperti
essere ubiquitariamente espressi oltre che filogeneticamente conservati, essendo stati riconosciuti anche in
Drosophila. I membri di questa famiglia comprendono: p65 (RelA), RelB, c-Rel, NF- B1 (p50), e NF- B2
(p52), come pure le loro subunità inibitorie I Ba, I Bß, e I B(. Le subunità di NF- B formano complessi sia
omo- che etero-dimerici, il più comune dei quali è l’eterodimenro p65/p50 che si lega alla sequenza
consensus decamerica GGGRNNTYCC (R=G o A, Y=C o T, N un qualsiasi nucleotide), così inducendo
l’espressione dei geni bersaglio. Normalmente tale dimero è sequestrato nel citoplasma in forma inattiva
attraverso l’interazione con la subunità inibitrice. Sotto l’influenza di diversi stimoli fisiopatologici, tra i quali
TNFa, IL-1, lipopolisaccardide batterico (LPS), AGE, alta concentrazione di glucosio, shear stress, LDL
ossidate e ischemia/riperfusione, si assiste alla degradazione proteolitica di I B e alla conseguente
migrazione di NF- B nel nucleo, dove NF- B attiva una varietà di geni implicati nell’attivazione endoteliale.
Una peculiarità di NF- B è rappresentata dalla natura rapida e transitoria della sua attivazione che lo rende
ben adatto a regolare l’espressione di quei geni che necessitano di essere espressi “su domanda” e per un
periodo di tempo limitato. Indipendentemente dallo stimolo, l’attivazione di NF- B può essere inibita dal
trattamento con antiossidanti o chelanti dei metalli. Per questo motivo è stato suggerito che l’attivazione di
NF- B possa essere stimolata da modificazioni nel bilancio redox cellulare.
Il sistema NF- B è quindi una
potenziale via comune per coordinare l’espressione di un gran numero di geni implicati nell’attivazione e
nella disfunzione endoteliale come VCAM-1, E-selettina, IL-1, IL-6, IL-8, TF, PAI-1, COX-2, e iNOS. Questo

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385 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

concetto è supportato dal fatto che l’attivazione di NF- B risulta ben evidente nelle lesioni aterosclerotiche
umane ed animali.

CONCLUSIONI

E’ stato ormai definitivamente accettato che l’endotelio non costituisce una semplice barriera di
separazione statica tra sangue e tessuti, ma svolge un ruolo attivo nel mantenimento dell’omeostasi
vascolare. Attraverso la secrezione di una serie di molecole specifiche, le cellule endoteliali assicurano
l’appropriata regolazione del flusso ematico, prevengono l’attivazione delle piastrine e gli eventi
indiscriminati di coagulazione. In condizioni normali, ad esempio, le cellule endoteliali rispondono a stimoli
diversi modificando dinamicamente le proprie proprietà funzionali a sostegno della crescita dei vasi o della
loro riparazione, o per guidare la risoluzione di un processo. Queste alterazione transitorie del fenotipo
endoteliale terminano di solito con la ristabilizzazione dell’omeostasi vascolare. Tuttavia in certe condizioni
patologiche, come nell’aterosclerosi, in cui il comportamento delle cellule endoteliali è cronicamente
perturbato, le alterazioni della fisiologia endoteliale assumono una connotazione patologica e dànno l’avvio
allo sviluppo della malattia. Negli ultimi vent’anni l’esplorazione della biologia endoteliale ha caratterizzato
dal punto di vista cellulare e molecolare le funzioni dell’endotelio, compresi i meccanismi alla base delle sue
modificazioni funzionali acute e croniche. Tutti gli sforzi fatti per comprendere le caratteristiche fisiologiche
dell’endotelio, i meccanismi che sottendono i cambiamenti a lungo termine e la possibilità di correggerli
certamente costituiscono la migliore via, e forse l’unica, per la scoperta di nuove strategie terapeutiche per
il trattamento di condizioni patologiche in cui la disfunzione endoteliale gioca un ruolo patogenetico di
primo piano.

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386 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 49
Il Cuore Polmonare Cronico
Cesare Fiorentini, Piergiuseppe Agostoni, Elisabetta Doria

DEFINIZIONE

Si definisce “cuore polmonare” la dilatazione e/o l’ipertrofia del ventricolo destro per aumento del
postcarico dovuto a malattie dei polmoni, della parete toracica, dei vasi polmonari o dei centri del controllo
della ventilazione. Sono escluse dalla definizione di cuore polmonare le patologie del cuore destro dovute a
cardiopatie congenite o a malattie del cuore sinistro.

FISIOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

La circolazione polmonare è interposta tra il ritorno venoso sistemico e l’atrio sinistro; oltre a rivestire un
ruolo chiave negli scambi dei gas, il circolo polmonare concorre alla regolazione biochimica, termica ed
umorale del sangue. In condizioni normali, la forza che guida il sangue attraverso il polmone dipende in
ugual misura dal ventricolo destro e dalla respirazione. La funzione di pompa del ventricolo destro, tuttavia,
diviene rilevante solo in condizioni patologiche. In alcune procedure cardiochirurgiche (ad esempio
l’intervento di Fontan), infatti, si esegue un by-pass del ventricolo destro, mettendo in comunicazione
diretta l’atrio destro con l’arteria polmonare, senza che il ritorno venoso al cuore sinistro venga
compromesso; ciò dimostra come la circolazione polmonare possa avvenire normalmente anche senza il
contributo del ventricolo destro. 
La caratteristica principale del circolo polmonare è che le pressioni sono
basse. Per generare ed aumentare il flusso del sangue occorre superare la pressione di apertura dei vasi,
reclutare progressivamente nuovi vasi e dilatare quelli già aperti. La relazione tra la pressione guida
(differenza tra pressione arteriosa polmonare media e pressione atriale sinistra) e il flusso, perciò, è
curvilinea e non origina dallo zero degli assi cartesiani (Figura 1).

Figura 1 Pannello A: curva pressione/ flusso. I punti 1 e 2 sono a uguale resistenza ma a resistenza
calcolata diversa. 
Pannello B: curva pressione / flusso. I punti 1 e 2 sono su curve pressione / flusso diverse
ma ad uguale resistenza calcolata (P = pressione, Q 0 flusso).

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387 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 1 Pannello A: curva pressione/ flusso. I punti 1 e 2 sono a uguale resistenza ma a resistenza
calcolata diversa. 
Pannello B: curva pressione / flusso. I punti 1 e 2 sono su curve pressione / flusso diverse
ma ad uguale resistenza calcolata (P = pressione, Q 0 flusso).

La resistenza vascolare è la relazione tra pressione e flusso. Nel circolo polmonare si misura la resistenza
vascolare arteriolare, con la formula seguente:



e la resistenza vascolare totale, la cui formula è:



In entrambi i casi si


assume una relazione pressione/flusso lineare, assunto del tutto erroneo. Per esempio, nella Figura 1
(pannello A) i punti 1 e 2 sono sulla stessa curva pressione/flusso (curva isoresistenza) ma su differenti
resistenze calcolate, mentre i punti 1 e 2 del pannello B hanno la stessa resistenza calcolata ma sono su
curve pressione/flusso diverse. 
Per calcolare veramente la resistenza vascolare polmonare, perciò, occorre
costruire la relazione misurando almeno 3 punti identificati da pressione e flusso. Questo può essere fatto
modificando la portata cardiaca con variazioni della postura o con l’esercizio fisico. 
La pressione
polmonare a catetere incuneato o “wedge” si misura occludendo con la punta del catetere un ramo
periferico dell’ arteria polmonare. Quella che si registra è la pressione del punto più lontano dal catetere in
cui vi è ripresa di flusso (Figura 2).

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388 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Schema di pressione polmonare a catetere incuneato. Occludendo il vaso in A si registra una
pressione equivalente a B; occludendo il vaso in C si registra una pressione equivalente in D.

L’occlusione in A legge la pressione in B mentre l’occlusione in C legge la pressione in D. In clinica, però, non
siamo in grado di percepire la differenza tra la pressione ottenuta occludendo A o C. 
La distribuzione del
flusso di sangue nel polmone è funzione del rapporto tra pressione arteriosa polmonare, pressione venosa
polmonare e pressione alveolare. Le camere del cuore destro sono cavità ad alta compliance, che possono
accettare grandi volumi di sangue con piccole variazioni di pressione. Il sistema va “in crisi” in presenza di
ipertensione polmonare, che si definisce presente se la pressione polmonare media è, a riposo e a livello
del mare, > 20 mm Hg.

FISIOPATOLOGIA DEL CUORE POLMONARE CRONICO

Il ventricolo destro assume un ruolo molto importante in presenza di malattie del polmone o del circolo
polmonare. In un cuore normale, la portata cardiaca comincia a ridursi quando la pressione polmonare
sistolica è 30-40 mm Hg. Il ventricolo destro non è in grado di tollerare pressioni di 60-80 mm Hg, ma se il
sovraccarico di pressione si instaura gradualmente, il ventricolo si ipertrofizza e si dilata, riuscendo a
mantenenere pressioni molto più alte, in alcuni casi addirittura superiori a quelle del ventricolo sinistro. 
Ci
può essere ipertensione polmonare in caso di: a) malattie cardiache congenite, b) malattie a carico del
cuore sinistro (atrio, valvola mitrale, ventricolo, valvola aortica), c) malattie respiratorie, e d) malattie che
interessano il circolo polmonare. Per definizione solo le condizioni c e d possono essere causa di cuore-
polmonare. 

Vasocostrizione ipossica
In presenza di ipossia alveolare, i vasi che portano sangue agli
alveoli interessati dalla ipossia si costringono. Se localizzato, questo è un meccanismo di difesa utile perché
riduce la perfusione di alveoli poco efficienti, favorendo la perfusione di alveoli normossici. Se il fenomeno
è generalizzato, o comunque interessa una grossa parte del polmone, si sviluppa ipertensione polmonare
ipossica. Questa permette di reclutare nuovi vasi polmonari ma, se la portata si mantiene, fa aumentare il
lavoro del ventricolo destro. L’ipossia alveolare può essere acuta (apnee del sonno), subacuta (ARDS,
edema polmonare da alta quota) o cronica (patologia polmonare, della parete toracica o del controllo della
ventilazione). In presenza di ipossia cronica, le arterie polmonari sviluppano uno strato muscolare che
aumenta progressivamente, in rapporto alla durata ed all’entità dell’ipossia alveolare. Esistono fattori che

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389 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

aumentano la risposta ipertensiva all’ipossia alveolare, quali l’aumento della PaCO2, l’aumento
dell’ematocrito che incrementa la viscosità del sangue, l’aumento o la riduzione importante del volume
polmonare ed, infine, la riduzione anatomica o funzionale del letto vascolare polmonare. Bisogna ricordare
che la resistenza vascolare polmonare dipende dal volume polmonare: per i vasi alveolari aumenta con
l’aumento del volume polmonare, mentre per i vasi extra-alveolari si riduce con l’aumento del volume
polmonare. La somma dà la effettiva resistenza vascolare alla capacità funzionale residua (Figura 3).

Figura 3 Relazione tra volume polmonare e resistenza vascolare polmonare totale nei vasi alveolari e nei
vasi extra-alveolari (VR = volume residuo, CFR = capacità funzionale residua, CPT = capacità polmonare
totale, RVP = resistenze vascolari polmonari).

Episodi di ipossia alveolare, come quelli associati alle apnee notturne, possono causare o concorrere a
causare cuore polmonare. Un esempio classico di questo è il cuore polmonare della sindrome di Pickwick
(obesità, sonnolenza, policitemia) o quello dei “russatori” per alcool, bronchite cronica, obesità. 
L’ipossia
alveolare cronica si sviluppa in corso di ipoventilazione alveolare e si associa ad ipercapnia. Le cause
includono enfisema, fibrosi polmonare, patologia polmonare restrittiva e bronchite cronica. 



Restringimento meccanico dei vasi
Le modificazioni dei volumi polmonari hanno un ruolo importante nella
genesi dell’ ipertensione polmonare. In presenza di malattia polmonare ostruttiva, il volume del polmone
aumenta. Inoltre si può sviluppare il fenomeno del “air-trapping” per l’insufficiente flusso espiratorio. Se la
ventilazione aumenta, questo fenomeno diviene sempre più rilevante con zone di polmone che per
l’insufficiente espirazione sono ad alta pressione e comprimono i vasi. In questo caso, per mantenere il
flusso deve esserci un ulteriore aumento della pressione vascolare. Anche la riduzione del volume
polmonare si associa ad aumento della resistenza vascolare polmonare (Figura 3). 



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390 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Sovraccarico pressorio attorno al cuore destro
Il cuore è circondato in gran parte dal polmone. Nel cuore
polmonare la rigidità del polmone è significativamente aumentata, e ciò aumenta il lavoro esterno, quello
soprattutto del ventricolo destro, le cui pareti sono sottili e meno potenti di quelle del ventricolo sinistro. Il
movimento del cuore in sistole e diastole è a maggiore costo energetico in presenza di polmone rigido. 



Aumento della portata cardiaca
L’ ipossia alveolare riduce il contenuto arterioso di ossigeno. Questa
riduzione è compensata da un aumento dell’emoglobina e dall’aumento della portata cardiaca.
Quest’ultima è un ulteriore elemento di sovraccarico per il cuore destro.

QUADRO CLINICO

Non ci sono sintomi specifici di dilatazione e/o ipertrofia del ventricolo destro, ma il quadro clinico è
dominato dalla malattia che causa il sovraccarico ventricolare. In presenza di scompenso del cuore destro si
ha un aumento della pressione venosa sistemica, da cui dipendono edemi declivi, turgore giugulare,
epatomegalia ed ascite. 
Le sindromi che possono essere alla base del cuore polmonare cronico sono: a)
malattia polmonare ostruttiva, b) malattia polmonare restrittiva, c) malattia polmonare mista (ostruttiva e
restrittiva) e d) malattie vascolari polmonari.



Malattia polmonare ostruttiva
Il quadro clinico è quello del fumatore, con frequenti episodi di bronchite
soprattutto nei mesi invernali. Il paziente riferisce a volte sintomi correlati all’incremento della CO2, quali
confusione mentale e disorientamento. I segni più frequenti sono quelli legati all’aumento della pressione
venosa (turgore giugulare, epatomegalia, edemi declivi) e quelli dipendenti dall’ipossia, come la cianosi
labiale e delle estremità; è quasi sempre presente tachicardia sinusale e non di rado fibrillazione atriale. 
La
radiografia del torace dimostra un cuore ingrandito, salienza del secondo arco di sinistra per dilatazione
dell’arteria polmonare ed aspetto ad albero potato della vascolatura polmonare in periferia. 
I test di
funzione respiratoria dimostrano riduzione di FEV1, FEV1/FVC e capacità vitale, ed aumento consistente del
volume residuo. La diffusione alveolo-capillare è ridotta. 
L’emogasanalisi dimostra ipossiemia e
ipercapnia. La somministrazione incongrua di ossigeno può peggiorare il quadro emogasanalitico. 
L’ECG
(ECG 03)

3 - Ingrandimento atriale destro. Ipertrofia ventricolare destra. Enfisema polmonare. Cuore Polmonare

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391 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

cronico.

L’ingrandimento dell’atrio destro è suggerito dalle P alte (0,35 mV in II) e appuntite, con durata normale
(0,09 secondi), nelle derivazioni II, III e aVF. Vi sono, inoltre, onde P appuntite in tutte le derivazioni
precordiali; in V1 la P è positivo/negativa, e la parte positiva ha un’ampiezza di 0,2 mV.

mostra ingrandimento dell’atrio destro e ipertrofia ventricolare destra (vedi Capitolo 3). 

L’ecocardiogramma rivela l’ipertrofia e la dilatazione del ventricolo destro, ed anche l’ipertensione
polmonare, valutata con metodica Doppler (Figura 4).

Figura 4 Calcolo del gradiente pressorio fra ventricolo e atrio destro attraverso la velocità del flusso di
rigurgito tricuspidale.

La terapia è la sospensione del fumo, la riduzione del rischio di recidiva delle infezioni delle vie aeree e dei
polmoni, la riabilitazione respiratoria, l’uso di broncodilatatori e mucolitici, l’impiego congruo di ossigeno .

La terapia farmacologia dell’ipertensione polmonare secondaria non ha successo. 



Malattia polmonare restrittiva
Le malattie restrittive che portano al cuore polmonare cronico hanno
prognosi infausta. Si possono riconoscere due gruppi di malattie restrittive: il primo comprende le alveoliti
fribrotizzanti, le pneumoconiosi, le malattie della gabbia toracica e del suo apparato neuro-muscolare.
Tutte queste malattie portano ad insufficienza ventilatoria con iperventilazione. 
Il secondo gruppo di

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392 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

malattie restrittive che portano a cuore polmonare è caratterizzato fin dall’ inizio da ipoventilazione. La
terapia delle fasi più avanzate è solo il supporto ventilatorio.

Malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva)
I due quadri possono essere presenti: l’ aspetto clinico
più tipico è quello del fumatore obeso.



Malattie vascolari polmonari
L’ostruzione o la distruzione del letto vascolare polmonare può causare
ipertensione polmonare che, a sua volta, porta a cuore polmonare. In questo caso la pressione polmonare
può essere molto elevata, più che nelle forme ipossiche. 
L’ipertensione polmonare può essere post-
embolica, di solito successiva a molti episodi embolici più o meno sintomatici e spesso clinicamente non
riconosciuti, oppure causata da vasculopatia per ipertensione polmonare primitiva (vedi Capitolo 51) o
associata a varie vasculiti. 
L’incidenza dell’ipertensione polmonare post-embolica è minore di quanto ci si
potrebbe aspettare dal numero di embolie ritrovate all’autopsia: ciò dipende verosimilmente
dall’estensione del letto vascolare polmonare e dai potenti meccanismi trombolitici dell’endotelio
polmonare.

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393 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 50
L’Embolia Polmonare
Giuseppe Mercuro, Francesco Peliccia

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

L’embolia polmonare (EP) è l’occlusione acuta del tronco o di un ramo dell’arteria polmonare, che
determina un ostacolo allo svuotamento del ventricolo destro e un’interruzione del flusso ematico nel
distretto polmonare a valle dell’occlusione. Il grado di compromissione emodinamica e respiratoria dipende
dalla dimensione dell’embolo, che può interessare la biforcazione dell’arteria polmonare (embolo a sella) o
un suo ramo (Figura 1).

L’incidenza dell’EP è dello 0.5-1‰, con un rapido incremento dopo i 60 anni di età. La mortalità per EP è
>15% nei primi 3 mesi dalla diagnosi.

EZIOLOGIA

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394 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

All’origine di un’EP sta, nella quasi totalità dei casi, la mobilizzazione di un trombo venoso dalla sua sede di
formazione periferica, usualmente le vene degli arti inferiori: il trombo percorre il circolo venoso refluo,
l’atrio ed il ventricolo destro ed embolizza la circolazione arteriosa polmonare. Circa la metà dei pazienti
con trombosi venosa profonda (TVP) pelvica o prossimale delle gambe subiscono un’EP, che rimane assai
spesso asintomatica. Emboli a partenza dalle vene del polpaccio sono più raramente causa di EP, ma
rappresentano la sorgente più probabile di emboli paradossi, che possono raggiungere la circolazione
arteriosa sistemica attraverso un forame ovale pervio o un difetto del setto interatriale. L’origine di un
trombo dagli arti superiori è possibile a causa dell’utilizzo crescente di cateteri venosi a permanenza per
alimentazione parenterale o chemioterapia, nonché di elettrocateteri di pacemaker e defibrillatori cardiaci.

Gli stati di ipercoagulabilità che possono causare un’EP, i fattori di rischio e le condizioni cliniche associate
che possono favorirla sono gli stessi coinvolti nel determinismo della TVP (v. Capitolo …). Una
predisposizione congenita deve essere considerata nei rari casi in cui l’EP colpisce soggetti <40 anni, con
storia di ricorrenti TVP o con anamnesi familiare positiva. I difetti genetici più frequentemente in causa
sono la resistenza alla proteina C attivata, la mutazione factor II 20210A, l’iperomocisteinemia e le carenze
di Antitrombina III, proteina C e proteina S. In una minoranza di casi (<5%) l’embolo non deriva da un
trombo, ma è di natura gassosa (posizionamento o rimozione di un catetere centrale), neoplastica, grassosa
(trauma o frattura), amniotica o settica.

FISIOPATOLOGIA

Un aumento della resistenza arteriosa polmonare è l’effetto dell’ostruzione del vaso da parte dell’embolo
e, in parte, della liberazione di serotonina dalle piastrine del trombo. Sul versante respiratorio si verifica
una diminuzione degli scambi gassosi – con ipossiemia nelle forme più gravi – derivante da: a.
dissociazione tra ventilazione e perfusione polmonare, con estensione dello spazio morto respiratorio
all’area interessata dall’EP; b. shunt di circolo a livello polmonare, per apertura di anastomosi artero-
venose; c. ridotta compliance polmonare, dovuta a perdita di surfactante e ad edema alveolare. Il
subitaneo innalzamento del postcarico per l’ostruzione vascolare polmonare può produrre dilatazione del
ventricolo destro e rigurgito tricuspidale. La dilatazione del ventricolo destro, cui può accompagnarsi
aumento dei livelli circolanti di BNP, determina una deviazione del SIV verso sinistra, limitando il
riempimento diastolico del ventricolo sinistro. Questo evento, insieme con il ridotto precarico ventricolare
sinistro secondario all’insufficienza ventricolare destra può causare diminuzione della gittata sistolica, della
pressione arteriosa sistemica e della perfusione coronarica.

QUADRO CLINICO

La dispnea è il sintomo più frequente dell’EP (Tabella I).

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395 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Un dolore toracico tipico è presente in caso di ischemia miocardica, specie in soggetti con precedente
cardiopatia. Altri sintomi comuni sono la tosse, la sincope e l’emottisi. L’esame clinico mostra quasi senza
eccezione tachicardia, e a volte distensione delle vene del collo, accentuazione della componente
polmonare del II tono e cianosi. E’ utile classificare l’EP in diversi quadri clinici, per attuare la migliore
strategia terapeutica e determinare la prognosi.
Un’EP massiva interessa almeno la metà del circolo
arterioso polmonare, è spesso bilaterale e induce facilmente cianosi, ipotensione arteriosa, sincope e shock
cardiogeno. 
I pazienti con EP da moderata a sub-massiva, che interessa all’incirca 1/3 del circolo
polmonare, mostrano una PA normale, che maschera l’instabilità emodinamica del ventricolo destro
(ipocinesia, insufficienza tricuspidale). 
Nell’EP lieve un trombo di modeste dimensioni si disloca nella
periferia del parenchima polmonare e può interessare il foglietto pleurico con comparsa di dolore pleuritico
e tosse. Un infarto polmonare può prodursi in questa sede in capo a 3-7 giorni, associandosi a febbre,
leucocitosi, emottisi ed un quadro radiologico tipico. La pressione arteriosa è normale e la funzione del
ventricolo destro conservata.

DIAGNOSI

Per giungere alla diagnosi di EP è di grande importanza maturarne il sospetto, sulla base del profilo di
rischio, dell’anamnesi e della recente storia clinica. Peculiare dell’EP è la rapida insorgenza dei sintomi,
inaspettata rispetto alle preesistenti condizioni cliniche del paziente. Occorre poi integrare questi dati con
l’esame fisico e con gli esiti delle indagini di laboratorio e strumentali.

Test clinici e di laboratorio. 
Il test
semi-quantitativo a punti di Wells, rappresentato da 7 domande da porre al paziente (Tabella II),

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396 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

ha un valore diagnostico di esclusione dell’EP quando rivela un punteggio =4.
Il dosaggio del D-dimero nel
plasma è molto sensibile ma poco specifico, perché esso può aumentare nel decorso post-chirurgico come
pure in caso di IMA, sepsi, cancro e patologie sistemiche in generale. Elevatissimo è il suo potere predittivo
negativo (>99%): virtualmente, nessun paziente con EP in atto risulta negativo al dosaggio del D-dimero.
Elevati valori ematici di biomarker cardiaci, quali troponina e BNP correlano con il grado di compromissione
funzionale del ventricolo destro e rappresentano un indice predittivo di eventi e di morte cardiaca. La
troponina si libera in presenza di microinfarti; il BNP è secreto dai cardiomiociti in risposta all’aumentato
stress di parete. 
La misura dell’ipossiemia non appare discriminante per la diagnosi di EP poiché non meno
del 20% dei pazienti mostra una PaO2 normale. Inoltre, per quanto la maggior parte dei pazienti con EP
siano ipocapnici a causa dell’iperventilazione, la differenza in O2 alveolo-arteriosa è normale nel 15-20% dei
casi. 



Tecniche strumentali e di imaging.
Pazienti con EP possono mostrare un ECG del tutto normale, ovvero
con manifestazioni di interessamento ventricolare destro (blocco di branca incompleto o completo), un
aspetto S1Q3T3 (onda S in D1, onda Q e T invertita in D3), sopraslivellamento di ST in V1-V2 e T negative da
V1 a V4 (ECG 50).

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397 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

50 - Embolia Polmonare

Nell’ECG 50-A si osserva tachicardia sinusale 120/m’ e blocco incompleto della branca destra, testimoniato
dai complessi rSr’ in V1 e dalle onde s terminali piuttosto larghe in I, II e V6. Nelle derivazioni da V1 a V3 il
tratto ST è sopraslivellato a convessità superiore, mentre l’onda T è negativa, ampia ed a branche
tendenzialmente simmetriche da V1 a V4. 
Nell’ECG 50-B, registrato il giorno precedente, si rileva l’assenza
di onda s in I derivazione; non vi è, inoltre, onda r’ in V1, e la morfologia del complesso in III è rs, non qs
come nell’ECG 50-A. Il tratto ST nelle precordiali destre è normale, e le onde T sono positive da V2 a V6 e in
III derivazione.
Il carattere repentino delle modificazioni, unitamente ai segni rilevati nel tracciato della
Figura A, depongono per un’embolia polmonare. In particolare, l’associazione di: 1) tachicardia sinusale, 2)
blocco di branca destra di recente insorgenza, 3) tratto ST sopraslivellato nelle precordiali destre, 4)
inversione pressoché generalizzata delle onde T nelle derivazioni precordiali e in III, 5) scomparsa dell’onda
r in III derivazione, con trasformazione di un rs in un qs, assume alta sensibilità diagnostica nei confronti
dell’embolia polmonare.

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398 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

noltre, l’ECG serve ad escludere un infarto miocardico acuto. 
La radiografia del torace presenta anormalità
in non più del 25% dei casi; il reperto più comune è la cardiomegalia. In taluni casi l’esame identifica aspetti
patognomonici, quali l’oligoemia zonale, indice di un’EP massiva e centrale, una densità periferica a forma
di cuneo, indice di infarto polmonare, o una distensione dell’arteria polmonare discendente destra (Figura
2). (immagine non ancora disponibile)

L’ecocardiografia transtoracica (ETT) è una tecnica aspecifica, poiché l’esame risulta nella norma in circa la
metà dei pazienti con EP. Del resto, l’enorme diffusione e rapidità d’esecuzione dell’ETT, insieme con
l’elevata sensibilità nell’apprezzare la dilatazione e la disfunzione del ventricolo destro, la rendono preziosa
per la stratificazione del rischio in pazienti con EP già diagnosticata. Segni di EP deducibili con l’ETT sono la
rara visualizzazione diretta del trombo, il movimento anormale del setto interventricolare, il rigurgito
tricuspidale, la dilatazione dell’arteria polmonare, il mancato collasso inspiratorio della vena cava inferiore.
Infine, l’ETT può escludere altre patologie, quali infarto miocardico acuto, dissezione aortica o pericardite.

La TC del torace con contrasto e.v. è divenuta il test di imaging elettivo nella maggior parte dei pazienti con
fondato sospetto di EP (potere predittivo negativo >99%; (Figura 3 immagine non ancora disponibile).

Apparecchi di ultima generazione sono destinati a soppiantare l’angiografia polmonare come gold standard
per la diagnosi dell’EP, consentendo l’acquisizione in pochi secondi dell’intero torace con una risoluzione
inferiore a 1 mm. D’altra parte, la TC fornisce informazioni dettagliate sulle dimensioni e la funzione del
ventricolo destro. 
La scintigrafia polmonare rappresenta oggi un’indagine di seconda scelta in caso di
sospetta EP, mentre è riservata a pazienti in gravidanza, oppure con insufficienza renale o allergia al
contrasto. 
La risonanza magnetica (RM) angiografica utilizza un mezzo di contrasto non nefrotossico e
pressoché esente da reazioni allergiche. Sensibilità e specificità diagnostiche sono paragonabili a quelle
della TC di prima generazione, consentendo l'identificazione di EP segmentarie. La RM è in grado di valutare
anche la funzione del ventricolo destro. 



Tecniche invasive
L’angiografia polmonare è idonea a riconoscere emboli di 1–2 mm quali difetti di


riempimento vasale intraluminale. Segni secondari di EP sono la netta interruzione di un vaso, l’oligoemia
segmentale o una totale mancanza di circolo ed una fase arteriosa prolungata. L’angiografia è riservata ai
pazienti con TC non diagnostica o che devono essere sottoposti ad embolectomia transcatetere o
trombolisi mirata.

Nella pratica clinica, è auspicabile un approccio diagnostico integrato, esemplificato dal
diagramma in Figura 4 (immagine non ancora disponibile)

TERAPIA

Una rapida stratificazione della gravità dell’EP è fondamentale per il corretto inquadramento clinico del
paziente e per la scelta della terapia più appropriata. A questo scopo può essere utilizzato l’indice a punti di
Ginevra che si basa su parametri anamnestici, clinici e strumentali facilmente ottenibili (Tabella III).

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399 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

l trattamento dei pazienti con EP può essere farmacologico, interventistico o chirurgico. La scelta tra queste
tre strategie dipende sia dalla loro disponibilità sia, soprattutto, dal grado di compromissione clinica e
funzionale determinato dall’EP. Supporti terapeutici immediati sono la somministrazione di 02 e la
sedazione del dolore toracico con antinfiammatori non-steroidei. In soggetti a basso rischio, con pressione
sistemica normale e senza evidenza di disfunzione ventricolare destra, il trattamento è mirato alla
prevenzione di ricorrenti EP e/o TVP e si basa sulla sola anticoagulazione. Caposaldo di tale trattamento è
l’eparina non frazionata (ENF), la cui somministrazione previene l’ulteriore formazione di trombi e consente
alla fibrinolisi endogena di dissolvere il trombo già formato. Una valida alternativa all’ENF è oggi
rappresentata dalle eparine a basso peso molecolare, frammenti di eparina con migliore biodisponibilità e
più lunga emivita dell’ENF e che, a differenza di questa, non richiedono un monitoraggio della terapia con
determinazione del PTT. Insieme all’eparina occorre iniziare la somministrazione di un anticoagulante orale
(AO), warfarin o acenocumarolo, il cui pieno effetto si manifesta in genere dopo 5 giorni. L’eparina
garantisce l’effetto anticoagulante finché l’AO non abbia prodotto valori di INR superiori a 2 per almeno 2
giorni consecutivi. In seguito, la dose di AO va scelta con l’obiettivo di mantenere l’INR tra 2 e 3. 
In caso di
emorragia in atto, di controindicazione all’uso degli anticoagulanti ovvero di EP ricorrente nonostante l’AO.
è possibile ricorrere al posizionamento di un filtro nella vena cava inferiore. 
Pazienti con EP massiva e
shock cardiogeno o portatori di vasta trombosi ileo-femorale, sono candidati alla trombolisi, al fine di
ridurre la mortalità e prevenire la ricorrenza di EP. Ciò avviene attraverso la dissoluzione sia del trombo
occludente l’arteria polmonare, con rapido miglioramento dello scompenso cardiaco destro, sia dei trombi
emboligeni presenti nella periferia del sistema venoso. 
Quando un’EP massiva determina una grave
compromissione delle funzioni cardiorespiratorie, imponendo la ventilazione assistita e il supporto
cardiocircolatorio, oppure quando la trombolisi non abbia avuto successo o sia controindicata, è
appropriata l’embolectomia, con rimozione meccanica del materiale trombotico dall’arteria polmonare.
Questa tecnica è stata eseguita per molti anni solo chirurgicamente, a torace aperto, in arresto di circolo o
a cuore battente, costituendo un intervento efficace, ma gravato da una significativa mortalità.
Attualmente, è invece possibile l’embolectomia per via percutanea in sala di emodinamica. La procedura
non necessita di anestesia generale, richiede solo un accesso venoso, in genere a livello femorale e si
esegue con speciali cateteri che frammentano e aspirano il trombo occlusivo.

In considerazione della
difficoltà di diagnosticare l’EP e di contenere il danno clinico che essa produce, è fondamentale attuare
un’efficace prevenzione del tromboembolismo venoso. Occorre diffondere l’opinione che virtualmente tutti
i soggetti ospedalizzati sono a rischio di EP e, se del caso, debbono ricevere misure preventive appropriate.
Per i pazienti a rischio più elevato la terapia anticoagulante (eparine a basso peso molecolare o AO) ed i

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400 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

presidi meccanici (calze elastiche o compressione pneumatica intermittente) che incrementano il flusso
venoso e stimolano la fibrinolisi endogena, rappresentano una profilassi con un rapporto costo/beneficio
assai vantaggioso.

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401 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 51
L’Ipertensione Polmonare Primitiva
Carmine Dario Vizza, Roberto Badagliacca, Roberto Poscia, 
Francesco Fedele

DEFINIZIONE

L’ ipertensione polmonare viene definita come un aumento della pressione polmonare media superiore a
25 mmHg in condizioni di riposo o di 35 mmHg durante attività fisica. Per cuore polmonare cronico (vedi
Capitolo 48) si intendono gli adattamenti morfofunzionali del ventricolo destro che si osservano in corso di
ipertensione polmonare, caratterizzati da aumento dello spessore della parete libera, dilatazione della
cavità e riduzione della funzione sistolica.

CENNI DI FISIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

Il circolo polmonare è caratterizzato da alto flusso e basse resistenze: è sufficiente una pressione media di
soli 12-15 mmHg per far fluire tutta la portata cardiaca (circa 4-5 litri) attraverso i polmoni. 
Da un punto di
vista emodinamico, dobbiamo distinguere due diverse forme di ipertensione:

• ipertensione polmonare precapillare, che coinvolge il circolo polmonare a livello arteriolare, provocando
un aumento della pressione solo nell’arteria polmonare;
• ipertensione polmonare postcapillare, causata da un aumento delle resistenze a livello venulare o delle
sezioni cardiache sinistre (come accade in corso di valvulopatie o miocardiopatie); in questa
situazione, l'aumento della pressione in arteria polmonare è necessario per mantenere un normale
gradiente transpolmonare.
La distinzione tra queste due condizioni è importante dal punto di vista clinico e terapeutico, poiché:

• nella maggioranza dei casi l’ipertensione post-capillare è secondaria ad una disfunzione ventricolare
sinistra, ed il trattamento deve riguardare la patologia ventricolare sinistra;
• nelle forme precapillari la compromissione cardiaca è prevalente a livello del cuore destro e le cure sono
rivolte alla riduzione delle resistenze arteriolari polmonari.

CLASSIFICAZIONE

Si distinguono 5 forme principali di ipertensione polmonare:

• Ipertensione arteriosa polmonare (precapillare)


• Ipertensione venosa polmonare (postcapillare)
• Ipertensione polmonare secondaria a malattie polmonari (precapillare)
• Ipertensione polmonare secondaria a malattie tromboemboliche (precapillare)
• Miscellanea
Ipertensione arteriosa polmonare (IAP)

In questo gruppo vengono riunite le forme di ipertensione polmonare che hanno caratteristiche simili a
quelle dell’ipertensione polmonare primitiva, che nella più recente classificazione viene definita come
ipertensione arteriosa polmonare idiopatica. Oltre alla forma idiopatica e familiare, la IAP può essere
associata al consumo di anoressizzanti, a malattie del connettivo (sclerodermia, lupus), all'infezione da HIV,
all’ipertensione porto-polmonare, alle cardiopatie congenite con iperafflusso polmonare (sindrome di
Eisenmenger) (vedi Capitolo 51); rientra in questo gruppo anche l’ipertensione polmonare persistente nel
neonato.

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402 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tutte queste forme sono caratterizzate da un interessamento quasi esclusivo della componente vascolare
del polmone, con ostruzione delle arteriole di piccolo calibro secondaria a proliferazione delle cellule
endoteliali e della media ed a fenomeni di trombosi in situ.

Ipertensione venosa polmonare

E’ una forma di ipertensione polmonare post-capillare, il cui principale meccanismo emodinamico è


l’aumento della pressione atriale sinistra (valvuopatie mitraliche) o telediastolica ventricolare sinistra
(disfunzione ventricolare secondaria a valvulopatie, cardiopatia ischemica, miocardiopatie etc.. ). In questa
situazione la pressione in arteria polmonare aumenta per mantenere il gradiente transpolmonare.

Ipertensione polmonare secondaria a patologie parenchimali polmonari

E' la forma più frequente di ipertensione polmonare precapillare; interessa prevalentemente pazienti con
grave patologia polmonare e insufficienza respiratoria ipossica e ipercapnica (vedi Capitolo 48).

Ipertensione polmonare secondaria a tromboembolia cronica

Questa forma rappresenta l’esito di uno o più episodi embolici polmonari che non si sono risolti in modo
completo. L’albero vascolare polmonare è ostruito da formazioni costituite da tessuto fibroso tenacemente
aderente all'intima del vaso. L’incidenza di ipertensione polmonare cronica in pazienti con embolia
polmonare è variabile tra lo 0,1 e il 3%.

PATOGENESI DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA POLMONARE

L’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica è una sindrome complessa, multifattoriale, in cui esiste una
predisposizione genetica che conferisce una particolare “reattività” vascolare polmonare a stimoli di varia
natura. Una delle ipotesi patogenetiche più accreditate è che diversi fattori (virus, tossine, fenomeni
autoimmunitari, ecc.), agendo su un terreno predisposto geneticamente, possano causare una lesione
endoteliale rompendo l’equilibrio tra fattori vasodilatanti/antimitogeni e fattori vasocostrittori/mitogeni a
favore di questi ultimi. Si innescherebbe quindi un circolo vizioso caratterizzato da vasocostrizione,
proliferazione delle cellule muscolari lisce ed endoteliali ed attivazione della cascata coagulativa, il cui esito
è la formazione delle lesioni arteriolari che si osservano in questa malattia.

FISIOPATOLOGIA

Nel corso della malattia si assiste ad un progressivo aumento delle resistenze vascolari, e per mantenere la
portata cardiaca il ventricolo destro deve generare pressioni sempre più elevate. La progressione verso
l’insufficienza cardiaca dipende dalla capacità del ventricolo destro di mantenere una funzione accettabile a
fronte di un continuo aumento delle resistenze vascolari polmonari. L’ipertrofia del ventricolo destro è
quasi sempre un meccanismo di compenso non adeguato, per cui si assiste a riduzione della funzione
sistolica, dilatazione delle sezioni destre e comparsa di insufficienza tricuspidale e polmonare per
dilatazione degli anelli valvolari.
Nel corso della malattia si passa da una fase asintomatica o
paucisintomatica (la portata cardiaca è normale a riposo, e riesce parzialmente ad incrementarsi durante
esercizio fisico) ad una fase sintomatica, con ridotta tolleranza allo sforzo (portata cardiaca normale a
riposo, incapacità di aumento sotto sforzo), per arrivare alla fase terminale in cui la portata cardiaca è
ridotta anche a riposo.
Insieme alle modificazioni della portata si assiste ad un aumento delle pressioni di
riempimento ventricolare destro, con la comparsa dei segni di congestione sistemica (turgore delle
giugulari, epatomegalia e edemi declivi). Oltre a fattori meccanici (aumento della pressione atriale destra),
contribuiscono alla comparsa degli edemi anche fattori neuro-ormonali, come avviene nel corso
dell'insufficienza ventricolare sinistra. L'attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e

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403 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

dell'endotelina contribuiscono alla ritenzione idro-salina ed alla formazione di edemi.

SINTOMI E SEGNI

I sintomi della ipertensione arteriosa polmonare sono aspecifici e sono riconducibili alla incapacità di
aumentare la portata cardiaca durante attività fisica e all’aumento del lavoro respiratorio. Comprendono,
in ordine di frequenza, la dispnea (inizialmente da sforzo, nelle forme più gravi a riposo), l’astenia, il dolore
precordiale, la lipotimia/sincope. Questo quadro sintomatologico si può associare a segni obiettivi di
ingrandimento ventricolare destro, con insufficienza della tricuspide (soffio olostolico sulla margino-
sternale sinistra al IV spazio intercostale) o suggestivi di ipertensione polmonare (aumento di intensità del II
tono sul focolaio della polmonare). Nei casi più avanzati si osserva un quadro di insufficienza ventricolare
destra (edemi declivi, turgore delle giugulari, epatomegalia, cianosi).

DIAGNOSI

La diagnosi di ipertensione polmonare è difficile perchè i sintomi sono aspecifici e compaiono solo negli
stati avanzati della malattia.
Nei soggetti con aumentata probabilità di sviluppare ipertensione arteriosa
polmonare (pazienti con malattie del connettivo, con cardiopatie congenite operati e non, con infezione da
HIV) il peggioramento della dispnea o dell’astenia, la comparsa di episodi lipotimici/sincopali da sforzo,
l’ipertrofia ventricolare destra all’ECG (Figura 1 manca immagine) o la dilatazione dell’arteria polmonare
destra alla radiografia del torace (Figura 2 manca immagine) possono far nascere il sospetto di
un’ipertensione polmonare. Questo deve essere confermato dall’ecocardiogramma bidimensionale e
Doppler, che permette di stimare la pressione sistolica in arteria polmonare attraverso il calcolo della
velocità di rigurgito tricuspidale (vedi Capitolo 4) (Figura 3 manca immagine) e di valutare il grado di
disfunzione ventricolare destra (Figura 4 manca immagine). Per la diagnosi di ipertensione arteriosa
polmonare primitiva è necessario escludere la presenza di:


- una pneumopatia significativa (le prove di funzionalità respiratoria permettono di riconoscere una
patologia parenchimale polmonare, Figura 5 manca immagine).

- un’ipertensione polmonare secondaria a tromboembolismo cronico: in questi casi la scintigrafia


polmonare evidenzia difetti segmentari della perfusione (Figura 6 manca immagine) o la TC spirale
dimostra trombosi nei rami dell’arteria polmonare (Figura 7 manca immagine).

- un’ipertensione venosa polmonare, suggerita dalla presenza di disfunzione ventricolare sinistra (ECO 29
manca).
Raggiunta la diagnosi, è necessario eseguire ulteriori indagini che permettano di stabilire se
l’ipertensione arteriosa polmonare è idiopatica o associata ad altre patologie (Tabella I manca).

CENNI DI TERAPIA

La terapia medica è in primo luogo imperniata sul trattamento dell’insufficienza cardiaca congestizia e
prevede l’uso di diuretici (furosemide, spironolattone) e digitale; gli anticoagulanti orali possono essere utili
in quanto un rilievo istopatologico frequente è la trombosi in situ. I calcio-antagonisti si impiegano solo nei
casi responsivi ad un test acuto di vasodilatazione; sono indicati nella terapia a lungo termine la nifedipina
o il diltiazem. L'ossigenoterapia è necessaria nei pazienti con ipossiemia a riposo.


Farmaci specifici per l'ipertensione arteriosa polmonare
Prostanoidi 
Il razionale per l'uso di questo
categoria di farmaci consiste nel rilievo di un deficit di produzione di prostaciclina a livello dell'endotelio dei
piccoli vasi polmonari, con vasocostrizione, aggregazione piastrinica e proliferazione degli elementi mio-

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404 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

intimali. I prostanoidi attualmente disponibili sono: l’epoprostenolo (somministrato per via infusionale
continua), l’iloprost (per via inalatoria) e il treprostinil (per via sottocutanea). Tali farmaci hanno dimostrato
efficacia nel migliorare la tolleranza allo sforzo e la la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti con
ipertensione arteriosa polmonare idiopatica. 

Antagonisti recettoriali dell'endotelina
L’endotelina,
mediatore autocrino e paracrino della proliferazione endoteliale e delle cellule muscolari lisce, ha
certamente un ruolo nella patogenesi dell'ipertensione arteriosa polmonare. Il bosentan (antagonista dei
recettori ETA ed ETB dell’endotelina), il sitaxentan e l’ambrisentan (antagonisti selettivi del recettore ETA)
possono essere somministrati per via orale e si sono dimostrati efficaci sia nell’ipertensione arteriosa
polmonare idiopatica, che nelle forme secondaria a connettiviti. 
Sildenafil 
Il farmaco agisce bloccando la
fosfodiesterasi 5 (particolarmente rappresentata a livello del circolo polmonare) con conseguente aumento
del GMPc intracellulare che, in acuto, causa vasodilatazione e in cronico esercita un effetto antiproliferativo
sulle cellule muscolari lisce. Il farmaco è efficace nel migliorare l’emodinamica e la tolleranza allo sforzo nei
pazienti con IAP.


Terapie chirugiche
In caso di fallimento della terapia medica, l'unica alternativa è quella del trapianto di
polmone. Nei casi con insufficienza congestizia refrattaria alla terapia medica che non possono essere messi
in lista per il trapianto è possibile un intervento palliativo di settostomia atriale con catetere a palloncino
durante cateterismo cardiaco (una procedura simile a quella che si esegue nella trasposizione dei grossi
vasi, vedi Capitolo 53). Si crea così un difetto interatriale con shunt destro-sinistro (la pressione in questi
pazienti è maggiore nell’atrio destro che nel sinistro) che consente una decompressione delle sezioni destre
ed un aumento del riempimento ventricolare sinistro, a scapito della comparsa di cianosi. I risultati clinici
della settostomia sono buoni, con riduzione dell’ascite e dell’epatomegalia e miglioramento della portata
cardiaca sistemica.

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405 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 52
CARDIOPATIE CONGENITE PARTE I
Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela Morelli,
Alessandra Rea, Giampiero Gaio

DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA DELLE CARDIOPATIE CONGENITE

Le cardiopatie congenite rappresentano le più frequenti malformazioni riscontrate alla nascita, con
un’incidenza che varia dal 2.5 al 12% nelle diverse aree geografiche. Sulla base del quadro fisiopatologico,
le cardiopatie congenite possono essere classificate in cinque gruppi principali.
1) Nelle cardiopatie con iperafflusso polmonare si realizza un passaggio di sangue dal cuore sinistro al
cuore destro a causa di una comunicazione anomala tra la circolazione sistemica e quella polmonare (shunt
sistemico-polmonare). Tale shunt sinistro-destro comporta un iperafflusso polmonare, cioè un aumento
della portata ematica polmonare, che risulta maggiore di quella sistemica. L’aumentato ritorno venoso
polmonare che ne consegue determina un sovraccarico di volume delle cavità cardiache destre o sinistre a
seconda che la sede dello shunt sia localizzata al di sopra (shunt pre-tricuspidalico) o al di sotto (shunt post-
tricuspidalico) della valvola tricuspide.
2) Nelle cardiopatie con ipoafflusso polmonare è presente una riduzione del flusso ematico polmonare,
generalmente secondaria ad un ostacolo all’efflusso del sangue dal ventricolo destro. Ne consegue ridotta
ossigenazione del sangue arterioso e cianosi.
3) Nelle cardiopatie con circolazioni in parallelo il sangue venoso sistemico non ossigenato proveniente
dalle vene cave ritorna direttamente nel circolo arterioso sistemico, mentre il sangue venoso polmonare
ossigenato viene nuovamente inviato nella circolazione polmonare (Figura 1).

(figura 1: fisiopatologia della trasposizione dei grossi vasi a setto


interventricolare intatto: circolazione in parallelo)
Tale condizione si determina nella trasposizione delle grandi arterie (cardiopatia congenita in cui l’aorta
origina dal ventricolo destro e l’arteria polmonare dal ventricolo sinistro), ed è incompatibile con la vita, a
meno che non esista una comunicazione anatomica tra le due circolazioni (per esempio, difetto interatriale
o dotto arterioso). Il neonato con questo tipo di patologia presenta cianosi alla nascita e più tardivamente
scompenso.
4) Le cardiopatie dotto-dipendenti sono caratterizzate da una severa ostruzione o atresia dell’efflusso
ventricolare destro o sinistro, per cui il flusso sistemico o quello polmonare dipende totalmente dalla

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406 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pervietà del dotto di Botallo. Queste cardiopatie portano a cianosi o scompenso cardiaco precoce.
5) Le cardiopatie con ostruzione all’efflusso ventricolare sono caratterizzate da una stenosi lungo l’efflusso
ventricolare destro o sinistro, tale da determinare un sovraccarico di pressione del ventricolo. A differenza
di quelle “dotto-dipendenti”, in tali cardiopatie la gravità dell’ostruzione non è tale da condizionare una
dipendenza del circolo polmonare o sistemico della pervietà del dotto di Botallo, per cui la sintomatologia
clinica, caratterizzata da cianosi o scompenso cardiaco, può comparire anche più tardivamente.

SEGNI CLINICI

La cianosi e lo scompenso cardiaco sono i principali segni clinici di una cardiopatia congenita. La cianosi è
una colorazione bluastra della cute e delle mucose dovuta alla presenza di almeno 5 grammi di emoglobina
ridotta per decilitro di sangue. Tale condizione si può verificare per desaturazione del sangue arterioso
(cianosi centrale) o per rallentamento del circolo periferico ed aumentata estrazione di ossigeno dal sangue
capillare (cianosi periferica). Per rilevare la cianosi nel neonato è opportuno osservare soprattutto la punta
del naso, le labbra, la mucosa orale e la lingua. Lo scompenso cardiaco è una condizione determinata
dall’incapacità dell’apparato cardiovascolare a mantenere una portata cardiaca adeguata a soddisfare le
esigenze metaboliche dell’organismo. In età pediatrica il sintomo più comune di scompenso cardiaco è la
difficoltà ad alimentarsi e di conseguenza il ritardo della crescita. I segni clinici che possono presentarsi in
un bambino in condizione di scompenso sono soprattutto pallore, sudorazione eccessiva, polipnea (>
60/minuto), dispnea, rientramenti intercostali, rantoli, tachicardia ed epatomegalia. Spesso si ascoltano il III
e il IV tono (vedi Capitolo 2).

CLASSIFICAZIONE

Le principali cardiopatie congenite possono essere suddivise, in base ai diversi modelli fisiopatologici, in
cinque gruppi. Per ogni singolo gruppo, sono elencate di seguito in parentesi, le cardiopatie più frequenti,
che saranno trattate in questo capitolo ed in quello successivo.

 Cardiopatie congenite semplici con shunt sinistro-destro (Difetto interatriale, Difetto interventricolare,
Pervietà del dotto di Botallo)
 Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare destro (Stenosi polmonare, Tetralogia di
Fallot)
 Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro (Stenosi aortica, Coartazione
aortica)
 Cardiopatie congenite con circolazione in parallelo (Trasposizione dei grossi vasi)
 Cardiopatie congenite complesse (Canale atrioventricolare, Atresia della tricuspide, Cuore univentricolare,
Truncus arterioso, Trasposizione corretta dei grossi vasi, Malattia di Ebstein).

CARDIOPATIE CON SHUNT SINISTRO-DESTRO =

DIFETTO INTERATRIALE

Il difetto interatriale isolato rappresenta circa il 10% di tutte le cardiopatie congenite; dal punto di vista
anatomopatologico, il setto interatriale presenta una soluzione di continuo che può avere sede e
dimensione variabili. Si distinguono quattro tipi di difetto interatriale (Figura 2):

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407 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(figura 2= classificazione anatomica dei difetti interatriali: SV tipo seno venoso, OS tipo ostium
secundum, SC tipo seno coronarico, OP tipo ostium primum)

- ostium secundum, localizzato nella parte centrale del setto a livello della regione della fossa ovale
(Patologia 52).
- ostium primum, localizzato nella parte bassa del setto, appena al di sopra delle valvole atrioventricolari
(Patologia 53).
- seno venoso.
- seno coronarico.

(PATOLOGIA 52: DIFETTO INTERATRIALE TIPO OSTIUM SECUNDUM. si noti la pressochè assenza della
valvola del forame ovale)

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408 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(PATOLOGIA 53= difetto interatriale tipo ostium primum, visto da sinistra)

La presenza di una comunicazione tra le due cavità atriali determina, a causa della maggiore pressione
vigente nell’atrio sinistro, uno shunt sinistro-destro la cui entità varia in rapporto alle dimensioni del difetto
e alla differenza di pressione tra i due atri. Questa cardiopatia è caratterizzata da iperafflusso polmonare
(portata polmonare superiore a quella sistemica) e da sovraccarico di volume dell'atrio e del ventricolo
destro.
Segni clinici. La maggior parte dei pazienti con difetto interatriale di moderata ampiezza è asintomatica fino
alla quarta-quinta decade di vita. I reperti ascoltatori dovuti all'iperafflusso polmonare sono rappresentati
da un soffio sistolico eiettivo localizzato al II-III spazio intercostale lungo la margino-sternale sinistra e da
uno sdoppiamento ampio e “fisso” del II tono (Vedi Capitolo II).
L'elettrocardiogramma mostra di solito i segni di un ingrandimento atriale e ventricolare destro, con
aspetto tipo blocco di branca destra (ECG 9 , ECG 10).

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409 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(ECG 9: il blocco di branca destra è testimoniato dal complesso rSR' in V1 con T negativa, dalle onde S
larghe e rallentate in I, aVL, V5 e V6 e dalla durata aumentata del QRS :0,18 secondi )

(ECG 10: il blocco di branca destra è testimoniato dal complesso rSR' in V1 con T negativa, dalle onde S
larghe e rallentate in I, II, V5 e V6 e dalla durata aumentata del QRS =0,16 secondi)

L'esame radiografico mostra un ingrandimento delle sezioni destre del cuore, dilatazione dell'arteria
polmonare ed iperafflusso polmonare. (Figura 3 : Difetto interatriale. Bambina di 4 anni asintomatica.
Riscontro di soffio eiettivo polmonare 2/6 e di sdoppiamento fisso del II tono. La radiografia del torace
mostra un ingrandimento delle sezioni destre del cuore, con dilatazione dell'arteria polmonare (II arco
sinistro) )

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410 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L'ecocardiogramma transtoracico permette di diagnosticare con precisione tipo, sede e dimensioni del
difetto.

(Figura 4 :
A: l'ecocardiogramma in proiezione quattro camere sottoxifoidea
evidenzia una soluzione di continuo del setto interatriale. AD atrio
destro, AS atrio sinistro, VD ventricolo destro, VS ventricolo sinistro.
B: l'aggiunta del color-flow mostra shunt interatriale sinistro-destro )

L'ecocardiogramma transesofageo mostra il difetto e lo shunt con grande evidenza (ECO 50 si consiglia di
guardare il video).

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411 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Cenni di terapia. La terapia del difetto interatriale è di tipo chirurgico o interventistico. Nei pazienti adulti e
nei bambini con peso maggiore di 20 kg, il DIA tipo ostium secundum può essere chiuso per via percutanea
mediante impianto di protesi a doppio ombrello

(Figura 5 : chiusura percutanea del difetto interatriale. Ben visibile la protesi Amplatzer che, sotto guida
fluoroscopica ed ecocardiografica transesofagea, viene impiantata a livello del setto interatriale. La
protesi è costituita da due dischi paralleli uniti da una parte centrale. )

Prognosi e follow-up. La quasi totalità dei pazienti raggiunge in assenza di sintomi la prima e la seconda
decade. Dopo la terza decade vita, si rileva spesso la comparsa di aritmie sopraventricolari (episodi di
fibrillazione atriale parossistica, con evoluzione successiva in fibrillazione cronica). Nel DIA ampio può
comparire in età avanzata l'ipertensione polmonare, con riduzione dello shunt sinistro-destro e, nelle fasi
più avanzate, comparsa di shunt destro-sinistro e quindi cianosi.

DIFETTO INTERVENTRICOLARE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Consiste in una soluzione di continuo del setto interventricolare, la
cui sede e dimensione sono estremamente variabili. I difetti interventricolari vengono classificati in (Figura
6):

 Difetti perimembranosi, localizzati nella porzione membranosa del setto interventricolare (Patologia 54).
 Difetti muscolari, localizzati esclusivamente nel setto muscolare (Patologia 55).

(FIGURA 6: Classificazione dei difetti interventricolari in base alla sede anatomica)

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412 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(PATOLOGIA 54: difetto perimembranoso. A visto da destra , B visto da sinistra)

(PATOLOGIA 55: difetto interventricolare muscolare. A visto da destra, B visto da sinistra)

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413 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Quadro clinico. Nei difetti di ampiezza moderata, i sintomi sono generalmente assenti nei primi giorni o
settimane di vita, ma successivamente la riduzione delle resistenze vascolari polmonari provoca un
aumento dell’iperafflusso polmonare con conseguente comparsa di difficoltà nell'alimentazione, scarso
accrescimento ponderale o anche segni conclamati di scompenso cardiaco. All'ascoltazione è presente in
questi casi un soffio olosistolico con massima intensità al bordo sternale sinistro basso. Nei difetti ampi,
invece, la sintomatologia compare precocemente, e si realizza il quadro dello scompenso cardiaco,
caratterizzato da tachipnea, sudorazione eccessiva, epatomegalia, scarso incremento ponderale e ritardo di
crescita.
Diagnostica strumentale. L’elettrocardiogramma è normale nei difetti piccoli, mentre si possono rilevare
segni di ipertrofia biventricolare nei difetti moderati e ampi (Figura 7 : bambino di 3 anni con soffio
sistolico 3/6 al mesocardio irradiato a sbarra. l'ECG mostra ampio voltaggio dei complessi QRS nelle
derivazioni precordiali )

La radiografia del torace mostra cardiomegalia ed eventuali segni di iperafflusso.


L’ecocardiogramma-colorDoppler rappresenta la metodica diagnostica di prima scelta, utile per individuare
la sede del difetto e le eventuali anomalie associate (Figura 8, Figura 9).

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414 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(FIGURA 8 : L'ecocardiogramma, proiezione sottoxifoidea, mostra difetto interventricolare sottoaortico


ampio , con dilatazione biventricolare)

(FIGURA 9: Bambino di 8 mesi con soffio sistolico 3/6 al mesocardio. L'ecocardiogramma , proiezione 4-
camere apicale, mostra difetto interventricolare muscolare localizzato alla porzione media del setto
muscolare)

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415 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il cateterismo cardiaco viene impiegato come metodica diagnostica solo nel sospetto di ipertensione
polmonare, o anche per stimare l’entità dello shunt in caso di dati clinici incerti o per escludere
malformazioni associate se i reperti ecocardiografici sono dubbi.
Cenni di terapia. Ai pazienti con sintomi clinici di marcato iperafflusso polmonare si somministrano farmaci
ACE-inibitori e diuretici. L'intervento chirurgico va effettuato precocemente (primi mesi di vita) nei casi di
difetto interventricolare ampio con scompenso cardiaco refrattario al trattamento farmacologico. Nei DIV
piccoli, per i quali non vi è indicazione alla correzione chirurgica, è consigliabile una profilassi antibiotica in
caso di manovre invasive, per ridurre il rischio di endocardite infettiva.
Prognosi e follow-up. La storia naturale del difetto interventricolare è caratterizzata da un ampio spettro di
possibilità, che variano dalla chiusura spontanea allo scompenso cardiaco congestizio. Nei pazienti adulti
con ampi difetti interventricolari si sviluppa spesso una grave ipertensione polmonare, per cui lo shunt
s’inverte, divenendo destro-sinistro, e compaiono cianosi, policitemia e ippocratismo digitale (sindrome di
Eisenmenger).

PERVIETÀ DEL DOTTO ARTERIOSO

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Durante la vita fetale il dotto arterioso, che connette l’arteria
polmonare sinistra all’aorta, presenta dimensioni uguali a quelle dell'aorta ascendente, e convoglia il flusso
ventricolare destro verso l'aorta discendente. Dopo la nascita esso tende rapidamente a chiudersi grazie
alla contrazione della componente muscolare, stimolata dall'aumento della tensione di ossigeno arteriosa
secondaria all'inizio della respirazione. La chiusura è ritardata o assente nel neonato prematuro, nel quale
l'incidenza di pervietà duttale è superiore a quella del nato a termine. La presenza di uno shunt duttale tra il
circolo sistemico e quello polmonare condiziona un aumento del ritorno venoso polmonare e provoca un
sovraccarico diastolico delle sezioni sinistre responsabile, alla fine, di una disfunzione ventricolare sinistra.
In caso di ampio shunt duttale si può sviluppare con gli anni una vasculopatia polmonare irreversibile.
Segni clinici. Le manifestazioni cliniche del dotto arterioso pervio dipendono dall'entità dello shunt e dalla

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416 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

capacità del paziente di compensare al sovraccarico di volume delle sezioni sinistre. Un dotto arterioso
medio-ampio nel neonato può manifestarsi sotto forma di sindrome da distress respiratorio oppure di
scompenso cardiaco con tachicardia, tachipnea, rientramenti intercostali e rantoli polmonari. Nel casi di
dotti arteriosi di piccole dimensioni, invece, i reperti obiettivi sono limitati alla presenza di un soffio
continuo in sede sottoclaveare sinistra (vedi Capitolo 2), con aumento di intensità della componente
polmonare del II tono.
Diagnostica strumentale. I reperti elettrocardiografici non sono significativi in caso di shunt lieve, mentre in
presenza di un ampio dotto arterioso pervio si rilevano i segni dell’ipertrofia ventricolare sinistra o
biventricolare. La radiografia del torace mostra cardiomegalia e aumentata vascolarizzazione polmonare
quando lo shunt è moderato o severo.
L’ecocardiogramma conferma la diagnosi, rilevando la presenza del dotto arterioso e la dilatazione delle
sezioni sinistre negli shunt significativi. (Figura 10: bambino di 3 mesi, con scarso accrescimento ponderale
e soffio continuo 2/6 in sede sottoclaveare sinistra. L'ecocardiogramma in proiezione parasternale asse
corto evidenzia al color-flow shunt sinistro-destro diretto dall'aorta discendente all'arteria polmonare
sinistra secondario a pervietà del dotto di Botallo)

Cenni di terapia. Nel neonato prematuro, la chiusura del dotto arterioso può essere favorita dalla
somministrazione di farmaci anti-prostaglandinici (anti-infiammatori non steroidei, dei quali il più usato è
l'ibuprofene). Nel caso di dotti ampi che determinino scompenso cardiaco o ipertensione polmonare in un
neonato, il trattamento chirurgico rimane l'unica opzione terapeutica. Nel caso, invece, di dotti di moderata
ampiezza è possibile procedere, dopo il periodo neonatale (a partire dai 5 kg di peso), alla chiusura
percutanea mediante spirali metalliche o protesi in nitinol. (Figura 11: pervietà del dotto arterioso. A :
aortografia in proiezione laterale; il mezzo di contrasto iniettato in aorta opacizza anche l'arteria
polmonare attraverso il dotto arterioso pervio- freccia / B: dopo impianto di device Amplatzer per la
chiusura del dotto arterioso pervio -freccia- non vi è più evidenza di shunt duttale)

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417 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Questa metodica è divenuta l'opzione terapeutica di scelta data la sua elevata efficacia ed il basso rischio
che comporta.
Prognosi e follow-up. La diagnosi di dotto arterioso pervio costituisce di per se stessa l'indicazione al
trattamento per evitare l'insorgenza dello scompenso cardiaco (in caso di dotti arteriosi di grandi
dimensioni) e ridurre il rischio di endocardite batterica (in caso di dotti arteriosi di piccole dimensioni). La
chiusura chirurgica o in sala di emodinamica è gravata da una bassa mortalità e morbilità.

CARDIOPATIE CONGENITE CON OSTRUZIONE ALL’EFFLUSSO VENTRICOLARE DESTRO

STENOSI POLMONARE VALVOLARE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La valvola polmonare stenotica è caratterizzata da un aspetto


cupoliforme, con ispessimento e scarsa mobilità delle cuspidi, che si presentano fuse tra loro e/o
displasiche. (Patologia 57 stenosi valvolare polmonare. A: rappresentazione schematica. B: istologia con
ispessimento fibromixoide dei lembi)

La conseguenza funzionale della stenosi polmonare valvolare è l'ostruzione all'efflusso ematico dal
ventricolo destro, con conseguente sovraccarico pressorio del ventricolo, che va incontro ad ipertrofia e
talora si presenta ipocontrattile.
Segni clinici. Nel neonato con stenosi polmonare critica dotto-dipendente le manifestazioni cliniche iniziano
dopo la nascita, al momento della chiusura del dotto arterioso, e consistono in cianosi ed acidosi
metabolica. Viceversa, la maggior parte dei pazienti con stenosi polmonare valvolare lieve-moderata è
asintomatica e la diagnosi viene effettuata nel corso di una visita clinica routinaria. Il reperto clinico
diagnostico della stenosi polmonare valvolare è costituito dal soffio sistolico eiettivo a livello del focolaio
polmonare (II spazio intercostale sinistro, sull’emiclaveare).

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418 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Diagnostica strumentale. La radiografia del torace mostra un aumento del II arco di sinistra, espressione
dell'ectasia post-stenotica del tronco dell'arteria polmonare e, nel caso di stenosi severa, un’iperdiafania
dei campi polmonari, dovuta all’ipoafflusso.
L'elettrocardiogramma mostra un’ipertrofia ventricolare destra proporzionale all'entità della stenosi.
L'ecocardiografia è estremamente utile per valutare le caratteristiche morfologiche della valvola
polmonare, il grado di stenosi e le conseguenze fisiopatologiche dell'ostruzione (ipertrofia ventricolare
destra)

(Figura 12: bambino di 2 mesi; riscontro di soffio sistolico sul focolaio polmonare. A: l'ecocardiogramma
bidimensionale in proiezione parasternale asse corto evidenzia una valvola polmonare con cuspidi
iperecogene, suggestiva di stenosi polmonare valvolare. B: utilizzando la stessa proiezione con l'ausilio
del color-flow si evidenzia accelerazione del flusso a livello valvolare polmonare)

Cenni di terapia. Il trattamento chirurgico è stato ormai sostituito quasi completamente dalla
valvuloplastica polmonare percutanea eseguita con catetere a palloncino in corso di cateterismo cardiaco.
Questa tecnica è altamente sicura ed efficace, potendo essere impiegata in tutte le fasce di età ed in
pazienti con qualsiasi tipo di stenosi valvolare. (Figura 13 = A: la ventricolografia destra in proiezione
laterale evidenzia stenosi valvolare polmonare-freccia- con cuspidi valvolari ispessite, e dilatazione post-
stenotica del tronco polmonare ; B: un catetere a palloncino posizionato a livello della valvola polmonare
e poi gonfiato mostra un'incisura determinata dalla stenosi valvolare, che sarà poi completamente risolta
dall'ulteriore dilatazione della valvola)

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419 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Prognosi e follow-up. Senza trattamento, la stenosi valvolare polmonare severa può determinare
disfunzione ventricolare destra con scompenso cardiaco. Dopo trattamento interventistico, raramente
l'ostruzione valvolare polmonare si ripresenta, e soltanto il 5% dei pazienti necessita di una nuova
procedura di dilatazione nel corso della vita.

TETRALOGIA DI FALLOT

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La tetralogia di Fallot è caratterizzata dalla deviazione anteriore del
setto infundibolare. Da ciò deriva il complesso malformativo costituito da: 1) difetto interventricolare, 2)
cavalcamento aortico sul setto interventricolare, 3) ostruzione all' efflusso ventricolare destro a livello
sottovalvolare, e 4) ipertrofia ventricolare destra. (Figura 14, Patologia 58).

(FIGURA 14: AO aorta, AP arteria polmonare, DIV difetto interventricolare. La freccia spessa indica la
direzione del flusso (sangue venoso sistemico) che dal ventricolo destro è diretto in parte in aorta,
attraverso il difetto interventricolare,ed in parte verso il letto vascolare polmonare (freccia sottile
attraverso l'efflusso destro, stenotico per la deviazione del setto interventricolare)

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420 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(PATOLOGIA 58-TETRALOGIA DI FALLOT: stenosi infundibolare polmonare associata a difetto


interventricolare e a destroposizione aortica, con shunt dal ventricolo destro all'aorta )

Il quadro fisiopatologico è principalmente determinato dall’entità dell'ostruzione all'efflusso polmonare,


che condiziona la quantità del flusso polmonare e quindi il grado di desaturazione arteriosa di ossigeno. Il
difetto interventricolare è sempre ampio, cosicché la pressione nei due ventricoli è uguale.
Segni clinici. La caratteristica clinica principale della tetralogia di Fallot moderata o severa è costituita dalla
cianosi, la cui comparsa è legata all'ipoafflusso polmonare, tanto che nelle forme con grave ostruzione
polmonare essa si evidenzia alla nascita ed il flusso polmonare risulta dipendente dalla pervietà del dotto
arterioso. Talvolta l'ostruzione all'efflusso ventricolare destro è anche di tipo dinamico, legata ad uno
spasmo dell’infundibolo che provoca la comparsa di crisi di cianosi. Il reperto ascoltatorio tipico della

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421 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

tetralogia di Fallot è costituito dal soffio eiettivo localizzato sul focolaio polmonare ed accompagnato da
una riduzione di intensità o dalla scomparsa della componente polmonare del II tono.
Diagnostica strumentale. L'elettrocardiogramma rivela un quadro di ipertrofia ventricolare destra. Nelle
forme severe, la radiografia del torace mostra un sollevamento della punta del cuore (“cuore a zoccolo”)
con riduzione del flusso vascolare polmonare ed assenza del II arco di sinistra, corrispondente all’arteria
polmonare.
L'ecocardiogramma chiarisce con precisione il quadro anatomico (Figura 15= tetralogia di Fallot in un
neonato di 3 giorni, con soffio sistolico 3/6 al II spazio intercostale sinistro. A: l'ecocardiogramma
bidimensionale in proiezione parasternale asse corto obliquata evidenzia la deviazione antero superiore
del setto interventricolare SIV a livello infundibulare INF ed il restringimento a livello della valvola
polmonare (freccia). B: la proiezione parasternale asse lungo mostra il cavalcamento aortico AO sul setto
interventricolare IVS. )

rivelando il grado di deviazione antero-superiore del setto infundibulare, della stenosi valvolare polmonare
e/o sopravalvolare, e permettendo di valutare l’eventuale ipoplasia dell’anulus e dei rami polmonari.
Il cateterismo cardiaco e l’angiografia consentono di accertare la sede dell’ostruzione all'efflusso
ventricolare destro e le dimensioni delle arterie polmonari (Figura 16: neonato di 5 giorni affetto da
tetralogia di Fallot. La ventricolografia destra in proiezione obliqua anteriore destra mostra ipoplasia
dell'infundibulo polmonare -freccia- e dell'arteria polmonare destra -asterisco)

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422 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Cenni di terapia. Nelle forme con dotto-dipendenza del circolo polmonare e severa cianosi perinatale si
rende necessario l'uso delle prostaglandine per mantenere pervio il dotto arterioso. La terapia medica delle
crisi asfittiche è finalizzata all'aumento dell'ossigenazione periferica (ossigeno-terapia in maschera), alla
risoluzione dello spasmo infundibolare mediante la sedazione del paziente e la somministrazione di beta-
bloccanti ed infine all'aumento della pressione arteriosa media (compressione degli arti inferiori in
posizione genu-pettorale o somministrazione di farmaci ipertensivanti) in modo da aumentare il flusso
ematico attraverso l'infundibolo polmonare spastico.
Il trattamento palliativo, atto a creare una fonte aggiuntiva di flusso polmonare, può essere chirurgico o, in
casi selezionati, percutaneo (effettuato in sala di emodinamica). Lo shunt sistemico-polmonare chirurgico
(interposizione di un tubicino di gore-tex tra l’arteria succlavia ed il ramo polmonare omolaterale), si
esegue nelle prime settimane di vita nei pazienti con cianosi severa ed elevato rischio per una correzione
radicale. Il trattamento percutaneo consiste nell’impianto di uno stent all’interno del dotto arterioso, per
mantenere pervia l’unica fonte di flusso polmonare “naturale” (Figura 17: tetralogia di Fallot in un neonato
di 7 giorni con grave cianosi. A: l'aortografia in proiezione obliqua anteriore destra mostra un dotto
arterioso pervio in chiusura -freccia. B: l'aortografia in proiezione antero-posteriore dopo il
posizionamento dello stent all'interno del dotto arterioso evidenzia il passaggio del mezzo di contrasto
dall'aorta al letto vascolare polmonare)

L'intervento chirurgico correttivo si esegue tra i 3 e i 12 mesi ed è costituito dalla chiusura del difetto
interventricolare e la risoluzione dell'ostruzione all'efflusso ventricolare destro (vedi Capitolo 65).
Prognosi e follow-up. La tetralogia di Fallot non trattata presenta una prognosi infausta in quanto
l'ostruzione all'efflusso ventricolare destro tende progressivamente ad aumentare nel tempo. Il
trattamento chirurgico migliora sensibilmente la prognosi sebbene comporti, in una certa percentuale di
pazienti, la comparsa nel lungo termine di alcune sequele post-chirurgiche quali la disfunzione ventricolare
destra da rigurgito polmonare residuo e le aritmie ventricolari.

CARDIOPATIE CONGENITE CON OSTRUZIONE ALL’EFFLUSSO VENTRICOLARE SINISTRO

STENOSI AORTICA

L’ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro si può localizzare a tre livelli: a) valvolare (Patologia 59), b)
sottovalvolare (dovuta alla presenza di una membrana o cercine fibromuscolare che ostacola l'efflusso del

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423 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

sangue dal ventricolo sinistro), c) sopravalvolare, caratterizzata da un restringimento del lume dell'aorta
poco dopo la sua origine. La forma valvolare è la più frequente, con prevalenza nel sesso maschile (4:1).

(PATOLOGIA 59: stenosi congenita della valvola aortica con aspetto unicuspide e degenerazione mixoide
dei lembi )

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Nella forma critica del neonato, caratterizzata dalla dotto-
dipendenza della circolazione sistemica, il ventricolo sinistro è di solito molto ipertrofico, con una cavità
ridotta rispetto al normale o, talora, dilatato ed ipocontrattile. Nelle forme meno gravi la malattia ha
comunque un andamento progressivo, caratterizzato da ipertrofia ventricolare sinistra, aumentata richiesta
di ossigeno da parte del miocardio ed ischemia subendocardica.
Segni clinici. I segni tipici della malattia sono il soffio sistolico eiettivo aortico ed i polsi di ampiezza ridotta.
Nei pazienti con funzione di pompa depressa il soffio sistolico può essere assente o poco evidente ed i polsi
periferici possono non essere palpabili. Nei casi più gravi, la malattia esordisce con scompenso cardiaco
dopo la chiusura del dotto di Botallo (dotto dipendenza della circolazione sistemica).
Diagnostica strumentale. Nelle forme meno gravi la diagnosi è legata al riscontro occasionale di un soffio
cardiaco o alla comparsa di sintomi quali palpitazioni, vertigini, sincope o angina. I reperti radiografici tipici
sono la dilatazione dell’ombra cardiaca (Figura 18) e la dilatazione post-stenotica dell’aorta ascendente.

(FIGURA 18: neonato di 2 giorni con scompenso cardiaco acuto da stenosi valvolare aortica critica. La
radiografia del torace mostra dilatazione marcata delle sezioni sinistre del cuore)

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424 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

All’ECG si osserva prevalentemente ipertrofia ventricolare sinistra. La diagnosi definitiva è possibile


mediante l’ecocardiografia colorDoppler che permette di stabilire la morfologia ed il numero delle cuspidi
aortiche (Figura 19, Figura 20, ECO 20,ECO 21), e di differenziare la stenosi valvolare da quella sopra o
sottovalvolare.

(FIGURA 19: neonato di 3 mesi con soffio sistolico 3/6 sui focolai della base. L'eco tridimensionale
mostra una valvola aortica bicuspide (A) con ridotta apertura dei lembi in sistole (B) )

(FIGURA 20: STENOSI AORTICA. l'ecocardiogramma 2D evidenzia un ventricolo sinistro notevolmente


dilatato ed ipertrofico, di forma globosa, e ridotta mobilità delle cuspidi aortiche (Ao) )

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425 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

La stenosi aortica sopravalvolare è determinata da un restringimento dell'aorta al di sopra dell'anello


valvolare e del piano coronarico. Fra i tre livelli di ostacolo all'efflusso ventricolare sinistro, la sede
sopravalvolare della stenosi è la meno comune; spesso questa forma si associa alla Sindrome di Williams,
caratterizzata da ritardo mentale, facies elfica, stenosi dei rami polmonari, stenosi delle arterie renali,
ipercalcemia. Si può trattare di un'ostruzione a membrana (Figura 21), ad imbuto/clessidra o diffusa per un
lungo tratto di aorta ascendente.

(FIGURA 21: bambino di 2 anni con sindrome di williams. riscontro di soffio sistolico 2/6 al II spazio
intercostale destro. l'ecocardiogramma 2D mostra un restringimento a livello della giunzione sinu-
tubulare /stenosi sopravalvolare aortica)

La stenosi sottoaortica consiste in una ostruzione fissa del tratto di efflusso del ventricolo sinistro, al di
sotto della valvola aortica. In oltre il 20% dei pazienti, la valvola è anomala (stenosi valvolare, piccolo anello
aortico, valvola bicuspide); la membrana sottovalvolare è occasionalmente adesa a una delle cuspidi
valvolari della valvola aortica e mitrale: questo può interferire con la funzione della valvola, producendo
un'insufficienza di medio grado (Figura 22 : bambino di 4 anni con soffio sistolico 3/6 al II spazio

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426 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

intercostale sinistro. l'ecocardiogramma 2D mostra una membrana situata a 10 mm dal piano valvolare
aortico /stenosi sottovalvolare aortica)

Cenni di terapia. La terapia del neonato con stenosi aortica critica prevede la somministrazione di inotropi,
prostaglandine e bicarbonati per stabilizzare il paziente. Per risolvere la stenosi valvolare, la valvuloplastica
con palloncino rappresenta oggi un’alternativa alla valvulotomia chirurgica. Le forme sottovalvolari e quelle
sopravalvolari, invece, richiedono sempre un intervento chirurgico per rimuovere l'ostruzione
sottovalvolare o per allargare l'aorta a livello sopravalvolare.

COARTAZIONE AORTICA

La coartazione aortica consiste in un restringimento dell’istmo, la porzione dell’aorta localizzata tra l’origine
della succlavia sinistra e il dotto di Botallo (Patologia 60: coartazione istmica del'aorta localizzata in
corrispondenza dell'inserzione del ligamento arterioso )

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427 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tale condizione determina un sovraccarico di pressione del ventricolo sinistro, cui consegue ipertrofia del
miocardio. La coartazione dell’aorta è più frequente nei maschi; il 15-25% dei pazienti con Sindrome di
Turner ne è affetto.
Fisiopatologia ed anatomia patologica. Spesso alla coartazione si associano bicuspidia aortica, pervietà del
dotto arterioso, difetto interventricolare, stenosi mitralica. L’elevata pressione nel circolo arterioso
prossimale alla coartazione e la bassa pressione arteriosa vigente nel territorio al di sotto dell’istmo
favoriscono lo sviluppo di circoli collaterali atti ad aumentare il flusso ematico alla metà inferiore del corpo.
Tali circoli si stabiliscono anteriormente fra le arterie mammarie interne (rami delle succlavie) e le arterie
epigastriche della parete addominale, e posteriormente fra le arterie parascapolari e le intercostali. Proprio
la dilatazione delle arterie intercostali è responsabile delle alterazioni a carico delle coste che si osservano
all’esame radiologico in alcuni casi.
Segni clinici. Nei casi più gravi, l’esordio è caratterizzato da scompenso cardiaco dopo la chiusura del dotto
arterioso (dotto dipendenza della circolazione sistemica). Le forme meno gravi possono decorrere a lungo
asintomatiche: i bambini più grandi e gli adulti con patologia meno importante si rivolgono in genere al
medico per la comparsa di ipertensione arteriosa o per il riscontro di soffi cardiaci o per l’assenza dei polsi
arteriosi agli arti inferiori. Il reperto obiettivo più frequente è un soffio sistolico eiettivo sulla parete
toracica anteriore e posteriore.
Diagnostica strumentale. La radiografia del torace può documentare la dilatazione dell’aorta ascendente.
Le incisure costali dovute all’erosione ossea da parte delle arterie intercostali dilatate diventano evidenti
tra i 4 e i 12 anni di età (Figura 23A :soggetto di 22 anni con elevati valori pressori riscontrati
occasionalmente;, A la radiografia del torace mostra incisure ed erosioni delle coste dovute alla
dilatazione delle arterie intercostali a causa di una coartazione istmica dell'aorta. B: la proiezione obliqua
sinistra con esofago baritato mostra il caratteristico "segno del tre" patognomonico di coartazione
aortica)

Inoltre l’indentatura aortica pre-stenotica e la dilatazione post-stenotica (Segno del 3) sono reperti
patognomonici.
L’ECG è spesso aspecifico, ma non di rado mostra ipertrofia ventricolare sinistra.
L’ecocardiogramma permette di valutare con esattezza la morfologia dell’arco aortico, la sede della
coartazione e la sua gravità attraverso la stima del gradiente pressorio. Nelle forma dell’adulto possono
essere di ausilio altre tecniche di imaging quali la TC e la RM cardiaca (Figura 24A: coartazione istmica
dell'aorta. A: la TAC spirale mostra un evidente registrazione a livello istmico. B: l'aortografia in

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428 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

proiezione laterale evidenzia una severa coartazione aortica istmica. C: dopo angioplastica con impianto
di stent il diametro istmico è significativamente aumentato, con scomparsa del gradiente)

Cenni di terapia. La terapia della coartazione aortica del neonato è chirurgica (vedi Capitolo 65). Per i
bambini con peso superiore ai 20 kg, e per i pazienti adulti affetti da coartazione dell’aorta o recoartazione
post-chirugica è proponibile la dilatazione della coartazione con catetere a palloncino (angioplastica) o con
l’applicazione di stent endovascolari (supporti metallici di sostegno posizionati all’interno dell’arteria per
mantenerla dilatata).

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429 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 53
Cardiopatie Congenite Parte II

Raffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela Morelli,
Alessandra Rea, Giampiero Gaio
CARDIOPATIE CONGENITE CON CIRCOLAZIONE IN PARALLELO

TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La trasposizione delle grandi arterie è una cardiopatia congenita
caratterizzata da un’anomala connessione tra le camere ventricolari ed i grandi vasi che da esse traggono
origine, per cui l'aorta origina dal ventricolo destro e l'arteria polmonare dal ventricolo sinistro (Patologia
61).

In circa il 50% dei casi sono presenti anche altre malformazioni cardiache. In questa malattia il sangue
desaturato proveniente dalle vene sistemiche viene inviato nuovamente in periferia, mentre il sangue
ossigenato proveniente dalle vene polmonari giunge nuovamente nel circolo polmonare (Figura 1).

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430 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Le circolazioni sistemica e polmonare vengono, quindi, a trovarsi in parallelo e non in serie come in un
soggetto normale, e l'unica possibilità di sopravvivenza dipende dalla presenza di comunicazioni tra le due
circolazioni. L'entità di tale scambio intercircolatorio (“mixing”) dipende dal numero, dalle dimensioni e
dalla posizione delle comunicazioni anatomiche presenti. Nei primi giorni di vita, la chiusura del forame
ovale e del dotto arterioso tendono a separare completamente la circolazione sistemica da quella
polmonare, determinando così cianosi ed ipossiemia: la sopravvivenza di questi neonati è legata alla
persistenza di una comunicazione interatriale ed alla riapertura del dotto arterioso. Se non è presente un
vero difetto interatriale, esso può essere creato artificialmente mediante l'atrioseptectomia con catetere a
palloncino secondo Rashkind, procedura che consiste nel far passare dall’atrio destro al sinistro un catetere
a palloncino introdotto per via venosa percutanea (vena ombelicale o femorale); dopo il gonfiaggio del
palloncino in atrio sinistro, il catetere viene bruscamente ritirato in atrio destro, lacerando così il setto
interatriale e creando un difetto settale iatrogeno. La pervietà del dotto arterioso, invece, viene mantenuta
mediante l'infusione di prostaglandine.
Segni clinici. La principale manifestazione clinica che indirizza verso la diagnosi di trasposizione delle grandi
arterie è la cianosi che si evidenzia alla nascita e si aggrava successivamente a seguito della progressiva
chiusura del dotto arterioso. In assenza di malformazioni associate, i reperti clinici sono poco caratteristici,
non rilevandosi né soffi né segni di scompenso cardiaco mentre in presenza di ampie sedi di "mixing"
ematico la cianosi è lieve ed il quadro clinico può essere dominato dallo scompenso cardiaco secondario
all'iperafflusso polmonare.
Diagnostica strumentale. Alla radiografia del torace l'ombra cardiaca è di normale volumetria, con aspetto
ovalare ed assottigliamento del profilo mediastinico alto a seguito dell'anomala disposizione dei grandi vasi.
Il quadroelettrocardiografico non mostra alcun reperto anomalo alla nascita, mentre dopo il periodo
perinatale si osserva una mancata regressione della fisiologica ipertrofia ventricolare destra neonatale.
L'ecocardiogramma (Figura 2, Figura 3) consente di porre la diagnosi, evidenziando l'anomala connessione
tra le camere ventricolari ed i grandi vasi, e di identificare le eventuali malformazioni cardiache associate
(difetto interventricolare, stenosi polmonare).(FIGURA 2: neonato di 2 giorni con cianosi e desaturazione
in prima giornata di vita. Ecocardiogramma in proiezione sttoxifoidea; emergenza in parallelo dei grossi
vasi indicativa di trasposizione dei grandi vasi)

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431 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

(FIGURA 3: ecocardiogramma in proiezione sottoxifoidea: emergenza di un vaso che si biforca (arteria


polmonare) dal ventricolo morfologicamente sinistro posto a sinistra (superficie interna liscia, impianto
apicale della valvola atrioventricolare destra rispetto alla sinistra) estensione della camera ventricolare
fino all'apice del cuore) )

Il cateterismo cardiaco non è ormai più necessario per la diagnosi, ma viene talvolta utilizzato per eseguire
l'atrioseptectomia con catetere a palloncino secondo Rashkind in caso di scarso "mixing" intercircolatorio.
Cenni di terapia. La terapia medica consiste nel riequilibrio metabolico del neonato mediante la correzione
di eventuali squilibri idro-elettrolitici e il miglioramento del "mixing" ematico mediante la somministrazione
di prostaglandina E e l'atrioseptectomia secondo Rashkind.
Il trattamento chirurgico della trasposizione delle grandi arterie (vedi Capitolo 65) ha lo scopo di riportare
in serie la circolazione sistemica e polmonare, ristabilendo una normale connessione ventricolo-arteriosa
(aorta dal ventricolo sinistro e arteria polmonare dal ventricolo destro). Prognosi e follow-up. La storia
naturale della trasposizione delle grandi arterie non sottoposta a trattamento chirurgico è infausta, con una
mortalità che si avvicina al 100% alla fine del I anno di vita. L'intervento chirurgico, invece, ha modificato

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432 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

sensibilmente la prognosi di questi pazienti, garantendo loro il raggiungimento dell'età adulta con una
pressoché normale qualità della vita.

CARDIOPATIE CONGENITE COMPLESSE

CANALE ATRIO-VENTRICOLARE

Il canale atrio-ventricolare rappresenta un difetto della giunzione atrio-ventricolare, e comprende un ampio


spettro di lesioni che vanno da un difetto interatriale tipo ostium primum associato ad una fissurazione
(“cleft”, ECO 12) della valvola mitrale (canale atrio-ventricolare parziale) fino ad una condizione in cui il
difetto interatriale è molto ampio, la valvola atrio-ventricolare è unica, e coesiste un difetto
interventricolare (canale atrio-ventricolare completo,Patologia 62 B: ampio difetto settale
atrioventricolare associato ad un'unica valvola atrioventricolare; C:il lembo anteriore della valvola
comune cavalca il setto interventricolare)

Frequente è l’associazione con la sindrome di Down (25-36%).


Canale atrio-ventricolare parziale
Fisiopatologia. Se non vi è insufficienza mitralica, la fisiopatologia è simile a quella di un difetto interatriale
ampio, con importante shunt sinistro-destro ed iperafflusso polmonare; se, viceversa, è presente una
insufficienza mitralica, il sovraccarico del circolo polmonare sarà più imponente e precoce, in quanto, oltre
allo shunt interatriale vi sarà anche un passaggio di sangue dal ventricolo sinistro direttamente in atrio
destro (per la presenza del difetto interatriale ostium primum).
Segni clinici. Il quadro clinico è variabile in base alla gravità dell’insufficienza mitralica, per cui si va da
bambini che possono scompensarsi fin dal primo anno di vita, a pazienti che rimangono asintomatici fino
all’età adulta. All’ascoltazione si rileva un soffio sistolico eiettivo sul focolaio polmonare e un soffio sistolico
da rigurgito puntale.
Diagnostica strumentale. All’ECG vi sono segni di ipertrofia ventricolare destra o biventricolare.
La radiografia deltorace mostra cardiomegalia e segni di iperafflusso
polmonare. L’Ecocardiogramma evidenzia lo shunt interatriale nella porzione più bassa del setto
interatriale ed il cleft mitralico con insufficienza valvolare al color-Doppler (Figura 4: bambino di 5 anni.
Riscontro di soffio sistolico puntale 2/6. l'Esame ecocardiografico 2D ( proiezione sottoxifoidea 4-camere)
mostra il difetto interatriale tipo ostium primum (indicato dalla freccia) e la presenza di due valvole
atrioventricolari. IL quadro è suggestivo di canale atrio-ventricolare parziale)

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433 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Il cateterismo cardiaco è utile non tanto per la diagnosi ma per rilevare le pressioni e le resistenze
polmonari.
Cenni di terapia. Il trattamento di questa malattia è esclusivamente chirurgico.

Canale atrio-ventricolare completo


Il quadro clinico è in relazione all’ampiezza dello shunt sinistro-destro interatriale ed interventricolare, alla
gravità dell’insufficienza della valvola atrio-ventricolare comune ed alla eventuale ipoplasia di uno dei due
ventricoli.
I pazienti sono sintomatici fin dai primi mesi di vita, e presentano scompenso cardiaco, deficit di
accrescimento ponderale ed infezioni respiratorie recidivanti. All’ ascoltazione si rilevano un soffio
olosistolico al mesocardio e un soffio sistolico puntale.
Diagnostica strumentale. L’ECG mostra ipertrofia ventricolare destra o biventricolare e deviazione assiale
sinistra.
La radiografia del torace evidenzia cardiomegalia e segni di iperafflusso polmonare.
All’Ecocardiogramma si osserva che le valvole atrio-ventricolari destra e sinistra stanno sullo stesso piano, a
differenza che nel cuore normale, nel quale la valvola atrio-ventricolare destra è dislocata verso l’apice, e si
trova più in basso rispetto alla sinistra. L’ecocardiogramma permette di valutare e quantizzare gli shunt
interatriale ed interventricolare, l’insufficienza della valvola atrio-ventricolare, la pressione polmonare e
l’eventuale associazione con stenosi sottoaortica.
Il cateterismo cardiaco risulta utile per rilevare l’entità dello shunt, le pressioni e le resistenze polmonari.
Cenni di terapia. Il trattamento di questa patologia è farmacologico in caso di scompenso, ma la correzione
è esclusivamente chirurgica. L’intervento è indicato tra i sei e i dodici mesi (più precocemente nei casi in cui
il canale atrio-ventricolare si associ a sindrome di Down).

ANOMALIA DI EBSTEIN

E’ una malattia caratterizzata da dislocazione apicale della valvola tricuspide, con origine della cuspide
settale, e spesso anche di quella posteriore, dalla parete del ventricolo destro invece che dall’anulus fibroso
(Patologia 63: rappresentazione schematica dell'impianto basso della valvola tricuspide)

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434 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Fisiopatologia ed anatomia patologica. L’anomala inserzione della valvola divide il ventricolo destro in due
parti: la porzione di entrata, funzionalmente integrata con l’atrio (sezione atrializzata), e la vera parte
funzionante del ventricolo destro. L’atrializzazione, la dilatazione del ventricolo destro e la sottigliezza delle
pareti compromettono notevolmente lo svuotamento ventricolare, provocando diminuzione del flusso
ematico polmonare.
Segni clinici. Nei casi più gravi la sintomatologia può comparire precocemente, anche in epoca neonatale,
caratterizzata da cianosi, dispnea e difficoltà di alimentazione. Nei casi lievi i sintomi sono scarsi e i pazienti
possono condurre una vita abbastanza normale, con una sopravvivenza piuttosto lunga. Frequenti sono le
crisi di tachicardia parossistica sopraventricolare, di flutter e fibrillazione atriale.
All’ascoltazione si rileva uno sdoppiamento del I tono per ritardo di chiusura della valvola tricuspide e un
soffio sistolico se è presente insufficienza tricuspidale.
Diagnostica strumentale. L’ECG mostra una deviazione assiale destra, basso voltaggio dei complessi
ventricolari, onda P gigante nelle derivazioni precordiali destre, blocco di branca destra, allungamento
dell’intervallo PR.
La radiografia del torace evidenzia una cardiomegalia. I campi polmonari sono poco irrorati, il peduncolo
vascolare è ristretto e l’ombra cardiaca assume una conformazione a fiasca simile a quella dei versamenti
pericardici.
L’Ecocardiogramma rivela la dislocazione apicale del lembo settale della tricuspide, talora con aspetto
ridondante, “a vela”, del lembo anteriore (Figura 5, ECO 25).

(FIGURA 5: neonato di 1 mese,cianotico e con scompenso cardiaco. l'esame ecocardiografico in


proiezione 4 camere apicale evidenzia malattia di Ebstein con significativa dislocazione apicale del lembo
settale della tricuspide (freccia bianca) rispetto all'impianto del lembo anteriore della mitrale (freccia
gialla)

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435 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

E’ possibile quantificare il grado e la gravità della malattia analizzando la morfologia dei lembi tricuspidalici,
le dimensioni degli atri e della porzione atrializzata del ventricolo destro, gli indici di funzione ventricolare
destra, le modificazioni del setto interventricolare, lo stato funzionale del ventricolo sinistro e della valvola
mitrale ed ancora la presenza ed il grado di eventuali difetti associati.
Tali dati sono utili sia ai fini prognostici che per indirizzare una corretta strategia terapeutica. In particolare,
l’entità della deformazione e della displasia dei lembi, unitamente al grado di atrializzazione ventricolare
destro rappresentano importanti caratteristiche che condizionano le opzioni chirurgiche.
Cenni di terapia. Il trattamento è farmacologico in caso di scompenso (digitale, diuretici e vasodilatatori); la
correzione dell’anomalia è di tipo chirurgico, con plastica della valvola o con sostituzione della stessa. E’
consigliabile posticipare quanto più possibile l’intervento, in quanto esso è gravato da una elevata mortalità
operatoria nei primi anni di vita.

CUORE UNIVENTRICOLARE

In questa cardiopatia congenita è presente un’unica camera ventricolare, in genere di morfologia sinistra,
che riceve entrambe le valvole atrio-ventricolari e rifornisce il circolo sistemico e polmonare; l’altro
ventricolo è ipoplasico (camera rudimentale collegata al ventricolo principale tramite un difetto
interventricolare che generalmente prende il nome di forame bulbo-ventricolare) e non può essere
utilizzato per la correzione chirurgica. I grandi vasi escono, comunque, da entrambe le camere ventricolari:
tale connessione influenza il quadro fisiopatologico.
Fisiopatologia ed anatomia patologica. In caso di normale connessione ventricolo-arteriosa (ventricolo
sinistro principale che dà origine all’aorta e ventricolo destro rudimentale che dà origine all’arteria
polmonare), il quadro fisiopatologico e clinico dipende dall’entità del flusso polmonare. Se vi è stenosi
polmonare severa e ipoafflusso polmonare (Figura 6) è presente cianosi, ed i reperti clinico-strumentali
sono quelli tipici delle cardiopatie cianogene. In assenza di stenosi polmonare, invece, il quadro
fisiopatologico è dominato dall’iperafflusso, ed i segni clinico-strumentali sono quelli dello scompenso
cardiaco congestizio.

(FIGURA 6: rappresentazione schematica di doppia entrata in ventricolo unico con ipoplasia dell'arteria
polmonare)

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436 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Segni clinici. Il reperto tipico è la cianosi, la cui gravità dipende non dal mescolamento del sangue sistemico
e polmonare, ma dal flusso polmonare, cioè dalla presenza e dal grado della stenosi
polmonare. Diagnosticastrumentale. Il quadro radiografico evidenzia un’ombra cardiaca di volume normale
o aumentato ed un flusso polmonare di grado variabile a seconda dell’entità della stenosi polmonare.
L’ecocardiografia è fondamentale per la diagnosi della malattia e l’individuazione di eventuali lesioni
associate (Figura 7: l'esame ecocardiografico bidimensionale (proiezione 4-camere apicale) mostra che
entrambi gli atri sono connessi con un'unica camera ventricolare, un quadro compatibile con la diagnosi
di doppia entrata in ventricolo unico)

Il cateterismo cardiaco è indicato, in casi selezionati, per la esatta valutazione delle malformazioni associate
e delle resistenze polmonari.

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437 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Cenni di terapia. Dopo una iniziale palliazione volta alla regolazione del flusso polmonare, il trattamento
chirurgico definitivo viene attuato secondo il principio di Fontan, che consiste nel "saltare" il ventricolo di
destra, abboccando direttamente le vene cave all'albero polmonare (vedi Capitolo 65).

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438 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 54
ARTERIOPATIE DEI TRONCHI SOPRAORTICI
Salvatore Novo, Egle Corrado, Ida Muratori

INTRODUZIONE

L’aterosclerosi può colpire indifferentemente la circolazione coronarica, cerebrale e periferica degli arti,
esitando frequentemente in episodi ischemici gravi e a volte invalidanti. Spesso essa è presente
contemporaneamente in più distretti arteriosi dello stesso individuo, a dimostrazione del suo carattere di
malattia sistemica. Prenderemo in considerazione le alterazioni vascolari a carico delle arterie carotidi, delle
vertebrali e delle succlavie, dopo un breve ricordo di anatomia.
L’origine delle arterie carotidi comuni è differente; infatti, a destra la carotide comune deriva dal tronco
anonimo, che subito dopo l’origine si biforca in arteria carotide destra e arteria succlavia destra, mentre a
sinistra la carotide comune e la succlavia prendono origine separatamente dall’arco dell’aorta. Dalle arterie
carotidi comuni nascono la carotide esterna e la carotide interna, la quale, all’interno della teca cranica, dà
origine alle arterie cerebrale anteriore, cerebrale media e comunicante anteriore. Le due arterie vertebrali,
invece, nascono dalle rispettive succlavie e confluiscono nel tronco basilare, che successivamente si biforca
nelle due arterie cerebrali posteriori e nelle comunicanti posteriori. Questo insieme di vasi costituisce il
cosiddetto poligono del Willis (Figura 54.1).

Figura 54.1

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439 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

FISIOPATOLOGIA DELL’OSTRUZIONE DEI TRONCHI SOPRAORTICI

La carotide, per le caratteristiche anatomiche che possiede, è una sede preferenziale per la formazione di
placche aterosclerotiche; infatti, in corrispondenza della biforcazione in carotide interna ed esterna il flusso
ematico non è più laminare ma turbolento, e si generano dei vortici. Questi, associati all’ipertensione
arteriosa, al fumo di sigarette, al diabete ed all’ipercolesterolemia, sono i maggiori fattori di rischio per la
genesi dell’aterosclerosi carotidea. La formazione di una placca ateromasica produce un ostacolo al
passaggio del sangue che ha, quindi, difficoltà a raggiungere i distretti di irrorazione periferica.
In genere, le ostruzioni carotidee monolaterali, con carotide controlaterale pervia, sono asintomatiche
perché le numerose anastomosi esistenti tra carotide interna, carotide esterna e arteria vertebrale riescono
ad assicurare un adeguato apporto ematico al Sistema Nervoso Centrale. Si ricorre ad intervento chirurgico
di rimozione della placca solo in caso di ostruzioni che determinino una sintomaticità clinica evidente (vedi
Capitolo 67).
Le conseguenze dell'ostruzione delle carotidi possono essere varie: in genere, l'ostruzione si instaura in un
tempo lungo, il che permette alle altre arterie di modulare il flusso cerebrale; a volte, tuttavia, può
verificarsi improvvisamente un evento trombotico, e dalla sede aterosclerotica possono liberarsi emboli
che determinano eventi ictali.
La patologia delle arterie carotidi comprende forme asintomatiche costituite dall’ispessimento intima-
media e dalla placca carotidea asintomatica, e forme sintomatiche che danno origine all’attacco ischemico
cerebrale transitorio, comunemente denominato TIA (transient ischemic attack) e all’ictus cerebrale
ischemico.

ESAME OBIETTIVO DEI TRONCHI SOPRAORTICI E CENNI DI DIAGNOSTICA STRUMENTALE

La diagnostica delle ostruzioni dei tronchi sovraortici, si avvale di manovre semeiologiche e di indagini
strumentali.
Dapprima si osservano la sede e l’ampiezza dei polsi carotidei, quindi si procede alla palpazione delle
arterie, da eseguire con delicatezza, al davanti del muscolo sternocleidomastoide e in corrispondenza della
metà del collo, per evitare il seno carotideo situato al di sotto dell’angolo mandibolare. L’ascoltazione
permette di rilevare eventuali soffi, spesso segno di stenosi emodinamiche del vaso.
L’esame obiettivo si completa con la misurazione della pressione arteriosa bilateralmente; in caso di stenosi
della succlavia, infatti, oltre a rilevare un eventuale soffio o un’iposfigmia, sarà presente una differenza dei
valori pressori fra arto destro e sinistro.

USO DEGLI ULTRASUONI

L'Ecocolordoppler è l’esame di scelta per la diagnosi e lo screening delle malattie vascolari (vedi Capitolo
12). E’ una metodica non invasiva, affidabile, documenta bene anche le più piccole lesioni di parete e
consente la valutazione quantitativa delle stenosi (Figura 54.2). Questo esame, assolutamente non
invasivo, richiede una buona apparecchiatura e la conoscenza dell'anatomia dei vasi.
Le placche di piccola - media entità, se non lipidiche o fibrolipidiche, non devono far temere eventi
ischemici, ma vanno monitorate nel tempo; le placche “ulcerate”, invece, anche se di piccola entità,
possono essere molto pericolose. Le lesioni carotidee con stenosi superiore al 70-75% determinano
importante aumento della turbolenza ed accelerazione del flusso ematico; tali condizioni possono facilitare
il distacco di una porzione di placca o la formazione di un coagulo a valle della lesione; il risultato è
comunque l'obliterazione di una arteria medio-distale e la sofferenza del territorio cerebrale a cui viene a
mancare l'apporto in ossigeno.
I pazienti con stenosi carotidea sintomatica sono maggiormente a rischio di ictus ischemico rispetto a quelli
con stenosi carotidea asintomatica di pari grado. Per quanto riguarda la stenosi carotidea sintomatica, lo
studio NASCET riporta, per pazienti con stenosi tra il 70 e 99%, un’incidenza annuale di ictus del 13% entro
il primo anno e del 35% a cinque anni, mentre lo studio Asymptomatic Carotid Endarterectomy Trial (ACAS)

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440 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

riporta, per pazienti con stenosi carotidea asintomatica tra il 60 e 99%, un’incidenza annuale di ictus solo
del 2%.

Figura 54.2 Valutazione Ecodoppler dei treschi sopraortici.

PATOLOGIA DEI TRONCHI SOVRAORTICI: QUADRI CLINICI

L’insufficienza cerebrovascolare può derivare da: 1) Ischemia dovuta a lesioni aterosclerotiche stenotiche-
occlusive a carico dei tronchi sovraortici, favorita da transitoria ipotensione sistemica; 2) Embolia a
partenza da lesioni ulcerate (placche) o da aneurismi dei tronchi sovraortici, oppure di origine cardiaca; 3)
Emoderivazioni brachiocefaliche (furto della succlavia) da lesioni stenotiche del segmento prevertebrale
delle succlavie e del tronco anonimo.
Gli episodi di insufficienza cerebrovascolare sono classificati, in base alla durata dei sintomi neurologici in:
1) TIA (attacco ischemico transitorio) con durata < 24 ore; 2) RIA attacco ischemico transitorio non
completamente regredito con deficit modesti; 3) Ictus ischemico o emorragico.
La lesione più spesso responsabile è una placca ateromasica localizzata all’origine della carotide interna, in
grado di mettere in circolo frammenti che raggiungono i vasi intracranici, occludendoli. Se la placca si
ulcera, si può formare un trombo piastrinico che può provocare l’occlusione acuta della carotide o
microembolie. L’embolia può avere anche origine cardiaca, ad esempio in corso di fibrillazione atriale.

Attacco ischemico transitorio

Il termine TIA (transient ischemic attack) definisce un'ischemia transitoria i cui sintomi si risolvono entro 24
ore. I sintomi sono gli stessi dell'ictus, possono durare da pochi secondi a qualche ora e si manifestano con
perdita transitoria della vista, disturbi della parola, incapacità di identificare le persone o i luoghi in cui ci si
trova, temporanea sospensione della funzione di un nervo motorio (paralisi momentanea del braccio o
della gamba, asimmetria della rima labiale, etc.), vertigini, nausea, barcollamento, sonnolenza. I sintomi
regrediscono completamente, ma costituiscono un importantissimo campanello d'allarme: i TIA, infatti,
preannunciano un probabile futuro ictus, e un loro adeguato trattamento può evitare l'insorgenza di
quest'ultimo.

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441 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’ischemia non compensata provoca entro pochi minuti un danno irreversibile che può regredire in parte
perché i neuroni della zona periferica alla lesione presentano solo un’alterazione funzionale e pertanto
reversibile. Poiché la maggior parte dei TIA dura meno di un'ora, spesso la diagnosi è solo anamnestica, al
contrario dell'ictus dove nella maggior parte dei casi è disponibile anche il rilievo obiettivo.

Ictus

Dopo le malattie cardiovascolari ed i tumori, l’ictus è la causa più comune di morte nei paesi industrializzati;
esso rappresenta un’emergenza medica (“attacco cerebrale”) e deve essere prontamente diagnosticato e
trattato in ospedale per l’elevato rischio di disabilità e di morte che comporta. La definizione di ictus
comprende, sulla base dei dati morfologici, l'ictus ischemico, l'ictus emorragico, e alcuni casi di emorragia
subaracnoidea.
L’Ictus ischemico è caratterizzato dall’occlusione di un vaso a causa di una trombosi o di un’embolia o,
meno frequentemente, da un’improvvisa e grave riduzione della pressione di perfusione. Le cause più
comuni sono:vasculopatia aterosclerotica, che interessa le arterie di maggior calibro, comunemente le
carotidi, le vertebrali e le arterie che originano dal circolo del Willis, all’interno delle quali si forma un
trombo; occlusione delle piccole arterie(TIA o ictus lacunare); cardioembolia o embolia cardiogena,
fenomeno frequente in presenza di fibrillazione atriale, protesi valvolare meccanica, stenosi mitralica con
fibrillazione atriale, trombo in atrio e/o auricola sinistri, sick sinus syndrome, infarto miocardico acuto
recente, trombo ventricolare sinistro, mixoma atriale, endocardite infettiva, cardiomiopatia dilatativa,
acinesia di parete del ventricolo sinistro. L’iter diagnostico volto a inquadrare il paziente con ictus
comprende l’esecuzione della TAC cerebrale senza contrasto per la diagnosi differenziale fra ictus ischemico
ed emorragico e altre patologie non cerebrovascolari. L’ecocolordoppler permette di identificare
l’occlusione o la stenosi di un vaso, la presenza di collaterali, o la ricanalizzazione. Le terapie acute dell'ictus
(farmaci antiaggreganti come l'aspirina, farmaci trombolitici come rTPA) hanno visto progressi significativi
durante gli ultimi anni; sono utili, comunque, a un modesto numero di pazienti, in quanto la fibrinolisi si
applica soltanto in unità specializzate (Stroke Unit), presenti solo in una piccola parte degli ospedali italiani.
Mentre le possibilità di intervento acuto una volta che si è manifestato l'ictus sono limitate, le possibilità di
prevenzione (oppure la prevenzione di un secondo ictus una volta che sia avvenuto il primo) sono notevoli
e devono essere sfruttate.

Ispessimento intima-media e placca carotidea asintomatica

Negli ultimi anni, numerosi studi hanno documentato l’utilità di valutare lo spessore medio-intimale (IMT)
carotideo per l’individuazione e il monitoraggio della malattia aterosclerotica della parete arteriosa. La
misurazione ultrasonografia dell’IMT è stata dapprima studiata in modelli animali e successivamente
nell’uomo. Uno dei più importanti studi di validazione è stato realizzato dal gruppo italiano Pignoli-Paoletti,
i quali dimostrarono come la distanza tra le due linee ecogene rilevate nell’immagine ultrasonografia
correlasse con la somma delle tuniche intima e media misurate con tecniche anatomo-patologiche in
arterie con e senza aterosclerosi (Figura 54.3). Dopo l’iniziale studio di Pignoli, misurazioni dell’IMT
carotideo sono state realizzate in molti studi clinico-epidemiologici, permettendo di raccogliere numerose
informazioni per quanto riguarda l’associazione tra IMT e rischio cardiovascolare.
Tali studi hanno portato a considerare l’IMT carotideo come un indicatore di aterosclerosi generalizzata e
indotto l’American Heart Association ad affermare che “nella valutazione del rischio cardiovascolare, la
misurazione dell’ispessimento medio intimale carotideo può fornire informazioni aggiuntive rispetto ai
fattori di rischio cardiovascolare”.

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442 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 54.3 Correlazione anatomo-ecografica tra la distanza tra le due linee ecogene rilevate all’immagine ultrasonografica e la
somma delle tuniche intima e media misurate con tecniche anatomo-patologiche. (Pignoli P, Circulation, 1986).

Patologia delle arterie vertebrali

Le arterie vertebrali originano dalla succlavia, e passando dal forame ovale delle vertebre cervicali si
uniscono a livello del solco bulbo pontino a formare l’arteria basilare, grosso vaso che ha come terminali le
arterie cerebrali posteriori. Il tronco basilare, che è la principale fonte di perfusione della fossa cranica
posteriore, è l’unico esempio nel corpo umano di due arterie che si uniscono per formarne una sola. Questo
spiega come l’ostruzione o l’agenesia (mancanza di sviluppo) di una delle arterie vertebrali possa risultare
completamente asintomatica. L’ischemia del territorio vertebro-basilare (insufficienza vertebro-basilare -
IVB) riconosce le seguenti etiologie:
- ipotensione arteriosa (IVB emodinamica)
- embolica a partenza cardiaca
- emodinamica ed embolica associate.
Nel 13% dei casi la causa dell’IVB è indeterminata.

Quadro clinico

I Sintomi per diagnosticare un TIA posteriore secondario a IVB emodinamica comprendono:

 Turbe motorie mono o bilaterali


 Turbe sensitive al viso e/o agli arti
 Perdita visus bilaterale
 Emianopsia laterale omonima
 Turbe dell’equilibrio o della marcia in assenza di vertigine
 Drop attacks
 Diplopia, disfagia, disartria, vertigine associate tra loro o ad uno dei sintomi precedenti

Per la diagnosi di TIA “posteriore” è necessaria l’associazione di almeno tre sintomi. Per precisare la natura
e la topografia della lesione, va associata alla diagnosi clinica la valutazione strumentale, che comprende
l’ecocolordoppler, la TAC o la RMN cerebrale, il Doppler transcranico e, in casi selezionati, l’Angiografia.

Sindrome da furto della succlavia

L’arteria succlavia è destinata a portare il sangue all’arto superiore e alla parte posteriore dell’encefalo. La

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443 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

succlavia destra nasce dall’arteria anonima, la sinistra direttamente dall’arco dell’aorta. La Sindrome da
furto della succlavia è una particolare situazione emodinamica in cui si viene a trovare il circolo epiaortico
nel caso, non raro, in cui l’arteria succlavia presenti una stenosi prevertebrale, la cui causa è generalmente
l’aterosclerosi (Figura 54.4).
Il “furto” viene consentito dalle particolarità anatomiche della circolazione cerebrale, cioè dall’esistenza del
poligono di Willis, al quale confluiscono l’arteria basilare e le due carotidi interne; questi vasi si riuniscono a
formare, insieme alle arterie comunicanti, un unico circolo che permette, nel caso uno degli affluenti si
occluda o sia gravemente stenotico, di far giungere il sangue anche a quella parte dell’encefalo di cui è
tributaria l’arteria interessata (carotide interna o vertebrale).
La stenosi della succlavia localizzata tra la sua origine e quella della vertebrale comporta la caduta pressoria
non solo nella stessa succlavia, ma anche nella vertebrale. Dato che il torrente ematico scorre per gradienti
di pressione, il flusso nell’arteria basilare si inverte, dirigendosi verso la vertebrale a bassa pressione e da
qui alla succlavia nel tratto oltre la stenosi. La succlavia, perciò, “ruba” il sangue alla vertebrale omolaterale
e al poligono di Willis. Il debito della succlavia derubata è pagato del circolo anteriore (carotidi interne) e in
maggior misura dalla vertebrale controlaterale.
La sintomatologia viene scatenata da un impegno muscolare dell’arto interessato dalla stenosi, che
comporta il furto di un volume maggiore di sangue per sopperire all’impegno della succlavia, il cui compito
è rifornire i muscoli del braccio. La sintomatologia dipenderà dal territorio prevalentemente derubato
(anteriore nel caso di compenso carotido-vertebrale, posteriore nel caso di compenso vertebro-vertebrale).
Ad ogni sforzo prolungato dell’arto omolaterale alla stenosi, si potranno manifestare TIA, vertigini,
lipotimia, disturbi del visus.
La sindrome andrà sospettata tutte le volte che ci si trovi di fronte ad una stenosi della succlavia (con
differenza pressoria significativa tra le due omerali), specie se il paziente riferisce una sintomatologia tipica.
Può confermare la diagnosi il test di iperemia reattiva mediante ecocolor doppler. Con la sonda posizionata
sulla vertebrale si pratica (tramite un manicotto pressorio) l’ischemizzazione del braccio a minor pressione,
per tre minuti. Al rilascio (sgonfiaggio rapido del manicotto) si otterranno modificazioni dell’onda
velocimetrica relativa alla vertebrale, consistenti in inversione di flusso e/o incremento della velocità, a
seconda del tipo di furto.
Nel furto permanente la direzione del flusso è costantemente invertita, per cui l’iperemia al braccio
produce un incremento della velocità di fuga del sangue dalla vertebrale derubata.
Nel furto intermittente il flusso è diretto alla basilare in sistole ed alla succlavia in diastole. L’iperemia
succlaveare comporterà la stabilizzazione della direzione di fuga dalla vertebrale.
Nel furto latente la direzione di flusso è fisiologica di base, ma si inverte totalmente con il test
dell’iperemia.

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444 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 54.4

CENNI DI TERAPIA NELL’ATEROSCLEROSI DEI TRONCHI SOPRAORTICI

Le terapie mediche, volte a ridurre la probabilità di TIA ed ictus e di morte nei pazienti con danno carotideo,
includono quelle che modificano i fattori di rischio e quelle che inibiscono la trombosi. I farmaci
antiipertensivi, ipolipemizzanti e antiaggreganti riducono il rischio di TIA e ictus cerebrale ischemico. Anche
gli ACE-inibitori diminuiscono la probabilità di ictus nelle popolazioni ad alto rischio.
L’efficacia e sicurezza dell’aspirina a basso dosaggio nella prevenzione primaria cardiovascolare nelle
donne, é stata indagata nel Women’s Health Study, il quale ha mostrato una riduzione del 17% del rischio di
ictus nei soggetti trattati rispetto al gruppo placebo. In pazienti con precedente ictus o attacco ischemico
transitorio, l'aspirina riduce il rischio di ulteriori eventi cardiovascolari del 23% .
La rivascolarizzazione della carotide è indicata nei pazienti con stenosi carotidea asintomatica significativa
(> 70%) e nei pazienti con sintomi rilevanti di ischemia cerebrovascolare o ictus non debilitante e stenosi >
60% (vedi Capitolo 67). Oltre che con la classica endarterectomia, la rivascolarizzazione può essere oggi
effettuata anche con l’angioplastica che, dopo l’introduzione dei filtri, ha visto progressivamente diminuire
il tasso di complicanze cerebrali, e quindi si pone come una metodica altamente competitiva rispetto
all’endoarterectomia (vedi Capitoli 60 e 67).

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445 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 55
ARTERIOPATIE DELLE ARTERIE PERIFERICHE
Giuseppe Mercuro, Ettore Manconi

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

Le arteriopatie obliteranti degli arti inferiori (AOAI) comprendono un gruppo di malattie caratterizzate da
un restringimento o un’occlusione dell’albero arterioso distrettuale, con riduzione dell’apporto ematico alle
estremità. L’aterosclerosi è la causa di gran lunga più frequente delle AOAI, con una incidenza annuale di
nuovi casi del 6‰. Vi è una sottostima dei casi di AOAI per una mancata diagnosi dei soggetti
paucisintomatici, con circa 200 casi di AOAI non riconosciuta né trattata per ogni 100 casi di malattia clinica
con claudicazione intermittente. L’incidenza massima della malattia è collocata tra la V e la VII decade di
vita; si stima che il 12-17% della popolazione di età >50 anni ne sia affetta (Figura 55.1). Il sesso maschile è
più colpito, con una frequenza tripla rispetto al sesso femminile durante la VI decade di vita; nelle decadi
successive la differenza dipendente dal genere si attenua sensibilmente. In accordo con il concetto di
pluridistrettualità della malattia aterosclerotica, le AOAI si associano con sensibile frequenza alla
vasculopatia coronarica e cerebrale. La mortalità a 5 anni è pari al 32% dei casi con AOAI sintomatica.

Figura 55.1 Prevalenza delle Arteriopatie obliteranti degli arti inferiori in base all’età e al sesso. Da: Criqui MH, et al. Circulation
1985;71:510

EZIOLOGIA E CLASSIFICAZIONE

La AOAI sono causate nel 90% dei casi dall’aterosclerosi; pertanto, l’epidemiologia e le manifestazioni
cliniche della malattia sono associate con i fattori di rischio classici (fumo, ipercolesterolemia, diabete,
ipertensione, storia familiare e menopausa) e nuovi (es. iperfibrinogenemia, iperomocisteinemia). Il fumo e
l’ipercolesterolemia sono particolarmente rilevanti nelle forme ad esordio precoce, mentre
l’iperfibrinogenemia è l’indicatore di rischio più frequente in quelle che si manifestano in età più avanzata.
Altre AOAI hanno eziologia degenerativa, infiammatoria (arteriti), trombotica e displastica.
La più comune fra le arteriti è la tromboangioite obliterante (morbo di Burger), un processo occlusivo e
trombotico, per lo più osservato in individui giovani e fumatori, che colpisce arterie di diverso calibro e
vene superficiali.
Frequenza minore hanno altre arteriti, fra le quali l’arterite a cellule giganti di Takayasu, la panarterite
nodosa, la malattia di Kawasaki, le arteriti in corso di malattie sistemiche del connettivo.

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446 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tra le AOAI displastiche, la più frequente è la displasia fibromuscolare, che interessa prevalentemente le
arterie iliache e le renali.
Le AOAI trombotiche sono causate da anormalità coagulative primarie o secondarie, quali a volte si
manifestano in presenza di neoplasie o di stati infiammatori.

FISIOPATOLOGIA

La stenosi o l’occlusione dell’arteria causano una riduzione del flusso ematico ai tessuti, definito ischemia. A
livello cellulare si produce un adattamento al ridotto apporto di 02 e di nutrienti; in particolare, la cellula
muscolare scheletrica muta il proprio metabolismo da aerobio a parzialmente anaerobio, con produzione
finale di acido lattico. Nel distretto vascolare si produce una modificazione dell’architettura dei vasi, con
rarefazione dei capillari nutritizi, che divengono allungati e con percorso tortuoso, per favorire una migliore
estrazione dell’02. L’ischemia può essere acuta o cronica, in base alle modalità
d’insorgenza; relativa o assoluta, a seconda che l’apporto ematico distrettuale sia adeguato in condizione di
riposo e insufficiente durante attività muscolare, o insufficiente anche a riposo. Quando l’ischemia relativa
progredisce verso la forma assoluta, si configura il quadro dell’ischemia critica, termine che si riferisce non
più solo all’impotenza funzionale dell’arto, ma a un rischio per la sua stessa conservazione anatomica.

PRESENTAZIONE CLINICA

La sintomatologia e l’inquadramento clinico, sempre correlati al grado di deficit emodinamico, sono


tradizionalmente definiti dalla classificazione di Fontaine-Leriche.

Nel 1° stadio (preclinico) della malattia le lesioni arteriose possono essere più o meno diffuse, ma
comunque non tali da provocare una significativa ischemia distrettuale. La sintomatologia è assente o
aspecifica, con parestesie e una maggior suscettibilità delle estremità al freddo.

Nel 2° stadio, quello con cui più frequentemente esordiscono le forme a decorso cronico, sono presenti
lesioni arteriose emodinamicamene significative, cioè idonee a provocare un’ischemia relativa. Il sintomo
peculiare di questo stadio è la claudicazione intermittente, legata alla produzione muscolare di acido lattico
durante l’esercizio fisico (in genere la deambulazione) con comparsa
di rigidità e dolore muscolare crampiforme, che costringono all’interruzione della marcia. La sede del dolore
è strettamente connessa con il livello della lesione arteriosa. Al cessare dell’esercizio segue, in pochi minuti,
la scomparsa spontanea del dolore. Caratteristica della claudicazione intermittente è laripetibilità nel
tempo dell’episodio descritto, con l’insorgenza del dolore per un livello fisso di esercizio fisico
(sogliaischemica) e la sua scomparsa dopo un tempo di recupero costante. Il 2° stadio dell’AOAI
aterosclerotica viene suddiviso in due sottolivelli, sulla base dell’autonomia di marcia: 2° stadio A se essa è
>200 metri; 2° stadio B quando l’autonomia è <200 metri.
In questo stadio si può osservare all’ispezione assottigliamento e pallore della cute, modificazione degli
annessi cutanei, con rarefazione o scomparsa dei peli e distrofia ungueale (assottigliamento, indebolimento
e talvolta fibrosi e discheratosi delle unghie). Alla palpazione si rileva riduzione della temperatura cutanea
dell’arto ischemico e riduzione o assenza dei polsi arteriosi a valle della sede di lesione. Tipica
dell’arteriopatia a localizzazione aorto-iliaca è la concomitante presenza di deficit dell’erezione peniena
(sindrome di Leriche).

Nel 3° stadio il sintomo caratterizzante è il dolore ischemico a riposo. Le AOAI ad insorgenza acuta
esordiscono frequentemente con un quadro clinico al 3° stadio. Il paziente riferisce un dolore pressoché
continuo, che insorge o si esacerba durante il riposo notturno, costringendolo ad alzarsi e a muovere
qualche passo; infatti, la posizione ortostatica fa elevare per gravità la pressione idrostatica e muta la

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447 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

condizione ischemica del distretto interessato da assoluta a relativa. Nel 3° stadio avanzato il decubito si fa
obbligato e il riposo a letto senza dolore è possibile solo con l’arto ischemico in posizione declive fuori dal
letto. Infine, quando la sintomatologia persiste senza modificarsi per oltre 15 giorni, ci troviamo nella
situazione clinica dell’ischemia critica.

Il 4° stadio dell’AOAI cronica è caratterizzato dalla presenza di lesioni trofiche. Esse possono
essere parcellari, come le ulcerazioni, per lo più localizzate sulle aree di maggior sollecitazione meccanica
(vallo periungueale, tallone) oestese, come le gangrene, nelle due varianti umida e secca, talvolta
complicate da sovrapposizioni batteriche (gangrena gassosa).

DIAGNOSI

È relativamente semplice nel 2°, 3° e 4° stadio; è essenzialmente strumentale nel 1° stadio. L’AOAI iniziale
andrebbe sospettata e ricercata nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare come fumo,
ipercolesterolemia, diabete mellito e ipertensione, soprattutto se associati tra loro. La peculiarità dei
sintomi e segni che accompagnano il 2° stadio rende sufficientemente agevole la diagnosi. D’altra parte, per
quanto la claudicazione intermittente sia un sintomo estremamente caratteristico, essa può essere
presente, anche se in modo meno costante e tipico, in altre condizioni cliniche, quali la compressione di
radici nervose per ernia discale o l’artrosi anca/ginocchio/caviglia. Peraltro, nelle patologie non ischemiche
il dolore non presenta la ripetibilità tipica delle AOAI, ma è più incostante. Inoltre, può essere presente già a
riposo e si esaurisce non con l’interruzione della marcia, ma assumendo determinate posizioni. L’ipotesi
clinica formulata con anamnesi ed esame obiettivo deve essere confermata con alcuni semplici test
strumentali. Il più impiegato è l’indice pressorio caviglia/braccio (indice di Winsor). Esso si calcola
misurando la pressione arteriosa sistolica brachiale con uno sfigmomanometro e quella alla caviglia con una
cuffia pneumatica ed un apparecchio Doppler CW (vedi Capitolo 12). Nei soggetti sani, la pressione alla
caviglia risulta di 10-15 mm Hg più elevata di quella brachiale, determinando un indice pressorio >1. Questo
semplice rilievo, oltre che confermare la presenza dell’AOAI e di determinarne lo stadio di evoluzione,
consente di apprezzare l’efficacia della terapia nel tempo. Un indice di 0.9 possiede una sensibilità del 79%
ed una specificità del 96% nel riconoscere una stenosi =50%.
Un test da sforzo al treadmill può essere utilizzato per differenziare la claudicazione ischemica da altre
sindromi, quantificare l’autonomia funzionale del paziente e prescrivere un programma di riabilitazione
fisica individualizzato.
L’ecocolordoppler (vedi Capitolo 12) è la tecnica di imaging di elezione per lo studio accurato delle AOAI.
Essa è in grado di precisare, con elevata sensibilità (97%) e specificità (86%) la sede, unica o multipla, di
occlusione o stenosi arteriosa. L’ecografia bidimensionale consente una dettagliata analisi morfologica della
parete arteriosa, differenziando la forma aterosclerotica da quella arteritica e identificando le lesioni
aterosclerotiche a maggior rischio tromboembolico. Il color-Doppler consente di stabilire con grande
precisione il grado della stenosi e l’entità del deficit di flusso nel circolo a valle.
L’arteriografia trova attualmente indicazione solo nello studio di casi particolari, quali malformazioni
vascolari o in associazione con terapie maggiori e tecniche invasive (trombolisi loco-regionale ed
angioplastica percutanea, con o senza posizionamento di stent).
È opportuno che nel paziente con AOAI aterosclerotica l’indagine sia estesa ad altri distretti, in specie
quello coronarico, per la frequente associazione con la cardiopatia ischemica

CENNI DI TERAPIA

Il trattamento di questa malattia è indirizzato a: 1) controllare la progressione della malattia


aterosclerotica; 2) migliorare la qualità di vita dei pazienti (incremento dell’autonomia di marcia); 3)
prevenire le amputazioni degli arti interessati dalla malattia. La terapia dei pazienti con AOAI può essere
farmacologica, interventistica o chirurgica (vedi Capitolo 68), con eventuale associazione dei diversi
trattamenti. La scelta tra queste strategie dipende soprattutto dal grado di compromissione determinato
dall’arteriopatia.
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448 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Quando l’AOAI è riconosciuta al 1° stadio, il suo trattamento è esclusivamente medico e si fonda sulla
correzione dei fattori di rischio per l’aterosclerosi e sulla terapia antiaggregante piastrinica (aspirina). In
presenza di diabete mellito, è consigliabile un controllo particolarmente attento della glicemia e dei valori
pressori. In caso di ipertensione arteriosa, le classi di farmaci che si dimostrano più efficaci nel favorire il
controllo della progressione dell’AOAI sono gli ACE-inibitori e i Ca -antagonisti. Una dislipidemia imporrà
l’utilizzo di ipolipemizzanti, come le statine.
Nel 2° stadio di malattia, i farmaci da utilizzare, oltre quelli descritti per il 1° stadio, sono quelli che
migliorino le qualità emoreologiche del sangue (pentossifillina) o il metabolismo muscolare (levo-propionil-
carnitina). I prostanoidi (PGI2 e PGE1), molto efficaci nel migliorare l’autonomia di marcia, sono di esclusivo
utilizzo ospedaliero. Questi farmaci, non privi di effetti collaterali spiacevoli, trovano maggiore indicazione
negli stadi successivi dell’AOAI.
La terapia interventistica, attuata con angioplastica percutanea, con o senza posizionamento di stent, è
indicata nei casi con stenosi arteriose isolate e con restante circolo in buone condizioni.
La terapia chirurgica è limitata agli stadi 3° e 4° dell’AOAI o ai casi del 2° stadio B che si dimostrino
rapidamente evolutivi verso gli stadi successivi (vedi Capitolo 68).

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449 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 56
ANEURISMI E ANEURISMA DISSECANTE
Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

DEFINIZIONE

L’aneurisma è una dilatazione localizzata permanente di un’arteria. Nel caso di interessamento dell’aorta si
parla di aneurisma se si verifica un aumento del diametro di almeno il 50% rispetto a quello normale del
vaso. Laclassificazione degli aneurismi aortici è cruciale per formulare una diagnosi corretta e pianificare il
trattamento. Essa si basa sulla forma (fusiforme se coinvolge l’intera circonferenza del vaso, sacciforme se
solo una parte risulta dilatata), sulle dimensioni (macroaneurisma e microaneurisma), sulla struttura
(vero o falso) e sulla eziologia (gli aneurismi possono essere la conseguenza di un
processo congenito, degenerativo, infettivo, infiammatorio o meccanico-traumatico). Particolare
importanza riveste poi l’individuazione della sede. Sulla base della localizzazione, infatti, gli aneurismi
aortici si distinguono in toracici, toraco-addominali ed addominali (Figura 56.1).

Figura 56.1 A: Anatomia aortica.


B: Aneurisma dell’aorta toracica.
C: Aneurisma dell’aorta addominale.

EZIOLOGIA

Dal punto di vista eziologico, la causa più frequente è quella degenerativa, visto che l’aterosclerosi è
responsabile del 90% degli aneurismi aortici. Il processo aterosclerotico (vedi Capitolo 46), che induce nella
parete arteriosa la formazione di placche fibrose o ateromatose, può creare un’atrofia della tonaca media
che a sua volta esita in indebolimento della parete, con conseguente ectasia e dilatazione aneurismatica.
Tra le cause congenite si distinguono quelle idiopatiche da quelle dovute a un difetto del tessuto
connettivo, come la sindrome di Marfan o a quella di Ehlers-Danlos. Tra quelle infettive distinguiamo le
forme micotiche, sifilitiche e tubercolari; gli aneurismi che ne derivano vengono classificati come falsi o

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450 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

pseudoaneurismi, in quanto sono conseguenti alla rottura del vaso con formazione di un ematoma
delimitato da tessuto connettivo periavventiziale, che risulta connesso al lume originario attraverso un
orifizio a livello del punto di rottura. Infine, tra le cause infiammatorie sono la malattia di Takayasu,
l’arterite a cellule giganti, la malattia di Behcet, la poliarterite nodosa e il lupus eritematoso sistemico.

PATOGENESI

Dal punto di vista patogenetico, vi sono due fattori comuni a tutte le forme aneurismatiche: la debolezza
strutturale e la forza meccanica che, insieme alle cause specifiche per ciascuna forma (deficit genetico del
tessuto connettivo, infezione, infiammazione, traumi), contribuiscono alla genesi e alla progressione degli
aneurismi. Si suppone che il cedimento strutturale del vaso sia conseguente alla disgregazione del
collagene (alla cui composizione concorre in maniera preponderante la presenza di elastina) contenuto
nell’avventizia aortica.
La predisposizione del tratto addominale dell’aorta a subire questa patologia dilatativa è dovuta a una
ridotta presenza di lamelle elastiche nel contesto del tessuto connettivo avventiziale, che comporterebbe la
diminuita elasticità del vaso.
A ciò si aggiunge il fatto che i vasi nutritivi della parete arteriosa, i vasa vasorum, sono quasi del tutto
assenti a livello dell’aorta sottorenale. Questi dati anatomici possono predisporre alla degenerazione
aneurismatica il tratto sottorenale dell’aorta, se esposto a fattori locali o sistemici sfavorevoli, come accade
in presenza di una patologia aterosclerotica. Lo sviluppo dell’aneurisma, a sua volta, provoca localmente
stasi di sangue che, unitamente al danno intimale, favorisce il deposito di trombi e quindi l’ulteriore
indebolimento della parete arteriosa.
L’assottigliamento della parete che ne deriva, accompagnato a progressiva dilatazione, comporta una
riduzione della resistenza, favorendo l’ulteriore dilatazione. Applicando la legge di Laplace, che mette in
correlazione la tensione parietale con il raggio del vaso e la pressione transmurale, si può affermare che per
una data pressione transmurale, la tensione parietale è direttamente correlata al raggio, per cui
all’aumentare del diametro del vaso si assiste a un incremento della tensione esercitata sulla parete
arteriosa e quindi ad una ulteriore tendenza alla dilatazione.

SINTOMI E SEGNI CLINICI

Esistono manifestazioni sintomatologiche e segni clinici comuni per tutte le forme aneurismatiche e altre
specifiche a seconda del distretto interessato.
Il sintomo principe di ogni malattia, il dolore, varia la sua localizzazione che può essere toracica,
addominale o posteriore con localizzazione lombare e/o dorsale. La compressione da parte dell’aneurisma
su strutture contigue può comportare, nel caso di un aneurisma a localizzazione addominale, disturbi
gastrointestinali quali nausea, perdita di peso o ittero. In caso di erosione duodenale si può assistere a
sanguinamento intermittente o ad emorragia massiva. Possono essere presenti sintomi correlati
all’apparato urinario in caso di compressione ureterale. Se, invece, la compressione avviene a livello di
strutture poste nella cavità toracica come la trachea o i bronchi possono manifestarsi dispnea e tosse.
L’erosione del parenchima polmonare o delle vie aeree può provocare emottisi, e l’erosione dell’esofago
disfagia od ematemesi. La trazione del nervo vago a livello dell’arco aortico può provocare paralisi del nervo
laringeo ricorrente, con raucedine. Sono comuni l’embolizzazione distale di trombo o di frammenti
ateromasici e la graduale ostruzione e trombosi dei rami viscerali e delle arterie degli arti inferiori.
Circa tre quarti dei pazienti portatori dell’aneurisma aortico più comune, quello addominale, sono
asintomatici al momento della diagnosi, che viene generalmente effettuata in seguito al riscontro di una
massa pulsante addominale o come rilievo occasionale in corso di altre indagini. Un vago e discontinuo
dolore addominale è spesso presente, ma questo diventa costante e importante solo quando, in seguito a
una rapida espansione dell’aneurisma, si verifica uno stiramento del sovrastante peritoneo. In questo caso
la palpazione in sede epigastrica accentua la dolenzia che si può anche irradiare posteriormente in sede
lombo-dorsale. Lo shock è conseguenza di una fissurazione o di una franca rottura aneurismatica.
L’esame clinico può evidenziare una pulsazione addominale patologica sia all’ispezione, in particolar modo
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451 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

se il soggetto è magro, che alla palpazione, che permette di individuare la massa pulsante in sede
epigastrica. Talvolta l’aneurisma si accompagna a un soffio addominale.

DIAGNOSI STRUMENTALE

L’ecografia rappresenta l’esame di primo livello in caso di sospetto aneurisma aortico. Per l’aneurisma
toracico, la metodica diagnostica è l’ecocardiografia transesofagea, mentre nel caso di localizzazione
addominale si esegue più semplicemente un esame ecografico con metodica Doppler o color-Doppler che,
oltre a visualizzare e a permettere di misurare con accuratezza la dilatazione vasale fornisce informazioni
sul flusso e consente di distinguere il lume canalizzato dal trombo parietale e di visualizzare con accuratezza
l’origine dei vasi che nascono dall’aorta.
E’ possibile ottenere delle informazioni, seppur parziali, anche da una radiografia, che sia a livello toracico
che addominale può mostrare uno slargamento dell’immagine del vaso sottolineata dalle calcificazioni della
parete.
L’aortografia ha il limite di valutare solo il lume pervio dell’aorta. L’esame imprescindibile in previsione di
un intervento chirurgico è rappresentato dalla TC, in particolar modo con mezzo di contrasto (Angio-
TC) (Figura 56.2, Figura 56.3), che analizza la parete aortica, il lume ed i rami emergenti. Le nuove
metodiche TC permettono anche una ricostruzione tridimensionale dell’intera estensione aortica (Figura
56.3).

Figura 56.2 A: Immagine TC di Aorta toracica. AA = Aorta ascendente, AD = Aorta discendente.


B: Immagine TC di Aneurisma dell’aorta addominale. La freccia azzurra indica il lume pervio dell’aorta. La freccia rossa indica il
trombo parietale dell’aneurisma.
C: Aneurisma toracico (freccia gialla) con ricostruzione tridimensionale

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452 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 56.3 A: Immagine TC. L’aorta addominale, circondata dal cerchio giallo, è indicata dalla freccia.
B: Immagine TC di aneurisma dell’aorta addominale. La freccia rossa indica il trombo parietale
C: Ricostruzione tridimensionale dell’aneurisma.

TERAPIA CHIRURGICA

Le indicazioni al trattamento chirurgico degli aneurismi, sia toracici che addominali, hanno parametri di
riferimento comuni che possono indirizzare alla scelta chirurgica e all’eventuale strategia da adottare. Essi
sono: il rischio operatorio, dipendente dalle condizioni cliniche del paziente, il rischio di rottura che si basa
sull’eziologia, sul diametro e sulla morfologia dell’aneurisma, e l’eventuale presenza di sintomi o
complicanze correlate.
Per quanto riguarda il rischio operatorio, i fattori prognostici negativi sono costituiti dall’età avanzata e
dalla presenza di patologie associate a livello cardiaco, polmonare e renale. Il rischio di rottura è maggiore
per aneurismi sacciformi, poiché anche se piccoli questi sottendono una debolezza localizzata della parete
aortica, o per aneurismi con trombo endoluminale eccentrico e con parete sottile o con estroflessioni
sacciformi (blisters).
Convenzionalmente, per gli aneurismi toracici che non presentano le caratteristiche precedentemente
elencate e in presenza di una buona aspettativa di vita, l’indicazione al trattamento è costituita da un
diametro superiore a 5,5 cm: numerosi studi dimostrano che al di sotto di questo valore il rischio di rottura
è circa l’1%.
Per quanto riguarda gli aneurismi addominali, un diametro superiore a 5 cm comporta un rischio di rottura
compreso tra il 25 e il 40% a 5 anni, mentre per diametri minori i rischi sono compresi tra il 2 e il 10%. Altra
indicazione al trattamento chirurgico per diametri inferiori a quelli sopra espressi è, per entrambi i tipi di
aneurismi, è la crescita uguale o superiore a 1 centimetro per anno.
La scelta di quale strategia adottare, tra tecnica a cielo aperto e tecnica endovascolare, dipende sia dalla
aspettativa di vita e dalle condizioni cliniche, che dall’anatomia dell’aorta e della sua biforcazione. Nel caso
di tecnica chirurgica tradizionale a cielo aperto, ulteriori parametri che possono indirizzare la scelta sono la
conformazione del paziente, l’estensione della malattia aneurismatica e la presenza di complicanze.
Le tecniche chirurgiche sono rappresentate dalla metodica tradizionale a cielo aperto e da quelle
mininvasive (minilaparotomica nel caso di aneurismi addominali, laparoscopica, endovascolare).
Nel caso di tecnica tradizionale la via d’accesso maggiormente praticata in caso di aneurismi toracici è
rappresentata dalla toracotomia posterolaterale sinistra, mentre nel caso di aneurismi addominali le
possibili scelte del tipo di approccio sono essenzialmente due: trans-peritoneale o retro-peritoneale.
L’intervento più praticato consiste nella sostituzione del tratto aneurismatico mediante un innesto
protesico (Dacron o Goretex) (Figura 56.4). Nel caso di aneurismi dell’aorta toracica, un elemento molto

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453 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

importante è rappresentato dalla protezione degli organi nobili (midollo spinale e reni) durante il periodo di
clampaggio. In alternativa, si può ricorrere all’arresto cardiocircolatorio in ipotermia profonda, che
presenta due vantaggi principali: quello di lavorare in un campo operatorio completamente esangue e
quello di assicurare una protezione efficace contro l’ischemia.

Figura 56.4 A: Riparazione protesica di aneurisma dell’aorta addominale.


B: Riparazione protesica di aneurisma dell’aorta toracica.

La tecnica minilaparotomica deriva direttamente dalla chirurgia classica e si limita a una incisione mediana
ridotta (6-10 cm) sfruttando divaricatori autostatici e clamp aortici posizionati all’esterno dell’incisione.
Alcune varianti comprendono l’accesso retroperitoneale, l’incisione trasversale o l’utilizzo
di clamp particolari costituiti da un corpo malleabile che minimizza l’ingombro dei clamp tradizionali. I
vantaggi ottenuti con la tecnica mini-invasiva sono la diminuzione della morbilità, della mortalità, della
durata della degenza e conseguentemente dei costi.
La tecnica laparoscopica può essere totalmente eseguita in laparoscopia o, nel caso di aneurismi
addominali, anche con tecnica video-assisted (due tempi operatori: uno laparoscopico e uno tradizionale).
La tecnica totalmente laparoscopica presenta i vantaggi della chirurgia a cielo aperto coma la visione
tridimensionale del campo operatorio e l’impiego degli strumenti convenzionali (modificati per
laparoscopia). Le problematiche maggiori poste da questa tecnica sono rappresentate dai tempi operatori
piuttosto lunghi per la difficoltà nell’eseguire anastomosi vascolari con tecnica laparoscopica. Per ovviare a
ciò, recentemente è stata introdotta la tecnica robot-assisted.
La tecnica endovascolare (Figura 56.5, Figura 56.6) prevede il posizionamento di una endoprotesi o di uno
stent autoespandibile ricoperto da materiale protesico di Dacron o di Goretex attraverso un accesso
chirurgico inguinale (bilaterale o anche semplicemente percutaneo in caso di aneurismi addominali). I
vantaggi di questa tecnica sono rappresentati dalla ridotta invasività, inferiore a qualsiasi altra tecnica, che
risulta vantaggiosissima in caso di rottura aneurismatica. I limiti sono rappresentati dalla applicabilità
condizionata dalle condizioni anatomiche favorevoli (appropriati siti di ancoraggio prossimale e distale,
contenuta tortuosità dell’aorta, etc.).
Ciascuna di queste tecniche presenta delle complicanze che possono essere comuni o specifiche. Quelle
comuni sono l’infezione (particolarmente nelle metodiche a cielo aperto), l’occlusione, l’embolizzazione
distale, l’ischemia (midollare se la sede è toracica, intestinale se è addominale). Le complicanze specifiche
per ciascuna tecnica sono rappresentate, nel caso di tecniche a cielo aperto, dall’ipotensione post-
declampaggio, da fistole tra la protesi e gli organi contigui, da lesioni a carico di strutture viciniori e dalla
formazione di falsi aneurismi. Nel caso di tecniche laparoscopiche, il problema principale è la scarsa

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454 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

affidabilità in termini di tenuta e di pervietà delle anastomosi se non opportunamente confezionate. Nel
caso di tecnica endovascolare le complicanze sono: la possibilità di rottura dell’endoprotesi (1% circa), il
rischio di migrazione (1% circa), l’impossibilità di eseguire la metodica con necessità di conversione in
intervento chirurgico tradizionale (1-2% circa), e soprattutto gli endoleak (fenomeni che comportano una
imperfetta esclusione dell’aneurisma dal circolo aortico e che determinano quindi un rifornimento della
sacca aneurismatica; questi problemi insorgono in una percentuale che oscilla attorno al 25-30%.

Figura 56.5 A: Modello di endoprotesi.


B: Modalità di impianto dell’endoprotesi.

Figura 56.6 A: Esclusione di aneurisma dell’aorta toracica mediante endoprotesi.


B: Esclusione di aneurisma dell’aorta addominale.

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455 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

SINDROME AORTICA ACUTA

La sindrome aortica acuta può insorgere per rottura aneurismatica, dissezione aortica, ulcera penetrante,
ematoma intramurale o lesioni traumatiche (penetranti o contusive). In questi casi ci si trova davanti a una
condizione di emergenza chirurgica gravata da un alto tasso di complicanze. L’evenienza più frequente è la
rottura dell’aneurisma, che presenta una mortalità operatoria del 50% circa; la mortalità, tuttavia, aumenta
a oltre il 90% se si prende in considerazione anche il decesso che avviene prima dell’arrivo in ospedale. Il
forte dolore toracico o addominale con irradiazione posteriore, accompagnato da shock, indirizza verso la
diagnosi di rottura.
La terapia chirurgica è volta ad arrestare il sanguinamento e a ripristinare la continuità aortica. Il successo
della procedura è strettamente condizionato dal tipo di rottura (libera o tamponata), dallo stato
emodinamico del paziente e dalla possibilità di un rapido controllo del sanguinamento della lesione aortica
quando il paziente si presenta instabile per un’emorragia attiva.
Il trattamento si avvale delle due opzione terapeutiche già descritte: la terapia convenzionale o quella
endovascolare. La morbilità legata all’esposizione chirurgica e al clampaggio aortico sempre toracico, o
comunque sopra-renale, anche in caso di aneurismi addominali, rende in particolari condizioni vantaggioso
l’approccio endovascolare, che risulta efficace e sicuro anche in condizioni anatomiche favorevoli.

DISSEZIONE AORTICA

La dissezione aortica, in precedenza definita come aneurisma dissecante, è la condizione in cui il sangue
penetra nella parete aortica attraverso una lacerazione intimale, e si fa strada all’interno della tonaca
media, creando un “falso lume”. La dissezione della media può estendersi per un lungo tratto (anche per
tutta l’aorta) e interessare i rami che nascono dall’aorta; in diversi casi il sangue che riempie il falso lume
torna poi nel lume vero attraverso una breccia distale.
Dal punto di vista anatomo-patologico, questa lesione dell’aorta è uno pseudoaneurisma, perché l’intima (il
lume vero) non è realmente aneurismatica, ma la dilatazione del falso lume (che di solito è il più ampio dei
due lumi) dà luogo a un allargamento dell’aorta al di là delle sue dimensioni normali, per cui è stato
attribuito a questa condizione il termine di “aneurisma”.
Esistono due sistemi di classificazione quello di Standford e quello di DeBakey (Figura 56.7): se è interessata
l’aorta ascendente, l’arco dell’aorta e l’aorta discendente si parla di tipo A secondo Stanford, che
corrisponde al tipo I e II di DeBakey . Se l’aorta ascendente non è interessata si parla di tipo B di Stanford,
che corrisponde al tipo III di DeBakey.
La lesione anatomo-patologica tipica riscontrata nei pazienti con dissezione aortica acuta di tipo B (che
sono di solito anziani e spesso ipertesi) è la degenerazione muscolare liscia all’interno della tonaca media.
Nei pazienti con dissezione di tipo A, che sono in genere più giovani, si assiste invece a un’alterazione
congenita del tessuto connettivo della tonaca media dell’aorta (medionecrosi cistica) con conseguente
degenerazione del tessuto elastico.

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456 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 56.7 Classificazione della dissezione aortica secondo DeBakey e secondo Stanford.

Quadro clinico. Le dissezioni aortiche diagnosticate entro due settimane dall’inizio del dolore o degli altri
sintomi d’esordio vengono classificate come acute, mentre quelle diagnosticate più tardivamente sono
definite croniche.
Il sintomo più comune è un fortissimo e lancinante dolore toracico anteriore o posteriore, interscapolare,
dovuto allo stiramento dell’avventizia aortica da parte dell’ematoma dissecante. La migrazione del dolore
fa pensare che la dissezione si stia espandendo o estendendo. Si può anche manifestare un quadro di shock
(per rottura intra-pericardica dell’aorta con tamponamento cardiaco o per rottura intra-toracica con
sanguinamento). L’esordio può avvenire, sebbene di rado, con un quadro di infarto miocardico causato da
dissezione coronarica. L’ampia costellazione di sintomi e segni concomitanti (ictus, paraplegia, ischemia
degli arti superiori o inferiori, anuria, dolore addominale per ischemia renale o mesenterica) è correlata al
coinvolgimento, da parte della dissezione, dei rami aortici distali e alla conseguente compromissione della
perfusione dei diversi organi irrorati da tali rami.
Il dolore toracico va distinto da quello di tutte le altre malattie, cardiovascolari e non, che possono essere
responsabili di questo sintomo: infarto miocardico, pericardite, embolia polmonare, pneumotorace,
malattie dell’esofago, affezioni ossee, nevralgie, etc. A parte i casi non frequenti di dissezione coronarica e
correlato infarto miocardico, l’Elettrocardiogramma e il dosaggio dei marker di necrosi miocardica sono
normali nei pazienti con dissezione aortica, permettendo una immediata esclusione della cardiopatia
ischemica.
In una percentuale non minima dei casi l’ascoltazione del cuore rivela un’insufficienza aortica massiva,
prima assente, provocata dalla dilatazione della radice aortica, con mancato collabimento delle cuspidi
valvolari in diastole.
La diagnostica strumentale si avvale dell’ecocardiografia transtoracica, ma soprattutto di quella
transesofagea (ECO 22) (->credo sia un video) e della TC con mezzo di contrasto (Figura 56.8).
Nella dissezione acuta di tipo A, il primo obiettivo
terapeutico è rappresentato, in attesa dell’intervento chirurgico, daltrattamento dell’ipertensione, per
prevenire la rottura dell’aorta nel pericardio o nello spazio pleurico, ed evitare il coinvolgimento degli osti
coronarici o della valvola aortica o il danno irreversibile multiorgano.
L’intervento chirurgico consiste nella sostituzione protesica dell’aorta ascendente e della parte prossimale

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457 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

dell’arco.
Nel caso di dissezione acuta di tipo B spesso si preferisce la terapia medica, mentre l’intervento chirurgico
viene riservato a pazienti giovani, a basso rischio, con dissezione non complicata, allo scopo di prevenire
una rottura, e consiste nella sostituzione protesica del segmento di aorta toracica discendente che contiene
le lesioni più gravi. Nella dissezione cronica, sia di tipo A che B, l’indicazione chirurgica tiene presente che i
fattori di rischio più frequenti per una rottura aortica sono il diametro aortico, l’eccentricità della
dilatazione e una rapida espansione (maggiore di 1 cm per anno). Pertanto, si pone indicazione
all’intervento chirurgico in caso di dilatazione dell’aorta ascendente superiore a 5,5 cm oppure pari a 5 cm,
quando coesistano patologie del tessuto connettivo, specialmente la Sindrome di Marfan, o in caso di
dilatazione dell’aorta discendente superiori o pari a 6 cm o più, o se è presente una familiarità per
connettivopatie.
L’approccio endovascolare prevede l’impianto di una endoprotesi a copertura della dissezione prossimale
per ripristinare il flusso ematico nel lume vero compresso. La procedura, che prevede
l’eventuale stenting del flap intimale in caso di malperfusione d’organo, si pratica soprattutto nei casi di
dissezioni di tipo B non complicate.

Figura 56.8 Immagine TC di dissezione aortica. La freccia rossa indica il “flap” intimale che separa il vero lume dal falso lume.

L’ULCERA PENETRANTE AORTICA consiste in una lesione della lamina elastica interna da parte di un
processo ateromatoso che si estende sino alla tonaca media. La sua evoluzione naturale è rappresentata
dall’ematoma intramurale, dalla dissezione o dallo pseudoaneurisma, con conseguente possibile rottura
vasale. Il suo riscontro occasionale non implica necessariamente il trattamento, che si rende invece
necessario in caso di sintomatologia o di rapida progressione. La metodica terapeutica maggiormente
indicata è rappresentata dal trattamento endovascolare atto a escludere la lesione.

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458 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 57
MALATTIE DELLE VENE
Marco Matteo Ciccone

CENNI DI ANATOMIA E FISIOLOGIA DELLE VENE

Nella circolazione venosa esistono due distretti, quello profondo e quello superficiale: questi lavorano
sinergicamente, ma hanno differenti funzioni. La circolazione superficiale porta il sangue dal microcircolo
cutaneo o viscerale al circolo venoso profondo e questo convoglia il sangue all’atrio destro. Le
caratteristiche della circolazione venosa variano da un distretto all’altro; negli arti inferiori, per esempio, si
distinguono (Figura 1):
a) Vene profonde in continuità con l’atrio destro, satelliti delle arterie omonime, con decorso al di sotto
delle aponeurosi (R1).
b) Vene superficiali tronculari affluenti del circolo venoso profondo con decorso sottocutaneo al di sopra
delle aponeurosi muscolari (R2).
c) Vene superficiali comunicanti, che sono vasi sopra-aponeurotici di connessione tra vene superficiali
tronculari (R3).
d) Vene perforanti, ovvero vasi di connessione tra circolo venoso profondo e superficiale, che perforano le
aponevrosi ed in condizioni normali dirigono il sangue dal circolo superficiale al profondo (R4).

Le vene sono da considerare, da un punto di vista idraulico, come dei tubi compressibili a basso regime
pressorio, nei quali si genera pressione quando aumenta il volume del liquido in essi contenuto. L’ingresso
del sangue nelle vene genera una tensione che, data la presenza di valvole unidirezionali, determina la
progressione del sangue verso l’atrio destro. La pressione intratoracica contribuisce a determinare il ritorno
venoso, e quando diventa negativa, come nell’inspirazione profonda, produce un effetto di suzione che
facilita il ritorno venoso. Questo fenomeno riguarda particolarmente le vene profonde, che sono
caratterizzate da un flusso continuo, modulato dagli atti del respiro.

Figura 1 R1 = Vene profonde. R2 = Vene superficiali tronculari. R3 = Vene superficiali comunicanti. R4 = Vene perforanti.

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459 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Classificazione delle malattie delle vene

La classificazione anatomica prevede due gruppi di flebopatie: quello delle vene superficiali e quello delle
vene profonde; la classificazione fisiopatologica, invece, è basata su tre gruppi nosografici: flebopatie
ectasianti, flebopatie obliteranti e/o flogistiche, e flebopatie funzionali.

MALATTIE DELLE VENE SUPERFICIALI

Le malattie delle vene superficiali hanno come sintomi: senso di pesantezza a volte associato a dolore,
stanchezza alle gambe o tensione dopo prolungata stazione eretta, crampi a riposo, prurito ed edema
malleolare serotino. Si riconoscono le seguenti forme:

Flebopatia ipotonica o malattia delle commesse


E’ caratterizzata da da sintomatologia flebostatica (senso di pesantezza ed edemi bilaterali serotini degli arti
inferiori) senza segni strumentali di insufficienza venosa né di ipertensione venosa superficiale. La
patogenesi è da attribuire ad ipotonia parietale venosa.

Flebostasi costituzionale
Ha come elemento fondamentale l’acroipotermia (estremità fredde); il sottocute ha un aspetto simil-
mixedematoso, ed i quadri clinici più frequenti
sono l'eritrocianosi declive tipo rusticanus, la cianosi lipomatosa ed il lipedemacellulitico. Altre flebopatie
funzionali sono:
L’acrocianosi, caratterizzata da cianosi ed ipotermia a livello delle estremità.
L’eritrocianosi, nella quale si manifesta cianosi in regione malleolare.
La livaedo, in cui compaiono alterazioni del colorito cutaneo simili ai lividi che si osservano dopo
esposizione al freddo. Si presenta in tre forme cliniche: anularis, reticularis e pigmentata.

Flebite superficiale (non trombotica)


E’ caratterizzata dall'improvvisa comparsa di dolore, rossore e calore sul territorio di una vena superficiale.
Può risolversi spontaneamente entro una settimana o evolvere in flebotrombosi; frequentemente recidiva.

Malattia varicosa
Le varici sono dilatazioni e tortuosità permanenti delle vene superficiali; possono essere tronculari
principali se interessano gli assi safenici, o tronculari collaterali se interessano collaterali safeniche. Si
distinguono varici congeniteo angiodisplasiche, che compaiono più spesso entro la seconda decade di vita,
caratterizzate da spiccata tortuosità segmentaria dei vasi venosi, e varici primitive o essenziali, che
interessano le vene in tutto il loro decorso, sono quasi sempre familiari e riconoscono fattori facilitanti fra
cui l'obesità, l'ortostatismo, la stipsi, la gravidanza.
Le varici secondarie si sviluppano a seguito di una trombosi venosa profonda, e rappresentano un circolo di
supplenza; in questa situazione le vene appaiono ectasiche ma senza tortuosità.

Tromboflebite superficiale
E’ caratterizzata da dolore, rossore e calore lungo il decorso di una vena superficiale. Alla palpazione, la
vena ha l'aspetto di un cordone, e le indagini strumentali dimostrano una trombosi parziale o totale della
vena. Rare sono le complicanze tromboemboliche.

Insufficienza venosa superficiale cronica


In questa situazione è presente una disfunzione cronica del circolo venoso superficiale, espressa da
insufficienza venosa, ipertensione venosa, stasi ed ulcere flebostatiche.

Ulcere Flebostatiche.
Rappresentano l'80% di tutte le ulcere degli arti, e sono provocate dall'ipertensione venosa. Le ulcerazioni

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460 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

possono interessare i piani muscolari, hanno sede paramalleolare e sono sensibili all'elastocompressione ed
alla terapia eparinica ed antibiotica topica.

MALATTIE DELLE VENE PROFONDE

TROMBOEMBOLISMO VENOSO
Si definisce "malattia tromboembolica venosa" la condizione in cui si realizza una patologia trombotica a
carico del circolo venoso profondo, associata o meno ad embolia polmonare.
Si riconoscono i quattro seguenti quadri clinici :

 Trombosi venosa profonda o flebotrombosi


 Embolia polmonare
 Sindrome venosa post-trombotica
 Ipertensione arteriosa polmonare secondaria a tromboembolismo.

Le prime due forme sono acute, le ultime due croniche. L’embolia polmonare e l’ipertensione arteriosa
polmonare conseguente a tromboembolismo venoso vengono trattate rispettivamente nel Capitolo 50 e
nel Capitolo 51.

Trombosi venosa profonda


E’ la condizione in cui si forma un trombo occludente o parzialmente occludente il lume di una vena
profonda. Spesso la malattia ha come evoluzione la sindrome post-trombotica (SPT), nella quale si verifica
la devalvulazione del sistema venoso profondo, cui consegue l’insufficienza venosa.

Epidemiologia. La reale incidenza della malattia tromboembolica venosa nella popolazione generale è
difficile da determinare, perché la maggior parte delle informazioni riguarda pazienti ospedalizzati. In uno
studio condotto in 16 ospedali americani, l'incidenza annuale è stata di 48 episodi di trombosi venosa
profonda (TVP) e 23 di embolia polmonare (EP) per 100.000 abitanti, con una mortalità ospedaliera del
12%.

Eziologia. Il rallentamento della circolazione venosa è il presupposto fondamentale per la formazione del
trombo. Sono le vene profonde della sura, della coscia e dell'asse ileo-femorale le sedi da cui più
frequentemente si distaccano gli emboli, mentre raramente questi provengono dalle vene superficiali delle
gambe o dalle vene profonde degli arti superiori.

Quadro clinico. Il paziente affetto da trombosi venosa profonda può essere asintomatico o presentare, in
relazione all'entità dell'ostruzione ed al segmento venoso interessato, uno o più dei seguenti sintomi e
segni clinici: tensione dolorosa all'arto, dolore intenso e crampiforme che si accentua con il movimento,
dolore alla dorsiflessione del piede (segno di Homans), dolorabilità in seguito alla compressione dei
muscoli, perchè la flogosi attiva i nocicettori della parete vasale. L'ostruzione venosa, inoltre, provoca
ipertensione venosa locale, e quindi edema caratteristicamente associato a fovea. Tra i segni obiettivi più
affidabili è l'aumentata circonferenza dell'arto interessato rispetto al controlaterale; altri segni clinici sono
l'ipertermia ed il rossore, provocati dalla flogosi venosa locale e dall'aumento del flusso venoso superficiale.
La cute può presentare discromia, o può essere cianotica a causa dell'ipossia. Nella trombosi ileo-femorale

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461 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

si può realizzare il quadro clinico della phlegmasia cerulea dolens, della gangrena venosa o
della phlegmasia alba dolens (cute pallida ed ipotermica, polsi iposfigmici per vasocostrizione arteriolare).
La trombosi venosa profonda può risolversi con restitutio ad integrum, oppure esitare nella sindrome post-
trombotica con insufficienza venosa cronica. Nelle vene degli arti inferiori, in cui l'innervazione simpatica è
scarsa, diversamente che nelle vene cutanee e splancniche, ed il flusso venoso anterogrado è garantito
dalla pompa muscolare e dall'integrità delle valvole, il processo trombotico altera tali strutture ed il circolo
venoso diviene incontinente.
Diagnosi. La trombosi venosa profonda è sintomatica in meno del 50% dei soggetti. Quando presenti, i
sintomi e segni clinici di questa affezione sono simili a quelli di numerose altre malattie (affezioni muscolo-
tendinee, osteoarticolari, del circolo linfatico, affezioni cutanee, cisti poplitee), per cui la diagnosi è difficile.
La flebografia è considerata la metodica di riferimento nella diagnosi di trombosi venosa profonda. La
flebografia ascendente evidenzia difetti di riempimento del lume venoso, o interruzione brusca del mezzo
di contrasto con presenza di circoli collaterali.Tra le indagini non invasive, l'Eco-Color-Doppler ha sensibilità
e specificità analoghe alla flebografia
Tra tutti gli esami di laboratorio proposti per la diagnosi di trombosi venosa profonda in fase acuta, il
dosaggio del D-dimero si è rivelato particolarmente utile, anche per l’alto valore predittivo negativo nei
confronti della trombosi venosa profonda.

Sindrome venosa post trombotica


Lo stato successivo a uno o più episodi di trombosi venosa profonda, caratterizzato da insufficienza venosa,
ipertensione venosa, alterazioni cutanee (dermatite cianotica ed ulcere flebostatiche) prende il nome di
sindrome post trombotica. Questa può evolvere clinicamente verso un flebedema persistente, che va
trattato con elastocompressione, terapia fisica e terapia farmacologica. Farmaci che hanno dimostrato
efficacia in tale condizione sono le eparine e gli anticoagulanti orali.

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462 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 62
CIRCOLAZIONE EXTRACORPOREA
Claudio Muneretto, Paolo Piccoli, Gianluigi Bisler

Elenco dei paragrafi

1. INTRODUZIONE
2. PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO DELLA CEC
3. IL CIRCUITO
4. L’OSSIGENATORE
5. LO SCAMBIATORE DI CALORE E L’IPOTERMIA
6. L’EMODILUIZIONE
7. LA POMPA
8. LA CARDIOPLEGIA
9. DANNI DA CEC

INTRODUZIONE
La terapia chirurgica delle malattie cardiache è ostacolata da difficoltà di carattere tecnico legate alla
necessità di vicariare la funzione cardio-polmonare per l’intervallo di tempo necessario all’esecuzione
dell’intervento.
Solo dopo l’acquisizione di nuove tecnologie nella manifattura di materiali plastici biocompatibili e lo
sviluppo delle moderne tecniche anestesiologiche e chirurgiche, e dopo la scoperta dell’azione
anticoagulante dell’eparina, ha potuto avere inizio l’evoluzione di efficaci tecniche di circolazione extra-
corporea (CEC).
La sperimentazione di sistemi pompa-ossigenatore risale all’inizio degli Anni ’30 quando John Gibbon (Figura
1) iniziò i primi lavori sperimentali al Massachusetts General Hospital di Boston; nel 1953 fu proprio Gibbon
ad effettuare il primo intervento cardiochirurgico, la riparazione di un difetto interatriale, utilizzando una
macchina cuore-polmone (Figura 2). Da allora il progresso tecnologico e l’acquisizione di conoscenze sempre
più approfondite nell’ambito della risposta infiammatoria sistemica e del danno d’organo causati dalla CEC
hanno consentito una progressivo miglioramento dei biomateriali e delle tecniche di by-pass cardio-
polmonare (Figura 3).

Figura 1 John Gibbon

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463 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Macchina cuore-polmone di Mayo-Gibbon, 1953

Figura 3 Moderna macchina per circolazione extra-corporea

PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO DELLA CEC


La circolazione extra-corporea è basata sull’esclusione dal circolo del cuore e dei polmoni (by-pass cardio-
polmonare) tramite la deviazione del ritorno venoso dalle sezioni destre del cuore ad un ossigenatore e
quindi la re-immissione del sangue ossigenato nel circolo arterioso (Figura 4) .
Durante la CEC il sangue, reso incoagulabile con eparina, scorre in un sistema di tubi in materiale plastico
biocompatibile e viene quindi raccolto in un contenitore (cardiotomo o reservoir) da dove, spinto da una
pompa, raggiunge il sistema ossigenatore/scambiatore di calore.
L’arterializzazione del sangue venoso avviene nell’ossigenatore mediante diffusione di anidride carbonica e
ossigeno, secondo gradienti di concentrazione, attraverso una membrana semipermeabile
dell’ossigenatore stesso. Lo scambiatore di calore connesso con l’ossigenatore permette di regolare la

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464 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

temperatura del sangue per ottenere i diversi gradi di ipotermia necessari.


Una volta ossigenato, il sangue viene reimmesso nell’organismo tramite una cannula inserita nel circolo
arterioso ( aorta ascendente, a. femorale, o ascellare).
Prima dell’apertura delle camere cardiache è necessario clampare l’aorta, cioè posizionare una particolare
pinza, chiamata “clamp” in aorta ascendente in modo da isolare il cuore dalla circolazione arteriosa e di
impedire il sanguinamento.
Con il clampaggio dell’aorta si interrompe la circolazione coronarica e si realizza pertanto una condizione di
ischemia miocardica completa. Appare pertanto necessario proteggere il cuore mediante infusione nelle
coronarie di una soluzione denominata “cardioplegia” che ha lo scopo di raffreddare il miocardio a 10° C
(riduzione del metabolismo basale) ed arrestarlo in diastole (riduzione del metabolismo funzionale) .
“L’arresto diastolico cardioplegico” viene ottenuto con la somministrazione di elevate concentrazioni di
potassio (20-25 mEq/l).
La “protezione miocardica” indotta dalla cardioplegia consente, con ragionevole sicurezza, di eseguire
clampaggi aortici anche prolungati (2 ore) durante i quali è possibile eseguire la totalità degli interventi
cardiochirurgici.

Figura 4 Raffigurazione schematica di circuito per CEC con pompa centrifuga ed ossigenatore a membrana

IL CIRCUITO
Per veicolare il sangue all’esterno del sistema cardiocircolatorio del paziente vengono utilizzate delle
cannule inserite rispettivamente nel sistema venoso ed arterioso del paziente.

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465 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Esistono diversi schemi di cannulazione per circolazione extra-corporea (Figura 5): comunemente si utilizza
per il drenaggio venoso una singola cannula a doppio stadio inserita in atrio destro attraverso l’auricola
dirigendo la punta nella vena cava inferiore (Figura 5A), e per la linea arteriosa una cannula inserita in aorta
ascendente o in arteria femorale.
Negli interventi a carico della valvola mitrale o di strutture del cuore destro (valvola polmonare, tricuspide,
setto interatriale), si utilizza uno schema di cannulazione che prevede l’inserimento di due cannule
rispettivamente in vena cava superiore ed inferiore (Figura 5B).

Figura 5 Cannulazione venosa. A: Bi-cavale. B: Atrio-cavale.

L’OSSIGENATORE
L’ossigenatore è il componente più importante della macchina cuore-polmone, non soltanto perché regola
la tensione dei gas presenti nel sangue, ma soprattutto poiché nell’ossigenatore vi è la maggior superficie di
contatto tra sangue e materiale “artificiale non-self”: dalla membrana ossigenante si attivano gran parte
delle reazioni infiammatorie caratteristiche della CEC.
I moderni ossigenatori a membrana sono composti da un sistema di fibre cave al cui interno scorre la
miscela gassosa ed intorno alle quali passa il sangue.

LO SCAMBIATORE DI CALORE E L’IPOTERMIA


L’ipotermia viene utilizzata in cardiochirurgia per ridurre le richieste di ossigeno e quindi diminuire il rischio
di danni da ipoperfusione sistemica durante la CEC. Per variare la temperatura dell’organismo si agisce
raffreddando o riscaldando il sangue nel suo passaggio all’interno dell’ossigenatore: all’interno di questo vi
è un circuito separato in cui scorre acqua a temperatura controllata da una unità esterna (scambiatore di
calore).
Negli interventi di routine (by-pass aorto-coronarico, sostituzione valvolare, riparazione di cardiopatie
congenite semplici) è desiderabile il raggiungimento di una temperatura intorno ai 28- 33°C (ipotermia
moderata).
Per l’esecuzione di interventi complessi che prevedano una fase di arresto del circolo (ad esempio,
sostituzione dell’arco aortico) è necessario raggiungere temperature anche inferiori a 20° (ipotermia
profonda).

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466 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

L’EMODILUIZIONE
Prima dell’avvio della CEC il circuito viene riempito (priming) con una soluzione elettrolitica bilanciata. Una
volta instaurata la circolazione extra-corporea tale soluzione viene a mescolarsi con il sangue del paziente
creando un certo grado di emodiluizione. L’emodiluizione da un lato diminuisce la viscosità ematica con
effetti positivi dal punto di vista reologico (minore emolisi, migliore per fusione capillare); dall’altro
diminuisce la capacità di trasporto dell’ossigeno e riduce la pressione colloido-osmotica favorendo la
trasudazione capillare. Oggi, si preferisce evitare l’eccessiva emodiluizione, e si tende a mantenere
l’ematocrito a valori non inferiori ai 28-30%

LA POMPA
La funzione propulsiva dei ventricoli viene vicariata da una pompa. Il meccanismo più semplice ed efficace è
costituito dalla cosiddetta pompa “roller” (Figura 6A): un rotore all’interno di un cilindro metallico comprime
il tubo al cui interno passa il sangue, generando forza propulsiva. Questo sistema è efficace, di semplice
costruzione ed economico; tuttavia il traumatismo a carico delle emazie all’interno del tubo ad ogni giro del
rotore determina un certo grado di emolisi.
Per ovviare a questo problema sono state disegnate delle pompe che utilizzano la forza centrifuga come
propulsore (Figura 6B,C); queste pompe determinano un ridotto effetto emolitico, ma risultano più costose e
di complessa gestione.

Figura 6 Pompe per circolazione extra-corporea. A: Roller. B,C: Centrifuga.

LA CARDIOPLEGIA
Le soluzioni cardioplegiche (cristalloidi o ematiche) contengono una elevata concentrazione di potassio (8-
20 mEq/L), magnesio ed una miscela di componenti (stabilizzatori di membrana, aminoacidi, elettroliti) volti
a ridurre il danno ischemico e da riperfusione. L’infusione della cardioplegia avviene immediatamente dopo
clampaggio aortico e successivamente ad intervalli di 20-30 minuti. L’arresto dell’attività meccanica e la
riduzione del metabolismo basale dovuta all’ipotermia, riducono del 90-95% il consumo miocardico di
ossigeno. Questo consente di intervenire per un intervallo di tempo di circa 2 ore, oltre il quale aumenta
progressivamente il rischio di danno ischemico del cuore.

DANNI DA CEC
L’ assenza di flusso pulsatile, l’alterazione della perfusione distrettuale, la perdita dei riflessi baro e chemo-
cettori, la riduzione della pressione colloido-osmotica plasmatica e la formazione di microemboli che si
verificano durante la circolazione extra-corporea possono determinare un’alterazione dell’omeostasi ed
una serie di danni d’organo. La continua esposizione del sangue a superfici non endotelizzate determina
l’attivazione di una forma peculiare di infiammazione generalizzata (whole body inflammatory response)

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467 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

che coinvolge il sistema del complemento, i granulociti neutrofili, i monociti, le cellule endoteliali e, in
misura minore, le piastrine ed i linfociti.
L’attivazione di queste componenti ha come conseguenza la sintesi e secrezione di ingenti quantità di
enzimi citolitici, citochine, radicali liberi e peptidi vasoattivi che partecipano attivamente al danno da
ischemia/riperfusione. Le alterazioni della funzione renale dopo CEC (aumento della creatinina, riduzione
filtrato glomerulare) sono in parte conseguenza della reazione infiammatoria generalizzata.
La risposta infiammatoria insieme all’emodiluizione indotta da CEC è causa di un’aumentata permeabilità
capillare con conseguente edema interstiziale generalizzato. Gli effetti negativi dell’edema interstiziale
possono essere particolarmente evidenti nel parenchima polmonare dove causano una significativa
riduzione della compliance.
Esistono delle sottoclassi di pazienti con aumentato rischio di morbilità post-CEC rappresentate dai neonati
e bambini al di sotto del 1° anno di vita, soggetti anziani o con scompenso cardiaco cronico. In queste
sottoclassi di pazienti, un’esacerbata risposta infiammatoria e la coesistenza di patologie associate
incrementano il rischio di complicanze post-CEC quali insufficienza renale e respiratoria, coagulopatie ed
eventi neurologici.
Tuttavia normalmente la CEC non causa una morbilità evidente dal punto di vista clinico ne complicanze di
rilievo, ed è molto ben sopportata dalla grande maggioranza dei pazienti.

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468 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 63
INTERVENTI SULLE VALVOLE CARDIACHE
Luigi Chiariello, Carlo Bassano

Elenco dei paragrafi

1. INTRODUZIONE
2. LE PROTESI VALVOLARI
3. SOSTITUZIONE VALVOLARE AORTICA
4. SOSTITUZIONE VALVOLARE MITRALICA
5. CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALVOLA AORTICA
6. CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALAVOLA MITRALICA
7. CHIRURGIA DELLA VALVOLA TRICUSPIDE

INTRODUZIONE
La chirurgia delle valvole cardiache può essere di tipo sostitutivo, con protesi meccaniche o biologiche,
(Figura 1) ovvero riparativo. La prima opzione viene scelta quando i lembi valvolari sono malati (sclerosi,
calcificazione), mentre la seconda viene impiegata quando i lembi sono relativamente sani (per esempio,
l’insufficienza aortica secondaria a patologia dell’aorta ascendente) oppure quando la malattia primitiva dei
lembi consenta una chirurgia riparativa con “restitutio ad integrum” della funzionalità.
Figura 1 A. Protesi valvolare cardiaca meccanica a doppio emidisco.
B. Protesi valvolare cardiaca biologica stented con lembi in pericardio bovino.

LE PROTESI VALVOLARI

Protesi biologiche
Le protesi biologiche (Figura 2) si distinguono in:

 eterologhe (valvola aortiche di suino, valvole con lembi in pericardio bovino o equino rese non immunogene e conservate in soluzioni
fissanti);
 omologhe (prelevate da cadavere, sterilizzate e utilizzate fresche o crioconservate);
 autologhe (valvola polmonare del paziente rimossa e impiegata in posizione aortica con contemporaneo impianto di una protesi
omologa in posizione polmonare).

Le protesi eterologhe possono essere montate su una struttura portante (stent) che ne facilita l’impianto,
oppure essere prive di sostegno (stentless, esclusivamente per la sede aortica); quelle omologhe e
autologhe sono sempre stentless.
Protesi meccaniche
Le prime erano a dispositivo occludente (una sfera o un disco); in seguito sono state introdotte quelle a
disco incernierato oscillante e più recentemente quelle a doppio emidisco, dotate di miglior rendimento
meccanico (Figura 3). Sono tutte costituite da una struttura rigida di lega metallica (in genere carbonio
pirolitico) di forma circolare, nel cui interno sono alloggiati dei sistemi di cerniera dove vengono ancorati gli
elementi mobili e al cui esterno è fissato un ulteriore anello in tessuto attraverso il quale vengono passate
le suture necessarie all’impianto.
Vantaggi e svantaggi delle diverse protesi valvolari

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469 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Le protesi biologiche hanno ottima biocompatibilità, non necessitano di profilassi antitrombotica e non
sono rumorose; tuttavia vanno incontro a progressiva degenerazione strutturale (spesso determinata da
calcificazione dei lembi) che ne comporta una durata mediana di circa 15 anni in pazienti di età avanzata
(nei pazienti più giovani il tasso di deterioramento strutturale primitivo è maggiore, nei più anziani minore).
Le valvole meccaniche sono anch’esse dotate di buona biocompatibilità in quanto costituite da componenti
biologicamente inerti e non vanno praticamente mai incontro a deterioramento strutturale primitivo.
Tuttavia necessitano di profilassi antitrombotica a vita, con conseguente rischio combinato di fenomeni
tromboembolici e di emorragie dell’1-2%/anno/paziente.
Modalità di disfunzione protesica
Sono sostanzialmente di due tipi:

 Deterioramento strutturale, cioè rottura o grave alterazione morfologica e meccanica degli elementi mobili (lembi biologici o dischi).
 Disfunzione non primitiva, cioè un processo patologico che non riguarda la protesi in sé, ma che comunque ne limita la capacità
funzionale, come la trombosi o la crescita di panno fibroso che ostacolano, fino a bloccare, i meccanismi di cerniera delle protesi
meccaniche, le endocarditi (che possono provocare distacco protesico, perforazione dei lembi delle bioprotesi o crescita di vegetazioni
ad alto rischio embolico) o le deiscenze anastomotiche.

Figura 2 Protesi biologiche.


A. Protesi stented da valvola aortica suina.
B. Protesi stented da pericardio bovino.
C. Protesi stentless in pericardio equino.
D. Protesi stentless in pericardio bovino.
E. Protesi stentless di suino (valvola aortica di suino).

Figura 3 Protesi meccaniche.


A. Protesi a sfera occludente.
B. Protesi a disco oscillante.
C. Protesi a doppio emidisco.

SOSTITUZIONE VALVOLARE AORTICA


Dopo aver instaurato il bypass cardiopolmonare e una volta ottenuto l’arresto cardioplegico, si esegue
un’aortotomia trasversale e si espone la valvola nativa (Figura 4A). Si procede alla exeresi dei lembi e alla
rimozione completa delle calcificazioni anulari eventualmente presenti, e si procede alla misurazione del
diametro anulare per scegliere una protesi di dimensioni adeguate (Figura 4B).
Punti staccati in poliestere vengono passati attraverso l’anulus nativo; tali suture possono essere semplici o
doppie (ad “U”), rinforzate da pledgets in feltro di teflon per evitare che possano tranciare i tessuti (Figura 5).
I capi liberi delle suture vengono quindi passati attraverso l’anello di sutura della protesi e infine annodati,
solidarizzando l’anulus nativo alla protesi. In alternativa, la protesi può essere anche impiantata con una
sutura continua in polipropilene. L’aortotomia viene infine chiusa con una sutura in polipropilene e il cuore
deareato e riperfuso.

Nel caso delle protesi stentless la procedura chirurgica è più complessa e prevede due linee di sutura: la
prima del tutto analoga a quella precedentemente descritta per le bioprotesi stented e meccaniche, la
seconda per ancorare la sezione distale della bioprotesi all’interno della parete aortica (Figura 6).

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470 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Sostituzione della valvola aortica.


A. Esposizione della valvola aortica nativa.
B. Misurazione dell’anulus aortico una volta completata la rimozione della valvola nativa.

Figura 5 Sostituzione della valvola aortica con protesi stented. I punti di stutura già passati nell’anulus vengono condotti attraverso
l’anello di sutura del dispositivo protesico.

Figura 6 Sostituzione della valvola aortica con protesi stentless.


A. Una volta compiuto l’ancoraggio dell’anello di sutura all’anulus aortico, il tratto distale della protesi stentless deve essere a sua volta
ancorato alla parete della radice aortica.
B. La sutura distale completata.

SOSTITUZIONE VALVOLARE MITRALICA


Instaurato il bypass cardiopolmonare e ottenuto l’arresto cardioplegico, per accedere all’atrio sinistro si
utilizza in genere un’atriotomia sinistra anteriore allo sbocco delle vene polmonari destre. In alternativa si
può incidere l’atrio destro e quindi il setto interatriale. Una volta esposta la mitrale (Figura 7A), si procede alla
rimozione dei lembi (Figura 7B), avendo però cura di risparmiare parte dell’apparato di sostegno
sottovalvolare (corde tendinee primarie e loro inserzione sui muscoli papillari (Figura 7C). Infatti, la
discontinuazione del sostegno tendineo-papillare ha un effetto prognostico negativo sui risultati a distanza
della SVM a causa della modificazione geometrica che induce sul ventricolo sinistro, che tende ad assumere
un aspetto sferico anziché ellissoidale, una volta eliminato il sistema di ancoraggio dei muscoli papillari allo
scheletro fibroso del cuore.
Analogamente a quanto avviene per la protesi aortica, una serie di punti staccati ad “U”, rinforzati con
pledgtes in feltro di teflon in posizione sotto- o sopra-anulare vengono passati nell’anulus nativo, quindi
attraverso l’anello di sutura della protesi e infine annodati per ottenere la solidarizzazione tra strutture
biologiche e materiale protesico (Figura 7E). La procedura è completata con la deareazione e la riperfusione
miocardica.

Rischi specifici della sostituzione valvolare mitralica


Due aspetti tecnici aumentano il rischio legato alla SVM. Il primo riguarda la difficoltà di rimozione
completa delle calcificazioni dall’anulus mitralico: il calcio può infiltrare profondamente il miocardio e la sua
rimozione può provocare lesioni della parete libera del ventricolo sinistro. Il secondo riguarda il rischio di
ledere il ramo circonflesso della coronaria sinistra durante il posizionamento delle suture, con possibilità di
provocare un infarto miocardico intraoperatorio o un’infiltrazione emorragica della parete ventricolare
sinistra. Inoltre, la preservazione dell’apparato cordale può interferire con il libero movimento degli
elementi mobili delle protesi meccaniche, che deve quindi essere accuratamente verificato dopo
l’impianto.
Anche le manovre di deareazione devono essere eseguite con cautela, in quanto la protesi rigida in
posizione mitralica potrebbe provocare la rottura della parete ventricolare sinistra.
Figura 7 Sostituzione della valvola mitralica.
A. Esposizione della mitrale.
B. Rimozione della valvola.
C. Rimozione dei lembi con preservazione delle corde primarie.
D. Misurazione del diametro anulare.
E.Posizionamento dei punti di sutura sull’anulus nativo e sull’anello protesico.

CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALVOLA AORTICA

Nell’adulto si esegue quasi esclusivamente per l’insufficienza valvolare. Può essere effettuata per difetti primitivi delle diverse componenti
anatomiche della valvola aortica (anulus, commissure, lembi) o per insufficienza valvolare secondaria a patologia della radice aortica
(aneurismi degenerativi cronici o dissecazioni aortiche acute).
Il presupposto fondamentale è che i lembi siano morfologicamente normali, cioè non sclerotici e privi di calcificazioni.

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471 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Tecniche riparative dell’insufficienza aortica primitiva


Dipendono dal meccanismo che determina l’insufficienza. Questi i più comuni:

 Dilatazione anulare: si esegue una plastica commissurale con l’intento di avvicinare i lembi tra loro, diminuendo il diametro anulare e
aumentando l’area di coaptazione. Se coesiste un prolasso questo può venire corretto da una plastica asimmetrica delle commissure o
associando una plicatura del margine libero del lembo (Figura 8A).
 Prolasso di un lembo in valvola bicuspide: in genere è responsabile del prolasso il lembo fuso. La tecnica consiste nella resezione del
tessuto esuberante e nella ricostruzione del lembo, in genere associandola alla plastica commisurale (Figura 8B).

Tecniche riparative dell’insufficienza aortica secondaria


L’insufficienza aortica secondaria riconosce due diversi meccanismi patogenetici: in caso di aneurisma
espansivo che coinvolga la giunzione senotubulare, la trazione centrifuga esercitata sulle commissure
provoca dislocazione dei lembi e perdita della coaptazione centrale; nel caso delle dissecazioni aortiche,
invece, le commissure possono perdere il sostegno della parete aortica, determinando dislocazione
centripeta della commissura stessa e prolasso dei lembi.
In entrambi i casi la valvola aortica è in genere normale e può essere risparmiata: la ricostituzione della
radice aortica nelle giuste dimensioni ripristina la corretta disposizione anatomica dei lembi e la loro
corretta funzione. Questa può essere ottenuta con la semplice sostituzione protesica dell’aorta ascendente
e conseguente ricostruzione della giunzione senotubulare. Se la patologia aortica coinvolge la radice
l’intervento diventa più complesso. In quest’ultimo caso, due approcci simili sono stati messi a punto: il
reimpianto della valvola aortica secondo David e il rimodellamento della radice aortica secondo Yacoub. In
entrambi i casi è prevista l’exeresi totale dei seni di Valsalva, e quindi è inevitabile il reimpianto degli osti
coronarici sul condotto protesico col quale si sostituisce l’aorta prossimale.
Figura 8 Tecniche riparative dell’insufficienza aortica primitiva (vedi testo per le spiegazioni).

CHIRURGIA RIPARATIVA DELLA VALAVOLA MITRALICA


La chirurgia riparativa della stenosi mitralica (commissurotomia) è stato uno dei primi interventi della
cardiochirurgia: consisteva nella separazione delle commissure fuse eseguita manualmente a cuore chiuso,
cioè senza l’ausilio della circolazione extracorporea. La commissurotomia è stata poi per anni eseguita
anche a cuore aperto in visione diretta (Figura 9), ma attualmente è stata soppiantata dalla valvulotomia
percutanea, ed ha quindi quasi esclusivamente un valore storico.
La riparazione della mitrale si esegue pertanto quasi esclusivamente per insufficienza mitralica. In base ai
meccanismi patogenetici del vizio valvolare si possono identificare sostanzialmente tre tipi di insufficienza
mitralica, che richiedono approcci chirurgici diversi: 1) da esagerato movimento dei lembi (prolasso); 2) da
ridotto movimento dei lembi (alterazioni dell’apparato sottovalvolare o dilatazione del ventricolo sinistro
con allontanamento dei papillari e trazione sui lembi); 3) con normale movimento dei lembi (dilatazione
anulare o perforazione dei lembi).
Nel primo caso sarà necessario eliminare il tessuto ridondante (resezione dei lembi o accorciamento delle
corde tendinee), nel secondo restituire libertà di movimento per ottenere un aumento della superficie di
coaptazione (allungamento o sostituzione delle corde e anuloplastica restrittiva), nel terzo infine la
strategia chirurgica sarà valutata sulla base del meccanismo prevalente (anuloplastica o riparazione con
piccoli patches di eventuali perforazioni).

Chirurgia riparativa della mitrale per prolasso


Il lembo prolassante è quasi sempre il posteriore. Il tessuto esuberante viene quindi resecato e la continuità
del lembo ricostruita con una sutura a punti staccati o continua a sopraggitto. Nella resezione (di norma un

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472 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

frammento quadrangolare) viene incluso anche il corrispondente segmento di anulus mitralico su cui si
impiantava il tratto di lembo esuberante, che sarà preventivamente ricostruito con un punto in poliestere
(Figura 10).
E’ possibile che si associ un grado variabile di dilatazione anulare, per cui diventa opportuno eseguire
un’anuloplastica riduttiva con un apposito anello protesico (vedi oltre). L’impianto di un anello protesico dà
inoltre maggiore stabilità alla plastica.

Il coinvolgimento del lembo anteriore mitralico


Il prolasso del lembo anteriore, associate o meno al prolasso posteriore, è più difficile da trattare in quanto
la resezione del tessuto esuberante non ha portato a risultati soddisfacenti e il segmento anteriore
dell’anulus mitralico è fisso, cioè non riducibile chirurgicamente.
Una tecnica di facile applicazione consente tuttavia di ovviare spesso a questo problema: ancorando il
margine libero del lembo anteriore al corrispondente margine libero del lembo posteriore (plastica edge-
to-edge) si riesce a prevenire il ribaltamento del lembo anteriore verso l’atrio sinistro. La mitrale assume un
aspetto a “doppio orificio”senza che questo comporti una stenosi, in quanto la somma delle aree dei due
orifici è, di norma, più che sufficiente ad un passaggio del sangue di tipo non restrittivo (Figura 11).

Anuloplastica mitralica con anello protesico


L’impianto di un anello protesico rigido o flessibile, sovrapposto all’anulus mitralico nativo (Figura 12), può
essere eseguito con due scopi sostanziali: dare stabilità nel tempo ad altre procedure (per esempio, una
resezione quadrangolare del lembo posteriore o una plastica edge-to-edge), oppure ridurre le dimensioni di
un anulus nativo dilatato per patologia degenerativa primitiva o secondariamente a dilatazione del
ventricolo sinistro (frequentemente in casi di insufficienza mitralica secondaria a cardiomiopatia
ischemica).

Altri tipi di valvuloplastica mitralica


Interventi meno comuni sulla mitrale sono quelli di chirurgia cordale: ne esistono di due tipi, cioè la
traslocazione (sezione cordale e reinserimento del capo sezionato in modo tale da ripristinare la funzione di
contenimento, scegliendo la sede di reimpianto in funzione della lunghezza della corda) oppure la
sostituzione cordale con filamenti di politetrafluoroetilene, dopo exeresi delle corde rotte o allungate (Figura
13).
Infine, nel caso di perforazioni dei lembi conseguenti ad endocarditi con perdita di sostanza, è possibile
colmare le lacune dei lembi con delle piccole toppe (patches) in pericardio autologo con sottili suture in
polipropilene.
Figura 9 Commissurotomia mitralica.

Figura 10 Riparazione del prolasso del lembo mitralico posteriore.


A. Resezione quadrangolare del lembo posteriore con impianto di anello protesico completo.
B. Resezione quadrangolare con sliding (scivolamento) della base del lembo residuo.

Figura 11 Correzione del prolasso del lembo mitralico anteriore. Il margine libero del lembo anteriore viene ancorato al corrispondente
margine libero del lembo posteriore (plastica edge-to-edge) così da prevenire il ribaltamento del lembo anteriore verso l’atrio sinistro. La
mitrale assume un aspetto a “doppio orificio”.

Figura 12 Anuloplastica mitralica con anello protesico.

Figura 13 Valvuloplastica mitralica con impianto di corde artificiali.

CHIRURGIA DELLA VALVOLA TRICUSPIDE


La valvola tricuspide è raramente affetta da patologie primitive, sia acquisite che congenite. Tuttavia è
spesso secondariamente coinvolta nelle patologie valvolari del settore sinistro, soprattutto quella mitralica.
L’ipertensione polmonare di lunga data, quale che ne sia la causa, provoca dilatazione del ventricolo destro

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473 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

e conseguente dilatazione anulare tricuspidale, cui segue insufficienza valvolare da deficit di coaptazione
dei lembi (vedi Capitolo 14). Un’anuloplastica riduttiva ripristina le dimensioni dell’anulus e consente una
efficace giustapposizione dei lembi.
La tecnica più diffusa di anuloplastica tricuspidale è quella proposta da De Vega: consiste nella conduzione
di una sutura circonferenziale tipo “borsa di tabacco” lungo tutto l’anulus tricuspidale: la trazione sui capi
liberi consente di ridurre quindi la circonferenza anulare al livello desiderato.
Alternativamente, è possibile eseguire un’anulocommissuroplastica secondo Kay, che consiste
nell’obliterazione della commissura laterale, escludendo così un settore di anulus e riducendo l’area utile al
passaggio di sangue, mentre l’anulus stesso assume una forma a “racchetta”.

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474 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 64
CHIRURGIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA
Luigi Chiariello, Paolo Nardi
Elenco dei paragrafi

1. IL BY-PASS CORONARICO
2. INNESTI PER IL BYPASS CORONARICO
3. INDICAZIONI AL BYPASS CORONARICO

IL BY-PASS CORONARICO
Il bypass coronarico (coronary artery by-pass grafting, CABG), introdotto alla fine degli anni ’60 da Renè
Favaloro, è da circa 35 anni l’intervento chirurgico maggiore più diffuso nel mondo occidentale. La sua
diffusione è stata giustificata dagli ottimi risultati clinici in termini di sopravvivenza e libertà da eventi
sfavorevoli a distanza, risultati coi quali ogni tecnica alternativa di rivascolarizzazione è opportuno si
confronti.
Il CABG rappresenta la terapia chirurgica della cardiopatia ischemica, che nella grande maggioranza dei casi
è secondaria ad aterosclerosi ostruttiva dell’albero coronarico. Lo scopo di questo intervento è di saltare,
cioè aggirare (“bypassare”) il punto in cui l'arteria coronaria è stenotica o del tutto occlusa, permettendo
così l’irrorazione di quella parte di muscolo cardiaco del quale cui l’arteria è tributaria. L’intervento
tradizionale di CABG prevede l’accesso al cuore ed all’aorta del paziente mediante sternotomia mediana, il
prelievo dell’arteria mammaria interna (Figura 1) e/o della vena safena dall’arto inferiore (Figura 2), l’avvio
della circolazione extracorporea (vedi Capitolo 62) e l’arresto del cuore stesso con la cardioplegia. Il
chirurgo esegue quindi il/i bypass dopo aver praticato una piccola incisione sulla/e coronaria/e a valle del
punto di stenosi, suturando l’arteria mammaria nella sua estremità distale o il segmento di vena safena
autologa invertita (la safena è provvista di valvole che impedirebbero la progressione del sangue!) alla
coronaria. L’estremità prossimale della safena viene poi suturata all’aorta ascendente, da cui il sangue,
attraverso la vena stessa, raggiunge la coronaria, mentre l’estremità prossimale dell’arteria mammaria,
ramo dell’arteria succlavia, è già naturalmente collegata al sistema arterioso (Figura 3, Figura 4, Figura 5).

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475 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 1 Prelievo dell’arteria mammaria interna

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476 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 2 Prelievo della grande vena safena dalla gamba sinistra

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477 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Schema di intervento di bypass coronarico (CABG) con l’impiego dell’arteria mammaria interna (AMI) sinistra per il ramo
interventricolare anteriore (o discendente anteriore) e con vena safena autologa invertita per il ramo marginale ottuso dell’arteria
circonflessa.

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478 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 4 Schema di intervento di bypass coronarico: da notare che l’AMI viene lasciata in “situ”, cioè non viene staccata dall’arteria
succlavia da cui prende origine

Figura 5 Visualizzazione dei bypass coronarici mediante l’esame angio-TC cardiaca delle coronarie

INNESTI PER IL BYPASS CORONARICO


Gli innesti più frequentemente utilizzati per la rivascolarizzazione sono l’arteria mammaria interna (AMI) e
la vena safena invertita. La superiorità dell’AMI rispetto alla vena safena in termini di pervietà a distanza
(superiore al 95% rispetto a circa il 65% a 12 anni), di sopravvivenza (60% rispetto al 35%) e di maggiore
libertà da infarto miocardico e reintervento, rende routinario l’utilizzo dell’arteria mammaria interna
sinistra, in particolare per il ramo discendente anteriore della coronaria sinistra, il vaso più importante ai
fini prognostici perché responsabile di oltre il 50% dell’irrorazione del miocardio ventricolare sinistro.
Per l’ottima pervietà dell’arteria mammaria interna rispetto alla vena safena, si è anche esteso l’impiego di
entrambe le arterie mammarie (generalmente l’AMI destra per il ramo discendente anteriore, l’AMI sinistra
per il ramo marginale ottuso) (Figura 6) che rispetto all’uso dell’AMI singola si è confermato associarsi ad un
ulteriore miglioramento della sopravvivenza a 20 anni e ad una maggiore libertà da reintervento.
Per la minore pervietà a distanza, rispetto a quella evidenziata per l’arteria mammaria, sono meno
frequentemente utilizzati altri innesti arteriosi quali l’arteria radiale, la gastroepiploica e l’epigastrica (Figura
7).

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479 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 6 Impiego dell’arteria mammaria interna bilaterale (la destra per il ramo discendente anteriore e la sinistra per il ramo marginale
ottuso dell’arteria circonflessa).

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480 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 7 Prelievo dell’arteria radiale dall’avambraccio e dell’arteria gastroepiploica impiegata per bypass sulla coronaria destra.

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481 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

INDICAZIONI AL BYPASS CORONARICO


L’efficacia del CABG rispetto alla sola terapia medica per il trattamento della cardiopatia ischemica è stata
valutata da grandi trial i quali hanno avuto il merito di identificare i pazienti che più traggono beneficio
dalla chirurgia: il CABG risultava la metodica più efficace nel garantire migliore sopravvivenza e libertà da
eventi a lungo termine in presenza di: 1) malattia del tronco comune della coronaria sinistra (stenosi =50%),
2) malattia trivasale, 3) malattia bivasale con stenosi prossimale del ramo discendente anteriore. Il
beneficio della chirurgia risultava ancora più evidente in presenza di angina, prova da sforzo positiva,
ridotta funzione sistolica del ventricolo sinistro (frazione di eiezione <50%). Il CABG non offriva, invece,
vantaggi superiori alla terapia medica in presenza di malattia monovasale o bivasale con buona funzione
del ventricolo sinistro, senza coinvolgimento dell’arteria discendente anteriore.
Stato attuale della chirurgia coronarica. Durante gli anni di sviluppo ed espansione delle metodiche di
rivascolarizzazione percutanea, anche la chirurgia ha fatto importanti progressi, con notevole espansione
delle indicazioni al CABG. I pazienti sottoposti a intervento chirurgico sono oggi di età sempre più avanzata,
con maggiore incidenza di disfunzione ventricolare sinistra e di malattia multivasale, di comorbidità
associate (insufficienza renale, respiratoria, vasculopatia periferica, diabete, fumo, fattori di rischio
cardiovascolari) ed in genere con rischio più elevato.
I progressi della chirurgia sono legati all’affinamento delle tecniche di protezione miocardica e di emostasi
intraoperatoria, al miglioramento delle metodiche anestesiologiche e rianimatorie, all’impiego estensivo
dei graft arteriosi, in particolare dell’arteria mammaria interna bilaterale, alla possibilità di eseguire
interventi a cuore battente. Grazie a tali progressi, la mortalità per intervento di CABG è rimasta stabile,
intorno al 2%, nonostante la complessità dei pazienti chirurgici sia aumentata, visto che i casi di
coronaropatia con compromissione anatomica non molto grave e diffusa vengono oggi trattati con
angioplastica percutanea.
In conclusione, il CABG rappresenta il “gold standard” per il trattamento della malattia mutivasale e del
tronco comune per: a) bassa mortalità operatoria (circa 2%); b) risultati ineguagliati in termini di
sopravvivenza a lungo termine e libertà da eventi cardiaci maggiori; c) eccellenti risultati, confermati anche
in categorie di pazienti ad elevato rischio operatorio; d) pervietà dell’arteria mammaria interna >90% a
lungo termine; e) rischio minimo di ripetere una nuova rivascolarizzazione a distanza (0.5%/anno).
L’efficacia a lungo termine della chirurgia si basa essenzialmente su due razionali che la terapia medica o le
metodiche di angioplastica percutanea non hanno: 1) totale e più completa rivascolarizzazione: il bypass
coronarico consente il trattamento di qualsiasi tipo di lesione coronarica, anche la più complessa o
l’ostruzione completa, e non solo della lesione responsabile della sintomatologia, ma anche di tutte le altre
presenti (rivascolarizzazione completa); 2) pervietà a lungo termine degli innesti, in particolare di quelli
arteriosi (arteria mammaria), che favorisce la stabilità del risultato a distanza.

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482 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 65
CHIRURGIA DELLE CARDIOPATIE CONGENITE
Mario Chiavarelli, Gianluca Lucchese
Elenco dei paragrafi

1. DIFETTI DEL SETTO INTERATRIALE


2. DIFETTI DEL SETTO INTERVENTRICOLARE
3. PERSISTENZA DEL DOTTO ARTERIOSO
4. COARTAZIONE AORTICA
5. TETRALOGIA DI FALLOT
6. TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE

DIFETTI DEL SETTO INTERATRIALE


Il difetto interatriale necessita di terapia chirurgica solo in presenza di sovraccarico ventricolare destro. Di
solito un difetto interatriale della fossa ovale ha indicazione alla chiusura se il rapporto tra flusso
polmonare e flusso sistemico (Qp/Qs) è superiore a 2 oppure superiore a 1,5 nei difetti interatriali
complicati. Non c’è vantaggio in termini di risultati ad aspettare un’età superiore a 1-2 anni, anche se in
molti casi la diagnosi è successiva. L’età avanzata non costituisce controindicazione.
La terapia chirurgica consiste nella chiusura del difetto o per sutura diretta o mediante “patch” (toppa) di
pericardio o tessuto artificiale. L'approccio chirurgico mininvasivo ha trovato un crescente interesse per
ragioni estetiche. La chiusura di difetto interatriale con device (ombrellini), posizionati in corso di
cateterismo cardiaco (cardiologia interventistica) ha un’applicazione crescente nei casi non complicati.
Tra tutti i difetti interatriali, si deve porre particolare attenzione a quelli tipo cavale e seno coronarico per la
frequente associazione ad altre malformazioni cardiache fra cui ritorno venoso polmonare anomalo.

DIFETTI DEL SETTO INTERVENTRICOLARE


La presenza di un difetto interventricolare non costituisce indicazione a correzione chirurgica: i difetti
muscolari e perimembranosi, specialmente se piccoli, possono chiudersi spontaneamente in un'alta
percentuale di casi (fino al 50%). Questo processo generalmente si verifica entro i 5 anni. I difetti
interventricolari grandi non operati sono gravati da una mortalità del 9% nel primo anno di vita, e portano a
morte il 40% dei soggetti prima dei vent’anni e il 78% prima dei quaranta; circa il 25-45 % dei pazienti
sintomatici portatori di un difetto interventricolare deve essere operato entro il primo anno di vita per la
comparsa di insufficienza cardiaca.
L’indicazione chirurgica deve tener conto da un lato della probabilità di chiusura spontanea del difetto
interventricolare, dall’altro del rischio di mortalità per insufficienza cardiaca e di sviluppare malattia
vascolare polmonare, con conseguente ipertensione polmonare e inversione dello shunt, nei pazienti non
operati. L’intervento è condotto generalmente per via transatriale destra, dopo retrazione della valvola
tricuspide e consiste nel suturare un patch di tessuto artificiale ai margini del difetto, evitando di
danneggiare il tessuto di conduzione, che spesso è in relazione con il difetto interventricolare.
Se il peso del paziente è molto basso, o in caso di sepsi o di difetti multipli, può essere attuato il bendaggio
dell’arteria polmonare: un intervento palliativo che controlla l’iperafflusso polmonare e fa guadagnare
tempo per la correzione definitiva. La chiusura con device (ombrellino) in laboratorio di emodinamica è
possibile per casi selezionati.

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483 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

PERSISTENZA DEL DOTTO ARTERIOSO


Nei pazienti a termine il dotto può essere chiuso con una bassa incidenza di complicanze (meno dello 0,5%).
La chiusura può essere effettuata tradizionalmente mediante legatura, divisione o applicazione di clip
metallica. Attualmente l'occlusione endoluminale (cardiologia interventistica) o la legatura in toracoscopia
prevalgono sulla chirurgia tradizionale. Nel prematuro è indicato il trattamento farmacologico con
indometacina o ibuprofene, farmaci inibitori della ciclossigenasi. La chiusura chirurgica è indicata in caso di
inefficacia dei farmaci o ricorrenza della pervietà del dotto arterioso dopo una prima fase di chiusura.

COARTAZIONE AORTICA
Le tecniche impiegate per ricostruire o sostituire l’aorta nel suo tratto coartato sono molteplici e vanno
considerate in base all’età del paziente e al tipo di coartazione.
Flap di succlavia. L'utilizzo della succlavia come lembo (flap) per la ricostruzione dell'aorta implica
l’interruzione della succlavia sinistra e può essere eseguito se l'arteria è di dimensioni e decorso adeguati.
Nei pazienti di età inferiore ad un anno il sacrificio dell'arteria succlavia è compensato dallo sviluppo di un
circolo collaterale che assicura un’adeguata perfusione dell'arto superiore sinistro.
Resezione del tratto coartato ed anastomosi termino-terminale. È quasi sempre possibile ed applicabile e ha il vantaggio
di rimuovere il tessuto duttale. Ha indicazione anche nel trattamento dell’ipoplasia tubulare.
Aortoplastica con patch. Incisione della parete aortica e allargamento dell’arteria mediante sutura di patch ai
margini dell’aortotomia. Questa metodologia è impiegata nel bambino quando la coartazione è presente
per un lungo tratto di aorta o nel neonato quando l'intervento è eseguito in emergenza. Il vantaggio di
questa tecnica è la semplice eseguibilità, anche se sono possibili recidive e formazione di aneurisma.
Aortoplastica con condotto. L'interposizione di un condotto artificiale a sostituzione del tratto aortico coartato è
una tecnica oggi quasi abbandonata in età pediatrica, ma ancora impiegata nell'adulto.

TETRALOGIA DI FALLOT
La presenza di questa malformazione costituisce indicazione all’intervento chirurgico. La correzione a 2
stadi (palliazione con shunt sistemico-polmonare, seguita da riparazione), effettuata in passato in tutti i
casi, ha oggi indicazione limitata a bambini molto piccoli o situazioni particolari. La riparazione primaria può
essere eseguita anche in età neonatale ma è lo standard dopo i 6 mesi; l’età ottimale è i due anni di vita.
La chiusura del difetto interventricolare avviene per via transatriale destra; da questo accesso vengono
rimosse le bande muscolari ostruttive del ventricolo destro. Se questo non è sufficiente ad eliminare
l’ostacolo, l’infundibolo viene ampliato con un patch, che può essere esteso attraverso la valvola
polmonare (correzione con patch transanulare).
L’insufficienza della valvola polmonare è molto frequente dopo riparazione, ma viene ben tollerata per
molti anni e solo occasionalmente richiede l’inserzione di una protesi valvolare.

TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE


Nella trasposizione con setto interventricolare integro si inizia infusione di prostaglandina E1 alla nascita,
per mantenere il dotto aperto e favorire il mixing, e si corregge l’acidosi metabolica. In casi di mixing non
soddisfacente si procede alla settostomia atriale con pallone. Nella prima settimana e non più tardi di 30
giorni si esegue lo switch arterioso, ristabilendo la normale connessione tra ventricoli e grandi arterie e
reimpiantando le coronarie (correzione anatomica). Se il bambino viene proposto per correzione chirurgica
dopo le prime settimane di vita, il ventricolo sinistro è ormai abituato a pompare nel circolo polmonare a
basse resistenze e non è in grado di sostenere la circolazione sistemica. In questi casi si opta per una
correzione fisiologica con reorientamento dei flussi a livello atriale (intervento di Mustard o di Senning) in

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484 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

modo da ridirezionare il sangue venoso sistemico verso la mitrale e quello polmonare verso la tricuspide,
ristabilendo le circolazioni in serie.

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485 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 67
LA MALATTIA DEI TRONCHI SOPRAORTICI
Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

Elenco dei paragrafi

1. INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA


2. INDICAZIONI ALLA TERAPIA ENDOVASCOLARE
3. L’ANESTESIA NELLA CHIRURGIA DEI TRONCHI SOPRAORTICI
4. TECNICHE DI CHIRURGIA VASCOLARE

INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA


La conoscenza della patologia aterosclerotica, principale causa della malattia nel sistema cerebro-vascolare
extra-cranico, e dei suoi effetti sull’emodinamica arteriosa, ha permesso già negli anni ’50 la nascita della
chirurgia carotidea.
Il notevole sviluppo che questa chirurgia ha avuto negli anni successivi ha posto l’esigenza di individuare
gruppi e sottogruppi di pazienti, sia sintomatici che asintomatici, che potessero beneficiare del trattamento
chirurgico rispetto a quello medico nella prevenzione dell’ictus, a condizione che le complicanze operatorie
fossero inferiori alla morbilità e mortalità della popolazione non operata. L’obiettivo dei trial intrapresi è
stato quello di valutare l’efficacia dell’endo-arteriectomia carotidea nella prevenzione dell’ictus e quindi di
fornire indicazioni chirurgiche standardizzate. I più importanti studi multicentrici randomizzati condotti in
pazienti sintomatici sono stati il NASCET (North AmericanSymptomatic Carotid Endarterectomy Trial) e l’ECST
(European Carotid Surgery Trial), che hanno valutato gli effetti emodinamici di una stenosi carotidea sul flusso a
valle e il rischio emboligeno delle lesioni. I risultati hanno permesso di stabilire che per stenosi uguali o
superiori al 70%, responsabili di TIA o ictus lieve nei sei mesi precedenti, e con rischio chirurgico inferiore al
6%, la terapia chirurgica è superiore rispetto a quella medica perché diminuisce il rischio di ictus a 2 anni
dal 26% al 9%, con una riduzione ancor più vantaggiosa in presenza di placca ulcerata. Per contro, nei
pazienti con stenosi comprese tra il 50 ed il 69%, il tasso di ictus a 5 anni si riduce dal 22 al 17%. Si può
concludere che nei pazienti sintomatici, l’indicazione all’intervento chirurgico è certa per stenosi superiori al70%, mentre
nel caso di stenosi comprese tra il 50 ed il 69% vanno operati solo i pazienti a più alto rischio, e per stenosi
inferiori al 50% la chirurgia è una scelta inappropriata.
A volte anche le stenosi asintomatiche vanno sottoposte a trattamento chirurgico: il trial ACAS
(Asymptomatic Carotid Aterosclerosis Study) ha messo in luce una riduzione del rischio di ictus a 5 anni
dall’11% al 5% per stenosi superiori al 60%, e lo studio ACSRS (Asymptomatic Carotid Stenosis and Risk of
Stroke) ha individuato tre categorie di pazienti a rischio con stenosi superiori all’80%, concludendo che per i
soggetti con rischio inferiore all’1% non vi è indicazione chirurgica, per quelli con rischio superiore al 4%
l’indicazione è possibile solo se il rischio chirurgico è contenuto, mentre per i pazienti con rischio superiore
al 7% l’indicazione chirurgica è assoluta.

L’indicazione all’intervento chirurgico rimane valida anche in caso di stenosi generate da alterazioni del
decorso anatomico delle arterie carotidi (kinking o coiling) che determinino un’accelerazione del flusso tale da
creare conseguenze emodinamiche al circolo cerebrale.
In presenza di accertata patologia ostruttiva o emboligena carotidea in un paziente con deficit neurologico
lieve o moderato, con coscienza conservata, ed in particolar modo in caso di occlusione carotidea
controlaterale, si propende oggi per l’intervento chirurgico allo scopo di ripristinare la pervietà carotidea (in
caso di occlusione) o di eliminare la fonte emboligena (in caso di stenosi significativa o di placca “soft”).

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486 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

INDICAZIONI ALLA TERAPIA ENDOVASCOLARE


Una nuova svolta nel trattamento delle lesioni extra-craniche si è avuta di recente con l’introduzione della
metodica endovascolare (vedi Capitolo 59) che, anche se non ha cambiato le indicazioni al trattamento, ha
sostituito in alcuni casi la tecnica chirurgica tradizionale.
Anche in questo caso studi prospettici quali il NAPTAR (North American Percutaneous Transluminal AngioplastyRegister) e
il CREST (Carotid Revascularization Endarterectomy versus Stent Trial) hanno permesso di definire meglio il ruolo di
questa metodica, dimostrando che i suoi risultati in termini di morbilità e mortalità sono incoraggianti
soprattutto in casi selezionati, quali i pazienti ad alto rischio chirurgico, nelle restenosi successive ad
endoarteriectomia, nei colli ostili, nelle stenosi in soggetti irradiati, nelle lesioni distali della carotide
interna.

L’ANESTESIA NELLA CHIRURGIA DEI TRONCHI SOPRAORTICI


La tecnica anestesiologica praticata è in relazione al tipo di intervento che si intende eseguire: è possibile
un’anestesia locale in caso di tecnica endovascolare percutanea, oppure un’anestesia locoregionale o
generale in caso di intervento chirurgico tradizionale.
Nel primo caso si ha il vantaggio di mantenere la coscienza del paziente conservata, condizione utile
durante le fasi di interruzione della circolazione, ma con lo svantaggio di un mancato confort per il paziente
e di riflesso per il chirurgo. Tale situazione si annulla con l’anestesia generale, che però non permette al
chirurgo di verificare la coscienza del paziente al momento dell’interruzione della circolazione; si cerca di
ovviare a ciò tramite metodiche che predicono la necessità di utilizzare un cortocircuito temporaneo, detto
“shunt”, per mantenere la circolazione pervia durante l’intervento.

TECNICHE DI CHIRURGIA VASCOLARE


La tecnica chirurgica maggiormente praticata consiste nella endoarteriectomia carotidea (Figura 1, Figura 2), Questa
metodica consiste nel preparare accuratamente un tratto di arteria carotide comune e la sua biforcazione
e, dopo aver interrotto la circolazione, nell’eseguire una rimozione della placca dall’intero tratto interessato
dalla patologia aterosclerotica mediante uno scollamento a partenza dagli strati esterni della tonaca media
dell’arteria A questa fase segue la chiusura dell’arteriotomia, che si effettua mediante l’applicazione di un
“patch” di allargamento in materiale sintetico o biologico nel caso in cui la carotide interna appaia di calibro
ridotto.
Una variante dell’endoarteriectomia standard è l’endoarteriectomia per eversione, che consiste nel sezionare la carotide
interna, generalmente all’origine dalla biforcazione, evertere poi su se stessa la carotide interna sezionata
per poter eseguire la rimozione della placca mediante una spatola e infine nel ricostruire la continuità del
vaso.
Una ulteriore variante tecnica, utilizzata principalmente in caso di lesioni aterosclerotiche particolarmente
estese sulla carotide interna, consiste nell’eseguire un by-pass a partenza dalla carotide comune sino alla
carotide interna a valle della lesione, con sezione e legatura di quest’ultima.
La tecnica endovascolare (Figura 3, Figura 4) si effettua attraverso un accesso percutaneo e consiste nell’eseguire
un’angioplastica e l’applicazione di uno “stent”, con l’eventuale ausilio di meccanismi di protezione, volti ad
evitare l’embolizzazione della placca, posizionati prima di espandere lo stent (vedi Capitolo 60).

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487 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 1 Intervento di tromboendoarteriectomia (TEA) carotidea.

Figura 2 Particolare chirurgico della biforcazione carotidea dopo intervento di tromboendoarteriectomia (A) e delle placche
aterosclerotiche asportate (B).

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488 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Figura 3 Illustrazione schematica di impianto di stent carotideo.

Figura 4 Immagini angiografiche di stenosi preocclusiva dell’arteria carotidea interna (A), posizionamento di filtro e di stent (B), controllo
dopo impianto di stent (C).

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489 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

Capitolo 68
LE ARTERIOPATIE PERIFERICHE
Francesco Spinelli, Giovanni De Caridi, Michele La Spada

Elenco dei paragrafi

 DEFINIZIONE DI INSUFFICIENZA ARTERIOSA


 INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA
 TECNICHE CHIRURGICHE
 COMPLICANZE

DEFINIZIONE DI INSUFFICIENZA ARTERIOSA

L’insufficienza arteriosa cronica è caratterizzata da un’alterazione della perfusione con progressiva


compromissione della vascolarizzazione distale.
La classificazione dell’ischemia critica secondo Leriche-Fontaine (vedi Capitolo 55) definisce la severità
funzionale dell’arteriopatia periferica ma non delinea chiaramente il livello di gravità della malattia e il
rischio evolutivo legato alle lesioni aterosclerotiche. Proprio tale parziale corrispondenza tra stadio clinico e
lesioni arteriose sottostanti ha condizionato per molto tempo l’iter decisionale. In passato, infatti,
un’arteriopatia al secondo stadio era prevalentemente appannaggio della terapia medica, e solo la
comparsa di dolore a riposo o di turbe trofiche conducevano alla terapia chirurgica.
Questo concetto va oggi rivisto in considerazione di due fattori. Il primo è la migliore conoscenza della
storia naturale della malattia, che può comportare la distruzione irreversibile del letto a valle, il secondo è il
ruolo sempre più importante assunto dalla terapia endovascolare, che offre un’alternativa poco invasiva,
anche se talvolta meno efficace, alla terapia chirurgica tradizionale.

INDICAZIONI ALLA TERAPIA CHIRURGICA

L’ischemia funzionale al I stadio non rappresenta un’indicazione chirurgica, ma rivela un rischio vascolare
multi-focale e dunque la necessità di un’indagine multi-sistemica del rischio aterosclerotico e di un
successivo piano di sorveglianza.
L’ischemia funzionale al II stadio rappresenta un’indicazione relativa all’intervento chirurgico, e ciò dipende
dalla conoscenza della storia naturale della claudicatio intermittens, che a 5 anni prevede una stabilizzazione o
un miglioramento nel 50% dei casi, una progressione della sintomatologia nel 15% dei casi, il ricorso a un
intervento chirurgico nel 25% dei pazienti e un’amputazione maggiore in meno del 4%.
Elementi quali il grado di claudicatio, l’età, le condizioni generali, lo stile di vita e la presenza o meno di circolo
collaterale condizionano le indicazioni terapeutiche. Nel caso di una claudicatio lieve o moderata da
ostruzione sotto-inguinale, soprattutto in pazienti anziani, è consigliabile il solo controllo dei fattori di
rischio per frenare e stabilizzare l’evoluzione della malattia e una terapia farmacologica anti-trombotica e
vasoattiva. Per contro, la presenza di unaclaudicatio severa causata da un deficit arterioso sopra- o sotto-
inguinale può avvalersi, oltre che della terapia farmacologica, anche della rivascolarizzazione chirurgica o
endovascolare.
L’ischemia critica (stadi III e IV) costituisce un’indicazione assoluta a un intervento terapeutico invasivo in
tutti i casi in cui non vi sia un’adeguata risposta alla terapia farmacologica, sempre che esistano le
condizioni tecniche per una ragionevole probabilità di successo. Nell’ambito del IV stadio, una

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490 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

considerazione a parte meritano i pazienti portatori di lesioni gangrenose estese all’avampiede e al tallone
ma che non hanno ancora una compromissione irrimediabilmente delle funzioni di appoggio del piede.
Queste situazioni necessitano un intervento terapeutico rapido ed efficace, mentre l’indicazione alla
terapia medica è limitata ai soli pazienti in cui tale situazione sia espressione di danno arterioso-capillare.

TECNICHE CHIRURGICHE

Il trattamento dell’ischemia cronica è basato su un’ampia varietà di by-pass e di tecniche di disostruzione,


cui recentemente si è aggiunta l’opzione della terapia endovascolare. La scelta fra queste diverse
metodiche è influenzata da numerosi fattori quali la topografia delle lesioni (sopra- o sotto-inguinali), la
loro natura (obliterante o emboligena) e il tipo di compromissione del vaso (stenosi od occlusione). Per la
tecnica convenzionale bisogna tener conto dell'afflusso, comunemente indicato con il termine inglese
“inflow”, a livello del sito dell’anastomosi prossimale del by-pass, dell’efflusso (“outflow” o “run-off”) delle
arterie riceventi, e della disponibilità di materiale protesico. Per quanto riguarda la strategia endovascolare,
invece, la scelta è influenzata dalla sede e dalla lunghezza della lesione, dal tipo e dalla morfologia
dell’ostacolo al flusso e dalla condizione del run-off.
La notevole diffusione e il ruolo sempre più importante assunto dalla terapia endovascolare ha stravolto
l’approccio al trattamento dell’ischemia critica. La rapida evoluzione dei materiali endovascolari ha
allargato notevolmente le potenzialità della metodica, e numerosi studi hanno suggerito che il primo
approccio all’ischemia critica sia la terapia endovascolare, la quale permette di affrontare in maniera poco
invasiva sia le occlusioni che le stenosi e le placche ateromatose friabili.
Per quanto riguarda il trattamento chirurgico tradizionale, le opzioni sono il by-pass, la tromboendoarteriectomia e
laprofundoplastica. Il by-pass consiste nel superamento dell’ostruzione tramite un ponte che viene impiantato
prossimalmente alla lesione, su un segmento di arteria sana, ed ha il punto di arrivo su un tratto di arteria
sana distale alla lesione.
Il by-pass femoro-popliteo sopra-articolare è indicato se i vasi distali sono integri, mentre in presenza di
occlusione completa della poplitea sottoarticolare si rende necessario un by-pass distale (destinato ai vasi
del terzo inferiore di gamba o del piede) quando vi è almeno un vaso di gamba pervio. Le opzioni
chirurgiche prevedono: by-pass in venaautologa e in particolar modo in vena grande safena nelle due varianti
“invertita” e “in situ”, lasciata cioè nella sua sede naturale (Figura 1), oppure by-pass in protesi sintetica, o ancora by-
pass compositi combinando in varia maniera materiale venoso e protesico.
La vena autologa costituisce il materiale migliore per il basso rischio di infezione e per la presenza, sulla
superficie di flusso, di uno strato endoteliale vitale che, insieme alla componente elastica, riduce
sensibilmente la trombogenicità, soprattutto in prossimità delle sedi anastomotiche. Tra le vene autologhe
si distingue per lunghezza, diametro e posizione anatomica la vena grande safena (VGS), che decorre lungo
tutto l’arto inferiore e può consentire di eseguire un by-pass fino alle arterie pedidia e plantare. Se la VGS
non è presente per pregressi interventi chirurgici (by-pass aorto-coronarici, stripping per varici) o non ha un
calibro adeguato viene utilizzata la vena piccola safena o, se anche questa è inadeguata o assente, le vene
dell’arto superiore.
Nel by-pass in vena grande safena invertita, è necessario lo scollamento del segmento venoso scelto per il
pontaggio e la sua inversione al momento di confezionare le anastomosi prossimale e distale. In caso di by-
pass in vena grandesafena in situ, si rende necessaria la preparazione completa del segmento venoso ma si esegue
uno scollamento solo del tratto iniziale e di quello distale per permettere il confezionamento
dell’anastomosi prossimale e, dopo aver devalvulato la vena con appositi strumenti (valvulotomi o
stripper), anche di quella distale. A pontaggio eseguito, si dovrà effettuare un’attenta legatura dei rami
collaterali della vena grande safena sotto visione diretta, angiografica, angioscopica o con l’ausilio di uno

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strumento Doppler, dato che se i collaterali della vena “arterializzata” rimanessero pervi si realizzerebbe un
“furto” di sangue dal distretto arterioso a quello venoso .
I materiali protesici, indispensabili nei casi in cui non vi sia materiale autologo adeguato, possono essere
biologici e di materiale sintetico, principalmente polimerico. Tra i primi annoveriamo le protesi omologhe
arteriose e venose, segmenti vasali, freschi o conservati, prelevati da cadaveri. Il problema principale di
queste protesi è rappresentato dal basso tasso di pervietà a distanza e dalla frequente degenerazione
aneurismatica. Sono anche disponibili protesi eterologhe, vasi di animali modificati in laboratorio, come ad
esempio l’arteria carotide bovina fissata con glutaraldeide. Queste non presentano una significativa perdita
di stabilità strutturale e mostrano risultati di pervietà buoni nel distretto sopra-popliteo ma insufficienti a
livello sotto-popliteo .
Le protesi di materiale sintetico (Dacron, Teflon, ePTFE) offrono numerosi vantaggi quali l’impermeabilità e
la biocompatibilità, ma presentano il limite della quasi totale assenza di “compliance”, cioè di quella
capacità di ritorno elastico durante la fase diastolica che i vasi possiedono. Questa differenza di
“compliance” tra protesi e arterie comporta problemi emodinamici che inducono l’iperplasia peri-
anastomotica, responsabile della bassa pervietà a distanza dei by-pass femoro-tibiali in protesi sintetiche.
Per migliorare l’esito a lungo termine di questi interventi sono stati escogitati numerosi espedienti tecnici,
che prevedono l’uso di un collare venoso o di un patch venoso interposto nel punto d’anastomosi tra
protesi artificiale e arteria nativa.
I risultati della chirurgia tradizionale riportano pervietà a 6 anni dei by-pass femoro-poplitei sopra-articolari
in materiale venoso pressochè sovrapponibili a quelli eseguiti in PTFE (76% vs 68%). Per i by-pass femoro-
poplitei sotto-articolari, la pervietà a distanza è del 67% per quelli eseguiti in vena e del 39% per quelli in
PTFE. Per le rivascolarizzazioni femoro-distali la pervietà è maggiore per i by-pass in vena safena in situ
rispetto a quelli eseguiti utilizzando le vene del braccio o le protesi in PTFE.
La tecnica endovascolare consiste nell’eseguire, attraverso un accesso percutaneo in anestesia locale,
un’angioplastica con eventuale applicazione di stent. Nel caso di lesioni stenotiche, si esegue una procedura
transluminale, mentre nel caso di ostruzione un’alternativa a questa metodica è quella sottointimale. Per
eseguire la tecnica transluminale si oltrepassa la stenosi con una guida metallica flessibile, sulla quale si
inserisce nel vaso un catetere che reca all’estremità distale un palloncino gonfiabile; questo viene portato
in corrispondenza della stenosi ed espanso, provocando il rimodellamento o la rottura della placca
aterosclerotica e lo stiramento della media e dell’avventizia (Figura 2). Nell’approccio sottointimale, invece,
la guida viene fatta avanzare non nel lume, ma all’interno della parete, sotto l’intima, e dopo aver superato
l’occlusione viene fatta rientrare nel lume arterioso vero, dilatando il tratto occluso mediante un catetere a
palloncino.

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Figura 1 Foto intraoperatoria di by-pass femoro-pedidio in Vena Grande Safena in situ (A) e particolare dell’anastomosi distale sull’arteria
pedidia (B).

Figura 2 Immagini angiografiche di occlusione dell’arteria femorale superficiale (A), dilatazione con pallone (B), risultato post-angioplastica
(C).

COMPLICANZE

Nella valutazione delle complicanze che possono insorgere a seguito di un intervento chirurgico vascolare a
carico degli arti inferiori bisogna tener conto di un duplice aspetto: l’intervallo temporale di insorgenza e la
relazione fra la complicanza e la procedura eseguita.
Per quanto riguarda l’aspetto temporale si distingue un periodo postoperatorio precoce (entro 30 giorni) e
uno tardivo (dopo 30 giorni).
Riguardo al secondo aspetto le complicanze possono essere distinte in specifiche e non specifiche. Le prime
sono ulteriormente suddivise in vascolari locali (stenosi, trombosi e infezione del by-pass o emorragia) e
non-vascolari locali.
La metodica endovascolare ha ridotto la percentuale di queste complicanze, ma ne ha aggiunte altre, tra cui

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493 Manuale di Malattie Cardiovascolari – Società Italiana di Cardiologia

quelle nel sito di puntura (ematoma, pseudo-aneurisma, fistola artero-venosa, trombosi), e quelle nella
sede di dilatazione, di cui la più importante è la dissezione vasale con formazione di un flap intimale, che
può essere trattato con una nuova dilatazione e l’impianto di uno stent.
Una trattazione a parte merita l’ischemia acuta, che può assumere un aspetto drammatico se non si è
creato nel corso del tempo un circolo collaterale. Le cause sono rappresentate nella maggior parte dei casi
da embolia cardiogena (per esempio in corso di fibrillazione atriale o di trombosi all’interno delle camere
del cuore sinistro), o da emboli a partenza da aneurismi dell’aorta o di arterie dell’arto colpito da ischemia.
Nei restanti casi l’ischemia acuta dipende da traumi vascolari.
Il trattamento si basa sulla terapia medica anticoagulante (per evitare la progressione del trombo),
trombolitica (per sciogliere il trombo) o su quella chirurgica, che prevede la rimozione dell’embolo tramite
un catetere a palloncino o il by-pass.

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