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ANATOMIA

PATOLOGICA

A cura di Giovanna Papparella


INTRODUZIONE ...................................................................................................................................................................1

MALATTIE DELL’ESOFAGO ...................................................................................................................................................3

MALATTIE DELLO STOMACO .............................................................................................................................................16

MALATTIE DEL FEGATO ......................................................................................................................................................30

MALATTIE COLESTATICHE ..................................................................................................................................................71

MALATTIE DELLE VIE BILIARI EXTRA-EPATICHE ..................................................................................................................76

COLECISTI ..........................................................................................................................................................................79

SINDROMI DA MALASSORBIMENTO .................................................................................................................................83

POLIPI E NEOPLASIE DEL COLON .......................................................................................................................................93

APPENDICE .....................................................................................................................................................................107

NEOPLASIE DEL CANALE ANALE ......................................................................................................................................108

ENTEROCOLITI ................................................................................................................................................................113

MALATTIA ISCHEMICA INTESTINALE ...............................................................................................................................121

MALATTIE DEL PANCREAS ...............................................................................................................................................123

MALATTIE DEL SISTEMA EMOPOIETICO E LINFOIDE ........................................................................................................134

MALATTIE DEL TIMO ....................................................................................................................................................... 184

MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO .....................................................................................................................189

MALATTIE DELLA LARINGE ..............................................................................................................................................246

MALATTIE DI NASO E OROFARINGE .................................................................................................................................249

PATOLOGIE NEOPLASTICHE DELLE GHIANDOLE SALIVARI ................................................................................................256

MALATTIE DELL’APPARATO CARDIOCIRCOLATORIO ....................................................................................................... 268

MALATTIE DEL RENE ........................................................................................................................................................312

NEOPLASIE DELLE VIE URINARIE .....................................................................................................................................366

MALATTIE DELL’APPARATO GENITALE MASCHILE ............................................................................................................370

PATOLOGIE DELLA MAMMELLA .......................................................................................................................................381

MALATTIE DELL’APPRARATO GENITALE FEMMINILE .......................................................................................................413

MALATTIE DEL SISTEMA ENDOCRINO .............................................................................................................................459

MALATTIE DELLA CUTE ....................................................................................................................................................501

MALATTIE NEOPLASTICHE DELL’OSSO ...........................................................................................................................526

NEOPLASIE DEI TESSUTI MOLLI .......................................................................................................................................533

MALATTIE NON NEOPLASTICHE DEL MUSCOLO SCHELETRICO E DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO .........................539

MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE ................................................................................................................556

Le fonti sono le dispense del canale B (anno 2022-2023) e la dispensa del 2020-2021; le parti integrate dalla dispensa
sono scritte in corsivo o indicate con la dicitura “dispensa” nel titolo.
INTRODUZIONE ALL’ANATOMIA PATOLOGICA
Screening

Il primo passo per identificare una neoplasia è lo screening, ovvero un controllo periodico che consente di
identificare una neoplasia in uno stadio precoce, prima che essa si manifesti clinicamente. Lo screening è
indirizzato ad una ampia popolazione, è economico, non traumatico, non fastidioso e non espone il
paziente a rischi inutili (ad esempio la TC, vista l’elevata esposizione a radiazioni che comporta, non può
essere adoperata in metodiche di screening).
Esempi di screening sono il Pap-test per il tumore dell’utero e gli screening indirizzati ad identificare
neoplasie della mammella e del colon. Esistono anche metodiche di screening indirizzate a popolazioni
specifiche esposte a rischi professionali, ma tali indagini risultano più complesse, più costose e più invasive.
Non tutte le neoplasie si prestano a metodiche di screening.

Il primo momento della diagnosi è rappresentato dal dialogo con il paziente, volto ad indagare familiarità,
fattori di rischio, storia clinica personale e sintomatologia. Il paziente è poi sottoposto ad esami utili per la
diagnosi e la stadiazione della patologia e infine si ha la terapia, che consiste in eventuale terapia adiuvante
e rimozione chirurgica della neoplasia.

Stadiazione clinica e patologica

La stadiazione clinica di una neoplasia maligna consiste nella definizione della sede di origine e dell’entità
della diffusione della neoplasia, sia nel sito di origine che in altri distretti, e si basa su:
- Esame obiettivo
- Test di imaging (ecografia, TC, PET, endoscopia, broncoscopia)
- Biopsia delle lesioni identificate (biopsie istologiche, citoaspirati)
La diagnosi citologica/istologica viene effettuata in tutte le fasi della stadiazione clinica e si basa su:
- Ultrasonografia con prelievi mirati
- TAC con prelievi mirati
- Endoscopia o endoscopia associata ad ecografia, che permettono il prelievo di tessuti
- Toracentesi e paracentesi

La stadiazione patologica può essere definita solo nei pazienti sottoposti ad un intervento di rimozione o
ad un intervento esplorativo per valutare l’estensione della neoplasia e si basa sul T.N.M.:
- T → identifica la lesione primitiva e ne descrive l’aumento progressivo e l’estensione
o Tx: il tumore primario non può essere identificato
o T0: non c’è evidenza della presenza di un tumore primario
o Tis: carcinoma in situ
o T1-4: indica la dimensione del tumore
- N → definisce la presenza di metastasi linfonodali
o Nx: non è possibile valutare le regioni linfonodali limitrofe
o N0: nessuna invasione linfonodale
o N1-3: indica il grado di invasione linfonodale
- M → definisce la presenza di metastasi a distanza
o M0: no metastasi
o M1: si metastasi
La stadiazione patologica permette anche di definire l’operabilità del paziente: operare un paziente con
metastasi a distanza multiple e sintomi gravi è inutile e deleterio, ma va ovviamente esaminato caso per
caso. La diagnosi di anatomia patologica deve fornire informazioni al chirurgo e all’oncologo circa le
dimensioni del tumore, l’istotipo, il rapporto con gli altri organi, lo stadio e il grado di differenziazione.
Tutte queste sono caratteristiche necessarie per impostare una terapia specifica per il paziente

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Markers tumorali

Si tratta di proteine del siero che caratterizzano la presenza di un tumore.


Alcuni markers sono tumore specifici, come PSA e β-HCG per i tumori della prostata, mentre altri possono
caratterizzare più tumori e pertanto sono meno sensibili e specifici, come:
- α-fetoproteina → epatocarcinomi e tumori del testicolo
- Ca19.9 → tumori gastroenterici, delle vie biliari e adenocarcinomi
- Ca125 → tumori di ovaio, pancreas e mammella
- Ca15.3 → tumori della mammella
- CEA → tumori gastroenterici e adenocarcinomi
- NSE (enolasi neurone specifica) e cromatina A → tumori neuroendocrini
- Cyfra 21-1 → adenocarcinomi
- LDH → linfomi

Stadiazione post-trattamento e restaging

Lo staging post-terapia o post-terapia neoadiuvante ha lo scopo di valutare la neoplasia dopo una terapia
sistemica e/o una radioterapia con intenti citoriduttivi. Lo staging post-terapia si esegue quando la
stadiazione clinica e la caratterizzazione istologica evidenziano una diffusione tale della neoplasia per cui
l’intervento chirurgico non risulterebbe curativo; ciò è tipico di tumori molto aggressivi ed inizialmente
silenti, come quelli al polmone o all’ovaio, che vengono quindi identificati quando hanno ormai raggiunti
dimensioni ingenti e sono presenti metastasi a distanza.
Il restaging determina l’estensione della neoplasia in caso di recidiva post-trattamento; la recidiva è
frequente soprattutto negli epatocarcinomi.

Metodiche usate nella diagnosi istologica

Le principali metodiche usate nella diagnosi istologica sono:


- Ematossilina eosina → colorazione di routine per l’istologia, permette di valutare la morfologia di
cellule e tessuti, eventuali alterazioni e distorsioni della morfologia, infiltrato infiammatorio,
necrosi ed indice mitotico. Nelle neoplasie permette di valutare l’istotipo tumorale, il grado di
differenziazione (grado) e l’estensione della neoplasia (stadio).
Con questa colorazione il nucleo della cellula appare blu, mentre il citoplasma rosa: nelle cellule
normali prevale il citoplasma, ma vi possono essere casi patologici di inversione del rapporto
nucleo-citoplasma.
- Immunoistochimica → metodica che consente di evidenziare la presenza di un determinato
antigene all’interno di un tessuto grazie ad un anticorpo marcato con fluoresceina o una sostanza
enzimatica. L’antigene da ricercare varia in base a ciò che l’anatomo patologo osserva con
l’istologia.
- Esame estemporaneo → esame intraoperatorio che punta ad inquadrare il processo patologico,
quindi permette di confermare i margini del tumore e lo staging. La biopsia chirurgica viene
inglobata in una particolare resina, detta OCT, che solidifica a basse temperature, preserva il
tessuto e forma un supporto rigido necessario per il taglio delle sezioni; viene infatti adoperato un
criostato che consente di ottenere una sezione di tessuto congelata da analizzare successivamente.

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MALATTIE E TUMORI DELL’ESOFAGO

L’esofago si sviluppa dalla porzione craniale dell’intestino primitivo e si estende dalla faringe alla giunzione
gastro-esofagea.
L’esofago è l’organo più posteriore della cavità toracica e prende rapporto con la trachea anteriormente e
con l’aorta, prima lateralmente poi vi passa anteriormente, pertanto le neoplasie esofagee possono
infiltrare i grossi vasi e i rapporti anatomici dell’organo lo rendono
difficilmente trattabile dal punto di vista chirurgico.
L’esofago è un organo cavo e la parete è costituita da epitelio
squamoso stratificato non cheratinizzato che poggia sulla
membrana basale, lamina propria, muscolaris mucosae, tonaca
sottomucosa, costituita da tessuto connettivo lasso ricco di vasi
ematici e linfatici, tonaca muscolare e avventizia, quest’ultima
molto sottile. Le neoplasie infiltranti, ovvero le neoplasie in cui si
ha il superamento della membrana basale che divide lo strato
epiteliale dalla lamina propria, entrano subito in contatto con vasi
ematici e linfatici, pertanto si possono avere metastasi linfonodali
anche negli stadi più precoci.
A livello di linea Z si ha il passaggio tra l’epitelio squamoso
dell’esofago e l’epitelio colonnare gastrico: si parla di giunzione squamo-colonnare (visibile nell’immagine
in basso); endoscopicamente la mucosa esofagea risulta colore rosa-biancastro e di aspetto madreperlaceo,
mentre la mucosa gastrica risulta più spessa e di colore rosa salmone intenso.

MALATTIA DA REFLUSSO GASTRO-ESOFAGEO

La malattia da reflusso gastro-esofageo, GERD o MRGE, è una patologia infiammatoria che interessa il
terzo inferiore dell’esofago ed è caratterizzata da sintomi come pirosi, rigurgito, nausea, vomito e tosse
cronica. Nonostante sia più comune dopo i 40 anni, può manifestarsi in tutte le età, compresa l’età
infantile: nei bambini e nei lattanti prevalgono la sintomatologia asmatica, le apnee ostruttive e le carie
dentarie.
L’incidenza della GERD è maggiore nei paesi industrializzati, come USA e Europa; vi sono alcuni cibi
scatenanti, che devono essere evitati per ridurre la sintomatologia, come caffè, cioccolato, succhi di frutta
alla pera, ecc. A migliorare la sintomatologia possono contribuire la perdita di peso e l’esercizio fisico.

La causa più comune di MRGE è il rilasciamento transitorio dello sfintere esofageo inferiore e tra le
condizioni che riducono il tono dello sfintere esofageo inferiore ritroviamo alcol, tabagismo, obesità,
gravidanza, farmaci ad azione depressiva sul SNC, ernia iatale, svuotamento gastrico ritardato e aumento
del volume gastrico.
L’epitelio squamoso dell’esofago resiste alle abrasioni da cibo, ma è sensibile agli acidi, quindi viene
danneggiata dal reflusso del contenuto gastrico.

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Tramite endoscopia è possibile rilevare delle alterazioni macroscopiche, come erosioni, ulcerazioni o
cambianti di colorazione della mucosa esofagea, ma viene comunque eseguita una biopsia.
In caso di infiammazione acuta i principali mediatori sono rappresentati dai granulociti neutrofili ed
eosinofili, mentre in caso di infiammazione cronica prevalgono linfociti e plasmacellule. Nelle esofagici da
GERD prevalgono i neutrofili e gli eosinofili, ma questi ultimi non superano i 7/8 su campo 40x.
La presenza di un infiltrato infiammatorio nell’epitelio squamoso determina lo sfaldamento dell’epitelio di
superficie e un aumento del turnover cellulare: la perdita dell’epitelio stimola la proliferazione dell’epitelio
limitrofo, con ispessimento dello strato basale, che è deputato al turnover epiteliale, con conseguente
allungamento delle papille: le papille della lamina propria si allungano e arrivano fino al terzo superiore
dell’epitelio. Si hanno quindi aspetti di acantosi e papillomatosi.
Il ciclo vitale dell’epitelio squamoso è di circa 12-13 giorni, ma può arrivare a 20 giorni nei punti in cui
l’epitelio è maggiormente protetto dallo sfaldamento; le cellule nello strato basale sono cellule in attiva
proliferazione, con una rapporto nucleo-citoplasma a favore del nucleo e sono quindi cellule che risultano
più scure alla colorazione, mentre man mano che si sale verso la superficie le cellule invecchiano, si ha una
riduzione degli organelli citoplasmatici e il nucleo va in picnosi, fino ad arrivare allo strato superficiale, dove
le cellule vengono eliminate. Quindi, la chiarificazione dell’epitelio squamoso coincide con un meccanismo
di senescenza cellulare, ovvero con la perdita degli organelli citoplasmatici.

Molto importante è la diagnosi differenziale tra GERD ed esofagite eosinofila, che hanno una
sintomatologia simile. Una prima distinzione può essere fatta mediante endoscopia: nella GERD si
osservano lesioni ulcerative, mentre nella esofagite eosinofila si hanno lesioni ad anelli concentrici, tanto
che si parla di trachealizzazione dell’esofago. Spesso però l’endoscopia non è sufficiente e la diagnosi
differenziale è possibile solo sulla base dell’istologico: nell’esofagite eosinofila l’infiltrato eosinofilo è
imponente, con più di 20 eosinofili in un campo 40x, e può essere focale o esteso, mentre nella GERD
l’infiltrato è meno cospicuo (7/8 eosinofili). Altri aspetti patognomonici dell’esofagite eosinofila sono
microascessi costituiti da eosinofili, degranulazione degli eosinofili, aumento dei mastociti, desquamazione
superficiale, aumento dei linfociti intraepiteliali CD8+ e fibrosi della lamina propria.

Possibili complicanze
dell’esofagite da GERD
sono: ulcera, ematemesi,
melena, stenosi ed
esofago di Barrett.

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ESOFAGO DI BARRETT

L’esofago di Barrett è una complicanza della MRGE ed è una metaplasia, ovvero una alterazione reversibile
in cui un tipo cellulare differenziato è sostituito da un altro tipo cellulare, diversamente differenziato, più
adatto ad affrontare determinante condizioni ambientali. In questo caso la persistenza del reflusso gastro-
esofago, a carattere acido, determina l’irritazione della mucosa esofagea e il passaggio da epitelio
pavimentoso pluristratificato ad epitelio colonnare.
La metaplasia inizialmente è di tipo cardiale, cardio-
fundica o cardio-pilorica, ovvero presenta caratteristiche
dello stomaco, in modo da resistere al pH acido, ma
successivamente compaiono aspetti di intestinalizzazione,
con la presenza di globet cells, e si parla di metaplasia
colonnare specializzata.
La scuola americana sostiene, a differenza di quella
europea, che si possa effettivamente parlare di esofago di
Barrett solo in presenza di una metaplasia colonnare
specializzata (“no goblet no Barrett”).

Da un punto di vista endoscopico si osservano invece lingue di mucosa


gastrica, di colore rosa salmone, che si elevano oltre il livello della Z line e
in base alla loro estensione è possibile distinguere:
- Long-Segment Barrett Esophagus, LSBE → lingue di mucosa
colonnare si estendono per più di 3 cm
- Short-Segment Barrett Esophagus, SSBE → le lingue di mucosa
colonnare si estendono per massimo 3 cm
- Very Short-Segment Barrett Esophagus, VSSBE → le lingue di
mucosa colonnare si estendono per meno di 1 cm
L’esofago di Barrett può divenire il substrato per lo sviluppo di una
displasia e successivamente di una lesione cancerosa e il rischio di un
evento displastico è tanto maggiore tanto è maggiore l’estensione delle lesioni metaplasiche.
I pazienti con esofago di Barrett vanno quindi monitorati con un attento follow-up: se non si hanno lesioni
displastiche sono necessari controlli endoscopici ogni due anni, mentre in caso di displasia i controlli
endoscopici vanno eseguiti ogni 6 mesi. Dal momento che alcune micro-lesioni displastiche possono essere
osservate da un operatore ma non da un altro è consigliabile essere seguiti sempre dallo stesso specialista,
in modo da monitorare l’evoluzione della condizione.

ESOFAGITE EOSINOFILA

L’esofagite eosinofila si presenta con una sintomatologia simile alla MRGE: disfagia, odinofagia, pirosi,
reflusso, nausea, dolore epigastrico e vomito; nei bambini si associa spesso ad intolleranze alimentari.
L’esofagite eosinofila si presenta spesso in pazienti con una storia di atopia, quindi con dermatite atopica,
rinite allergica, asma, ecc. A differenza della malattia da reflusso gastro-esofago non risponde al
trattamento con PPI, ma risultano utili una dieta restrittiva, per prevenire l’esposizione ad allergeni
alimentari e la somministrazione di corticosteroidi.

L’esame istologico è il gold standard per la diagnosi, ma è fondamentale anche il connubio con
l’endoscopia. L’endoscopia può porre il sospetto diagnostico poiché evidenzia aspetti varioliformi della
mucosa esofagea, iperemia e micro-ascessi superficiali, ma la diagnosi viene poi confermata grazie ai
prelievi bioptici.
La diagnosi istologica di esofagite eosinofila viene posta se si osservano più di 20 eosinofili (secondo alcuni
studi ne bastano 15) in un campo a forte ingrandimento, ovvero 40x, in compresenza di erosioni
dell’epitelio superficiale.
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Altri aspetti istologici osservabili sono:
- Microascessi superficiali, che tendono a formare
bolle e ad erodere l’epitelio, sia a causa della
degranulazione eosinofila sia per il passaggio di cibo
sulla mucosa infiammata (immagine a lato)
- Aumento delle mastcellen
- Desquamazione superficiale
- Aumento dei CD8+ intraepiteliali
- Fibrosi della lamina propria

Identificare correttamente l’esofagite eosinofila consente di iniziare il trattamento adeguato basato su:
corticosteroidi (fluticasone e budesonide), antagonisti dei recettori dei leucotrieni (montelukast e
zafirlukast) e anticorpi monoclonali diretti contro IL-5 (ancora in fase di studio); inoltre, l’eliminazione di
alimenti particolarmente sensibilizzanti, in particolare latte, uova, pesce, grano, soia e frutta a guscio,
permette di migliorare la sintomatologia.

ESOFAGITI CHIMICHE – Robbins

La mucosa esofagea può essere danneggiata da varie sostanze irritanti tra cui alcol, acidi corrosivi, alcali,
liquidi eccessivamente caldi e fumo di tabacco, ma anche da compresse di medicinali che vi si depositano
e ivi si disciolgono invece di giungere intatte nell’esofago (esofagite pillola-indotta).
In generale l’esofagite da lesione chimica si manifesta con dolore autolimitante, in particolare odinofagia,
ma può anche portare ad emorragia, stenosi o perforazione.
Nei bambini le esofagiti chimiche sono tipicamente secondarie ad ingestione accidentale di prodotti di
pulizia della casa, mentre negli adulti si verificano in seguito a tentativi di suicidio.
Nelle esofagiti chimiche si osserva la necrosi della mucosa esofagea, con conseguente fibrosi e stenosi.

Nell’esofagite da radiazioni il danno è in parte dovuto anche a proliferazione intimale con conseguente
restringimento del lume dei vasi ematici.
In caso di esofagite associata alla graft versus host disease si hanno l’apoptosi delle cellule epiteliali basali,
l’atrofia della mucosa e la fibrosi della sottomucosa, in assenza di un infiltrato infiammatorio acuto
significativo.

ESOFAGITI INFETTIVE

L’incidenza della esofagiti infettive è in aumento dal momento che stanno aumentando i soggetti
immunodepressi (pazienti affetti da HIV, trapiantati, pazienti oncologici, ecc.). queste forme si associano ad
odinofagia e sono più frequentemente dovute a candida o virus erpetici.

ESOFAGITE DA CITOMEGALOVIRUS

L’endoscopia può evidenziare delle lesioni ulcerative a


colpo d’unghia con punteggiature rossastre sparse nel
tratto della mucosa esofagea.
Istologicamente le caratteristiche principali sono:
- Citoinclusioni nucleari → nel nucleo delle cellule
infette è presente un grosso nucleolo, fortemente
eosinofilo e con un contorno otticamente vuoto: si
parla di nucleolo ad occhio di civetta, caratteristica
patognomica. Gli inclusi nucleari sono difficili da
identificare, pertanto risulta utile eseguire diversi
tagli e affiancarvi uno studio immunoistochimico
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con anticorpi specifici diretti contro CMV o una PCR eseguita sul DNA prelevato dal tessuto
bioptico.
- Perdita dell’epitelio
- Infiltrato infiammatorio
La terapia si basa su ganciclovir.

ESOFAGITE DA HERPES SIMPLEX

L’HSV macroscopicamente determina ulcerazioni biancastre sparse, ovvero ulcerazioni con materiale
fibrino-granulocitario. Istologicamente risulta patognomica la presenza di cellule plurinucleate con nuclei a
melograno, definibili come un sincizio.
In questo caso l’immunoistochimica non è eseguibile perché non ci sono anticorpi specifici, ma si può
procedere con una PCR, dopo aver estratto il DNA da tre sezioni da 10 µm di tessuto.
Il trattamento è basato su acyclovir.

CANDIDOSI ESOFAGEA

L’esofagite da candida è molto comune nei pazienti immunodepressi e si manifesta con placche di
materiale biancastro e granuloso, con aspetto cotonoso, “a ricotta”. Il patologo poi, grazie alla colorazione
con acido di Schiff, può individuare le spore e le ife fungine, che permettono di confermare la diagnosi.
La candidosi esofagea può essere trattata con fluconazolo.
Tra le forme di esofagite fungina quella da candida è la più comune, ma possono presentarsi anche
mucormicosi e aspergillosi. L’esofago può essere colpito anche da malattie cutanee desquamative, come
pemfigoide bolloso, epidermolisi bollosa, malattia di Crohn.

LACERAZIONI DELL’ESOFAGO – Robbins

Le lacerazioni longitudinali dell’esofago a livello di giunzione gastro-esofagea sono dette lacerazioni di


Mallory-Weiss e sono solitamente associate a vomito intenso o intossicazione acuta da alcol. Normalmente
quando il paziente vomito l’onda anti-peristaltica è preceduta da un rilasciamento della muscolatura
gastro-esofagea, ma si ipotizza che tale rilasciamento non avvenga in caso di vomito intenso e pertanto la
pressione del contenuto gastrico refluente vada a lacerare la parete esofagea.
La sindrome di Boerhaave è invece un evento catastrofico caratterizzato da lacerazione transmurale e
rottura esofagea distale e mediastinite.

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CARCINOMA SQUAMOCELLULARE

Secondo uno studio pubblicato nel 2015 il carcinoma squamoso risulta poco frequente nei paesi
industrializzati, ma presenta una incidenza elevata nella cosiddetta “cintura asiatica del cancro esofageo”,
che comprende Turchia, Iran, Kazakistan e Cina, e nel Sud-Est dell’Africa. Per quanto riguarda l’Europa
l’incidenza risulta maggiore in alcune aree della Francia e nel Nord Italia, regioni in cui si ha un elevato
consumo di alcol.

Tra i fattori di rischio per lo sviluppo del carcinoma squamoso ritroviamo il fumo e l’alcol, ma anche fattori
correlati alla dieta, come alcuni composti aromatici, cibi conservati, bevande molto calde ecc. Risultano
fattori di rischio anche malattie croniche, come l’acalasia e la tilosi.

A seconda del tratto esofageo interessato la neoplasia


può essere correlata anche ad alterazioni genetiche o
infezioni virali: generalmente neoplasie del tratto
mediale sono associate ad infezioni da Epstein-Barr Virus,
mentre quelle del tratto prossimale possono essere
dovute ad alterazioni della ciclina D (gene CCND1) e
quelle del tratto distale a mutazioni del gene codificante
per la E-caderina.
Altri fattori di rischio sono esofagiti da caustici, pregressi
trattamenti con radioterapia del mediastino,
mutazioni/delezioni di p53, infezione da papillomavirus,
ecc.

L’esordio del carcinoma squamoso è insidioso e porta a disfagia, odinofagia e occlusione; i soggetti si
adattano inconsciamente all’occlusione ingravescente e modificano progressivamente la dieta,
privilegiando alimenti liquidi. L’insufficiente alimentazione e la neoplasia stessa concorrono a determinare
calo ponderale e debilitazione.
Complicanze possibili della neoplasia sono emorragia, sepsi e fistole tracheo-esofagee. Le lesioni
neoplastiche possono svilupparsi anche come masse polipoidi o esofitiche che protrudono verso il lume
dell’organo ostruendolo. Le metastasi linfonodali sono piuttosto frequenti.
Esistono alcune varianti istologiche meno comuni di carcinoma squamocellulare; tra queste, sono da
menzionare il carcinoma squamocellulare verrucoso, il carcinoma a cellule fusate e il carcinoma basaloide.

Displasia squamosa

La displasia rappresenta una condizione pre-cancerosa: la displasia squamosa è definita come una
alterazione neoplastica dell’epitelio squamoso esofageo senza aspetti di infiltrazione, quindi limitata al di
sopra della membrana basale.
La displasia può essere classificata in displasia di basso grado (displasia lieve) e displasia di alto grado
(displasia moderata e displasia severa). I pazienti con displasia di alto grado hanno un rischio maggiore di
sviluppare carcinoma esofageo, per questo è necessario identificare e trattare precocemente le lesioni
displastiche. Infatti, il carcinoma squamoso invasivo si sviluppa nel 5% dei casi di displasia di basso grado,
nel 27% dei casi di displasia moderata e nel 65% dei casi di displasia severa.
Dal punto di vista clinico la pre-cancerosi può passare totalmente inosservata, dal momento che non vi
sono né infiammazione né dolore, ma talvolta può essere identificata in pazienti particolarmente a rischio
(forti fumatori, forti bevitori, affetti da acalasia, ecc.) tramite l’endoscopia, che può evidenziare delle
alterazioni associate, come microerosioni o anomalie della vascolarizzazione, in aree che non vengono
colorate dopo spennellatura con iodio/lugol-iodine (le aree iodio-negative con una alterata
vascolarizzazione sono aree con alterazioni della proliferazione).

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Il gold standard per definire il grado di displasia è l’istologia, che permette di esaminare sia le alterazioni
citologiche, ovvero le alterazioni della singola cellula, sia le alterazioni strutturali dell’epitelio, quindi le
alterazioni dei rapporti che le cellule contraggono nell’ambito del tessuto, che caratterizzano la displasia.
Le alterazioni citologiche comprendono: alterazioni del rapporto nucleo-citoplasma, irregolarità del nucleo,
aumento dell’indice mitotico, ipercromia nucleare; mentre le alterazioni strutturali si manifestano con un
aumento della proliferazione che inizia dallo strato basale dell’epitelio.
In base all’estensione strutturale della proliferazione si distinguono:
- Displasia lieve → interessato solo il terzo inferiore dell’epitelio
- Displasia moderata → interessati i 2/3 dell’epitelio
- Displasia severa → interessato tutto l’epitelio
Ciò che si evidenzia nella displasia è quindi un disturbo maturativo dell’epitelio: si ha una progressiva
sostituzione delle cellule dello strato superficiale con cellule identiche a quelle dello strato basale. Nella
displasia si osservano quindi un aumento della proliferazione, un aumento dello spessore epiteliale e la
tendenza delle cellule a perdere la capacità di riconoscimento le une con le altre; tutto ciò comporta
cambiamenti strutturali, come la mancata polarizzazione cellulare.
Le aree displastiche possono essere trattate con mucosectomia.

Stadiazione del cancro esofageo

Quasi sempre il carcinoma squamoso si manifesta macroscopicamente come una lesione a


placca/infiltrativa o come una lesione placco-ulcerativa, con ulcerazione centrale. L’endoscopista che rileva
la lesione esegue un prelievo da mandare al patologo, per la diagnosi istologica.

Una volta diagnosticata la neoplasia tramite


endoscopia associata ad ultrasonografia, EUS, è
possibile stadiare clinicamente il tumore, infatti,
questa metodica permette di valutare
l’infiltrazione della neoplasia rispetto alla
parete dell’esofago.
Finchè la neoplasia non supera la membrana
basale si parla di tumore in situ, Tis; una volta
infiltrata la lamina propria la probabilità di
metastasi linfonodali è elevata, vista la presenza
di vasi ematici e linfatici.
Tramite EUS è possibile quindi distinguere:
- T1: invasione della sottomucosa
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- T2: invasione della muscolare
- T3: invasione di tutto lo spessore della parete esofagea
- T4: invasione di strutture adiacenti

Il carcinoma squamoso dell’esofago insorge solitamente nel terzo medio dell’esofago, meno
frequentemente nel tratto prossimale.
Si distinguono due forme biologiche:
- Carcinoma superficiale → carcinoma limitato a mucosa o sottomucosa, con o senza metastasi
linfonodali. Solo le forme intraepiteliali, quindi che non superano la membrana basale, hanno una
sopravvivenza a 5 anni del 100%, mentre nel caso di invasione della sottomucosa la sopravvivenza a
5 anni scende al 50-60% dal momento che si possono avere metastasi linfonodali.
- Carcinoma avanzato → carcinoma che invade la tonaca muscolare e spesso infiltra strutture
adiacenti, come trachea, aorta e pericardio.
La sottomucosa viene distinta dai patologi in tre strati, superficiale, intermedio e profondo, e viene valutata
l’infiltrazione della neoplasia nei tre strati e la lateralizzazione della stessa, ovvero l’estensione in senso
orizzontale.

L’ultima revisione dell’American Joint Committee on Cancer distingue 4 livelli di metastasi linfonodali:
- N0: non evidenza di metastasi linfonodali
- N1: metastasi a 1 o 2 linfonodi loco-regionali
- N2: metastasi a 3-6 linfonodi
- N3: metastasi a più di 7 linfonodi (considerato come malattia metastatica)

Grado di differenziazione

Si distinguono tre gradi di differenziazione per i carcinomi


squamosi di qualsiasi distretto, dal momento che l’epitelio
squamoso è sempre il medesimo.
Più la neoplasia presenta caratteristiche analoghe all’epitelio
d’origine, più è differenziato, minore è il grado (tumore di
basso grado = tumore ben differenziato). Nel caso
dell’epitelio squamoso le caratteristiche da riscontrare per
determinare la differenziazione sono la presenza di tight
junctions, desmosomi e cheratina, quest’ultima visibile
grazie alla presenza di accumuli detti perle cornee.
Quando queste caratteristiche non sono riscontrabili si è di
fronte ad una neoplasia di alto grado, non differenziata, ed è
possibile individuare dei nidi cellulari a palizzata che ricordano l’epitelio basale. In alcuni casi, essendo le
cellule fortemente indifferenziate, l’istologia non è sufficiente per avere la certezza diagnostica ed è
necessario ricorrere all’immunoistochimica, tecnica che permette di ricercare le citocheratine e i
marcatori tipici dell’epitelio squamoso, ovvero p40, p63 e l’antigene PD-L1. Se il carcinoma risulta positivo
per l’antigene PD-L1 può essere trattato farmacologicamente con anticorpi monoclonali diretti contro di
esso.
Le forme scarsamente differenziate possono presentarsi come:
- Forme a grandi cellule cheratinizzanti, che presentano ampio citoplasma eosinofilo, nuclei
anaplastici e attività mitotica, ma non presentano ponti intercellulari
- Forme a grandi cellule non cheratinizzanti, molto difficili da riconoscere

Trattamento

Nello schema è riassunto il trattamento in base allo stadio della malattia e alla sua localizzazione.

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Il carcinoma squamocellulare del tratto cervicale dell’esofago non è trattabile chirurgicamente e si ricorre a
radio-chemioterapia.
Se la neoplasia interessa il tratto toracico dell’esofago la terapia dipende dalla stadiazione clinica, ovvero
sul grado di infiltrazione della parte dell’organo:
- Una neoplasia cT1 può essere trattata con mucosectomia o esofagectomia
- Una neoplasia avanzata viene trattata prima con terapia neoadiuvante e successivamente con
esofagectomia
- In caso di neoplasia metastatica si procede con chemio-radioterapia e terapia chirurgica di
protezione

I carcinomi classificati come inoperabili vengono trattati inizialmente con terapia neoadiuvante a scopo
citoriduttivo, per poi poter eventualmente passare all’approccio chirurgico. Il trattamento neoadiuvante
induce:
- Raggrinzimento dei citoplasmi (shrinkage) o vacuolizzazione
- Vacuolizzazione nucleare
- Apoptosi e necrosi
- Reazione infiammatoria con cellule giganti a causa della cheratina liberata dalle cellule
neoplastiche in necrosi, con possibili calcificazioni
- Fibrosi ed elastosi dello stroma e aterosclerosi vascolare
Il fine ultimo del trattamento chemio-radioterapico è
quello di far regredire il tumore in modo tale che esso
raggiunga una dimensione tale da permettere al
chirurgo di effettuare un debulking tumorale. Dopo
l’intervento va avviato poi un percorso di ricerca del
residuo tumorale, ovvero di eventuali cellule tumorali
rimaste in sede, in quanto questo rappresenta un fattore
prognostico fondamentale.
Esistono diversi score di regressione, tra cui uno molto
usato è la classificazione Mandard che prevede 5 gradi
(1-5) e tiene conto di risposta al trattamento
radioterapico, presenza del residuo tumorale, presenza
di reazione cronica al trattamento chemio-radioterapico.
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ADENOCARCINOMA ESOFAGEO

L’adenocarcinoma insorge nel terzo inferiore dell’esofago, a livello della giunzione gastro-esofagea, ed è
strettamente correlato all’esofago di Barrett e alla MRGE di lunga durata, infatti, deriva dalla
componente metaplasica o in casi estremamente rari dalle ghiandole esofagee sottomucose.
L’esofago di Barrett rappresenta quindi un fattore di rischio per lo sviluppo dell’adenocarcinoma esofageo,
mentre non lo è per lo sviluppo del carcinoma squamoso, visto che in questo caso l’epitelio mantiene la
morfologia tipica esofagea. Il rischio di adenocarcinoma aumenta anche in caso di tabagismo, obesità e
pregressa radioterapia, mentre un regime alimentare ricco di frutta e verdura e alcuni sierotipi di H. Pylori,
che causano atrofia gastrica e riducono il reflusso acido, risultano fattori protettivi.
L’incidenza dell’adenocarcinoma è nettamente maggiore nel sesso maschile e in alcuni paesi occidentali,
come Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia, Paesi Bassi.
Studi molecolari suggeriscono che la progressione da esofago di Barrett ad adenocarcinoma si verifichi
durante un periodo di tempo prolungato, attraverso la graduale acquisizione di variazioni genetiche ed
epigenetiche: le anomalie cromosomiche, la mutazione di p53, la down-regolazione dell’inibitore della
chinasi ciclino-dipendente CDKN2A (anche detto p16) sono presenti nelle fasi precoci dell’adenocarcinoma,
mentre ulteriori alterazioni associate alla progressione sono rappresentate dall’amplificazione dei geni ERB-
B2, EGFR, MET clinica D1 e ciclina E.

Classificazione di Siewert

Secondo la classificazione anatomica di Siewert si distinguono tre tipi di


adenocarcinoma:
- Tipo 1 → localizzato da 1 a 5 cm a monte della linea Z
- Tipo 2 → localizzato tra 1 cm a monte e 2 cm a valle della linea Z
- Tipo 3 → localizzato tra 2 e 5 cm a valle della linea Z (considerati
carcinomi gastrici)
Questa classificazione è importante dal punto di vista chirurgico e per il
follow-up dei pazienti con Barrett; un altro aspetto importante negli
adenocarcinomi è l’estensione: è importante definire se si estendono
verso il versante esofageo o verso il versante gastrico perché ciò ha
delle implicazioni in termini di drenaggio linfatico e può modificare la
strategia chirurgica.
In un paziente con esofago di Barrett l’adenocarcinoma viene identificato in uno stadio precoce, grazie ai
frequenti controlli, tuttavia spesso queste neoplasie vengono identificate in uno stadio avanzato quando si
manifestano con dolore, disfagia e ridotto transito esofageo. In caso di neoplasia avanzata l’identificazione
della linea Z non è immediata ed è fondamentale la collaborazione tra endoscopista e chirurgo per definire
il tipo di neoplasia secondo la classificazione di Siewert.

Displasia su Barrett e cancerogenesi

L’esofago di Barrett rappresenta una lesione metaplasica su cui può insorgere prima una displasia e
successivamente l’adenocarcinoma, perciò pazienti con Barrett vengono sottoposti a controlli endoscopici
periodici, circa ogni 2 anni. Nel momento in cui si identifica una displasia i controlli divengono più frequenti,
circa ogni 6 mesi, e va definito il grado della displasia stessa.
La displasia che insorge su esofago di Barrett ha le medesima caratteristiche di una displasia gastrica, dal
momento che insorge su una mucosa colonnare; le caratteristiche tipiche della displasia sono:
ipercromatismo nucleare, inversione del rapporto nucleo-citoplasma, presenza di mitosi.

Si distinguono due tipi di displasia di Barrett:


- Displasia intestinale, derivante dalla degenerazione della metaplasia intestinale specializzata
- Displasia foveolare, derivante dalla degenerazione della metaplasia cardio-pilorica o fundica

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La displasia di Barrett viene graduata in:
- Negativo per displasia
- Indefinito per displasia: la citologia fa pensare ad una displasia, ma intorno vi è un ambiente
fortemente infiammatorio e l’aspetto citologico simil-neoplastico potrebbe essere dovuto ad estesi
fenomeni di rigenerazione
- Displasia di basso grado
- Displasia di alto grado

La displasia foveolare è particolarmente difficile da diagnosticare e presenta le seguenti caratteristiche:


• Displasia foveolare di basso grado → scarse o assenti globet cells, cellule cilindriche in monostrato
con nuclei allungati (pencil-like), architettura villiforme e nucleoli non particolarmente evidenti. Va
in follow-up.
• Displasia foveolare di alto grado → marcata inversione del rapporto nucleo-citoplasma, nucleoli
evidenti, cromatica aperta e figure mitotiche.
Per quando riguarda la displasia intestinale invece:
• Displasia intestinale di basso grado → ipercromasia nucleare, stratificazione dei nuclei con
mantenimento della polarità, rapporto ghiandole stroma a favore dello stroma. Va in follow-up.
• Displasia intestinale di alto grado → marcata inversione del rapporto nucleo-citoplasma (con
nuclei di dimensioni pari a 3-4 quelle di un linfocita), mitosi, stratificazione marcata con perdita di
polarità, ghiandole con aspetto back to back quindi si ha una perdita di stroma
Quindi i due punti significativi che permettono di distinguere tra una displasia di basso grado da una di alto
grado sono la maggiore proliferazione cellulare e le alterazioni strutturali ghiandolari (nell’alto grado di
riduce lo stroma).

Nella figura a lato si ha una displasia intestinale di basso


grado: le ghiandole sono tra loro separate e nonostante in
alcuni punti i nuclei siano stratificati sono ancora ben
polarizzati.

Nelle immagini in basso si ha invece una displasia intestinale


di alto grado: si ha un disordine strutturale, con tre diverse
ghiandole che confluiscono nel medesimo lume, e una
marcata inversione del rapporto nucleo-citoplasma (si ha
una forte colorazione blu). Inoltre, osservando la citologia si nota la presenza di nucleoli prominenti e
cromatina aperta con diverse figure mitotiche.

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Nell’immagine sottostante si osserva una displasia foveolare di basso grado: si ha un aspetto villiforme, con
cellule colonnari con nuclei pencil-like e ben polarizzati e nucleoli poco evidenti.

Nelle forme di displasia foveolare di alto grado (immagine a lato)


si hanno un aumento del rapporto nucleo-citoplasma, nucleoli
prominenti, cromatina aperta e figure mitotiche.

Per quanto riguarda il profilo immunoistochimico della displasia


foveolare per lo studio si può utilizzare l’anticorpo anti-MUC5AC.
Esitono infatti diversi tipi di mucine, espressi diversamente a
seconda dell’epitelio e solitamente si usano: MUC1 per gli epiteli
ghiandolari, MUC2 per l’epitelio intestinale, MUC5AC per le foveole gastriche, MUC7 per la componente
ghiandolare più profonda.
L’anticorpo anti-Ki67 riconosce invece tutte le cellule nelle diverse fasi del ciclo, tranne G0, pertanto
evidenzia le cellule in attiva proliferazione (l’anticorpo rinosce una proteina non istonica).
La displasia foveolare risulta quindi positiva a MUC5AC, negativa a MUC2 e negativa a CDX2, fattore di
trascrizione ampiamente espressione sia dalla mucosa colica normale che da quella neoplastica.
La diplasia intestinale risulta invece negativa a MUC5AC e positiva per MUC2 e CDX2.
Tramite immunoistochimica si può evidenziare anche l’inattivazione dell’oncosoppressore p53 (spesso
associata alla positività a Ki67).

È importante anche la ricerca delle citocheratine (proteine dei filamenti intermedi delle cellule epiteliali):
CK20 è presente nella mucosa colica normale ed è mantenuta nella trasformazione neoplastica, mentre CK7
risulta negativa sia nella mucosa colica normale che in quella neoplastica; la mucosa gastrica può essere in
parte CK7 positiva e in parte negativa. La positività a CK20 e CDX2 e la negatività a CK7 suggeriscono quindi
che la neoplasia sia di origine colica, insorta su una metaplasia intestinale di tipo colonico.

La tappa successiva alla displasia di alto grado è il carcinoma in situ.


Le neoplasie limitate alla mucosa (m1, m2 e m3) presentano un rischio di metastasi linfonodale
praticamente nullo, pertanto la mucosectomia in questo caso risulta curativa. Un carcinoma limitato alla
mucosa è comunque un carcinoma invasivo a tutti gli effetti (pT1a).
Se la neoplasia invade la sottomucosa (sm1, sm2, sm3) il rischio di metastasi linfonodale aumenta in caso
di tumore all’esofago o allo stomaco (si mantiene basso in caso di neoplasia del colon).

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Tra mucosa e sottomucosa è presente la muscolaris
mucosae: una neoplasia che penetra la muscolaris mucosae
è di tipo pT1b.

Mucosectomia

La mucosectomia viene effettuata quando si identifica una lesione neoplastica o una displasia di alto grado.
L’intervento consiste nel sollevamento e nella
asportazione della mucosa; il tessuto viene poi
spillato su sughero per evitarne l’accorciamento
dovuto alla contrazione della muscolaris
mucosae (vista la tendenza all’accorciamento nel
referto sarebbe bene specificare che la lunghezza
misurata è quella post-fissazione, onde evitare
incongruenze con quanto riferito dal chirurgo).
Vengono poi effettuate diverse sezioni di tessuto,
inserito all’interno di blocchetti per tenerle
orientate, e successivamente si procede con il
taglio delle sezioni istologiche.
Quando questa procedura mini-invasiva non è eseguibile si può procedere con esofagectomia.

Istotipi di adenocarcinoma insorti in esofago di Barrett

Gli adenocarcinomi insorti su esofago di Barrett sono molto simili agli adenocarcinomi gastrici.
Si riconoscono tre tipologie:
- Forme tubulo-papillari con vari gradi di differenziazione
- Forme mucinose con produzione di mucina extracellulare
- Forme signet ring (anello con castone), forme tipiche
dello stomaco che possono però insorgere anche in
altri organi. In questo caso le cellule neoplastiche
perdono la E-caderina e il nucleo viene spinto alla
periferica, conferendo l’aspetto caratteristico alla
cellula; inoltre, le cellule non sono coese tra loro
(condizione deducibile dal fatto che alcune cellule
presentano il nucleo a destra, altre a sinistra o in
basso). Questa forma tumorale è molto aggressiva e
tende a diffondere per contiguità: può interessare la
cavità peritoneale e arrivare all’ovaio.

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MALATTIE DELLO STOMACO
Lo stomaco si estende dallo sfintere esofageo inferiore allo sfintere pilorico e risulta costituito da quattro
regioni anatomiche: cardias, fondo, corpo e antro.
Dal punto di vista istologico lo stomaco è costituito da due tipi di mucosa:
- Mucosa ossintica → localizzata a livello di corpo e fondo e costituita da ghiandole tubulari semplici
formate da cellule principali e parietali. Le cellule parietali presentano un ampio citoplasma
eosinofilo con nucleo centrale e sono localizzate soprattutto nell’istmo e nel collo delle ghiandole;
queste cellule sono deputate alla produzione di acido cloridrico e fattore intrinseco. Le cellule
principali presentano un citoplasma basofilo con nucleo in posizione laterale e sono deputate alla
produzione di pepsinogeno; nella porzione basale della ghiandola le cellule principali risultano
occasionalmente frammiste a cellule enterocromaffini (endocrine).
- Mucosa antrale → sono presenti ghiandole tubulari ramificate secernenti mucina, caratterizzate da
citoplasma chiaro, vacuolato e granulare e da un nucleo basale. Nelle ghiandole antrali sono
presenti anche cellule endocrine, come le cellule G che producono gastrina.

GASTRITE AUTOIMMUNE

La gastrite autoimmune è una patologia infiammatoria cronica mediata da anticorpi diretti contro le
cellule parietali e il fattore intrinseco che porta alla progressiva distruzione delle mucosa ossintica e alla
progressiva sostituzione con mucosa pseudopilorica o intestinale.
Questa malattia interessa 1-2% dei soggetti adulti-anziani, colpisce soprattutto il sesso femminile e la
manifestazione clinica iniziale è l’anemia, ma si possono avere anche sintomi associati al deficit di B12.

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La gastrite autoimmune spesso si manifesta associata ad altre malattie autoimmuni, come LES, tiroiditi o
epatiti autoimmuni, e risulta associata agli aplotipi HLA-B8 e HLA-DR3.

La gastrite autoimmune si manifesta con:


- Riduzione o assenza della secrezione gastrica, inclusa la secrezione acida
- Aumento della gastrina sierica (gastrinemia), a causa dell’iperplasia delle cellule G
- Iperplasia della cellule enterocromaffini nella mucosa ossintica a causa dello stimolo della gastrina

Fasi

La gastrite autoimmune è caratterizzata da tre fasi: precoce, florida e tardiva; per determinare lo stadio
della patologia è necessario eseguire biopsie multiple (antro, angulus, corpo e fondo) in modo da mappare
tutta la mucosa gastrica. La biopsia rappresenta il gold standard anche per la diagnosi, dal momento che
l’endoscopia, almeno nelle fasi iniziali, non permette di evidenziare alterazioni della parete gastrica.

Fase precoce
Si ha un infiltrato linfoplasmocitico caratterizzato da linfociti T CD4+, oltre che da mastociti ed eosinofili, e
localizzato a livello intraepiteliale e nelle cripte ghiandolari. I linfociti T tendono ad aggredire le cellule
ossintiche e stimolano quindi un processo riparativo basato su meccanismi metaplasici: la mucosa nativa
viene sostituita con mucosa pseudo-pilorica (metaplasia pseudo-pilorica) o con mucosa intestinale
(metaplasia intestinale), processo che esita nella perdita di funzione della mucosa gastrica. Nella forma
pseudopilorica ritroveremo ghiandole tubulari ramificate, tipiche dell’antro, mentre nella metaplasia
intestinale si osserverà la presenza delle goblet cells. Accanto a ciò, vi è ipertrofia delle parietali residue, con
aspetto nodulare.In questa fase alla visione endoscopica la mucosa gastrica appare normale o lievemente
atrofica, con un disegno vascolare leggermente aumentato.

Le cellule TCD4+ dirette contro componenti delle parietali, comprese le H+, K+-ATPasi, sono considerate i
principali agenti lesivi. Questa ipotesi è stata corroborata dall’osservazione che il trasferimento di tali CD4 in
topi naïve porta a gastrite e alla produzione di autoanticorpi H+, K+-ATPasi. Non esiste evidenza di reazione
autoimmune contro le cellule principali, il che suggerisce che queste vadano perse durante la distruzione
delle ghiandole gastriche durante l’attacco autoimmune sulle parietali. Se la distruzione autoimmune è
controllata dall’immunosoppressione, le ghiandole possono ripopolarsi: ciò dimostra che le staminali
gastriche sopravvivono.

Fase florida
Nella fase florida si osservano l’atrofia delle ghiandole ossintiche e la riduzione dello spessore della
mucosa gastrica; l’atrofia della mucosa inizia ad essere osservabile anche all’endoscopia. In questa fase il
processo riparativo può esitare anche in una metaplasia pancreatica; inoltre, a livello di mucosa ossintica è

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apprezzabile la proliferazione della cellule enterocromaffini, ECL, mentre la mucosa antrale risulta normale
ma presenta una iperplasia delle cellule G.

Fase tardiva
Nella fase tardiva l’atrofia della mucosa ossintica è marcata, così come la metaplasia, e si ha l’iperplasia
delle foveole gastriche con formazioni di polipi. Compare la displasia.
Importante è l’iperplasia delle cellule ECL, secondaria all’ipergastrinemia: tale iperplasia può essere lineare
o nodulare e in caso di iperplasia nodulare è importante definire se il diametro dei noduli è minore
(micronoduli) o maggiore (noduli propriamente detti) a 150 µm, poiché si hanno risvolti clinici differenti.
Si tratta di una condizione che deve essere attentamente monitorata perché può portare a neoplasie
intramucose o invasive (NETs, Neuroendocrine Tumors).

Nella figura 10 il preparato è colorato con anticorpi anti-cromogranina A che evidenziano al componente
endocrina, ovvero le cellule ECL: in questo caso si ha una iperplasia sia lineare che nodulare. L’iperplasia
endocrina non è infatti rintracciabile con la sola colorazione con ematossilina eosina, ma è necessario
ricorrere a tecniche di immunoistochimica basate su anticorpi anti-cromogranina o anti-sinaptofisina.

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GASTRITE AMBIENTALE

La gastrite ambientale è una patologia infiammatoria cronica multifocale che interessa sempre l’antro e
regioni adiacenti della mucosa gastrica; è più frequente rispetto alla gastrite autoimmune.

GASTRITE DA H. PYLORI

È la forma più frequente di gastrite ambientale nei paesi


occidentali e interessa sempre l’antro, ma può coinvolgere
anche il corpo, il fondo e la regione cardiale. È spesso
associata ad ulcera gastrica o duodenale ed induce gastrite
cronica atrofica con metaplasia intestinale; rappresenta un
fattore di rischio per l’insorgenza di carcinoma gastrico e
linfoma MALT.
Istologicamente questa forma di gastrite è caratterizzata
dalla presenza di un infiltrato infiammatorio aggregato in
follicoli e da una componente acuta granulocitaria
neutrofila che tende ad attaccare le strutture ghiandolari.
I neutrofili si trovano solitamente entro la lamina propria,
ma possono oltrepassare la membrana basale e assumere
una posizione intra-epiteliale, formando degli ascessi foveolari.
La virulenza di H. Pylori è associata a:
- Flagelli, che consentono al batterio di muoversi nel muco viscoso
- Ureasi, che genera ammoniaca a partire dall’urea endogena aumentando il pH locale
- Adesine, che permettono l’adesione del batterio alle cellule foveolari di superficie
- Tossine, in particolare la tossina CagA, associata alla progressione della malattia
Nell’esito dell’infezione da H. Pylori giocano un ruolo importante anche i fattori legati all’ospite, come
polimorfismi genetici che portano ad una maggior espressione di citochine pro-infiammatorie, come TNF e
IL-1, o ad una minore espressione di citochine anti-infiammatorie, come IL-10.
Nonostante sia possibile una diagnosi non invasiva, tramite Breath Test o la ricerca del batterio nelle feci, si
tende comunque ad eseguire biopsie multiple, per confermare la diagnosi e ottenere informazioni
dettagliate sullo stato della mucosa gastrica.

GASTRITE ACUTA

Le gastriti possono essere classificate in acute e


croniche.
La gastrite acuta è correlata all’azione lesiva esercitata
sulla mucosa gastrica da parte di sostanze esogene, ad
esempio farmaci, e l’elemento infiammatorio tipico in
questo caso sono i granulociti neutrofili, che
aggrediscono la superficie gastrica. La mucosa gastrica
risulta quindi arrossata e tende a sanguinare; il sintomo
prevalente è il dolore, spesso acuito dall’ingestione di
cibo.
Possibili complicanze possono essere ulcerazione,
emorragia, ematemesi, melena.

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Il succo gastrico è fortemente acido e potenzialmente nocivo per la mucosa gastrica, pertanto essa dispone
di diversi meccanismi di protezione: la mucina secreta dalle cellule foveolari di superficie forma uno strato
di muco protettivo a pH neutro, grazie alla presenza di ioni bicarbonato. Sotto questo strato di muco si ha
uno strato continuo di cellule epiteliali, che forma una barriera fisica e limita la retrodiffusione dell’acido e
di altri materiali, come la pepsina, presenti nel lume dell’organo. Per mantenere lo strato epiteliale e per
consentire la produzione di muco e bicarbonato è necessario che le cellule foveolari superficiali siano
ricambiate ogni 3-7 giorni. In caso di alterazione di uno di questi meccanismi protettivi può insorgere una
gastrite acuta o cronica.
Con il termine gastrite si indica quindi un
processo infiammatorio a carico della
mucosa gastrica, mentre con il termine
gastropatia si indica un ampio gruppo di
disturbi, caratterizzati da lesioni o
disfunzioni gastriche, in cui le cellule
infiammatorie sono rari o assenti.
Il fatto che gli anziani presentino una
ridotta secrezione di mucina può essere
uno dei motivi per cui essi sono
maggiormente suscettibili alla gastrite.

I FANS riducono i meccanismi di protezione della mucosa gastrica interferendo con la citoprotezione fornita
dalle prostaglandine e dalla secrezione di bicarbonato (dal momento che questi meccanismi di difesa sono
indotti dalla COX1, il rischio di gastrite è minore se si usano gli inibitori selettivi della COX2).
Anche il danno cellulare diretto è implicato nelle gastriti; gli inibitori mitotici implicati nella chemioterapia
oncologica sono poi associati ad un aumentato rischio di gastrite perché impediscono la rigenerazione
dell’epitelio.

Oltre ai neutrofili possono essere presenti anche gli eosinofili, soprattutto nelle forme associate a farmaci.
Inoltre, possono essere apprezzati anche aspetti rigenerativi della mucosa, in aggiunta ad iperemia ed
erosione, che conferiscono un aspetto quasi displastico.

GASTRITE CRONICA

La gastrite cronica può essere ulteriormente classificata in:


- Gastrite cronica semplice → l’infiltrato infiammatorio è importante, ma non si ha un
assottigliamento della mucosa. L’infiltrato infiammatorio può essere esclusivamente linfocitico o
associato ad una componente granulocitaria. Tale forma di gastrite è definita semplice perché
viene mantenuta la normale condizione morfologica e funzionale della mucosa ossintica.
Esempi di gastrite cronica semplice sono la gastrite da H. Pylori, la gastrite da reflusso biliare e la
gastrite da farmaci. Nel caso dell’infezione da H. pylori l’infiltrato linfocitario tende ad aggregarsi in
follicoli, caratteristica non presente negli altri casi di gastrite cronica semplice.
- Gastrite cronica atrofica → si ha una perdita sostanziale di mucosa gastrica, evidenziabile
all’endoscopia perché si ha un assottigliamento della parete gastrica e la trama vascolare
sottostante risulta ben evidente. L’atrofia della mucosa gastrica può essere dovuta a fenomeni
metaplasici (gastrite cronica atrofica metaplasica) o meno (gastrite cronica atrofica non
metaplasica).
La metaplasia può a sua volta essere:
o Metaplasia intestinale completa: sostituzione con mucosa enterica
o Metaplasia intestinale incompleta: sostituzione con mucosa colica
La forma non metaplasica è caratterizzata da una riduzione della componente gastrica nativa
associata a fibrosi e flogosi.

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La sintomatologia associata alla gastrite cronica risulta meno marcata ma più persistente rispetto a quella
tipica della gastrite acuta.
La causa più comune di gastrite cronica è la gastrite da H. Pylori, seguita dalla gastrite autoimmune, mentre
cause meno comuni sono radiazioni, traumi meccanici, malattia di Crohn, amiloidosi e graft vs host disease.

L’atrofia ossintica è associabile a metaplasia intestinale, riconoscibile per la presenza di cellule caliciformi,
fortemente associata ad un aumento del rischio di adenocarcinoma gastrico. Il rischio di adenocarcinoma è
elevato in caso di gastrite autoimmune: l’acloridia dovuta all’atrofia della mucosa determina una
sovracrescita di batteri che producono nitrosamine cancerogene.

FORME RARE DI GASTRITE – Robbins

Gastrite eosinofila
È caratterizzata da un danno ai tessuti associato a densi infiltrati di eosinofili nella mucosa e nelle tonaca
muscolare, solitamente nella regione antrale o pilorica. La lesione è spesso presente anche in altre aree del
tratto gastro-enterico e risulta associata ad eosinofilia periferica e aumento dei livelli sierici di IgE. Una delle
cause di gastrite eosinofila è infatti rappresentata dalle reazioni allergiche: i principali allergeni nei bambini
sono il latte di mucca e le proteine della soia, mentre negli adulti i farmaci.
La gastrite eosinofila può essere causata anche da infezioni parassitarie o da H. Pylori e può verificarsi in
associazione con malattie collageno-sistemiche, come la sclerosi sistemica.

Gastrite linfocitaria
Colpisce preferibilmente le donne e spesso risulta idiopatica, anche se nel 40% dei casi è associata a
celiachia, cosa che suggerisce una patogenesi immunitaria. È detta anche gastrite vaioliforme a causa del
caratteristico aspetto endoscopico: si hanno spesse pliche coperte da piccoli noduli con ulcera aftoide
centrale; dal punto di vista istologico vi è un notevole aumento dei linfociti T intraepiteliali, soprattutto
CD8+.

Gastrite granulomatosa
Comprende qualsiasi gastrite in cui si riscontrino granulomi o aggregati di macrofagi epitelioidi; molti casi
sono idiopatici, mentre la causa specifica più comune nei paesi occidentali è il morbo di Crohn, seguita dalla
sarcoidosi e da infezioni (micobatteri, funghi, H. Pylori, CMV, ecc.).

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COMPLICANZE DELLA GASTRITE CRONICA

MALATTIA ULCERATIVA PEPTICA – Robbins

La malattia ulcerativa peptica consiste in una ulcerazione cronica della mucosa di duodeno e stomaco; la
forma più comune colpisce l’antro gastrico o il duodeno ed è associata a gastrite cronica da H. Pylori che
determina un aumento della secrezione di acidi gastrici e una riduzione della secrezione di bicarbonato nel
duodeno. La malattia ulcerativa del fondo e del corpo si associa invece ad atrofia della mucosa dovuta a
infeziona da H. pylori o gastrite autoimmune.
Altre cause di ulcera peptica sono rappresentate da FANS e fumo di sigaretta. La malattia ulcerativa
peptica è quindi causata da uno squilibrio tra i meccanismi di difesa della mucosa e gli agenti lesivi che
causano gastrite cronica, ma non è del tutto chiaro perché alcuni pazienti sviluppino le ulcere e altri solo
una gastite cronica, probabilmente sono implicati fattori dell’ospite e variazioni dei ceppi batterici.
La maggior parte delle ulcere peptiche giunge all’attenzione clinica perché causa dolori e bruciori
epigastrici, anemia sideropenica, emorragia, nausea, vomito, eruttazione e calo ponderale.
Nell’80% dei casi le lesioni sono isolate e costituite da una soluzione di continuo netta, rotonda o ovalare,
di profondità variabile; il fondo dell’ulcera è liscio e deterso, poiché qualsiasi essudato si venga a formare è
subito digerito e possono essere visibili i vasi ematici. Nelle ulcere attive sul fondo si può formare un sottile
strato di detriti fibrinoidi sostenuto da un infiltrato infiammatorio prevalentemente neutrofilo e al di sotto
si ha tessuto di granulazione e tessuto cicatriziale.
Possibili complicanze delle ulcere peptiche sono: emorragia, perforazione, occlusione, trasformazione
maligna (rara).
Il trattamento si basa sulla eradicazione di una eventuale infezione da H. Pylori e sulla somministrazione di
inibitori di pompa protonica.

DISPLASIA GASTRICA

La displasia, che può essere di alto o basso grado, è una condizione di pre-cancerosi che insorge nella
mucosa metaplasica nel contesto di una gastrite cronica atrofica. La diagnosi di displasia richiede
l’esecuzione di biopsie multiple e nel 2019 il WHO ha sostituito il concetto di displasia con quello di
neoplasia intraepiteliale, a sottolineare l’importanza di questo evento nello sviluppo del carcinoma
gastrico.
I caso di displasia gastrica si osservano:
- Ghiandole tubulari ramificate con disordine strutturale
- Marcata proliferazione epiteliale (colorazione intensa nella parte alta del vetrino)
- Atipia nucleare e nucleolo prominente
La differenza tra displasia di basso e alto grado risiede nella grandezza della zona interessata; inoltre, nella
displasia di alto grado i nuclei perdono la polarizzazione e le ghiandole tendono alla coalescenza (back to
back). È possibile che vi siano displasia di basso grado molto estese con all’interno aree di displasia di alto
grado, in alcuni casi viranti al carcinoma.

In caso di displasia di basso grado si eseguono controlli


periodici e si è visto che in alcuni casi essa tende a
scomparire: ciò può essere dovuto o ad una
regressione o a meccanismi che rendono la displasia
invisibile alla biopsia.

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In caso di displasia di alto grado, vista la possibile evoluzione in carcinoma in tempi brevi, si procede con
l’asportazione della mucosa coinvolta. La mucosa asportata risulta atrofica, adenomatosa e con aspetto
granulare.

CARCINOMA GASTRICO

Il carcinoma gastrico ha una elevata incidenza in Giappone, Corea e Cina, mentre in Europa e USA
l’incidenza è diminuita negli ultimi 70 anni; colpisce prevalentemente i maschi (rapporto M/F di 2:1) e la
fascia di età compresa tra i 50 e i 70 anni. I pazienti con meno di 35 anni presentano forme aggressive con
caratteristiche di ereditarietà.
La diagnosi è complicata dal fatto che nella fase iniziale i pazienti sono spesso asintomatici; in fase tardiva la
sintomatologia include dolore epigastrico, gonfiore, sazietà precoce, nausea, vomito, disfagia, anoressia e
sanguinamenti del tratto gastro-enterico. La maggior parte delle diagnosi avviene quindi in fase avanzata,
anche se una quota avviene in fase di early gastric cancer, ovvero in fase precoce.
Fattori di rischio:
- Infezione da H. Pylori (aumenta il rischio da 2,8 a 6 volte)
- Dieta, in particolare cibi salati, cibi conservati, nitriti, alcol e scarso consumo di frutta e verdura
- Lavori che espongono ad asbesto e ferro (aumento del rischio da 3 a 6 volte)
- Esposizione a radiazioni ionizzanti
- Fumo di sigaretta (aumento di 1,6 volte nei maschi e 1,2 nelle femmine)
- Gastrectomia parziale, che aumenta il rischio a livello del moncone gastrico residuo a causa
dell’ipocloridria e del reflusso biliare

Lo sviluppo del carcinoma gastrico passa attraverso diversi step: epitelio normale – gastrite cronica –
atrofia gastrica – metaplasia intestinale – displasia – carcinoma; questi sono accompagnati da mutazioni o
modificazioni dell’espressione genica:
- Il passaggio da metaplasia a displasia è caratterizzato da mutazioni di APC, p53 e KRAS
- Il passaggio da displasia a carcinoma è caratterizzato da mutazioni di mlh1 e p53, metilazione di
COX2, amplificazione di Erb2, riduzione dell’espressione di p27, trascrizione aberrante di CD44 e
aumento dell’espressione della ciclina E.

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Early gastric cancer

Si tratta di un carcinoma gastrico invasivo che può essere limitato alla tonaca mucosa (pT1a) o superare la
muscolaris mucosae ed invadere la sottomucosa (pT1b), ma non invade la tonaca muscolare. Interessa
soprattutto la regione antrale e la piccola curvatura.
Può metastatizzare a livello di linfonodi regionali e in casi estremamente rari a livello epatico; la presenza di
metastasi linfonodali non varia di molto la prognosi del paziente, che rimane comunque buona: si passa dal
98% di sopravvivenza a 5 anni nelle forme N0 al 93% nelle forme N+.
Dal punto di vista macroscopico si distinguono diverse tipologie:
- Protrudente → si possono avere noduli, polipi o aspetto
villoso
- Superficiale → ulteriormente suddivisibile in elevato,
piatto o depresso
- Escavato
- Forme miste
Nell’immagine sotto si osserva l’aspetto macroscopico della
mucosa gastrica affetta da carcinoma: si ha una lesione
protrudente con mucosa atrofica e priva di trama vascolare.

Nell’immagine istologica a lato si ha una lesione in stadio


precoce in cui la componente ghiandolare cancerosa, più
scura, è localizzata solo in mucosa e sottomucosa.

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Istotipi di carcinoma gastrico

La classificazione WHO del 2019 suddivide i carcinomi gastrici in:


• Adenocarcinoma
Deriva dalle ghiandole dello stomaco e può essere ulteriormente classificato in diversi sottotipi
sulla base della aggregazione delle cellule (aspetto a tubulo o a papilla) e sulla produzione di
mucina: adenocarcinoma tubulare, adenocarcinoma papillare e adenocarcinoma mucinoso (il muco
deve rappresentare almeno il 50% della massa neoplastica). Possiamo avere diversi gradi di
differenziazione, tranne che per quanto riguarda il mucinoso, istotipo per cui non esiste il concetto
di sdifferenziazione.
• Scarsamente coesivo
Si tratta di neoplasie con cellule prive di coesione tra loro e prive della possibilità di formare
strutture ghiandolari. Tra questi si ritrovano le forme Signet Ring Cells, istiocitoidi, linfocito-simili e
a cellule eosinofile. Le cellule ad anello con castone sono frequenti in diversi tipi tumorali e sono
caratterizzate dalla presenza di mucina che si accumula all’interno della cellula, spingendo il nucleo
in periferia; inoltre, tali cellule tendono a perdere le caderine e pertanto il nucleo assume una
direzione diverse nelle diverse cellule (viene meno la polarizzazione nucleare).
Questo tipo di tumore diffonde sia per via ematica e linfatica, sia per contiguità: quando supera la
sierosa “cola” a livello pelvico e può causare il tumore di Krukenberg a livello ovarico bilaterale.
• Forme miste
• Istotipi speciali
o Adenosquamoso
o Adenocarcinoma con stroma linfoide (associato all’infezione da EBV)
o Epatoide
o Micropapillare (variante aggressiva dei tumori epiteliali ghiandolari)
o Adenocarcinoma delle ghiandole fundiche
o Altri

Nelle immagini sotto ritroviamo a sinistra un adenocarcinoma tubulare ben differenziato in cui si
riconoscono le strutture ghiandolari immerse in uno stroma desmoplastico, mentre a destra ritroviamo una
forma papillare con papille dotate di un core vascolo-stromale ricoperte da elementi neoplastici epiteliali.

A lato si osserva invece la forma mucinosa: caratteristici sono i


grandi laghi di muco che possono popolarsi di elementi
neoplastici, singolo o aggregati a formare abbozzi ghiandolari. In
alcuni casi, soprattutto dopo terapia neoadiuvante, è possibile
riscontrare laghi di muco acellulati, che non sono indice di terapia
residua (per essere sicuri che un lago sia acellulato è necessario
osservare sezioni multiple).

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Nelle forme signet ring si hanno singoli elementi cellulari incapaci di
creare strutture coese e con nucleo scarsamente polarizzato
(immagine a lato).
Le forme scarsamente coese possono evocare una reazione
desmoplastica imponente e possono “colare” lungo la parete dello
stomaco, sia per via trasversale che per via longitudinale: evocano
una reazione tale per cui la parete dell’organo assume una
consistenza lignea e un aspetto a otre, detta linite plastica, massima
espressione della diffusione di questo tipo di neoplasia (immagine
sotto).

CARCINOMA GASTRICO DIFFUSO EREDITARIO – HDGC SYNDROME

Si tratta di una sindrome autosomica dominante caratterizzata da carcinoma gastrico diffuso con istotipo
non coesivo prevalentemente a signet ring cells e da una aumentata incidenza di carcinoma mammario di
istotipo lobulare nei pazienti affetti. Gli individui affetti presentano anche un rischio aumentato di
sviluppare carcinoma del colon-retto.
Questa sindrome fu scoperta nel 1998 da Guilford ed è dovuta alla mutazione del gene CDH1 codificante
per la E-caderina, molecola di adesione cellulare: il deficit di questa proteina comporta alterazioni della
polarità cellulare e impedisce alle cellule di riconoscersi a vicenda.
È una sindrome rara con una età media di presentazione intorno ai 37 anni; spesso la diagnosi è posta in
fase avanzata, soprattutto quando il paziente non ha familiarità, infatti, in caso di presenza di familiarità si
attiva un percorso di counseling genetico e può essere indicata la gastrectomia profilattica.
La localizzazione è sovrapponibile a quella del carcinoma gastrico sporadico, quindi interessa soprattutto la
piccola curvatura nella regione tra angulus e piloro.

Approccio al paziente

La diagnosi precoce si basa sul riconoscimento della familiarità per la mutazione CDH1 e sullo studio
approfondito della mucosa gastrico con ampio mappaggio istologico.
In pazienti con più di 20 anni appartenenti a famiglie con la mutazione si propone una gastroresezione
profilattica e se questa viene rifiutata si procede con monitoraggio serrato tramite endoscopia e
mappatura completa.
In alcuni casi i pazienti rifiutano il test genetico, nonostante la familiarità, ma vengono comunque inclusi in
un programma di follow-up endoscopico.
L’indicazione alla gastrectomia profilattica è giustificata dal fatto che spesso sono state identificate, su
gastrectomie totali profilattiche, lesioni precursori e focolai multipli di carcinoma intramucoso a signet ring
cell non visibili tramite endoscopia.

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Diagnosi istologica

Una volta identificata la presenza di cellule a morfologia signet ring è necessario distinguere:
- Forme in situ, in cui le signet ring cells sono ancora intra-ghiandolari, ovvero confinate all’interno
della membrana basale delle singole ghiandole. Le signet ring cells migrano tra la membrana basale
e l’epitelio con diffusione pagetoide (diffusione di elementi neoplastici singoli in un contesto di
epitelio normale)
- Forme invasive, in cui le cellule signet ring superano la membrana basale delle ghiandole e
presentano con progressiva perdita di polarizzazione dei nuclei.

Nell’immagine:
- Figura A: lesione precancerosa con signet ring cells intraghiandolari
- Figura B: carcinoma invasivo intramucoso (pT1a) in cui oltre alle signet ring cells intraghiandolari si
osservano focolai di cellule signet ring fuoriuscite dalla ghiandola
- Figura C: carcinoma invasivo intramucoso (pT1b) con cellule signet ring totalmente depolarizzate
- Figura D: tipici aspetti di depolarizzazione e mancata coesione delle cellule signet ring

Tecniche di immunoistochimica
- Colorazione per la E-caderina → le cellule normali presentano una immunoreattività di membrana,
mentre le cellule signet ring risultano completamente bianche, poiché prive della caderina
(colorazione C)
- Colorazione per le citocheratine → le citocheratine sono espresse a livello citoplasmatico nelle
cellule epiteliali sane, mentre nelle signet ring cells sono espresse a livello periferico, a causa della
compressione del citoscheletro dovuta all’accumulo di mucina (colorazione D)

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TNM STAGING DEL CARCINOMA GASTRICO

Per una corretta stadiazione si parte dall’osservazione endoscopica che permetti di indagare la
localizzazione, le dimensioni della lesione e la sua mobilità: una lesione mobile sulla tonaca muscolare è
indicativa di una forma limitata a mucosa e sottomucosa, mentre una lesione di consistenza più sostenuta
ha probabilmente invaso la tonaca muscolare.
Successivamente si procede con EUS per effettuare una stadiazione più accurata e verificare la presenza di
linfonodi regionali di dimensioni superiori al centimetro; in alcuni casi insieme alla EUS si effettua una fine-
needle aspiration per eseguire una valutazione citologica che permette di definire se il paziente può essere
operato immediatamente o è necessario eseguire prima una terapia neoadiuvante. Grazie all’EUS è
possibile definire anche la presenza di metastasi epatiche. Un ulteriore esame eseguibile è la TC, utile
soprattutto per indagare i linfonodi.

T – Tumor
- Tis: carcinoma in situ limitato dalla membrana basale all’interno di ogni singola ghiandola
- T1a: carcinoma invasivo limitato alla mucosa
T1b: carcinoma invasivo limitato alla sottomucosa
- T2: invasione della tonaca muscolare
- T3: estensione al tessuto adiposo periviscerale
- T4a: interessamento del peritoneo viscerale
T4b: interessamento di organi e strutture adiacenti
Il passaggio da T1 a T2 comporta un cambio di prognosi notevole: la sopravvivenza globale scende intorno
al 50% a 5 anni.

N – Nodes
Indica il numero di linfonodi metastatici sul totale dei linfonodi analizzati; vanno analizzati almeno 15-16
linfonodi lungo la grande e piccola curvatura.
- N0: non evidenza di metastasi ai linfonodi regionali
- N1: metastasi a 1-2 linfonodi
- N2: metastasi a 3-6 linfonodi
- N3a: metastasi a 7-15 linfonodi
N3b: metastasi a 16 o più linfonodi

M – Metastasi
In M1 le metastasi possono coinvolgere fegato, peritoneo e linfonodi non regionali; spesso le forme M1
non sono operabili.

TUMORI STROMALI GASTROINTESTINALI – Robbins

Il tumore stromale gastro-intestinale, GIST, è il tumore mesenchimale più comune dell’addome e nella
maggior parte dei casi interessa lo stomaco. Questa neoplasia deriva dalle cellule interstiziali di Cajal e il
termine stromale riflette la confusione storica che vi era sulla sua origine.
Il picco della diagnosi si ha intorno ai 60 anni e sono leggermente più colpiti gli uomini; si ha una maggiore
incidenza di GIST nei soggetti affetti da neurofibromatosi di tipo 1.

Patogenesi:
- Il 75-80% dei casi di GIST presenta mutazioni con acquisizione di funzione del gene codificante per
la tirosin-chinasi c-KIT, recettore per lo stem cell factor.
- Nell’8% dei casi si ha la mutazione del gene codificante per il recettore del fattore di crescita
piastrino-derivato α (PDGFRA)
- Altre mutazioni di geni coinvolti nelle medesime vie di KIT e PDGFRA

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- Mutazioni dei geni che codificano per le componenti del complesso della succinato deidrogenasi
mitocondriale (SDHA, SDHB, SDHC, SDHD); secondo alcune ipotesi l’accumulo di succinato
determina alterazioni del fattore indotto dall’ipossia (HIF-1α) e un implemento della trascrizione di
VEGF e IGF-1R.
- Perdita del regolatore del ciclo cellulare CDKN2A (associata alla progressione della patologia)
In caso queste mutazioni interessino la linea germinale si hanno forme di GIST familiari.

Morfologia
In genere formano una massa carnosa solitaria e ben circoscritta coperta da mucosa intatta o ulcerata, ma
possono anche sporgere verso la sierosa. Le metastasi assumono l’aspetto di noduli sierosi multipli presenti
in cavità peritoneale o a livello epatico.
I GIST sono costituiti solitamente da cellule fusiformi, ma possono esservi anche cellule dall’aspetto
epiteliale (forma a cellule epitelioide) e forme miste.

Clinica e terapia
All’esordio la sintomatologia può essere dovuta alla presenza della massa; l’ulcerazione della mucosa può
portare ad emorragia con conseguente anemia.
In caso di GIST localizzato la terapia di prima scelta è l’asportazione chirurgica; la prognosi è legata alle
dimensioni del tumore, all’indice di proliferazione e alla posizione (generalmente quelli gastrici sono meno
aggressivi di quelli intestinali).
Le neoplasie con mutazione di KIT o PDGFRA rispondono all’imatinib, inibitore delle tirosin-chinasi, ma
possono comparire resistenze nei pazienti trattati.

POLIPI GASTRICI – Robbins

POLIPI INFIAMMATORI E IPERPLASTICI

Rappresentano circa il 75% di tutti i polipi gastrici e sono comuni negli individui di 50-60 anni. Si sviluppano
spesso in associazione a gastrite cronica, a causa dell’iperplasia reattiva ad essa associata; i polipi associati
alla gastrite da H. Pylori possono regredire dopo l’eradicazione dell’infezione.
Al microscopio, i polipi hanno ghiandole foveolari irregolari, allungate e dilatate a formare cisti. La lamina
propria è tipicamente edematosa con diversi gradi di infiammazione acuta e cronica, e possono essere
presenti ulcere superficiali. Dal momento che il rischio di displasia è correlato alla grandezza i polipi di
dimensioni superiori a 1,5 cm devono essere asportati e subire un esame istologico.

POLIPI A GHIANDOLE FUNDICHE

Si verificano sporadicamente in individui affetti da poliposi adenomatosa familiare, FAP, e la loro incidenza
è aumentata negli ultimi anni a causa dell’aumento dell’uso di inibitori di pompa protonica: in questo caso
l’iperplasia ghiandolare è probabilmente dovuta all’aumento della secrezione di gastrina in risposta alla
riduzione dell’acidità gastrica.
Sono più comuni nelle donne intorno ai 60 anni e possono essere asintomatici o associati a nausea, vomito
e dolore epigastrico. Si formano solitamente nel corpo o nel fondo gastrico e sono composti da ghiandole
irregolari e dilatate a formare cisti, rivestite da cellule parietali e principali assottigliate, con infiammazione
minima o assente.

ADENOMI GASTRICI

Rappresentano il 10% dei polipi gastrici e interessano soprattutto i maschi intorno ai 50-60 anni; anche in
questo caso l’incidenza è maggiore nei soggetti con FAP e si verificano spesso in corso di gastrite cronica. In
caso di adenoma maggiore di 2 cm il rischio di adenocarcinoma è elevato: per definizione tutti gli adenomi
presentano una displasia epiteliale e rappresentano lesioni pre-cancerose.

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MALATTIE DEL FEGATO
Il fegato gode di una doppia circolazione: una sistemica garantita dall’arteria epatica, con ritorno venoso ad
opera delle vene centrali, e una portale derivante dal sangue refluo intestinale grazie alla vena porta,
pertanto è un organo poco sensibile all’ischemia. Il fegato dal punto di vista vascolare è suddivisibile in 8
segmenti: il segmento 1 posteriore caudato, i segmenti 2, 3 e 4 che costituiscono il lobo sinistro, i segmenti
4 e 5 che definiscono il letto epatico della colecisti e i segmenti 5, 6, 7 e 8 che rappresentano il lobo destro.

Facendo riferimento alla struttura epatica si distinguono:


- Lobulo epatico → delimitato in periferia dagli spazi portali,
presenta al centro la vena centrolobulare
- Acino epatico → è delimitato da due vene centro-lobulari e può
essere suddiviso in tre zone a seconda della distanza dall’arteria
epatica (gradiente di ossigenazione):
o Zona 1: si trova intorno allo spazio portale, è quella in cui
viaggia l’arteria epatica pertanto gode di una maggiore
ossigenazione
o Zona 2: il gradiente di ossigeno diminuisce
o Zona 3: il gradiente di ossigeno è minimo, pertanto le
noxae patogene determinano eventi necrotici soprattutto a livello di zona centro-lobulare

Osservando una immagine istologica si vedono:


- Spazio portale con connettivo fibroso poco denso,
dove giacciono il dotto biliare, il ramo della arteria
epatica e il ramo della vena porta; in particolare
arteria epatica e dotto biliare si trovano spesso
vicini, ma ciò può essere alterato in alcune
patologie a carico della via biliare, come la
colangite sclerosante primitiva
- Parenchima epatico con cordoni di epatociti
disposti in filiere monocellulari o bicellulari; tale
struttura organizzata viene meno in caso di
carcinoma epatocellulare
Da un punto di vista funzionale il fegato si occupa del metabolismo della bile, del metabolismo lipidico,
proteico, della detossificazione e della produzione di fattori della coagulazione.

TIPI ISTOLOGICI DI DANNO EPATICO

Con il termine necrosi epatocitaria si intende la morte degli epatociti del parenchima epatico, espressione
morfologica di un aumento di enzimi di citonecrosi ed ipertransaminasemia. Da un punto di vista clinico la
manifestazione principale della necrosi epatica è l’astenia, ma a seconda dell’estensione della necrosi
stessa si possono avere altre evidenze cliniche legate all’insufficienza epatica.

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Le cause possibili di necrosi epatocitaria sono diverse: infezioni, farmaci, tossine, malattie autoimmuni,
malattie da accumulo, ecc.
La biopsia epatica è un esame rischioso e con svariate controindicazioni, pertanto la sua esecuzione deve
essere sempre attentamente giustificata, anche perché vi possono essere anche complicanze importante,
seppur rare, come l’emoperitoneo.
In condizioni normali il fegato non rigenera ed è considerato un tessuto stabile (una mitosi ogni 400 giorni),
mentre in caso di danno tissutale e necrosi gli epatociti iniziano a proliferare; in particolare il fegato ha un
potenziale di replicazione e rigenerazione enorme che permette di utilizzare la tecnica Split-liver in
trapiantologia.

Necrosi parcellari

Interessano singole cellule o piccoli gruppi di cellule ed inducono una attivazione degli epatociti adiacenti
all’area colpita, portando una restitutio ad integrum.
Si distinguono due tipi:

- Necrosi apoptotica → coalescenza e frammentazioni


degli epatociti lungo la lamina epatocitaria con iniziale
picnosi fino alla carioressi e alla scomparsa del nucleo; si
ha anche la disgregazione del citoplasma (shrinkage
citoplasmatico). L’elemento morfologico tipico è il corpo
di Counciliman, un piccolo corpo eosinofilo che viene
eliminato nei sinusoidi epatici.

- Necrosi focale → si identificano alterazioni delle lamine


epatocitarie e piccoli infiltrati infiammatori di tipo
macrofagico e linfocitario, che provvedono alla
detersione della zona per permettere poi la
rigenerazione. Vicino ai focolai di necrosi si possono
trovare segni di rigenerazione, come epatociti con due
nuclei e lamine epatocitarie slargate con una popolazione
cellulare maggiore.

Necrosi estese

Necrosi di un numero elevato di epatociti limitrofi, cui corrisponde un importante aumento delle
transaminasi e una difficoltà di rigenerazione tissutale.
Si distinguono fondamentalmente quattro tipologie di necrosi estese:
- Necrosi confluente → necrosi di gruppi adiacenti di epatociti
- Necrosi a ponte → necrosi confluente con collasso della trama reticolinica che determina la
formazione di connessioni tra due spazi portali o tra uno spazio portale e una vena centrolobulare
- Necrosi massiva → necrosi panacinare o multilobulare che tende ad interessare ampie parti del
parenchima o tutto il parenchima; si verifica ad esempio nel contesto di una epatite acuta
fulminante o in caso di intossicazione da funghi e porta ad insufficienza epatica acuta.
Nelle necrosi estese al capacità di rigenerazione epatica non è sufficiente a garantire una restitutio ad
integrum e si ha l’attivazione di meccanismi di riparazione che comportano eventi cicatriziali di diversa
natura, tra cui l’accumulo di materiale fibrotico.

Altre lesioni

Esistono anche altri tipi di lesione epatica, importanti da un punto di vista diagnostico perché sono spesso
indicativi della causa del danno e della necrosi epatica:

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- Degenerazione piumosa → alterazione citoplasmatica tipica della
colestasi e dovuta all’azione tossica dei Sali biliari in cui i citoplasmi
risultano dilatati e pallidi; si può avere anche accumulo di materiale
biliari all’interno degli epatociti

- Degenerazione balloniforme → epatociti allargati con perdita del


profilo poligonali; è un processo tipico di epatite acuta e steatoepatite e
può evolvere nel processo apoptotico

- Aspetto “ground glass” degli epatociti → epatociti con componente eosinofila del citoplasma
(citoplasma rosa intenso), spesso contornata da un alone otticamente vuoto. La forma più comune
è correlata all’accumulo di HBsAg nell’epatite da HBV.
In caso di epatite da HBV si può eseguire anche l’esame immunoistochimico con anticorpo anti-
core: l’immunoreattività può essere sia a carico del citoplasma che del nucleo, se presente in
entrambi è segno di una replicazione virale molto intensa

- Vacuoli intranucleari → i nuclei epatocitari risultano chiari,


otticamente vuoti; la formazione di questi vacuoli intranucleari
può essere dovuta all’accumulo di glicogeno, all’accumulo di
lipidi o ad una invaginazione del citoplasma. L’accumulo di
glicogeno, illustrato nell’immagine, è frequente nei diabetici,
negli obesi e nella malattia dismetabolica.

- Rosette epatocitarie → alterazione della lamina sinusoidale con


atteggiamento acinare degli epatociti. La disposizione degli epatociti non più ordinata in sinusoidi
ma in pseudo-tubuli nel centro-lobulo è indice di degenerazione; questa alterazione è molto
frequente nella epatiti autoimmuni e si riscontra in posizione periportale nelle epatiti croniche e nel
centro-lobulo nelle colestasi.

- Reazione duttale → proliferazione di elementi a morfologia


duttulare che possono derivare dalla proliferazione di dotti
pre-esistenti o dalla metaplasia duttulare degli epatociti.
Questa lesione è frequente in caso di estesa necrosi, come
nelle epatiti acute.

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- Lipofuscinosi → accumulo di materiale brunastro e granulare
all’interno degli epatociti. Non è necessariamente indice di
patologia, infatti, si accompagna anche alla senescenza; talvolta è
indicativo di intolleranze o deficit enzimatici e può comparire
anche in soggetti giovani che abusano di farmaci. Il colore
brunastro della lipofuscina può far pensare ad un accumulo di
ferro: per distinguere queste due condizioni si procede con
colorazioni specifiche, come la colorazione di Perls, in cui il ferro
si colora in blu accesso mentre la lipofuscina non reagisce.

- Steatosi, steatoepatite alcolica e non alcolica → accumulo di


materiale lipidico sotto forma di goccioline all’interno degli
epatociti; a seconda delle dimensioni delle gocce si distinguono
steatosi microvescicolare, steatosi mediovescicolare e steatosi macrovescicolare. Generalmente la
steatosi alcolica è macrovescicolare, mentre quella dismetabolica è microvescicolare, pertanto il
tipo di steatosi indirizza la diagnosi.
Il grado di steatosi è stimato valutando l’area occupata dai vacuoli di grasso:
o Grado 0: assenza di steatosi
o Grado 1: area occupata da grasso fino al 33% del tessuto
o Grado 2: area occupata da grasso pari al 33-66% del tessuto
o Grado 3: area occupata da grasso maggiore del 66% del tessuto

- Corpi di Mallory Denk → accumulo di materiale PAS


positivo costituito da filamenti intermedi di citocheratina
(8 e 18) legati ad altre proteine; si hanno inclusioni amorfe
ed eosinofile all’interno dei citoplasmi. Si riscontrano nelle
steatoepatici, alcoliche e non alcoliche, nella cirrosi biliare
primitiva, nella malattia di Wilson (accumulo di rame) e
nell’epatocarcinoma.

Fibrosi

I setti fibrosi sono formazioni di tessuto fibroso disposto in lamine o bande nell’ambito del parenchima
epatico e vanno ad alterare in modo più o meno marcato la struttura dell’organo.
Esistono due tipi di setti fibrosi:

- Setti passivi
Si tratta di cicatrici fibrose che si formano in seguito ad un danno epatico; sono cicatrici senza
flogosi, senza generazione vascolare e senza proliferazione duttale. Sono quindi espressione di un
danno citonecrotico in guarigione e non danno problemi.

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- Setti attivi
Sono strutture fibrose estremamente vitali, caratterizzate da:
o Infiltrato infiammatorio cronico
o Neoangiogenesi
o Proliferazione duttulare
o Piece-meal necrosis (necrosi da interfaccia)
Si hanno quindi necrosi ed infiammazione: questi setti sono espressione della persistenza della
noxa patogena. L’attività di questi setti, ovvero la citonecrosi e l’infiammazione, determina un
automantenimento dell’evento fibrotico stesso: si ha un progressivo aumento del deposito di
collagene, che inizialmente interessa lo spazio portale, ma che si dirige poi verso la vena centro-
lobulare o verso un altro spazio portale fino a formare dei veri e propri ponti fibrosi. Il progredire
della fibrosi epatica porta poi alla cirrosi epatica.

Così come per le neoplasie, anche per la malattia epatica è possibile definire stadio e grado: il grado è
rappresentato dalla attività necro-infiammatoria, mentre lo stadio è definito dall’automantenimento e
dalla progressione della fibrosi.
Il gold standard per definire stadio e grado della malattia epatica è la biopsia.
Per quantificare la fibrosi non si esegue direttamente la biopsia, ma si procede prima con elastografia: la
biopsia diviene necessaria in caso di elastogramma sospetto per malattia cirrotica, steatosi avanzata
(aumenta la sensibilità all’elastografia) o insufficiente correlazione tra dato elastografico e quadro clinico
del paziente.
La biopsia è utile anche per definire come il soggetto risponde ad una data terapia; inoltre permette di
definire condizioni di overlap, ovvero casi in cui si sovrappongono più patologie.

L’epatite acuta è un danno epatocitario citonecrotico che si manifesta con apoptosi, necrosi focale o
necrosi marcata (confluente, a ponte o massiva) degli epatociti.
L’epatite cronica è caratterizzata da infiammazione e citonecrosi parenchimale e periportale associata a
riparazione e rigenerazione degli epatociti con deposizione di materiale collagenico di varia entità.

Esistono degli score che permettono di quantificare il danno epatico e consentono il rapido confronto pre-
e post- trattamento; il primo score usato fu quello di Knodell, ideato nel 1981, mentre attualmente nella
pratica clinica sono usati lo score di Ishak e lo score di Metavir.
Questi score permettono quindi di trasformare in numeri le alterazioni morfologiche del parenchima
epatico e ciò ha diversi vantaggi: il patologo esprime rapidamente la situazione, senza descrizioni lunghe, il
clinico memorizza meglio la situazione del paziente e valuta rapidamente la risposta alla terapia.

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Lo score di Knodell tiene conto di:
- Danno peri-portale, rappresentato dall’epatite di interfaccia o dalla
necrosi piece-meal
Può essere lieve, moderato o marcato a seconda che siano
interessati meno di un terzo, i due terzi o più di due terzi dello
spazio portale
- Danno parenchimale
È rappresentato dai focolai di necrosi e il punteggio assegnatovi
dipende dal numero di focolai che si identificano in un campo 10x
- Infiammazione portale
Punteggio assegnato sulla base dell’intensità dell’infiltrato infiammatorio e sul numero di spazi
portali interessati rispetto alla totalità degli spazi portali presenti

- Fibrosi
Punteggio da 0 a 4 a seconda che gli spazi portali siano normali, abbiano iniziato a sviluppare fibrosi
e risulti stellariformi, presentino ponti fibrosi intercellulari o vi siano noduli di rigenerazione e vera
e propria cirrosi

Nella pratica clinica gli score più usati sono quello di Metavir e
Ishak, che risultano più precisi nella valutazione dello stadio.
Il Metavir è sempre più usato, soprattutto in associazione con
l’elastografia e la valutazione di Pascal; lo score di Ishak è quello
che presenta una maggior correlazione tra lo score e la fibrosi
ritrovata tramite biopsia.

Lo score di Metavir viene effettuato su un ingrandimento 40x con colorazione tricomica che evidenzia la
fibrosi in blu e risulta ben correlato all’elastografia:
- F0: spazio portale normale
- F1: lieve espansione fibrotica in periferica
- F2: sottili tralci fibrosi che corrono verso un altro spazio portale
- F3: fibrosi marcata
- F4: cirrosi epatica

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NAFLD E NASH

NAFLD sta per malattia epatica non alcolica da accumulo di grasso, pertanto ai fini della diagnosi è
necessario escludere con certezza che si tratti di un danno alcol-correlato. La steatosi epatica non alcolica è
una patologia frequente e in aumento, con una prevalenza nei pazienti obesi, diabetici e dislipidemici.
Una quota significativa di pazienti con NAFLD sviluppano NASH ovvero una steatoepatite non alcolica: si ha
una condizione di citonecrosi ed infiammazione che determina una alterazione delle transaminasi ematiche
e che presenta la possibilità di evoluzione in cirrosi ed epatocarcinoma.
La NAFLD è diventata la causa più comune di epatopatia cronica negli Stati Uniti e colpisce oltre il 30% della
popolazione; tali stime sono però approssimative dal momento che la steatosi in assenza di altre
complicanze può anche passare inosservata. La NAFLD comprende la statosi epatica, la steatosi con minima
infiammazione aspecifica e la steatoepatite non alcolica.

Diagnosi

La diagnosi di NAFLD parte dell’ecografia, che evidenzia un fegato lucente, tipico della steatosi,
successivamente si eseguono diversi esami volti all’inquadramento clinico del paziente.
Nella NAFLD c’è evidenza di steatosi sia all’imaging che all’istologia, ma l’ecografia permette di visualizzare
la statosi solo quando essa supera il 30% (15-20% con ecografisti esperti).
La biopsia epatica è il gold standard, anche per differenziare NAFLD e NASH: permette di analizzare il livello
di infiammazione e citonecrosi e l’evoluzione in termini fibrotici.
Da un punto di vista istologico si riscontrano caratteristiche tipiche oltre alla steatosi:
- Degenerazione balloniforme, quindi presenza di epatociti di ampie dimensioni con citoplasma
chiaro, presente in maniera diffusa (score 2) o focale (score 1)
- Nuclei glicogenati, strettamente correlati alle malattie dismetaboliche come il diabete
- Corpi di Mallory, ovvero accumuli di materiale eosinofilo intracitoplsmatico
- Citonecrosi, di diversa estensione
- Infiammazione, caratterizzata da granulociti neutrofili che circondano gli epatici sede di grosse
bolle steatosiche
- Fibrosi
- Megamitocondri eosinofili PAS-positivi
Nella NASH la fibrosi è caratteristica: si sviluppa a partire dalla vena centro-lobulare, quindi dalla zona 3
dell’acino epatico, per poi espandersi nel lobulo attorno ai sinusoidi assumendo il tipico aspetto a zampa
di gallina, chicken-wire, fino a portare ad una cirrosi micro-nodulare (la fibrosi post-epatitica si sviluppa
invece a partire dallo spazio portale e si dirige in periferia).

Vi sono diverse condizioni che possono indurre un quadro morfologico epatico simile a quello della NASH:
- Cause nutrizionali o intestinali, come celiachia, sindrome dell’intestino corto, malnutrizione, ecc.
- Infezione cronica da HCV

36
- Colestasi gravidica
- Sostante tossiche esogene
- Malattie genetiche, come emocromatosi, malattia di Wilson
- Disordini endocrini, ad esempio ipotiroidismo, ovaio policistico, deficit di GH
- Farmaci, come le CAR-T, il tamoxifene e l’amiodarone
Queste condizioni vanno quindi escluse nel momento in cui si pone diagnosi di NASH.

Grading e staging

Il grading e lo staging della NASH si basano


sugli aspetti morfologici correlati alla steatosi
epatica: la steatosi può essere classificata sulla
base delle dimensioni delle vescicole di grasso
e sull’estensione, la degenerazione
balloniforme può essere focale o diffusa e
l’infiammazione viene valutata in base a
quantità e qualità dell’infiltrato; per quanto
riguarda la fibrosi, viste le caratteristiche
peculiari, la stadiazione non parte dalla zona 1
dell’acino, ma dalla zona 3.
La fibrosi peri-sinusoidale tipica della NASH
può essere evidenziata con impregnazione
argentica: si ha un ispessimento della trama
reticolare per deposizione di collagene di tipo
III che conferisce una colorazione giallo
intenso. Anche in questo caso con il
progredire della patologia si formano dei setti fibrosi.

La fibrosi, su cui si basa la stadiazione, può essere di più gradi:


0: non evidenza di fibrosi
F1: fibrosi perisinusoidale o periportale (F1a: lieve fibrosi in zona 3,
F1b: moderata fibrosi in zona 3, F1c: fibrosi portale)
F2: fibrosi portale
F3: fibrosi a ponte
F4: cirrosi epatica

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Storia naturale della NAFLD

Nel corso di 8-13 anni la NAFLD porta a cirrosi e carcinoma


epatocellulare, pertanto i pazienti devono essere
periodicamente controllati e ad un certo punto la biopsia
epatica si rende necessaria, sia per la valutazione del grado
di attività e dello stadio, sia perché una marcata steatosi
inficia la sensibilità dell’elastografia.

EPATITE AUTOIMMUNE – AIH

L’epatite autoimmune è una infiammazione persistente e progressiva del fegato ad eziologia sconosciuta,
nella quale si presume un meccanismo patogenetico autoimmune. Ha una spiccata prevalenza nel sesso
femminile e può manifestarsi a qualsiasi età, ma soprattutto in età giovanile e perimenopausale.
La diagnosi di AIH si basa sull’aumento delle transaminasi sieriche, sulla presenza di immunoglobuline G
e autoanticorpi e sulla presenza istologica di epatite da interfaccia.
Questa patologia risponde bene alla terapia immunosoppressiva basata su alte dosi iniziali di
corticosteroidi (prednisone e prednisolone), che vengono poi ridotte per introdurre l’azatioprina.

Secondo le linee guida europee:


- La possibilità di AIH andrebbe presa in considerazione in ogni paziente con malattia epatica acuta o
cronica, soprattutto in caso di ipergammaglobulinemia
- Una diagnosi corretta e tempestiva è cruciale, visto l’alto tasso di mortalità
- 1/3 degli adulti e ½ dei bambini presentano cirrosi epatica al momento della diagnosi
- La manifestazione di AIH acuta può derivare da un principio di malattia o dall’esacerbazione della
patologia già presente
- AIH si associa con altre patologie autoimmuni
- Nel momento in cui si esegue la diagnosi di AIH nei bambini è raccomandato eseguire una
colangiorisonanza per escludere una concomitante patologia biliare associata

Presentazione

La manifestazione clinica è variabile: vi sono casi asintomatici e casi acuti o fulminanti. Nel 25% dei pazienti
si registra un esordio acuto che può essere manifestazione di un principio acuto di AIH o rappresentare la
riacutizzazione di una forma cronica già presente.
I sintomi iniziali, quando presenti, sono aspecifici: stanchezza, affaticabilità, malessere, anoressia, nausea,
prurito, poliartralgia, ecc.
Il segno morfologico principale associato ad AIH acuta è la necrosi in zona 3.

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Tipologie

Sulla base degli autoanticorpi preseti è possibile distinguere diversi sottotipi di AIH:
- Tipo 1 (90% dei casi totali)
Sono presenti anticorpi anti-nucleo, anticorpi anti-muscolo liscio e anticorpi anti-antigene
solubile di fegato e pancreas; spesso si ha l’associazione con HLA-DR3, DR4 e DR13.
Colpisce principalmente i soggetti adulti con una severità clinica ed istopatologica variabile;
risponde in modo ottimale alla terapia con corticosteroidi, sebbene durante il décalage possa dare
riacutizzazioni.
- Tipo 2 (10% dei casi totali)
È tipico dei bambini e dei giovani adulti, sono presenti anticorpi anti-LKM1, anti-LC1 e raramente
anti-LKM3 (anti-LKM: anticorpi anti-microsomi di fegato e rene). Frequente è l’associazione con
HLA-DR3 e DR7. Il quadro clinico ed istopatologico è spesso severo e la risposta alla terapia
corticosteroidea è variabile, ma solitamente scarsa.
- Tipo 3 (10% dei casi)
Caratterizzato dalla presenza di un unico tipo di anticorpi: anti-SLA/LP (antigene solubile di
fegato/pancreas)

Diagnosi

Fondamentale per la diagnosi di AIH è l’esame istologico: suggestivi di AIH sono epatite da interfaccia,
necrosi periportale, emperipolesi e rosettamento degli epatociti.
La necrosi in zona 3 in corso di AIH è indistinguibile da quella presente nella malattia epatica da farmaco
(DILI: drug-induced liver injury), pertanto la diagnosi differenziale non è semplice e necessita di una attenta
anamnesi per determinare se il paziente ha abusato di qualche farmaco prima di presentare l’evento acuto.
La biopsia epatica in caso di AIH risulta fondamentale per:
- Stabilire la diagnosi (nelle forme acute non sempre sono presenti anticorpi e immunoglobuline)
- Stabilire la severità della malattia, ovvero stabile grado e stadio
- Stabilire il tipo di AIH
o AIH classica
o AIH acuta con necrosi massiva/ALF (acute liver failure) anche se secondo la professoressa in
questo caso ad essere dirimente è l’andamento delle transaminasi
o AIH acuta su malattia cronica (flare), che nella pratica clinica rappresenta la forma di AIH
più comune, soprattutto negli anziani.
o AIH con aspetti colestatici

Oltre all’esame istologico altri criteri importanti


per la diagnosi sono la presenza, il tipo e il titolo
degli autoanticorpi e l’incremento delle IgG
sieriche.

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I criteri morfologici per la diagnosi di AIH sono:
- Epatite da interfaccia con massivo infiltrato linfocitario/linfoplasmacellulare, soprattutto a livello
periportale. La presenza delle plasmacellule è controversa, secondo alcuni è fondamentale, ma
attualmente non rientra nei criteri diagnostici.
- Emperipolesi, ovvero la presenza di un linfocita all’interno di un epatocita (rara da indentificare)
- Rosette epatocitarie, ovvero aggregazioni di epatociti che assumono la forma di un dotto biliare.
L’AIH non dovrebbe presentare danno colestatico associato, ma sono possibili sindrome da overlap
con la presenza contemporanea di colangite biliare primitiva o colangite sclerosante primitiva; nella
età pediatrica e giovanile si hanno spesso AIH e CSP: si parla di colangite sclerosante autoimmune.
Secondo l’anatomopatologa Dana Bolitzer, con cui la professoressa concorda, le rosette epatocitarie e
l’emperipolesi non sono necessari per la diagnosi, vista la difficile reperibilità istologica e il fatto che
possono essere presenti anche in altre patologie.
Le rosette epatocitarie sono indicative di rigenerazione epatica; solitamente non si valuta la presenza delle
rosette ma il cobblestone, ovvero il fatto che gli epatociti perdano l’aspetto laminare a favore di un aspetto
vagamente nodulare, indicativo di rigenerazione.

La Bolitzer ha inoltra approfondito l’espressione delle citocheratine a livello epatico:


- Le cellule dei dotti biliari esprimono CK7, CK19, CK8 e CK18, mentre gli epatociti esprimono solo
CK8 e CK18
- In caso di patologia biliare gli epatociti possono andare incontro ad una regressione del loro stadio
di differenziazione ed iniziare ad esprimere anche CK7, con il fine metaplasico di differenziarsi in
senso biliare per compensare l’eventuale necrosi
La valutazione delle citocheratine permette quindi di distinguere una patologia prevalentemente
autoimmune da una malattia autoimmune con associato un interessamento colestatico.

L’epatite da interfaccia ha valore anche prognostico: presenza e gravità dell’epatite da interfaccia sono
predittivi dell’eventuale sviluppo di fibrosi; inoltre, la sua persistenza post-terapia si associa ad un
aumentato rischio di fibrosi progressiva.
Un altro aspetto presente nelle epatiti acute autoimmune è la necrosi intorno alla vena centrale: il patologo
la segnala al clinico, che indaga l’assunzione di farmaci che possono risultare epatotossici o fungere da
trigger per il sistema immunitario.

Quadri istologici tipici dell’AIH

Quadro acuto e fulminante


Il patologo Czaja ha suddiviso le forme acute e fulminanti di AIH in:
- AIH cronica con esacerbazione spontanea
- AIH cronica con sovrapposto danno acuto virale o tossico che esacerba la malattia
- AIH acuta con sviluppo de novo
- AIH acuta secondaria a terapie immunologiche o trapianti epatici

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Quadro associato a cirrosi
Circa un terzo dei pazienti presenta cirrosi al momento della diagnosi, principalmente di tipo
macronodulare.

Quadro post-terapia
La valutazione istologica post-terapia è fondamentale per verificare la reale remissione della malattia,
infatti, il paziente può presentare una remissione clinica non associata ad una reale remissione istologica
rischiando una riacutizzazione in caso di sospensione della terapia. Per confermare la remissione indice
istologico di attività deve essere inferiore a 3/18.
Nei soggetti in terapia quindi l’elemento determinante per il mantenimento o la sospensione della terapia è
la presenza o meno dell’epatite da interfaccia alla biopsia.

In questa immagine si osserva uno spazio portale: sono visibili il ramo della vena porta, cerchiato in blu, e
numerosi dotti biliari, cerchiati in verdi; si può notare l’epatite da interfaccia, ovvero una zona di necrosi
mediata da linfociti che si trova tra il parenchima e la fibrosi. In rosso è indicato un setto fibroso attivo
porto-portale, che si estende tra due spazi portali.
Anche in questo caso per evidenziare la fibrosi si può usare l’impregnazione argentica: il materiale colorato
in giallo/arancio è collagene di tipo III.

MALATTIE AUTOIMMUNI DELLE VIE BILIARI

COLANGITE BILIARE PRIMITIVA – CBP

La colangite biliare primitiva è una malattia autoimmune del fegato ad eziologia sconosciuta che colpisce i
dotti biliari di piccolo calibro (si tratta dei dotti presenti nello spazio portale, quindi nella zona 1).
La denominazione che meglio descrive questa malattia è colangite cronica distruttiva non suppurativa:
- Il termine colangite indica un’infiammazione delle vie biliari in cui i linfociti T aggrediscono i dotti
biliari
- Distruttiva perché i linfociti arrivano a distruggere il dotto biliare
- Non suppurativa dal momento che non sono implicati granulociti neutrofili
La CBP può interessare entrambi i sessi, ma colpisce soprattutto il sesso femminile in età post-
menopausale.

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Patogenesi

La causa è sconosciuta, ma vi sono diverse ipotesi tra cui una aberrante espressione di molecole MHC-II sulle
cellule epiteliali dei dotti, una risposta T-mediata diretta contro i dotti biliari e la produzione di anticorpi
anti-mitocondri diretti contro gli epatociti. Si è visto che l’antigene riconosciuto è la componente E2 del
complesso della piruvato deidrogenasi mitocondriale, PDC-E2.

Clinica

Circa il 50% dei pazienti è asintomatico e le anomalie vengono rilevate in maniera incidentale durante gli
esami di routine. L’altro 50% dei pazienti presenta sintomi aspecifici, tra cui il principale è il prurito severo
intrattabile, non responsivo agli antistaminici. Altri sintomi sono: astenia, dolore addominale, ittero,
iperpigmentazione cutanea, fegato lievemente ingrossato, ipercolesterolemia, splenomegalia, xantomi e
xantelasmi.
Spesso la CBP si associa ad altre malattie autoimmuni: sindrome di Sjogren, artrite reumatoide, tiroidite
autoimmune, sclerodermia, CREST, ecc.

Diagnosi

Esami di laboratorio su campione ematico


L’innalzamento delle transaminasi sieriche è modesto, mentre aumentano sensibilmente gli indici di
colestasi, ovvero la fosfatasi alcalina e la γ-GT.
Bilirubina sierica e albumina sierica sono solitamente normali nelle fasi iniziali, mentre aumentano il
colesterolo e le lipoproteine.
Gli auto-anticorpi solitamente presenti sono:
- Anticorpi anti-mitocondrio, AMA
- Anticorpi anti-nuncleo, ANA
Si registra anche un aumento di IgM.

Biopsia epatica
La biopsia non è sempre necessaria per la diagnosi, infatti, in un paziente con clinica sospetta e
autoanticorpi caratteristici la diagnosi può essere posta senza dover ricorrere alla biopsia.
Tuttavia la biopsia è necessaria quando:
- Il trattamento specifico porta ad un iniziale miglioramento, seguito poi da una ripresa della
sintomatologia
- Il paziente è AMA-negativo (5% dei casi)
- Si sospetta l’associazione con un’altra patologia autoimmune
- Si vuole valutare lo stadio della malattia

Gli attuali criteri diagnostici sono:


- Aumento della fosfatasi alcalina di almeno 1,5 il limite superiore della norma
- AMA > 1:40
- (riscontro istologico di colangite distruttiva non suppurativa)

Trattamento

Il farmaco d’elezione per il trattamento delle CBP è l’acido ursodesossicolico, che riduce l’accumulo
intraepatico di Sali biliari e il loro riassorbimento intestinale. La maggior parte dei pazienti risponde al
trattamento, ma in alcuni casi si assiste ad un peggioramento dei parametri ematochimici nonostante la
terapia. La risposta al trattamento risulta peggiore se si ha l’associazione con altre patologie autoimmuni.
Il decorso della CBP, se non viene frenato dal farmaco, tende a portare a cirrosi epatica: in questo caso è
necessario procedere con trapianto di fegato.

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Storia naturale e morfologia

Nella CBP si succedono 4 stadi che progressivamente portano al sovvertimento della struttura epatica e
all’evoluzione verso la cirrosi.

Stadio 1
Si ha una lesione florida dei dotti biliari interlobulari: sono
presenti un’infiltrazione infiammatori marcata in zona 1 e linfociti T
all’interno dei dotti biliari di piccolo calibro; a ciò è dovuta la
colangite distruttiva. L’infiltrato infiammatorio è costituito da
plasmacellule ed eosinofili, ma non sono presenti neutrofili; è
presente una importante attivazione macrofagica che si esprime
sottoforma di granulomi aspecifici.
La biopsia epatica rileva: corpi di Mallory Denk, ovvero inclusioni
amorfe ed eosinofile all’interno del citoplasma, steatoepatite,
malattia di Wilson, carcinoma epatocellulare.

Stadio 2
Si ha una reazione duttale conseguente al danno: si verifica la
proliferazione duttale, gli spazi portali divengono deformi,
l’infiammazione si estende al parenchima e si sviluppa fibrosi
peri-portale con setti fibrosi a decorso porto-portale. Si ha
anche epatite da interfaccia con piece-meal necrosis.
In risposta al danno l’epatocita va incontro a metaplasia
duttale: va incontro a de-differenziazione e si ri-differenzia in
senso biliocitario, pertanto inizia ad esprimere la citocheratina
CK7.

Stadio 3
La fibrogenesi porta alla formazione di numerosi setti porto-
portali e si ha la progressiva sostituzione del parenchima epatico
con noduli di rigenerazione, condizione che pone le basi per la
successiva evoluzione in cirrosi. In questa fase il fegato è di
dimensioni aumentate e colore verde brillante a causa della
colestasi.

Stadio 4
Si ha cirrosi epatica conclamata: macroscopicamente è
apprezzabile una fine nodularità, mentre istologicamente sono
presenti noduli di rigenerazione circondati da setti fibrosi. Il
fegato cirrotico nella CBP, ma anche nella CSP, risulta di
dimensioni aumentate, verdastro e con macronoduli.

COLANGITE SCLEROSANTE PRIMITIVA – CPS

La colangite sclerosante primitiva è una malattia cronica progressiva, ad eziologia autoimmune,


caratterizzata da infiammazione aspecifica dei dotti biliari con conseguenti fenomeni di ectasia e stenosi.
A differenza della CBP, interessa i dotti di medie e grandi dimensioni e l’infiammazione progredisce fino
alla completa distruzione della struttura duttale, con effetti secondari anche sul parenchima epatico.

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Va distinta dalla colangite sclerosante secondaria, che si instaura dopo interventi chirurgici sulle vie biliari,
colelitiasi, anomalie congenite delle vie biliari e colangiopatie ischemiche o iatrogene.

Clinica

Il 75% dei pazienti ha meno di 50 anni e la malattia può manifestarsi anche in età pediatrica; colpisce
prevalentemente i maschi, con un rapporto M:F di 2-3:1.
La manifestazione clinica include: affaticamento, dolore addominale, ittero intermittente, colangiti
ricorrenti.
Può associarsi ad altre malattie, come rettocolite ulcerosa (75% dei casi), malattia di Crohn, pancreatite
(conseguente all’interessamento dei dotti pancreatici), tiroidite di Riedel, detta anche tiroidite fibrosa,
malattia celiaca e lupus.
La CSP è scarsamente responsiva ai trattamenti e presenta un decorso progressivo verso la cirrosi e
l’insufficienza epatica, con conseguente necessità di trapianto di fegato, che si instaura dopo 5-17 anni.
Tale patologia inoltre, rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo del colangiocarcinoma.

Diagnosi

La biopsia epatica in questo caso non è il gold standard diagnostico, ma risulta utile per monitorare
l’evoluzione della fibrosi del parenchima epatico o nel caso si sospettino sindromi da overlap.
L’iter diagnostico della CSP richiede innanzitutto l’esclusione di qualsiasi altra patologia associata ad
infiammazione della via biliare, come colangiti, colecistiti, interventi sulle vie biliari, ecc.
Non vi sono marker specifici della patologia, ma si registrano:
- Aumento degli indici di colestasi
- Possibile presenza di anticorpi ANCA
- Aumento delle IgG, soprattutto nei bambini
Il gold standard per la diagnosi è la colangio-RM che evidenzia la flogosi
della parete dei dotti biliari e la formazione di aree di stenosi
intervallate da aree di dilatazione dell’albero bronchiale.
Molto spesso si riscontra un aumento del Ca19-9, marcatore tumorale
associato alle neoplasie di pancreas e vie biliari; nella CSP i livelli sierici di
tale marker risultano fluttuanti, ma va tenuto presente che un suo
aumento può essere associato anche a colangiocarcinoma, temibile
complicanza della CSP.
Il marcatore Ca19-9 complica quindi la gestione del paziente, anche
perché per lo studio di tessuto prelevato dalle vie biliari richiede una colangiopancreatografia retrograda
endoscopica o una ecoendoscopia, entrambe metodiche invasive; inoltre, l’infiammazione caratteristica
della CSP determina proliferazione e riparazione tissutale ed è possibile che l’epitelio biliare assuma
caratteristiche displastiche o neoplastica anche in assenza di una reale neoplasia.

Aspetti istologici

L’aspetto istologico distintivo è rappresentato dalla fibrosi


obliterativa dei dotti biliari, con deposito di materiale
collagene a bulbo di cipolla intorno al dotto; l’epitelio del
dotto diviene atrofico e regredisce. L’esito finale di questo
processo è rappresentato da un cordone fibroso che
sostituisce l’unità duttale: il dotto biliare si oblitera
completamente. Fibrosi a bulbo di cipolla (A); obliterazione del dotto
Questo aspetto è caratteristico dalla CSP, ma dal momento biliare sostituito da un’area di intensa fibrosi (B).
che essa interessa soprattutto i dotti di medio e grosso
calibro, la biopsia epatica intraprenchimale risulta diagnostica in meno del 40% dei casi.

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Le alterazioni istologiche prevedono il susseguirsi di 4 stadi:
- Stadio 1 → interessamento dello spazio portale: infiltrato infiammatorio costituito da linfociti,
plasmacellule e neutrofili, disposti intorno ai dotti biliari. L’epitelio biliare può mostrare aspetti
regressivi. È assente l’emperipolesi.
- Stadio 2 → infiltrato infiammatorio aggredisce la lamina limitante ed insorge l’epatite da
interfaccia; si associano aspetti di colangite e proliferazione duttale.
- Stadio 3 e 4 → progressiva fibrosi porto-portale fino alla formazione di noduli di rigenerazione e
cirrosi conclamata. Macroscopicamente il fegato risulta di dimensioni aumentate e colorazione
verde brillante a causa della colestasi.

Trattamento

Il trattamento d’elezione è rappresentato dal trapianto di fegato, ma si può provare una terapia
immunosoppressiva associata ad acido ursodesossicolico.

COLANGIOCARCINOMA INTRAEPATICO – iCC

Il colangiocarcinoma intraepatico è una neoplasia maligna epiteliale con differenziazione biliare;


rappresenta il 10-15% dei tumori primitivi del fegato e ha una lieve predominanza nel sesso maschile.
Rientra nei tumori rari, ovvero tumori con una incidenza inferiore a 6/100.000 abitanti, ma tale incidenza
risulta maggiore in Cina e Tailandia in relazione al maggior tasso di infezioni da elminti in queste aree.
Nel Sud Est asiatico infatti i principali agenti eziologici sono gli elminti Clonorchis Sinensis e Opistorchis
Viverrini, che causano infezioni delle vie biliari, ma ritroviamo anche condizioni di epatolitiasi come agente
eziologico.
Nei paesi occidentali invece i principali agenti eziologici sono le infezioni ricorrenti dei dotti biliari, la
colangite sclerosante primitiva e le infezioni da HBV e HCV.

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Il colangiocarcinoma è un tumore adenocarcinomatoso che può insorgere ovunque nell’albero biliare,
pertanto è necessaria una prima distinzione tra le forme intraepatiche e le forme extraepatiche.
Le forme intraepatiche di colangiocarcinoma insorgono all’interno del parenchima epatico e possono
derivare dai dotti di piccolo calibro (small duct subtype) o dai dotti di grande calibro (large duct subtye); le
forme intraepatiche insorgono spesso in pazienti con infezione da HBV o HCV non cirrotici e quindi non
sottoposti a screening ecografico, pertanto è comune la diagnosi in fase avanzata.
Le forme extraepatiche di colangiocarcinoma comprendono le forme peri-ilari (tumore di Klatskin) e i
tumori delle vie biliari distali.
La differente localizzazione determina anche una differente sintomatologia: le forme intraepatiche sono
spesso silenti, mentre le forme extraepatiche presentano sintomi tardivi come ittero e colangite.

Attraverso l’imaging sono stati identificati tre pattern di crescita


macroscopica del carcinoma:
- Mass forming pattern → si presenta come un nodulo
compatto biancastro
- Pattern infiltrante periduttale → la neoplasia cresce
infiltrando la parete dei dotti; questo pattern è
caratterizzato da infiltrazione delle vie portali, stenosi biliare
e spesso colangite
- Pattern a crescita intraduttale → cresce all’interno del
dotto biliare e risulta difficile da individuare all’ecografia
(abbastanza visibile alla TC se il radiologo è esperto)
Il secondo e il terzo tipo sono difficili da identificare all’ecografia, pertanto si ricorre alla TC.

Forme intraepatiche dei piccoli dotti

Si sviluppano soprattutto a partire dai dotti biliari terminali, pertanto si riscontrano soprattutto nella
periferia del fegato, intesa dal punto di vista biliare, quindi lontano dall’ilo e dalle grandi vie biliari.
Il pattern di crescita più frequente è il mass forming, ma si può riscontrare anche il pattern ad infiltrazione
periduttale.
Fattori di rischio nello sviluppo del colangiocarcinoma intraepatico dei piccoli dotti sono:
- Infezioni da HBV e HCV
- NASH
- Sindrome metabolica
- Esposizione ad agenti lesivi (è in studio il ruolo dell’asbesto)
Il dotto biliare nello spazio portale condivide i medesimi fattori di rischio del parenchima epatico circostante,
tanto che il colangiocarcinoma può essere riscontrato in concomitanza a carcinoma epatocellulare in caso di
cirrosi di lunga durata.
Non esistono lesioni precursori note di questa neoplasia.

46
Morfologicamente si riscontrano noduli biancastri
lardacei: si ha una componente adenocarcinomatosa
con dotti neoplastici atipici immersi in uno stroma
desmoplastico che conferisce una consistenza dura
(reazione desmoplastica = crescita di connettivo
secondaria ad uno stimolo). Queste caratteristiche sono
comuni anche al carcinoma del pancreas e al carcinoma
duttale della mammella.
Questo tumore è sempre positivo alle citocheratine 8,
18, 7, 19, ma non vi sono marcatori tumorali specifici. A
seconda di quanto ci si allontana dalla struttura duttale è
possibile suddividere il grading in differenziato,
moderatamente differenziato e scarsamente
differenziato.

Forme intraepatiche dei grandi dotti

Queste forme nascono da dotti di calibro maggiore, pertanto si riscontrano nel parenchima epatico vicino
all’ilo; possono presentare un pattern mass forming, un pattern ad infiltrazione periduttale o un pattern a
crescita intraduttale.
I principali fattori di rischio in questo caso sono: colangite sclerosante primitiva, epatolitiasi e infezioni da
parassiti delle vie biliari.
Si hanno una precursori morfologici:
- Biliary intraepithelial neoplasia, BilIN
- Intraductal papillary neoplasia, IPNB
Si presenta come cellule colonnari aggregate in strutture
ghiandolari con reazione desmoplastica; spesso queste
neoplasie producono mucina, quindi hanno un aspetto
mucinoso, e sono presenti aree di necrosi.
Talvolta, questi tumori possono assumere un aspetto a cellule
chiare e simulare un carcinoma del rene, della vescica o del
polmone.
Istologicamente è possibile osservare due fenomeni che
rappresentano anche due importanti fattori prognostici
negativi:
- Invasione vascolare
- Permeazione perineurale

Immunoistochimica

Questi tumori esprimono le citocheratine biliari, soprattutto le citocheratine 7 e 19.

47
Una delle problematiche della diagnostica immunoistochimica è che fino al 25% dei carcinomi
epatocellulari esprime almeno una citocheratina biliare, dal momento che sono presenti epatociti
sdifferenziati, pertanto la diagnosi differenziale non è semplice.
È stato osservato che il colangiocarcinoma esprime il gene dell’albumina umana, dal momento che deriva
da cellule che condividono la medesima origine dell’epatocita, e ciò permette di differenziarlo da altre
tipologie di tumore (la diagnosi differenziale principale è quella con forme metastatiche da altre sedi e con
l’epatocarcinoma). La positività all’albumina è quindi un indizio di primitività intraepatica.
Per distinguere le forme di colangiocarcinoma intraepatico dei piccoli dotti da quelle dei grandi dotti si può
usare CD56: le forme dei grandi dotti sono negative.

Precursori

La neoplasia intraduttale biliare, BilIN, è il precursore morfologico del colangiocarcinoma (equivale al


PanIN pancreatico) è può essere divisa in tre gradi:

Nella displasia a basso grado si ha un’atipia cellulare lieve


con una buona differenziazione dell’epitelio biliare, mentre
nella displasia di alto grado si ha una atipia cellulare
rilevante ma non sufficiente per una diagnosi sicura di
malignità. Nel BilIN 3 si hanno invece alterazioni citologiche
indicanti una sicura malignità. La nuova classificazione WHO
distingue solo BilIN di basso grado (1 e 2) e di alto grado (3).

Nel momento in cui si vuole andare ad eseguire il grading della


lesione bisogna tener conto di:
- Alterazioni della proliferazione
- Ipercromia del nucleo
- Alterazioni del rapporto nucleo-citoplasma
- Perdita di polarizzazione
- Aspetti di pseudo-stratificazione
Più questi criteri sono intensi, più alta è la displasia.

La neoplasia papillare intraduttale dei dotti biliari, IPNB, può essere rilevata anche tramite imaging dal
momento che si ha una massa papillare a cavolfiore con formazione di muco. Quando rilevata tramite
imaging si tratta già di una lesione neoplastica rilevante da rimuovere.
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Dal punto di vistsa morfologico è costituita da epitelio variegato che può essere di tipo: pancreatico-
biliare, gastrico, intestinale o oncocitario. Il rischio di progressione è maggiore nella forma pancreatico-
biliare (prima immagine sotto), seguita dalla forma intestinale (seconda immagine), da quella oncocitaria e
da quella gastrica.
Il profilo pancreatico-biliare può essere riconosciuto tramite all’analisi immunoistochimica tramite le MUC,
ovvero anticorpi che riconoscono le diverse mucine espresse nei diversi tessuti: MUC1 è espressa
dall’epitelio pancreatico e biliare, MUC2 dall’epitelio intestinale, MUC5AC è ubiquitaria.
Sono espresse anche le citocheratine 7 e 20, che però non permettono di differenziare i diversi sottotipi.

Questa lesione presenta una altissima associazione con carcinoma (90%): quando la si identifica va sempre
pensato che si ha la controparte maligna infiltrante da qualche parte.

Classificazione molecolare del colangiocarcinoma intraepatico

Questa classifica WHO 2019 identifica due sottoclassi:


- Sottoclasse infiammatoria → segue il pathway infiammatorio e presenta una sovraespressione di
IL-10, IL-6 e l’attivazione di STAT3 (40% dei casi)
- Sottoclasse proliferativa → segue la linea di attivazione degli oncogeni RAS, MAP-K, MET, BRAF e
KRAS; è caratterizzata da instabilità cromosomica e presenza di una componente cellulare
indifferenziata con cellule staminali; risulta più aggressiva. (rappresenta il 60% dei casi).

Sottotipi istologici

Il colangiocarcinoma intraepatico può essere classificato in:


- Colangiocarcinoma dei piccoli dotti
- iCC con pattern di malformazione della placca duttale
- carcinoma squamoso/adenosquamoso
- carcinoma mucinoso/con componenti simili alle signet ring cells
- carcinoma a cellule chiare
- carcinoma mucoepitelioma-like
- carcinoma sarcomatoide

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Stadiazione

CIRROSI EPATICA

La cirrosi epatica rappresenta lo stadio terminale di molte malattie infiammatorie croniche del fegato, a
diversa eziologia, in cui attività e stadio non sono modulati/arrestati da terapia specifica.
La cirrosi è la dodicesima causa di morte più comune negli Stati Uniti.

Le cause di cirrosi epatica sono molteplici:


- epatiti virali croniche (HBV, HDV e HCV)
- epatite autoimmune
- malattia steatosica epatica, alcolica e non
- malattie biliari primitive (CSP e CBP)
- atresia biliare (malattia pediatrica che comporta la scomparsa delle vie biliari del fegato; si riscontra
in età prenatale e viene diagnosticata tramite colangiografia o biopsia epatica)
- malattie genetiche
- emocromatosi
- malattia di Wilson
- deficit di α1-antitripsina
- malattie vascolari
o ostruzione del deflusso delle sovra-epatiche (Budd-Chiari)
o sindrome da ostruzione sinusoidale
o cirrosi cardiaca
- farmaci
L’eziologia della cirrosi non è sempre facile da
determinare e in alcuni casi rimane ignota, ma
è sempre importante indagare comunque la
storia clinica del paziente.

La cirrosi è caratterizzata da diverse


alterazioni cliniche e patologiche, tra cui:
• Insufficienza epatica
• Ipertensione portale
• Ascite
• Varici esofagee
• Encefalopatia epatica

Aspetto macroscopico

Cirrosi micronodulare
La cirrosi micronodulare presenta la sostituzione del parenchima epatico da parte di noduli di rigenerazione
con asse maggiore di dimensioni < 3 mm, motivo per cui essi non sono osservabili tramite ecografia.
50
Le principali cause di cirrosi micronodulare sono: alcolismo cronico, malattia di Wilson, CPB ed
emocromatosi.
Il colore del fegato cirrotico dipende dall’eziologia: nelle forme post-epatitiche si ha un fegato di colore
rosso vino, mentre nelle forme colestatiche l’organo risulta verdastro.

Cirrosi macronodulare
Si presenta tipicamente in seguito ad infezioni virali (HBV, HCV), malattia di Wilson e deficit di α1-
antitripsina.

L’altra manifestazione macroscopica è rappresentata dalla cirrosi mista.

Esempi di preparati istologici:

Nell’immagine a lato si osservano numerosi setti fibrosi


attivi: sono presenti infiammazione, neo-angiogenesi e
proliferazione nodulare.
Nell’immagine in basso a sinistra si osserva la presenza
di numerosi linfociti nei setti fibrosi, condizione che fa
pensare ad una cirrosi con eziologia autoimmune.
Nell’immagine in basso al centro si osserva un fegato
steatosico, condizione che fa sospettare una cirrosi da
malattia metabolica. I corpi di Mallory Denk possono
essere indicativi di alcolismo, malattia metabolica o
CBP. Nell’immagine in basso a destra si evidenziano
formazioni arancioni, indicative di colestasi.

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Caratteristiche morfologiche – Robbins

La cirrosi è definita da tre caratteristiche morfologiche principali:


- Setti fibrosi a ponte
- Noduli parenchimali contenenti epatociti proliferanti e circondati da fibrosi
- Sovvertimento dell’intera architettura epatica
Per la diagnosi di cirrosi è importante anche ricorrere a colorazioni specifiche, come la tricomica di Mallory,
che colora in blu il connettivo, o l’impregnazione argentica, che lo colora in nero.

Patogenesi – Dispensa (Robbins)

I meccanismi patogenetici alla base della cirrosi sono la morte degli epatociti, la deposizione di matrice
extracellulare e la riorganizzazione vascolare. Nella cirrosi il collagene si deposita nello spazio di Disse
creando tralci fibrosi; l’architettura vascolare è compromessa dal danno e dalla cicatrizzazione del
parenchima e si ha la formazione di nuovi vasi che decorrono lungo i setti fibrosi e connettono le strutture
vascolari portali, ovvero arterie epatiche e rami della vena porta, con le vene epatiche terminali, creando
quindi uno shunt che “salta” il parenchima epatico.
La deposizione di collagene nello spazio di Disse si accompagna alla perdita di fenestratura dei sinusoidi
(capillarizzazione dei sinusoidi), condizione che ne compromette la funzionalità e incrementa la pressione
ematica.
Il meccanismo predominante nella fibrosi è la proliferazione delle cellule stellate epatiche e la loro
attivazione in cellule fibrogeniche, ma sono coinvolti anche altri tipi cellulari: fibroblasti portali, fibrociti e
cellule derivanti dalla trasformazione epitelio mesenchima; contestualmente vengono prodotte e rilasciate
dalle cellule di Kupffer e dai linfociti chemochine e citochine coinvolte nell’espressione dei geni fibrogenici.
Le cellule stellate vengono quindi indotte a trasformarsi in miofibroblasti, in grado di restringere il lume dei
sinusoidi e di aumentare la resistenza vascolare intraparenchimale.
Il danno epatico e la fibrosi stimolano gli epatociti alla rigenerazione e si formano i tipici noduli.
La distruzione dell’interfaccia tra parenchima e tratti portali può occludere i canalicoli biliari, portando ad
ittero.

Clinica e conseguenze sugli altri organi – Dispensa (Robbins)

Circa il 40% dei pazienti è asintomatico fino ad una fase tardiva della malattia; quando sintomatici i pazienti
presentano anoressia, calo ponderale, astenia e solo nelle fasi avanzate sintomi legati all’insufficienza
epatica.
Il sovvertimento dell’architettura epatica si manifesta sull’organismo con diversi quadri, molti dei quali
sono legati all’ipertensione portale.
L’ipertensione portale è dovuta all’aumento delle resistenze al flusso portale che si verifica a livello dei
sinusoidi epatici e alla circolazione iperdinamica, che determina un aumento del flusso portale. Anche le
anastomosi tra la circolazione arteriosa e il sistema portale, che si verificano nei setti fibrosi, contribuiscono
all’ipertensione portale, dal momento che impongono i livelli pressori arteriosi nel circolo portale,
normalmente a bassa pressione.
La circolazione iperdimanica si instaura a causa di una vasodilatazione arteriosa che si verifica a livello
splancnico: l’aumento del flusso arterioso determina a sua volta un aumento dell’efflusso venoso portale;
tale vasodilatazione arteriosa sembra legata ad un aumento della produzione di ossido nitrico, a sua volta
causata da una maggior ritenzione di batteri a livello intestinale, cui contribuiscono una riduzione della
funzionalità del sistema immunitario e lo shunt porto-sistemico che si instaura a livello epatico e che
determina il by-pass delle cellule di Kupffer.
L’ipertensione portale ha diverse conseguenze:
• Ascite
Consiste nell’accumulo di liquidi in cavità addominale e diviene clinicamente significativo quando
supera i 500 ml.

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La patogenesi dell’ascite è complessa e vede coinvolte ipertensione portale, circolazione
iperdinamica e ipoalbuminemia (conseguente alla ridotta funzionalità epatica). La vasodilatazione
splancnica determina infatti una riduzione della pressione arteriosa che viene compensata con
l’attivazione di sistemi vasocostrittori, come il sistema renina-angiotensina-aldosterone.
Il liquido ascitico può poi andare incontro a sovra-infezioni, testimoniate dalla presenza di neutrofili
al suo interno.
• Shunt porto-sistemici
Per ridurre la pressione del sistema portale si ha la dilatazione di circoli collaterali e lo sviluppo di
nuovi vasi; le sedi più frequenti sono le vene del retto e della giunzione gastro-esofagea: la rottura
di queste varici può portare a morte per emorragia.
• Encefalopatia epatica
Si manifesta con uno spettro di disturbi della coscienza che va da lievi alterazioni comportamentali,
ad un marcato stato confusionale, fino al coma e alla morte. Sembra associata ad elevati livelli di
ammoniaca a livello di SNC che compromettono la funzione neuronale e promuovono l’edema
cerebrale.
• Splenomegalia
La splenomegalia è legata all’ipertensione portale e può portare ad anomalie ematologiche
secondarie da ipersplenismo, come trombocitopenia.
• Sindrome epatorenale
Si ha la comparsa di insufficienza renale in pazienti con patologia epatica grave cronica, in assenza
di cause intrinseche morfologiche o funzionali di insufficienza renale. Nello sviluppo della sindrome
epatorenale sono coinvolti diversi fattori: riduzione delle pressione di perfusione renale a causa
della vasodilatazione sistemica, attivazione del simpatico con contrazione delle arteriole afferenti e
aumentata sintesi di mediatori vasoattivi renali che riducono la filtrazione glomerulare.
• Sindrome epato-polmonare
È caratterizzata dalla triade: epatopatia cronica, ipossiemia e vasodilatazione intrapolmonare.

EMOCROMATOSI

L’emocromatosi è una patologia che può portare a cirrosi epatica ed è caratterizzata dall’accumulo di
ferro.
È una malattia genetica è la forma più comune è l’emocromatosi 1, detta anche emocromatosi di tipo A,
dovuta alla mutazione in omozigosi del gene HEF, C282Y, presente sul cromosoma 6; vi sono anche altre
forme dovute ad altre mutazioni.
L’accumulo di ferro non interessa solo il fegato: questa patologia colpisce anche cuore, cervello e muscoli.

Emocromatosi primitiva

Le forme di emocromatosi primitive sono ereditarie, con trasmissione autosomica recessiva, e sono
correlate ad un aumentato assorbimento intestinale di ferro e ad un eccessivo deposito di ferro nelle
cellule parenchimali di fegato, pancreas, cuore, ipofisi, tiroide e nelle membrane sinoviali.
L’accumulo di ferro induce danno cellulare e disfunzione d’organo, inoltre, in alcuni casi correla con la
trasformazione maligna. L’emocromatosi quindi predispone alla cirrosi e allo sviluppo di epatocarcinoma,
ma è correlata anche a diabete precoce e disfunzioni cardiache.

Emocromatosi secondaria

Le forme secondarie sono meno gravi delle primarie e possono essere dovute alla somministrazione
parenterale di ferro, ad esempio in caso di trasfusioni multiple, al sovraccarico di ferro nella dieta o
all’aumentato assorbimento intestinale di ferro (a sua volta dovuto a condizioni come sindrome
mielodisplastica, anemia, malattia alcolica epatica, epatite C, ecc.). Il ferro si accumula nelle cellule reticolo-
endoteliali, quindi nei macrofagi di fegato e milza.
53
In un preparato istologico colorato con ematossilina-eosina i depositi di ferro risultano di colore brunastro.
La colorazione specifica per mettere in evidenza il ferro è la colorazione di Perls o colorazione al blu di
Prussia: i depositi di ferro appaiono di colore azzurro intenso e sono presenti soprattutto nelle cellule di
Kupffer, ma possono trovarsi anche negli epatociti.

Patogenesi – Robbins

Il contenuto totale di ferro nell’organismo è regolato controllando l’assorbimento intestinale di ferro,


processo che risulta alterato nell’emocromatosi. Il principale regolatore dell’assorbimento di ferro è
l’epcidina che lega la ferroportina, il canale di efflusso cellulare del ferro, determinandone
l’internalizzazione e la proteolisi e impedendo il rilascio di ferro da parte delle cellule intestinali e delle
cellule del sistema reticolo-endoteliale. L’epcidina determina quindi una riduzione del ferro nel plasma,
mentre la sua assenza un suo aumento, come avviene nell’emocromatosi.
Fisiologicamente la produzione di epcidina è indotta dalla infiammazione e dal ferro circolante, mentre è
ridotta dall’ipossia, dall’eritropoiesi inefficace e dalla carenza di ferro.
Il ferro in eccesso ha una tossicità diretta sui tessuti:
- Perossidazione lipidica attraverso reazioni dei radicali liberi ferro-catalizzati
- Stimolo alla deposizione di collagene per attivazione delle cellule stellate epatiche
- Interazione tra radicali liberi e DNA

Clinica – Robbins

L’emocromatosi classica colpisce prevalentemente gli uomini e si manifesta dopo i 40 anni. I sintomi
principali sono epatomegalia, dolore addominale, iperpigmentazione cutanea, diabete mellito, aritmie
cardiache, cardiomiopatie, artrite, ipogonadismo. La morte può essere dovuta alla cirrosi o alla
cardiomiopatia.

MALATTIA DI WILSON

La malattia di Wilson è una malattia autosomica recessiva dovuta al deficit dell’enzima ATPB7 e
caratterizzata dal conseguente accumulo di rame. La proteina ATPB7 è normalmente deputata alla
escrezione di rame nella bile e nel plasma; gli elementi caratteristici della malattia di Wilson sono:
accumulo di rame a livello di fegato, occhi e cervello e ridotti livelli di ceruloplasmina a livello plasmatico
(la ceruloplasmina normalmente lega il rame, ma se tale legame non avviene essa viene rapidamente
degradata).

Clinica

Segni e sintomi tipici sono:


- Epatici → epatomegalia, aumento delle transaminasi, cirrosi, insufficienza epatica, steatosi, ecc.
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Si possono avere anche splenomegalia e colelitiasi.
- Neuropsichiatrici → tremori, distonica, disartria, deterioramento della performance scolastica,
depressione, ansia, psicosi.
- Osteo-muscolari → artralgie, artrite, fratture, osteoporosi, osteomalacia, condromalacia
- Oculari → anello di Kayser-Fleischer
- Renali → calcolosi, acidosi tubulare renale, sindrome di Fanconi

Diagnosi

La diagnosi è in primo luogo clinica: si può sospettare tale patologia in caso di alterazioni neurologiche,
anelli di Kayser-Fleischer a livello oculare e innalzamento delle transaminasi.
La diagnosi viene poi confermata tramite imaging, elastografia ed esame istologico.
All’esame istologico eseguito con ematossilina-eosina si
notano alterazioni lesioni aspecifiche, come noduli di
rigenerazione, aree di necrosi e steatosi, che il patologo
descrive come epatite con sovvertimento strutturale.
Per evidenziare i depositi di rame negli epatociti, che
solitamente sono maggiori nella zona 1, si usa la colorazione
con rodamina.

DEFICIT DI α1-ANTITRIPSINA – Robbins

Il deficiti di α1-antripsina è una malattia autosomica recessiva caratterizzata da livelli molto bassi di questa
proteina. Fisiologicamente questa proteina inibisce le proteasi rilasciate dai neutrofili in sede di
infiammazione, in particolare elastasi, catepsina G e proteinasi 3.
La malattia è caratterizzata da enfisema polmonare, poiché non è inibita l’attività proteasica, epatopatia e
cirrosi, dal momento che la proteina anomala si accumula a livello epatico, pannicolite, aneurismi arteriosi,
bronchiectasia e granulomatosi di Wegner.
Esistono diversi genotipi associati a diversi livelli di attività residua della proteina e quindi diverse
manifestazioni cliniche.

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EPATOPATIA ALCOLICA – Robbins

Il consumo eccessivo di alcol è la principale causa di epatopatia in molti paesi occidentali, ma solo il 10-15%
degli alcolisti sviluppa cirrosi e ciò sottolinea il ruolo di altri fattori nello sviluppo dell’epatopatia alcolica
(sesso, etnia, fattori genetici e comorbidità).
I principali fattori implicati nella patogenesi dell’epatopatia alcolica sono:
- Perossidazione lipidica indotta dall’acetaldeide, principale metabolita dell’alcol
- Formazione di complessi acetaldeide-proteine che vanno poi a danneggiare il citoscheletro e la
membrana cellulare
- Produzione di radicali liberi
- Riduzione dei livelli intraepatici di glutatione: il fegato diviene maggiormente sensibile al danno
ossidativo
- Induzione dei citocromi deputati al metabolismo dell’alcol stesso, con conseguente aumento della
conversione di alcuni farmaci, come il paracetamolo, in metaboliti tossici
- Dieta squilibrata e malnutrizione, accompagnate da un alterato assorbimento intestinale dovuto al
danno che l’alcol comporta a livello di mucosa gastro-enterica: questi fattori determinano una
deplezione di vitamine, come la tiamina
- L’alcol induce il rilascio di endotossine batteriche dall’intestino, determinando l’attivazione di una
risposta infiammatoria a livello epatico
- L’alcol induce il rilascio di endoteline da parte delle cellule endoteliali dei sinusoidi provocando
vasocostrizione e attivazione delle cellule stellate in miofibroblasti, con conseguente riduzione
della perfusione epatica
- L’alcol rappresenta un substrato energetico ed inibisce l’ossidazione degli acidi grassi,
determinando steatosi
L'epatopatia alcolica, quindi, è un’affezione cronica con aspetti di steatosi, epatite, fibrosi progressiva,
cirrosi e marcata alterazione della perfusione vascolare.

CARCINOMA EPATOCELLULARE – HCC

Il carcinoma epatocellulare è il tumore primitivo del fegato più frequente, tanto che rappresenta il 75-85%
dei tumori epatici maligni, il sesto cancro per incidenza e il quarto per mortalità.
I tumori maligni del fegato possono essere primitivi (25% dei casi) o metastatici (75%): solitamente in caso
di fegato cirrotico è più comune l’epatocarcinoma, mentre nel fegato non cirrotico prevalgono le metastasi.
Dal momento che la cirrosi rappresenta una condizione pre-cancerosa, con un aumentato rischio di
sviluppare la neoplasia, i pazienti affetti vengono sottoposti a controlli periodici mediante ecografia.
L’ecografia permette però di vedere noduli > 1 cm, pertanto si è studiata un’altra metodica di screening
basata sulla valutazione dei livelli di α-fetoproteina: essa è un marker di rigenerazione epatica e risulta
innalzata in caso di carcinoma epatocellulare e tumore del testicolo. Uno studio condotto negli anni ’90 dal
professor Colombo ha dimostrato che elevati livelli di α-fetoproteina sono correlati ad un rischio maggiore
di sviluppare epatocarcinoma.
Una peculiarità dell’epatocarcinoma è la multi-focalità, legata al fatto che i noduli rigenerativi tipici della
cirrosi sono diffusi all’interno del parenchima epatico. Talvolta l’epatocarcinoma è presente in
concomitanza con un colangiocarcinoma intraepatico.

Eziologia

Oltre il 90% dei casi di carcinoma epatocellulare è correlato ad una malattia cronica del fegato o a cirrosi. Le
principali cause sono: HBV, HCV, NASH, epatite alcolica, esposizione a tossici (ad esempio aflatossina B),
emocromatosi, malattia da accumulo di glicogeno, tirosinemia ereditaria.
HBV è un virus a DNA in grado di integrarsi nel genoma dell’epatocita, pertanto è un trasformante diretto,
mentre HCV è un virus a RNA, ma è in grado di trasformare per transattivazione sia gli epatociti che le

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cellule biliari, pertanto è alla base della progressione neoplastica non solo dell’epatocarcinoma, ma anche
del colangiocarcinoma.

Patogenesi

Il meccanismo patogenetico prevede diversi steps:


1. Nodulo rigenerativo della cirrosi
2. Nodulo displastico
a. Nodulo displastico di basso grado
b. Nodulo displastico di alto grado
3. Small epatocarcinoma
a. Early small HCC
b. Small progressed HCC
4. Progressed HCC
Le alterazioni genetiche che accompagnano questa progressione non sono molte e sono molto aspecifiche;
l’alterazione più incidente è la mutazione del promotore TERT, ma risulta rilevante anche la mutazione di
CTNNB1.
In caso di fegato non cirrotico non si hanno i noduli rigenerativi e il carcinoma epatocellulare insorge
direttamente come HCC progressed.

Il primo ad eseguire una classificazione morfologica del carcinoma epatocellulare fu Furuya che descrisse
noduli < 2cm in un fegato cirrotico differenziando:
- Noduli rigenerativi senza displasia – tipo 1 secondo Furuya → noduli cirrotici normali
- Noduli rigenerativi con displasia – tipo 2 secondo Furuya → displasia a grandi e piccole cellule
Successivamente diversi patologi andarono a definire la via patogenetica dell’epatocarcinoma, costituita da
noduli displastici di basso grado, noduli displastici di alto grado e HCC precoce.

Istopatologia del noduli displastici

Un nodulo displastico di basso grado è un nodulo normalmente >


1cm, quindi identificabile all’ecografia, che non presenta
caratteristiche cito-architetturali di particolare atipia se non la
presenza di uno spiccato polimorfismo nucleare e un lieve aumento
della cellularità rispetto al tessuto circostante.
Le caratteristiche dei noduli displastici di basso grado, L-DN, sono:
- Epatociti minimamente anormali
- Rapporto nucleo-citoplasma normale o lievemente
aumentato
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- Atipia nucleare minima e figure mitotiche assenti
- Possono essere presenti corpi di Mallory associati a colestasi
- Presenza di 1-2 cellule per lamina epatocitaria
- Sono presenti i tratti portali
Un paziente con questi noduli va inserito in un programma di follow-up.

Nel nodulo displastico di alto grado gli epatociti formano delle strutture trabecolari e all’interno del
nodulo tendono a scomparire gli spazi portali. All’interno di questi noduli troviamo quindi una
destrutturazione del parenchima epatico che si concretizza nella scomparsa degli spazi portali e nelle
comparsa di arterie spaiate (unpaired artheries) indicative della progressiva arteriolizzazione del nodulo.
Fisiologicamente all’interno dei sinusoidi si trova sia sangue venoso che sangue arterioso, mentre nei noduli
displastici di alto grado, vista la progressiva perdita di spazi portali, si ha esclusivamente sangue arterioso,
con conseguente aumento della pressione all’interno dei sinusoidi. Come meccanismi protettivo in
risposta a tale aumento pressorio si ha la proliferazione dell’endotelio fenestrato, che diviene omogeneo:
questo processo è estremamente importante dal punto di vista radiologico infatti conferisce all’HCC il
caratteristico wash-in rapido in fase arteriosa seguito dal wash-out venoso più lento. Tale
comportamento radiologico risulta patognomico e in sua presenza non è necessaria la biopsia per
confermare la diagnosi.
Il nodulo displastico di alto grado presenta, H-DN, presenta:
- Rapporto nucleo-citoplasma elevato
- Ipercromatismo del nucleo
- Contorno nucleare irregolare
- Presenza di più di due cellule per lamina epatocitaria
- Basofilia citoplasmatica
- Resistenza all’accumulo di ferro
- Tratti portali ancora presenti
- Assenza di invasione stromale

Diagnosi istopatologica di piccolo epatocarcinoma – small HCC (< 2cm)

È possibile distinguere:
• Epatocarcinoma piccolo vagamente di tipo nodulare – HCC precoce → risulta scarsamente
demarcato dall’architettura di base della cirrosi
• Epatocarcinoma piccolo distintamente di tipo nodulare/a margini netti – HCC small progredito →
risulta ben demarcato ed è frequentemente incapsulato

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Criteri di Kondo per HCC precoce
- Presenza di più di 2 cellule per lamina
epatocitaria
- Affollamento nucleare
- Basofilia citoplasmatica
- Atipia nucleare
- Rapporto nucleo-citoplasma elavato
- Presenza di mitosi
- Perdita dei tratti portali
- Invasione stromale, testimoniata dalla
presenza di epatociti all’interno dei siti portali presenti nella biopsia

L’apporto ematico è normale nei noduli displastici di basso e alto grado, mentre nell’HCC precoce inizia ad
essere presente il wash-in rapido del mezzo di contrasto a causa della progressiva arteriolizzazione.

Dal punto di vista


immunoistochimico
l’endotelio del fegato sano e
del fegato cirrotico, essendo
fenestrato, risulta negativo a
CD34 (anticorpo che lega le
cellule endoteliali): nel
momento in cui l’endotelio
diviene omogeno si ha la
positività per CD34.
Tramite immunoistochimica
si può rilevare anche un
aumento dell’indice di
proliferazione (Ki67).
Nell’immagine i quadratini bianchi rappresentano gli spazi portali e i tondini neri le arteriole.

eHCC: vaguely nodular type


Le forme vagamenti nodulari presentano margini irregolari,
che le rendono difficilmente diagnosticabili all’imaging, e
sono spesso ricche di steatosi macrovascicolare, che rende il
nodulo lucente all’ecografia.
Il nodulo è quindi visibile all’ecografia, ma la TC non riesce a
fare diagnosi a causa della mancanza del wash-in rapido del
mdc, pertanto è necessario eseguire la biopsia.
Si hanno la positività a CD34 e l’aumento di Ki67.
Nell’immagine a lato si ha un esempio di carcinoma
epatocellulare precoce scarsamente demarcato e la freccia
indica l’invasione stromale.

Small-progressed HCC: distinct nodular type


Caratteristiche:
- Nel 40% dei casi è ben differenziato, mentre nel 60% dei casi è scarsamente differenziato
- Nel 27% dei casi è presente invasione microvascolare
- Nel 10% dei casi si ha satellitosi, ovvero la presenza di cellule neoplastiche alla periferia del nodulo,
espressione di diffusione parenchimale del carcinoma
Si tratta quindi di una forma aggressiva. Gli epatociti mostrano polimorfismo nucleare e formano trabecole.
Spesso è presente una spessa capsula, evidenziabile con impregnazione argentica.

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Progressed HCC

Si tratta del carcinoma epatocellulare vero e proprio, inteso come esito finale di una progressione di
lesioni o come neoplasia insorta su fegato non cirrotico.
Sono state proposte diverse classificazioni macroscopiche del carcinoma epatocellulare:
- Classificazione di Eggel (per cirrosi molto progredite)
o Forma massiva
o Forma nodulare
o Forma diffusa
- Classificazione di Okuda (insieme a quella di Nakashima valuta forme meno progredite)
o Forma espansiva
o Forma diffusa
o Forma multifocale
o Forma indeterminata
- Classificazione di Nakashima
o Forma espansiva
o Forma infiltrativa
o Forma mista
o Forma diffusa
Nonostante vi siano diverse classificazioni non bisogna essere troppo rigidi nella loro applicazione, infatti,
una delle caratteristiche peculiari di questa neoplasia è l’eterogeneità, sia dal punto vista morfologico sia
dal punto di vista genetico e molecolare.

Istologia
Dal punto di vista istologico l’HCC può essere descritto secondo il sistema di gradazione di Edmondson e
Steiner che definisce 4 gradi di differenziazione sulla base delle dimensioni dei nucleoli: nel grado 1 gli
epatociti sono quasi normali, mentre con l’aumentare del grado si osservano nuclei ipercromici con
cromatina addensata, fino ad arrivare al grado 4 in cui si riconoscono istotipi peculiari, come le cellule
giganti o le aree sarcomatoidi.
Nel sistema WHO si distinguono invece 3 gradi di differenziazione: ben differenziato, moderatamente
differenziato e scarsamente differenziato.

Architettura
Una della caratteristiche della trasformazione carcinomatosa è rappresentata dal fatto che gli epatociti
perdono l’organizzazione in singole filiere di una o più cellule e tendono a formare trabecole, che
rappresentano una delle caratteristiche diagnostiche dell’epatocarcinoma.
Le trabecole rappresentano il tentativo degli
epatociti di formare lamine che vadano dallo
spazio portale alla vena centrolobulare e
questa architettura rientra nelle forme bene
e moderatamente differenziate.
Nell’immagine a lato oltre alla trabecole si
osservano epatociti con nucleoli ben evidenti
e i pale bodies, ovvero i corpi pallidi presenti
nel citoplasma, la cui presenza risulta
altamente diagnostica.
L’HCC può assumere anche un aspetto acinare o pseudo-ghiandolare: gli epatociti formano strutture con
lume centrale che rappresentano il tentativo fallito di riproporre il polo biliare.
Infine, si possono avere anche strutture solide, difficili da diagnosticare perché viene completamente meno
la struttura dell’epatocita; queste forme presentano cellule giganti o multinucleate: l’epatocita “non
ricorda” da dove proviene.

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Immunoistochimica
I marker che si usano per fare diagnosi di HCC sono HepPar1 e Arginasi1, abbastanza specifici per gli
epatociti e molto utili per identificare lesioni extraepatiche in pazienti metastatici, mentre non sono utili
per identificare i diversi livelli di cancerogenesi.
Un’altra metodica utilizzabile è la rilevazione dell’RNA messaggero dell’albumina, prodotto
esclusivamente dagli epatociti e dai loro precursori e mantenuto anche nelle forme più sdifferenziate di
neoplasia.
Per la diagnosi differenziale di lesioni < 2cm si usano tre marcatori contemporaneamente:
- Glutamin-sintetasi → normalmente espressa nel fegato ed organizzata intorno ai vasi venosi, viene
iper-espressa nell’epatocarcinoma
- Glypican 3 → viene espresso solo nell’epatocarcinoma, non nel fegato sano
- HSP70 → espressa solo nell’epatocarcinoma, non nel fegato sano
Questi marcatori sono utili soprattutto nella diagnosi differenziale nodulo displastico di alto grado e
carcinoma epatocellulare indifferenziato.
In associazione a queste metodiche ve ne sono altre molto utili nella pratica clinica, ma non riconosciute
nelle linee guida ufficiali, come l’utilizzo di CD34 che marca l’endotelio dei sinusoidi e che risulta quindi
positivo in caso di capillarizzazione dei sinusoidi.
Tramite impregnazione argentica è poi possibile evidenziare in grigio la trama reticolinica, presente tra le
lamine di epatociti, e in oro il collagene; in alcuni casi la trama reticolinica non viene evidenziata poiché una
delle caratteristiche dell’HCC, anche nelle forme precoci, è proprio quella di perdere tale trama.

Sottotipi di HCC
Nel momento in cui si riscontra una morfologia trabecolare,
acinare o solida si è di fronte al sottotipo classico, che è quello
più frequente, ma vi sono anche altri sottotipi di HCC tra i
quali è importante ricordate il sottotipo steatosico, la forma
ricca di neutrofili e la forma ricca di linfociti.

Un sottotipo raro, ma
importante, è il carcinoma
fibrolamellare, che presenta
delle peculiarità: colpisce prevalentemente i pazienti giovani con fegato
sano e si presenta come lesione singola. La lesione può raggiungere
dimensioni importanti e presenta solitamente una cicatrice centrale, ma la
prognosi è buona.
Questo sottotipo è detto fibrolamellare poiché presenta una struttura
lamellare a fibre parallele con frammiste trabecole di epatociti, spesso
atipici (ampi citoplasmi eosinofili e grandi nucleoli), inoltre, è presente una
cospicua fibrosi.

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Stadiazione HCC
La stadiazione dell’HCC differisce da quella degli altri carcinomi per due motivi:
- Prima di invadere altri organi la neoplasia dà metastasi e noduli satelliti all’interno del fegato
stesso, visto che presenta un trofismo massivo per quest’organo
- È l’unica neoplasia per cui il trapianto d’organo non solo non è controindicato, ma risulta curativo
I punti fondamentali nella stadiazione sono:
- Cut-off dei 2 cm → è un dato fondamentale per la diagnosi sia del radiologo che del patologo ed è
importante da un punto di vista chirurgico per valutare l’area di resezione
- pT3 → tumore multiplo, uno dei quali > 5cm

Per definire se un paziente con HCC è idoneo o meno al trapianto di fegato si usano i criteri di Mazzaferro,
detti anche di Milano: il paziente è idoneo se presenza una lesione singola < 5cm o fino a tre lesioni
ciascuna delle quali < 3cm, in assenza di metastasi a distanza ed infiltrazione macrovascolare.
In alcuni casi si può procede con il downstaging: si sottopone il paziente a terapie chirurgiche,
termoablazione, chemioembolizzazione o radioembolizzazione allo scopo di ridurre le dimensioni delle
lesioni e far rientrare il paziente nei criteri di trapiantabilità.

CARCINOMI PRIMITIVI MISTI DEL FEGATO

Si tratta di neoplasie primitive del fegato, molto rare (2-5% di tutti i tumori del fegato), in cui si
identificano sia componenti mature epatocellulari sia elementi maturi colangiocellulari ed
eventualmente cellule con caratteristiche intermedie tra l’HCC e il CC.
L’eziologia dei carcinomi misti è la medesima dell’epatocarcinoma e del colangiocarcinoma dei piccoli dotti,
ovvero malattia cronica del parenchima epatico e cirrosi.

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Secondo la vecchia classificazione vi sono diverse ipotesi patogenetiche, tra cui la presenza di due tumori
da collisione.
Circa una decina di anni fa fu fatta una complessa classificazione in sottotipi che si basava sulla presenza di
cellule staminali, mentre nel 2019 tale classificazione fu semplificata e attualmente si distinguono:
- Combined HCC-CC → sono presenti elementi maturi sia dell’HCC che del CC o di almeno uno dei
due
- Undifferentiated PLC → si hanno solo aspetti morfologici intermedi tra HCC e CC
Le tre immagini sono prese tutte dalla medesima neoplasia: vi è un’area di HCC, una di CC e una con
elementi intermedi, quindi si tratta di una forma combined HCC-CC.

LESIONI BENIGNE DEL FEGATO

I tumori benigni del fegato insorgono su fegato non cirrotico e sono classificabili in lesioni focali benigne e
lesioni espansive benigne.
Le lesioni focali benigne più frequenti sono: emangioma (in assoluto il più frequente), adenoma epatico –
HCA, iperplasia nodosa focale – FNH.
Le lesioni espansive benigne sono invece classificabili in epiteliali e mesenchimale:

ADENOMA EPATOCELLULARE – HA

L’adenoma epatocellulare è una neoplasia epiteliale benigna del fegato costituita da cellule con
differenziamento epatocellulare; interessa maggiormente le donne in età giovanile, soprattutto tra i 20 e i
39 anni, ma ha una incidenza relativamente bassa (3-4 casi/100.000 abitanti).

Fattori di rischio:
- Uso di contracettivi orali
- Uso di steroidi anabolizzanti
- Glicogenosi, diabete mellito, galattosemia, sindrome di Klinefelter, sindrome dell’ovaio policistico,
obesità, sindrome metabolica
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L’adenoma epatocellulare comprende vari tipi di proliferazione benigna con molti sottogruppi molecolari: i
diversi tipi sono associati a specifiche caratteristiche morfologiche e diverso rischio di complicazioni, in
particolare emorragia e trasformazione maligna.
Gli HA sono solitamente solitari con dimensioni che variano da pochi millimetri a 30 cm; talvolta possono
essere peduncolati e protrudere nella capsula di Glisson. Una volta sezionata la lesione appare ben
delineata, anche se non sempre capsulata, di consistenza morbida e aspetto bianco-marrone.

Istologia

Istologicamente l’HA consiste nella


proliferazione di epatociti organizzati in un
pattern trabecolare: gli epatociti sono
disposti in lamine mono- o bi-epatocitarie e
sono cellule normali, senza alterazioni
citologiche, con caratteristiche del
citoplasma che variano in base agli specifici
fattori di rischio del paziente.

Caratterizzazione molecolare

Si identificano tre sottotipi principali:


1. Adenoma con mutazione del gene HNF-1α – Tipo 1 → legato all’uso di contraccettivi orali e alla
sindrome metabolica
2. Adenoma con mutazione attivante della β-catenina – Tipo 2 → rischio di progressione in HCC
3. Adenoma infiammatorio o teleangectasico – Tipo 3 → legato ad alterazioni dei geni coinvolti nella
neo-angiogenesi, come la glicoproteina 130 e l’angiopoietina, e delle vie infiammatorie, come la
siero-amiloide A e la proteina C reattiva

Tipo 1
È caratterizzato dalla mutazione di HNF-1α ed è più frequente in pazienti con mutazioni a carico di HNF-1α,
MODY3 (diabete giovanile) o CYP1B1, isoforma del citocromo p450.
Il gene HNF-1α codifica per la proteina L-FABP, liver fatty acid binding protein, pertanto una sua
mutazione determina la mancata espressione di tale proteina.
Questo tipo si associa ad una spiccata steatosi macrovescicolare e talvolta a lesioni multiple, che
determinano un quadro di adenomatosi.
All’imaging da un segnale simile all’epatocarcinoma, ma è distinguibili da esso poiché dopo l’enhancement
arterioso moderato non si ha una fase venosa reflua tardiva.
Il rischio di evoluzione verso l’epatocarcinoma è minimo, mentre è alto il rischio di emorragia, soprattutto
se la lesione supera i 5 cm e la donna è gravida, pertanto in tale circostanza è bene rimuovere la lesione.
L’incidenza è maggiore nel sesso femminile, tranne
nelle forme associate a MODY3, caso in cui non si
ha differenza tra i due sessi.
Microscopicamente si ha una tale proliferazione
degli epatociti da non rendere più riconoscibile
l’architettura degli spazi portali, associata ad una
marcata steatosi e alla presenza di strutture
arteriose con parete sottile. I margini della lesione
possono essere netti o ondulati, ma non vi è mai
una capsula.
La diagnosi è agevolata dall’immunoistochimica:
- L’anticorpo contro L-FABP colora bene il tessuto sano, mentre non lega il tessuto neoplastico
- La glutammin-sintetasi, GS, non viene espressa nell’adenoma

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Tipo 2
Rappresenta il 10-15% degli HA ed è caratterizzato dalla mutazione di CTNNB1, codificante per la β-
catenina: se la mutazione avviene nell’esone 3 si ha un elevato livello di attivazione della β-catenina e il
rischio di progressione in HCC è alto, mentre se la mutazione avviene nell’esone 7-8 il livello di attivazione
è minore, così come è minore il rischio di trasformazione maligna.
Colpisce soprattutto i maschi che fanno uso di steroidi anabolizzanti.
In questo caso l’imaging non aiuta la diagnosi.
Si manifesta con anomalie citologiche quali: polimorfismo nucleare,
formazioni pseudo-ghiandolari, perdita della trama reticolinica e
comparsa di arterie anomale; la diagnosi differenziale con il carcinoma
epatocellulare è quindi complessa.
Per la diagnosi si ricorre
all’immunoistochimica:
- Anticorpo anti- β-catenina → nel tessuto normale la β-catenina è
una proteina di membrana e risultano marcati solo i margini degli
epatociti, mentre nell’adenoma la β-catenina trasloca nel nucleo,
quindi anche esso risulta marcato
- Glutammin-sintetasi → nel tessuto sano si trova in posizione peri-
venosa, mentre nell’adenoma risulta iper-espressa

Tipo 3
È detto anche adenoma infiammatorio, colpisce entrambi i sessi in ugual misura ed è correlato all’obesità
e all’abuso di alcol. È il più frequente HA e nella maggior parte dei casi è legato alla mutazione della
glicoproteina 130; correla con un aumento della SAA, serum-amyloid A, e della PCR.
All’imaging può facilmente essere confuso con il carcinoma epatocellulare per via di un forte enhancement
arterioso e una fase reflua venosa tardiva persistente; la diagnosi differenziale viene fatta tenendo in
considerazione la clinica del paziente: nel paziente giovane senza infezione da HCV o HBV non c’è motivo di
sospettare una neoplasia maligna.
Si può presentare come noduli solitari o multipli e dal
punto di vista microscopico è caratterizzato da:
- Elevato infiltrato infiammatorio
- Dilatazione sinusoidale
- Arteriole con parete spessa
- Alto grado di fibrosi
All’immunoistochimica si ricercano SAA e PCR. Il rischio
di trasformazione maligna è basso, a meno che non vi
siano una concomitante mutazione della β-catenina, condizione che si verifica nel 10-15% dei casi;
l’iperespressione della β-catenina può essere valutata all’immunoistochimica.

IPERPLASIA NODULARE FOCALE – FNH

Non è una vera e propria neoplasia, ma una risposta iperplastica degli epatociti ad un insulto vascolare di
varia natura che induce la formazione di una massa.
È più frequente nelle donne ed è la lesione benigna più frequente dopo l’emangioma; si può associare sia
ad emangioma che ad adenoma epatocellulare.

È da ricondurre ad un danno venoso congestizio che porta a collasso del parenchima, fibrosi, shunt
arterovenosi e perdita degli spazi portali.
Si tratta di una espansione policlonale legata ad una alterata espressione, senza mutazione, dei geni
angiopoietina 1 e 2 e CTNNB1, ma non ha alcun significato pre-canceroso.

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Risulta di facile identificazione poiché si presenza come una lesione a margini nodulari in un parenchima
non cirrotico con una cicatrice centrale ben visibile all’imaging radiologico; la cicatrice centrale è una
caratteristica comune anche al carcinoma fibrollamellare, ma la TC in questo caso mostra un ehancement
arterioso che scompare in fase venosa.

Istologicamente può essere difficile la diagnosi differenziale con l’adenoma infiammatorio, pertanto si
ricorre all’immunoistochimica:
- Gli anticorpi anti glutammin-sintetasi
colorano il preparato con un motivo
map-like, a carta geografica
La positività alla GS deriva dal fatto che
essa è sotto il controllo della B-catenina,
quindi risulta iperespressa quando si ha
una maggior attivazione della B-catenina
- L’anticorpo diretto contro la
citocheratina 7 evidenzia la
proliferazione duttale, che avviene
soprattutto lungo i setti fibrosi

Nell’immagine in basso a sinistra si osservano noduli iperplastici con setti fibrosi e proliferazione duttale,
avviene anche la capillarizzazione dei sinusoidi e vi sono segni di colestasi. Nell’altra immagine si nota una
vena ventrale trombotica in fase di ricanalizzazione, che testimonia l’insulto vascolare alla base.

Il gold standard per la diagnosi di FNH è la MRI:


- Se la diagnosi tramite imaging è certa non c’è bisogno di ulteriori indagini
- Se la diagnosi tramite imaging è incerta di procede con
o CEUS per lesioni con diametro < 3cm; se la diagnosi rimane incerta si procede con biopsia
o Biopsia per lesioni con diametro > 3cm
La diagnosi differenziale più complessa è con l’adenoma infiammatorio, ma in questo aiuta
l’immunoistochimica (iperespressione di SAA e PCR, pattern di GS).
Altra diagnosi differenziale è con l’iperplasia nodulare rigenerativa, malattia multinodulare del fegato che
può arrivare ad interessare l’interno parenchima: vi sono noduli rigenerativi in tutto il fegato con atrofia del
parenchima e occlusione vascolare, ma senza fibrosi. Anche l’iperplasia nodulare rigenerativa è legata ad un
insulto vascolare e ad una riduzione dell’ossigenazione, ma a differenza di quanto avviene nella FNH
l’insulto in questo caso interessa tutto l’organo.

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IPERPLASIA NODULARE RIGENERATIVA

Si riconoscono diversi noduli rigenerativi dovuti ad un insulto vascolare, con scarsa o assente fibrosi.
Colpisce entrambi i sessi, a qualsiasi età e alla base vi è una alterato flusso di ossigeno dovuto ad
alterazioni della vascolarizzazione epatica.
Segni e sintomi principali sono dovuti all’ipertensione portale: ascite e splenomegalia.
Gli esami di laboratorio sono quasi sempre normali e la diagnosi
avviene tramite imaging, in particolare TC e arteriografia, ma ci
si può avvalere anche della biopsia, caratterizzata da:
- Atrofia del parenchima epatico
- Accumulo di glicogeno e lipidi
- Crescita pseudo-ghiandolare
- Noduli rigenerativi senza fibrosi
La biopsia risulta difficoltosa perché è necessaria la diagnosi
differenziale con HA infiammatorio e FNH.
Il trattamento d’elezione è il trapianto di fegato.
Vi sono diversi fattori di rischio nella genesi dell’iperplasia
nodulare rigenerativa: problemi cardiologici che determinano una ipertensione delle sovraepatiche,
neoplasie emolinfopoietiche, policitemia che determina l’aumento della viscosità del sangue; questa
condizione può però insorgere anche spontaneamente.

COMPLESSI DI VON MEYEMBURG

Sono una armartomatosi biliare (malformazione benigna caratterizzata dall’ectasia dei dotti biliari a causa
di errori nello sviluppo della lamina duttale). Al posto dello spazio biliare si ritrova una proliferazione dei
dotti più o meno disorganizzata. Se superano i 4-5 mm e sono localizzate sotto la superficie glissoniana
possono allarmare i chirurghi perché simulano metastasi.

ADENOMA COLANGIOCELLULARE

Si tratta di una amartoma delle ghiandole peri-biliari, ben circoscritta, biancastra e dura, posta in sede
sottoglissoniana; visto l’aspetto e la localizzazione è importante la diagnosi differenziale con lesioni
metastatiche. Colpisce soprattutto i maschi con una età media di 52 anni.
Istologicamente si ha la proliferazione di piccoli dotti in uno
stroma fibroso, quadro che simula una neoplasia: dirimente
per la diagnosi di benignità è l’identificazione di un dotto
biliare maturo con fibrosi e circondato da piccole ghiandole
(l’individuazione di tale dotto può richiedere diverse sezioni).
Le caratteristiche istologiche sono:
- Singoli noduli di dimensioni minori di 10 cm
- Tubuli tortuosi e sottili senza bile nel lume
- Nuclei basali non atipici
- Moderata o severa infiammazione

STEATOSI FOCALE/MODIFICAZIONE ADIPOSA

Si tratta di aree di steatosi macrovascicolare in un fegato non diffusamente steatosico. Non sono delle
vere e proprie lesioni, ma all’ecografia possono presentarsi come masse espansive, pertanto vengono
talvolta sottoposte a biopsia.

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EPATITI VIRALI – Da dispensa

VIRUS DELL’EPATITE A – HAV

L’infezione da HAV presenta un periodo di incubazione di 3-6 settimane e risulta autolimitante;


caratteristiche dell’infezione:
- Non provoca epatite cronica e solo raramente determina una epatite fulminante, quindi la
mortalità associata è dello 0,1%
- La malattia associata tende ad essere lieve o asintomatica ed è rara dopo l’infanzia
- È presente in tutto il mondo, soprattutto nei paesi con bassi standard igienico-sanitari, e nei paesi
sviluppati la prevalenza di sieropositività aumenta con l’età
HAV è un piccolo picornavirus non capsulato ad RNA e il suo recettore è la glicoproteina integrale di
membrana LAVcr-1, la cui funzione fisiologica non è nota.
La trasmissione avviene per via oro-fecale, per ingestione di acqua e cibi contaminati; dal momento che la
viremia di HAV è transitoria la trasmissione tramite sangue è rara.
In corso di infezione da HAV, che di per sé non è citopatico, nel determinare il danno epatocellulare
giocano un ruolo importante le cellule T CD8+.
Esiste un vaccino efficace per la prevenzione dell’infezione.

VIRUS DELL’EPATITE B – HBV

HBV può determinare:


- Epatite acuta con risoluzione
- Epatite cronica non progressiva
- Epatite cronica progressiva con possibile evoluzione in cirrosi
- Epatite fulminante con necrosi epatica massiva
- Stato di portatore asintomatico
Inoltre, l’epatite cronica da HBV costituisce un importante fattore di rischio nello sviluppo di
epatocarcinoma.
La modalità di trasmissione varia in base all’area geografica:
- Nelle regioni ad alta prevalenza il 90% dei casi è determinato dalla trasmissione perinatale durante
il parto
- Nelle aree a media prevalenza la principale via di trasmissione è quella orizzontale, soprattutto
nella prima infanzia
- Nelle aree a bassa prevalenza le principali vie di trasmissione sono rappresentate dai rapporti
sessuali non protetti e dall’assunzione di droghe per via endovenosa
Il periodo di incubazione è di 4-26 settimane e il 70% dei pazienti è asintomatico o paucisintomatico,
mentre il restante 30% sviluppa sintomi aspecifici, come anoressia, febbre, ittero e dolore nel quadrante
superiore destro. Spesso l’infezione risulta autolimitante e si risolve senza trattamento.

HBV è un virus a DNA con genoma circolare codificante per:


- Proteina del nucleocapside core, HBcAg, e polipeptide costituito da una regione core e una precore,
detto HBeAg, che viene secreto nel sangue
- Glicoproteina dell’envelope, HBsAg (antigene di superficie)
- Polimerasi con attività di DNA polimerasi e trascrittasi inversa
- Proteina HB-X, necessaria per la replicazione virale dal momento che attiva la trascrizione dei geni
virali e di molti geni dell’ospite
Il principale fattore che determina l’esito dell’infezione è la risposta immunitaria dell’ospite al virus e si
ritiene che il danno epatico sia legato all’azione dei linfociti T CD8+ che attaccano le cellule infettate.
Anche in questo caso esiste un vaccino.

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VIRUS DELL’EPATITE C – HCV

HCV è la principale causa di malattia epatica la mondo e spesso determina una malattia cronica, che nel 20-
30% dei casi evolve in cirrosi.
I principali fattori di rischio per l’infezione da HCV sono:
- Assunzione di droghe per via endovenosa
- Rapporti sessuali
- Interventi chirurgici
- Punture accidentali da ago
- Lavoro in campo medico e dentistico
HCV è un virus a RNA la cui polimerasi risulta poco fedele durante la trascrizione, pertanto è un virus
intrinsecamente instabile che dà luogo a continui genotipi e sottotipi. Tale variabilità permette al virus di
sfuggire agli anticorpi e ha frenato gli sforzi per lo sviluppo di un vaccino.
Un elemento caratteristico dell’infezione da HCV è il presentarsi di ripetuti episodi di danno epatico,
determinanti dalla riattivazione dell’infezione in seguito alla comparsa di un ceppo endogeno mutato.
Il tempo di incubazione va dalle 2 alle 26 settimane e l’infezione acuta decorre spesso in modo
asintomatico, ma solo una piccola parte degli individui è in grado di risolvere l’infezione. Successivamente si
sviluppa l’epatite cronica e nel 20-30% dei pazienti, dopo 5-20 anni, sopraggiunge la cirrosi.

VIRUS DELL’EPATITE D – HDV

È un virus a RNA il cui ciclo vitale dipende dall’HBV: l’infezione da HDV può verificarsi o come coinfezione
o come super-infezione con HBV. La simultanea infezione da HDV è irriconoscibile da un punto di vista
clinico dalla sola infezione da HBV e anche la velocità di progressione in una infezione cronica è la
medesima. In caso di trapianto di fegato è possibile osservare una infezione latente indipendente
dall’helper.

VIRUS DELL’EPATITE E – HEV

Si tratta di una infezione enterica trasmessa attraverso l’acqua contaminata; si tratta di una zoonosi con
serbatoi animali quali scimmie, gatti, maiali e cani. Nella maggior parte dei casi l’infezione è autolimitante e
non si associa ad epatopatia cronica, ma presenta un elevato tasso di mortalità tra le donne in gravidanza
(20%).

SINDROMI CLINICO-PATOLOGICHE

Questi virus possono portare a:


- Infezione asintomatica con guarigione
- Infezione sintomatica con guarigione; in questo caso si hanno quattro fasi:
o Incubazione
o Fase sintomatica pre-itterica
o Fase sintomatica itterica
o Convalescenza
- Epatite cronica, ovvero una malattia epatica che dura più di 6 mesi con segni clinici o biochimici-
sierologici; può essere sintomatica o meno. È legata ad HBV e HCV, per quanto riguarda l’infezione
da HBV la probabilità di sviluppare una malattia cronica è tanto maggiore quanto minore è l’età del
paziente.
- Stato di portatore cronico, ovvero l’individuo può trasmettere l’infezione ma è del tutto
asintomatico; in questi casi il danno epatico può essere assente o presente ma privi di sintomi.
- Epatite virale su HIV
- Insufficienza epatica fulminante, definita come una forma di insufficienza epatica che porta ad
encefalopatia entro 2-3 settimane in pazienti senza precedente epatopatia cronica.

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CARATTERISTICHE ISTOLOGICHE DELL’EPATITE

Le modificazioni morfologiche dell’epatite sono solitamente condivise dai diversi virus epatotropi e sono
alcune alterazioni possono essere indicative di un determinato patogeno; ad esempio, in caso di epatite da
HBV il citoplasma degli epatociti può risultare eosinofilo e finemente granulato, si parla di epatociti a vetro
smerigliato, a causa dell’accumulo di HBsAg.

Epatite acuta

Nell’epatite acuta si ha la degenerazione balloniforme degli epatociti, pertanto il citoplasma appare


otticamente vuoto con resti eosinofili degli organelli citoplasmatici.
Un reperto incostante è la colestasi, che si presenta con tappi di bile nei canalicoli e pigmentazione
marrone degli epatociti.
Si hanno anche distruzione dell’architettura lobulare e cellule infiammatorie, rappresentate da linfociti T e
macrofagi spazzini; le cellule di Kupffer risultano spesso ipertrofiche e iperplasiche e ripiene di depositi di
lipofuscina a causa della fagocitosi dei residui epatocellulari. L’infiltrato infiammatorio presente negli spazi
portali può diffondersi anche nel parenchima circostante dando vita all’epatite da interfaccia; si ha anche
una reazione duttale.
Nelle forme gravi è possibile osservare quadri di necrosi a ponte.

Epatite cronica

Nelle forme lievi l’infiammazione è circoscritta allo spazio portale e costituita da linfociti, macrofagi,
plasmacellule e raramente neutrofili o eosinofili; l’architettura epatica è ben conservata, ma si possono
avere epatociti in apoptosi sparsi nel parenchima epatico.
Nelle forme da HCV sono frequenti: aggregati linfoidi negli spazi portali, reazione duttale e steatosi
macrovescicolare.
A lungo andare il perdurare dell’epatite da interfaccia e della necrosi a ponte determina un danno epatico
irreversibile e la deposizione di tessuto fibroso, fino alla formazione di setti fibrosi a ponte; si arriva poi ad
un quadro di cirrosi.

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MALATTIE COLESTATICHE – Dispensa
La bile serve per l’emulsione dei grassi nel lume intestinale e l’eliminazione di bilirubina, colesterolo,
prodotti di scarto e xenobiotici.
La ritenzione di bilirubina diviene clinicamente evidente con la colorazione giallastra di sclere e mucose,
ovvero con l’ittero, e con la colestasi, caratterizzata dalla ritenzione sistemica anche di altri soluti
normalmente eliminati con la bile, non solo di bilirubina. L’ittero insorge in presenza di sovraproduzione di
bilirubina, epatite o ostruzione al flusso della bile, ovvero nel momento in cui si ha un’alterazione
dell’equilibrio tra produzione ed eliminazione della bilirubina.

La bilirubina è il prodotto terminale della degradazione dell’eme


e deriva quindi dal catabolismo di eritrociti invecchiati (85%) e dal
ricambio di eme epatico e emoproteine (15%). L’eme viene
ossidato a biliverdina, poi ridotta a bilirubina; la bilirubina che si
forma fuori dal fegato viene immessa in circolo legata alla
albumina. La bilirubina viene poi captata a livello epatico, grazie
a trasportatori presenti sulla membrana dei sinusoidi, e
coniugata con acido glucuronico grazie alle UDP-
glucuroniltransferasi. La bilirubina coniugata viene poi eliminata
attraverso la bile: la maggior parte della bilirubina glucuronidata
viene deconiugata nel lume intestinale ad opera di glucuronidasi
batteriche e degradata ad urobilinogeno. La maggior parte
dell’urobilinogeno e dei pigmenti residui viene eliminato con le
feci, mentre un 20% viene riassorbito e in minima parte eliminato
con le urine (la maggior parte dell’urobilinogeno riassorbito viene
nuovamente eliminato con la bile).
Nella bile sono presenti Sali biliari, formati dalla coniugazione
degli acidi biliari, prodotti del catabolismo del colesterolo (acido
colico e acido chenodeossicolico) con taurina o glicina; i Sali biliari
sono agiscono come detergenti e permettono di solubilizzare
lipidi presenti nella bile e nel lume intestinale. Il 95% degli acidi
biliari presenti a livello intestinale, coniugati o non coniugati,
viene riassorbito dall’intestino e ritorna al fegato.

Ittero

La bilirubina coniugata e la bilirubina non coniugata possono accumularsi a livello sistemico. La bilirubina
non coniugata è insolubile a pH fisiologico e viaggia complessata con l’albumina; normalmente è presente
una piccola frazione di bilirubina non coniugata libera nel plasma: questa frazione può diffondersi nei
tessuti, soprattutto nel tessuto cerebrale dei lattanti, e provocare danni tossici e risulta aumentata in caso
di sindromi emolitiche o se si assumono farmaci che competono per il legame con l’albumina.
La bilirubina coniugata è invece idrosolubile e solo in minima parte legata all’albumina; al contrario di
quanto avviene per la bilirubina non coniugata, un eccesso di bilirubina coniugata può essere escreto con le
urine.
I livelli plasmatici fisiologici di bilirubina nell’adulto sono 0,3 – 1,2 mg/dl, l’ittero diventa evidente
quando i livelli di bilirubinemia superano i 2-2,5 mg/dl.

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I meccanismi alla base dell’ittero sono diversi:

Ittero neonatale
Dal momento che il meccanismo di coniugazione ed escrezione della bilirubina non è perfettamente
maturo fino a 2 settimane di vita, quasi tutti i neonati sviluppano una lieve iperbilirubinemia transitoria,
condizione che può aggravarsi con l’allattamento, dal momento che nel latte materno vi sono enzimi che
deconiugano la bilirubina. La persistenza dell’ittero nel bambino è però patologica.

Iperbilirubinemie ereditarie
Le cause di iperbilirubinemia ereditaria sono diverse, ad esempio le mutazioni dell’UDP-
glucoroniltrasnferasi, UGT1A1, provocano iperbilirubinemie non coniugate ereditarie:
- Sindrome di Crigler-Najjar di tipo 1 → grave deficit di UGT1A1, fatale in età perinatale
- Sindrome di Crigler-Najjar di tipo 2 → parziale attività residua di UGT1A1, fenotipo sfumato
- Sindrome di Gilbert → parziale attività residua di UGT1A1, fenotipo sfumato
La sindrome di Dubin-Johnson e la sindrome di Rotor sono invece dovute ad altre mutazioni e portano a
iperbilirubinemia coniugata.

Colestasi

La colestasi è causata dalla ridotta formazione e secrezione biliare, con conseguente accumulo di
pigmento biliare nel parenchima epatico; può essere causata da una ostruzione intra- o extra- epatica dei
canalicoli biliari o da deficit della secrezione biliare da parte degli epatociti.
La presentazione clinica include ittero, prurito, xantomi cutanei, sintomi da
malassorbimento intestinale, come carenze di vitamine liposolubili,
aumento della fosfatasi alcalina e aumento della γ-glutamil-transpeptidasi,
γ-GT.

Le caratteristiche morfologiche della colestasi dipendono dalle gravità, dalla


durata e dalla causa.
L’accumulo di pigmento biliare è comune sia alle forme ostruttive che a
quelle non ostruttive e si presenta con strutture allungate di colore verde-
marrone, costituite da bile, visibili all’interno dei canalicoli biliari dilatati
(freccia nell’immagine in basso). La rottura dei canalicoli biliari porta poi allo
stravaso di bile, che è rapidamente fagocitata dalle cellule di Kupffer; gocce
di pigmento biliare si accumulano anche dentro agli epatociti e portano a
degenerazione piumosa (immagine in alto).

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L’ostruzione biliare acuta, intra- o extra- epatica, porta a distensione dei dotti biliari a monte e in
corrispondenza degli spazi portali si ha proliferazione dei duttuli biliari con edema stromale e infiltrato di
neutrofili.
In caso di ostruzione biliare cronica l’infiammazione e le
reazioni duttali determinano fibrosi periportale e
cicatrizzazione, con formazione di noduli all’interno del
tessuto epatico (spesso dalla forma irregolare, vedi immagine
a lato) che a loro volta generano cirrosi biliare secondaria. I
reperti istologici del parenchima epatico includono
degenerazione piumosa degli epatociti periportali,
rigonfiamento citoplasmatico con corpi di Mallory-Denk e
formazione di infarti dei dotti biliari a causa degli effetti
detergenti della bile stravasata.

Ostruzione dei dotti biliari maggiori


La causa più comune di ostruzione delle vie biliari negli adulti è la colelitiasi extraepatica (calcoli biliari),
seguita dai tumori maligni delle vie biliari o della testa del pancreas e dalle stenosi da pregresse procedure
chirurgiche. I quadri ostruttivi nei bambini comprendono l’atresia biliare, la fibrosi cistica, le cisti del
coledoco e le sindromi con dotti biliari intraepatici insufficienti.
Le caratteristiche morfologiche iniziali della colestasi sono completamente reversibili dopo correzione
dell’ostruzione, mentre l’ostruzione prolungata porta a cirrosi biliare.
L’ostruzione incompleta facilita la colangite ascendente, ovvero un’infezione batterica secondaria
dell’albero bronchiale che aggrava il danno infiammatorio; la colangite si presenta con febbre, brividi,
dolore addominale e ittero e la forma più grave è rappresentata dalla colangite suppurativa, che può
portare a sepsi. Nella colangite ascendente si ha l’afflusso di neutrofili periduttali nell’epitelio e nel lume
dei dotti, in modo da assorbire i Sali biliari e proteggere i dotti a valle dell’ostruzione dalla loro azione
detergente.
L’ostruzione biliare extraepatica può essere trattata chirurgicamente, mentre la colestasi intraepatica può
essere peggiorata dalla chirugia, pertanto è importante una diagnosi corretta e tempestiva.

Colestasi da sepsi
La sepsi può colpire il fegato tramite diversi meccanismi:
- Conseguenze dirette di infezioni batteriche intraepatiche
- Ischemia da ipotensione
- Risposta a prodotti batterici circolanti, soprattutto se l’infezione sistemica è sostenuta da Gram+
La forma più comune è la colestasi canicolare con tappi di bile
che ostruiscono soprattutto i canalicoli centrolobulari, si
possono avere anche modesta attivazione delle cellule di
Kupffer e modesta infiammazione portale, ma la necrosi
epatocitaria è scarsa o assente.
La forma più infausta è la colestasi duttulare in cui si dilatano,
a causa di cospicui tappi di bile, i canali di Hering e i duttuli
biliari presenti nella regione di interfaccia tra spazi portali e
parenchima epatico; questa condizione precede o
accompagna lo shock settico (immagine a lato).

Epatolitiasi primaria
La calcolosi primaria intraepatica è la formazione di calcoli biliari all’interno del fegato e porta ad attacchi
ripetuti di colangite ascendente e distruzione infiammatoria progressiva del parenchima epatico e
predispone a neoplasia delle vie biliari.

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Si ha la formazione di calcoli pigmentati di bilirubinato di calcio, all’interno dei dotti biliari intraepatici che
risultano dilatati ed infiammati e presentano fibrosi murale e iperplasia delle ghiandole peribiliari. Si può
avere displasia, che può evolvere in colangiocarcinoma.

Colestasi neonatale
Colpisce circa 1 nato vivo su 2.500 e consiste in una prolungata iperbilirubinemia coniugata, che va valutata
nei neonati che dopo 14 giorni presentano ancora ittero. Le cause principali sono le colangiopatie, in
particolare l’atresia neonatale, e le epatiti neonatali.
Le caratteristiche morfologiche dell’epatite neonatale comprendono:
- Apoptosi e necrosi epatocellulare focale
- Trasformazione panlobulare a cellule giganti degli
epatociti
- Colestasi epatocellulare e canicolare
- Lieve infiltrazione mononucleata nelle aree portali
- Modificazioni reattive nelle cellule di Kupffer e
emopoiesi extra-midollare
Il danno può estendersi e determinare anche danno duttale,
con proliferazione dei duttuli biliari e fibrosi degli spazi portali,
ma in questo caso è difficile distinguere tra epatite neonata e
atresia biliare.

Atresia biliare
L’atresia biliare si definisce come la completa o parziale ostruzione del lume dell’albero biliare extraepatico
nei primi 3 mesi di vita ed è una delle principali cause di colestasi neonatale.
Sulla base della presunta durata dell’obliterazione del lume si riconoscono due forme principali di atresia
biliare:
- Forma fetale, associata ad altre anomalie, come il situs inversus, e probabilmente dovuta ad uno
sviluppo intrauterino aberrante dell’albero biliare extra-epatico
- Forma perinatale, più comune, in cui il sistema biliare normalmente sviluppato viene distrutto dopo
il parto; le cause non sono note, ma probabilmente è dovuta ad infezioni virali e reazioni
autoimmuni.
Le caratteristiche morfologiche salienti dell’atresia biliare comprendono infiammazione e stenosi fibrosante
del dotto epatico o comune; in alcuni soggetti l’infiammazione periduttale si diffonde anche nei dotti biliari
intraepatici portando inoltre a progressiva distruzione del sistema biliare intraepatico. Se l’atresia biliare
non viene riconosciuta e trattata si sviluppa cirrosi entro 3-6 mesi dalla nascita.
Quando la malattia è limitata al coledoco (tipo I) o ai dotti epatobiliari destri e/o sinistri (tipo II), può essere
corretta chirurgicamente (procedura di Kasai). Sfortunatamente, il 90% dei pazienti presenta atresia biliare
di tipo III, in cui vi è anche ostruzione del dotto biliare in corrispondenza o superiormente all’ilo epatico;
questi casi non sono correggibili perché mancano dotti biliari pervi adatti all’anastomosi chirurgica.

ANOMALIE STRUTTURALI DELL’ALBERO BILIARE – Dispensa

CISTI DEL COLEDOCO

Si tratta di dilatazioni congenite del coledoco che si presentano, soprattutto nei bambini di età inferiore a
10 anni, con ittero e/o dolore addominale ricorrenti. Se le cisti del coledoco si manifestano insieme alla
dilatazione cistica dell’albero biliare intraepatico si parla di malattia di Caroli.
Le cisti coledociche predispongono alla formazione di calcoli, stenosi e restringimenti, pancreatite e
complicanze ostruttive biliari intraepatiche.

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MALATTIA FIBROPOLICISTICA

La malattia fibropolicistica del fegato comprende un gruppo eterogeno di lesioni in cui le anomalie
primarie sono malformazioni congenite dell’albero biliare. Le forme più gravi possono manifestarsi con
epatosplenomegalia o ipertensione portale in assenza di disfunzione epatica, mentre la maggior parte dei
casi sono individuati accidentalmente.
Si osservano tre gruppi di reperti patologici, che talvolta si sovrappongono:
- Complessi di Von Meyenburg, ovvero piccoli amartomi dei dotti biliari
- Cisti biliari intra- o extra- epatiche singole o multiple (malattia di Caroli; se accompagnano la
fibrosi epatica congenita si parla di sindrome di Caroli)
- Fibrosi epatica congenita, in cui i tratti portali sono ingranditi da fasce di tessuto collagene che
formano setti e dividono il fegato in isole irregolari, ma non si ha una vera e propria cirrosi
Tutte queste lesioni sono riconducibili ad anomalie di sviluppo dell’albero biliare che riflettono
malformazioni della lamina duttale associate a persistenza delle lamine duttali periportali dello sviluppo
fetale; l’epatopatia fibropolicistica spesso si associa alla malattia policistica renale autosomica recessiva. Il
gene coinvolto codifica per una proteina chiamata policistina che è espressa nel rene fetale oltre che nel
fegato. Le persone affette da epatopatia fibropolicistica presentano un aumento del rischio di
colangiocarcinoma.

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MALATTIE DELLE VIE BILIARI EXTRA-EPATICHE – Dispensa

LESIONI NEOPLASTICHE DELLE VIE BILIARI EXTRAEPATICHE

Il colangiocarcinoma extraepatico comprende forme peri-ilari (tumore di Klatskin) e forme distali (meno
comuni, rappresentano il 20-30% dei casi).
La diagnosi avviene solitamente quando la neoplasia è di piccole dimensioni, dal momento che causano
rapidamente sintomi ostruttivi; la neoplasia solitamente è nodulare, in alcuni casi infiltrante, mentre altre
volte è polipoide/papillare.
La classificazione di Bismuth consente di classificare il colangiocarcinoma extraepatico peri-ilare in base
alla sede di insorgenza:
- Tipo I: nasce a livello di dotto epatico comune e giunge a livello della biforcazione biliare, senza
occluderla
- Tipo II: nasce a livello della convergenza tra dotto epatico destro e sinistro
- Tipo IIIa: interessa il dotto epatico comune e il dotto destro
- Tipo IIIb: interessa il dotto epatico comune e il dotto sinistro
- Tipo IV: invasione multicentrica o di entrambi i dotti epatici
Si tratta di tumori che insorgono prevalentemente su un quadro di colangite e determinano, a causa della
stenosi, un quadro di cirrosi biliare retrograda.
Il colangiocarcinoma peri-ilare è particolarmente infiltrante e interessa progressivamente l’intera parete del
dotto epatico e i tessuti limitrofi, compreso il parenchima pancreatico; si ha una importante reazione
desmoplastica e la progressiva invasione di vasi linfatici e nervi.
Il trattamento prevede una emiepatectomia allargata (per dotto epatico di destra epatectomia destra, per il
dotto epatico di sinistra epatectomia sinistra) comprendendo la porzione di via biliare interessata e quasi
sempre si associa la duodeno-cefalopancreasectomia.

LESIONI PRE-NEOPLASTICHE DELLA PAPILLA DI VATER

La lesione pre-neoplastica della papilla di Vater più comune è l’adenoma di tipo intestinale con morfologia
polipoide; questa lesione risulta particolarmente frequente e ad insorgenza precoce nei pazienti con FAP,
mentre nella popolazione non affetta da FAP interessa soprattutto i soggetti con più di 70 anni.
I sintomi tipici sono ittero ostruttivo, nausea, vomito e calo ponderale.
La diagnosi si basa su clinica ed endoscopia; sul materiale bioptico si può eseguire un esame istologico, che
risulta orientativo, non diagnostico: la biopsia non è diagnostica perché può essere fuorviante, infatti, si
possono prelevare aree con displasia di basso grado quando in realtà ve ne sono altre con displasia di alto
grado; si dovrebbe procedere direttamente con la resezione.
Si distinguono due istotipi di adenoma della papilla di Vater: istotipo intestinale e istotipo pancreatobiliare.

Lesioni pre-neoplastiche della papilla di Vater con istotipo intestinale

Si ha una metaplasia intestinale con cellule coloniche (CK7-, CK20+, CDX2+) e


caratteristiche istologiche sovrapponibili a quelle degli adenomi del colon; si
hanno quindi ghiandole tubulari displastiche fortemente alterate e
destrutturate con elementi cellulari cilindrici, allungati e multistratificati.
La displasia viene grada in alto e basso grado in base a:
- Attività mitotica: le figure mitotiche diventano prominenti nella
displasia di alto grado
- Morfologia dei nuclei, che divengono allungati e disorientati
- Presenza di ghiandole in affollamento
La storia naturale di queste lesioni, se non asportate, prevede la progressione
in adenocarcinoma di tipo intestinale infiltrante; il 60% di queste lesioni è
diagnosticato in pazienti con FAP retto-colica e proprio per questo essi sono sottoposti a controlli periodici.
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Lesioni pre-neoplastiche della papilla di Vater con istotipo pancreatobiliare

Fenomeni metaplasici con morfologia paragonabile a quella pancreatica, ad aspetto prevalentemente


villiforme, che rappresentano i precursori dell’adenocarcinoma di tipo pancreato-biliare. Queste lesioni
possono insorgere sia a livello della papilla che dei dotti retro-pancreatici, in questo secondo caso risultano
più difficili da identificare, pertanto rimangono maggiormente in situ e tendono ad evolvere nella forma
maligna.
Microscopicamente si presentano come micro-escrescenze papillari, strutture villiformi con asse vasculo-
stromale ed epitelio di rivestimento bilio-pancreatico secernente, in assenza di globet cells. Nelle lesioni
di basso grado i nuclei sono in posizione basale e ben orientati, mentre nelle lesioni di alto grado di osserva
un affollamento cellulare, con cellule che tendono a portarsi verso la parte esterna della papilla, e diverse
mitosi. Il profilo di espressione cheratinico prevede: CK7+, CK20- e CDX2 può essere sia negativo sia
positivo, ma in ogni caso non con la stessa intensità che si osserva nelle forme intestinali.

ADENOCARCINOMA INFILTRANTE DELLA REGIONE AMPOLLARE

Rappresenta lo 0,4-0,7% di tutti i carcinomi del tratto GI, con maggiore incidenza nel sesso maschile tra i 60
e gli 80 anni, e può presentare istotipo intestinale (50-80% dei casi) o pancreatobiliare (15-20%).
La sintomatologia include ittero, aumento della fosfatasi alcalina e anemizzazione.
Macroscopicamente la forma intestinale si presenta come una lesione aggettante, esofitica, vegetante o
ulcero-vegetante, mentre la forma pancreatobiliare con sede retropapillare porta alla stenosi della papilla
per formazione di una massa in regione retroveteriana.

Fenotipo intestinale

Ha spesso aspetto tubulare e caratteristiche sovrapponibili a quello colico; le ghiandole sono rivestite da
epitelio colonnare e presentano destrutturazione con aspetto back to back, i nuclei sono allungati e
stratificanti con nucleoli prominenti e talvolta con più di un nucleolo. Si evidenziano atipie e figure
mitotiche e in alcuni caso possono essere presenti globet cells e cellule di Paneth.

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Fenotipo pancreatobiliare

Ha aspetto simile all’adenocarcinoma pancreatico o della via biliare extra-epatica; presenta una consistenza
dura a causa della importante reazione fibrosa e presenta una caratteristica peculiare, ovvero la
commistione di ghiandole di varie dimensioni: alcune ghiandole appaiono quasi normali, ben differenziate,
associate a ghiandole di piccole dimensioni e ghiandole singole dal contorno irregolare. L’epitelio è spesso
monostratificato senza pseudostratificazione e le cellule risultano altamente atipiche, con abbondanti
figure mitotiche.
La compresenza di strutture a diversi gradi di differenziazione è una caratteristica tipica del cancro del
pancreas e la diagnosi viene effettuata valutando l’area meno differenziata. Nel 5% dei casi si associa una
componente micro-papillare, che correla con una maggiore aggressività biologica.

Varianti istologiche

Accanto ai principali istotipi, quindi intestinale o pancreatobiliare, esistono anche altre varianti istologiche:
- Adenosquamoso
- Carcinoma a cellule chiare
- Adenocarcinoma mucinoso
- Carcinoma neuroendocrino ad alto grado
- Carcinoma con componente signet ring cells
Queste varianti possono evolvere in adenocarcinoma di ogni distretto; il potenziale metastatico è ridotto
se la neoplasia è limitata alla mucosa, ma aumenta in caso di diffusione alla sottomucosa e soprattutto in
caso di invasione del duodeno, della testa del pancreas e del grasso periviscerale.
La prognosi correla con lo stadio del tumore, il tipo istologico (il pancreatobiliare ha aggressività maggiore)
e con la presenza o meno di pregresso adenoma.

NEOPLASIE EXTRA-AMPOLLARI

Le neoplasie duodenali e dell’ileo terminale sono molto rare si riscontrano soprattutto in pazienti affetti
da malattia celiaca o malattia di Crohn. Queste lesioni presentano caratteristiche morfologiche più simili
all’epitelio gastrico rispetto all’epitelio colico, fenomeno che fa pensare che esse originino da metaplasie
gastriche. Vista la localizzazione e la scarsa sintomatologia associata si tratta di lesioni diagnosticate
tardivamente e aggressive.

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COLECISTI – Dispensa
Il fegato secerne fino a un litro di bile al giorno e nella fase post-prandiale la bile viene immagazzinata nella
colecisti, che nell’adulto ha una capacità di circa 50 ml, dove viene concentrata.

ANOMALIE CONGENITE

La colecisti può essere assente o duplicata, con un dotto cistico congiunto o indipendente; la presenza di un
setto longitudinale o trasversale può dar vita alla colecisti bilobata. Localizzazioni aberranti della colecisti si
osservano nel 5-10% della popolazione; il fondo ripiegato costituisce l’anomalia più frequente.
Possono verificarsi anche agenesia parziale o totale del dotto epatico e del coledoco e atresia biliare.

COLELITIASI

La calcolosi biliare colpisce il 10-20% della popolazione adulta dei paesi sviluppati e nella maggior parte dei
casi è asintomatica; i tipi principali di calcoli biliari sono i calcoli di colesterolo, costituiti per oltre il 50% da
cristalli di monoidrato di colesterolo, e i calcoli pigmentati, composti soprattutto da bilirubinato di calcio.
I calcoli di colesterolo sono più comuni nelle popolazioni occidentali, mentre i calcoli pigmentati insorgono
soprattutto nel quadro di infezioni batteriche o parassitarie dell’albero biliare e sono più comuni nelle
popolazioni non occidentali.
I fattori di rischio associati allo sviluppo di calcoli di
colesterolo sono:
- Età avanzata e sesso femminile
- Sindrome metabolica e obesità
- Esposizione a estrogeni, quindi contraccettivi orali e
gravidanza, che stimolano la captazione e la
biosintesi di colesterolo, quindi la sua eliminazione
nella bile
- Malattie acquisite che determinano stasi della
colecisti
- Fattori ereditari, in particolare mutazioni dei geni che
codificano per i trasportatori dei lipidi biliari

Patogenesi

Calcoli di colesterolo
Il colesterolo viene solubilizzato nella bile grazie ai Sali biliari e alle lecitine; quando la concentrazione di
colesterolo supera la capacità di solubilizzazione della bile si formano cristalli di colesterolo monoidrato
che poi formano i calcoli. La formazione dei calcoli è quindi favorita da:
- Sovrasaturazione della bile con il colesterolo
- Ipomobilità della colecisti
- Accelerazione della nucleazione di colesterolo nella bile
- Ipersecrezione mucosa della colecisti, che intrappola i cristalli nucleati e consente la formazione di
calcoli di grandi dimensioni

Calcoli pigmentati
Si tratta di miscele di Sali di calcio di bilirubina non coniugata e Sali di calcio inorganici. Il rischio aumenta in
caso di anemia emolitica, disfunzioni ileali, contaminazione batterica, condizioni che aumentano la
concentrazione di bilirubina non coniugata (nelle infezioni agisce glucoronidasi batterica, mentre in caso di
anemia emolitica aumenta la quota di bilirubina coniugata, ma contestualmente aumenta la quota che
viene deconiugata fisiologicamente nell’albero biliare).

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Morfologia

I calcoli di colesterolo si formano esclusivamente nella colecisti; calcoli di colesterolo puro hanno colore
giallo chiaro, forma tondeggiante o ovalare e superficie esterna dura e finemente granulare, mentre man
mano che aumenta la quota di carbonato di calcio, fosfato e bilirubina, il colore vira al bianco-grigiastro o
nero e possono diventare lamellari. Solitamente sono presenti calcoli multipli di dimensioni considerevoli.
I calcoli di colesterolo puro sono radiotrasparenti, ma in alcuni casi si ha una quantità di carbonato di calcio
sufficiente a renderli radiopachi.

I calcoli pigmentati sono di colore marrone o nero, solitamente quelli neri si osservano nella colecisti con
bile sterile, mentre quelli marroni si osservano nei dotti intra- o extra- epatici infetti. I calcoli neri
contengono polimeri ossidati di sali di calcio di bilirubina non coniugata, piccole quantità di carbonato di
calcio, fosfato di calcio e glicoproteine mucinose e alcuni cristalli di colesterolo monoidrato. I calcoli
marroni contengono composti simili insieme a una discreta percentuale di colesterolo e sali di calcio di
palmitato e stearato. Poiché contengono carbonati di calcio e fosfati, il 50-75% circa dei calcoli di colore
nero è radiopaco, mentre i calcoli marroni, che contengono saponi di calcio, sono radiotrasparenti.

Clinica

Nell’80% dei pazienti la litiasi rimane asintomatica per tutta la vita; se presenti, tra i sintomi spicca il
dolore nel quadrante superiore destro, che può irradiarsi alla spalla destra o al dorso. Vi possono anche
essere complicanze, come empiema, perforazione, fistole, colangite, colestasi ostruttiva e pancreatite;
maggiori sono le dimensioni dei calcoli minore è la probabilità che entrino nel dotto cistico o nel coledoco e
diano vita ad una ostruzione: sono più pericolosi i calcoli di piccole dimensioni o la “sabbia biliare”.
Occasionalmente, un calcolo di grandi dimensioni può erodere direttamente dall’interno un’ansa ileale
adiacente, determinando un’ostruzione intestinale (ileo biliare o sindrome di Bouveret).
La litiasi è inoltre associata ad un aumento del rischio di carcinoma della colecisti.

COLECISTITE

L’infiammazione della colecisti può essere acuta, cronica o acuta sovrapposta a cronica. Compare quasi
sempre in associazione alla litiasi biliare. Negli Stati Uniti, la colecistite è una delle più comuni indicazioni
alla chirurgia addominale. La sua distribuzione epidemiologica decorre parallelamente a quella della
calcolosi biliare.

COLECISTITE ACUTA

La colecistite acuta litiasica è causata nel 90% dei casi da una ostruzione del collo o del dotto cistico da
parte di un calcolo ed è la principale complicanza della calcolosi biliare, mentre la colecistite alitiasica si
riscontra solo nel 10% dei casi ed interessa pazienti gravemente malati.

Patogenesi

La colecistite acuta litiasica è il risultato della stimolazione chimica e delle conseguente flogosi della
colescisti ostruita da calcoli:
- la fosfolipasi della mucosa idrolizza le lecitine luminali a isolecitine tossiche
- lo strato glicoproteico di protezione della mucosa viene meno e l’epitelio è danneggiato dall’azione
detergente dei Sali biliari
- le prostaglandine rilasciate all’interno della parete distesa contribuiscono alla flogosi
- la dilatazione della colecisti e l’aumento della pressione intraluminale compromettono il flusso
ematico alla mucosa
- nelle fasi successive può svilupparsi una contaminazione batterica

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Si ritiene che la colecistite acuta alitiasica sia il risultato di un’ischemia. L’arteria cistica è un’arteria
terminale priva di circoli collaterali. Tra i fattori implicati rientrano infiammazione ed edema della parete
che compromettono il flusso ematico, stasi della colecisti e accumulo di microcristalli di colesterolo (fango
biliare), bile spessa e muco della colecisti, che causano ostruzione del dotto cistico in assenza di una franca
formazione calcolotica. I fattori di rischio in questo caso sono: sepsi con ipotensione, immunosoppressione,
traumi maggiori, ustioni, diabete, infezioni.

Morfologia

Nella colecistite acuta la colecisti appare aumentata di volume e distesa e può assumere una colorazione
rosso lucente o chiazzata a causa delle emorragie sottosierose; la sierosa risulta ricoperta da uno strato di
fibrina, che nei casi più gravi è suppurativo.
Il lume della colecisti racchiude uno o più calcoli, in caso di colecistite litiasica, bile, fibrina, pus e sangue;
quando l’essudato è esclusivamente costituito da pus si ha un empiema della colecisti; nei casi più gravi la
colecisti si trasforma in un organo necrotico e si ha colecistite gangrenosa, con perforazioni. L’invasione di
organismi che producono gas, soprattutto clostridi e coliformi, può causare una colecistite acuta
enfisematosa.

Clinica

Un attacco di colecistite acuta inizia con un dolore progressivo al quadrante superiore destro o in
epigastro, che dura più di 6 ore, frequentemente associato a febbre, anoressia, tachicardia, sudorazione,
nausea e vomito; se presenti iperbilirubinemia o ittero si pensa ad una ostruzione del coledoco. Si possono
avere anche una lieve leucocitosi e un modesto aumento della fosfatasi alcalina.
Si possono avere sintomi lievi o un quadro grave che rappresenta un’emergenza chirurgica.
I sintomi clinici di colecistite acuta alitiasica tendono a essere più insidiosi perché mascherati dalle malattie
sottostanti che scatenano gli attacchi.

COLECISTITE CRONICA

La colecistite cronica può essere una sequela di ripetuti episodi di colecistite acuta, di severità
ingravescente, anche se solitamente si sviluppa in apparente assenza di attacchi precedenti; nel 90% dei
casi si associa a colelitiasi.
Poiché la maggior delle colecisti asportate in chirurgia elettiva per calcolosi mostra le caratteristiche della
colecistite cronica, si può concludere che i sintomi biliari spesso si risveglino in seguito alla coesistenza di
calcolosi biliare inveterata e di una flogosi di basso grado.

Morfologia

La sierosa è solitamente liscia e lucida, ma può essere opacizzata da una fibrosi sottosierosa. La parete è
ispessita e ha colore opaco grigio-bianco, il lume contiene, nei casi non complicati, bile, muco e calcoli.
All’esame istologico il grado di infiammazione è variabile: nei casi lievi si osservano solo linfociti sparsi,
plasmacellule e macrofagi, mentre nei casi più gravi si ha una marcata fibrosi sottoepiteliale e sottosierosa
con infiltrato infiammatorio mononucleato. Una proliferazione reattiva della mucosa e una fusione delle
pliche mucose possono dare origine a cripte epiteliali profonde all’interno della parete della colecisti.
L’estroflessione dell’epitelio mucoso attraverso la parete (seni di Rokitansky-Aschoff) può essere molto
accentuata.
In rari casi una estesa calcificazione distrofica all’interno della parete della colecisti può portare a colecisti a
porcellana, cui si associa uno spiccato aumento dell’incidenza di neoplasie.
Nella colecistite xantogranulomatosa la colecisti ha una parete notevolmente ispessita, è rimpicciolita,
nodulare e cronicamente infiammata con focolai di necrosi ed emorragia. È scatenata dalla rottura dei seni
di Rokitansky-Aschoff nella parete della colecisti, seguita da accumulo di macrofagi che hanno

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internalizzato fosfolipidi biliari. Queste cellule contenenti lipidi e caratterizzate da citoplasma spugnoso
sono dette cellule xantomatose, da cui il nome della condizione. Infine si può avere una colecisti atrofica,
spesso dilatata e cronicamente ostruita che contiene solo una secrezione chiara, condizione conosciuta
come idrope della colecisti.

Clinica

La colecistite cronica non presenta le manifestazioni spiccate della forma acuta ed è di solito caratterizzata
da crisi ricorrenti di dolore colico, nausea e vomito e intolleranza per i cibi grassi.
Possibili complicanze sono:
- sovra-infezione batterica
- perforazione della colecisti e formazione di ascessi
- rottura della colecisti
- fistola bilioenterica e potenziale ostruzione intestinale da calcoli
- aggravamento di una preesistente condizione medica
- colecisti a porcella con aumento del rischio neoplastico

CARCINOMA DELLA COLECISTI

Il carcinoma della colecisti è la più comune neoplasia maligna delle vie biliari extraepatiche, con una
incidenza di 6000 casi/anno in America e maggiore in Cine, Bolivia e India. Questa patologia colpisce le
donne con una frequenza doppia rispetto agli uomini e nella maggior parte dei casi la diagnosi avviene in
fase avanzata, quando la neoplasia non è più resecabile, tanto che la sopravvivenza a 5 anni è inferiore al
10%. I sintomi di presentazione sono insidiosi e difficilmente distinguibili da quelli della colelitiasi: dolore,
ittero, anoressia, nausea e vomito.

Patogenesi

Il fattore di rischio principale è rappresentato dai calcoli biliari, ma solo l’1-2% dei pazienti con calcolosi
sviluppa il carcinoma della colecisti, e in Asia sono implicante anche le infezioni croniche batteriche o
parassitarie; ciò che accumuna questi due fattori è l’infiammazione cronica.
Il carcinoma della colecisti presenta alterazioni molecolari ricorrenti che possono rappresentare potenziali
bersagli terapeuti, come l’oncoproteina ERBB2 (Her2-neu), che risulta sovraespressa nei 2/3 dei casi, e
mutazioni dei geni di rimodellamento della cromatica, come PBRM1 e MLL3.

Morfologia

I carcinomi della colecisti hanno due tipi di accrescimento: infiltrante ed esofitico.


Il tipo infiltrante è più frequente e può portare a penetrazione diretta del fegato o formazione di fistole nei
visceri adiacenti; si presenta come un’area di ispessimento diffuso e indurimento della parete della
colecisti. Il tipo esofitico si presenta come una massa irregolare a forma di cavolfiore che cresce all’interno
del lume e allo stesso tempo invade la parete sottostante.

La maggior parte dei carcinomi della colecisti è rappresentata da adenocarcinomi, alcuni sono papillari e
ben differenziati e presentano una prognosi migliore, altri sono infiltranti e scarsamente differenziati. Il 5%
circa dei casi è rappresentato da carcinomi squamocellulari o adenosquamosi; una minoranza dei casi
presenta una struttura carcinoide o carcinosquamosa (aspetti di tipo mesenchimali).
Sedi comuni di disseminazione sono fegato, dotto cistico, dotti biliari adiacenti, linfonodi dell’ileo epatico,
peritoneo, tratto gastroenterico e polmoni.
Non è raro trovare lesioni pre-neoplastiche, ovvero aree displastiche, nell’epitelio adiacente il tumore
invasivo o nelle colecisti con colelitiasi di lunga data.

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SINDROMI DA MALASSORBIMENTO

MALATTIA CELIACA

Il morbo celiaco è noto anche come sprue celiaca o enteropatia da glutine e consiste in una enteropatia
immuno-mediata scatenanta dall’ingestione di cereali contenenti glutine, come grano, segale o orzo, in
individui geneticamente predisposti.
Il 95% dei pazienti presenti HLA-DQ2 e il restante 5% HLA-DQ8; si riscontra una concordanza del 70-80%
tra i gemelli omozigoti e si ipotizza una correlazione con un evento infettivo (adenovirus 12) che funge da
trigger.
L’incidenza della celiachia è aumentata anche in virtù delle migliori capacità diagnostiche e ad oggi si strima
una prevalenza mondiale dello 0,5-1%, che varia molto in base alla regione geografica, anche in virtù del
diverso consumo di grano.

Patogenesi - Robbins

La malattia celiaca è scatenata dalla ingestione di glutine, in particolar modo dalla frazione alcol-solubile, la
gliadina. Il glutine viene digerito da enzimi luminari e dell’orletto a spazzola e si formano peptidi e
amminoacidi, tra cui un polipeptide di 33 amminoacidi derivante dall’α-gliadina che risulta resistente alla
degradazione da parte delle proteasi gastriche, pancreatiche e intestinali.
Alcuni peptidi derivanti dalla gliadina inducono le cellule epiteliali ad esprime IL-15, che a sua volta induce
l’attivazione e la proliferazione dei linfociti T CD8+: queste cellule esprimono il marcatore NKG2D (tipico
delle cellule natural killer) e riconoscono gli enterociti che esprimono MIC-A (l’espressione di MIC-A sulla
membrana cellulare è indotta dallo stress).
Si innesca quindi un danno epiteliale
mediato dai linfociti intraepiteliali che a sua
volta comporta una maggior permeabilità
dell’epitelio e facilita il passaggio di altri
peptidi gliadinici nella lamina propria,
dove essi vengono deaminati dalla
transgutaminasi tissutale.
I peptidi gliadinicni vengono riconosciuti da
HLA-DQ2 e HLA-DQ8, espressi dalle cellule
presentanti l’antigene, e determinano
l’attivazione dei linfociti CD4+, i quali
producono citochine e contribuiscono al
danno tissutale.

Clinica

La presentazione clinica è estremamente eterogena: vi sono forme asintomatiche e forme sintomatiche che
possono manifestarsi con sintomi di diversa natura:
• Sintomi intestinali
o Dierra cronica o ricorrente
o Costipazione
o Dolore addominale ricorrente
o Aumento delle transaminasi
o Calo ponderale
o Stomatite aftosa ricorrente
• Sintomi extra-intestinali
o Anemia da malassorbimento cronico di ferro e vitamine
o Dermatite erpetiforme
83
o Aborti spontanei ricorrenti
o Osteoporosi
o Artrite
o Ipotrofia muscolare
o Ritardo puberale e bassa statura
o Irritabilità
o Cefalea
o Astenia cronica
Anche nei bambini si possono avere sia sintomi classici che sintomi non classici; nei bambini con
sintomatologia tipica la malattia insorge tra i 6 e i 24 mesi di vita, con l’introduzione del glutine nella dieta,
e si manifesta con diarrea, meteorismo, anoressia, ritardo della crescita, perdita di tono muscolare e
irritabilità. Nei bambini con sintomi atipici la malattia si manifesta tardivamente, con dolore addominale,
nausea, vomito, meteorismo o stipsi. Molto comuni tra i sintomi extra-intestinali nei bambini sono artrite,
disturbi convulsivi, stomatite aftosa, anemia sideropenica, ritardo puberale e bassa statura.
Sia la malattia celiaca sintomatica che quella asintomatica si associano ad un danno immuno-mediato
dell’epitelio intestinale, che non si osserva invece nella malattia celiaca potenziale, caratterizzata dalla
presenza di HLA-DQ2 e DQ8, da sierologia positiva e da epitelio intestinale sano.

Diagnosi

Nel momento in cui si riscontrano sintomi suggestivi di celiachia si valutano le IgA totali e le IgA anti-
transglutaminasi (anti-TTG):
- IgA anti-TTG negative → malattia celiaca assente, si procede ricercando un’altra causa per i sintomi
- IgA anti-TTG positive
o Titolo anticorpale > 10 volte la norma → valutazione delle IgA anti-endomisio (EMA-IgA),
marker più specifici, e valutazione degli aplotipi HLA-DQ2 e DQ8
o Titolo anticorpale < 10 volte la norma → biopsia (eseguita anche in caso di negatività agli
anticorpi anti-endomisio, ma positività agli aplotipi)
Va tenuto presente che la valutazione della suscettibilità genetica è importante perché ha un alto valore
predittivo negativo, ma la positività ad HLA-DQ2 e DQ8 da sola non permette di confermare la diagnosi.
In caso di deficit di IgA si possono valutare gli
anticorpi anti-peptide deaminato della gliadina,
sia IgA che IgG, mentre nei bambini fino a due
anni si valutano gli anticorpi anti-gliadina, sia
IgA che IgG.
Va tenuto presente che spesso la biopsia si
esegue prima degli esami sierologici, questo
perché in pazienti con sintomi gastrointestinali o
asintomatici ma anemici è bene prescrivere una
esofagogastroduodenoscopia, che si accompagna
sempre a biopsia.
In altri casi la malattia celiaca viene sospettata in
primo luogo dal dermatologo, che osserva una
dermatite erpetiforme resistente o scarsamente
responsiva al trattamento cortisonico.
La dermatite erpetiforme consiste in una lesione
cutanea bollosa e pruriginosa che si manifesta
quando gli anticorpi presenti nel siero legano la transglutaminasi epidermica.

È possibile avere diverse forme di celiachia:


- Celiachia potenziale → sierologia positiva e istologia negativa
- Celiachia latente → istologia negativa con successivo sviluppo di atrofia

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- Celiachia silente → istologia positiva, ma sintomatologia assente
- Celiachia con sintomi maggiori → sierologia ed istologia positive che si accompagnano a franco
malassorbimento
- Celiachia con sintomi minori → istologia positiva accompagnata da anemia, infertilità, epatopatia,
ecc.

Esofagogastroduodenoscopia
In caso di morbo celiaco la mucosa duodenale
perde il suo caratteristico aspetto pieghettato e
appare appiattita.
La modificazione più frequente è lo scalloping,
ovvero la presenza di incisure longitudinali sulle
pliche del Kerckring, che conferisce loro un
aspetto nodulare.

Istopatologia
Dal punto di vista istopatologico vanno considerati due parametri:
- Rapporto lunghezza villo/lunghezza cripta, che fisiologicamente è superiore a 3
- Numero di linfociti intraepiteliali CD3+, che deve essere inferiore a 25 ogni 100 enterociti
Sulla base di questi due elementi la classificazione di Corazza-Villanacci identifica diversi gradi della
patologia:
1. Grado A: senza atrofia; i villi hanno una
morfologia normale ed è assente l’iperplasia
delle cripte. I linfociti intraepiteliali possono
essere presenti, ma non superano il rapporto
1-4
2. Grado B
Grado B1: i villi sono alterati, appiattiti, con
iperplasia delle cripte, ma essi sono ancora
presenti
Grado B2: i villi scompaiono e si ha una
marcata iperplasia delle cripte, compatibile
con un quadro di totale malassorbimento; così
come nel grado B1 i linfociti intraepiteliali sono
aumentati e superano il rapporto di 1/4

La classificazione più usata è quella di Marsh-Oberhuber:


• Marsh 1 → lieve aumento dei linfociti intraepiteliali e rapporto villi/cripte normale, anche se alcuni
villi possono iniziare ad apparire tozzi
• Marsh 2 → aumento dei linfociti intraepiteliali e iperplasia delle cripte
• Marsh 3
Marsh 3A → aumento dei linfociti intraepiteliali, iperplasia delle cripte e parziale atrofia villosa
Marsh 3B → aumento dei linfociti intraepiteliali, iperplasia delle cripte e atrofia subtotale
Marsh 3C → aumento dei linfociti intraepiteliali, iperplasia delle cripte e atrofia totale dei villi
Va ricordato che la linfocitosi non è necessariamente correlata alla celiachia, essa infatti può essere
presente anche in caso di neoplasie o altre malattie autoimmuni.
Per la diagnosi di celiachia è sufficiente riscontrare un Marsh 2 o 3.

Probabilmente è la perdita di superficie della mucosa a farsi causa del malassorbimento. Inoltre, l’aumento
del tasso del turnover epiteliale, che si riflette in un aumento della capacità mitotica delle cripte, può
limitare la capacità da parte degli enterociti assorbenti di differenziarsi pienamente e di esprimere le
proteine necessarie alla digestione terminale e al trasporto transepiteliale. Tra le altre caratteristiche della

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malattia celiaca pienamente sviluppata vi è un aumento nel numero di plasmacellule, mastociti ed eosinofili
nella parte superiore della lamina propria.

Terapia

La terapia consiste nella dieta aglutinata e i cibi contenenti glutine possono essere sostituiti con equivalenti
passati dal SSN.

Altre patologie da alterata sensibilità al glutine

È possibile avere un’allergia al glutine IgE-mediata e la sensibilità al glutine non celiaca.


La sensibilità al glutine non celiaca non è né su base allergica né su base autoimmune, pare invece
correlata ad una alterata attivazione dell’immunità innata in risposta all’introduzione di glutine. La
sintomatologia è analoga alla celiachia, ma non si hanno i tipici anticorpi né la predisposizione genetica
associata; da un punto di vista istologico si osservano villi normali con aggregati di linfociti posti in
profondità e eosinofili.
In entrambi i casi la terapia consiste nell’eliminazione del glutine dalla dieta.

MALATTIA DI WHIPPLE

È una patologia cronica multisistemica causata dal batterio Tropheryma Whipplei.


Il batterio penetra nell’organismo a livello di piccolo intestino, causando lesioni ulcerative tipicamente
circondate da un alone giallastro di natura lipidica, determinato dall’ostruzione al deflusso linfatico
caratteristica di questa patologia.
L’occlusione linfatica è determinata dal fatto che i macrofagi carichi di microorganismi si accumulano a
livello di lamina propria e nei linfonodi mesenterici, quindi anche la diarrea caratteristica è determinata da
tale ostruzione.
La sintomatologia tipica comprende diarrea e febbre, ma
possono anche esserci sintomi atipici extra-intestinali,
come affezioni articolari, polmonari o neurologiche,
determinati dalla diffusione del batterio nell’organismo.

Diagnosi

Per la diagnosi è possibile ricorrere a diverse tecniche


diagnostiche:
- RM → evidenzia un ispessimento della parete intestinale
- TC → evidenzia l’ingrossamento dei linfonodi mesenterici o retroperitoneali
- Endoscopia con o senza videocapsula → la videocapsula evidenzia ispessimento della mucosa,
placche bianco-giallastre, eritemi, elevata fragilità della mucosa.
L’endoscopia tradizionale permette anche di eseguire una biopsia mirata delle lesioni.
- PCR → usata nei casi dubbi

Istologia
Rappresenta il gold standard diagnostico e mostra: villi allargati ed appiattiti, neutrofili e linfociti,
indicativi di infiammazione, e macrofagi schiumosi, quindi con citoplasma chiaro; in alcuni casi possono
essere presenti granulomi, che entrano in diagnosi differenziale con sarcoidosi, tubercolosi, granulomatosi
cronica, ecc.
Nelle malattie infettive l’infiltrato infiammatorio è tipicamente linfoplasmacellulare nelle forme virali e
linfoplasmacellulare con eosinofili nelle forme batteriche; in questo caso si ha un infiltrato
linfoplasmacellulare e granulocitario con un infiltrato macrofagico caratteristico ed evidenziabile con
colorazione PAS (acido periodico di Shiff): i macrofagi sono PAS+ e PAS-post-diatasi+ (la diatasi è un enzima

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che idrolizza il glicogeno, pertanto quando le cellule rimangono
positive dopo il trattamento con diatasi vuol dire che il contenuto
al loro interno non è glicogeno e ne va indagata la natura). I
macrofagi presentano anche raccolte intracitoplasmatiche fucsia
date dalla presenza di lisosomi infarciti di batteri.

Terapia

Il trattamento prevede una lunga terapia antibiotica, che può


durare anche un anno; le forme con interessamento encefalico
presentano prognosi peggiore dal momento che i farmaci faticano
a penetrare la barrire ematoencefalica.

IBD

La malattia infiammatoria cronica, IBD, è una condizione cronica


dovuta all’inappropriata attivazione immunitaria della mucosa;
le due principali IBD sono la malattia di Crohn e la rettocolite
ulcerosa.
RCU e Crohn sono due patologie idiopatiche, ovvero ad eziologia
indeterminata, accumunate da alcuni fattori:
- Familiarità
- Incidenza (circa 5/100.000)
- Caratteristiche istologiche talora simili
- Tre picchi di insorgenza (adolescenziale, adulta e anziana)
- Aumento dell’incidenza negli ultimi anni
Le IBD sono difficili da diagnosticare perché entrano in diagnosi
differenziale con malattie infettive, sarcoidosi, vasculiti dei piccoli
vasi, malattia di Bechet, diverticoliti, ecc.

Localizzazione

Il morbo di Crohn può interessare qualsiasi segmento del tratto digerente, dalla bocca all’ano, anche in
maniera discontinua; la sede più interessata (50% dei casi) è però l’ileo terminale.
La flogosi nel Crohn coinvolge tutto lo spessore della parete dell’organo.

La rettocolite ulcerosa invece parte sempre dal retto e può estendersi, in modo continuo, fino alla valvola
ileocecale; talvolta vi può essere un interessamento anche della mucosa ileale, che però è determinato
dalla progressiva incontinenza della valvola e dal conseguente reflusso di materiale cecale (back-wash
ileitis). Solo in età pediatrica vi possono essere dei casi di RCU in cui il retto non è coinvolto.
L’RCU può quindi essere classificata sulla base dell’estensione: proctite, proctosigmoidite, colite distale,
colite estensiva, pancolite e back-wash ileitis.
In questo caso l’infiammazione è limitata a mucosa e sottomucosa.

Fattori genetici

HLA-DR2 è frequente nei pazienti con RCU, mentre HLA-DR5 e DQ1 correlano più frequentemente con il
morbo di Crohn. L’incidenza delle IBD aumenta nei pazienti con parenti di primo grado affetti.

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Fattori ambientali

Fattori di rischio per la RCU sono lo stress e le infezioni, batteriche o virali, mentre il fumo sembra un
fattore protettivo, a differenza di quanto avviene nel Crohn.
Per quanto riguarda il MC fattori favorenti sembrano essere le infezioni da Pseudomonas o batteri atipici,
sostanze conservanti nei cibi e l’aumento dell’attività dei T-soppressori sensibilizzati.

Malattie associate

Le IBD, soprattutto la RCU, possono associarsi ad altre patologie autoimmuni, come uveiti, eritema nodoso,
tiroiditi e diabete.

Sintomi

La rettocolite ulcerosa è caratterizzata da diarrea muco-ematica, dovuta all’infiltrato infiammatorio che


determina danno all’epitelio e alle strutture ghiandolari determinando: mancato assorbimento di acqua,
secrezione mucoide dovute al coinvolgimento delle cellule caliciformi mucipare ed erosione dei vasi.
Alcuni pazienti presentano uno o due episodi diarroici al giorno, situazione abbastanza tollerabile, mentre
altri possono arrivare a 20 episodi/die con conseguente disidratazione e acidosi.
Nelle forme subcroniche la patologia si può manifestare con anemia, astenia, dolore, febbre, aumento
della calprotectina fecale, segno di danno epiteliale, e aumento degli ANCA sierici.
Le manifestazioni extraintestinali comuni nella rettocolite ulcerosa si sovrappongono a quelle della malattia
di Crohn e comprendono poliartrite migrante, sacroileite, spondilite anchilosante, uveite, lesioni cutanee,
pericolangite e CSP. All'incirca dal 2,5 al 7,5%degli individui affetti da rettocolite ulcerosa soffre anche di
colangite sclerosante primaria.
La RCU è una patologia cronica che alterna periodi di remissione e periodi di riacutizzazione; in assenza di
complicanze la terapia è medica e si basa su modulatori del sistema immunitario, come cortisone,
mesalazina e farmaci biologici.

Il morbo di Crohn può presentarsi con febbre e dolore, localizzato in fossa iliaca destra e talvolta può
essere scambiato per una appendicite acuta.
In individui affetti da patologia del colon può svilupparsi anemia sideropenica, mentre un esteso
coinvolgimento del tenue può portare a protodispersione, ipoalbuminemia e malassorbimento.
Sono comuni le stenosi cicatriziali, soprattutto nell’ileo terminale, e richiedono l’intervento chirurgico; oltre
alle stenosi possono verificarsi fistole, ascessi e perforazioni.
Nei pazienti con MC il primo episodio clinico può essere una fistola peri-anale intrattabile e se essa insorge
in un giovane in associazione ad un aumento degli ASCA (anti saccharomyces cerevisiae), della VES e della
PCR.

Aspetto macroscopico

La RCU interessa in modo continuo la mucosa, la quale presenta aspetti emorragici con pseudo-polipi,
espressione della rigenerazione conseguente al danno epiteliale. La parete può essere normale o
assottigliata.

Il MC presenta un interessamento focale o multi-focale e la mucosa presenta ulcere penetranti aftoidi che
le conferiscono il tipico aspetto ad acciottolato. La parete è solitamente ispessita e spesso è coinvolto
anche il grasso periviscerale. Nei casi gravi il grasso mesenterico può estendersi fino alla sierosa (grasso
rampicante).

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Diagnosi

La diagnosi di IBD si basa su test di laboratorio, radiografia, endoscopia e biopsia.


Gli esami di laboratorio possono evidenziare anemia, riduzione delle emazie, aumento della PCR e della VES,
piastrinosi e aumento della calprotectina fecale. La calprotectina fecale correla con l’infiammazione
istologica ed è in grado di prevenire le recidive ed indicare la presenza di pouchiti.
Tramite endoscopia è possibile rilevare:
- Consistenza rigida e poco mobile del viscere nel MC dovuta al fatto che l’infiammazione interessa
tutto lo spessore della parete, soprattutto la tonaca muscolare e il grasso periviscerale
- Ulcerazioni, quasi sempre continue, e foci di rigenerazione che si presentano sottoforma di pseudo-
polipi nella RCU

È molto importante la diagnosi differenziale con:


- Coliti autolimitantesi, che presentano caratteristiche simili alla RCU
- Coliti acute da CMV, farmaci, ischemiche, Clamidia e attiniche, che possono presentare diarrea
muco-sanguinolenta
- Giardiasi, infezioni da micobatteri atipici, infezioni da Shigella, tubercolosi intestinale e appendicite
per quanto riguarda il MC

Aspetto microscopico

Nella rettocolite ulcerosa si ha un infiltrato infiammatorio misto, costituito da linfociti e granulociti, che
aggredisce le cripte, determinando la formazione di ascessi criptici. Inoltre, si hanno deplezione mucipara
dovuta al coinvolgimento delle ghiandole, ulcere superficiali, perdita di muscolaris mucosae, duplicazione
delle cripte e pseudopolipi infiammatori.
Una piccola porzione alla base delle cripte persiste dopo l’evento acuto e va incontro a proliferazione: dopo
l’evento acuto si ha proliferazione delle ghiandole, ma non si ottiene una
completa restitutio ad integrum, ma rimangono regioni di mucosa atrofica e
assottigliata, visibili all’endoscopia.
Le ghiandole rigenerate non formano una struttura a dente di pettine, presente
nel tessuto sano, ma formano strutture ramificate, processo denominato effetto
branching.
Insieme al branching, un altro effetto indicativo della fase di remissione della
malattia, è la formazione del gap tra il fondo della ghiandola e la muscolaris
mucosae.

Nella fase attiva dell’RCU si possono quindi evidenziare ascessi criptici, ovvero
ghiandole ripiene di granulociti neutrofili (immagine a lato).
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La rigenerazione origina dalla porzione di mucosa ancora
sana e ha la caratteristica di essere esuberante e dar vita
a delle protrusioni della mucosa, dovute in parte alla
proliferazione e in parte all’effetto sottrattivo
dell’ulcerazione adiacente. Non si ha mai restitutio ad
integrum.

Negli pseudopolipi si osservano cellule con


nuclei grandi, a causa dell’aumento del
turnover cellulare e delle mitosi; questo
aumento del turnover cellulare spesso si
protrae nel tempo e rende i pazienti più
suscettibili allo sviluppo di displasia.
(immagine a lato).

Nella fase di remissione dell’RCU la mucosa


appare atrofica e assottigliata, risulta
difficile distinguere la muscolaris mucosae
e si vedono le ramificazioni ghiandolari
(branching) con uno spazio vuoto (gap) tra
il fondo della ghiandola e la muscolaris
mucosae.

Nel morbo di Crohn si ha l’aggregazione dell’infiltrato infiammatorio in strutture follicolari e sono presenti
granulomi non caseificanti con o senza cellule giganti (se presente la necrosi caseosa la diagnosi di Crohn
viene esclusa). Altri aspetti rilevanti sono: presenta di eosinofili, aggressione delle cripte minima, infiltrato
del plesso nervoso mioenterico e metaplasia di Paneth, espressione di rigenerazione, nella quale l’epitelio
intestinale assume la forma delle ghiandole gastriche antrali.
A differenza della RCU, nel morbo di Crohn si può avere una completa remissione della mucosa.

Nel morbo di Crohn si osservano quindi ulcere penetranti e un ispessimento della parete, mentre
microscopicamente si ha un infiltrato follicolare che coinvolge tutto lo spessore della parete del viscere,
fino al grasso perivescicale.
Alla base della mucosa e in prossimità della muscolaris mucosae si possono ritrovare dei granulomi non
necrotizzanti, alcuni dei quali presentano cellule giganti.

I processi riparativi nel MC portano la mucosa ad assumere un aspetto simile a quello della mucosa dell’ileo
terminale o assumere la forma di ghiandole gastriche antrali.

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Patogenesi – Robbins

Sebbene le cause non siano ancora state definite, molti ricercatori ritengono che le IBD siano dovute ad
effetti combinati di alterazioni dell’interazione tra l’ospite e l’ambiente microbico intestinale, disfunzione
dell’epitelio intestinale, risposte immunitarie mucosali aberranti e variazioni della composizione del
microbiota intestinale.
L’aumentata incidenza in parenti di pazienti affetti e il tasso di concordanza tra gemelli monozigoti
suggerisce un ruolo della predisposizione genetica. Molti dei geni che hanno un ruolo nella patogenesi delle
IBD sono geni implicati nella risposta ai patogeni intracellulari: questo conferma l’ipotesi secondo cui una
componente importante nello sviluppo della patologie è rappresentata dalle reazioni immunitarie
inadeguate nei confronti dei batteri luminali.
Un ruolo è giocato anche dai difetti epiteliali, in particolare dalla riduzione della funzione di barriera e delle
giunzioni serrate dell’epitelio intestinale.
Il ruolo del microbiota è sottolineato da studi su modelli animali nei quali il trasferimento di microorganismi
ha indotto o ridotto la malattia; inoltre, trial clinici suggeriscono che batteri probiotici o trapianti di
microorganismi fecali da individui sani possano arrecare beneficio.

Complicanze – Dispensa

La RCU può portare ad emorragie massive, megacolon tossico e perforazione intestinale.


Il MC può invece portare a stenosi e occlusioni, fistole, ascessi, perforazioni e malassorbimento.
Vi sono anche delle complicanze neoplastiche: nell’RCU si hanno la DALM, displasia da lesione associata a
massa, e il carcinoma colo-rettale, mentre nel Crohn si hanno i linfomi intestinali e il carcinoma
colorettale.
Il rischio di displasia è maggiore se il paziente presenta, oltre alla RCU, anche la CSP e pertanto in questi casi
si procede con un follow-up endoscopico che parte precocemente rispetto ai pazienti senza CSP.
Il rischio di trasformazione displastica e neoplastica è tanto più precocemente insorge l’IBD e tanto più
lunga è la durata.
Le aree di displasia si presentano endoscopicamente come aree rilevate, vellutate micropapillari, o come
aree di mucosa assottigliata; microscopicamente invece si osservano solitamente delle micropapille con
asse vasculo-stromale e epitelio francamente displastico, ma possono essere identificate anche ghiandole
prive di globet cells, con nuclei stratificati, presenza di figure mitotiche e aspetto back to back.
Nelle displasie di basso grado si hanno alterazioni citologiche nella porzione superficiale della cripta con
nuclei ipercromati e presenza di più nucleoli.

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Nelle displasie di alto grado si perde la struttura ghiandolare e le ghiandole assumono l’aspetto back to
back
Nei pazienti con RCU possono comparire anche adenomi sporadici, che risultano difficili da distinguere dagli
pseudo-polipi rigenerativi, e carcinoma a cellule ad anello con castone

Terapia – Dispensa

Nella RCU si usano steroidi, mesalazina, immunosoppressori, biologici e talvolta è necessario ricorrere alla
colectomia totale con ileo-ano J pouch.
Nel MC si usano steroidi, immunosoppressori, inibitori del TNF (infliximab), ma talvolta è necessario
ricorrere a resezioni intestinali e stritturoplastiche.

MEGACOLON TOSSICO – Dispensa

È una delle complicanze acute della RCU, presente nel 46% dei casi, ed è una condizione drammatica,
associata a shock acidosico metabolico e difficilmente maneggiabile chirurgicamente dal momento che le
anse intestinali risultano estremamente friabili. Il danno infiammatorio è mediato principalmente dai
neutrofili e spesso si ha anche la contrazione dei capillari pre-arteriorali e post-venulari con conseguente
stasi ematica, depauperamento degli scambi gassosi e acidosi d’organo: si ha una ischemia acuta che
istologicamente si presenta con poche ghiandole e un denso infiltrato infiammatorio rappresentato da
linfociti, neutrofili ed eosinofili. Può associarsi anche a febbre, ipotensione e tachicardia, a causa del rilascio
di citochine nel circolo sistemico.

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POLIPI E NEOPLASIE DEL COLON
Con il termine polipo si indica qualsiasi rilevatezza che compare sulla mucosa; i polipi possono interessare
distretti, alcuni rappresentano lesioni pre-neoplastiche, mentre altri rappresentano delle alterazioni
maturative delle componenti epiteliali.
Quasi tutti i polipi iniziano come piccoli rilievi della mucosa e sono definiti sessili, ovvero privi di peduncolo,
man mano che le dimensioni aumentano si può avere la combinazione di diversi processi, tra cui la
proliferazione delle cellule adiacenti alla massa e la trazione sulla protrusione luminale, e la formazione del
peduncolo, pertanto si parla di polipi peduncolati.

POLIPI INFIAMMATORI

Nonostante si presentino come protrusioni della mucosa non rappresentano delle vere e proprie lesioni
polipoidi, pertanto sono definiti pseudo-polipi. Si tratta di lesioni proliferanti della mucosa caratterizzate
da un disordine correlato ad uno stato infiammatorio e alla rigenerazione delle ghiandole.
Si riscontrano frequentemente nelle IBD o in prossimità di anastomosi o lesioni ulcerative, come
espressione di un tentativo di ri-epitelizzazione.
Tramite endoscopia sono facilmente riconoscibili, si presentano come estroflessioni di dimensioni
contenute con induito fibrinoso biancastro in superficie, e solitamente non si procede con la biopsia, a
meno che non vi sia un quadro di IBD che lo richiede. L’endoscopia può essere facilitata anche dalla
cromoendoscopia, che evidenzia un aspetto a pit pattern; inoltre, la mucosa vicina è solitamente atrofica o
assottigliata.
Istologicamente si osserva una componente ghiandolare scarsa e normale, talvolta con ghiandole
iperplastiche, ma non displastiche; si ha un importante infiltrato infiammatorio con neutrofili ed eosinofili
e le strutture vascolari sono più o meno evidenti.

Un esempio di lesione infiammatoria è l’ulcera solitaria del retto, dovuta ad un deficit di rilasciamento dello
sfintere anorettale con conseguente formazione di un angolo acuto sulla parete anteriore del retto e
ricorrenti abrasioni e ulcerazioni della mucosa rettale sovrastante.

POLIPI AMARTOMATOSI

Sono detti anche polipi giovanili, dal momento che sono frequentemente riscontrati in età pediatrica, ma
possono essere presenti anche negli adulti.
Hanno dimensioni variabili, tra 1 mm e 5 cm, e possono comparire anche nell’intestino tenue; a livello
intestinale, in caso di polipo di dimensioni importanti, si può avere una sub-occlusione e può essere
necessario rimuoverli chirurgicamente.
Con il termine amartoma si indica una proliferazione e una distribuzione irregolare dei normali
costituenti della mucosa: si parla di polipo amartomatoso quando si osservano queste caratteristiche, in
assenza di aspetti displastici, infatti, i polipi amartomatosi non hanno significato pre-canceroso.
Istologicamente si osservano:
- Discreta componente infiammatoria

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- Ghiandole iperplastiche e spesso destrutturate, con ectasie cistiche ghiandolari
Le ghiandole coliche perdono l’aspetto a dente di pettine e assumono un aspetto iperplastico
festonato; sono separate da uno stroma vascolo connettivale che conferisce loro un aspetto
lobulato. Spesso si trova mucosa all’interno delle ghiandole.
- Muscolaris mucosae che risale nell’ambito della mucosa
- Possono essere presenti ulcerazioni in superficie, che determinano sanguinamenti e presenza di
sangue occulto fecale
L’aspetto
macroscopico non è
tipico e possono
essere facilmente
scambiati con polipi
adenomatosi.

I polipi amartomatosi si verificano sporadicamente o nell’ambito di varie sindromi acquisite o determinate


geneticamente; si è visto che il loro sviluppo è dovuto a mutazione della linea germinale di geni
oncosoppressori o oncogeni. Alcune di queste sindromi sono associate ad un maggior rischio di sviluppare
una neoplasia.

Poliposi giovanile

I polipi giovanili sono malformazioni focali di epitelio mucoso e lamina propria, possono essere sopradici o
sindromi e si manifestano tipicamente in bambini con meno di 5 anni. Le forme sporadiche presentano in
genere lesioni isolate, mentre pazienti con poliposi giovanile possono presentare dai 3 ai 100 polipi
amartomatosi, anche a livello di stomaco e intestino tenue. La poliposi giovanile è caratterizzata anche da
malformazioni aterovense polmonari.
Nella maggior parte dei casi i polipi hanno un diametro inferiore a 3 cm e si presentano come lesioni
rossastre peduncolate con superficie liscia e caratteristici spazi cistici, visibili una volta sezionate. L’esame
microscopico mostra che gli spazi cistici sono ghiandole dilatate e ripiene di mucina e detriti infiammatori.
Questa sindrome sembra legata a mutazione di geni che regolano la crescita cellulare ed è associata ad un
aumentato rischio di sviluppare adenocarcinoma del colon.

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Sindrome di Peutz-Jeghers

Si tratta di una sindrome a trasmissione autosomica dominante che si


presenta intorno agli 11 anni circa con polipi amartomatosi multipli e
iperpigmentazione mucocutanea; quest’ultima caratteristica si presenta
come macule blu scure o marroni intorno alla bocca, agli occhi, alle narici,
nella mucosa orale, nei palmi delle mani, intorno ai genitali e nella mucosa
perianale. Questa sindrome è associata ad un aumentato rischio di
sviluppare neoplasie del colon, del pancreas, della mammella, del polmone,
dell’ovaio, dell’utero e dei testicoli. In circa il 50% dei pazienti affetti è
presente la mutazione di STK11, chinasi che regola la polarizzazione e funge
da freno per la crescita e l’anabolismo.
I polipi in questo caso sono particolarmente presenti nel tenue, ma possono
formarsi anche nel colon e più raramente nella vescica e nei polmoni; si
tratta di polipi peduncolati di grandi dimensioni e lobulati. Istologicamente
è evidente una trama arborescente di tessuto connettivo, muscolo liscio e
lamina propria e ghiandole rivestite da epitelio intestinale normale.
Sindrome di Cowden e sindrome di Bannayan-Ruvalcaba-Riley

Si tratta di poliposi artomatose a trasmissione autosomico dominante legate alla mutazione con perdita di
funzione di PTEN, che fisiologicamente inibisce la segnalazione della via PI3K-AKT.
La sindrome di Cowden è caratterizzata da macrocefalia, polipo amartomatosi intestinali e tumori benigni
cutanei, inoltre, gli individui affetti presentano un maggiori rischio di sviluppare tumore della mammella,
tumore della tiroide e carcinoma dell’endometrio.
Nella sindrome di BRR si hanno ritardi mentali e dello sviluppo.

Sindrome di Cronkhite-Canada

È una sindrome non ereditaria che si manifesta solitamente dopo i 50 anni di età; i sintomi clinici sono
aspecifici e comprendono diarrea, calo ponderale, dolori addominali e debolezza. I polipi sono presenti nello
stomaco, nel tenue e nel colon e sono istologicamente indistinguibili da quelli giovanili, tuttavia, la mucosa
interposta non polipoide mostra anche dilatazione delle cripte cistiche ed edema e infiammazione della
lamina propria. Tra le anomalie associatevi sono atrofia e rottura delle unghie, perdita dei capelli e aree di
iperpigmentazione e ipopigmentazione cutanea.

POLIPI SERRATI

I polipi serrati possono essere distinti in:


- Iperplastici, i più frequenti, privi di significato precanceroso
- Sessili, possono presentare o meno displasia
- Adenomatosi, neoplastici: la mancata rimozione corrisponde all’evoluzione in adenocarcinoma
- Non classificabili

Polipi iperplastici – HP

Rappresentano il 75% dei polipi serrati e si localizzano tipicamente a livello di retto e sigma; pur non
avendo di per sé significato pre-canceroso, spesso si associano a polipi adenomatosi o possono indicare la
presenza di un adenocarcinoma del colon.
Possono essere singoli o multipli e si manifestano come escrescenze mucose di piccole dimensioni, 2-5
mm, facilmente riconoscibili all’endoscopia.

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Generalmente non presentano atipia citologica o
anomalie morfologiche e mostrano nella parte
superiore delle cripte con aspetto serrato o dentato (a
dente di sega). Alla base delle cripte si osserva un
aumento della proliferazione: le cellule prodotte
risalgono e ingolfano la ghiandola, quindi l’aspetto
serrato è espressione dell’intensa proliferazione. Il
sovraffollamento cellulare sembra anche legato ad un
ritardo dell’esfoliazione superficiale.

Polipi sessili con e senza displasia – SSA/P

Le lesioni sessili sono lesioni scarsamente protrudenti più frequenti nel colon destro e spesso ricoperti di
muco; hanno dimensioni di circa 10 mm e possono risultare difficili da vedere all’endoscopia se non si ha un
buon livello di toilette intestinale. Dal momento che presentano un elevato rischio di sviluppare displasia,
queste lesioni vanno rimosse.
Istologicamente sono caratterizzate da cripte dilatate e ramificate, soprattutto nelle porzioni basali, dove
la ghiandola tende a modificarsi.
La distorsione della cripta può essere:
- A T rovesciata, con allargamento simmetrico da entrambi i lati
- A L, con aspetto “a stivale”

Se durante l’endoscopia si identifica un polipo sessile non si esegue la biopsia, ma si procede


direttamente con la resezione, questo perché la biopsia può risultare fuorviante e non diagnostica: tramite
biopsia si preleva solo la porzione superficiale della lesione, pertanto si perdono gli aspetti diagnostici
caratteristici, quali l’orientamento delle ghiandole e lo slargamento delle cripte, e potrebbe erroneamente
essere posta la diagnosi di polipo iperplastico.
Circa il 20% dei carcinomi del colon prossimale originano da polipi serrati, mentre la formazione di
carcinomi del colon sinistro a partire da lesioni serrate è molto minore.
Le lesioni sessili con displasie presentano l’inattivazione di MLH1 (con conseguente deficit del mismatch
repair) e l’instabilità dei micro-satelliti, modificazioni che determinano un potenziale di trasformazione in
senso carcinomatoso.
La displasia si caratterizza per la comparsa di alterazioni citologiche: aumentata proliferazione, nuclei
vescicolosi con nucleolo evidente, citoplasmi compatti, mitosi. Si distinguono:
- Displasia adenomatosa classica
- Displasia di tipo serrato, caratterizzata da affollamento ghiandolare, elementi con citoplasmi molto
eosinofili e nuclei con nucleolo evidente. Questa forma di displasia non viene gradata, a causa della
scarsa riproducibilità inter-patologo.

Adenoma serrato tradizionale – TSA

Sono lesioni piuttosto rare, solitamente protrudenti e localizzate nel colon sinistro, più comuni nel sesso
femminile. Hanno un forte significato pre-canceroso: si tratta di polipi displastici che possono facilmente
96
evolvere in adenocarcinoma, infatti, nel 25% dei casi è presente displasia di alto grado e nell’8% carcinoma
intramucoso.
L’endoscopista valuta attentamente le caratteristiche della mucosa, servendosi anche del pit pattern,
ovvero di una classificazione delle lesioni polipoidi basata sullo sbocco delle ghiandole a livello di mucosa: è
possibile stimare presenza e gravità della displasia sulla base delle dimensioni e della morfologia dello
sbocco delle cripte sulla superficie del colon.
Istologicamente si presentano villiformi, con ghiandole serrate, cellule alte, nuclei allungati e abbondante
citoplasma eosinofilo.
Queste lesioni presentano solitamente la mutazione di K-RAS, piuttosto che di BRAF come le altre lesioni
serrate, pertanto possono essere considerate forme miste tra un profilo serrato tradizionale e un profilo
adenomatoso.

Polipi serrati non classificabili

Lesioni serrate che presentano caratteristiche comuni tra le categorie sopra-citate o lesioni in cui la
classificazione è impedita da difficoltà tecniche legate alla raccolta e alla conservazione del materiale.

SINDROME DELLA POLIPOSI IPERPLASTICA

Si parla di sindrome della poliposi iperplastica quando tramite endoscopia si riscontra uno dei seguenti
scenari:
- Almeno 5 polipi iperplastici prossimalmente al sigma, due dei quali con dimensioni > 10 mm
- Qualsiasi numero di polipi iperplastici, prossimalmente al sigma, in un soggetto con familiarità di
primo grado per la poliposi iperplastica
- Presenza di più di 30 polipi di qualsiasi dimensione distribuiti in tutti i settori del colon
La poliposi iperplastica può essere classificata in:
- Tipo 1 → > 5 polipi di tipo sessile-serrato, > 1 cm, localizzati prevalentemente nel colon prossimale,
coesistenti con adenomi serrati tradizionali, polipi misti e adenomi convenzionali. Associata ad un
rischio significativo di trasformazione cancerosa
- Tipo 2 → caratterizzata da molti polipi (> 30), piccoli, distribuiti in tutto il colon, con associazione
significativamente più debole con il carcinoma colon-rettale

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ADENOMI O POLIPI ADENOMATOSI

Gli adenomi sono lesioni pre-neoplastiche che originano dall’epitelio ghiandolare e si distinguono per la
presenza di displasia; visto il rischio di sviluppare adenocarcinoma invasivo, vanno rimossi.
Dal punto di vista macroscopico gli adenomi possono essere classificati in:
- Adenomi tubulari → costituiti da componente mucosa che non forma le espansioni villose
- Adenomi tubulo-villosi → costituiti da una componente ghiandolare tubulare e una componente
villosa; per essere definito tale un polipo deve presentare il 20% almeno di ciascuna componente
- Adenomi villosi → l’80% dei tumore è costituito da espansioni digitiformi o foliacee di lamina
propria, rivestite da epitelio displastico; si tratta di una formazione ampia, ma poco visibile.
Man mano che aumentano le dimensioni del polipo aumenta la componente villosa e tale considerazione,
insieme al pit pattern, permette all’endoscopista di stimare il rischio di displasia di alto grado e quindi di
progressione in adenocarcinoma. Il potenziale evolutivo di un polipo adenomatoso è correlato alle
dimensioni, all’architettura villosa e alla displasia.
Macroscopicamente gli adenomi possono essere classificati secondo la classificazione di Parigi:
- Adenomi protrudenti → sono ben visibili sulla
superficie mucosa e possono essere:
o Peduncolati
o Semi-peduncolati
o Sessili
- Adenomi non protrudenti → sono più difficili da
individuare, soprattutto in assenza di una buona
toilette intestinale; si distinguono tre forme:
o Rilevate
o Piatte
o Lievemente depresse
I polipi protrudenti sono facilmente rimovibili, mentre quelli
non protrudenti richiedono la resezione della sottomucosa o morcellamento.
Va tenuto presente che fino a che non infiltra e non supera la
muscolaris mucosae la neoplasie è incapace di dare metastasi.

La displasia è una caratteristica intrinseca dell’adenoma e può


essere di alto o basso grado.
Per definire il grado di displasia è necessario considerare sia
l’aspetto strutturale, quindi come le ghiandole si rapportano
tra loro e con lo stroma, sia l’aspetto citologico, ovvero le
atipie cellulari.
Nella forme con displasia di basso grado si osserva una
proliferazione ghiandolare, ma le ghiandole mantengono
inizialmente il rapporto con lo stroma e presentano poche
atipie cellulare; nelle displasie di alto grado le ghiandole si
fondono tra loro e il rapporto nucleo-citoplasma risulta
alterato e si osserva anche la stratificazione dei nuclei.
Le caratteristiche della displasia sono quindi: ipercromasia,
allungamento e stratificazione nucleare, riduzione delle cellule
caliciformi.

Adenomi cancerizzati

In un polipo adenomatoso del colon se il carcinoma è limitato


alla tonaca mucosa non ha potenziale metastatico e viene
considerato al pari di una displasia di alto grado.

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Nel momento in cui la componente adenocarcinomatosa supera la muscolaris mucosae la neoplasia
acquisisce la capacità di metastatizzare e viene classificata come adenoma cancerizzato (pT1).
In un adenoma con displasia di alto grado, ovvero un adenocarcinoma intra-mucoso, la rimozione del
polipo risulta curativa, mentre in un polipo cancerizzato questo non è sempre vero, dal momento che la
neoplasia entra in contatto con vasi ematici e linfatici e può dare metastasi.
Nel momento in cui l’endoscopista identifica un polipo ne valuta le caratteristiche macroscopiche e il pit
pattern, per poi rimuoverlo e mandarlo al patologo, che stabilirà il grado di displasia e la stadiazione.

Nell’immagine a sinistra si osserva un adenoma


villoso di circa 2 cm, con peduncolo corto e
laghi di muco al suo interno: si tratta di
adenocarcinoma mucoso che infiltra il
peduncolo e arriva alla muscolare (pT2);
nell’immagine a destra si osserva un adenoma
con elementi displastici e elementi ghiandolari
nella sottomucosa, che però non raggiungono
la muscolare (pT1).

Sul reperto istologico si esegue poi la micro-stadiazione per definire il rischio di metastasi.
La micro-stadiazione di Haggitt per gli adenomi peduncolati identifica 5 livelli:
- Livello 0: adenocarcinoma in situ o intramucoso, displasia di alto grado
- Livello 1: infiltrazione della parte superiore del peduncolo
- Livello 2: infiltrazione di almeno 2/3 del peduncolo
- Livello 3: infiltrazione di tutto il peduncolo
- Livello 4: infiltrazione della sottomucosa
Al livello 0 non si ha rischio di metastasi, a livello 1 tale rischio è dell’1% e aumenta nei livelli successivi.
In caso di polipi sessili o polipi piatti non protrudenti il rischio è maggiore, dal momento che vengono
meno i primi livelli e si parte direttamente dal livello 3.

L’adenoma cancerizzato può quindi essere distinto in:


• Adenoma cancerizzato a basso rischio
Si tratta di un adenoma di basso livello secondo Haggit, in cui la neoplasia interessa la massimo la
parte media del peduncolo; si tratta di una neoplasia infiltrante, ma ben differenziata (G1, G2),
senza invasione vascolare, ematica o linfatica. Il margine si infiltrazione è a più di 1 mm dalla
resezione (R0).
Il trattamento viene scelto tenendo in considerazione il rischio di metastasi e il rischio operatorio
del paziente (età, comorbidità, ecc.).

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• Adenoma cancerizzato ad alto rischio
Corrisponde al livello 3 o 4 secondo Haggitt, con un rischio di metastasi del 15%; talvolta si può
avere trombosi neoplastica vascolare. È scarsamente differenziato (G3)

L’infiltrazione può essere di due tipi:


- Pushing – espansivo
- Budding – infiltrativo → indica un fenomeno di
gemmazione, ovvero la comparsa di gruppi di
cloni neoplastici, in numero inferiore a 5, nello
stroma lungo il margine di avanzamento
tumorale; rappresenta un fattore prognostico
negativo. Un adenocarcinoma cancerizzato di
alto grado presenta 10 o più focolai di budding.
Il budding può essere evidenziato, oltre che con
ematossilina-eosina, anche tramite immuno-
staging con citocheratina.
Anche l’angioinvasione può essere evidenziata tramite
immunoistochimica, grazie al marcatore endoteliale
CD31.

Vie morfo-genetiche

Le possibili vie morfo-genetiche che facilitano l’insorgenza


del cancro del colon sono:
- Via di KRAS (più frequente)
o BRAF + MLH-1 → pathway serrato
o BRAF + MAPK → adenoma villoso
- Via di Wnt e β-catenina → poliposi adenomatosa
familiare gastrocolica
- Instabilità dei microsatelliti → sindrome di Linch,
in cui il cancro del colon è ereditario e non
poliposico
Un paziente con lesioni serrate o displastiche adenomatose entra nel follow up dello screening e viene
chiamato a ricontrollo dopo 2 anni o, in caso di singoli polipi piccoli adenomatosi con toilette intestinale
perfetta, dopo 5 anni.

Micro-stadiazione di Kiluchi

Si usa per i polipi sessili e non protrudenti e si basa sull’infiltrazione della sottomucosa, che viene
concettualmente divisa in tre livelli:

Anche in questo caso vanno poi considerati grado di differenziazione, budding, linfangite neoplastica,
infiltrazione vascolare e distanza tra il punto di infiltrazione massima e il margine delle resezione. Uno
studio in Giappone ha definito una resezione endoscopica terapeutica se la distanza tra infiltrazione e
margine di resezione è almeno 1 mm.

100
Pit pattern

Definisce l’aspetto dello bocco delle cripte


ghiandolari sulla superficie del polipo e permette
di definire il grado di displasia; si hanno 5 livelli (i
primi due sono benigni, gli altri tre maligni).

SINDROME ADENOMATOSA FAMILIARE – FAP –


Robbins

Si tratta di una sindrome a trasmissione


autosomica dominante in cui i pazienti sviluppano
numerosi adenomi colorettali in età
adolescenziale. È causata da mutazioni del gene
APC, regolatore della via di segnalazione di Wnt. Il
75% dei casi è ereditario, mentre la restante parte
è dovuto a mutazioni ex novo.
Per fare diagnosi di FAP sono necessari almeno
100 adenomi, ma possono essercene anche alcune
migliaia; gli adenomi presenti nella FAP sono
morfologicamente indistinguibili da quelli
sporadici e sono presenti anche micro-adenomi, formati da solo una o due cripte displastiche.
Nei pazienti affetti da FAP e non trattati l’adenocarcinoma colorettale si sviluppa nel 100% dei casi,
pertanto essi vengono trattati con colectomia profilattica. La colectomia però non azzera il rischio di
sviluppare una neoplasia, infatti, possono svilupparsi adenocarcinomi a carico di altri distretti del tratto
gastro-intestinale.
Oltre ai polipi intestinali, i membri di famiglie colpite dalla sindrome di Gardner, variante della FAP, hanno
osteomi mandibolari, cranici e nelle ossa lunghe, cisti epidermiche, tumori desmoidi, tumori della tiroide e
anomalie della dentatura. I pazienti affetti da sindrome di Turcot, variante della FAP, presentano anche
tumori del SNC.

SINDROME NON POLIPOSICA DEL CARCINOMA COLORETTALE EREDITARIO – HNPCC – Robbins

I pazienti affetti da sindrome di Lynch, o HNPCC, sviluppano tumori del colon in età giovanile, localizzati
soprattutto nel colon destro; inoltre, nelle famiglie affette si ha anche una maggior incidenza di tumori a
endometrio, stomaco, ovaie, ureteri, cervello, intestino tenue, vie epatobiliari e cute.
Questa sindrome è dovuta a mutazioni ereditarie di geni responsabili della riparazione degli errori che si
verificano durante la replicazione del DNA, in particolare dei geni MSH2 e MLH1.

CANCRO COLORETTALE

L’adenocarcinoma del colon è la più comune neoplasia maligna del tratto gastro-intestinale ed è una
importante causa di mortalità e morbilità in tutto il mondo. L’incidenza è massima nel Nord America ed è
elevata anche in Europa, soprattutto dopo i 60 anni di età.
La mucosa colica ha un profilo citocheratinico CK7- e CK20+ e tale profilo è mantenuto nella progressione
neoplastica, permettendo quindi di identificare l’origine neoplastica nei processi metastatici; un altro
marker di origine colica è rappresentato da CDX2, espresso a livello nucleare, la cui espressione si riduce
nelle forme poco differenziate.

101
Nel 60-65% dei casi l’adenocarcinoma del colon è sporadico, nel 25% dei casi si presenta in pazienti con
storia familiare di neoplasia colorettale e nel 5% dei casi è associato a quadri di sindromi ereditarie, come
FAP e sindrome di Lynch.
I fattori alimentari associati ad una maggiore incidenza di tumore colorettale sono la ridotta assunzione di
fibre vegetali e l’elevata assunzione di carboidrati raffinati e grassi: il ridotto apporto di fibre determina
una riduzione della massa fecale e una alterazione del microbiota intestinale, con aumento della produzione
di prodotti ossidati potenzialmente tossici, mentre l’aumentata assunzione di grassi incrementa la sintesi di
colesterolo e acidi biliari, convertibili dai batteri intestinali in sostanze cancerogene.
Molti carcinomi colorettali e molti adenomi sovra-esprimono la COX2, necessaria per la produzione di
prostaglandine che promuovono la proliferazione epiteliale, pertanto pare che i FANS abbiano un effetto
protettivo nei confronti di queste neoplasie.
In circa il 10% dei pazienti, il cancro colorettale rappresenta una complicanza tardiva di altre patologie, in
particolare le IIBD.

Il processo di degenerazione neoplastica può richiedere fino a 10 anni e attraversa diverse fasi:
1. Epitelio normale
2. Adenoma
3. Displasia
4. Tumore precoce
5. Tumore tardivo
La combinazione di eventi molecolari che portano
all’adenocarcinoma del colon è varia e comprende
anomalie genetiche ed epigenetiche. Possono esservi
più vie:
- Via di APC → con la perdita di funzione del
gene APC la β-catenina trasloca a livello nucleare e avvia la trascrizione di geni che promuovono la
proliferazione cellulare. Si accumulano poi altre mutazioni, tra cui quella di KRAS, che promuovono
la sopravvivenza ed inibiscono l’apoptosi. Viene meno anche la funzione di diversi geni
oncosoppressori, come SMAD2 e SMAD4 (coinvolti nella via di segnalazione di TGFβ) e p53. Questa
via segue la sequenza classica adenoma-carcinoma.
- Instabilità dei microsatelliti → i pazienti con deficit del mismatch repair del DNA presentano
instabilità dei microsatelliti, alcuni dei quali si trovano nelle sequenze codificanti o promotrici dei
geni coinvolti nella regolazione della crescita cellulare.
Un sottotipo di neoplasie con instabilità dei microsatelliti non presenta mutazioni, ma
ipermetilazione del promotore di MLH1, con conseguente riduzione della sua espressione.
Tramite screening, eseguito ricercando il sangue occulto fecale o tramite endoscopia, è possibile identificare
e rimuovere i polipi pre-neoplastici.

In linea generale, gli adenocarcinomi sono distribuiti abbastanza equamente lungo tutta la lunghezza del
colon. I tumori del colon prossimale tendono ad accrescersi come masse polipoidi esofitiche che si
estendono lungo una parete del cieco e del colon ascendente; raramente questi tumori causano occlusioni.
Al contrario, i carcinomi del colon distale tendono a essere lesioni a crescita circonferenziale anulare e
producono stenosi e restringimento luminale, a volte fino all’occlusione.
La sintomatologia solitamente comprende astenia e debolezza, dovute ad anemia sideropenica, ma anche
alterazioni dell’alvo e dolori addominali.
Macroscopicamente il carcinoma colorettale può manifestarsi in forme: ulcero-rilevate, rilevate, ulcerate.
Talvolta la neoplasia è associata a molteplici lesioni polipoidi, definite come polipi sentinella.
La maggior parte dei tumori è costituita da alte cellule cilindriche somiglianti all’epitelio displastico
presente negli adenomi. La componente invasiva di queste neoplasie stimola una forte risposta
desmoplastica stromale responsabile della loro caratteristica consistenza dura.

102
I principali fattori prognostici sono:
- Grado di differenziazione e stadiazione patologica
- Invasione linfo-vascolare
- Margine di resezione
- Metastasi linfonodali
- Budding tumorale
- Eventuali mutazioni di KRAS e BRAF

Tra i tipi istologici di cancro del colon-retto si ritrovano:


- Adenocarcinoma (più frequente)
- Adenocarcinoma mucinoso (la componente mucinosa costituisce
più del 50% della massa neoplastica)
- Carcinomi con componenti a cellule ad anello con castone
- Carcinoma midollare
- Carcinoma micropapillare
- Adenocarcinoma serrato
- Carcinoma adenosquamoso
Il grado di differenziazione, G1-3, viene valutato in
base all’identità delle strutture ghiandolari
rinvenibili nel preparato: più sono evidenti le
strutture ghiandolari, maggiormente differenziata
è la neoplasia, mentre se le ghiandole sono solo
abbozzate e poco differenziate si va verso una
forma solida.
Nel G1 le ghiandole sono disordinate ma
riconoscibili, man mano che si perde la
differenziazione le ghiandole tendono ad
“impacchettarsi” le une sulle altre e nel G3 la
componente ghiandolare è minimamente
rappresentata.

ADENOCARCINOMA MUCINOSO – Dispensa

L’istotipo mucinoso è definito se la massa di mucina prodotta è maggiore del 50% della massa totale del
tumore. La componente mucinosa, che solitamente si localizza verso il fronte invasivo, può essere o meno
provvista di una componente cellulare all’interno.

CARCINOMA MIDOLLARE

È tipicamente associato a mutazione di MLH-1, insorge nel colon destro, risulta morfologicamente poco
differenziato e può raggiungere dimensioni notevoli. Può presentarsi come sporadico o in associazione alla
sindrome di Lynch. Si tratta di un tumore solido, privo della componente ghiandolare, con un marcato
infiltrato infiammatorio linfocitario.
È importante distinguerlo dall’adenocarcinoma scarsamente differenziato, poiché presentano
caratteristiche differenti:
- La prognosi dell’adenocarcinoma scarsamente differenziato è sfavorevole, con rischio di
progressione metastatica nei primi 5 anni dalla resezione, mentre il carcinoma midollare presenta
una prognosi favorevole in seguito a debulking

103
- Il carcinoma midollare è negativo per
l’immunoistochimica di MLH-1, mentre
l’adenocarcinoma scarsamente
differenziato è positivo
- Il carcinoma midollare è negativo per il
marcatore CDX2, mentre
l’adenocarcinoma poco differenziato
generalmente ne mantiene l’espressione
- Il carcinoma midollare è uno dei pochi
tumori che esprime la calretinina,
negativa nell’adenocarcinoma
scarsamente differenziato
La diagnosi certa di carcinoma midollare si ha se
l’immunoistochimica a MLH-1 è negativa e quella
alla calretinina positiva.

CARCINOMA MICROPAPILLARE – Dispensa

Si presenta con piccole papille prive di asse vasculo-stromale circondate da aloni otticamente vuoti. È per
definizione un tumore G3, aggressivo ed infiltrante sia i vasi ematici che linfatici.

ADENOCARCINOMA SERRATO – Dispensa

È caratterizzato da ghiandole che assumono un aspetto festonato, simile a quello dei polipi serrati, e
presentano una prognosi peggiore rispetto all’adenocarcinoma tradizionale.

CARCINOMA ADENOSQUAMOSO –
Dispensa

È presente una componente di


adenocarcinoma associata ad una
componente squamosa; la componente
ghiandolare è semplice da riconoscere,
mentre la presenza della componente
squamosa è confermata tramite
immunoistochimica, tramite la ricerca di
p63.

STADIAZIONE DEL CANCRO DEL COLON-RETTO – Dispensa

Lo staging di Duke definisce 4 stadi:


a. Bowel wall
b. Invasione transparietale senza il coinvolgimento della superficie della sierosa peritoneale
c. Coinvolgimento linfonodale
d. Invasione locale estesa o metastasi epatiche

104
La stadiazione AJCC si basa invece sul sistema TNM:
- Tis: displasia in situ o carcinoma intramucoso
- T1: tumore precoce, con invasione della sottomucosa
- T2: invasione, senza attraversamento, della muscolaris propria
- T3: attraversamento della muscolaris propria e invasione della sottosierosa
a. Invasione < 0,1 cm oltre la tonaca muscolare propria
b. Invasione 0,1-0,5 cm
c. Invasione 0,5-1,5 cm
d. Invasione > 1,5 cm
- T4: invasione del peritoneo viscerale (T4a) e/o di organi e strutture limitrofe (T4b)

- N0: assenza di metastasi nodali


- N1: da 1 a 3 linfonodi pericolici o perirettali coinvolti
a. Metastasi ad un linfonodo
b. Metastasi a 2-3 linfonodi
c. Coinvolgimento di sottosierosa, mesentere o tessuti perirettali/pericolici in assenza di
metastasi linfonodali
- N2: coinvolgimento di più di 4 linfonodi (N2a: 4-6 linfonodi; N2b: più di 7 linfonodi)
- N3: coinvolte tutte le strutture nodali nel decorso dei tronchi vascolari o in posizioni atipiche

- M0: assenza di metastasi


- M1: presenza di metastasi
È importante valutare anche il profilo mutazione della neoplasia, anche per indirizzare il trattamento:
- Se è presente la mutazione di KRAS non è indicato il trattamento con anticorpi monoclonali diretti
contro EGFR, mentre se non si ha la mutazione si può procedere con Cetuximab o Panitumumab
- Se BRAF è mutato la prognosi è sfavorevole
- Se si ha mutazione di HER2 si può procedere con trattamenti specifici, come Trastuzumab
- Se si ha instabilità dei microsatelliti può essere utile la terapia adiuvante con 5-fluoro-uracile

NEOPLASIE NEURO-ENDOCRINE DEL TRATTO GASTRO-ENTERICO – Dispensa (Robbins)

TUMORI CARCINOIDI

I tumori carcinoidi si sviluppano dalle componenti diffuse del sistema neuro-endocrino e sono
correttamente definiti tumori neuroendocrini ben differenziati.
La maggior parte insorge nel tratto gastro-intestinale e il 40% interessa l’intestino tenue; a seguire i siti più
colpiti sono l’albero tracheobronchiale e i polmoni. I carcinoidi gastrici possono essere associati a iperplasia
delle cellule endocrine, gastrite atrofica cronica autoimmune, MEN-1 e sindrome di Zollinger-Ellison.
Il picco di incidenza si ha dopo la sesta decade di vita e i sintomi associati sono legati agli ormoni prodotti;
la sindrome da carcinoide interessa il 10% dei pazienti affetti ed è correlata alla produzione di sostanze
vasoattive: sintomi tipici sono vampate cutanee, sudorazione, broncospasmo, dolore addominale con
coliche, diarrea e fibrosi della valvola cardiaca destra. Quando i tumori sono confinati nell’intestino le
sostanze rilasciate vengono metabolizzate dal fegato, ma ciò non avviene in caso di alto carico tumorale,
neoplasie che secernono nel circolo venoso non portale e malattia metastatica del fegato (altamente
associata alla sindrome da carcinoide).
Macroscopicamente i carcinoidi si presentano come masse intramurali o sottomucose che creano piccole
lesioni polipoidi; la mucosa sovrastante può essere integra o ulcerata. I carcinoidi hanno una consistenza
molto solida a causa della intensa reazione desmoplastica che li caratterizza e possono provocare
strozzature o occlusioni intestinali.

105
Dal punto di vista istologico, i carcinoidi sono costituiti da isole, trabecole, nastri, ghiandole o aree di
cellule uniformi, con un citoplasma scarso, eosinofilo e granulare, e un nucleo punteggiato rotondo od
ovoidale. Nella maggior parte dei tumori vi è pleomorfismo minimo, mentre in rari casi possono essere
presenti anaplasia, attività mitotica e necrosi. La colorazione immunoistochimica è tipicamente positiva per
i marcatori granulari endocrini, quali sinaptofisina e cromogranina A.

Il fattore prognostico principale per i carcinoidi è la posizione:


- Quelli localizzati nell’apparato digerente prossimale, sopra il legamento di Treitz, metastatizzano
raramente e sono trattati per asportazione
- I carcinoidi che si sviluppano nel digiuno e nell’ileo sono solitamente multipli e aggressivi
- I carcinoidi che si sviluppano nell’appendice e nel colon-retto vengono in genere scoperti
casualmente

Sindrome di Zollinger-Ellison

È provocata dai tumori secernenti gastrina, tipici del tenue e del pancreas. I pazienti lamentano spesso
ulcere duodenali o diarrea cronica; a livello gastrico si osserva il raddoppio dello spessore della mucosa
ossintica, a causa dell’iperplasia e della proliferazione delle cellule della mucosa ossintica, in particolare le
cellule parietali, e in alcuni casi le cellule endocrine della mucosa ossintica possono formare piccoli noduli
displastici.
La terapia prevede la soppressione dell’ipersecrezione acida, tramite PPI, e asportazione del gastrinoma.
Nei pazienti con tumori multipli o non asportabili si può ricorrere alla terapia con somatostatina, che
inibisce la produzione di gastrina.

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APPENDICE – Dispensa (Robbins)
L’appendice è un diverticolo del cieco incline a infiammazioni acute e croniche.
L’appendicite acuta è comune soprattutto negli adolescenti e nei giovani adulti, con una lieve prevalenza
nel sesso maschile.
Nel 50-80% dei casi l’appendicite acuta è associata ad occlusione luminale, provocata da una massa fecale,
un calcolo biliare, un ammasso di vermi, ecc. La stasi del contenuto luminale favorisce la proliferazione
batterica, scatena l’ischemia e le risposte infiammatorie, con formazione di edema tissutale e infiltrazione
neutrofila nel lume, nella parete muscolare e nei tessuti molli peri-appendicolari.
La reazione infiammatoria trasforma la sierosa, normalmente liscia e lucente, in una membrana opaca e
granulare. La diagnosi di appendicite acuta necessita della presenza di infiltrazione neutrofila della tonaca
muscolare propria e nei casi più gravi è visibile una reazione fibropurulenta della sierosa.
Man mano che il processo va avanti possono formarsi ascessi (appendicite acuta purulenta), estese aree di
ulcerazione e necrosi gangrenosa (appendicite acuta gangrenosa), fino ad arrivare a rottura e peritonite
purulenta.
L’appendicite acuta solitamente si manifesta con dolore nel quadrante inferiore destro, nausea, vomito,
febbricola, segno di McBurney positivo; in caso di appendice retrociecale il dolore può essere pelvico o
localizzato al fianco destro.

Tumori dell’appendice

Il più comune tumore dell’appendice è il tumore neuroendocrino ben differenziato, ovvero il carcinoide,
spesso identificato accidentalmente in corso di interventi eseguiti per altra causa; questa neoplasia è quasi
sempre benigna e forma un massa di 2-3 cm all’apice distale dell’appendice, talvolta può esserci una
diffusione intramurale e transmurale, mentre le metastasi linfonodali o a distanza sono molto rare.
Nell’appendice possono svilupparsi anche adenocarcinomi, che non producono mucina, ma possono
determinare un’occlusione e simulare un’appendice acuta.
Il mucocele, un’appendice dilatata da accumulo intraluminale di mucina, può semplicemente rappresentare
un’appendice occlusa contenente mucina addensata, oppure essere la conseguenza di un cistoadenoma
mucinoso o di un cistoadenocarcinoma mucinoso; nell’ultimo caso si può avere disseminazione
intraperitoneale. Nella forma conclamata, si ha un infarcimento addominale di mucina addensata o
semisolida, una condizione detta pseudomixoma peritonei, che ha un decorso inesorabilmente fatale.

107
NEOPLASIE DEL CANALE ANALE – Dispensa
Lungo la linea pettinata si trova la giunzione ano-rettale, in cui l’epitelio colonnare del retto
progressivamente diviene epitelio squamoso stratificato, che riveste il canale anale.
Istologicamente si distinguono quindi:
- zona colon-rettale, con epitelio colonnare
- zona di transizione, corrispondente alla linea pettinata
- zona squamosa, epitelio squamoso non cheratinizzato

NEOPLASIE SQUAMOSE INTRAEPITELIALI

Il rapporto M:F è variabile in base alla sede, sopra o sotto la linea pettinata, così come l’età media di
presentazione; esistono poi differenze di incidenza legate all’etnia, all’area geografica di interesse,
all’orientamento sessuale e alle pratiche sessuali.
Le eziologie sono diverse, tra cui:
- HPV → l’infezione determina due fasi:
o Fase infiammatoria transitoria, con lesioni a basso rischio
o Infezione con trasformazione, con lesioni ad alto rischio la cui percentuale di progressione
in carcinoma invasivo è maggiore per i genotipi HPV 16 e 18
- Stadi di immunosoppressione cellulo-mediata → HIV, terapie immunosoppressive, trapiantati, ecc.
- Fumo
- Controverso è il ruolo di fistole, ascessi perianali ed emorroidi

Classificazione LAST (Low Anogenital Squamous Terminology) delle neoplasie squamose del canale anale

Tale classificazione suddivide le lesioni squamose intraepiteliali in:


- LgSIL /LSIL– low grade squamous intraepithelial lesion → displasia molto lieve, AIN 1, anal
intraepithelial neoplasia, o condiloma
- HgSIL/HSIL – high grade squamous intraepithelial lesion → estensione del processo displastico a
2/3 dell’epitelio (AIN 2) o ai 3/3 dell’epitelio (AIN 3) fino al carcinoma in situ e secondariamente al
carcinoma micro-invasivo

Condiloma acuminato

Nell’1% della popolazione sessualmente attiva si hanno lesioni HPV-correlate dette condilomi; i genotipi di
HPV maggiormente associati ai condilomi sono 6 e 11 e l’evoluzione del condiloma acuminato in neoplasia
invasiva è controversa. Si presentano come lesioni protrudenti o piane che si localizzano nella regione
anale e perianale. Quando protrudente, il condiloma si presenta come una proiezione dotata di asse
vascolo-stromale e rivestita da epitelio caratterizzato da:

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- Coilociti, ovvero cellule con infezione da HPV che si presentano con citoplasma ampio e chiaro e
nucleo ad aspetto a pop-corn
- Immaturità dell’epitelio di superficie e presenza di figure mitotiche negli strati basali, espressione
di displasia

Il trattamento dei condilomi può essere:


- Ablativo → crioterapia, escissione locale, terapia laser
- Citodistruttivo → podofillotossine e acido tricloroacetico
Recentemente, l’uso di immunomodulatori come Imiquimod ha mostrato avere un effetto antivirale e
antitumorale.

AIN – Anal Intraepithelial Neoplasia

Colpisce lo 0,2% della popolazione sessualmente


attiva, soprattutto le popolazioni omosessuali e HIV+.
Il rischio di progressione a carcinoma è del 2-5% e
aumenta in caso di infezione da HPV 16/18, mentre
l’infezione da HPV 6/11 correla con AIN 1.
È più frequente nel tratto anale superiore e nella zona
di transizione, ma può presentarsi anche nella zona
inferiore e nella cute perianale; può associarsi CIN e
VIN. Macroscopicamente si notano papule rossastre o
bianche.

Esiste uno screening citologico per la mucosa anale,


che viene eseguito ogni anno nei pazienti HIV+ e ogni
2/3 anni nei pazienti HIV-.
Nel momento in cui si ha un esame citologico sospetto o si rileva la presenza di LSIL o HSIL si effettua una
anoscopia ad alta risoluzione con biopsia:
- Anoscopia negativa → procedere con lo schema di screening precedente
- Anoscopia posistiva
o AIN 1 → follow-up ogni 6 mesi
o AIN 2 o AIN 3 → trattamento
Tramite anoscopia si cercano aree sospette: spennellando la mucosa con acido acetico le aree displastiche
appaiono aceto-bianche, mentre spennellando con iodio si colora di marrone la porzione sana mentre le
aree displastiche rimangono non colorate, a causa della mancanza di attività enzimatica di queste cellule.
Dal punto di vista istologico è necessario effettuare una seriazione e osservare più livelli, in modo da
individuare eventuali micro-invasioni.

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Le aree di micro-invasione appaiono paradossalmente con aree molto meglio differenziate e ciò e dovuto
al fatto che una volta superata la membrana basale le cellule neoplastiche entrano in contatto con
l’ambiente circonstante e con la matrice extracellulare,
dove sono presenti fattori di crescita e molecole di
adesione che ne inducono la differenziazione.

Nelle lesioni LSIL alla colorazione con ematossilina-


eosina prevale il rosa, quindi la componente
citoplasmatica, mentre nelle lesioni HSIL si ha un
rapporto nucleo/citoplasma a favore del nucleo e
prevale l’immaturità cellulare in tutto lo spessore
dell’epitelio.
La colorazione immunoistochimica con p16 aiuta a
differenziare LSIL da HSIL: LSIL presenta una colorazione
irregolare, mentre HSIL presenta una colorazione intensa
e diffusa sia del nucleo che del citoplasma.
P63 è invece un marcatore di differenziazione squamosa.

CARCINOMA SQUAMOSO ANALE

Le varianti istologiche del carcinoma squamoso anale comprendono: carcinoma squamoso del canale anale,
carcinoma squamoso del margine anale e carcinoma verrucoso.
Il carcinoma squamoso del canale anale, SCC, può colpire tutti i tratti del canale anale, dalla linea pettinata
al margine anale, e può essere:
- Cheratinizzante, con produzione di cheratina
- Non cheratinizzante, in cui non prevale la produzione di cheratina
- Basaloide, così chiamato perché istologicamente ricorda le cellule dello strato basale dell’epitelio
Il carcinoma squamoso ha eziologia multifattoriale:
- HPV 16, 18, 31, 33, 35
- Fumo
- Precedenti STD
- Rapporto anali
- Infiammazioni croniche

Il carcinoma verrucoso si associa solitamente con il condiloma acuminato


gigante ed interessa solitamente la regione marginale del canale anale o la
cute perianale. Ha un aspetto esofitico e protrude dal margine anale, ma la
prognosi è solitamente favorevole.
Istologicamente non si ha invasione del derma e la lesione tende ad
accrescersi in modo digitiforme verso l’esterno, mentre la modalità
d’invasione è l’infiltrazione pushing.

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Stadiazione TNM

- Tis: carcinoma in sito


- T1: carcinoma < 2cm
- T2: carcinoma di 2-5 cm
- T3: carcinoma > 5cm
- T4: carcinoma che invade gli organi adiacenti

- N0: nessuna metastasi ai linfonodi regionali


- N1: metastasi ai linfonodi perianali
o N1a: linfonodi inguinali, mesorettali ed iliaci interni
o N1b: linfonodi iliaci esterni
o N1c: linfonodi iliaci esterni e qualunque stadiazione di N1a
- N2: linfonodi iliaci interni o inguinali
- N3: linfonodi iliaci interni o inguinali bilaterali
N2 e N3 non sono riportati dalle linee guida 2020.

- M0: assenza di metastasi a distanza


- M1: presenza di metastasi a distanza

MALATTIA DI PAGET

Malattia in cui si ha la diffusione pagetoide di cellule


neoplastiche lungo l’epitelio: nell’ambito dell’epitelio
squamoso si vedono transitare elementi epiteliali diversi,
singoli o in piccoli cluster, con attività mitotica.
A livello anale la malattia di Paget può essere:
- Primitiva, quindi non associata a malattie
neoplastiche anali o rettali
- Secondaria, associata ad adenocarcinoma del retto o
dell’ano, a carcinoma della prostata, a carcinoma della
cervice uterina o a carcinoma dell’utero
La diagnosi non è immediata, perché spesso viene scambiata
per una lesione eczematosa; la biopsia è solitamente diagnostica ed evidenzia la presenza di grosse cellule
transitanti all’interno del normale epitelio squamoso.
La diagnosi differenziale è con il melanoma anale e la malattia di Bowen e può essere utile
l’immunoistochimica:
- Citocheratina 7 → presente nelle cellule epiteliali ghiandolari e nell’epitelio squamoso
- Citocheratina 20 → evidenzia delle forme secondarie derivanti da un tumore del colon
- Pax-8 → indica un’origine mulleriana, ovvero utero-ovarica
- PSA → indica origine prostatica
- BerEp4 → evidenzia le proteine di superficie citoplasmatiche correlate ad epiteli ghiandolari (e non
epiteli squamosi, escludendo la diagnosi di melanoma)
- S100, HMB-45 → melanoma maligno
- LCA → indica l’origine da un linfoma
- CDX2 → usato per differenziare tra adenocarcinoma colorettale e perianale

ADENOCARCINOMA

Si distinguono adenocarcinomi provenienti dal retto distale e adenocarcinomi primitivi delle ghiandole
perianali, questi ultimi sono rari, tipici dei maschi dopo i 70 anni, insorgono in profondità e presentano
poca mucina.

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Per distinguere tra le due tipologie si ricorre all’immunoistochimica e alla presentazione clinica:
• Adenocarcinoma rettale
o Si presenta con sanguinamento rettale e alterazioni dell’alvo
o Ha le caratteristiche istologiche dell’adenocarcinoma colorettale
o Immunoistochimica: CDX2+, CK20+ e CK7 con positività scattered
• Adenocarcinoma perianale
o Si presenta come una massa dolente e con mucorrea
o Istologicamente è un carcinoma mucinoso
o Spesso è correlato a fistole o malattia di Crohn
o Immunoistochimica: CDX2-, CK20-, CK7+

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ENTEROCOLITI – Dispensa (Robbins)
ENTEROCOLITI INFETTIVE

L’enterocolite infettiva può insorgere con un’ampia gamma di sintomi, tra cui diarrea, dolore addominale,
pressante impulso di evacuazione, fastidio perianale, incontinenza ed emorragia. Le enterocoliti infettive
sono responsabili di più di 12.000 morti al giorno tra i bambini dei paesi in via di sviluppo e della metà di
tutti i decessi prima dei 5 anni, su scala mondiale. Sono solitamente dovute ad infezioni batteriche, ma
l’agente eziologico principale varia in base alle influenze ambientali, all’età del paziente, all’alimentazione e
allo stato del sistema immunitario dell’ospite.

Colera

Il Vibrio Cholerae è un batterio Gram negativo responsabile del colera, malattia endemica in India e
Bangladesh, che ha visto epidemie anche in America, Australia ed Europa.
Il batterio si trasmette principalmente tramite acqua potabile contaminata, ma può anche essere presente
nel cibo, tanto che si registrano sporadici casi in America legati al consumo di frutti di mare (i crostacei
possono essere serbatoi).

Patogenesi
I batteri non sono invasivi e rimangono confinati nel lume intestinale, ma rilasciano la tossina colerica,
responsabile della malattia. Importanti sono anche le proteine flagellari, che consentono una efficace
colonizzazione batterica, e l’emoagglutinina, metalloproteinasi che permette il distacco del patogeno e la
sua liberazione con le feci.
La tossina colerica è costituita da 5 subunità B e una subunità A: la subunità B riconosce il ganglioside GM1
espresso sulla superficie delle cellule epiteliali intestinali e consente l’internalizzazione della tossina per
endocitosi; la subunità A è poi responsabile dell’attivazione della proteina G stimolatoria e quindi
dell’adenilato ciclasi. Si ha quindi l’aumento dei livelli di cAMP intracellulare e la conseguente attivazione
del canale CFTR, che rilascia ioni cloruro nel lume intestinale: ciò provoca la secrezione di bicarbonato,
sodio e acqua portando ad una forte diarrea.

Clinica
La maggior parte dei pazienti sviluppa forme lievi, mentre in caso di forme gravi la diarrea può raggiungere
il volume di 1 litro/ora portando a disidratazione, crampi muscolari, anuria, shock e morte. La maggior
parte dei decessi si verifica entro le prima 25 ore dalla comparsa dei sintomi. Le feci somigliano ad acqua di
riso e presentano spesso un odore di pesce. La terapia si basa essenzialmente sul reintegro dei liquidi, ma si
stanno sperimentando anche inibitori di CFTR; esiste un vaccino profilattico.
Le biopsie mostrano solo alterazioni minime.

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Enterocolite da Campylobacter

Campylobacter jejuni è il patogeno enterico più comune nei paesi sviluppati ed è una causa importante di
diarrea del viaggiatore. La maggior parte dei casi è legata all’ingestione di pollo poco cotto, ma l’infezione
può avvenire anche a causa dell’assunzione di latte non pastorizzato o acqua contaminata.

Patogenesi
Il batterio presenta flagelli che consentono la motilità, l’adesione, la colonizzazione e l’invasione della
mucosa; inoltre, produce citotossine responsabili di danno epiteliale e una tossina simile a quella colerica.
Quando i batteri proliferano nella lamina propria e nei linfonodi mesenterici si sviluppa la febbre enterica,
mentre se si ha invasione della mucosa si genera dissenteria, ovvero diarrea ematica, causata solo da una
minoranza dei ceppi.
Nei pazienti con HLA-B27 l’infezione può portare anche ad artrite reattiva; altre complicanze extra-
intestinali sono l’eritema nodoso e la sindrome di Guillain-Barrè, in quest’ultimo caso sembra coinvolto il
meccanismo del mimetismo molecolare, infatti, pare che gli anticorpi diretti contro il lipopolisaccaride del
batterio cross-reagiscano con i gangliosidi del sistema nervoso.

Morfologia e diagnosi
Si tratta di una batterio Gram negativo diagnostica soprattutto tramite coltura fecale. Infatti, la biopsia
risulta aspecifica e identifica una colite autolimitante con caratteristiche comuni a molte forme di colite
infettiva. Sono presenti infiltrati di neutrofili nell’epitelio e nella mucosa, talvolta anche nelle cripte
(criptite) con formazione di ascessi criptici.

Shigellosi

Shigella è un bacillo Gram negativo, anaerobio facoltativo e non mobile, della famiglia delle
Enterobacteriaceae e attualmente se ne conoscono 4 ceppi principali. È una della cause più comuni di
diarrea sanguinolenta e l’unico serbatoio è l’uomo, pertanto la trasmissione avviene per via oro-fecale o
tramite cibo e acqua contaminati. L’infezione interessa soprattutto i bambini, i viaggiatori nei paesi in via di
sviluppo e chi lavora o risiede nelle case di riposo.

Patogenesi
È un batterio resistente al pH acido dello stomaco, pertanto la dose infettante è bassa. Una volta raggiunto
l’intestino i batteri vengono assorbiti dalle cellule M, specializzate nel campionamento e nella

114
presentazione degli antigeni luminali, proliferano per via intracellulare e poi giungono nella lamina propria,
dove vengono fagocitati dai macrofagi, nei quali inducono l’apoptosi.
Il processo infiammatorio che ne deriva danneggia gli epiteli di superficie e consente a Shigella presente nel
lume intestinale di infettare facilmente altre cellule epiteliali; questi batteri sono in grado di iniettare
proteine batteriche nel citoplasma dell’ospite e S. Dysenteriae di tipo 1 è in grado di rilasciare la tossina
Shiga, che inibisce la sintesi proteica delle cellule.

Clinica e morfologia
Le infezioni da Shigella interessano soprattutto il colon sinistro e in misura minore l’ileo e si presentano con
mucosa emorragica e ulcerata, talvolta con pseudomembrane. A causa del tropismo per le cellule M
possono comparire ulcere aftoidi simili a quelle del morbo di Crohn, con cui talvolta l’enterocolite viene
confusa.
La patologia è autolimitante e caratterizzata da circa 6 giorni di diarrea, febbre e dolori addominali; in circa
il 50% dei pazienti la diarrea acquosa progredisce verso la dissenteria. La presentazione subacuta, meno
comune, può simulare una IBD.
Le complicanze includono la sindrome di Reiter (triade artrite, uretrite e congiuntivite) e la sindrome
uremico-emolitica (solo nei ceppi produttori di tossina Shiga).
La diagnosi si basa su coltura fecale.

Salmonella

La Salmonella, enterobacteriaceae Gram negativo, si divide in Salmonella typhi, responsabile della febbre
tidoide, e Salmonella enteridis, non tifoide. L’infezione è particolarmente comune nei bambini e negli
anziani e si trasmette tramite cibo contaminato, in particolare carne cruda o poco cotta, pollame, uova e
latte; sono disponibili vaccini sia per l’uomo che per gli animali da allevamento.

Patogenesi
Salmonella presenta geni di virulenza che codificano per il sistema secretorio di tipo III, in grado di iniettare
le proteine batteriche all’interno delle cellule M e degli enterociti. Le proteine iniettate attivano la GTPasi
Rho ed innescano la riorganizzazione dell’actina e la captazione batterica, consentendo la crescita dei
batteri nei flagosomi. I batteri inducono inoltre una importante risposta infiammatoria, dal momento che
attivano i Toll-Like Receptors e sono in grado di richiamare neutrofili, con conseguente danno alle mucose.

Clinica
I sintomi vanno da feci non formate, a diarrea profusa, a dissenteria; in genere l’infezione è autolimitante,
ma sono possibili casi fatali, soprattutto in pazienti immunodepressi, con neoplasie, con disfunzioni
cardiovascolari, etilisti, anemici, ecc.

Febbre tifoide
Nota anche come febbre enterica, è dovuta a Salmonella typhi e paratyphi ed è fortemente associata a
viaggi in paesi come India, Messico, Filippine, Pakistan, ecc. Esiste un vaccino contro S. typhi, ma non contro
S. paratyphi. L’uomo è l’unico serbatoio e l’infezione avviene per via oro-fecale, tramite cibo o acqua
contaminati.
S. typhi una volta assorbito dalle cellule M può propagarsi tramite i vasi linfatici ed ematici, portando ad
una iperplasia reattiva dei fagociti e dei tessuti linfoidi di tutto il corpo; la colonizzazione della colecisti può
portare a litiasi biliare o alla condizione di portatore cronico.
L’infezione determina l’allargamento delle placche di Peyer nell’ileo terminale, fino ad u diametro di 8 cm,
ingrossamento dei linfonodi mesenterici, accumulo di neutrofili nella lamina propria, ulcere ovali che
possono perforarsi e noduli tifoidi nel fegato, ovvero focolai di necrosi parenchimale nei quali gli epatociti
sono sostituiti da aggregati di macrofagi (possono svilupparsi anche nel midollo e nei linfonodi).
I pazienti lamentano anoressia, dolori addominali, meteorismo, nausea, vomito e diarrea ematica seguiti da
una breve fase asintomatica che precede batteriemia e febbre con sintomi simil-influenzali.

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La roseola tifosa, costituita da piccole lesioni maculopapulari eritematose, è visibile sul torace e
sull'addome. La disseminazione sistemica può̀ provocare complicanze extra intestinali, comprese
encefalopatia, meningite, convulsioni, endocardite, miocardite, polmonite e colecistite. I pazienti affetti da
anemia falciforme sono particolarmente suscettibili all'osteomielite da Salmonella.

Yersinia

Tre specie di Yersinia sono agenti patogeni umani: Yersinia enterocolitica, Yersinia pseudotubercolosis,
che causano malattia gastrointestinale e Yersinia pestisti, agente eziologico della peste bubbonica.
L’infezione è comune in Europa ed è causata dall’ingestione di carne di maiale, latte crudo e acqua
contaminata.

Patogenesi
Il batterio invade le cellule M e produce un sistema di captazione del ferro che ne aumenta la virulenza e ne
stimola la disseminazione sistemica, tanto che i pazienti con anemia emolitica o emocromatosi sono più a
rischio di sepsi e morte.

Morfologia e clinica
L’infezione interessa soprattutto ileo, appendice e colon destro; i microorganismi si moltiplicano a livello
extracellulare nel tessuto linfoide, causando una iperplasia dei linfonodi regionali e delle placche di Peyer e
un ispessimento della parete intestinale. La mucosa sovrastante il tessuto linfoide può diventare emorragia
con possibile sviluppo di ulcere aftoidi, insieme ad infiltrati di neutrofili e granulomi (possibile confusione
con morbo di Crohn).
Sintomi comuni sono: dolore addominale, febbre, diarrea, nausea, vomito; si possono avere anche
manifestazioni extraintestinali: faringite, artralgia, eritema nodoso e complicanze post infettive, come
miocardite, congiuntivite, uretrite e nefropatie.

E. Coli

Bacillo Gram negativo che normalmente colonizza il tratto gastro-intestinale sano e non è patogeno.
Alcuni sottogruppi causano invece malattie nell’uomo:
• E. Coli enterotossinogeno → è la principale causa di diarrea del viaggiatore e si diffonde attraverso
cibo o acqua contaminati. Produce tossine labili al calore, LT (aumenta il cAMP intracellulare), e
stabili al calore, ST (aumenta cGMP intracellulare), che inducono la secrezione di cloruro e acqua ed
inibiscono l’assorbimento dei liquidi intestinali.
• E. Coli enteropatogeno → aderisce alle membrane apicali degli enterociti e determina la perdita
locale dei microvilli
• E. Coli enteroemorragico → produce tossine Shiga-like (gli antibiotici non sono raccomandati
perché l’uccisione dei batteri può determinare un aumento della liberazione della tossina).
• E. Coli enteroinvasivo → non produce tossine, ma invade le cellule epiteliali determinando quadri
aspecifici di colite acuta autolimitante
• E. Coli entero-aggregativo → presenta un peculiare meccanismi di adesione alle cellule epiteliali: si
attacca all’enterocita tramite fimbrie adesive ed è supportato da dalla dispersina, proteina
batterica di superficie che neutralizza la carica superficiale negativa del LPS; produce tossine simili a
quelle di Shigella e di E. Coli enterotossinogeno

COLITE PSEUDOMEMBRANOSA

La colite pseudomembranosa è di solito causata da Clostridium difficile, ma nella forma associata agli
antibiotici (colite associata ad antibiotici) si sviluppa durante o al termine di un ciclo di antibiotici e può
essere dovuta a C. difficile, Salmonella, C. perfringens e Staphylococcus aureus; tuttavia solo il C. difficile dà
la forma pseudomembranosa.
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Patogenesi
Il turbamento della flora intestinale da parte degli antibiotici facilita la sovracrescita di C. difficile, così come
l’immunodepressione. Il patogeno rilascia tossine che determinano la ribosilazione di alcune GTPasi, come
la Rho, e di conseguenza la rottura del citoscheletro, la perdita delle giunzioni serrata, il rilascio di citochine
e l’apoptosi.

Morfologia
Si formano pseudomembrane costituite da uno strato
aderente di cellule infiammatorie e detriti sulle zone di
mucosa colica danneggiata; le pseudomembrane sono
aspecifiche e presenti anche in caso di ischemia e infezioni
necrotizzanti, mentre l’istopatologia è caratteristica. Si ha
un fitto infiltrato neutrofilo e talvolta capillari trombizzati
con fibrina; le cripte sono danneggiate in superficie e
dilatate da un essudato mucopurulento che debordando
genera delle protrusioni, simili ad un vulcano: tali essudati
confluendo costituiscono le pseudomembrane.

Clinica
L’organismo è particolarmente frequente in ospedale e gli
individui affetti da colite lamentano febbre, leucocitosi,
dolori addominali, crampi, ipoalbuminemia, diarrea
acquosa e disidratazione; talvolta sono presenti sangue
occulto fecale e leucociti fecali. La diagnosi avviene grazie
all’identificazione delle tossine e all’istopatologia
caratteristica; la terapia si basa solitamente su
metronidazolo a vancomici, ma vi sono ceppi antibiotico-
resistenti.

GASTROENTERITI VIRALI

Norovirus

È un virus a RNA responsabile di circa metà di tutte le epidemie di gastroenteriti a livello mondiale; nei
paesi in via di sviluppo causa circa 200.000 decessi infantili all’anno.
Le epidemie locali sono solitamente dovute all’ingestione di cibo o acqua contaminati, mentre la maggior
parte dei casi sporadici è dovuta a trasmissione interumana, tramite goccioline trasmesse per via aeree,
superficie e fomiti. Gli individui colpiti lamentano nausea, vomito, diarrea acquosa e dolori addominali.
Le anomalie sono più̀ evidenti nell'intestino tenue e comprendono lieve accorciamento dei villi,
vacuolizzazione epiteliale, perdita dell'orletto a spazzola dei microvilli, ipertrofia delle cripte e
infiltrazione della lamina propria da parte dei linfociti. La patologia è autolimitante nei soggetti
immunocompetenti, mentre nei pazienti immunocompromessi è un problema rilevante.

Rotavirus

È un virus a RNA ed è la principale causa di mortalità per diarrea al mondo; sono particolarmente a rischio i
bambini tra i 6 e i 24 mesi, infatti, prima dei 6 mesi vi sono gli anticorpi ereditari dalla madre tramite il latte
e dopo i 2 anni intervengono gli anticorpi generati in seguito alla prima infezione. È consigliato la
vaccinazione precoce.
Il rotavirus infetta e distrugge gli enterociti maturi del tenue, grazie ad una proteina in grado di indurne
l’apoptosi, e la superficie dei villi viene poi ripopolata da cellule secretorie immature, con perdita delle
funzioni assorbenti e secrezione netta di acqua ed elettroliti.

117
Adenovirus

I campioni bioptici del tenue possono mostrare degenerazione epiteliale, ma più spesso evidenziano
atrofia villosa aspecifica e iperplasia compensatoria delle cripte; le inclusioni virali nucleari sono rare.

ENTEROCOLITI PARASSITARIE

Ascaris lumbricoides

Si trasmette per contaminazione orofecale interumana: le larve si schiudono a livello intestinale, penetrano
nella mucosa intestinale e migrano dal circolo splancnico a quello sistemico, per poi arrivare a livello
polmonare, dove si accrescono all’interno degli alveoli. Dopo circa 3 settimane le larve vengono espulse
dagli alveoli tramite i colpi di tosse e vengono deglutite: nell’intestino maturano e diventano vermi adulti.
I conglomerati di vermi adulti inducono una reazione infiammatoria ricca di eosinofili, che può arrivare ad
occludere fisicamente l’intestino o le vie biliari; le larve possono poi determinare la formazione di ascessi
epatici e causare polmoniti. La diagnosi si basa sul riscontro delle uova nelle feci.

Strongyloides

Vivono nel terreno contaminato da feci e invadono l’organismo attraverso la cute integrano. Migrano
attraverso i polmoni, provocando infiltrati infiammatori, e arrivano nell’intestino, dove maturano e
penetrano nella mucosa. Questo parassita non presenta uno stadio obbligato fuori dall’ospite umano, a
differenza di altri vermi intestinali, pertanto si possono avere autoinfezioni ripetute.
Induce una forte reazione tissutale con concomitante eosinofilia periferica.

Necator duodenale e Ancylostoma duodenale

Le larve penetrano nella cute, si sviluppano nei polmoni e migrano verso la trachea, per poi essere ingerite.
Nel duodeno aderiscono alla mucosa, si nutrono di sangue e si riproducono, producendo erosioni
superficiali, emorragia, infiltrati infiammatori e anemia sideropenica.
118
Enterobius vermicularis

L’infezione avviene per via orofecale e l’intero ciclo vitale avviene nel lume intestinale. I vermi adulti vivono
nell’intestino e durante la notte migrano verso il canale anale, dove le femmine depongono le uova sulla
mucosa perirettale, determinando una intensa irritazione con prurito rettale e perianale (trasmissione
tramite le dita).

Schistosomiasi

I vermi adulti risiedono nelle vene mesenteriche; i sintomi intestinali sono provocati dall’intrappolamento
delle uova nella mucosa e nella sottomucosa e la reazione immunitaria che ne deriva è granulomatosa e
può portare ad emorragie ed occlusione.

Cestodi intestinali

Le tre specie principali di cestodi che colpiscono gli esseri umani sono Diphyllobothrium latum, tenia del
pesce; Taenia solium, tenia del maiale; e Hymenolepsis nana, tenia nana. Risiedono esclusivamente nel
lume intestinale e vengono trasmessi per ingestione di pesce, carne di manzo o maiale crudi o poco cotti
contenenti larve incistate. Il verme si nutre del cibo ingerito dall'ospite e si accresce formando proglottidi,
segmenti pieni di uova. Gli uomini sono infestati generalmente da un solo verme alla volta; di solito non si
ha eosinofilia periferica perché́ il verme non penetra nella mucosa intestinale. Tra i sintomi clinici vi sono
dolore addominale, diarrea e nausea, ma la maggior parte dei pazienti è asintomatica. Talvolta D. latum
causa deficit di vitamina B12 e anemia megaloblastica, in quanto con l’ospite compete per garantirsi
l’apporto di quest’ultima assunta con l’alimentazione.

Entamoeba histolytica

Protozoo che si trasmette per via orofecale e causa amebiasi. Le cisti di E. histolytica attraversano lo
stomaco senza danni grazie alla loro resistenza ai succhi gastrici. Le cisti colonizzano quindi la superficie
epiteliale del colon e rilasciano i trofozoiti, la forma ameboide. L’ameba provoca dissenteria quando,
aderendo all'epitelio del colon, causa apoptosi, invade le cripte e si annida lateralmente nella lamina
propria. In questo modo si attirano i neutrofili, si causa danno ai tessuti e si crea un’ulcera “a fiasco”, con
un collo stretto e un’ampia base. La diagnosi istologica può̀ essere difficile poiché́ le amebe hanno
dimensioni e aspetto simili ai macrofagi. I parassiti penetrano nei vasi splancnici e giungono al fegato,
creando ascessi in circa il 40% dei pazienti; dal fegato possono raggiungere anche polmoni, cuore e cervello.
Talvolta si possono sviluppare forme di colite acuta necrotizzante e megacolon.

Giardia lamblia

Si tratta dell’infezione parassitaria patogena più̀ comune negli esseri umani e si diffonde tramite acqua o
cibo contaminati da feci infette; sssendo le cisti resistenti al cloro, si può̀ contrarre Giardia dalle acque di
reti pubbliche non filtrate, ma l’infezione può̀ anche avvenire per via orofecale: essendo le cisti stabili
possono essere ingerite accidentalmente quando si nuota in acqua contaminata.
Le Giardia sono protozoi flagellati che causano una ridotta espressione degli enzimi dell’orletto a spazzola,
compresa la lattasi, danno microvilloso e apoptosi delle cellule epiteliali dell'intestino tenue. Giardia può̀
sfuggire alla clearance immunitaria attraverso la continua alterazione del principale antigene di superficie,
la proteina di superficie variabile, e può̀ persistere per mesi o anni causando sintomi intermittenti.
I trofozoiti di Giardia sono identificabili nelle biopsie duodenali per la loro caratteristica forma a pera con
due nuclei di uguale grandezza, ciascuno contenente una copia completa del genoma, ma non vi è
invasione e la morfologia intestinale può risultare normale al microscopio ottico; nei pazienti con infezioni
gravi si possono avere villi tozzi e un aumento dei linfociti intraepiteliali.

119
Cryptosporidium

Gli esseri umani vengono infettati da numerose specie diverse di Cryptosporidium, compreso C. hominis e
C. parvum. Sono tutte in grado di attraversare un intero ciclo vitale, con fasi riproduttive asessuate e
sessuate, in un singolo ospite. L'acqua potabile contaminata continua a essere il mezzo di trasmissione più̀
comune .L’oocita incistato ingerito è attivato dall'acido presente nello stomaco a produrre proteasi che
consentono il rilascio di sporozoiti dalle oocisti. Gli sporozoiti sono mobili e possiedono un organello
specializzato per l’adesione all'orletto a spazzola degli enterociti, dove inducono la polimerizzazione
dell’actina. Questo promuove l’estensione della membrana della cellula epiteliale per avvolgere il parassita
e formare un vacuolo all’interno dei microvilli. Il malassorbimento del sodio, la secrezione di cloruro e la
maggiore permeabilità̀ delle giunzioni serrate sono responsabili della diarrea acquosa e non ematica che ne
deriva.
Spesso l'istologia della mucosa subisce solo una lieve alterazione, ma nei bambini la criptosporidiosi
persistente è associata ad atrofia villosa. Una forte infezione in pazienti immunodepressi può̀ essere
associata ad atrofia villosa, iperplasia delle cripte e infiltrati infiammatori variabili. Nonostante lo sporozoite
sia intracellulare, al microscopio ottico risulta essere posizionato in cima alla membrana apicale epiteliale.

ENTEROCOLITE NECROTIZZANTE

L’enterocolite necrotizzante è più comune nei nati prematuri e la sua patogenesi è incerta, ma
probabilmente multifattoriale; nessun agente patogeno specifico è stato correlato alla patologia, ma
probabilmente gli agenti infettivi hanno un ruolo nella patogenesi.
Il fattore di attivazione delle piastrine (PAF), è implicato nell’aumento della permeabilità mucosa causando
apoptosi dell’enterocita e compromettendo la saldatura delle giunzioni intercellulari; la distruzione della
barriera mucosa consente la migrazione dei batteri, alimentando l’infiammazione e la necrosi della mucosa
e portando a sepsi e shock.
Il decorso clinico è abbastanza tipico, con l’inizio di perdite fecali ematiche, distensione addominale e
sviluppo di collasso circolatorio. Le radiografie addominali dimostrano spesso la presenza di gas nella
parete intestinale (pneumatosis intestinalis). Il segmento interessato è dilatato, friabile e congesto o può
essere effettivamente gangrenoso; si può inoltre osservare una perforazione intestinale accompagnata da
peritonite.
Microscopicamente, si possono osservare necrosi coagulativa mucosale o transmurale, ulcerazione,
colonizzazione batterica e bolle di gas sottomucoso. Poco dopo l’episodio acuto possono iniziare delle
modificazioni riparative, come la formazione di tessuto di granulazione e la fibrosi.
Questa patologia è associata ad una elevata mortalità perinatale e i pazienti che sopravvivono spesso
sviluppano stenosi post-enterocolitiche a causa della fibrosi.

120
MALATTIA ISCHEMICA INTESTINALE – Dispensa (Robbins)
La gran parte del tratto gastro-intestinale è alimentata dalle arterie celiaca, mesenterica superiore e
mesenterica inferiore; le interconnessioni tra queste arterie consentono all’intestino tenue e al colon di
tollerare una lenta perdita progressiva dell’apporto ematico da un’arteria, mentre una compromissione
acuta si un qualsiasi vaso principale può portare ad infarto intestinale. L’infarto può essere:
- Infarto mucoso, contenuto al di sopra della muscolaris mucosae
- Infarto intramurale, a carico di mucosa e sottomucosa
- Infarto transmurale, che coinvolge tutti gli strati della parete
Gli infarti mucosi e intramurali sono solitamente dovuti ad una ipoperfusione acuta o cronica, mentre
l’infarto transmurale è causato generalmente da una occlusione vascolare acuta.
Tra le principali cause di occlusione arteriosa acuta vi sono aterosclerosi grave, aneurisma dell’aorta,
condizioni di ipercoagulabilità, uso di contraccettivi orali e embolizzazione di vegetazioni cardiache;
l’ipoperfusione intestinale può anche essere associata a insufficienza cardiaca, shock, disidratazione,
farmaci vaso-costrittori, vasculiti, masse addominali comprimenti, infezione da CMV, dal momento che il
virus presenta uno spiccato tropismo per le cellule endoteliali dei vasi, radiazioni (in questo caso è comune
il riscontro di fibroblasti atipici, detti fibroblasti da radiazioni), ecc.

La risposta intestinale all’ischemia avviene in due fasi:


1. Danno ipossico → si verifica alla comparsa della compromissione vascolare; si possono verificare
danni, ma le cellule intestinali sono relativamente resistenti alla ipossia transitoria
2. Danno da riperfusione → inizia con il ripristino dell’apporto ematico ed è responsabile dei danni
maggiori; i meccanismi alla base dal danno da riperfusione implicano la produzione di radicali liberi,
l’infiltrazione di prodotti batterici nel circolo sistemico e l’infiltrazione di neutrofili, con ulteriore
rilascio di mediatori infiammatori
Le variabili della malattia intestinale ischemica sono la gravità della compromissione vascolare, la velocità di
insorgenza e i vasi coinvolti. I segmenti intestinale alla fine dei rispettivi apporti arteriosi sono
particolarmente suscettibili all’ischemia, tra questi segmenti di confine vi sono la flessura splenica, il colon
sigmoideo e il retto. Inoltre, l’epitelio di superficie risulta maggiormente sensibile al danno ischemico
rispetto alle cripte, questo perché i capillari intestinali corrono lungo le ghiandole, dalla cripta verso la
superficie, per poi effettuare una curva a gomito in superficie e finire nelle venule post-capillari; questa
particolare anatomia dei capillari intestinale serve a proteggere le cripte, contenti le cellule staminali
epiteliali, e fa si che spesso si abbia una atrofia o necrosi superficiale con cripte normali o
iperproliferative, quadro che rappresenta una morfologia tipica della malattia intestinale ischemica.

Le lesioni possono essere continue, ma solitamente sono segmentali o a chiazze. La mucosa appare
emorragica e può essere ulcerata; l’emorragia e la necrosi possono estendersi anche alla sottomucosa, ma
generalmente la sierosa non è coinvolta.
L’intestino infartuato appare congesto, brunastro o rosso porpora, e il confine con il tessuto sano è netto;
nel lume si accumula muco sanguinolento o sangue e la parte diviene edematosa ed ispessita. Entro 1-4

121
giorni, in caso di infarto transmurale, si ha la necrosi coagulativa della tonaca muscolare propria e può
avvenire la perforazione intestinale; può esservi anche una intensa seriosite.
L’esame microscopico evidenzia atrofia o sfaldamento delle cellule superficiali, mentre le cripte possono
risultare iperproliferative, inoltre, vengono richiamati neutrofili. Nelle fasi acute la sovra-infezione batterica
e il rilascio di enterotossine possono portare alla formazione di pseudo-membrane.
L’ischemia cronica si accompagna a cicatrizzazione fibrosa, che può portare a stenosi.
La malattia ischemica intestinale interessa soprattutto soggetti con più di 70 anni e fattori di rischio e
insorge con crampi improvvisi, dolore, stimolo a defecare, proctorragia o diarrea ematica, ileo paralitico;
nei casi più gravi si può avere collasso cardiocircolatorio in poche ore. L’intervento chirurgico è necessario
nel 10% dei casi.

122
MALATTIE DEL PANCREAS

MALATTIE DEL PANCREAS ESOCRINO

PANCREATITE ACUTA

La pancreatite acuta è una infiammazione acuta del pancreas associata solitamente a danno delle cellule
acinari. Colpisce circa 10-20 persone su 100.000 e si manifesta con dolore addominale grave ed
improvviso, che si irradia dall’epigastrio al dorso, e addome acuto.
Si tratta di una condizione di emergenza poiché se non trattato il paziente può andare incontro a shock da
CID e sindrome da distress respiratorio.
Sia macroscopicamente che microscopicamente si ha infiammazione e necrosi enzimatica del parenchima
pancreatico e dei tessuti circostanti, dovuta al rilascio di enzimi pancreatici che digeriscono i tessuti con cui
vengono in contatto e si ritrovano anche nel sangue e nelle urine.

Eziopatogenesi

L’eziologia della pancreatite acuta è varia:


- Fattori metabolici → l’etilismo cronico determina aumenta la contrazione dello sfintere di Oddi,
determinando una ostruzione, porta alla secrezione di un secreto pancreatico ricco di proteine, che
tendono a precipitare, e causa danni da stress ossidativo, alterando i livelli di calcio. Un’altra causa
di pancreatite acuta è l’iperlipoproteinemia.
- Fattori meccanici → l’ostruzione può essere sia macroscopica, per incuneamento di calcoli
nell’albero biliare, sia microscopica, dovuta al deposito di micro-precipitati proteici, tipici degli
etilisti. Altre cause di pancreatite sono i traumi addominali chiusi e le lesioni iatrogene da interventi
chirurgici o ERCP.
- Fattori infettivi → infezioni da parotite e Coxsackievirus
- Farmaci → esempi ne sono furosemide, azatioprina, estrogeni, ecc. ma molto spesso il meccanismo
patogenetico è sconosciuto
- Cause vascolari → ateroembolismi, vasculiti e shock
- Fattori genetici → alterazioni genetiche ereditarie che portano ad un’amentata o prolungata
azione della tripsina, come alterazioni di PRSS1 che rendono la tripsina resistente all’auto-
inattivazione, alterazioni di SPINK1, inibitore della tripsina, e alterazioni di CFTR. Queste mutazioni
ereditarie portano ad attacchi ripetuti di pancreatite acuta e predispongono allo sviluppo di
pancreatite cronica e tumori pancreatici.
Questi fattori portano al ristagno degli enzimi pancreatici, con conseguente attivazione a livello del
parenchima pancreatico, condizione dovuta alla ostruzione duttale, o ad un danno diretto alle cellule acinari
o ancora ad un alterato trasporto intracellulare dei pro-enzimi.
Tutto ciò porta alla precoce attivazione del tripsinogeno a tripsina, con conseguente:
- Attivazione di lipasi e fosfolipasi, che determinano steatonecrosi, sia macroscopica che
microscopica
- Attivazione di protesi ed elastasi, che digeriscono le pareti dei vasi (pancreatite acuta
necroticoemorragica)
- Attivazione della coagulazione e del complemento, tramite la pre-callicreina, con conseguente CID
e shock

Alterazioni morfologiche

Il normale parenchima pancreatico presenta una architettura lobulare grigio-rosata.


In corso di pancreatite acuta si verificano:
- Distruzione del tessuto pancreatico, a causa dell’azione degli enzimi digestivi.

123
La guarigione è problematica e spesso esita nella formazione di pseudo-cisti, cavità prive di
riepitilizzazione che possono infettarsi, ascessi e fistole, che riversano il contenuto pancreatico a
livello cutaneo o nei tessuti limitrofi.
- Infiltrati infiammatori acuti
- Steatonecrosi, a causa delle lipasi.
Gli acidi grassi liberi si legano al calcio portando a saponificazione, che fa assumere un aspetto
giallo-biancastro al tessuto necrotico, e ipocalcemia.
- Necrosi dei vasi, con conseguente emorragia, che conferisce un aspetto rosso-nerastro al
parenchima danneggiato

La pancreatite può avere diversi gradi di gravità:


- Pancreatite lieve → si ha una pancreatite acuta interstiziale con lieve infiammazione, edema
interstiziale e aree focali di steatonecrosi.
- Pancreatite acuta necrotizzante → si hanno estese aree necrotiche ed emorragiche, con numerosi
neutrofili
- Pancreatite acuta emorragica → è la forma più grave e si caratterizza per la presenza di estesa
necrosi parenchimale con emorragia diffusa

Diagnosi e terapia

Laboratoristicamente si rilevano: leucocitosi, aumento dell’amilasi sierica (nelle prime 24 ore), aumento
delle lipasi (dopo 72-96 ore), glicosuria (nel 10% dei casi) e ipocalcemia, a causa della steatonecrosi.
La TC permette di visualizzare il pancreas.
La terapia si basa su sospensione della alimentazione, infusione di liquidi per via endovenosa e analgesici.

PANCREATITE CRONICA

La pancreatite cronica è caratterizzata dal ripetersi di episodi infiammatori di grado lieve-moderato che
portano alla progressiva distruzione del parenchima pancreatico e alla sua sostituzione con tessuto
fibroso.
Colpisce soprattutto gli uomini di mezza età e clinicamente presenta un decorso variabile, talvolta
asintomatico, talvolta associato a dolori addominali. Oltre a dolore cronico severo, può portare anche a
insufficienze esocrine ed endocrine e malassorbimento; la mortalità a 20 anni è del 50%.
Nella maggior parte dei casi risulta diffusa a tutto il parenchima pancreatico, ma in alcuni pazienti è
localizzata ed entra in diagnosi differenziale con i tumori pancreatici.

Eziopatogenesi

Nel 50% dei casi non si riesce a definire la causa, ma possibili eziologie sono:
- Etilismo
- Danni autoimmuni, tipicamente associati ad plasmacellule producenti IgG4
- Pancreatiti ereditarie

124
- Ipersecrezione proteica da parte delle cellule acinari, con tendenza alla formazione di un secreto
denso con precipitati proteici che possono portare a concrezioni calcifiche e micro-ostruzione.
Le calcificazioni nei dotti sono infatti spesso visibili alla TC o all’ecografia.

Morfologia

Si ha sostituzione fibrosa del parenchima, con aree focali di steatonecrosi a diversi stadi di cicatrizzazione
e infiammazione cronica; si possono avere anche aree di calcificazione.
Si ha quindi un aspetto atrofico e fibrotico, con aree bluastre che rappresentano il parenchima funzionante
rimasto; spesso questi pazienti presentano un dotto di Wirsung dilatato ex-vacuo, per atrofia del
parenchima circostante.

Nelle immagini in basso osserviamo:


- Colorazione tricromica di Masson che evidenzia in blu il tessuto fibroso
- Sclerosi intralobulare ed infiammazione cronica
- Atrofia e sostituzione fibrosa degli acini. Da ricordare che nella pancreatite, essendo una patologia
del pancreas esocrino, le isole del Langerhans sono solitamente risparmiate.

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TUMORI DEL PANCREAS ESOCRINO

I tumori del pancreas esocrino possono essere:


- Benigni → cistoadenomi, sierosi o mucinosi
- Borderline → tumori a basso potenziale di malignità, come il tumore cistico mucisono con displasia
moderata, il tumore intraduttale papillare con displasia moderata e il tumore solido pseudo-
papillare
- Maligni → tutti tumori solidi: adenocarcinoma duttale, carcinoma a cellule aciniche, tumore solido-
pseudopapillare, controparte maligna del borderline, cistoadenocarcinoma, tumore intraduttale
papillare mucinoso e pancreatoblastoma

NEOPLASIE CISTICHE

La maggior parte delle lesioni cistiche del pancreas sono rappresentate da pseudo-cisti (definite tali perché
prive di epitelizzazione), mentre il 5-15% di queste lesioni è rappresentato da neoplasie cistiche, che nel
complesso costituiscono meno del 5% delle neoplasie pancreatiche.

Tumore sieroso o microcistico

Rappresenta il 25% delle cisti e colpisce tipicamente le donne di 60-70 anni. Solitamente rappresenta un
reperto incidentale, talvolta associato alla sindrome di Von Hippel-Lindau. La frequenza è uniforme nelle
diverse parti del pancreas, ovvero testa, coda e corpo dell’organo, e solitamente la resezione chirurgica è
risolutiva. Nella maggior parte dei casi si tratta infatti di lesioni benigne.
Alla TC appare come tessuto spugnoso, dal momento che si hanno cisti centimetriche-submillimetriche che
contengono un liquido sieroso giallo paglierino.
Microscopicamente le cisti sono ricoperte da epitelio pluristratificato cuboidale ricco di glicogeno, che
conferisce loro un aspetto chiaro (durante la fissazione vengono estratti i lipidi e il glicogeno). La
dimostrazione della presenza di glicogeno nel fluido cistico, tramite agoaspirato, conferma la diagnosi
citologica.

Tumore mucinoso o macrocistico

Insorgono tipicamente nelle giovani donne e si presentano come una massa addominale indolente, a lento
accrescimento, con calcificazioni del muco nella parete. Interessano soprattutto corpo e coda del pancreas
e solitamente si tratta di lesioni borderline o cistoadenocarcinomi; una componente invasiva è presente in
circa il 30% dei tumori mucinosi. Nelle forme non invasive la resezione è curativa.
Le cisti sono di grandi dimensioni e multiloculate e possono contenere liquido mucoide e filante.
Microscopicamente presentano un epitelio mucosecernente con cellule alte ben differenziate immerse in
uno stroma denso simil-ovarico: lo stroma presenta una densa cellularità con aspetto fibroblastico ed è
immunoreattivo per recettori estrogenici e progestinici, anche nei pazienti maschi.
In base alla presenza di atipie cellulari ed invasione stromale è possibile definire le lesioni come benigne,
borderline o maligne.

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NEOPLASIE MUCINOSE PAPILLARI INTRADUTTALI – IPMN

Colpiscono soprattutto il sesso maschile e insorgono tipicamente nella testa del pancreas, anche se nel 10-
20% dei casi sono multifocali. Sono tumori da ectasie del dotto pancreatico, quindi sono in contatto con il
dotto e viene meno lo stroma simil-ovarico; macroscopicamente si ha un aspetto cistico, nonostante non
siano propriamente definibili cisti: si hanno dilatazioni sferiche in continuità con il sistema duttale.
Per quanto riguarda l’aggressività si possono avere sia forme con displasia di basso grado, quindi a basso
potenziale di aggressività, sia forme con displasia di alto grado e caratteri di invasività.
Microscopicamente si possono distinguere due condizioni estreme:
- Forme in cui prevale la secrezione di muco (immagine in basso a sinistra), in cui si hanno margini
regolari e non si ha infiltrazione
- Forme in cui prevale la proliferazione cellulare (immagine in basso a destra) con un pattern di
crescita papillare complesso, che all’imaging può simulare una massa solida. Queste forme sono di
alto grado pre-invasivo e spesso precedono lo sviluppo di adenocarcinoma duttale infiltrante.

ADENOCARCINOMA DUTTALE PANCREATICO

Neoplasia maligna di tipo ghiandolare che origina dalle cellule del sistema duttale del pancreas.
Colpisce soprattutto pazienti tra i 60 e gli 80 anni con fattori di rischio come il fumo (raddoppia il rischio), il
diabete, l’obesità, la pancreatite cronica, il carcinoma mammario familiare e mutazioni inattivanti BRCA2
(presenti nel 10% degli ebrei ashkenaziti). Rappresenta la quarta causa neoplastica di morte con una
sopravvivenza a 5 anni inferiore al 5%; meno del 20% dei pazienti è operabile al momento della diagnosi.
Nella maggior parte dei casi interessa la testa del pancreas, fattore vantaggioso dal momento che causa
ittero ostruttivo, permettendo la diagnosi, mentre le neoplasie del corpo e della coda rimangono silenti più
a lungo; nel 20% dei casi interessa l’intera ghiandola.
Si tratta di una neoplasia altamente infiltrante localmente che spesso metastatizza anche per via linfatica
e a distanza, interessando soprattutto fegato e polmoni.
Nel 10% dei pazienti si associa ad una rara sindrome paraneoplastica, la sindrome di Trousseau,
caratterizzata da tromboflebiti migranti. Questa sindrome è legata alla produzione di fattori attivanti le
piastrine e fattori pro-coagulanti da parte del tumore e dei residui necrotici.

127
Nel 20% dei casi risulta operabile alla diagnosi, mentre nella restante percentuale dei casi si ha invasione dei
vasi o altre strutture non asportabili. Non esistono metodiche di screening che consentano una diagnosi
precoce.

Il precursore dell’adenocarcinoma duttale pancreatico è il PanIN, che prevede una specifica successione:
1. PanIN1 → iperplasia, ulteriormente classificata in piatta (1A) e papillare (1B). Risulta associata ad
accorciamento dei telomeri o mutazioni di KRAS, coinvolta nei pathway dei recettori dei fattori di
crescita
2. PanIN2 → displasia di grado basso-intermedio. È associata a inattivazione di p16, inibitore ciclina-
dipendente che antagonizza la progressione del ciclo cellulare, e ARF, che aumenta la funzione di
p53; entrambe queste proteine vengono codificate dal gene CDKN2A, che risulta ipermetilato o
inattivato.
3. PanIN3 → displasia di alto grado o carcinoma in situ. Si ha inattivazione di SMAD4, DPC4, LOH e
p53.

Macroscopicamente è un tumore scirroso, duro, con consistenza lignea dovuta alla reazione
desmoplastica che determina una importante proliferazione fibroblastica. L’aspetto cicatriziale si addensa
al centro del tumore, dove si trova anche la necrosi, mentre le cellule sono maggiormente rappresentate
alla periferia della massa neoplastica.
All’imaging presenta margini poco definiti e va in diagnosi differenziale con la pancreatite cronica.
Si ha una importante infiltrazione locale, ma possono essere interessati anche i linfonodi, soprattutto
quelli peripancreatici, gastrici, mesenterici, omentali e portoepatici.
Spesso si ha infiltrazione degli organi contigui, come stomaco, milza, duodeno, dotto biliare, tessuti
retroperitoneali, e invasione di vasi e nervi.

La reazione desmoplastica può talvolta complicare la diagnosi, dal


momento che la biopsia può raccogliere solo questo materiale non
diagnostico.
Microscopicamente è possibile osservare il dotto biliare (cd), il
fronte di avanzamento tumorale (t) e la necrosi tumorale (n).
Le ghiandole sono solitamente molto sviluppate, ma si hanno
numerose atipie cellulari, con cellule pleomorfe cubiche-
colonnari: si ha quindi una discrepanza tra il basso livello di
atipia strutturale, con ghiandole ben formate, e l’alto livello
di atipia citologica, caratteristica tipica dei tumori pancreato-
biliari.
Vi sono delle forme di adenocarcinoma scarsamente
differenziato in cui si osservano strutture tubulari abortive o
nidi solidi.
Esistono anche rare varianti di questo tumore:
adenosquamoso, mucinoso, epatoide, midollare, a cellule ad
anello con castone, indifferenziato, differenziato a cellule
giganti simil-osteoclastiche.
128
Caratteristica dell’adenocarcinoma duttale è l’invasione
perineurale: la neoplasia cresce negli spazi perineurali e si
ritiene che ciò sia dovuto alla produzione di fattori di crescita
neuronali da parte delle cellule tumorali e fattori di crescita
per il carcinoma da parte dei neuroni.
Altre neoplasie che condividono questa caratteristica sono
l’adenocarcinoma prostatico e il carcinoma adenoideocistico
delle ghiandole salivari.

CARCINOMA PANCREATICO A CELLULE ACINICHE

Si tratta di un carcinoma midollare di grandi dimensioni che origina direttamente dagli acini. Presenta una
crescita espansiva e raggiunge mediamente dimensioni di 10 cm. Presenta un’area centrale necrotica e
una consistenza soffice, dal momento che è assente la reazione fibrotica; macroscopicamente si possono
osservare quindi aree di necrosi emorragica, senza reazione sclerotica.
Al momento della diagnosi sono spesso presenti metastasi epatiche e linfonodali; la sopravvivenza a un
anno è del 60%, la sopravvivenza a 5 anni è del 6%.
Nel 10% dei casi si ha una sindrome poli-artralgica e disseminata steatonecrosi, soprattutto sottocutanea:
alcuni di questi tumori sono altamente differenziati e producono enzimi pancreatici, che entrano in circolo.

Istologicamente nelle forme ben differenziate si osservano acini simili a quelli normali, con cellule dal
citoplasma eosinofilo e granuli di zimogeno PAS+ (molti enzimi pancreatici sono glicoproteine); le cellule
risultano polarizzate e dotate di grandi nuclei con nucleoli evidenti.
Nelle forme meno differenziate si può avere una crescita trabecolare, in cordini o solida.

La diagnosi è poi confermata tramite immunoistochimica: la presenza, anche focale, di enzimi pancreatici,
come tripsina e lipasi, è diagnostica.
L’immunoistochimica permette anche la diagnosi differenziale con tumori neuroendocrini gastro-intestinali,
che possono istologicamente risultare simili; anche la microscopia elettronica aiuta in questa diagnosi
differenziale, dal momento che i granuli di zimogeno sono nettamente più grandi nel carcinoma
pancreatico piuttosto che nei tumori neuroendocrini.

129
TUMORE SOLIDO PSEUDO-PAPILLARE

È un tumore a basso grado di malignità associato a mutazioni della β-catenina e attivazione del pathway
di Wnt. Colpisce prevalentemente le giovani donne e si presenta come una massa addominale di notevoli
dimensioni, con aree necrotico-emorragiche, a crescita espansiva solido-cistica; generalmente il margine
presenta una pseudo-capsula, ma in alcuni casi è infiltrante.
La prognosi è generalmente favorevole, quando si tratta di tumori borderline, ma in alcuni casi si hanno
metastasi a distanza associate ad invasione vascolare, citologia ad alto grado di malignità e necrosi.

Istologicamente presenta un pattern di crescita solida con perdita di coesione, che dà vita ad un aspetto
pseudo-papillare: si ha un pattern di crescita solido, ma più le cellule proliferano, più quelle che si trovano
lontano dai vasi vanno incontro ad apoptosi per mancanza di nutrimenti e si formano così pseudo-papille,
dette anche papille ex-vacuo.

Le cellule risultano uniformi con nuclei ipercromici con contorno irregolare; le mitosi non sono frequenti.
Vi possono essere globuli eosinofili intra-citoplasmatici PAS+ dovuti all’accumulo di α1-antitripsina,
causato dalle cellule neoplastiche.
Sono comunemente espressi altri marcatori, come la vivementina, l’enolasi neurone-specifica e i recettori
degli estrogeni; la presenza di diversi marker fa suppore che questa neoplasia origini da cellule
pancreatiche primitive totipotenti, con predominante differenziazione esocrina, ma anche endocrina.
La diagnosi è confermata anche dall’accumulo di β-catenina a livello nucleare (nelle cellule sale essa si
trova a livello citoplasmatico).
La resezione risulta spesso curativa.

130
PANCREATOBLASTOMA

È il più comune tumore pancreatico nei bambini: è un tumore dis-embriogenico.


Presenta un primo picco di incidenza prima dei 15 anni e un secondo picco intorno ai 30 anni.
È in genere un tumore di grandi dimensioni, mediamente 10 cm, con pseudo-capsula incompleta; la
prognosi è più favorevole nei bambini (il 50% sopravvivere) piuttosto che negli adulti (il 75% non
sopravvive). Si può associare anche a sindrome di Beckwith-Wiedemann, caratterizzata da macroglossia,
visceromegalia, macrosomia, ernia ombelicale e ipoglicemia neonatale.

Presenta piccole cellule immature con differenziazione


sia duttale, sia acinica ed endocrina; presenta mitosi e
nonostante sia indifferenziato presenta ancora una
polarità. È possibile ritrovare abbozzi di strutture acinari.
Una caratteristica è la presenza di corpuscoli squamosi,
ovvero aree squamose frammiste a cellule acinari,
probabilmente associate ad una differenziazione
aberrante.

131
TUMORI DEL PANCREAS ENDOCRINO

I tumori del pancreas endocrino sono i tumori neuroendocrini


che originano dalle isole pancreatiche, costituite da tre tipi
cellulari:
- Cellule α: producono glucagone e solo localizzate alla
periferia dell’isola
- Cellule β: producono insulina e sono distribuite in tutta
l’isola
- Cellule δ: producono somatostatina e sono sparsa, in
modo rado, in tutta l’isola
I tumori che possono svilupparsi sono:
- Tumori a cellule β o insulinomi (75%)
- Gastrinomi pancreatici (25%) che possono portare alla sindrome di Zollinger-Ellison
- Tumori a cellule α o glucagonomi (< 5%)
- Tumori a cellule δ o somatostatinomi (< 5%)
- Tumori a cellule D1 o VIPomi (< 5%) che possono causare la sindrome di Verner-Morrison
Questi tumori rappresentano il 2% dei tumori pancreatici e possono essere singoli o multipli, benigni o
maligni e secernenti o non-secernenti.
Sono state identificate tre principali vie genetiche coinvolte in queste neoplasie:
- Gene MEN1, che provoca sindrome familiare MEN di tipo 1, con numerosi tumori neuroendocrini
- Perdita di funzione degli oncosoppressori PTEN e TSC2, con conseguente attivazione della via
oncogenica di mTOR
- Mutazioni inattivanti il gene alfa-talassemia/sindrome del ritardo mentale, ATRX, e la proteina
associata del dominio di morte, DAXX, che sembrano coinvolti nella preservazione dei telomeri

INSULINOMA

Sono i più comuni tumori del pancreas endocrino e interessano solitamente la testa
o la coda del pancreas. Nella maggior parte dei casi sono benigni, ma nel 10% dei
casi presentano caratteri di malignità, ovvero presentano metastasi o segni di
invasione locale (la presenza di metastasi è l’unico criteri di malignità affidabile,
anche se attualmente si sta cercando di stabilire la probabilità di metastatizzazione
prendendo in considerazione il grado di differenziazione cellulare e l’attività
proliferativa, valutata tramite l’attività micotica e il Ki67).
Macroscopicamente si presenta come una massa solida, circoscritta, non capsulata.
Microscopicamente la neoplasia presenta una crescita solida o trabecolare e una
ricca vascolarizzazione; spesso si ha reazione desmoplastica e accumulo di
amiloide nello stroma.
Alla microscopia elettronica si osservano granuli elettrondensi nelle
cellule, che all’immunoistochimica risultano positivi per insulina,
cromogranina e altri marcatori tipici dei tumori neuroendocrini.
Questi tumori possono produrre insulina a sufficienza da determinare
ipoglicemia accompagnata da sudorazione intensa, nervosismo,
confusione e perdita di coscienza; dal momento che la sintomatologia
migliora con l’ingestione di cibo i pazienti sono spesso sovrappeso.
L’iperinsulinismo può essere causato anche da iperplasia focale o diffusa,
detta anche nesiodioblastosi, delle isole pancreatiche, mutazioni del canale del potassio delle cellule beta e
mutazioni del recettore della sulfanilurea.

132
GLUCAGONOMA

È un tumore raro, di grandi dimensioni e invasivo; nei 2/3 dei casi è maligno e presenta una spiccata
tendenza alla metastatizzazione. Ha caratteristiche molto simili all’insulinoma, ma le cellule risultano
positive per il glucagone all’esame immunoistochimico.

GASTRINOMA PANCREATICO – Dispensa

I gastrinomi sono tumori gastrino-secernenti che possono trovarsi a livello pancreatico, duodenale o nei
tessuti molli peri-pancreatici. Non si sa con precisione quale sia l’origine cellulare di questi tumori, anche se
si ipotizza una origine dalle cellule endocrine intestinali o pancreatiche. Nel 25% dei casi si associano a
MEN1. Nell’80% dei casi sono maligni e molti pazienti presentano metastasi al momento della diagnosi.
Clinicamente le manifestazioni sono legate all’ipersecrezione di gastrina, che causa la sindrome di
Zollinger-Ellison, associata a ipersecrezione acida gastrica e ulcere peptiche; altro sintomo tipico è la
diarrea. Il trattamento prevede la resezione della neoplasia, se possibile, e il controllo della secrezione
acida gastrica mediante PPI. I pazienti con metastasi presentano una prognosi peggiore.

SOMATOSTATINOMI – Dispensa

Sono associati a diabete mellito, colelitiasi, steatorrea e ipocloridria; per la diagnosi si valutano i livelli
plasmatici di somatostatina, visto che sono lesioni difficili da identificare.

VIPomi – Dispensa

Si caratterizzano per diarrea acquosa, ipokaliemia, acloridria; è necessario il dosaggio del VIP.
Possono essere invasivi localmente o dar vita a metastasi a distanza.

Si hanno poi i carcinoidi del pancreas, che producono serotonina, i tumori secernenti il polipeptide
pancreatico, e tumori multiormonali che possono produrre, oltre a insulina, glucagone e gastrina, anche
ACTH, MSH, ADH, serotonina e noradrenalina.

133
MALATTIE DEL SISTEMA EMOPOIETICO E LINFOIDE

ONTOGENESI LINFOCITARIA

Viene trattata l’ontogenesi dei linfociti B dal momento che la maggior parte delle patologie è a carico dei
linfociti B e che l’ontogenesi dei linfociti T è abbastanza simile.

L’ematopoiesi origina dalla cellula staminale ematopoietica, localizzata nel midollo osseo e identificabile
grazie all’espressione del marcatore CD34: la cellula staminale CD34+ è totipotente e da essa derivano sia la
linea mieloide che la linea linfoide.
La linea linfoide inizia la sua genesi con il progenitore linfoide comune, localizzato nel midollo osseo, dalla
cui discendenza, che migra nel timo, originano i precursori della linfopoiesi T; l’ontogenesi T-cellulare si
realizza quindi a livello timico, mentre l’ontogenesi B-cellulare si realizza nel midollo osseo.
I linfociti che si trovano al di fuori degli organi deputati all’ontogenesi linfocitaria, ovvero timo e midollo
osseo, sono linfociti maturi e questa considerazione è importante, infatti, i tumori che derivano da cellule
linfoidi midollari sono tumori derivanti da cellule immature, mentre i tumori che derivano da cellule
presenti al di fuori di timo e midollo osseo derivano da cellule periferiche mature.

I segnali derivanti dal microambiente che permettono la differenziazione in linfociti T o B sono in gran parte
sconosciuti, mentre sono ben noti i meccanismi molecolari intracellulari che intervengono.
Fondamentale è l’intervento di fattori di trascrizione, che permettono di regolare l’espressione genica.
Nella cellula B (pre-pro B) vengono attivati i fattori di trascrizione Early B Factor 1, EBF1, e E-Box binding 2,
E2A, che risultano costantemente attivi in alcune forme di leucemia linfoide acuta, mantenendo la cellula in
questo stadio differenziativo. Questi fattori di trascrizione determinano l’espressione della molecola PAX5,
che caratterizzerà tutti le fasi maturative della cellula B, fino alla plasmacellula.
Successivamente, grazie a segnali non del tutto chiari (è coinvolta anche IL-7), si attivano le recombinasi
RAG1 e RAG2 e il differenziamento diviene irreversibile.
RAG1 e RAG2 attivano la ricombinazione VDJ e a questo stadio la cellula B è detta early pro-B.
La ricombinazione VDJ interessa i geni che codificano per le immunoglobuline, ma anche i geni che
codificano per il T cell receptor, e consentono il riarrangiamento del genoma.
Grazie a questo processo di ricombinazione i linfociti presentano un DNA diverso da tutte le altre cellule ed
è possibile identificare le famiglie di linfociti che derivano da un capostipite comune poiché presentano
tutti il medesimo riarrangiamento clonale: ogni linfocita presenta un determinato riarrangiamento, che poi
trasmesse alla progenie. Questo meccanismi di riarrangiamento contribuisce a garantire l’enorme
variabilità della funzione anticorpale (e del recettore dei linfociti T).

I geni che codificano per le immunoglobuline (e per i recettori delle cellule T) sono ridondanti e presentano
sequenze multiple in ogni porzione: la D, diversity, la V, varibiale, e la J, joining.
Il riarrangiamento avviene in due fasi:
1. Una sequenza, causale, della porzione D viene riarrangiata con una sequenza J
2. Il blocco DJ viene accostato casualmente ad un segmento V
Si forma così il blocco VDJ: se la catena ottenuta non è funzionante intervengono altri meccanismi di
riarrangiamento.

Il riarrangiamento VDJ prevede la rottura del doppio filamento di DNA; solitamente qualunque alterazione
a carico della struttura del DNA innesca meccanismi di apoptosi, onde evitare l’insorgenza di mutazioni, ma
tale processo è inibito durante lo sviluppo dei linfociti, in modo da permettere il riarrangiamento. Il
riarrangiamento è quindi un processo fondamentale per permettere la diversità anticorpale tra i diversi
linfociti, ma espone al rischio di traslocazioni, che possono portare a leucemia e linfomi.
Alcune traslocazioni sono sufficienti a determinare la neoplasia, come le traslocazioni che avvengono nei
linfoblasti e causano leucemia linfoblastica, mentre altre sono solo predisponenti e portano alla formazione
di linfomi solo se si sommano altri eventi trasformanti successivi.
134
La varietà linfocitaria è garantita anche da altri meccanismi:
- Processo error prone: il riarrangiamento VDJ è imperfetto e ogni volta che un segmento VDJ viene
tagliato e ricucito vengono tolti o aggiunti nucleotidi, fenomeno che aumenta la variabilità
- Diversità di associazione tra catene pesanti e leggere
- Processo delle ipermutazioni somatiche: avviene nella cellula matura, dopo l’incontro con
l’antigene, e determina la maturazione dell’attività anticorpale

Completato il riarrangiamento VDJ la


cellula esprime il recettore B-
cellulare, ovvero una
immunoglobulina di superficie, e
risulta matura, quindi esce dal
midollo osseo. A questo punto si
parla di linfocita B naive o vergine,
dal momento che non è mai entrato
in contatto con l’antigene.
Qualora avvenga l’incontro con
l’antigene il linfocita va incontro ad
ulteriori modificazioni e sono
possibili due vie:
- Reazione del centro
germinativo del follicolo
linfatico secondario
- Trasformazione in cellula della memoria (via meno usuale, non prevede il passaggio nel centro
germinativo)

La reazione del centro germinativo si realizza nel follicolo linfatico secondario e vede due fenomeni
importanti:
1. Espansione clonale della popolazione linfoide
In seguito al riconoscimento dell’antigene si ha una massiva crescita cellulare, in modo da
rafforzare la risposta immunitaria
2. Maturazione dell’affinità anticorpale
Durante l’espansione proliferativa avvengono delle mutazioni puntiforme, dette ipermutazioni
somatiche, che aumentano o diminuiscono, in modo causale l’affinità del recettore per l’antigene:
grazie a segnali di costimolazione provenienti dai linfociti T e dalle cellule presentanti l’antigene,
vengono selezionati i cloni linfocitari con affinità per l’antigene aumentata, mentre le cellule la cui
affinità si riduce non ricevono segnali di costimolazione e vanno incontro ad apoptosi.
Le cellule con affinità per l’antigene aumentata escono dal centro germinativo e divengono
plasmacellule e in misura minore cellule della memoria.

Il centro germinativo è una struttura anatomo-funzionale; negli organi linfatici si trovano i follicoli primari,
costituiti soprattutto da linfociti naive, e nel momento in cui si ha il contatto con l’antigene il follicolo
primario evolve in follicolo secondario: la porzione centrale di quest’ultimo è il centro germinativo.
I follicoli primari e i follicoli secondari sono situati nella zona corticale B-dipendete dei linfonodi; si ha poi
una zona paracorticale T-dipendente e una zona midollare in cui sono presenti vasi, sinusoidi, cellule del
sistema monocito-macrofagico, istiociti e alcune plasmacellule.

Durante la reazione del centro germinativo i linfociti B cambiano morfologia e divengono:


- Centroblasti, cellule grandi con nucleo di dimensioni importanti, nucleoli evidenti e cromatica
aperta: sono le cellule in massima fase di proliferazione
- Centrociti, più piccoli dei centroblasti e dalla forma allungata e irregolare: sono cellule che
proliferano meno vivacemente, non tutte sono in attiva proliferazione

135
Ritroviamo anche le cellule follicolari dendridiche, che da una parte presentano l’antigene e dall’altra
fungono da impalcatura strutturale del follicolo, e linfociti T, soprattutto CD4+, che cooperano con i linfociti
B nella reazione del centro germinativo (T-helper follicolari).

Durante la razione del centro germinativo viene promossa la


sopravvivenza cellulare, ma al tempo stesso viene indotta
l’apoptosi se la selezione non risulta idonea; pertanto, è
fondamentale che la proteina anti-apoptotica BCL2 sia
silenziata durante la reazione del centro germinativo,
mentre è espressa da tutte le altre cellule presenti intorno al
centro germinativo.
L’immunoistochimica permette anche evidenziare le
differenze di proliferazione: le cellule del centro
germinativo vengono cospicuamente evidenziate da
marcatori di proliferazione, come Ki-67.
Tramite il marcatore Ki-67 è possibile evidenziare anche il
fenomeno della polarizzazione, dovuto al fatto che la
proliferazione dei centroblasti avviene in periferia e man
mano che ci si sposta verso il centro si ha la differenziazione
in centrociti. La presenza della polarizzazione è
“rassicurante”, poiché indicativa di proliferazione normale,
ma non è obbligatoria.

Nella reazione del centro germinativo sono implicate anche


altre molecole:
• BCL6 → fattore di trascrizione fondamentale nella
reazione del centro germinativo: in sua assenza la
reazione del centro germinativo non può avvenire, le cellule rispondono ugualmente all’antigene,
ma attraverso la via alternativa. Oltre a regolare la reazione del centro germinativo e ad impedire
l’apoptosi, BCL6 impedisce la differenziazione a plasmacellula, inibendo l’espressione di IRF4 e
PRMDM1/BLIMP1, fattori di trascrizione che caratterizzano la plasmacellula.
Il segnale che autorizza la differenziazione in plasmacellula è rappresentato dalla costimolazione
dei linfociti T, attraverso CD40: il segnale di costimolazione induce l’attivazione forzata di IRF4,
nonostante BCL6 ancora attivo; successivamente IRF4 inibisce BCL6, permettendo la fuoriuscita
della plasmacellula dal centro germinativo.
• AID – activation-induced cytodine-deaminase → fondamentale nei processi di ipermutazione
somatica e switch di classe (processo che permette di passare dalla classe IgM a IgG o ad altre
tipologia di immunoglobuline). Questa molecola, per ragioni non note, può essere espressa in
maniera aberrante anche in altri tipi cellulari e favorire mutazioni e traslocazioni.
Il centro germinativo è considerata la struttura del sistema emolinfopoietico più a rischio di
trasformazione: la maggior parte dei tumori emopoietici deriva da errori di questo macchinario.

Un’altra caratteristica importante è l’homing linfocitario:


- In un linfonodo vi sono aree a pertinenza B-cellulare e aree T-cellulari, non sempre nettamente
distinte
- I linfociti B delle mucose tendono a rimanere confinati nelle mucose di pertinenza e a ritornare alla
medesima mucosa dopo il ricircolo; questo è importante perché anche i tumori associati a queste
cellule tenderanno a rimanere localizzati.

Antigeni linfocitari
Questi marcatori permettono di definire il fenotipo del linfocita. I linfociti B presentano diversi antigeni nelle
diverse fasi dell’ontogenesi:

136
- CD19: è il primo a comparire e persiste per tutto lo sviluppo B-linfocitario. Ha un ruolo diagnostico,
dal momento che permette di definire l’origine B cellule di una popolazione linfoide, e un ruolo
terapeutico, dal momento che è il target di diversi farmaci.
- CD20: è espresso dalla fase dei pro-B, ma viene perso nelle plasmacellule; è un target terapeutico
- CD10: è espresso nelle cellule B immature e nella reazione del centro germinativo
- CD138: è specifico della plasmacellula ed è importante sia dal punto di vista diagnostico che dal
punto di vista terapeutico

137
LINFOADENITE

Le linfoadeniti sono le patologie infiammatorie del linfonodo.


Il linfonodo è un organo capsulato popolato da fibroblasti, che costituiscono la struttura fibrosa portante,
cellule del sistema monocito-macrofagico e istiocitario, cellule dendritiche, linfociti B e linfociti T.
La linfoghiandola è costituita da zona corticolare, una zona paracorticale interfollicolare e una zona
midollare e morfologicamente si presenta come un organo disomogeneo, con noduli di dimensioni e forma
variabili.

Le linfoadeniti vengono suddivise in acute e croniche; le cause sono molteplici e tra le principali rientrano
infezioni, fenomeni autoimmuni, reazioni di ipersensibilità o allergiche e farmaci, ma si hanno anche forme
idiopatiche.
Oltre alle caratteristiche del paziente e alle manifestazioni cliniche associate, il sospetto diagnostico viene
orientato anche in base al sito di linfoadenite; ad esempio, per quanto riguarda il distretto testa-collo, le
principali cause di linfoadenite sono:
- Distretto occipitale → infezioni del cuoio capelluto e punture di insetto
- Distretto auricolare posteriore → rosolia
- Distretto auricolare anteriore → infezioni oculari o congiuntivali
- Distretto sottomandibolare → infezioni del cavo orale e tumori
- Distretto cervicale anteriore → infezioni e neoplasie

LINFOADENITI ACUTE ASPECIFICHE

Le linfoadeniti acute aspecifiche sono caratterizzate da:


- Rapida crescita
- Dolore, determinato dalla rapida crescita in un
organo capsulato
- Colore arrossato-grigiastro e congestione
- Consistenza molle, in caso ascesso all’interno del
linfonodo, e cute sovrastante arrossata
Possibili cause sono tonsilliti ed ascessi dentali, per il cavo
orale, lesioni degli arti inferiori o della regione pelvica, per i
linfonodi inguinali, appendicite, per i linfonodi mesenterici.

Il quadro istologico è aspecifico e sono presenti


granulociti, se essi sono particolarmente abbondanti vi è ascessualizzazione. Possibili evoluzioni sono:
guarigione, suppurazione, ascesso e fistolizzazione (organo-organo o organo-cute).

LINFOADENITI CRONICHE ASPECIFICHE

Le forme croniche presentano:


- Crescita lenta (il paziente riferisce che il linfonodo si è ingrossato in settimane o mesi e spesso non
ricorda da quando è comparso)
- Spesso senza dolore: la crescita lenta permette un progressivo stiramento della capsula
- Spesso consistenza dura (se presente ascessualizzazione la consistenza può essere molle)

Le linfoadeniti croniche vengono classificate in base al pattern morfologico che si osserva; raramente i
reperti sono patognomici e solitamente si hanno pattern generici, quali:
- Iperplasia florida follicolare, presente nelle prime fasi di infezione da HIV, nelle malattie
autoimmuni e in caso di infezioni batteriche o fungine
- Iperplasia paracorticale, tipicamente secondaria ad infezioni virali, ma può essere dovuta anche a
farmaci, e reazioni dermatopatiche

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- Quadri misti con iperplasia della paracorticale e dei follicoli
- Istiocitosi dei seni, che caratterizza alcune malattie idiopatiche, come la malattia di Rosai-Dorfman
o l’istiocitosi di Langerhans
- Forme granulomatose, suppurative o meno, in cui si possono avere granulomi necrotizzanti o non
necrotizzanti; sono tipiche delle reazioni da corpo estraneo
Inoltre, si distinguono:
- Forme a predominanza B-cellulare, come la malattia di Castleman, malattia delle cellule follicolari
dendritiche che può essere associato o meno a Herpes Virus 8
- Forme a predominanza T-cellulare, tra cui la malattia di Kikuchi, una proliferazione T-linfoblastica
indolente morfologicamente indistinguibile dalla leucemia linfoblastica, ma benigna

Iperplasia follicolare

Nell’iperplasia follicolare la presenza dei follicoli è


aumentata e tali follicoli risultano di dimensioni e
forme diverse tra loro e presentano un mantello,
ovvero la regione più scura che circonda il centro
germinativo, spesso. I mantelli di follicoli adiacenti
non sono schiacciati e talvolta è possibile notare una
polarizzazione dei follicoli. A maggior ingrandimento si
osservano macrofagi che fagocitano linfociti apoptotici.
Le cause principali sono: HIV, sifilide, malattie
autoimmuni come l’artrite reumatoide, malattia di
Kimura (molto rara) e malattia di Castleman.

Se si osserva invece un linfoma follicolare, si notano una maggior


presenza di follicoli, ma questi risultano relativamente simili tra
loro: tondeggianti e più o meno della medesima dimensioni; inoltre,
spesso i follicoli sono tra loro addossati e i mantelli risultano più
sottili.

Iperplasia paracorticale

Si osserva una rarefazione dei follicoli con un’elevata densistà cellulare nello spazio inter-follicolare: si ha
una espansione della paracorticale dovuta a proliferazione dei linfociti T.

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Solitamente le cellule in attiva proliferazione presentano nucleo grande e chiaro, mentre le cellule
nell’immagine presentano nuclei scuri e molto vicini tra loro, pertanto si tratta di linfociti piccoli e maturi;
talvolta possono essere presenti però cellule con cromatina aperta e citoplasma abbondante, in attiva
proliferazione.
Nella paracorticale sono presenti cellule T, quindi nella eziologia dell’iperplasia paracorticale sono
implicati processi che attivano la risposta immunitaria T-dipendente:
- Infezioni virali, soprattutto da EBV, CMV, Herpes Simplex e Herpes Zoster
- Reazioni a farmaci, soprattutto vaccini
- Processo flogistico della cute, come linfoma della cute (si parla linfoadenite dermatopatica)

In caso di linfoadenite dermatopatica è importante notare


la presenza dell’importante espansione delle cellule
accessorie, elemento che permette di distinguere la
linfoadenite dalla eventuale colonizzazione linfomatosa. Le
cellule accessorie sono marcate con la proteina S100
all’immunoistochimica.

Un altro caso importante di diagnosi differenziale è la


mononucleosi infettiva, malattia dovuta a EBV che può
presentarsi con febbre, linfocitosi, epatosplenomegalia e
linfoadenomegalie; caratteristiche presenti anche nella leucemia acuta linfoblastica.
Nelle forme di linfoadenite da EBV si ha un quadro irregolare, con aree più chiare e aree più scure, e sono
presenti cellule di dimensioni maggiori, con nucleo grande, nucleolo evidente e cromatica chiara: si tratta di
cellule blastiche attivate. Questo quadro non è direttamente correlabile alla mononucleosi ed è necessario
indagare se è benigno o maligno:
- Il marcatore p67 evidenzia la proliferazione delle cellule, se prolifera la maggior parte delle cellule
si ha il sospetto di un quadro maligno
- Tramite immunofenotipo si identificano cellule T e cellule B
o Il marcatore CD3 si usa per i linfociti T, ulteriormente distinguibili grazie ai marcatori CD4 e
CD8
o Il marcatore CD20 si usa per i linfociti B
Un quadro infiammatorio è tipicamente caratterizzato da una cellularità mista (ad esempio metà
CD4 e metà CD8), mentre in caso di neoplasia si ha la netta prevalenza di un tipo cellulare (ad
esempio 94% di CD4 e 6% di CD8)
- Può essere ricercato, tramite marcatore specifico, direttamente il virus EBV.
Il virus può essere evidenziato ricercando specifiche proteine o ricercando gli acidi nucleici,
identificati da RNA con ibridazione in situ, ad esempio con sonde EBER. La ricerca degli acidi nuclei
è preferibile dal momento che il virus quando entra nella cellula ospite può entrare in una fase di
latenza ed esprimere molecole differenti, ma esprime sempre gli EBER.

Istiocitosi dei seni

Si ha un aumento del numero e delle dimensioni delle cellule che rivestono i sinusoidi linfatici, cosa che
determina una espansione e una distensione dei seni. Sebbene siano forme aspecifiche si osservano spesso
nei linfonodi drenanti carcinomi.

Linfoadenite granulomatosa

Le linfoadeniti granulomatose sono riconducibili a diverse cause:


- Infezioni, soprattutto tubercolosi ed infezioni fungine
- Sarcoidosi
- Reazioni da corpi estranei

140
- Neoplasie, che possono determinare sia linfoadeniti granulomatose che colonizzazione dei
linfonodi: la distinzione tra le due è importante per la stadiazione
- Idiopatiche
Bisogna prestare attenzione perché si possono avere tumori emopoietici mascherati da reazione
granulomatosa.
Le linfoadenopatie granulomatose si distinguono in:
- Forme con necrosi
o Necrosi caseosa → tubercolosi
o Necrosi non caseosa → infezioni fungine, malattia da graffio di gatto, linfogranuloma
venereo, infezioni da Yersinia e tubercolosi atipiche
- Forme senza necrosi → sarcoidosi

Sarcoidosi
Malattia sistemica idiopatica che interessa prevalentemente le linfoghiandole dell’ilo polmonare. Essendo il
quadro istologico fortemente aspecifico, per la diagnosi è importante la valutazione clinico-amnestica. I
granulomi sono molto irregolari, non si ha necrosi e le cellule giganti mononucleate tendono a formare
cluster, anche se possono trovarsi isolate sparsa qua e là.

Malattia da graffio di gatto


Questa malattia, con reazione
granulomatosa suppurativa, è causa da
Bartonella e solitamente interessa gli arti,
quindi vengono coinvolti linfonodi ascellari
o inguinali. Per la diagnosi sono necessari
anamnesi e reperto positivo, che sfrutta
l’immunoistochimica o l’impregnazione
argentica (Whartin-Starry); più specifica
risulta la diagnosi sierologica, però non
disponibile in tutti i laboratori.

Toxoplasmosi
Il toxoplasma non è particolarmente rilevante nel soggetto immunocompetente, ma può dare complicanze
nel soggetto immunodepresso o in gravidanza.
Le donne in gravidanza, sierologicamente negative, devono prestare attenzione a carne e pesce crudi e a
vegetali crudi e mal lavati, onde evitare di contrarre l’infezione.
La toxoplasmosi si presenta con un quadro specifico caratterizzato da:
- Iperplasia follicolare
- Microgranulomi presenti sia
dentro che fuori dai centri
germinativi (nella sarcoidosi i
granulomi sostituiscono l’intero
tessuto linfatico)
- Piccoli aggregati di cellule B
monocitoidi (i linfociti sono simili a
monociti, con citoplasma espanso,
pur mantenendo il nucleo
condensato)

Histoplasma capsulatum
Riguarda soggetti immunodepressi.

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HIV
Nel paziente con HIV la presenza di linfoadenite è sempre preoccupante, infatti, le cause possibili sono:
- Neoplastiche
o Linfomi
o Metastasi da tumore solido
- Infezione da qualsiasi patogeno
- Linfoadenopatia diffusa persistente dovuta all’HIV stesso, tipica delle prime fasi dell’infezione
L’HIV interessa prevalentemente i linfociti T, che rappresentano la via di diffusione del virus nell’organismo,
ma a livello linfonodale sono interessati anche i macrofagi e le cellule dendritiche rappresentano il reservoir
del virus. A livello linfonodale, saranno quindi visibili la morte dei linfociti T e l’involuzione dei centri
germinativi, a causa della morte delle cellule follicolari dendritiche.
Durante l’infezione da HIV si hanno quindi più fasi:
1. Fase acuta: iperattivazione del sistema immune con sintomi generici simil-influenzali e iperplasia
follicolare florida e aspecifica
2. Fase subacuta/cronica: progressiva involuzione follicolare, fino alla completa scomparsa dei centri
germinativi, e progressiva sostituzione delle cellule follicolari dendritiche con materiale ialino
(nell’immagine in basso a sinistra sono indicate in giallo cellule dendritiche follicolari normali e in
rosso una cellula follicolare dendritica involuta che sta andando incontro a morte); si hanno anche
proliferazione dei vasi e accumulo di plasmacellule. La plasmocitosi è tipica della linfoadenite da
HIV, ma non è specifica e si riscontra anche in altre forme di linfoadenite.
Infine, si avrà la deplezione della paracorticale, a causa della morte dei linfociti T.
3. Burnout: completa deplezione linfocitaria e sovvertimento dell’architettura istologica linfonodale.
Si hanno follicoli atrofici o assenti, centri germinativi dall’aspetto ialino, iperplasia endoteliale,
proliferazione vascolare e fibrosi (immagine in basso a destra).

Tubercolosi
La linfoadenite è la seconda manifestazione più frequente, dopo le manifestazioni polmonari, in corso di
tubercolosi. È possibile avere sia linfoadenite singola che linfoadenite generalizzata/diffusa e la presenza o
l’assenza della necrosi caseosa dipende dal quadro clinico.
Il quadro istologico tipico è una lesione granulomatosa con necrosi caseosa centrale circondata da
macrofagi, cellule giganti multinucleate, linfociti e fibroblasti.
Spesso però la tubercolosi insorge in pazienti immunocompromessi e in questo caso, proprio per il deficit
immunitario, può mancare la necrosi caseosa e la diagnosi risulta più difficoltosa.
Si può utilizzare la colorazione Ziehl-Neelsen (immagine sulla destra), specifica per la tubercolosi, che se
positiva permette di confermare la diagnosi, ma in molti casi il preparato risulta negativo pertanto si
predilige il test molecolare basato su PCR per la diagnosi, che consente di ottenere i risultati in poche ore.
Altri test diagnostici sono il test con la tubercolina e l’esame colturale, che richiede però circa 3 settimane.

142
Nei pazienti immunodepressi è possibile avere
anche infezioni da micobatteri atipici che in alcuni
casi danno quadri completamente sovrapponibili
alla tubercolosi, mentre in altri danno quadri
differenti, talvolta simili ad un processo neoplastico
mesenchimale.

Gestione clinica delle linfoadeniti

Generalmente di fronte ad un quadro di linfoadenite si prescrivono antibiotici e anti-infiammatori e se


dopo 15 giorni non si ha alcun miglioramento il linfonodo va esaminato da chirurgo e poi dal patologo. Il
linfonodo va rimosso completamente dal momento che una biopsia dà informazioni parziali.

143
CLASSIFICAZIONE DEI TUMORI EMOLINFOPOIETICI

I tumori emolinfopoietici sono al 5 posto sia per frequenza che per mortalità.
Le patologie ematologiche maligne vengono classificate seguendo la gerarchia della differenziazione della
cellula staminale: neoplasie da cellule mieloidi, da cellule linfoidi e dai loro sottogruppi.
Questa trattazione riguarderà in modo più specifico i tumori che derivano da cellule linfoidi mature, ovvero
cellule fuoriuscite da timo e midollo osseo. Queste patologie sono rappresentate da leucemie e linfomi.
Il termine leucemia indica un eccesso di globuli bianchi nel sangue (leucos: bianco e emos: sangue), ma
attualmente è noto che on tutte le leucemie si associano a iperleucocitosi, infatti, possono esservi forme
accompagnate da pancitopenia.
Il termine linfoma indica invece un aumento della massa di linfociti nel tessuto linfoide, con conseguente
aumento del volume (oma:massa), ma anche in questo caso si è poi visto che vi sono linfomi che
nonostante presentino un aumentato numero di cellule, non si associano ad un aumento della massa.
Le definizioni di queste patologie sono state quindi aggiornate, alla luce delle nuove evidenze: quando si
parla di leucemie si fa riferimento a neoplasie che hanno sede prevalentemente emato-midollare,
mentre i linfomi tendono a formare più una massa solida; si possono comunque avere leucemie con
poche cellule in circolo e linfomi leucemizzati.

Tra le malattie ematologiche i linfomi sono i più frequenti e sono classificabili in due macro-categorie:
linfomi Hodgkin e linfomi non-Hodgkin; questi ultimi sono più numerosi.
La prevalenza dei linfomi è maggiore in Asia, mentre il tasso di incidenza è maggiore in Europa e USA; in
Africa si ha probabilmente una sottostima dei casi per mancata diagnosi a causa dell’assenza
dell’immunoistochimica, che risulta fondamentale nelle patologie ematologiche.
Il picco di incidenza dei linfomi è intorno ai 60 anni, ma vi sono delle eccezioni, ad esempio il linfoma di
Hodgkin presenta un picco di incidenza intorno ai 25-30 anni e il linfoma linfoblastico è tipico dell’età
pediatrica.

La classificazione dei tumori emolinfopoietici è stata cambiata più volte nel corso degli anni; la attuale
classificazione WHO tiene conto del significato clinico, della lesione genetica, del risvolto biologico, della
morfologia e dell’immmunofenotipo delle diverse neoplasie. Nonostante l’elenco delle diverse entità sai
cospicuo, molto spesso si usa il medesimo schema terapeutico per trattare tumori differenti; tuttavia in
alcuni casi è possibile applicare una terapia specifica. La definizione della specifica entità clinico-patologica
permette anche di definire la prognosi della malattia.

La formulazione di una corretta diagnosi di linfoma necessita quindi dell’integrazione di diverse


informazioni:
- Dati clinici e informazioni radiologiche
- Morfologia, sia su preparato istologico che su preparato citologico
- Immunofenotipo, ottenuto tramite immunoistochimica su preparato istologico o citoflurimetria su
preparato di cellule fresche
- Genetica molecolare, indagata tramite citogenetica su metafisi (osservazione al microscopio dei
cromosomi), FISH e studi di genomica avanzata
Per quanto riguarda i linfomi la diagnosi è istopatologica, mentre per alcune leucemie la diagnosi può
basarsi su clinica ed esami ematologici.
Morfologia e clinica vanno sempre considerate insieme, infatti, alcune patologie sono analoghe dal punto di
vista morfologico o immunofenotipico, ma l’approccio terapeutico e la prognosi variano notevolmente in
base a dati clinici, come la sede della lesione o la presenza di una lesione localizzata o sistemica.

I linfomi vengono classificati in base alla cellula di origine e alla controparte normale, pertanto è
importante conoscere gli stadi differenziativi dei linfociti.
Con il termine cellula di origine non ci si riferisce alla cellula da cui ha avuto inizio il processo tumorale,
poiché ciò non è definibile, ma si fa riferimento alla cellula cui la neoplasia somiglia, ovvero alla controparte

144
normale. Il sistema emolinfopoietico è un sistema dinamico, liquido, in cui le cellule si muovono ed
evolvono ed essendo la cancerogenesi un processo multi-step, in cui si accumulano mutazioni successive,
non è possibile definire a che punto della catena è avvenuta la trasformazione neoplastica, ma è possibile
definire a quale tipologia normale le cellule della neoplasia somigliano maggiormente (ciò non toglie che il
tumore abbia avuto origine a livelli precedenti della catena differenziativa).
La cellula di origine possono essere linfociti T o B:
- Dai precursori derivano le leucemie acute linfoblastiche e il linfoma linfoblastico: si tratta della
medesima entità clinico-patologica, ma nella leucemia si ha un interessamento massivo del midollo
e del sangue periferico, mentre nel linfoma si formano masse al di fuori del distretto midollare
- Dalle cellule mature, dette anche periferiche, derivano i linfomi, Hodgkin e non-Hodgkin

Linfomi indolenti e aggressivi

Dal punto di vista clinico è possibile suddividere i linfomi in due grandi categorie: linfomi indolenti e linfomi
aggressivi.
I linfomi indolenti sono linfomi che anche se non trattati consentono comunque una sopravvivenza di
diversi anni e pertanto non richiedono una chemioterapia immediata; tra i linfomi indolenti si hanno:
linfoma follicolare, linfoma della zona marginale, linfoma a piccoli linfociti, leucemia linfatica cronica,
linfoma linfoplasmocitico, leucemia a cellule capellute e molti linfomi cutanei.
I linfomi aggressivi presentano segni e sintomi evidenti e se non trattati portano ad exitus in settimane o
mesi, pertanto richiedono l’immediata attuazione del programma terapeutico. Tra i linfomi aggressivi
rientrano: linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso, linfoma a cellule B di alto grado, linfoma mantellare,
linfoma di Burkitt, molti linfomi nodali a cellule T e le forme linfoblastiche.
I linfomi aggressivi rispondono bene alla chemio-immuno-terapia e sono quindi guaribili, mentre i linfomi
dolenti sono più difficili da eradicare e nel corso della loro progressione possono andare incontro a
trasformazione in linfoma aggressivo.
Un linfoma indolente può quindi trasformarsi, a causa dell’acquisizione di ulteriori mutazioni, in linfoma
aggressivo, detto linfoma aggressivo secondario: si tratta solitamente di un tumore più aggressivo e di
difficile eradicazione dal momento che spesso si sommano mutazioni che determinano resistenza alla
chemioterapia.

Fattori prognostici

Il fattore prognostico più importante per i linfomi è il sottotipo istologico, mentre nei tumori solidi il
fattore prognostico principale è la stadiazione TNM.
Per la stadiazione dei linfomi, che rappresenta comunque un importante fattore prognostico, si usa il
sistema di stadiazione di Ann Arbor che identifica quattro stadi:
- Stadio 1 → è interessata una sola stazione linfonodale, non importa il numero di linfonodi coinvolti
in quella singola stazione
- Stadio 2 → sono coinvolte due stazioni linfonodali, localizzate entrambe al di sopra o entrambe al
di sotto del diaframma
- Stadio 3 → interessate stazioni linfonodali sia sopra che sotto il diaframma
- Stadio 4 → si ha l’interessamento extra-linfoghiandolare, che interessa in primo luogo il midollo
osseo, poi altri tessuti.
Fanno eccezione i tumori extra-nodali, ad esempio un linfoma esclusivamente cutaneo non è uno
stadio 4.

145
PATOBIOLOGIA DEI LINFOMI

EZIOLOGIA

Nel 75% dei casi l’eziologia del linfoma rimane sconosciuta; nei restanti casi l’eziologia è riconducibile a:
agenti infettivi, come virus e batteri, traslocazioni cromosomiche, fattori ambientali, come l’esposizione a
pesticidi o altre sostanze chimiche e chemio- radio- terapia per neoplasie precedenti, immunodeficienza,
infiammazione cronica e malattie autoimmuni. Tutte queste situazioni comportano una stimolazione
antigenica cronica.

Agenti infettivi

Si è visto che alcuni batteri sono coinvolti nella patogenesi dei linfomi MALT, ovvero del tessuto linfoide
associato alle mucose:
- H. Pylori → linfoma MALT dello stomaco
L’infezione da H. Pylori rappresenta un classico esempio di stimolazione antigenica cronica e lo
sviluppo del linfoma passa attraverso due fasi: una prima fase antigene dipendente, in cui è indotta
la proliferazione delle cellule, e una seconda fase antigene indipendente; se si interviene con
terapia antibiotica durante la fase antigene dipendente e si eradica il batterio si ottiene la
regressione del linfoma.
- Clamidia psittacci → MALT oculare
- Borrelia burgdorferi → MALT cutaneo
Anche diversi virus possono causare linfoma, in maniera diretta o indiretta:
- Epstein Barr virus → è associato a diverse neoplasie ematologiche, come linfoma di Burkitt,
linfoma di Hodgkin classico, linfoma diffuso a grandi cellule, post transplant lymphoproliferative
disease e alcuni linfomi T cellulari. EBV è un virus B-tropo, ovvero infetta i linfociti B, ma in alcuni
casi infetta anche i linfociti T, soprattutto nei soggetti con deficit immunitario.
Il ruolo patogenetico varia ed è più o meno chiaro a seconda della neoplasia, ad esempio nel
linfoma di Hodgkin il virus induce l’espressione delle onco-proteine MP1 e MP2, mentre nel linfoma
di Burkitt agisce attraverso microRNA virali.
EBV entra nelle cellule, ma non si integra al genoma: rimane in forma episomica e si replica ad un
proprio ritmo. In alcuni casi di linfoma è possibile che al momento della diagnosi il virus non sia più
identificabile, questo perché esso si replica più lentamente rispetto alle cellule tumorali e viene
“diluito” al loro interno (fenomeno detto “hit and run”).
- Virus dell’epatite C → causa linfocitosi monoclonale e linfomi della zona marginale, nodali e
splenici; agisce attraverso la stimolazione antigenica cronica.
- Virus HHV8 → causa alcune forme di linfoma diffuso dette PEL, ovvero tumori associati ad
effusione, dal momento che si associano a versamento sieroso
- Virus HTLV1 → è endemico in estremo oriente e causa leucemia e linfoma a cellule T nell’adulto
- HIV → associato a linfoma a grandi cellule B diffuso, linfoma di Burkitt e linfoma Hodgkin classico; il
meccanismo patogenetico si basa sull’immunosoppressione.

Malattie autoimmuni

Diverse malattie autoimmuni sono associate allo sviluppo di linfoma, che insorge tipicamente nella sede
colpita; esempi ne sono la sindrome di Sjogren, la tiroide di Hashimoto, il lupus e la celiachia, quest’ultima
determina solitamente linfomi a cellule T, mentre le altre malattie sono associate a linfomi a cellule B.
Il meccanismo patogenetico, sia in caso di malattia autoimmune che in caso di infiammazione cronica, si
basa sulla stimolazione antigenica cronica, che può essere determinata anche da agenti infettivi.
La stimolazione antigenica cronica porta ad una espansione dei linfociti, prima oligoclonale poi
monoclonale: man mano che la stimolazione prosegue vengono selezionati cloni sempre più specifici,
ovvero quelli che rispondono meglio all’antigene, fino ad arrivare ad una popolazione monoclonale.

146
La popolazione selezionata diviene indipendente dal micro-ambiente, si sommano mutazioni e traslocazioni
e si ha lo sviluppo della neoplasia.

Immunosoppressione

L’immunosoppressione esalta il meccanismo di stimolazione antigenica cronica, favorendo l’insorgenza del


linfoma, dal momento che per un sistema immunitario indebolito risulta difficile debellare l’infezione;
inoltre, in caso di immunosoppressione possono riattivarsi infezioni virali latenti, come quella da EBV.
Infine, la riduzione dell’immunosorveglianza potrebbe permettere ad un eventuale clone emergente, non più
controllato, di emergere come clone neoplastico.

Farmaci che causano linfomi

I farmaci maggiormente correlati all’insorgenza di linfomi sono i chemioterapici, come il metotrexato, ma


sembra che lo siano anche gli anticorpi monoclonali, soprattutto quelli diretti contro le citochine pro-
infiammatorie. Questi farmaci sono associato allo sviluppo di linfoma, anche a breve termine, attraverso un
meccanismo non del tutto chiaro, ma nel quale sembra implicata l’interferenza con il sistema immunitario.

PATOGENESI MOLECOLARE

Le lesioni genetiche che più frequentemente portanto all’insorgenza di linfoma sono traslocazioni e
mutazioni puntiformi. Le mutazioni puntiformi avvengono tipicamente mediante ipermutazioni somatiche,
mentre le traslocazioni possono portare a due esiti:
- La sequenza di un protooncogene a causa di una traslocazione viene a trovarsi sotto il controllo
della sequenza regolatoria, promotore o enhancer, di un altro geno altamente espresso, come un
gene codificante per le catene pesanti o leggere delle immunoglobuline. In questo modo un gene
normalmente silenziato in determinate fasi dello sviluppo cellulare risulta invece
costitutivamente attivo. Esempi ne sono BCL2, espresso costitutivamente nel linfoma follicolare, e
la ciclina D1 nel linfoma mantellare.
- In seguito alla traslocazione due geni, o parti di essi, si trovano appaiati e si forma un gene di
fusione che codifica per una proteina ibrida. Tale proteina ibrida può avere caratteristiche miste o
può esaltare la funzionalità di una delle due proteine codificate dai geni appaiati; si possono, ad
esempio, ottenere chinasi costantemente attive. In altri casi uno dei due geni consente all’altro di
localizzarsi dove non dovrebbe, ad esempio nel citoplasma, fungendo quindi da “vettore”.
Un esempio di proteina ibrida nei linfomi è ALK, anaplastic lymphoma kinasi, tirosin-chinasi che
risulta costitutivamente attiva; la presenza della proteina ALK, descritta in un tipo di linfoma a
cellule T, correla con una prognosi migliore dal momento che rende la malattia sensibile alla terapia
con inibitori specifici.
Oltre alle modifiche genetiche giocano un ruolo importante anche le alterazioni epigenetiche, quindi
metilazione e acetilazione del DNA e produzione di micro-RNA; le alterazioni epigenetiche rappresentano
dei nuovi target terapeutici e sono state approvate nuove terapie che interferiscono con questi sistemi e
presentano meno effetti collaterali, dal momento che agiscono solo sulle cellule neoplastiche.

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LINFOMA FOLLICOLARE

Detto anche linfoma centrofollicolare, rappresenta il 29% dei casi di linfoma non-Hodgkin: negli stati uniti
è al primo posto come incidenza tra i linfomi non-Hodgkin, mentre in Europa è al secondo posto, dopo il
linfoma diffuso. L’età media di insorgenza è 59 anni, ma l’incidenza è in netto aumento anche tra i giovani
adulti, sebbene rimanga meno comunque in questo caso; è raro nei bambini. Colpisce maggiormente il
sesso maschile, con un rapporto M:F di 2:1.
Si tratta di un linfoma indolente che interessa i linfonodi in maniera diffusa, la milza e il midollo osseo;
l’aspettativa di vita è generalmente superiore ai 10 anni, ma nel 20% dei pazienti la progressione della
malattia diviene critica entro due anni dalla diagnosi (questi pazienti sono oggetto di studio biologico).

Terapia

Si somministra una polichemioterapia e un anticorpo monoclonale diretto contro uno dei bersagli di
superificie, in particolare CD20; nei pazienti con più di 70 anni si somministra un singolo farmaco, la
r-bendamustina, che sembra avere ottimi risultati.
La terapia ha lo scopo di allungare la sopravvivenza del paziente: il linfoma follicolare è una patologia con
una sopravvivenza mediana lunga, ma un tasso di guarigione ridotto.

Diagnosi

Istologicamente solitamente è interessato l’intero linfonodo, con


un pattern morfologico prevalentemente follicolare (il linfoma
tende a riprodurre il follicolo secondario, ma i follicoli risultano
presenti in tutto il linfonodo, non solo nella corticale): i follicoli
sono visibili a piccolo ingrandimento e risultano omogenei nelle
dimensioni, ma irregolari nella forma (in un linfonodo reattivo
normale si ha una variabilità di forma e dimensione tra i diversi
follicoli); spesso i follicoli presentano una morfologia back to back,
ovvero tendono a toccarsi e i mantelli tendono a fondersi tra loro.
Inoltre, essendo la crescita cellulare disorganizzata e le cellule
frammiste tra loro, non è mai presente polarizzazione tra
centroblasti e centrociti (presente invece nel linfonodo normale).
Talvolta si ha anche lo sconfinamento dei follicoli neoplastici nella
capsula e nel tessuto adiposo pericapsulare.
Nelle immagini a lato si ha il confronto tra un linfonodo reattivo (1)
e un linfoma follicolare (2).

Il pattern follicolare tende a diventare, con la progressione della


patologia, prima follicolare-diffuso e successivamente (5% dei casi)
completamente diffuso, caratterizzato da un tappeto di cellule.
Il linfoma follicolare predilige il circolo ematico come sistema di
diffusione: infiltra i piccoli vasi e ciò può portare ad ischemia e necrosi,
a causa della formazione di tappi cellulari.
In alcuni casi si può riscontrare una morfologia sclerosante del
linfonodo, detta sclerosi di Bannett, che può far pensare ad una
metastasi dal momento che è frequente nei carcinomi e rara nei linfomi,
tranne che nel linfoma follicolare.
Va tenuto presente che nei linfomi le cellule neoplastiche non
presentano irregolarità o anormalità che consentono di distinguerle
dalle cellule sani, pertanto eseguire un agoaspirato non dà alcuna
informazione diagnostica ed è sempre necessaria la biopsia escissionale.

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Sulla base della citologia è possibile definire i gradi di malattia:
- Grado 1-2 → < 15 centroblasti in un campo ad alto ingrandimento
- Grado 3a → > 15 centroblasti in un campo ad alto ingrandimento
- Grado 3b → solo centroblasti
Generalmente più le cellule proliferano più la neoplasia è aggressiva e meglio risponde alla terapia, tuttavia
nel linfoma follicolare si ha una commistione di cellule e nonostante siano presenti moltio centroblasti, ad
alta proliferazione, vi sono sempre frammisti centrociti resistenti alla terapia; pertanto la risposta alla
terapia è complessivamente la medesima nei diversi gradi. Inoltre, è probabile che studiando più biopsie
del medesimo paziente si assegnino gradi differenti ai differenti vetrini, quindi non sempre si è precisi
nell’assegnazione del grado.
È importante però sapere che in presenza di un grado 3 si ha una proliferazione aumentata ed è
necessario iniziare subito la terapia.

Dal punto di vista immunofenotipico essendo una neoplasia derivante dai linfociti B saranno positivi i
marcatori CD19, CD20, CD22 e CD79a, mentre saranno negativi CD3 e CD5, tipici dei linfociti T. Per ognuno
di questi marcatori esiste un farmaco specifico. Oltre ai marcatori dei linfociti B è importante identificare i
marcatori del centro germinativo, CD10 e BCL6; tipica del linfoma è la positività a CD10 anche fuori dal
centro germinativo. BCL6 è espresso anche dai linfociti T-helper follicolari, quindi non può essere usato
come marker diagnostico, mentre CD10 è espresso solo dalle cellule del centro germinativo, quindi può
essere usato come marker diagnostico.
Altre cellule fisiologicamente presenti nel centro germinativo sono le cellule follicolari dendritiche,
identificabili grazie a CD21, CD23 e CD35. Quando il pattern del linfoma inizia ad essere diffuso è possibile
vedere cellule neoplastiche sparse e noduli costituiti da cellule follicolari dendritiche: questo indirizza verso
l’origine centrofollicolare.
È poi necessario analizzare se le cellule sono proliferanti o meno e per farlo si usa Ki67: esso dà una idea
della quantità di centroblasti presenti, quindi del tempo che si ha a disposizione prima di dover iniziare il
trattamento.

Negli stadi iniziali la diagnosi è difficile poiché il linfonodo neoplastico è praticamente uguale ad un
linfonodo normale, pertanto è necessario identificare una caratteristica univo della neoplasia: BCL2, con
effetto anti-apoptotico, è normalmente assente nei centri germinativi, mentre è presente nel 90-95% dei
linfomi follicolari, espresso da cellule neoplastiche del centro germinativo.
BCL2 è espresso in seguito alla traslocazione (14;18): tale traslocazione porta il gene BLC2, presente sul
cromosoma 18, sotto il controllo delle sequenze che regolano il gene codificante per le catene pesanti delle
immunoglobuline, presente sul cromosoma 14.
BCL2 è importante non solo per la diagnosi, ma anche per la valutazione della malattia minima residua,
ovvero per verificare se sono ancora presenti cellule neoplastiche dopo il trattamento, e rappresenta anche
un possibile bersaglio terapeutico (usato come bersaglio terapeutico soprattutto in altre forme tumorali,
non nel linfoma follicolare).
BCL2 può essere evidenziato tramite immunoistochimica e solitamente ciò avviene usando 3 anticorpi
diversi, che riconoscono tre epitopi diversi in modo da aumentare la sensibilità (la traslocazione presenta
siti di rottura variabili) o si ricorre alla FISH.

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Va tenuto presente che fino al 10% dei soggetti sani, soprattutto sono i 60 anni, presentano linfociti con
traslocazione (14;18) nel sangue periferico; in questo caso la mutazione è silente, ma è possibile che si
sommino altre alterazioni che portano poi alla trasformazione in linfoma.

Il 5-10% dei linfomi follicolari risulta negativo a BLC2 e pertanto difficile da diagnosticare; questi tumori
presentano solitamente un indice proliferativo medio e l’espressione di IRF4/MUM1 e sono caratterizzati
da delezioni o riarrangiamenti del cromosoma 1. I linfomi follicolari BCL2-negativi tendono a proliferare più
rapidamente e ad essere di alto grado; spesso presentano lesioni geniche che interessano BLC6.

Un caso particolare, che potrebbe dare problemi, è il linfoma della zona marginale nodale del linfonodo
perché parte dalla zona marginale, ma quando andrà a colonizzare il centro germinativo verranno espressi
anche BCL6 e CD10 quindi è un tumore diverso che però simula il linfoma follicolare.

Nel linfoma follicolare intervengono anche altre lesioni geniche:


- I recettori delle interleuchine risultano costantemente attivi
- I recettori tipici delle cellule emopoietiche risultano sempre attivi
- I recettori B-cellulari possono essere attivati da diverse mutazioni
Queste mutazioni portano all’attivazione di NF-kB, fattore di trascrizione che stimola sopravvivenza e
proliferazione cellulare.
Il linfoma follicolare riceve segnali dal microambiente e recenti evidenze suggeriscono che la prognosi vari
in base al tipo di microambiente. Probabilmente i linfociti T-helper, attraverso il segnale CD40, forniscono
un supporto alle cellule neoplastiche e ne favoriscono la sopravvivenza: i tumori che presentano una quota
maggiore di cellule T presentano una prognosi migliore, infatti, si tratta di neoplasie che necessitano del
supporto del microambiente e quindi di cloni di per sé più deboli (un clone che sopravvive anche in un
ambiente ostile, senza un microambiente adeguato a supporto, è un clone più forte e aggressivo che spesso
non risponde in maniera adeguata alla terapia).

Trasformazione in linfoma aggressivo

La trasformazione in linfoma aggressivo avviene tramite mutazioni tipicamente presenti nel linfoma diffuso:
- Mutazioni o delezioni di p53
- Mutazioni di BCL6
- Riarrangiamento di MYC
- Mutazioni che riguardano il controllo dell’apoptosi, il rimodellamento della cromatina, la
regolazione del ciclo cellulare, il controllo di NF-kB, ecc.
La trasformazione avviene solitamente con evoluzione divergente: la cellule progenitrice con la
traslocazione (14;18) acquisisce direttamente le mutazioni tipiche del linfoma diffuso.
I linfomi tendono inoltre a sfuggire al sistema immunitario, alterando molecole che solitamente vengono
riconosciute dai linfociti T citotossici.

Evoluzione diretta: dapprima una cellula acquisisce le mutazioni per cui assume il fenotipo del linfoma
follicolare (indolente). Questa cellula in un secondo momento acquisisce anche le mutazioni del fenotipo
trasformato (aggressivo) e si seleziona essendo resistente alle terapie.
Evoluzione divergente: una cellula acquisisce direttamente alcune mutazioni che le fanno acquisire un
fenotipo trasformato, senza passare per la forma indolente

Varianti del linfoma follicolare

Esistono forme particolari di linfoma follicolare:


- Linfoma follicolare con coinvolgimento parziale dei linfonodi
- Linfoma follicolare pediatrico
- Linfoma follicolare cutaneo primario

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- Linfoma follicolare duodenale
Queste varianti presentano clinica, evoluzione e prognosi differenti.

LINFOMA FOLLICOLARE IN SITU

È in realtà detto neoplasia follicolare in situ, non più linfoma, dal momento che ha natura benigna.
Il preparato patologico presente una popolazione esigua di cellule BCL2+ che rimangono all’interno del
follicolo, senza invade le strutture extra-follicolari e l’organismo. In questo caso quindi la biopsia
escissionale è sia diagnostica che terapeutica e il rischio di evoluzione è minimo.

LINFOMA FOLLICOLARE DUODENALE

È diagnosticato occasionalmente in corso di esofagogastroduodenoscopia eseguita per altri motivi, infatti,


non è sintomatico e tende a rimanere localizzato a lungo. Si ipotizza una correlazione con l’infezione da H.
Pylori, dal momento che il riarrangiamento delle immunoglobuline è simile a quello che si riscontra nel
linfoma marginale correlato al batterio, ma non è certo.
Questa forma a una prognosi eccellente dal momento che risponde in maniera ottimale alla chemioterapia
o agli anticorpi monoclonali.
La mucosa in cui è presente la lesione si presenta con aree biancastre sulla superficie; alla biopsia la
mucosa presenta un cospicuo infiltrato infiammatorio costituito prevalentemente da linfociti B (solo un
5% di linfociti T) che risultano positivi sia a BCL2 che a CD10.
È da notare che l’infiltrato infiammatorio, seppur cospicuo, non invade l’epitelio, cosa che avviene invece
nel linfoma MALT.

LINFOMA FOLLICOLARE PEDIATRICO

Il linfoma follicolare classico tende a colpire soggetti con più di 60 anni, mentre questa forma si presenza in
pazienti pediatrici e tende a localizzarsi nel distretto testa-collo o nelle gonadi, in particolare a livello del
testicolo (può essere presente anche in soggetti di 20-40 anni). Si tratta di neoplasie solitamente BCL2-
negative e di alto grado (grado 3b).
Risponde bene alla chemioterapia e la prognosi è buona: la sopravvivenza a 150 mesi è del 100%.

LINFOMA FOLLICOLARE PRIMITIVO DELLA CUTE

La proliferazione è analoga a quella della forma classica, le cellule sono positive a CD10 e possono essere
positive o meno a BCL2: la diagnosi differenziale si basa sulla sede di presentazione (è solo cutaneo e
tende ad interessare soprattutto testa e tronco). La malattia tende a rimanere localizzata a livello cutaneo,
probabilmente per fenomeni di adesione, e la sopravvivenza a 5 anni è del 95%, sebbene possano essere
presenti ricadute. È fondamentale che la diagnosi differenziale sia eseguita correttamente, infatti, un
linfoma follicolare classico, sistemico, con manifestazione cutanea è un linfoma di IV stadio.

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LINFOMA A GRANDI CELLULE B DIFFUSO

Tra le varianti del linfoma a grandi cellule B diffuso, DLBCL (diffused large B cell lymphoma), la più frequente
è la NOS, ovvero “non altrimenti specificato”, quindi una categoria di linfomi in cui non si riscontrano
caratteristiche cliniche o patologiche specifiche; questa tipologia rappresenta circa il 40% di tutti i linfomi
ed è la forma più frequente di linfoma non-Hodgkin.
Il linfoma diffuso può interessare qualsiasi età, con un aumento dell’incidenza proporzionale all’età del
soggetto e un picco tra i 65 e i 75 anni.
Questo linfoma, che presenta un pattern architetturale diffuso, con sovvertimento della struttura del
tessuto coinvolto da parte di cellule di grandi dimensioni (diametro > 20 micrometri), può essere primitivo
o secondario, ovvero derivante dalla trasformazione di un linfoma indolente o un linfoma di Hodgkin. La
forma secondaria di per sé non avrebbe prognosi peggiore, ma si tratta di un tumore che insorge in un
paziente già sottoposto a chemioterapia e alcuni farmaci chemioterapici, come le antracicline, hanno una
dose cumulativa massima somministrabile: se il paziente è già stato trattato con tale dose non può essere
ri-sottoposto al trattamento, pertanto la forma secondaria ha prognosi peggiore.
Nel 60% dei casi si ha una forma nodale, mentre nel 40% dei casi sono coinvolti altri organi, come
intestino e polmoni; il coinvolgimento intestinale è frequente e clinicamente temibile, infatti, vi sono forme
che infiltrano la parete dell’organo a tutto spessore e in seguito a chemioterapia possono lasciare un
“buco” nell’organo, con conseguente rischio di perforazione, ecco perché la terapia inizialmente è ben
controllata e limitata.
La possibilità di guarigione è del 60% con una terapia standard, che prevede 4 chemioterapici e un
anticorpo monoclonale anti-CD20 somministrati ogni 3 settimane.

Classificazione morfologica

Le varianti morfologiche non sono importanti da un punto di vista clinico, ma lo sono per la diagnosi
differenziale con altre patologie.
Il quadro più comune prevede la presenza di cellule polimorfe e di grandi dimensioni, senza un citotipo
specifico. Si attribuisce una nomenclatura specifica nel momento in cui più della metà delle cellule presenta
le medesime caratteristiche.
Nella variante centroblastica si hanno cellule di grandi dimensioni con nucleolo grande e cromatina aperta.
Nella variante multilobata le cellule presentano un nucleo convoluto e sembrano multinucleate.
La variante immunoblastica presenta cellule con nucleo eccentrico, nucleolo evidente con cromatina
aperta a ruota di carro e citoplasma lievemente basofilo e risulta difficile da distinguere dalla variante
plasmacellulare, che rappresenta il grado differenziativo successivo.
La variante anaplastica è insidiosa perché in caso di interessamento extra-nodale può essere scambiata con
un carcinoma anaplastico.
Vi sono poi varianti che somigliano a tumori epiteliali: variante epitelioide, variante a cellule chiare,
variante a cellule con castone.

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Immunoistochimica

I marcatori classici delle cellule B sono CD19, CD20, CD22 e CD79; i marcatori plasmacellulari, importanti
per differenziare forme immunoblastiche da forme plasmacellulari, sono CD138 e BRF4.
CD30 è il marcatore tipico del linfoma di Hodgkin, ma può anche essere espresso nella variante anaplastica
(in questo caso tuttavia la diagnosi differenziale non è complessa, ma deve tenere in considerazione anche
il linfoma T a grandi cellule anaplastiche). Si valuta anche l’indice proliferativo, Ki67, che tipicamente è
compreso tra 30% e 99%; se raggiunge il 100% si tratta probabilmente di un linfoma di Burkitt.
Per distinguere le forme anaplastiche e le forme simil-epitelioidi si può ricorrere al marcatore CD45,
antigene comune leucocitario espresso esclusivamente dalla filiera ematopoietica.
Un altro aspetto caratteristico è la restrizione monotipica: in una popolazione non tumorale sono espresse
sia le catene κ che le catene λ, con prevalenza di catene κ, mentre in una popolazione tumorale si
rinvengono solo catene λ.
Va tenuto presente che dopo una terapia con anti-CD20, come il Rituximab, non ci si può basare sulla
ricerca di tale marcatore per valutare la risposta alla terapia: le cellule tumorali sono estremamente abili
nella down-regolazione di antigeni svantaggiosi, pertanto si rischierebbe un errore prognostico. Nei pazienti
trattati con anti-CD20 e con una ricaduta si ricorre quindi ad altri marcatori, come CD79a e CD22.

Classificazione molecolare e genotipica

Grazie alla metodica a microarray è possibile distinguere i linfomi diffusi in due gruppi, sulla base
dell’espressione genica:
- Linfoma diffuso a grandi cellule tipo centro germinativo, GCB: si tratta di forme con BCL6 attivo
- Cellule B attivate del sangue periferico, ABC: si è successivamente scoperto che si tratta di cellule
che evolvono verso il plasmablasto, ma si è conservato il nome; le cellule di questi linfomi
esprimono infatti IRF4 e sono indotte verso il differenziamento a plasmacellule
La forma germinal center presenta un tasso di guarigione dopo 5 anni molto alto, mentre la forma activated
B cell type presenta una sopravvivenza a 5 anni del 20%. Un 15-30% dei casi non è classificabile.
Si è cercato di riprodurre la medesima classificazione tramite immunoistochimica, visto che lo studio
microarray è una metodica difficile, ma essa non si è rilevata altrettanto specifica; un buon compromesso è
la metodica Nanostring, che grazie all’ibridizzazione dell’RNA riesce a ricercare 18 geni e a classificare le
forme di linfoma diffuso (l’altra metodica microarray valuta 25.000 geni).
Dal punto di vista immunoistochimico le forme CGB tendono ad essere CD10+ e BLC6+, mentre le forme ABC
sono IRF4+, CD138+, CD10- e BCL6-.
Dal punto di vista genetico le forme ABC e GCB hanno sia lesioni in comune che lesioni specifiche.
Geni di grande interesse sono i B-cell Receptors, che confluiscono nel pathway di Nf-KB: dal punto di vista
terapeutico è possibile inibire tirosin-chinasi coinvolte in questa via di trasduzione del segnale o inibire a
valle di Nf-KB. I linfomi ABC presentano la via di Nf-KB costantemente attiva, pertanto questa terapia risulta
particolarmente efficace.

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Vi sono anche forme che presentano mutazioni o delezioni di p53, condizione che correla con una prognosi
peggiore dal momento che implica forme di chemio-resistenza.
Sono poi possibili diverse mutazioni a carico di BCL6, che risulta quindi insensibile all’azione di IRF4 e
rimane costantemente attivo e cellule permangono nel centro germinativo.
Nel 15% dei linfomi diffusi si hanno traslocazioni di Myc, che portano ad una prognosi peggiore dal
momento che l’aumento della proliferazione facilita l’insorgenza di mutazioni vantaggiose per le cellule
tumorali.
Anche la mutazione di BCL2, presente nel 20-30% dei linfomi diffusi, correla con una prognosi peggiore dal
momento che le cellule tumorali presentano una minore proliferazione e sono quindi più resistenti alla
terapia. Mentre nel linfoma follicolare la mutazione di BCL2 è una mutazione driver, ovvero iniziante la
trasformazione tumorale, nel linfoma diffuso si tratta di un evento secondario.

High grade B-cell lymphoma

Gruppo di neoplasia derivanti da cellule B mature non classificabili né come DLBCL-NOS né come linfoma di
Burkitt. Se ne distinguono due entità:

High grade B-cell lymphoma non altrimenti specificata (NOS)


Le caratteristiche sono quelle del linfoma diffuso, ma presenta una morfologia particolare, che può essere
Burkitt-like, intermedia tra Burkitt e diffuso e blastoide (le cellule risultano parzialmente attive, ma di
grandi dimensioni, pertanto ricordano cellule immature, sebbene non possano essere definite come tali).
Tale morfologia correla con una prognosi molto sfavorevole. Si tratta di forme rare che interessano
soprattutto i soggetti anziani, senza differenza di incidenza tra i due sessi.
Queste forme tendono ad esprimere in maniera variabile i marcatori del centro germinativo e i marcatori di
uscita dal centro germinativo, anche se spesso tendono ad essere di tipo GCB.
Non è mai presente la traslocazione Myc + BCL2, altrimenti si ha una forma a doppio hit.
Nell’immagine a lato si osserva una morfologia simil-
Burkitt: le cellule ricordano il linfoma di Burkitt poiché
presentano una cromatina reticolare, ma il linfoma di
Burkitt vero e proprio risulta maggioremente
monomorfo.
Nell’immagine in basso a sinistra si ha una morfologia
intermedia, con cellule di medie dimensioni, più piccole
rispetto al linfoma diffuso; nell’immagine in basso a
destra si ha una morfologia blastoide con cellule di
medie dimensioni e cromatina punteggiata.

High grade B-cell lymphoma con riarrangiamenti/traslocazioni di BCL2 e/o BCL6 (doppio o triplo hit)
La doppia traslocazione Myc/BLC6 definisce i linfomi double hit, quindi linfomi a doppia traslocazione, e
correla con caratteristiche di particolare aggressività.
La doppia traslocazione MyC/BLC2 è più frequente di Myc/BCL6 ed è propria del linfoma centro-follicolare.
Di parla di triple-hit se sono presenti traslocazioni di MyC/BCL2/BCL6.

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Essendo una classificazione genetica, non di espressione, viene eseguita tramite FISH, non tramite
immunoistochimica.
Queste forme possono essere sia primitive che secondarie, ad esempio possono derivare da linfoma
follicolare, che presenta la traslocazione di Myc. Sono forme rare che interessano maggiormente il sesso
maschile e presentano due picchi di incidenza, uno intorno ai 30 anni e uno intorno ai 60 anni.
Si tratta di forme particolarmente aggressive che si presentano sempre in stadio avanzato, con
localizzazione sia nodale che extra-nodale, soprattutto a carico di midollo osseo e sistema nervoso centrale.
Dal punto di vista genetico, infatti, Myc induce proliferazione e BCL2 inibisce l’apoptosi: è una delle
combinazioni geniche peggiori.
Circa il 50% dei pazienti presenta una morfologia Burkitt-like: i nuclei sono piccoli, si ha un pattern di
crescita coesivo, con cellule più vicine rispetto a quelle del linfoma diffuso, e cromatina reticolare, ma si ha
un aspetto polimorfo, tipico del linfoma diffuso. In altri casi si ha una morfologia blastoide.
Il restante 50% dei pazienti presenta una morfologia a linfoma diffuso a grandi cellule B NOS e in questo
caso la diagnosi si basa solo sulla rilevazione delle traslocazioni.
L’immunofenotipo è molto spesso simile al tipo germinal center, con positività di CD10 e BCL6 (75-90% dei
casi), ma nel 20% dei casi circa si ha positività di IRF4; Ki67 è sempre molto elevato.
Le forme double-hit presentano un cariotipo complesso e vi possono essere anche mutazioni di p53 e
MyD88, che rendono il linfoma ancora più aggressivo.
Questi tumori sono intrinsecamente resistenti alla terapia convenzionale R-CHOP, pertanto la terapia
viene intensificata: la si esegue ogni settimana, invece che ogni 3, con dosi aumentate.

Linfomi double-expressor
Si tratta di linfomi che esprimono sia BCL2/BCL6 che Myc, ma non a causa di traslocazioni; a rigor di logica
si dovrebbe avere il medesimo effetto che nei tumori double-hit, ma si è visto che si ha una differenza
prognostica. Le classificazioni basate su biologica molecolare inseriscono i double-expressor tra i linfomi
diffusi “normali”, non rappresentano una sottocategoria a sé stante, ma la doppia espressione
rappresenta solo un fattore prognostico. Queste forme presentano una prognosi severa e richiedono un
trattamento differente rispetto a quello convenzionale.
Il professor Leoncini ha dimostrato che esiste una correlazione tra espressione e traslocazione di Myc: se
l’espressione è maggiore al 70% allora probabilmente si ha una traslocazione, mentre se è minore
probabilmente la traslocazione non è presente.

Algoritmo diagnostico
1. Morfologia → blastoide, intermedia, Burkitt-like o chiaramente diffusa
2. Immunoistochimica
3. FISH → la si esegue in caso di morfologia blastoide, morfologia intermedia e morfologia
francamente diffusa con indice proliferativo elevato

VARIANTI DEL LINFOMA DIFFUSO A GRANDI CELLULE

Linfoma plasmoblastico

Si tratta di un linfoma raro, ma comune nei pazienti HIV+ o immunodepressi, nei quali tende a localizzarsi
nelle mucose del cavo orale e della rinofaringe.
Dal punto di vista morfologico è costituito da immunoblasti, ovvero linfociti B attivati nel centro
germinativo che differenziano in plasmacellule: si ha una riduzione dei marcatori tipici dei linfociti B, come
CD20, e un aumento dei marcatori plasmocellulari (CD138, CD38 e IRF4). Nei pazienti immunodepressi si
osserva una maggiore differenziazione plasmocitica e uno stadio più avanzato.
Gli immunoblasti, solitamente mononucleati, crescono in maniera diffusa nel tessuto e spesso formano dei
cluster, degli aggregati.
La diagnosi differenziale deve tener conto del linfoma diffuso con variante immunoblastica e delle
neoplasie plasmacellulari; inoltre, è importante considerare che la down-regolazione dei marcatori B-

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cellulari e l’espressione dei marcatori plasmacellulari non è sempre così evidente pertanto questi tumori
sono spesso mis-diagnosticati. Queste forme sono anche spesso confuse con carcinomi scarsamente
differenziati, sarcomi non differenziati e metastasi di melanoma.
Dal punto di vista genetico si riscontra il riarrangiamento di Myc nel 50% dei casi e l’integrazione di EBV
DNA nei 60% dei casi, infatti, questo gruppo di tumori è spesso associato all’infezione da virus di Epstein-
Barr o talvolta da virus HHV8.
Vista l’aggressività della neoplasia, la difficoltà diagnostica e la difficoltà del trattamento, dovuta al fatto
che spesso i pazienti sono immunocompromessi, si ha una prognosi sfavorevole.
Linfoma plasmoblastico, linfoma diffuso a grandi cellule HHV8+ e primayi effusion lymphoma sono le tre
varianti del linfoma plasmoblasto.

Linfoma a versamento primitivo – Primary effusion lymphoma

Si tratta di una neoplasia tipica di pazienti HIV+ o immunodepressi che si manifesta con versamenti nelle
cavità sierose, quindi pleura, pericardio e peritoneo, in assenza di masse tumorali. È associato ad infezioni
da EBV e HHV8. La morfologia è di tipo linfoblastico e spesso le cellule esprimono CD30.

Linfoma diffuso HHV8+

Si tratta di un linfoma plasmoblastico caratterizzato da cellule che all’interno presentano il virus HHV8; in
alcuni casi questo linfoma risulta essere una complicanza della linfoadenopatia detta malattia di
Kasselmann.
In definitiva, a parte l’alternanza di HHV8 e EBV, il quadro morfo-fenotipico delle tre varianti appena
descritte è il medesimo. Da ricordare è dunque l’insorgenza clinica: il plasmoblastico risulta extra-nodale e
spesso interessa le mucose, il PEL ha sede nelle sierose e il linfoma HHV8+ insorge nei linfonodi. Tutti e tre i
linfomi coinvolgono soggetti immunodepressi.

Linfoma intravascolare

La crescita delle cellule tumorali avviene esclusivamente nei vasi di piccolo calibro, quindi sinusoidi e
capillari.
Si tratta di tumori molto eterogeni dal punto di vista clinico: talvolta comportano epatosplenomegalia, altre
volte mimano quadri flogistici o patologie midollari non linfoidi, come displasie e leucemie, ma possono
mimare anche patologie neurologiche, se la neoplasia invade il circolo cerebrale. Infine, si possono avere
localizzazioni cutanee, con conseguenti anomalie dermatologiche.
Vista la localizzazione variabile la diagnosi è molto difficoltosa e talvolta avviene solo in fase autoptica; se
diagnosticato in tempo risponde bene alla chemioterapia.
Dal punto di vista immunofenotipico si ha: CD20+, CD5+, difetto di homing receptors e perdita di β1-
integrina, ICAM1.

Linfoma diffuso a grandi cellule NOS EBV+

Processo linfoproliferativo clonale EBV+ che occorre in genere dopo i 50 anni senza pregressa storia clinica
di immunosoppressione o tumore, sebbene possa presentarsi anche in soggetti più giovani; nel 70% dei casi
è extra-nodale. Ha le caratteristiche morfo-fenotipiche di un linfoma diffuso a grandi cellule, ma è
caratterizzato dalla presenza di EBV.

Granulomatosi linfomatoide

Disordine linfo-proliferativo EBV-correlato che clinicamente può mimare condizioni non tumorali, in
particolare vasculiti. Si tratta di un linfoma aggressivo tipico dei pazienti immunodeficienti che si presenta
soprattutto in sede extra-nodale, in particolare nel polmone, nell’encefalo, nel fegato e nella cute.

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Le cellule tumorali presentano un forte tropismo per i vasi e dà ciò deriva anche l’aspetto necrotico delle
lesioni: l’infiltrazione neoplastica determina una lesione vascolare seguita da occlusione e conseguente
sofferenza tissutale che conduce alla necrosi, la quale genera ai bordi una reazione granulomatosa; le
cellule disposte intorno ai vasi risultano EBV+. La diagnosi è complessa sia perché può mimare un disordine
non linfoproliferativo sia perché la necrosi abbondante in alcuni casi può nascondere le cellule neoplastiche
alla biopsia.

Linfoma diffuso a grandi cellule associato a flogosi cronica

Si tratta di un linfoma diffuso a grandi cellule EBV+ che insorge in siti di flogosi cronica, come focolai di
ostemielite cronica, ulcere cutanee in pazienti diabetici, protesi, pacemaker; può presentarsi anche in
pazienti con pio-torace. Risulta più frequente nel sesso maschile (rapporto M:F di 12:1) e dopo i 70 anni.

Linfoma diffuso primitivo dei sistema nervoso centrale

Il tumore encefalico primitivo più comune è il linfoma diffuso a grandi cellule EBV-negativo, che insorge
tipicamente intorno ai 60 anni. Si tratta di tumori che originano spesso nella regione sopratentoriale (40%)
con interessamento nelle zone peri-ventricolari a livello dei lobi parietali, frontali o temporali e
interessamento dei nuclei della base. In rari casi (5%) vi è un interessamento leptomeningeo con diffusione
nel liquor, mentre ancor più rara è la disseminazione extraneurale. Le lesioni possono essere singole o
multiple e tipicamente questo tumore si associa ad interessamento intraoculare (in circa il 20% dei casi).
È possibile che crescendo la neoplasia determini la formazione di masse che inducono edema cerebrale, ma
è possibile anche una crescita sfumata, con cellule che invadono la sostanza bianca in maniera irregolare,
senza formare importanti cluster tumorali.
Si tratta di tumori sensibili al cortisone: la somministrazione di cortisone aiuta ad evitare fenomeni di
erniazione cerebrale, ma avviene prima della biopsia può falsarla dal momento che il tessuto tumorale
tende a scomparire.
Si tratta di forme ABC con mutazioni caratteristiche, a carico di CD79a e MyD88, che attivano la via di Nf-
KB; i tumori con questo pathway attivo possono essere trattati con Ibrutinib, inibitore delle tirosin-chinasi
che mediano l’attività del recettore dei linfociti B, ma la terapia di prima linea è la chemioterapia. La
sopravvivenza a 5 anni è del 20%.

Linfoma diffuso a grandi cellule primitivo cutaneo – Leg type

Linfoma diffuso a grandi cellule che origina dalla cute della gamba, ma tende a disseminare in sedi extra-
cutanee. Interessa soprattutto il sesso femminile dopo gli 80 anni e si presenta con noduli eruttivi che si
sviluppano rapidamente nella gamba, sotto il ginocchio, rosso-bluastri e talvolta ulcerati.
Si tratta di linfomi diffusi ABC pertanto l’immunoistochimica rivela positività per CD20, CD79a, BCL6, IRF4,
BCL2 e negatività per CD10. Dal punto di vista molecolare possono portare a traslocazioni dell’oncogene
MYC, di BCL6 e di IGH o ad amplificazioni di BCL2, nonché a ipermutazioni dei geni IgG.

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LINFOMA DI BURKITT

Si tratta di un tumore raro (0,8% di tutti i linfomi), ma epidemiologicamente importante dal momento che
rappresenta il tumore più frequente in età pediatrica, soprattutto nella cintura peri-equatoriale, tanto che
in Africa costituisce il 70% dei tumori infantili.

È un linfoma molto aggressivo, con un rete proliferativo elevato (raddoppio in 12-48 ore), che cresce
rapidamente e pertanto è spesso diagnosticato in fase avanzata, soprattutto in paesi in via di sviluppo,
quando si è già formata una massa bulky, ovvero una massa con diametro di 10-12 cm. Le forme che
compaiono in distretti superficiali, ad esempio il volto, nei paesi occidentali vengono diagnosticati
precocemente, dal momento che risulta rapidamente evidente.
Il diametro tumorale è importante dal punto di vista clinico e prognostico, infatti, in caso di massa bulky la
chemioterapia fatica a raggiungere le cellule tumorali al centro della massa stessa ed è spesso necessario
ricorrere anche alla radioterapia; nonostante il tasso di proliferazione importante la neoplasia risulta
sensibile alla chemioterapia e si ha guarigione nell’80% dei casi (60% nei paesi in via di sviluppo).
La terapia presenta due problematiche:
- Alcuni pazienti sono resistenti alla chemioterapia (20% circa dei casi), pertanto hanno prognosi
infausta con sopravvivenza inferiore a 1 anno
- Se il tumore ha una massa considerevole si rischia la sindrome da lisi tumorale e la morte per
insufficienza renale acuta, pertanto bisogna procedere con cautela nella somministrazione della
chemioterapia

Classificazione

Il linfoma di Burkitt prevede tre varianti clinico-epidemiologiche:


• Variante endemica (africana)
Interessa solitamente i bambini tra 5 e 10 anni e compare in sede extra-nodale, tipicamente nel
volto, nelle gonadi o nell’intestino. La localizzazione più frequente è a livello mandibolare dal
momento che nei bambini la mandibola è ancora sede di emopoiesi e i focolai di dentizione
stimolano l’insorgenza della patologia.
La patogenesi in questo caso vede coinvolti EBV, responsabile della immortalizzazione, malaria, che
conferisce la spinta proliferativa, arbovirus, responsabili dello stimolo immunitario, Euphorbia
Tirucalli, che danneggia il genoma, e traslocazioni di Myc.
• Variante sporadica
Colpisce soprattutto il giovane adulto, ma può insorgere anche nei bambini, ed interessa
prevalentemente linfonodi, SNC, intestino e gonadi.
• Variante associata ad immunodeficienza
Spesso è HIV-associata ed è simile alla variante sporadica per età e sede di insorgenza.

Morfologia

Le tre varianti clinico-epidemiologiche sono indistinguibili al microscopio.


Si ha un sovvertimento dell’architettura del tessuto interessato da parte di cellule rotondeggianti di medie
dimensioni (10-25 micrometri) e tutte uguali tra loro: si tratta del centroblasto precoce, ovvero della cellula
che entra nel centro germinativo e diviene centroblasto, cellula con una importante attività proliferativa.
La cromatina è reticolare e sono presenti numerosi nucleoli, fino a 6.
Il citoplasma delle cellule è intensamente basofilo, soprattutto con colorazione Giemsa, e nel preparato
fresco possono essere visibili vacuoli citoplasmatici ricchi di lipidi, che vengono persi con la colorazione. I
vacuoli testimoniano una alterazione del metabolismo lipidico, che nel linfoma di Burkitt risulta fortemente
attivo. Si è visto che nel linfoma di Burkitt si ha un’alterazione della adipofillina, molecola che si attiva con
l’attivazione del metabolismo lipidico: l’immuno-colorazione per l’adipofillina evidenzia i residui delle
membrane dei vacuoli nelle cellule neoplastiche.
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Si ha un pattern di crescita coesivo: le cellule sono vicine tra loro e la densità dei nuclei è alta.
Vi sono molte mitosi e diversi macrofagi; i macrofagi, che appaiono otticamente chiari, fagocitano i residui
delle cellule andate in apoptosi, e conferiscono l’aspetto a cielo stellato, tipico del Burkitt.

Immunoistochimica

L’immunofenotipo è obbligato:
- Presenza di IgM di superficie
- Fenotipo B maturo, quindi CD19+, CD20+, CD22+, CD79a+, e centrogerminativo, quindi CD10+ e
BCL6+
- Per definizione il linfoma di Burkitt è BCL2-negativo: l’apoptosi non è regolata, cosa testimoniata
dalla presenza dei macrofagi, e ciò rende la neoplasia sensibile alla chemioterapia
- Ki67 è del 100%, aspetto specifico del Burkitt (il linfoma diffuso può avere un Ki67 elevato, che
però arriva massimo al 99%)
- Il marcatore caratteristico è Myc, regolatore trascrizionale che aumenta l’espressione dei geni
necessari per la glicolisi aerobica (effetto Warburg)

Patogenesi

Nella patogenesi, meglio descritta per le forme endemiche, sono coinvolti diversi meccanismi:
- Infezione da EBV → l’infezione da EBV è molto frequente nel mondo, ma nei paesi africani
interessa tipicamente i bambini entro i 5 anni (nei paesi occidentali è tipica dell’adolescente),
condizione che facilita la latenza dell’infezione, visto che il sistema immunitario dei bambini è meno
efficace nell’eradicare l’infezione.
Nel linfoma di Burkitt l’infezione da EBV è responsabile dell’immortalizzazione dei linfociti, che
quindi non vanno incontro ad apoptosi, nonostante vi siano errori nella replicazione del genoma. I
linfociti immortalizzati possono poi andare incontro ad espansione clonale e trasformazione, in
seguito alla reazione del centro germinativo per stimolazione antigenica.
EBV è associato anche ad altri linfomi e tumori solidi, ma in questi casi determina l’attivazione di
Nf-KB tramite l’espressione della proteina LMP1 (virus latent membrane protein 1).

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- Attivazione immunitaria cronica
o Infezione da malaria → si ipotizza che l’infezione da malaria contribuisca alla genesi del
linfoma di Burkitt per tre motivi: rappresenta una stimolazione antigenica che attiva la
proliferazione linfocitaria e amplia il pool di linfociti B con EBV latente, induce una
immunosoppressione che compromette l’attività dei linfociti T, che a normalmente
controllano i linfociti B, facilitando quindi l’espansione delle cellule B immortalizzate, e fa sì
che le cellule ricircolino nel centro germinativo, aumentando il rischio di mutazione genica.
o Infezione da Arbovirus → come nel caso dell’infezione da malaria le evidenze
epidemiologiche che la correlano al linfoma di Burkitt sono molto forti, ma il virus non si
trova nelle cellule neoplastiche pertanto non è chiaro come agisca.
- Danno genotossico → Euphorbia Tirucalli è una pianta con linfa lattiginosa con proprietà
antibatteriche e antipiretiche pertanto è usata dalle mamme quando i bambini si graffiano e dai
bambini stessi come colla per giocare; questa pianta contiene però un estere del forbolo che
distrugge il DNA in poche ore: induce il ciclo litico dei linfociti, riduce i linfociti T-citotossici e
favorisce le traslocazioni di Myc
- Traslocazione dell’oncogene Myc → è tipica la traslocazione del gene Myc, che avviene
solitamente con il gene delle catene pesanti delle immunoglobuline, t(8;14), ma può avvenire
anche con i loci che codificano per le catene leggere delle immunoglobuline, t(2;8) e t(8;22).

Genotipo

In ordine di frequenza le traslocazioni di Myc sono:


- t(8;14) in cui Myc viene traslocato dal cromosoma 8 al cromosoma 14, vicino ai loci codificanti per
le catene pesanti delle immunoglobuline
- t(2;8) in cui Myc passa dal cromosoma 8 al cromosoma 2, vicino ai loci codificanti per le catene
leggere κ
- t(8;22) in cui Myc passa nel cromosoma 22, vicino ai loci codificanti per le catene leggere λ
L’effetto di queste traslocazioni è il medesimo: si ha una aumentata espressione di Myc.
Per anni si è pensato che la traslocazione di Myc fosse l’unica mutazione presente nel linfoma di Burkitt, in
realtà si è visto che si hanno anche altre alterazioni, in particolare mutazioni dei geni ID3 e TGF3, che
determinano l’attivazione costitutiva del recettore BCR. Queste mutazioni attivanti sono molto più
frequenti nelle forme EBV-negative non endemiche, quindi probabilmente essere rappresentano un
meccanismo patogenetico importante nelle varianti sporadiche: nelle forme sporadiche l’iperattivazione
del recettore BCR non è dovuta alla stimolazione antigenica cronica, ma proprio a queste mutazioni
attivanti.
In circa il 5% dei casi di linfoma di Burkitt non è espresso Myc, ma N-Myc, gene della medesima famiglia e
mutualmente esclusivo con Myc.

Diagnosi differenziale

È necessario distinguere il linfoma di Burkitt da altri linfomi aggressivi, come DLBCL e il double-hit, e per
farlo ci si basa su:
- morfologia, molto importante, anche se esistono forme di linfoma Burkitt-like
- fenotipo: non esprime né BLC2 né IRF4
- genotipo: nel Burkitt si ha solo la traslocazione di Myc, che avviene sempre con le
immunoglobuline e al massimo una delle mutazioni prima citate, mentre nel linfoma diffuso il
cariotipo è complesso, con diverse mutazioni, nel 40% dei casi le traslocazioni di Myc avvengono
con altri partner, non con i geni codificanti per le immunoglobuline, ed è possibile avere
traslocazioni di BCL6
Nel 95% dei casi morfologia e fenotipo sono sufficienti per la diagnosi. La diagnosi differenziale con il
linfoma diffuso è necessaria perché il linfoma di Burkitt richiede un trattamento chemioterapico intensivo
settimanale, non ogni 3 settimane.

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LEUCEMIA LINFATICA CRONICA o LINFOMA A PICCOLI LINFOCITI

La leucemia linfatica cronica, CLL, è una malattia di derivazione B cellulare caratterizzata dall’accumulo di
linfociti morfologicamente maturi ma immunologicamente disfunzionali a livello di sangue, midollo osseo
e organi linfoidi. Si può presentare sia come malattia emato-midollare, ovvero come leucemia, sia come
linfoma, detto linfoma a piccoli linfociti.
Si parla di leucemia linfatica cronica quando il numero di cellule neoplastiche circolanti è maggiore di
5000/ml, mentre se il numero di cellule neoplastiche circolanti è inferiore a 5000/ml e si ha evidenza di
coinvolgimento linfonodale, splenico o di altri organi si parla di linfoma a piccoli linfociti.
Se si hanno meno di 5000/ml cellule monoclonali in totale assenza di danno d’organo si può avere una
linfocitosi monoclonale B-cellulare, condizione pre-maligna che può evolvere in leucemia.
Generalmente si hanno linfociti maturi monoclonali caratterizzati dalla concomitante espressione di due
marcatori: CD5, che solitamente è T-cellulare, ma può essere espresso da una piccola percentuale di
linfociti B, e CD23.

Si tratta di una malattia frequentemente riscontrata nella pratica clinica e spesso diagnosticata
occasionalmente a partire da una linfocitosi; rappresenta meno del 10% dei tumori emopoietici e presenta
una lieve prevalenza nel sesso maschile. L’età mediana alla diagnosi è 70 anni e raramente la malattia si
presenta in pazienti con meno di 50 anni. L’incidenza pare essere inferiore in Africa e Asia, ma ciò potrebbe
essere dovuto al fatto che i pazienti in questi paesi tendono a non recarsi dal medico per patologie non
aggressive.

Eziologia

L’eziologia è sconosciuta, ma si osserva una maggiore incidenza in alcune classi professionali, come
agricoltori esposti a pesticidi e lavoratori esposti all’asbesto, e in pazienti con storia famigliare di malattia
ematologica. Si è visto che un elemento che interviene nella patogenesi è la stimolazione cronica del
recettore dei linfociti B, il BCR.

Presentazione clinica

La presentazione clinica è differente tra paziente leucemico e pazienti linfomatoso. Solitamente è una
condizione asintomatica diagnosticata in seguito al riscontro di linfocitosi o linfoadenomegalia non
dolente, se presente una sintomatologia il sintomo più frequente è l’astenia, ma si possono avere anche
febbre, sudorazione notturna, prurito e consistente calo ponderale (detti sintomi B, tipici dei linfomi);
l’esame obiettivo può rilevare epatosplenomegalia. Un’altra manifestazione clinica tipica è rappresentata
dalle infezioni, infatti, nonostante siano presenti molti linfociti essi non sono efficienti e il paziente risulta
immunodepresso; sono proprio le infezioni a indebolire il paziente e a causarne la morte.

Leucemia linfatica cronica a livello di sangue periferico

La CLL presenta una importante componente periferica e sullo


striscio di sangue si osserva un eccesso di linfociti maturi con
cromatina addensata, citoplasma poco visibile e nucleolo
assente. Accanto a queste cellule vi sono le ombre nucleari,
ovvero cellule neoplastiche rotte o schiacciate, danneggiate
durante la procedura di striscio del vetro (non è un segno presente
solo nella CLL, ma è abbastanza patognomico).
Inoltre, i globuli rossi risultano morfologicamente differenti tra
loro (anisocitosi), con forme irregolari: spesso la CLL si associa ad
un quadro di anemia emolitica (10-20% dei casi).
I pazienti presentano anche ipogammaglobulinemia.

161
La diagnosi differenziale va fatta con:
- patologie infettive, sia batteriche, come la tubercolosi, che virali, come la mononucleosi
- linfomi leucemizzati, leucemia a cellule capellute, linfoma linfoplasmocitico, LGL
La forma linfomatosa entra in diagnosi differenziale con linfoma mantellare e linfoma linfoplasmocitico.

Leucemia linfatica cronica a livello di midollo osseo

Si ha un infiltrato di linfociti maturi che può arrivare a sostituire il


midollo osseo stesso, con conseguente neutropenia, anemia e
trombocitopenia.
Grazie alla biopsia osteomidollare è possibile osservare i rapporti tra
le cellule neoplastiche e il parenchima emopoietico sano; l’infiltrato
può essere:
- interstiziale omogeno
- nodulare, con masse di linfociti B (tipicamente in sede para-
trabecolare)
- diffuso sostitutivo, ovvero un infiltrato diffuso che
sostituisce il parenchima emopoietico (prognosi peggiore)

Citologia

Sono presenti tre tipi di cellule:


- piccoli linfociti maturi, analoghi a quelli presenti nel sangue periferico
- para-immunoblasti: cellule più grandi con nucleolo evidente e cromatica più aperta
- pro-linfociti: cellule con nucleolo evidente e cromatina densa
I para-immunoblasti e i pro-linfociti rappresentano il “cuore pulsante” della malattia dal momento che sono
cellule proliferanti: nella CLL le cellule tumorali possono ricircolare nei tessuto, tornare a proliferare o
uscire come linfociti maturi. Questo continuo ricircolo rende difficile il trattamento.
Para-immunoblasti e pro-linfociti tendono a formare strutture nodulari nei linfonodi, i centri chiari di
proliferazione: più centri di proliferazione sono presenti, più la malattia è aggressiva; quando para-
immunoblasti e pro-linfociti divengono gli elementi cellulari predominanti si parla di fase evolutiva della
patologia o fase di crescita para-immunoblastica, che rappresenta un fattore prognostico negativo.

Infiltrazione di altri organi

Possono essere coinvolti anche altri organi; a livello della milza si osserva l’espansione della polpa bianca,
che arriva a sostituire la polpa rossa, mentre nel fegato si osserva l’infiltrazione sinusoidale (visibile solo alla
biopsia, infatti, non essendo preseti noduli non è visibile alla radiografia).

162
Immunofenotipo

La CLL si caratterizza per la co-espressione di CD5 e CD23, ma sono presenti anche altri marcatori della
linea B: CD22, CD19, CD27, CD20; CD20 è presente a bassa espressione: questa è una peculiarità per un
linfocita B maturo, pertanto può essere usata a scopo diagnostico.
Per studiare l’immunofenotipo si usa la citofluorometria su campione di sangue periferico, metodica che
usa gli anticorpi monoclonali per studiare gli antigeni cellulari e permette di valutare quante cellule, sul
totale di cellule analizzate, esprimono un determinato antigene. Si può quindi fare diagnosi già su sangue
periferico.
Vi sono anche altri marcatori che non rientrano nella diagnostica di ruotine, ma che possono essere utili,
soprattutto nei casi CD5-negativi (5% dei casi circa) e nella diagnosi differenziale:
- LEF1 → presente nel 100% delle leucemie linfatiche croniche, e del linfoma a piccoli linfociti, e
assente negli altri casi di linfomi a piccole cellule (centrofollicolare, follicolare e della zona
marginale)
- CD200 → utile nella diagnosi differenziale con il linfoma mantellare, che risulta CD5+
Nei centri chiari di proliferazione si osserva un aumento di Ki67 e CD20 e la comparsa di IRF4.

Prognosi

La CLL è un tumore indolente con sopravvivenza mediana di oltre 15 anni ed è importante stabilire quali
pazienti presentano una malattia che tende a progredire. I test prognostici non vengono sempre eseguiti: la
valutazione della prognosi è importante nel momento in cui si reputa necessario un trattamento, non ha
senso valutare la prognosi in un paziente anziano con malattia indolente che non verrà trattato.
Uno dei fattori prognostici più semplici è il tempo di raddoppiamento della linfocitosi:
- Se il raddoppiamento avviene in più di 1 anno la prognosi a 10 anni è buona
- Se il raddoppiamento avviene in pochi mesi si è di fronte ad una forma aggressiva
Dal punto di vista clinico si può ricorrere alla stadiazione secondo Rai e Binet che identificano 3 gruppi di
rischio:
- Pazienti a basso rischio → linfocitosi nel sangue periferico e meno di 3 stazioni linfoghiandolari
coinvolte
- Pazienti ad alto rischio → insufficienza midollare
- Forme intermedie
Il metodo migliore per la valutazione prognostica è la valutazione del parametro genetico che fa
riferimento alla cellula di origine e permette di distinguere due tipi:
- CLL mutate, ovvero casi in cui è avvenuto il passaggio nel centro germinativo e sono presenti
ipermutazioni somatiche (non aberranti, ma tipiche della reazione del centro germinativo)
- CLL non mutate, ovvero casi in cui pur essendo avvenuto il contatto con l’antigene non è avvenuto
il passaggio nel centro germinativo
Le forme non mutate risultano più aggressive.
Altri marcatori prognostici riguardano lesioni dei cromosomi
11, 12, 13 e 17; in particolare il fattore prognostico più
importante nella CLL è rappresentato dalla
mutazione/delezione di p53, codificato dal braccio corto del
cromosoma 17.
Le delezioni di p53, evidenziabili tramite FISH, hanno
prognosi migliore rispetto alle mutazioni di p53: se si
sottopone un paziente con mutazione di p53 a
chemioterapia vengono eliminate tutte le cellule tumorali
TP53 wilde-type, il fenotipo mutato si espande e la malattia
si diffonde più rapidamente. Le forme con p53 mutato non
presentano alcun paziente vivo dopo 5-6 anni.
Altri fattori prognostici sono: NOTCH1, SF3B1, BRC3, MYD88.

163
Sulla base delle caratteristiche genomiche si identificano pazienti ad alto rischio genetico (del 17p, >3
anomalie cromosomiche, del11q), a rischio intermedio (traslocazione 14q32, trisomia 12, del 6q) e a basso
rischio (con cariotipo normale o con delezione isolata 13q).

Terapia

La valutazione genetica è importante per la scelta del trattamento, infatti, la chemioterapia è


controindicata in caso di mutazioni di p53 dal momento che in questo caso favorisce la progressione della
patologia. La valutazione genetica permette anche di selezionare il farmaco più adatto, infatti, i nuovi
farmaci hanno come target NOTCH1, BIRC3 e signaling del BCR.

Dal momento che la diagnosi di CLL può essere eseguita anche su striscio di sangue la diagnosi viene spesso
fatta dall’ematologo, raramente arriva all’osservazione dell’anatomopatologo.

SINDROME DI RICHTER

Inizialmente descritta come una sindrome clinica a sé stante, in cui in pazienti sani con linfocitosi si
sviluppavano improvvisamente sintomi sistemici e masse importanti, si è scoperto poi essere una
trasformazione specifica della CLL. Si ha la trasformazione della malattia verso un linfoma diffuso a grandi
cellule e torna ed essere espresso CD20 a grande intensità. In realtà si hanno dei casi in cui si ha una vera e
propria trasformazione a partire dalla CLL e dei casi si cui si ha un linfoma diffuso a grandi cellule non
correlato al clone della CLL.
Il rischio di trasformazione in sindrome di Richter è del 10% a 5 anni e del 15% a 10 anni, ma aumenta in
caso di lesioni geniche a carico di TP53, NOTCH1, SF3B1, BRC3, MYD88.
La trasformazione deriva probabilmente dall’acquisizione di mutazioni aggiuntive che aumentano la crescita
neoplastica. La trasformazione in un linfoma a grandi cellule è un evento infausto e la maggior parte dei
pazienti sopravvive meno di 1 anno.

164
LINFOMA DI HODGKIN

Questa malattia fu descritta per la prima volta da Thomas Hodgkin all’inizio dell’800, come una malattia
primitiva del linfonodo, infatti, essa si presenta prevalentemente a livello nodale, determinando un
ingrandimento progressivo dei linfonodi, e negli stadi avanzati presenta anche un interessamento splenico.
Fino agli anni ’70 era una malattia che portava inesorabilmente alla morte, ma grazie all’introduzione del
protocollo chemioterapico ABVD si riesce attualmente a curare circa l’85% dei casi.
Si distinguono due varianti principali del linfoma di Hodgkin, che insieme rappresentano circa il 10% di tutti
i casi di linfoma:
- Linfoma di Hodgkin classico (90%)
Ulteriormente classificabile in quattro sottotipi istologici
o Sclerosi nodulare (più comune, rappresenta il 70% dei casi)
o Cellularità mista (25% dei casi)
o Ricca di linfociti
o Deplezione linfocitaria
o Nella dispensa aggiunge un quinto sottotipo: prevalenza linfocitaria
- Linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria (10%), detto anche T-cell linfoma
Il linfoma di Hodgkin è una neoplasia rara, se si considera la totalità dei casi di tumore, ma è il tumore
maligno con l’incidenza maggiore nei giovani: presenta un picco di incidenza tra i 15 e i 34 anni e un
secondo picco, in cui prevale l’istotipo con sclerosi nodulare, dopo i 55 anni.
L’eziologia resta ignota, ma la neoplasia è associata alla presenza del virus di Epstain-Barr e giocano un
ruolo importante anche fattori ambientali e familiari.

Clinica

Nella maggioranza dei casi si presenta con un interessamento linfonodale, soprattutto dei linfonodi del
mediastino superiore, probabilmente perché deriva da un’evoluzione tumorale dei linfociti B che si trovano
nel timo. La disseminazione avviene attraverso il sistema linfoide e sono interessata stazioni linfonodali
contigue; si ha una progressione caratteristica: interessamento linfonodale, interessamento della milza, del
fegato, del midollo osseo e di altri tessuti. La diffusione a livello osseo è rara (5% dei casi).
Possono essere presenti i cosiddetti sintomi B: febbre, sudorazione notturna, calo ponderale e prurito sine
materia, ovvero senza effettive lesioni cutanee.

Morfologia

Si hanno caratteristiche morfologiche peculiari:


• Cellule tumorali di Hodgkin (freccia verde nell’immagine) → cellule di grandi dimensioni,
solitamente mononucleate ma talvolta binucleate, con nucleoli molto evidenti ed eosinofili;
rappresentano il pool proliferante della neoplasia
• Cellule di Reed-Sternberg → cellule solitamente binucleate, ma possono presentare anche tre o
quattro nuclei; l’aspetto classico binucleato è detto a occhi di civetta. Secondo alcune teorie si
tratta di cellule che derivano dalla fusione di cellule figlie derivanti dalla stessa cellula tumorale di
Hodgkin. Esistono diverse varianti delle cellule di Reed-Sternberg: varianti mononucleate con ampio
nucleolo simile ad una inclusione, varianti lacunari (sclerosi nodulare) con nuclei multilobati e
abbondante citoplasma chiaro che viene danneggiato durante il taglio lasciando il nucleo in zona
vuota, varianti linfoistiocitiche con nuclei polipoidi, nucleoli non appariscenti e citoplasma
moderatamente abbondnate (sottotipo a prevalenza linfocitaria).
• Tessuto infiammatorio → il tessuto infiammatorio rappresenta il 90% della massa tumorale,
mentre le cellule tumorali ne rappresentano una minima parte, il 10% circa
• Cellule mummificate → cellule in apoptosi aberrante, con nucleo e citoplasma eosinofili

165
Il caratteristico accumulo di cellule reattive nei tessuti coinvolti dal LH classico si verifica in risposta a una
grande varietà di citochine (come IL-5, IL-10, IL-13 e TGFB) e chemochine (quali TARC, MDC, IP-10 e CCL28),
secrete dalle cellule di Reed-Sternberg. Una volte attratte, le cellule reattive producono fattori che
supportano la crescita e la sopravvivenza delle cellule tumorali le quali ulteriormente modificano la risposta
delle cellule reattive.

Origine e fenotipo

Le cellule di Reed-Sternberg derivano da una cellula di Hodgkin che si divide in due-tre cellule figlie, i cui
citoplasmi si separano ma i nuclei rimangono legati grazie a ponti proteici.
Mentre le cellule di Hodgkin rappresentano il pool proliferante della neoplasia, le cellule di Reed-Sternberg
sono caratterizzate da una maggior sopravvivenza, ma un minor tasso di divisione.
Le cellule di Reed-Sternberg non sono esclusive del linfoma di Hodgkin, infatti, possono essere presenti
anche nel linfoma a grandi cellule B diffuso e in tumori non linfoidi sono presenti cellule multinucleate (che
non sono però denominate cellule di Reed-Sternberg), come sarcoma con cellule di Langerhans e nel
liposarcoma infiammatorio; patognomica del linfoma di Hodgkin è quindi la presenza di cellule di Reed-
Sternberg circondante da un microambiente infiammatorio.

Nel 99% dei casi il linfoma di Hodgkin deriva dai linfociti B, ma presenta un immunofenotipo
caratteristico e talvolta non solo non esprime i marcatori B-cellulari, ma esprime marcatori di altre linee
cellule, come i linfociti T o i macrofagi.

166
Queste particolari caratteristiche immunofenotipiche hanno reso difficile capire l’origine del linfoma, che è
stata chiarita solo con l’introduzione di microdissettori a laser che permettono di isolare singole cellule dal
preparato: analizzando queste singole cellule si è visto che erano presente il riarrangiamento monoclonale
dei geni delle immunoglobuline, anche nei casi in mancavano i marcatori B-cellulari. Inoltre, si è visto che i
geni per le immunoglobuline risultano anche ipermutati, ad indicare che la neoplasia deriva da linfociti B
passati nel centro germinativo. Nel 25% dei casi le cellule presentano geni codificanti per le
immunoglobuline riarrangiati, ma non funzionanti.

Le cellule di Hodgkin e le cellule di Reed-Sternberg risultano CD20-, CD79a- e CD19-, quindi non
esprimono i classici marcatori delle cellule B e non possono essere trattate con terapie mirate contro
questi target. In alcuni casi può esserci una parziale espressione di CD20, ma essa risulta irregolare ed
incompleta lungo la membrana cellulare.
La down regolazione del programma B-cellulare, ovvero la mancata espressione dei fattori di trascrizione
tipici della linea B, non è dovuta a mutazioni e/o traslocazioni, ma ad ipermetilazione dei geni coinvolti.
L’unico fattore di trascrizione espresso dalle cellule neoplastiche di Hodgkin e dalle cellule di Reed-
Sternberg è PAX5, il primo ad essere espresso nella ontogenesi linfoide quando si ha il differenziamento
verso la linea B. Tramite immunoistochimica può essere evidenziato PAX5, che testimonia l’origine B-
cellulare.
Il programma trascrizionale nel linfoma di Hodgkin non prevede solo la down-regolazione dei fattori B
cellulari, ma anche la up-regolazione o attivazione di fattori di altre linee cellulari, come NOTCH1 dei
linfociti T e fattori della linea macrofagica o ad altre cellule accessorie.

Oltre a PAX5 vi sono altri markers specifici che permettono di riconoscere le cellule di Reed-Sternberg:
- CD30 → è il marcatore principale del linfoma di Hodgkin ed è un recettore per il TNF,
fisiologicamente espresso quando il linfocita, sia T che B, si attiva a livello di centro germinativo. Si
tratta quindi di una molecola espressa fisiologicamente, ma transitoriamente, durante la
maturazione linfocitaria.
Nel linfoma di Hodgkin classico CD30 è espresso diffusamente e intensamente dalle cellule tumorali
e si va a localizzare a livello di membrana cellule e in sede para-nucleare/golgiana.
Questo marcatore è importante anche per la terapia, non solo per la diagnosi, infatti, è possibile
adoperare l’anticorpo monoclonale anti-CD30, Bretuximab Vedotin, in associazione alla
chemioterapia tradizionale. Questo anticorpo è coniugato alla tossina monometilauristatina,
tossina del fuso mitotico: l’anticorpo lega il CD30, viene fagocitato dalle cellule tumorali e la tossina
viene liberata all’interno del fagolisosoma portando alla morte della cellula. Con la morte della
cellule tumorale si ha la liberazione della tossina nell’ambiente circostante e verranno colpite e
uccise altre cellule tumorali. Attualmente questo farmaco viene usato non solo per il linfoma di
Hodgkin, ma anche per altri tumori che esprimono più o meno diffusamente CD30.
- CD15 → marcatore utile per la diagnosi, si tratta di una proteina di adesione non tipica del sistema
linfoide, infatti è espressa da precursori mieloidi. Si ritrova nel 70-80% dei linfomi di Hodgkin
classici.
Il fenotipo nel linfoma di Hodgkin classico è quindi
caratterizzato da: PAX5+, CD30+, CD15+ e CD20-; il riscontro
di queste caratteristiche fenotipiche in un corredo
morfologico caratteristico permette di fare diagnosi. Sono
inoltre assenti il BCR e le immunoglobuline di superficie.

Biologia della malattia e pathway di signaling intracellulare

Oltre alla variabilità trascrizionale e fenotipica, il linfoma di


Hodgkin presenta anche più vie di signaling intracellulare
contemporaneamente attive. Tale vie di segnalazione
proteggono la cellula tumorale e ne stimolano la proliferazione.

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Le vie di signaling più note sono:
• NF-kB → gruppo di chinasi e fattori di trascrizione pro-infiammatori e anti-apoptotici che
favoriscono la sopravvivenza cellulare; fisiologicamente questa via media l’attivazione dei linfociti
• JAK/STAT → sistema costituito da chinasi, JAK, che fosforilano e attivano fattori di trascrizione,
STAT 1-6; fisiologicamente questa via media segnali infiammatori provenienti dal micro-ambiente,
tramite le citochine, risulta costitutivamente attiva nel linfoma
Queste vie mediano quindi segnali di sopravvivenza ridondanti, ciò fa sì che anche se ne viene silenziata
una, le altre vicariano la sua funzione.
L’attivazione ridondante di queste vie nelle cellule tumorali è dovuta a tre cause:
- Nel 87% circa dei casi si hanno alterazioni genetiche che determinano l’attivazione costitutiva di
queste vie
- Il linfoma di Hodgkin è caratterizzato da un microambiente infiammatorio che stimola la
sopravvivenza delle cellule tumorali. Questo microambiente infiammatorio viene a crearsi poiché
sia le cellule tumorali di Hodgkin sia le cellule di Reed-Sternberg producono una grande quantità di
chemochine e interleuchine: sono le cellule tumorali stesse a richiamare l’infiltrato infiammatorio
che risulta poi fondamentale per la sopravvivenza del linfoma stesso. L’infiltrato infiammatorio è
costituito da linfociti T, granulociti, macrofagi, mastociti e fibroblasti che comunicano sia per
contatto diretto che tramite il rilascio di mediatori, come citochine, interleuchine e fattori di
crescita, con le cellule tumorali.
L’infiltrato infiammatorio risulta quindi fondamentale per la sopravvivenza delle cellule
neoplastiche, almeno nelle prime fasi della malattia: con il progredire del tempo si accumulano
mutazioni genetiche che rendono le cellule del linfoma indipendenti dal microambiente.
- La presenza del virus EBV che tende ad infettare i linfociti B; questo virus è presente nel 40% dei
casi di linfoma di Hodgkin variante sclerosi nodulare e nel 90% dei casi della variante a cellularità
mista. Il genoma virale è presente come episoma, ovvero non si integra con quello del linfocita, ma
circolarizza e si situa nel nucleo, dove viene trascritto. Il genoma virale codifica per alcune proteine,
fra cui particolarmente importanti sono LMP1 e LMP24, proteine di membrana che trasmettono
segnali in grado di mimare i fisiologici segnali di attivazione dei linfociti B:
o LMP1 attiva la cascata normalmente indotta dal legame dell’antigene con il BCR
o LMP2A attiva la cascata normalmente indotta dal recettore CD40, che porta alla attivazione
della via di NF-kB
Queste proteine permettono quindi la sopravvivenza e la crescita del clone tumorale.
La presenza di EBV può essere evidenziata tramite immunoistochimica, che usa come target LMP1,
o tramite reazioni di ibridazione in situ che riconoscono piccoli RNA virali.
Queste vie sono quindi molto importanti e si stanno attualmente studiando farmaci in grado di inibirle;
esistono già farmaci che inibiscono la via di JAK/STAT e si stanno valutando farmaci che inibiscono NF-Kb.

Stratagemmi per sfuggire all’immunosorveglianza

Le cellule neoplastiche nel linfoma di Hodgkin sono immerse in un microambiente ricco di cellule
infiammatorie, ma grazie ad alcuni meccanismi riescono a sfuggire al sistema immunitario:
- Regolano la funzione dell’infiltrato infiammatorio circostante → sono le stesse cellule di Hodgkin
e di Reed-Sternberg ad attivare i linfociti T, ma allo stesso tempo ne inducono il differenziamento
verso stadi non idonei a contrastare le cellule tumorali, in particolare inducono il differenziamento
verso T-helper2 (che producono IgE) e T-regolatori (immunosopressivi)
- La cellula tumorale si rende invisibile agli effettori dell’immunità antitumorale → inibisce
l’espressione di MCH-I, che comunica con i linfociti T CD8+, e MCH-II, che presenta l’antigene ai
linfociti T CD4+. Vi sono anche altre mutazioni che rendono la cellula tumorale invisibile alle cellule
NK, che non richiedono MCH per riconoscere l’antigene.
- Espressione di immuno-chekpoint inibitori → i checkpoint inibitori del sistema immunitario sono
fisiologicamente presenti per evitare una risposta immunitaria eccessiva, ma viene sfruttato dalle
cellule tumorali.

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I linfociti T esprimono sulla membrana PD-1, che se stimolato ne inibisce l’attivazione; le cellule di
Reed-Sternberg iper-esprimono PD-L1, ligando di PD-1, e riescono quindi a disattivare i linfociti T
(presentano una amplificazione del locus genico 9p24.1 codificante per PD-L1).
PD-L1 è espresso anche dai macrofagi presenti nel microambiente tumorale, che si dispongono
intorno alle cellule neoplastiche e fungono da “scudo”.
L’espressione di PD-L1 è importante anche dal punto di vista terapeutico dal momento che esistono
farmaci come Nivolumab e Pembrolizumab che inibiscono questo meccanismo (anticorpi
monoclonali anti-PD1 e anti-PDL1), usati soprattutto in pazienti recidivanti, con ottimi risultati.
PD-L1 può essere espresso anche da tumori solidi, ma in questo caso il meccanismo di espressione
non risiede in campo genetico, come avviene invece nel linfoma di Hodgkin, dove si ha una iper-
espressione dovuta ad amplificazione genica.

Tipi di linfoma di Hodgkin classico

Sclerosi nodulare
Rappresenta il 70% dei casi ed insorge tipicamente in soggetti giovani; si manifesta come masse nel
mediastino superiore, che nella maggior parte dei casi superano i 7 cm e vengono definite bulky.
All’esame obiettivo è difficile identificare direttamente le masse, pertanto è necessario prestare attenzione
ai segni che possono derivare dalla sclerosi nodulare:
- Linfoadenopatie dei linfonodi sopraclaveari e latero-cervicali
- Sintomi B, quindi febbricola serotina, sudorazioni notturne, calo ponderale e prurito
- Tosse secca ricorrente
In caso di sospetto la massa mediastinica può essere facilmente identificata tramite RX torace.
Nel 25-30% dei casi la sclerosi nodulare è associata a EBV.
Il nome di questa variante si deve all’aspetto istologico, caratterizzato dalla presenza di sclerosi a bande
che circondano più noduli. Oltre alle cellule di Hodgkin e alle cellule di Reed-Sternberg si trovano anche
cellule lacunari, in cui il citoplasma risulta rarefatto per effetto della fissazione in formalina, e cellule
mummificate ipercromatiche, che rappresentano cellule di Reed-Stenberg che stanno andando in apoptosi
(dette anche cellule zombie). In alcuni casi le cellule tumorali possono confluire a formare sincizi, che
possono essere confusi con tumori non linfoidi, come carcinomi epiteliali.
In base alla quantità di cellule tumorali, che in alcuni casi può divenire particolarmente abbondante, si
distinguono due tipi, 1 e 2, che però non hanno alcun valore diagnostico.

Cellularità mista
Rappresenta il 25% dei casi e si manifesta tipicamente in soggetti con più di 55 anni o in età pediatrica, con
linfoadenopatie. È molto spesso associata alla infezione da EBV. Il nome deriva dalla variabilità delle cellule
presenti nel linfonodo, che risulta sovvertito dalla proliferazione del microambiente infiammatorio.
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Nelle forme pediatriche è frequentemente associata ad una
immunodeficienza non diagnosticata.
Questa forma non tende a formare masse Bulky nel mediastino
antero-superiore, tipiche invece della sclerosi nodulare. Non
abbiamo sclerosi, non abbiamo noduli ma vi è la proliferazione di
cellule tumorali in genere abbastanza evidenti frammiste a tanti
linfociti, granulociti, plasmacellule e istiociti.

Deplezione linfocitaria
È una variante più rara, associata a infezione da EBV nel 75% dei
casi e talvolta associata ad uno stadio di immunodeficienza, come l’infezione da HIV.
Si può presentare in due forme:
- Fibrotica → poche cellule tumorali immerse in un microambiente ricco di tessuto fibroso
- Sarcomatoide → le cellule tumorali rappresentano la maggior popolazione cellulare
Non forma masse mediastiniche, ma interessa solitamente il retro-peritoneo e il midollo osseo;
probabilmente si tratta di una variante più aggressiva.

Ricco di linfociti
Colpisce i linfonodi senza esordire con masse mediastiniche ed è associata a EBV nel 50% dei casi.
Il fenotipo della cellula tumorale è classico e il microambiente è costituito soprattutto da linfociti T e B.
Questa variante entra in diagnosi differenziale con il linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria.

Diagnosi differenziale con il linfoma a grandi cellule B primitivo del mediastino

Il linfoma a grandi cellule B primitivo del mediastino interessa soprattutto le giovani donne, insorge nel
mediastino superiore e forma masse che si accrescono rapidamente e può infiltrare anche le strutture
limitrofe, come la vena cava superiore determinando la sindrome della vena cava; risulta più aggressivo del
linfoma di Hodgkin e talvolta porta a morte del paziente durante l’iter diagnostico. Può diffondere anche a
polmoni, fegato, rene, surrene, gonadi, intestino e SNC, ma non interessa i linfonodi.
Se lo si tratta con chemioterapia intensiva il rate di guarigione è del 90%, ma questo si abbassa
notevolmente se si procede con la terapia del linfoma di Hodgkin, pertanto la diagnosi differenziale è molto
importante.
Tale neoplasia sembra avere un progenitore comune con linfoma di Hodgkin classico mediastinico sclerosi-
nodulare: si tratta dei linfociti B presenti a livello del timo. Tali cellule sono dette “cellule asteroidi” perché
hanno delle proiezioni citoplasmatiche.
Per prelevare il campione bioptico dal mediastino si procede con toracoscopia o per via trans-bronchiale ed
è possibile che, essendo le due neoplasie simili sia morfologicamente che immunofenotipicamente, il
campione prelevato non sia sufficiente per una diagnosi sicura.
Le cellule neoplastiche nel linfoma a grandi cellule B diffuso possono essere grandi e plurinucleate,
apparando simili alle cellule di Reed-Stenberg, ma non si ha un microambiente infiammatorio;
l’immunofenotipo risulta diffusamente CD20+ e CD15-, ma talvolta può essere positivo per CD30.
Dal punto di vista genetico nel linfoma diffuso il programma B cellulare è attivo e può essere presente
l’amplificazione del locus 9p24.1, che porta all’espressione di PD-L1.
170
Vi sono casi in cui si hanno linfomi combinati, costituiti in parte dal linfoma a grandi cellule B diffuso e in
parte dall’Hodgkin, casi in cui il linfoma di Hodgkin recidiva dopo anni in un linfoma diffuso e forme
intermedie tra i due tumori.
Il profilo di espressione genica dei primitivi del mediastino è più simile a quello del linfoma di Hodgkin
classico mediastinico piuttosto che a quello dei diffusi a grandi cellule, ma si distingue dal linfoma di
Hodgkin perché il programma B-cellulare è attivo.

Linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria – Hodgkin non classico

È più raro del linfoma di Hodgkin classico, interessa soprattutto i maschi intorno ai 40 anni e si presenta
con linfoadenopatie latero-cervicali o sottomandibolari; può colpire anche pazienti pediatrici, ma in
questo caso, a differenza dell’Hodgkin classico, non implica una immunodeficienza.
Si sviluppa lentamente, pertanto è spesso diagnosticato nello stadio 1 o 2, ma se diagnosticato in fase
avanzata (20% dei casi) presenta una prognosi peggiore, poiché è difficilmente controllabile con la
chemioterapia.
Può formare dei noduli, ma solitamente presenta un pattern di crescita diffuso; le cellule tumorali sono
poche e immerse in un microambiente infiammatorio costituito soprattutto da linfociti T e B.
Le cellule tumorali sono diverse da quelle dell’Hodgkin classico, infatti, risultano mononucleate e
presentano un nucleo accartocciato, tanto che sono dette cellule a pop-corn.
Sono presenti linfociti T-helper follicolari che esprimono CD57 e PD1 che circondando le cellule tumorali e
ne stimolano la sopravvivenza; queste cellule disponendosi intorno alle cellule tumorali formano delle
“pseudo-rosette”. Le cellule tumorali originano dal centro germinativo, esprimono CD20, CD79, BCL6 e in
genere non esprimono CD30 e CD15.
Grazie al microdissettore laser si è visto che queste cellule presentano ipermutazioni somatiche aberranti,
indotte dall’enzima AID, su geni che fisiologicamente non risultano ipermutati, come PAX5 e MYC.
Viene utilizzata come terapia sia quella dell’Hodgkin classico, sia quella dei linfomi diffusi a grandi cellule
nei casi in cui si trasforma in un DLBCL (la trasformazione è un fattore prognostico sfavorevole), è
comunque possibile utilizzare nella terapia il Rituximab, che è anti-CD20.

171
LINFOMI DELLA ZONA MARGINALE

I linfomi della zona marginale sono classificabili in


indolenti e aggressivi.
I linfociti della zona marginale non si trovano in tutti gli
organi linfoidi, ma solo nella polpa bianca della milza,
nel tessuto linfoide delle placche del Peyer, dell’anello
di Waldeyer e nei tessuti MALT in seguito ad
infiammazioni croniche, possono essere presenti anche
nei linfonodi mesenterici.
Dal punto di vista immunologico i linfociti della zona
marginale producono IgM a bassa affinità: questi
linfociti non vanno incontro alla reazione del centro
germinativo, ma una volta incontrato l’antigene iniziano rapidamente a produrre anticorpi a bassa affinità
che fungono come prima linea di difesa, in attesa che la reazione del centro germinativo porti alla
produzione di anticorpi ad alta affinità.
I linfomi marginali possono essere suddivisi in extranodali, più frequenti, nodali e splenico.

LINFOMA MARGINALE SPLENICO

Il linfoma primitivo splenico è poco frequente


e si manifesta con splenomegalia, talvolta tale
da provocare una sintomatologia da ingombro
addominale, linfocitosi, trombocitopenia,
anemia (dovuti al fatto che il tessuto
neoplastico invade il tessuto emopoietico o a
fenomeni di autoimmunità) e picchi di
produzione di immunoglobuline, sia IgG che
IgM.
Si tratta di una patologia indolente e se non è
presente splenomegalia la diagnosi avviene in
fase tardiva.
Istologicamente si osserva un pattern
micronodulare a carico della polpa bianca con
linfociti che nel 25% dei casi presentano estroflessioni citoplasmatiche. La diagnosi viene poi confermata
con biopsia osteomidollare che permette di osservare la presenza o meno di un interessamento
intrasinusale.
Visto il pattern nodulare biancastro questa patologia entra in diagnosi differenziale con la tubercolosi.
Il pattern intrasinusale, caratterizzato da cellule tumorali che si dispongono a catenella, è molto importante
poiché spesso è su di esso che si basa la diagnosi, dal momento che questi tumori non presentano un
fenotipo specifico.
Tra i linfomi marginali quello splenico è quello a progressione più rapida e prognosi peggiore.

LINFOMA DELLA ZONA MARGINALE EXTRANODALE

Il tessuto MALT è un tessuto linfoide associato alle mucosa che si organizza in follicoli; può essere suddiviso
in congenito, rappresentato ad esempio dalle placche di Peyer, e acquisito, che si forma in seguito alla
stimolazione antigenica cronica. Il linfoma della zona marginale origina quindi dalle cellule marginali nel
MALT.
I fattori che contribuiscono alla formazione del MALT sono:
- Stimolo proliferativo verso i linfociti: durante la flogosi vengono liberati molecole infiammatorie e
radicali liberi, che possono avere effetto mutageno

172
Un fattore che contribuisce alla trasformazione tumorale è la stessa stimolazione dei linfociti B,
infatti durante la reazione del centro germinativo si possono accumulare mutazioni; a questo stadio
però le cellule alterate sono ancora dipendenti dal microambiente circostante, pertanto eliminando
la causa della stimolazione la lesione tumorale regredisce.
In un contesto di flogosi cronica però vengono prodotti anche ROS, che hanno azione mutagena e
quindi favoriscono l’insorgenza di mutazioni.
- Fattori microbici, come Helicobacter Pylori
I fattori microbici possono interferire con i meccanismi di signaling intracellulare, ad esempio
inibendo i meccanismi di riparazione cellulare

Questi tumori hanno quindi caratteristiche peculiari:


- Insorgono spesso in tessuti interessati da patologie infiammatorie croniche ad eziologia
autoimmune o infettiva, come nelle ghiandole salivari nella malattia di Sjrogren, nella tiroide in
caso di tiroide di Hashimoto e nello stomaco con gastrite da H. Pylori
- Rimangono localizzati per periodi prolungati, diffondendosi solo in fase tardiva
- Possono regredire se la causa dell’infiammazione viene meno
Queste caratteristiche suggeriscono che i linfomi extranodali marginali siano un continuum tra l’iperplasia
linfoide reattiva e il linfoma vero e proprio.

Istologicamente i tumori marginali extranodali sono costituiti da una popolazione monomorfa


rappresentata da linfociti di piccola taglia con citoplasma chiaro; talvolta le cellule possono avere aspetti
di differenziazione plasmacellulare. Questi tumori crescono lentamente, ma gradualmente distruggono il
parenchima in cui si sviluppano; sono spesso multifocali, soprattutto a livello gastrico.
Un aspetto tipico utile per la diagnosi sono i complessi
linfoepiteliali (immagine a lato) costituiti da epitelio divorato dal
tumore e proliferazione neoplastica.
Questi tumori originano dai linfociti marginali del tessuto MALT
che si dispongono intorno ai follicoli, quindi in un primo momento
i follicoli sono ancora riconoscibili; successivamente il tumore
tende a colonizzare e distruggere il centro germinativo.
La forma più comune è il linfoma marginale gastrico, ma può
insorgere anche a livello di polmoni, endometrio, ecc.

Il linfoma marginale extranodale presenta un immunofenotipo B completo, quindi esprime CD20 e CD79,
ma non esprime i marcatori del centro germinativo, ovvero CD10 e BCL6. Talvolta si possono avere anche
CD5 e CD23, ma non sempre.
Se presente differenziamento plasmacellulare si osserva la selettiva espressione o delle catene leggere λ o
delle catene leggere κ, mentre una popolazione linfocitaria reattiva tende ad esprimerle entrambe.
In alcuni casi si ha il marcatore IRTA1, tipico di una sottopopolazione di cellule marginali.

Alterazioni geniche nel linfoma marginale extranodale

Le alterazioni geniche maggiormente riscontrate sono le traslocazioni (15;18), (1;14) e (11;18): tutte queste
traslocazioni coinvolgono geni che partecipano alla via di segnalazione di NF-kB, che stimola la
proliferazione. I tumori con queste alterazioni geniche presentano la via di NF-kB costitutivamente attiva,
mentre nelle neoplasie che non presentano alterazioni geniche la via risulta stimolata dal microambiente
circostante; pertanto, in presenza di queste alterazioni le cellule neoplastiche risultano indipendenti dal
microambiente. I linfomi marginali che presentano queste alterazioni di solito non sono associati a patogeni
e non rispondono bene alla terapia antibiotica; anche se le alterazioni geniche sono compresenti con
un’infezione la terapia antibiotica è inefficace poiché le cellule tumorali sono indipendenti dal
microambiente.

173
Gastrite e linfoma marginale gastrico

Il linfoma marginale dello stomaco rappresenta il 50% dei casi di linfoma marginale extranodale ed insorge
soprattutto in età avanzata e nelle regioni in cui è più diffusa l’infezione da H. Pylori.
Il linfoma marginale extranodale dello stomaco appare costituito da linfomi indolenti, con piccoli linfociti, e
progressivamente mangia il tessuto ghiandolare circostante e vengono a formarsi dei complessi linfo-
epiteliali, che permettono di distinguere tra gastrite da H. Pylori e linfomi. Talvolta, le cellule neoplastiche
dei linfomi dello stomaco presentano un differenziamento in senso plasmacellulare.

In base alle lesioni morfologiche i linfomi possono essere stadiati in quattro gradi:

Il linfoma marginale non presenta marcatori specifici, anche se tramite immunoistochimica è possibile
rilevare la presenza di IRTA1 e NMDA (quest’ultimo utile per la diagnosi differenziale con linfoma
follicolare), quindi la distinzione tra linfoma marginale dello stomaco e gastrite non è immediata.

L’infezione da H. Pylori è molto diffusa nella popolazione mondiale ed il batterio, riconosciuto come
cancerogeno di primo tipo, è presente nel 95% dei casi di linfoma marginale dello stomaco. Eliminando il
batterio il linfoma regredisce nel 70% dei casi: la regressione risulta più difficoltosa se il tumore si è esteso
alla tonaca muscolare, dal momento che i cloni neoplastici sviluppano mutazioni geniche tali da
sopravvivere anche in assenza dello stimolo microbico.
La terapia iniziale nel linfoma marginale dello stomaco è quindi la terapia antibiotica e si ricorre alla
chemioterapia sono se il trattamento di prima linea fallisce.
La gastrectomia si esegue solo in caso di linfoma molto aggressivo con rischio di perforazione in seguito a
chemioterapia o in caso di compresenza di linfoma e cancro gastrico.

H. Pylori per sopravvivere nell’ambiente acido dello stomaco produce ureasi che scindono l’urea e portano
alla formazione di ioni ammonio, innalzando localmente il pH gastrico; questo non solo favorisce la
sopravvivenza del patogeno, ma stimola anche la proliferazione dei linfociti, in particolare dei linfociti CD4+
stimolati dall’antigene batterico, i quali sono poi responsabili dell’attivazione dei linfociti B che vanno a
formare i centri germinativi. Il rischio di sviluppare un linfoma marginale aumenta se il ceppo batterico
produce la tossina CagA, la quale stimola la produzione di IL-8 da parte dell’epitelio dello stomaco e
l’attivazione dei neutrofili, che liberano ROS, aumentando il rischio di danno genomico.
Una parte dei linfomi marginali dello stomaco non sono associati ad H. Pylori, ma ad altri Helicobacter.

Altri patogeni associati a linfoma marginale extranodale

Altri patogeni associati a linfomi marginali extranodali sono:


- clamydia psittaci, responsabile del tumore marginale degli annessi lacrimali
- borrelia burgdorferi, responsabile di tumori cutanei con sviluppo estrememente lento, che talvolta
vanno incontro a risoluzione spontanea
- gonorrea, che causa linfomi marginali cutanei

174
- campylobacter jenuii, responsabile di tumori marginali intestinali costituiti da plasmacellule
tumorali (questo linfoma presenta una tale differenziazione plasmacellulare che è considerato una
neoplasia delle plasmacellule).
Anche in questi casi la terapia antibiotica volta ad eradicare l’infezione induce la regressione del tumore.

MALT linfoma e malattie autoimmuni

Nella sindrome di Sjogren si ha una reazione autoimmunitaria che porta alla distruzione delle ghiandole
eccrine, soprattutto salivari e lacrimali; la flogosi a livello ghiandolare determina l’accumulo di MALT
acquisito, che può poi andare incontro a trasformazione neoplastica. Un segno di sviluppo di un linfoma
marginale extranodale a livello ghiandolare, anche a livello tiroideo, può essere il rapido aumento delle
dimensioni delle ghiandole, infatti, il MALT non tumorale tende ad accumularsi lentamente.
Associata allo sviluppo di linfoma marginale tiroideo è la tiroide di Hashimoto.

175
LINFOMA MANTELLARE

Le cellule mantellari sono dei linfociti B naive, ovvero linfociti che non hanno ancora incontrato l’antigene,
che esprimono in superficie IgM e IgD; queste cellule vanno a costituire i follicoli primari e il mantello del
follicolo secondario, quando si forma il centro germinativo.
Il linfoma mantellare è una forma di linfoma rara, solitamente molto aggressivo e mortale, che può
manifestarsi anche come linfoma indolente. Rappresenta circa il 7% dei linfomi B e il 3-10% dei linfomi non-
Hodgkin; colpisce soprattutto pazienti adulti-anziani, con una lieve prevalenza nel sesso maschile.
Al momento della diagnosi la maggior parte dei pazienti presenta linfoadenopatie diffuse,
epatosplenomegalia e nel 70% dei casi anche coinvolgimento midollare; la diagnosi viene quindi spesso
posta in stadio avanzato e la prognosi è infausta. Spesso la malattia si diffonde anche a livello di anello del
Waldayer, usato come sede bioptica per la diagnosi, e nel 30% dei casi a livello gastro-enterico; dal
momento che nel 10% dei casi questa neoplasia origina primitivamente nell’intestino può essere necessaria
la diagnosi differenziale con linfoma marginale extranodale.

Morfologia

Il pattern di crescita è variabile: inizialmente si ha una espansione del mantello, successivamente si ha la


distruzione del centro germinativo, con acquisizione di un pattern nodulare e infine si ha la confluenza
dei noduli e l’acquisizione di un pattern di crescita diffuso.
Citologicamente si presenta spesso come un linfoma indolente, quindi con cellule di piccola taglia e nucleo
inciso, ma biologicamente si tratta di un linfoma aggressivo, che progredisce rapidamente.
Nel linfoma mantellare classico le cellule sono di piccola taglia, monotone, anche se talvolta possono
acquisire un aspetto clivato.
Nella variante blastoide l’aggressività biologica è espressa anche dal punto di vista citologico: le cellule
sono di media taglia con cromatina dispersa e sono presente diverse mitosi.
La variante polimorfa, in cui le cellule hanno aspetto polimorfo e la morfologia ricorda quella di un linfoma
diffuso a grandi cellule, è più rara.

La neoplasia interessa spesso anche il midollo, con infiltrati intravascolari e


paratrabecolari, e l’intestino; a livello intestinale l’interessamento è tipicamente
multiplo e non porta alla formazione di grandi masse, ma di piccoli polipi sessili
(poliposi linfoide). Macroscopicamente la mucosa intestinale appare integra, con
al di sotto dei noduli linfatici.

Immunofenotipo

Le cellule tumorali presentano il tipico profilo di espressione dei linfociti B maturi, mentre sono negativi i
marcatori del centro germinativo. Caratteristica è l’espressione di CD5, tipico dei linfociti T.
176
Un’altra caratteristica è la sovra-espressione nucleare della ciclina D1, regolatore della transizione di fase
del ciclo cellulare, osservabile tramite immunoistochimica. Questa sovraespressione è dovuta al fatto che
nel 95% dei casi è presente la traslocazione reciproca (11;14) che porta il gene BCL1, codificante per la
ciclina D1, dal cromosoma 11 al cromosoma 14, sotto il controllo del promotore del gene codificante per le
catene pesanti delle immunoglobuline.
La ciclina D1 si complessa con CDK4-6, proteine chinasi ciclina-dipendenti, che una volta attive fosforilano la
proteina del retinoblastoma, favorendo la transizione dalla fase G1 alla fase S del ciclo. La proteina del
retinoblastoma infatti, quando non è fosforilata, è complessata al fattore di trascrizione E2F, mentre
quando viene fosforilata libera il fattore di trascrizione, il quale può poi indurre la transizione di fase.
La positività a CD5 e ciclina D1 indirizzano quindi verso la diagnosi di linfoma mantellare.
Recentemente è stato scoperto un altro marcatore importante: SOX11, che risulta iper-espresso nel
linfoma mantellare (normalmente è espresso dalle cellule del neuroectoderma, infatti è un fattore che
regola la maturazione dei neuroni).
La diagnosi di linfoma mantellare si basa quindi sulla triade: CD5+, ciclina D1+ e SOX11+.
L’identificazione del marcatore SOX11 ha permesso di diagnosticare anche le forme di linfoma mantellare
ciclina D1-negative, che presentano mutazioni di altre cicline, come la ciclina D2 o D3, che però non
vengono ricercate perché non specifiche di questa malattia.
Si è poi visto che l’iper-espressione di SOX11 ha anche un ruolo patogenetico, infatti, altera il
differenziamento dei linfociti B a livello del centro germinativo, provocando arresti differenziativi, e
favorisce la trasformazione in cellule tumorali.

Il genoma del linfoma mantellare è però estremamente complesso e sono diverse le mutazioni, delezioni e
alterazioni cromosomiche che lo caratterizzano.
Importanti dal punto di vista prognostico sono le mutazioni o delezioni di p53, presenti nel 20-30% dei casi.
La via di p53 può inoltre essere alterata non direttamente, ma a causa di mutazioni di altri geni coinvolti,
che comportano comunque un difettivo meccanismo di riparazione del genoma e una prognosi peggiore.

Il Ki-67 è uno degli indicatori più utilizzati in anatomia patologica perché marca il nucleo delle cellule che
sono in proliferazione per stimare il rate di proliferazione cellulare di una neoplasia o di un tessuto; è stato
dimostrato che linfomi mantellari che sovra-esprimono geni legati alla proliferazione hanno prognosi
peggiore. Si è visto che linfomi mantellari con Ki-67 elevato corrispondono a linfomi con morfologia
blastoide e andamento clinico sensibilmente più aggressivo.

Linfoma mantellare indolente

Vi sono forme di linfoma mantellare che presentano un andamento clinico indolente e risultano meno
aggressivi rispetto al linfoma mantellare classico. In un 10% dei pazienti, infatti, la neoplasia si manifesta
come un linfoma marginale splenico, quindi con splenomegalia, linfocitosi ed interessamento
osteomidollare, tipicamente intrasinusale; questi pazienti non presentano linfoadenopatie.

177
Dal punto di vista genetico le forme indolenti risultano meno complesse: è presente solo la traslocazione
(11;14), accompagnata da poche altre alterazioni.
Inoltre, si è visto che nel linfoma mantellare indolente, a differenza del linfoma mantellare classico, le
cellule neoplastiche presentano ipermutazioni somatiche associate alla reazione del centro germinativo,
quindi queste forme derivano da linfociti mantellari che hanno attraversato il centro germinativo.
Un’altra caratteristica è che sono SOX11-negativi.
Questi linfomi presentano un andamento talmente indolente che spesso la terapia non è subito necessaria,
ma si aspetta di vedere come evolve la neoplasia. La sopravvivenza in caso di linfoma mantellare indolente
è del 90%, mentre nel linfoma mantellare classico è del 10%.

In alcuni casi tuttavia, i linfomi mantellari indolenti possono evolvere in forme blastoidi, diventando
iperaggressivi; questa trasformazione avviene ad esempio per acquisizione della mutazione di p53 o di una
traslocazione di Myc.

La traslocazione (11;14) avviene a livello midollare, durante l’ontogenesi B-linfocitaria; circa il 5% della
popolazione sana presenta dei linfociti con tale trasformazione nel sangue periferico: tale traslocazione
predispone allo sviluppo di linfoma mantellare, ma non è sufficiente (fenomeno analogo si osserva per la
traslocazione (14;18) tipica del linfoma follicolare). Talvolta questi piccoli linfociti con traslocazione si
localizzano nei tessuti periferici e possono essere rilevati come popolazioni linfocitarie ciclina D1+ nel
mantello intorno ad un centro germinativo, ad esempio in un linfonodo reattivo.
Il linfoma mantellare classico SOX11+ si sviluppa quindi a livello del mantello, mentre il linfoma mantellare
indolente segue una via patogenetica differente, attraverso il centro germinativo.

178
LINFOMI PERIFERICI A CELLULE T

I linfomi a cellule T rappresentano il 10% di tutti i linfomi; all’interno di questa categoria vi sono però
diverse entità, pertanto le singole malattie sono estremamente rare. La più frequente è la forma non
altrimenti specificata, NOS, che ha una incidenza del 2,5%.
Oltre alla eterogeneità, un altro problema nei linfomi T è la mancanza di marker diagnostici, fatta
eccezione per la traslocazione t(2;5) presente nei linfomi a grandi cellule anaplastiche ALK-positivi; i linfomi
T sono quindi difficile da diagnosticare, ma anche da trattare, e presentano una prognosi peggiore rispetto
ai linfomi B.
La diagnosi è difficoltosa dal momento che architettura e citologia sono estremamente variabili; anche
l’immunofenotipo è irregolare e spesso i marcatori di lineage (CD5, CD6, CD4 e CD8) vengono persi. La
variabilità dell’immunofenotipo è tale che il pannello di marcatori raccomandato dalle linee guida è
estremamente esteso, tanto che la diagnosi non può essere fatta in centri periferici.
Pur essendo rari i linfomi T sono più frequenti in alcune zone:
- In Asia sono diffuse le forme NK, correlate all’infezione da EBV
- Nel Regno Unito, dove la celiachia è particolarmente comune, sono frequenti linfomi T intestinali,
correlati ad aplotipi HLA
- Nei Caraibi, in Asia e in Romania è diffusa la forma associata a HTLV1 (leucemia a cellule T
dell’adulto), virus endemico in queste zone. Attualmente nello screening per la donazione di
sangue il virus HLTV1 non è considerato poiché non è endemico, ma vista la diffusione della
popolazione rumena in Europa in futuro potrebbe esserci una maggiore diffusione dell’infezione.

LINFOMA A CELLULE T PERIFERICHE NON ALTRIMENTI SPECIFICATO (NOS)

Si tratta del linfoma a cellule T più frequente; l’età mediana di insorgenza è di 60 anni, spesso si presenta
allo stadio IV, sia nodale che extra-nodale, e la sopravvivenza a 5 anni è del 20% circa.
La morfologia è estremamente eterogenea: vi possono essere cellule piccole, di medie dimensioni o grandi
ed irregolari. Tuttavia, esistono delle possibili varianti morfologiche:
- T-zone type → si riscontra l’espansione di cellule più chiare intorno ai follicoli, nella para-corticale
- Linfo-epitelioide o linfoma di Lennert → le cellule neoplastiche sono oscurate da una componente
istiocitaria epitelioide; è possibile che in futuro questa forma venga scorporata dai linfomi T NOS,
dal momento che presenta caratteristiche peculiari

179
Per quanto riguarda i marcatori CD5 e CD7, tipici delle cellule T, essi risultano positivi solo nel 20% dei casi.
Neanche la valutazione genetica è dirimente, infatti, i diversi casi non presentano mai il medesimo profilo
mutazionale. Può essere mutata la via di JAK/STAT, ma non essendo patognomica, ma comune a diverse
malattie, questa alterazione non aiuta nella diagnosi; la valutazione di queste mutazioni può comunque
essere utile nello studio della patologia e del suo sviluppo.
Nel linfoma a cellule T periferiche NOS sono coinvolte anche alterazioni a carico della via di segnalazione
del recettore T cellulare:
- Vi possono essere mutazioni o traslocazioni che determinano l’autonoma attivazione del TCR
- Vi possono essere tirosin-chinasi, come ALK e PDGFR, che simulano l’azione del TCR, che in realtà è
inattivo
Anche in questo caso queste alterazioni non sono utili in termini diagnostici, ma lo sono in termini
terapeutici, infatti, esistono inibitori di JAK/STAT (in studio), inibitori di ALK e TK e mediatori epigenetici,
come inibitori delle istone deacetilasi e agenti demetilanti.

Il PTCL-NOS è stato valutato con studi di gene expression profiling e si è visto questa categoria comprende
almeno due gruppi di linfomi, con prognosi distinta: tipo TBX21+ e tipo GATA3+; questi due tipi
corrispondono a due tipologie di linfocita T-helper.
Il gruppo del professor Piccaluga ha poi identificato 5 tipologie di linfoma T NOS, che vengono
clinicamente raggruppate in tre gruppi:
- Linfomi che corrispondono a linfociti T citotossici
- Linfomi che corrispondono a linfociti T-helper follicolari
- Linfomi che corrispondono a linfociti T-regolatori
Le forme correlate a T-citotossici hanno prognosi peggiore, mentre le forme correlata a T-regolatori
presentano la prognosi migliore.
La complessità dei tumori a cellule T periferiche è quindi probabilmente dovuta alla complessità della
controparte normale.

LINFOMI T CHE DERIVANO DA LINFOCITI T-HELPER FOLLICOLARI

Si tratta di una categoria introdotta nel 2017 che include linfoma angioimmunoblastico, linfoma T
follicolare e PTCL-NOS con fenotipo T-helper follicolare.
Questi tumori hanno in comune l’origine dalla controparte cellulare sana e possono essere identificati
grazie allo studio di marcatori specifici; dal momento che anche in questo caso l’immunofenotipo può
essere variabile per essere sicuri è necessario studiare almeno 3 marcatori dei T-helper follicolari (Tfh).
I marcatori dei Tfh sono BCL6, CD10, PD1, ICOS, SAP, CXCL13, CCR5.

Linfoma angioimmunoblastico

Inizialmente descritto come una sindrome clinica attribuita ad una abnorme reazione immunitaria, è
caratterizzato da linfoadenopatie multiple, epatosplenomegalia, rash cutanei, febbre, flushing cutaneo,
ipergammaglobulinemia policlonale e decorso clinico sfavorevole, con una sopravvivenza mediana
inferiore a 3 anni.
Dal punto di vista morfologico presenta tre caratteristiche
principali:
- Cellule chiare con citoplasma abbondante
- Proliferazione vascolare prominente; in realtà in tutti i
linfomi nodali T si ha un aumento delle cellule ad
endotelio alto, ma in questo caso tale aumento è
spiccato e i vasi risultano abbondantemente ramificati
L’endotelio è marcato con CD21.
- Abbondanti cellule follicolari dendritiche (marcate
con CD21) con ipertrofia dei follicoli

180
Dal punto di vista immunofenotipico molto spesso vengono persi CD5 e CD7; tendenzialmente si riscontra
CD4, coerentemente con l’origine dai T-helper follicolari, ma anche questo marcatore può venire meno.
In alcuni casi si possono rilevare cellule T con aspetto blastico EBV+: è un fenomeno comune, ma non si
hanno evidenze che l’infezione da EBV contribuisca alla patogenesi; queste cellule sono comunque un
reperto importante perché possono trasformarsi in un linfoma diffuso EBV+. Queste cellule blastiche EBV+
sono spesso CD20+, ma il trattamento con anti-CD20 non cambia la prognosi.

Linfoma T follicolare

Si tratta di un linfoma nodulare in cui si osservano linfociti CD3+, CD4+ o CD8+.


Altri marcatori sono PD1, CXCL13, CD10 e BCL6.
La distinzione con una popolazione linfocitaria reattiva si basa sulla presenza di un pattern nodulare e non
diffuso e sul fatto che la popolazione è monotipica per CD4 o CD8.

PTCL-NOS con fenotipo T-helper follicolare

Non si ha un singolo gene associato alla malattia, ma possono essere presenti alcune modificazioni:
- Traslocazione ITK/SYK, comune anche nel linfoma T follicolare
- Mutazioni di ROHA, che attiva un pathway analogo a quello del TCR (70% dei casi)
- Mutazioni di geni correlati al TCR (49% dei casi)

LINFOMA A GRANDI CELLULE ANAPLASTICHE

Si tratta di una famiglia di quattro malattie:


- Linfoma a grandi cellule anaplastiche ALK+ (sistemico)
- Linfoma a grandi cellule anaplastiche ALK- (sistemico)
- Forma primitiva della cute (forma localizzata a prognosi migliore, da distinguere dalla forma
sistemica al IV stadio)
- Forma associata a impianto protesico mammario (in studio)

Le forme sistemiche sono caratterizzate da:


- Citologia anaplastica con cellule di grandi dimensioni
- Fenotipo T o null, ovvero caratterizzato da linfociti con
un fenotipo né T né B con completa down-regolazione
del programma linfocitario, incluso il recettore
- Attivazione di pathway che vicariano l’assenza del
recettore TCR, come attivazione di STAT3 o altre
- Espressione o meno della tirosin-chinasi ALK: le forme
ALK-positive presentano prognosi migliore (la prognosi
migliore è probabilmente associata alla presenza di un
genotipo più semplice e al fatto che queste forme insorgono soprattutto in pazienti giovani)

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Il linfoma a grandi cellule anaplastiche esprime CD30, tipico del linfoma di Hodgkin, ma esprime anche altri
marcatori, come CD45, importanti per la diagnosi differenziale. CD30 ha un ruolo anche patogenetico, non
solo diagnostico, infatti, è in grado di autoalimentarsi e di attivare la proliferazione attraverso Nf-KB.
Visto il ruolo patogenetico CD30 è anche un target terapeutico: esistono anticorpi monoclonali anti-CD30,
come Brentuximab Vedotin, che si sono rilevati molto efficaci.
È anche possibile riscontrare marcatori associati alle cellule citotossiche, come granzima B e perforina; non
si riscontra EBV. Si può trovare espresso l’antigene epiteliale di membrana, EMA. CD15 è negativo, mentre il
linfoma di Hodgkin è tipicamente CD30 e CD15 positivo.

Nelle forme ALK+ si ha la traslocazione di ALK; solitamente si ha la traslocazione t(2;5) che porta al
riarrangiamento di ALK e NPM (nucleofosmina), ma sono possibili anche altre modifiche che portano
sempre alla attivazione costitutiva di ALK, che a sua volta attiva la via di STAT.
Nelle forme ALK- vi sono una serie di traslocazioni differenti che portano però al medesimo risultato,
ovvero all’attivazione della via di STAT.
Importante è anche il riarrangiamento di DUSP22, che correla con una prognosi migliore (nell’ambito dei
linfomi T una buona prognosi vuol dire che non è necessario il trapianto di midollo osseo).
Mutazioni di p53 sono invece associate ad una prognosi infausta: portano alla morte dei pazienti nell’arco
di 2 anni (nella dispensa parla di mutazioni di p63, analogo di p53).

La forma associata a protesi mammaria non è frequente, ma rappresenta una importante complicanza
dell’intervento, sia esso eseguito per motivi oncologici o per motivi estetici.
Si distinguono due forme clinico-patologiche:
- Tumore che si presenta come versamento neoplastico: fluido con cellule neoplastiche all’interno
che circonda la protesi. La malattia regredisce con la rimozione della protesi e la pulizia del
versamento. Si tratta di un sieroma.
- Forma invasiva: si ha una massa infiltrante il tessuto sano; in questo caso è necessaria
chemioterapia sistemica
Anche in questo caso si ha lo spegnimento del TCR e l’attivazione di STAT; queste forme sono simili ai
linfomi ALK-.

LINFOMA/LEUCEMIE A CELLULE T DELL’ADULTO – Dispensa (Robbins)

Questa neoplasia delle cellule T CD4+ si osserva solo negli adulti infettati dal retrovirus umano della
leucemia a cellule T di tipo 1, HTLV1, e si riscontra soprattutto nelle aree in cui questo virus è endemico,
ovvero Giappone, Africa e Caraibi. Reperti comuni sono linfoadenopatia generalizzata, lesioni cutanee,
epatosplenomegalia, linfocitosi del sangue periferico e ipercalcemia.
L’aspetto delle cellule neoplastiche è variabile, ma si riscontrano spesso cellule con nuclei multilobati,
dette cellule a trifoglio o a fiore; le cellule neoplastiche contengono il virus, il quale codifica per la proteina
Tax, in grado di attivare NF-kB e stimolare crescita e sopravvivenza dei linfociti.
Nella maggior parte dei casi la neoplasia ha un decorso aggressivo e risulta fatale in meno di un anno;
meno frequentemente si ha una forma limitata alla cute con decorso indolente.
HTLV1 è associato anche ad una malattia demielinizzante progressiva del SNC e del midollo spinale.

MICOSI FUNGOIDE – SINDROME DI SEZARY – Dispensa (Robbins)

La micosi fungoide e la sindrome di Sezary sono differenti manifestazioni di una neoplasia a cellule T-
helper CD4+ che colpisce la cute.
Nella mucosi fungoide le lesioni cutanee progrediscono attraverso tre stadi: fase pre-micotica
infiammatoria, fase di placche e fase tumorale. L’epidermide e il derma superficiale risultano infiltrati da
cellule T neoplastiche, che presentano un aspetto cerebriforme a causa di ripiegatura della membrana
nucleare. Negli stadi avanzati si ha anche la diffusione extra-cutanea, soprattutto a livello di linfonodi e
midollo osseo.

182
La sindrome di Sezary è una variante in cui l’interessamento cutaneo si manifesta come eritrodermia
esfoliativa generalizzata con associata la leucemia a cellule di Sezary, caratterizzate dai nuclei
cerebriformi.
Le cellule neoplastiche esprimono la molecola di adesione chiamata antigene leucocitario cutaneo
(cutaneous leukocyte antigen, CLA) e i recettori per le chemochine CCR4 e CCR10, che contribuiscono a
indirizzare le normali cellule T CD4+ verso la cute. Si tratta di tumori a lenta progressione, con una
sopravvivenza media di 8-9 anni, ma in alcuni casi si può avere la trasformazione a linfoma aggressivo.

LEUCEMIA A GRANDI LINFOCITI GRANULARI – Dispensa (Robbins)

Si tratta di una neoplasia rara, che interessa soprattutto gli adulti, di cui si riconoscono due varianti: a
cellule T e a cellule NK. Nel 30-40% dei casi si hanno mutazioni di STAT3.
Le cellule neoplastiche sono grandi linfociti con abbondante citoplasma blu e pochi granuli azzurrofili, che
possono infiltrare anche midollo, milza e fegato. Le varianti a cellule T sono CD3+, mentre le varianti a
cellule NK sono CD3- e CD156+.
Il quadro clinico è dominato da neutropenia e anemia, nonostante l’infiltrato midollare sia solitamente
modesto, e si ha un aumentata incidenza di patologie reumatologiche, probabilmente a causa di fenomeni
di autoimmunità innescati dalla neoplasia (sindrome di Felty: artrite reumatoide + splenomegalia +
anemia). Il decorso clinico è variabile; solitamente le forme NK sono più aggressive.

LINFOMA EXTRALINFONODALE A CELLULE NK/T – Dispensa (Robbins)

Frequente soprattutto in Asia, si presenta tipicamente come una massa destruente rinofaringea, ma può
presentarsi anche a livello cutaneo o testicolare. L’infiltrato di cellule neoplastiche circonda ed invade
piccoli vasi, determinando una estesa necrosi ischemica. Le cellule neoplastiche presentano grandi granuli
azzurrofili nel citoplasma.
Questa neoplasia è strettamente associata all’EBV, ma non è chiaro come il virus riesca ad infettare le
cellule, dal momento che esse non presentano CD21, il recettore che questo virus utilizza per penetrare
nelle cellule B. Solitamente le cellule sono CD3-, mancano del TCR ed esprimono marker tipici delle cellule
NK, pertanto si ritiene che la neoplasia abbia origine da cellule NK.
La maggior parte dei casi risulta resistente alla chemioterapia, ma risponde bene alla radioterapia; la
prognosi è quindi sfavorevole nei pazienti con malattia in stadio avanzato.

183
MALATTIE DEL TIMO
Il timo si trova nel mediastino antero-superiore, dietro lo sterno e davanti al pericardio; con la pubertà
inizia progressivamente a regredire: si ha una drastica riduzione delle dimensioni e il tessuto adiposo
prende il sopravvento sul tessuto funzionale.
Il timo è costituito da due lobi fusi insieme e circondati da una capsula fibrosa che invia setti fibrosi nel
parenchima e lo divide in numerosi lobuli; all’interno di ciascun lobo si riconosce una zona corticale, più
esterna e scura all’istologia, e una zona midollare, più interna e istologicamente chiara.
Le cellule epiteliali della corticale hanno un aspetto poligonale e risultano connesse l’una all’altra tramite
prolungamenti citoplasmatici, mentre le cellule nella midollare hanno un aspetto più allungato. Struttura
caratteristica della midollare è il corpuscolo di Hassall, costituito da aggregati di cellule epiteliali che
abbozzano una differenziazione in senso cheratinico; questa struttura è importante dal punto di vista del
riconoscimento istologico, infatti, se si è di fronte ad un tessuto con linfociti, linfoblasti e corpuscoli di
Hassall si può dire che si tratta di tessuto timico.

La popolazione cellulare del timo è costituita da diversi citotipi, ma i più frequenti sono cellule epiteliali e
linfociti T immaturi. Nel timo si trovano:
- timociti, ovvero cellule linfoidi in via di maturazione nel processo che va dalla corticale alla
midollare
- linfociti B, che si trovano sparsi nella corticale interna e in parte nella midollare, non strutturati a
formare follicoli; hanno un aspetto a cellule asteroidi
- cellule stromali
All’interno del timo avviene l’ontogenesi T-linfocitaria: i precursori linfoidi che arrivano al timo iniziano un
processo maturativo che procede dalla corticale verso la midollare; inizialmente i precursori esprimono i
marcatori T cellulari, ma non esprimono né CD4 né CD8, successivamente divengono cellule doppio
positive, esprimendo sia CD4 che CD8, e infine nella midollare si ha il differenziamento in linfociti T CD4+ o
CD8+.

Tra le neoplasie che possono insorgere nel mediastino e


coinvolgere il timo si trovano:
- linfomi, che originano dai linfociti T in via di
maturazione; si tratta di linfomi o leucemie
linfoblastiche
- neoplasie germinali, che originano da residui di
cellule germinali allocate nel mediastino
- neoplasie epiteliali
- carcinomi primitivi
- tumori neuro-endocrini

TIMOMA

Il timoma è una neoplasia epiteliale primitiva del timo e risulta costituita da cellule epiteliali neoplastiche
e linfociti normali in varia proporzione. Costituisce il 20% di tutte le neoplasie mediastiniche ed è la più
comune neoplasia del mediastino antero-superiore; va ricordato che durante il processo di embriogenesi
possono rimanere dei residui timici, che portano poi allo sviluppo di piccole isole timiche ectopiche,
soprattutto a livello di collo e mediastino posteriore, da cui possono insorgere timomi.
L’incidenza del timoma è di 1/10.000-20.000 ricoveri ospedalieri e solitamente insorgere intorno alla
quinta decade di vita, con una lieve prevalenza nel sesso femminile (rapporto F:M di 2:1).

I timomi possono anche essere associati a diverse manifestazioni sistemiche su base autoimmune. Il gene
AIRE regola la presentazione di auto-antigeni da parte delle cellule epiteliali midollari del timo, in modo che
184
possano essere identificati ed eliminati linfociti autoreattivi; nella maggior parte dei timomi si ha una
espressione difettosa del gene AIRE e ciò porta allo sviluppo di cloni di linfociti T autoreattivi e di
conseguenza allo sviluppo di anticorpi autoreattivi.
Le manifestazioni sistemiche associate a timoma sono diverse, tra cui malattie autoimmuni, manifestazioni
neurologiche, muscolari, ematologiche, dermatologiche, endocrine, renali ed epatiche; tra le più rilevanti
rientrano:
- miastenia gravis
- aplasie selettive della serie rossa, con anemia
- ipogammaglobulinemie o pancitopenie che espongono il paziente ad elevato rischio infettivo
- LES
- Artrite reumatoide
- Manifestazioni cutanee
- Sindrome di Cushing
Inoltre, si registra un lieve di altre neoplasie in seguito a timectomia per timoma, probabilmente a causa
dell’immunodeficienza tumorale.

Miastenia gravis

È associata a timoma, infatti, il 35% dei pazienti con timoma sviluppa miastenia gravis e il 15% dei pazienti
con miastenia gravis sviluppa un timoma; inoltre, il 30% dei pazienti con miastenia gravis presenta
iperplasia timica.
La miastenia gravis è caratterizzata da debolezza muscolare, che peggiora con l’esercizio fisico, e
spossatezza; la debolezza muscolare riguarda inizialmente i muscoli dei cingoli prossimali, ma può poi
estendersi fino ad interessare i muscoli respiratori e portare a morte del paziente. Spesso sono interessati
anche i muscoli oculari, pertanto si ha ptosi e diplopia; l’interessamento dei muscoli oculari permette di
distinguere questa condizione da altre distrofie muscolari.
È causata dalla presenza di autoanticorpi diretti contro il recettore dell’acetilcolina o le proteine del
sarcolemma, in particolare, la proteina recettoriale tirosin-chinasi muscolo specifica.
Gli anticorpi diretti contro il recettore dell’acetilcolina, AchR, portano alla perdita di funzione dei recettori a
livello di giunzione neuro-muscolare tramite diversi meccanismi:
- Fissazione del complemento e danno diretto alla membrana post-sinaptica
- Aumento della internalizzazione e degradazione del recettore
- Inibizione del legame con l’acetilcolina

Stadiazione

La stadiazione del timoma non si basa sul TNM, ma tiene


in considerazione i rapporti della massa con la capsula. Il
sistema di stadiazione usato è il Masaoka staging system:
- Stadio I → timoma capsulato,
macroscopicamente localizzato nella capsula,
senza evidenze microscopiche di invasione
capsulare
- Stadio II → coinvolgimento capsulare, invasione
macroscopica del tessuto adiposo mediastinico o della pleura mediastinica
- Stadio III → superamento della capsula e infiltrazione degli organi adiacenti, ovvero pericardio, vasi
e polmone
- Stadio IV → formazione di noduli separati dalla massa principale negli organi adiacenti o
disseminazione a distanza per via linfatica; la disseminazione per via ematica è più rara
La stadiazione permette di definire prognosi e terapia; i tumori allo stadio I e II possono essere trattati con
escissione chirurgica, dal momento che sono facilmente resecabili, mentre i tumori di stadio più avanzato
richiedono anche chemio- o radio-terapia, oltre alla chirurgia, onde evitare la comparsa di recidive.

185
Clinica

Circa il 40% dei timomi si presenta con sintomi da compressione locale, dovuti al contatto della massa con
le strutture limitrofe, come tosse, dispnea, dolore toracico e disfagia. Oltre a queste si hanno ovviamente
le manifestazioni sistemiche prima descritte.
Vi sono però casi di timomi completamente asintomatici, circa il 50%, che vengono scoperti
incidentalmente tramite studi di imaging o interventi di chirurgia toracica.

Invasività e mortalità

La maggior parte dei timomi non è invasiva, ma circa 1/3 di essi risulta localmente invasivo.
L’invasività locale correla con una prognosi peggiore; la prognosi dipende anche dalla presenza di malattie
autoimmuni, come pancitopenie o aplasia midollare, che possono portare a gravi anemie e aumentare il
rischio di infezioni, potenzialmente fatali.

Classificazione

Macroscopicamente i timomi si presentano come masse compatte e lobulate di colore grigio-biancastro e


dimensioni variabili, che possono raggiungere i 15-20 cm; talvolta sono presenti aree di calcificazioni o
necrosi cistica. Nella maggior parte dei casi le masse sono capsulate, ma nel 25% dei casi circa si ha la
penetrazione della capsula tumorale.
Esistono diverse classificazioni dei timomi, quella della WHO del 2004, puramente istologica, riconoscono
più sottotipi:
- Timomi di tipo A
- Timomi di tipo B, ulteriormente suddivisi in B1, B2 e B3
- Timomi misti di tipo AB
- Carcinomi timici
I timomi di tipo A, B1 e AB sono in genere capsulati o presentano una minima invasione dei tessuti
circostanti, pertanto presentano un’ottima resecabilità chirurgica e un’ottima sopravvivenza; i timomi di
tipo B2 e B3 tendono ad essere più aggressivi ed invasivi, pertanto presentano una sopravvivenza peggiore.

Timoma di tipo A
Per definire un timoma è necessario che vi siano le cellule epiteliali neoplastiche e i timociti, che risultano
però normali.
Il timoma di tipo A presenta cellule che ricordano quelle della midollare del timo, pertanto è detto anche
timoma midollare. Si tratta di una neoplasia benigna in cui le cellule epiteliali neoplastiche presentano
polimorfismi nucleari e spesso si dispongono a vortice; nel timoma di tipo A le cellule neoplastiche formano
dei nidi, all’interno dei quali o ai margini dei quali si ritrovano i linfoblasti.
Nell’85% dei casi l’esordio è nello stadio 1, è poco invasivo e la sopravvivenza a 15 anni è del 100%; inoltre,
è infrequente l’associazione con miastenia gravis.

Timoma di tipo AB
Detto anche timoma misto, presenta foci di cellule fusate (foci di tipo A), frammisti ad aree in cui si hanno
aggregati di timociti. La quota neoplastica epiteliale è bassa e si hanno tanti timociti reattivi. Nell’80% dei
casi l’esordio è al primo o al secondo stadio, l’invasività è presente nel 10-15% dei casi e la sopravvivenza a
15 anni è del 90%.

Timoma B1
La morfologia nel timoma B1 ricorda quella del timo normale, infatti,
nonostante il tessuto sia alterato è possibile riconoscere midollare e
corticale e le cellule appaiono distanziate tra loro.

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È costituito da cellule reticolari della corticale, cellule tipiche della midollare e corpuscoli di Hassall,
immersi in un contesto di timociti.
Le caratteristiche cliniche includono:
- Associazione con miastenia gravis nel 55% dei casi
- Invasione dei tessuti adiacenti nel 28% dei casi
- Metastasi pleurica nell’8% dei casi e metastasi extra-toraciche nel 2,5% dei casi
- Nel 10% dei casi all’esordio si ha uno stadio III o IV
- La sopravvivenza a 10 anni è del 90%

Timoma B2
Inizia a prevalere la componente epiteliale su quella dei timociti, non
si riesce più a distinguere midollare e corticale e la sopravvivenza a 10
anni cala, arrivando al 60%, dal momento che nella metà dei casi la
diagnosi avviene in stadio avanzato, III o IV.

Timoma B3
Morfologicamente ricorda un carcinoma dal momento che le cellule epiteliali tumorali prendono il
sopravvento ed è difficile riconoscere la componente timocitica. Molto spesso è invasivo e la
sopravvivenza a 10 anni è del 40%.
Nell’immagine in basso a destra si vede come la neoplasia supera la capsula ed invade il parenchima
polmonare.

Terapia

La terapia si basa su estensione e stadiazione della massa:


- Nello stadio I si asporta la massa
- Nello stadio II e III oltre alla massa si asportano anche le aree di infiltrazione e sulla base della
stadiazione chirurgica e anatomopatologica si procede con radioterapia nelle aree di infiltrazione,
in modo da ridurre il rischio di recidiva
- Nello stadio IV si possono fare dei debulking, ovvero interventi non curativi di asporatazione della
massa, che però migliorano la clinica; a questi si associano protocolli di chemio- o radio- terapia
In genere la possibilità di guarigione dipende dalla resecabilità chirurgica.

CARCINOMA TIMICO

La differenza fondamentale con il timoma risiede nel fatto che nei carcinomi che insorgo a livello timico
non è mantenuta la componente dei timociti, quindi manca la dualità timociti-cellule neoplastiche. Se si
riscontrano linfociti frammisti alle cellule tumorali del carcinoma timico, si tratta di linfociti T maturi, non di
linfoblasti. Il carcinoma timico era prima classificato come timoma di tipo C.

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Morfologia

L’aspetto tipico è quello dei carcinomi a cellule squamosa, sarcomatoidi o di altri sottotipi.
I carcinomi che insorgono a livello timico sono sdifferenziati e difficilmente distinguibili dai carcinomi che
insorgono in altre sedi; inoltre, può risultare complessa la diagnosi differenziale con timoma B2 o B3.
Nella diagnosi può rivelarsi utile
l’immunoistochimica che permette di
distinguere linfoblasti e linfociti maturi e di
eseguire quindi la diagnosi differenziale con i
timomi; spesso nei carcinomi si trovano
marcatori neuroendocrini, come la
cromogranina, e ciò impone la diagnosi
differenziare con tumori neuroendocrini che
possono insorgere a livello timico, come i
carcinoidi.
Macroscopicamente i carcinomi si presentano
come masse carnose con chiari aspetti
invasivi, talvolta accompagnate da diffusone
metastatica in diverse sedi, soprattutto al
polmone. La prognosi dipende quindi dalla
eradicabilità chirurgica.

CARCINOIDE TIMICO

Il carcinoide rappresenta il 16% di tutti i tumori timici e in questo caso la trasformazione neoplastica parte
da cellule neuroendocrine. I carcinoidi interessano soprattutto il sesso maschile intorno ai 40 anni e
spesso insorgono associati a MEN1; tendono a diffondersi in altre sedi e a recidivare.
Solitamente i carcinoidi timici non si associano a sindrome paraneoplastica o a sindrome di Cushing, ma
presentano prognosi peggiore rispetto a carcinoidi di altre sedi e ciò è dovuto al fatto che invadono
rapidamente parete toracica e cuore.

DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON ALTRE NEOPLASIE

I tumori del timo richiedono la diagnosi differenziale con:


- Linfoma di Hodgkin variante sclerosi nodulare, che forma masse nel mediastino antero-superiore
- Tumore primitivo del mediastino a grandi cellule B
- Tumori a cellule germinali, tipici dei giovani, in cui rientrano teratomi cistici maturi, seminomi e
carcinomi embrionari. Questi possono essere sia primitivi del mediastino che derivanti dagli organi
genitali.
- Linfoma linfoblastico T, che insorgere dai precursori T cellulari timici e può manifestarsi con masse
mediastiniche o con fasi leucemiche. La diagnosi differenziale con i timomi può essere complessa
poiché si può avere un fenotipo aberrante, pertanto talvolta si ricorre ad indagini molecolari.

IPERPLASIA TIMICA – Dispensa (Robbins)

Con il termine iperplasia timica si intende l’aumento di volume del timo a causa della comparsa di centri
germinativi B cellulari al suo interno; si parla di iperplasia follicolare del timo. Questa condizione è
associata ad una serie di condizioni infiammatorie e patologie immunologiche, tra cui la miastenia gravis
(l’iperplasia timica è presente nel 65-75% dei casi di miastenia gravis), LES, sclerodermia, artrite
reumatoide, ecc.
In alcuni casi il timo nonostante sia di grandi dimensioni risulta morfologicamente normale.
Questa condizione può essere scambiata per un timoma e portare ad interventi non necessari.
188
MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
MORFOLOGIA POLMONARE – Dispensa

Il polmone di destra presenta tre lobi, il polmone di sinistra due e ciascun polmone riceve aria dal bronco
lobare. I bronchi si ramificano con suddivisione dicotomica fino ad arrivare ai bronchioli, che non
presentano né lo scheletro cartilagineo né le ghiandole sottomucose, e ai bronchioli terminali, del
diametro inferiore a 2 mm. La parte di polmone distale rispetto al bronchiolo terminale è detta acino e
presenta forma sferica con diametro di circa 7 mm; ogni acino è composto da bronchioli respiratori, che
presentano diversi alveoli, dai dotti alveolari e dai sacchi alveolari, ovvero estremità a fondo cieco
costituite da una successione di alveoli. Il lobulo polmonare è costituito da un gruppo di 3-5 bronchioli
terminali, ciascuno con il rispettivo acino.
Ad eccezione delle corde vocali, che presentano epitelio squamoso stratificato, tutto l’albero bronchiale è
costituito da epitelio colonnare ciliato pseudo-stratificato. La mucosa bronchiale presenta anche cellule
neuro-endocrine che producono diversi fattori, come serotonina, calcitonina e bombesina, ghiandole
sottomucose e cellule caliciformi mucipare; ghiandole e cellule mucipare non sono però presenti nei
bronchioli.
I setti alveolari sono costituiti da:
- Epitelio capillare
- Epitelio alveolare, a sua volta costituito da
o Pneumociti di tipo I, piatti e sottili, che ricoprono
il 95% della superficie alveolare
o Pneumociti di tipo II, che provvedono alla
produzione di surfactante, contenuto dei corpi
multilamellari osmiofili, e alla riparazione
dell’epitelio alveolare, dal momento che quando
necessario possono differenziarsi in pneumociti
di tipo II
o Macrofagi alveolari, che si trovano sia adesi alla
parete sia liberi nello spazio alveolare
- Membrane basali e tessuto interstiziale: nelle porzioni più sottili le membrane basali dei due strati
epiteliali sono fuse, mentre nelle porzioni più spesse si ha l’interporizione di uno strato di tessuto
interstiziale. L’interstizio polmonare presenta fibre elastiche, collagene, cellule simil-fibroblastiche,
cellule muscolari lisce, mastociti e più raramente linfociti e monociti.
La pareti alveolari sono perforate, presentano numerosi pori detti pori di Kohn, e ciò permette il passaggio
di microorganismi ed essudato da tra alveoli adiacenti.

PATOLOGIE DELL’INTERSTIZIO POLMONARE

Le patologie polmonari possono essere distinte in:


- Ostruttive → caratterizzate da un aumento della resistenza al flusso d’aria dovuto ad una
ostruzione completa o parziale dell’albero respiratori
- Restrittive → caratterizzate da una ridotta espansione e una ridotta capacità polmonare
Le malattie restrittive possono essere causate da malattie della parete toracica, malattia
neuromuscolari, malattie pleuriche, obesità, cifoscoliosi e patologie interstiziali.
L’interstizio polmonare viene suddiviso in portante e settale.
L’interstizio polmonare portante è formato da connettivo peribronchiale, perivascolare e pleurico,
rappresentato soprattutto da connettivo reticolare che si organizza a formare bande di collagene di tipo I.
L’interstizio polmonare portante si continua poi nell’interstizio settale, rappresentano dalla
giustapposizione delle membrane basali dei capillari settali e delle cellule epiteliali e alveolari, da fibre
reticolari sottili ed elastiche e da un gel polisaccaridico.

189
Dal punto di vista istologico nell’epitelio settale si osservano cellule epiteliali, macrofagi, fibre nervose,
miofibroblasti e linfociti; per visualizzate il reticolo è necessaria la colorazione specifica, ovvero al
colorazione Gomori.

POLMONITI INTERSTIZIALI

La polmoniti interstiziali sono un gruppo eterogeno di malattie ad eziologia varia aventi in comune il
primitivo interessamento dell’interstizio polmonare. Possono avere una insorgenza acuta, subacuta o
cronica e si manifestano con tosse, solitamente secca, dispnea, crepitii all’esame obiettivo, cianosi ed
ippocratismo digitale, ma queste patologie possono complicarsi e portare a insufficienza respiratoria,
ipertensione polmonare e scompenso cardiaco.
Per la diagnosi è essenziale la TC ad alta risoluzione, HRCT, che permette di dedurre il quadro istopatologico
sulla base del quadro istologico; solo in numero limitato di casi è necessario ricorrere alla biopsia polmonare
per confermare la diagnosi.

Classificazione

Forme idiopatiche
- Polmonite interstiziale usuale UIP
- Polmonite interstiziale non specifica, NSIP
- Polmonite interstiziale acuta, AIP o sindrome di Hamman-Rich
- Polmonite criptogenetica in fase di organizzazione, COP
- Polmonite interstiziale desquamativa, DIP
- Pneumopatia interstiziale associata a bronchiolite respiratoria
Attualmente le ultime due forme non sono più considerate idiopatiche poiché è stata dimostrata
l’associazione con il fumo di sigaretta, tanto che talvolta regrediscono spontaneamente se si sospende
l’abitudine al fumo.

Forme secondarie
- Secondarie a malattie sistemiche, come collagenopatie, malattie autoimmuni, ecc.
- Secondarie a farmaci, come antibiotici, antimetaboliti, alchitanti, amiodarone, antireumatici
- Secondarie all’inalazione di polvere, organiche o inorganiche, come silicio, asbesto, ecc.
- Secondarie all’inalazione di gas, fumo di sigaretta o ossigeno
- Secondarie ad infezioni
- Secondarie a radioterapia
- Secondarie ad uremia
- Secondarie ad altre condizioni, come istiocitosi, sarcoidosi, proteinosi alveolare

Patogenesi

Sia le forme idiopatiche che le forme secondarie seguono i medesimi meccanismi patogenetici; dal punto di
vista fisiopatogenetico si ha una alveolite con danno interstiziale che evolve in tre fasi: fase acuta, fase
proliferativa e fase di fibrosi e rimodellamento; l’ultima fase non è presente in tutte le patologie.

Fase acuta
La noxa patogena danneggia l’epitelio alveolare e stimola l’infiammazione: ciò porta alla attivazione dei
macrofagi, che producono IL-8 e TNF-α, e dei granulociti, che a loro volta determinano
- Attivazione dell’endotelio vascolare con conseguente aumento della permeabilità, espressione di
integrine e diapedesi dei granulociti, attraverso l’endotelio
- I granulociti reclutati vengono ulteriormente attivati da macrofagi ed elementi infiammatori
presenti nel parenchima polmonare pertanto producono citochine e ROS che possono
ulteriormente danneggiare l’epitelio alveolare

190
Il risultato della fase acuta è quindi
l’aumento di permeabilità dei vasi, che
determina prima la formazione di trasudato
e successivamente di essudato, ricco di
proteine plasmatiche, a livello di setto
alveolare e il richiamo per chemiotassi di
granulociti eosinofili nella sede del danno.
Il quadro istopatologico è quindi
caratterizzato da congestione vascolare,
edema interstiziale ed alveolare, presenza
di macrofagi e granulociti; nei casi più gravi
si ha anche necrosi degli pneumociti.

Fase proliferativa
Il tessuto reagisce all’infiammazione e al
danno epiteliale con la proliferazione degli
pneumociti di tipo II. Quando gli pneumociti
di tipo II si attivano e proliferano l’epitelio
assume un aspetto tipico, dovuto al fatto che
gli pneumociti di tipo II sono cuboidali, non
piatti come gli pneumociti di tipo I.
La presenza di cellule cubiche è atipica e la biopsia di
una polmonite interstiziale in fase proliferativa può
essere scambiata con un caso di carcinoma con pattern
di crescita bronchiolo-alveolare.
Se la flogosi persiste, soprattutto se essa è innescata da
meccanismi immunomediati, come reazioni di
ipersensibilità o collagenopatie, si accumulano cellule
tipiche della flogosi cronica: neutrofili, presenti anche
nella flogosi acuta, linfociti, plasmacellule e macrofagi.
Il meccanismo riparatorio prevede però anche
l’attivazione e la proliferazione di fibroblasti e mio-
fibroblasti, che depongono fibre reticolari; questa
attivazione è dovuta alla liberazione da parte delle
cellule epiteliali e delle cellule infiammatorie di fattori
trofici per le cellule connettivali, come FGF e TGF-β.
Fase di fibrosi e rimodellamento
In una minima quota delle polmoniti interstiziali, per motivi non noti o perché persiste la flogosi,
l’attivazione e la proliferazione dei fibroblasti risultano persistenti e continue, pertanto si ha l’accumulo
di fibre reticoliniche che si organizzano in fibre collagene. L’accumulo di fibre collagene determina una
grossolana fibrosi e il rimodellamento del parenchima polmonare: il parenchima assume un aspetto micro-
e macro-cistico e perde la propria funzionalità respiratoria.

Eziologia e pattern istologico

Eziologia e tipo di danno istologico non sono correlati: la lesione istopatologica dell’interstizio polmonare
può presentare pattern diversi, indipendentemente dall’eziologia, ma ad ogni tipo di danno
anatomopatologico corrisponde un quadro radiologico.
I pattern istopatologici sono 6 e sono identificati dalla classificazione di Leslie: danno acuto, infiltrati
infiammatori cronici, alveoli pieni, noduli, fibrosi, pattern a lesioni minime.

191
Pattern di danno acuto
Quadro di danno alveolare acuto che presenta le caratteristiche della fase acuta e della fase proliferativa,
ovvero danno alveolare, risposta chemiotattica e attivazione dell’endotelio. Istologicamente si osservano
congestione acuta per attivazione dell’endotelio, presenza negli alveoli di granulociti e detriti cellulari,
necrosi ed emorragie di entità variabile a seconda dell’agente eziologico.
Nei casi più gravi si può avere sindrome da distress respiratorio, quindi ipossiemia acuta, dovuta a danno
alveolare diffuso, DAD, visualizzabile tramite imaging del torace come infiltrazione bilaterale.
Se il paziente supera la fase acuta dopo circa una settimana si ha la fase proliferativa, caratterizzata dalla
proliferazione degli pneumociti di tipo II, che conferisce il tipico aspetto cuboidale all’epitelio.
Si ha poi l’attivazione di fibroblasti e miofibroblasti; queste cellule sono normalmente rare nell’interstizio
polmonare e nel momento in cui proliferano e aumentano di dimensioni possono essere riconosciute
poiché formano dei gruppetti che appaiono come zone leggermente più chiare.
Un quadro di danno alveolare acuto o diffuso può portare a tre differenti esiti: morte del paziente,
risoluzione del quadro o fibrosi e rimodellamento del parenchima polmonare.

Esiste un pattern particolarmente grave di danno acuto, il pattern di danno alveolare diffuso.
Il danno polmonare acuto, ALI (acute lung ingury) è caratterizzato dall’insorgenza improvvisa di ipossiemia
le infiltrati polmonari diffusi, in assenza di insufficienza cardiaca, e può portare a sindrome da distress
respiratorio, ARDS (acute respiratory distress syndrome). La manifestazione istologica di ALI e ARDS è il
danno alveolare diffuso, DAD.
Il quadro anatomopatologico è caratterizzato da congestione ed edema; a livello dei vasi si ha un aumento
della permeabilità, stravaso granulocitario e formazione di microtrombi che inducono danno ischemico. A
livello alveolare si osserva necrosi degli pneumociti di tipo I, essudato infiammatorio, denudamento della
membrana basale e nei casi più gravi necrosi degli pneumociti di tipo II. Dal momento che gli pneumociti
di tipo II non solo riparano il danno, ma assorbono anche l’edema, il danno a loro carico si traduce in una
ridotta capacità di riassorbimento dei liquidi a livello alveolare, che vanno quindi ad ostacolare gli scambi
gassosi. Gli pneumociti di tipo II presentano infatti pompe protoniche che consentono loro di portare ioni
potassio e sodio dal versante alveolare a quello interstiziale, richiamando così liquidi dagli alveoli. Il danno a
carico degli pneumociti di tipo II determina anche alterazioni del surfactante, che compromettono
ulteriormente lo scambio gassoso.
Dal punto di vista macroscopico il polmone appare rosso a causa della congestione, consistente a causa
dell’edema e pensante e pastoso.
Caratteristica tipica di questo quadro patologico è la presenza di membrane ialine, che si formano
dall’ispessimento dell’essudato ricco di proteine, che cattura i detriti cellulari derivanti da cellule epiteliali,
alveolari ed immunitarie. Le membrane ialine si depositano sulla superficie alveolare, sostituendo il
surfactante, ostacolando lo scambio gassoso e riducendo l’espansione polmonare; tutto ciò concorre a
provocare al sindrome da distress respiratorio.
Nelle prime fasi del processo patologico si osserva un aumento dei neutrofili nei vasi, nell’interstizio e negli
alveoli; pare che i neutrofili siano richiamati da IL-8 e TNF e che a loro volta contribuiscano al processo
192
infiammatorio e al danno epiteliale. Sembra infatti che nella ARDS il danno polmonare sia causato da uno
squilibrio tra i mediatori pro-infiammatori e quelli anti-infiammatori; i meccanismi che portano alla
attivazione incontrollata del processo infiammatorio non sono ancora del tutto chiaro, ma pare sia coinvolta
la via di NK-kB. Un’altra caratteristica della ARDS è la disregolazione del sistema di coagulazione:
aumentano i livelli di fattore tissutale e si riducono i fattori anti-coagulanti.
Il pattern di danno alveolare diffuso può essere provocato da infezioni, aspirazioni di contenuto gastrico,
traumi, quindi emorragie e shock, connettiviti, farmaci, radiazioni, reazioni allergiche, sostanze tossiche
inalate, ecc. ma può risultare anche idiopatico.
Clinicamente quindi il pattern di danno alveolare diffuso si manifesta con ARDS, quindi con insufficienza
respiratoria, cianosi e ipossiemia non responsive ad ossigenoterapia. Si può sviluppare anche acidosi
respiratoria e in alcuni casi l’essudato e la distruzione epiteliale non si risolvono, ma evolvono in cicatrici e
fibrosi interstiziale, compromettendo la funzionalità polmonare e portando a malattia polmonare cronica.
Le alterazioni funzionali nell’ALI non sono distribuite equamente a livello del parenchima polmonare, ma vi
sono regioni infiltrate, addensate o collassate e regioni con ventilazione pressoché normale.
La TC ad alta risoluzione mostra infiltrati bilaterali diffusi con opacità diffusa.
Nelle immagini in basso si vedono le membrane ialine e l’edema intra-alveolare dovuto al danneggiamento
degli pneumociti di tipo II.

Pattern di infiltrati infiammatori cronici


In alcuni casi, soprattutto nelle polmoniti interstiziali da
danno immunomediato, la flogosi persistente determina
l’accumulo di infiltrati infiammatori cronici costituiti
soprattutto da linfociti e plasmacellule. L’infiammazione
non è più acuta, ma subacuta.
Talvolta questi infiltrati infiammatori sono talmente
abbondanti da determinare dei pattern micronodulari o
nodulari, infatti, la flogosi cronica può provocare
l’accumulo di MALT acquisito.
Gli infiltrati sono inizialmente localizzati a livello settale
(aree blu scure nell’immagine a lato), ma successivamente
iniziano formare degli aggregati di MALT acquisito.

Pattern ad alveoli pieni


Si tratta di un pattern abbastanza raro caratterizzato dalla presenza all’interno degli alveoli di cellule, in
particolare macrofagi e fibroblasti, o materiale proteinaceo.
Nella polmonite cripotenetica in fase di riorganizzazione si ha l’accumulo di macrofagi all’interno degli
alveoli.
Nei casi in cui la proliferazione dei miofibroblasti è molto abbondante si possono formare degli aggregati
che debordano nei piccoli bronchi e negli alveoli, dando un pattern ad alvoli pieni costituito da piccoli ciuffi
di miofibroblasti che occupano lo spazio alveolare.
Negli alveoli si può accumulare anche materiale proteinaceo, come avviene nella proteinosi alveolare
polmonare, PAP. Normalmente gli alveoli sono matenuti pervi dai macrofagi, che garantiscono la clearance
193
del materiale proteinaceo. I macrofagi sono stimolati dal GM-CSF e fagocitano le proteine alveolari, ma se
tale funzione dei macrofagi viene meno si manifesta la PAP. Le disfunzioni che possono portare
all’accumulo di materiale proteinaceo sono diverse:
- Disfunzioni secondarie a patologie autoimmuni
- Disfunzioni legate a tumori polmonari
- Disfunzioni legate a pneumoconiosi (tipico pattern della silicosi acuta)
- Mutazione ereditaria del recettore macrofagico per il GM-CSF, che causa PAP ereditaria (molto
rara)
Nei primi tre casi la disfunzione è probabilmente dovuta alla presenza di auto-anticorpi che impediscono il
legame di GM-CSF con il recettore macrofagico.

Pattern nodulare
I noduli possono essere:
- Noduli di MALT acquisito
- Granulomi, come nel caso della tubercolosi o della sarcoidosi
- Noduli associati a pneumoconiosi, come la silicosi

Pattern fibrotico
Possono evolvere in fibrosi la polmonite interstiziale usuale, le pneumoconiosi e le collagenopatie.
La produzione di fibre reticolari da parte dei miofibroblasti e la loro organizzazione in fibre collagene
determinano la distorsione del parenchima polmonare, che assume un aspetto micro- o macro-cistico.
Tale aspetto cistico è detto anche polmone a favo d’api o honeycomb dal momento che ricorda un alveare
e risulta assolutamente irreversibile.

POLMONITE INTERSTIZIALE USUALE – UIP

Porta sempre a fibrosi polmonare e rappresenta la forma più grave di polmonite interstiziale
fibrotizzante.
È una malattia rara, ma ciò probabilmente è anche dovuto al fatto che risulta sotto-diagnosticata, viste le
difficoltà nella diagnosi; la prevalenza in Europa è di circa 300.000 pazienti e l’incidenza aumenta dopo i 65
anni, soprattutto nel sesso maschile (rapporto M:F di 2:1). Sebbene sia una condizione rara è abbastanza
frequente tra le polmoniti interstiziali fibrotizzanti, rappresentandone il 20%; altre forme di polmonite
fibrosante sono rappresentate da complicanze di polmoniti da ipersensibilità (20%), patologie polmonari
associate a collagenopatie (20%), sarcoidosi (20%), pneumoconiosi (10%) e altre (10%).
194
Patogenesi

Si tratta di una sindrome clinico-patologica caratterizzata da fibrosi polmonare interstiziale progressiva e


insufficienza respiratoria. Si tratta di una patologia idiopatica, ma è stata notata l’associazione con fumo,
alcuni pattern di microbiota polmonare, sindrome da reflusso gastro-esofageo e particolari ambienti
lavorativi, come l’ambiente agricolo o ambienti esposti a polvere di metallo, silicio e legno.
Sono state identificate, soprattutto nelle forme familiari (si tratta di una patologia sporadica, ma sono stati
registrati alcuni cluster familiari), alcune mutazioni a carico della produzione del surfactante, della
clearance muco-ciliare e delle telomerasi; infatti, pare che gli pneumociti di tipo II di alcuni pazienti affetti
da UIP abbiano un meccanismo di invecchiamento cellulare alterato, con un accorciamento dei telomeri
velocizzato.
Sono state identificate anche alterazioni della regolazione epigenetica, anche nelle forme sporadiche, a
carico di geni che regolano la risposta fibrotica in seguito a danno al parenchima polmonare. Pare infatti
che siano silenziati geni con funzione anti-fibrotica, come:
- CAV1 che regola la via di TGF-β1
- COX2, con conseguente perdita di PGE2, importante mediatore anti-fibrotico
- THY1, che codifica per il recettore anti-fibrotico Thy1
La patogenesi nel suo complesso rimane ignota, ma pare evidente che vi siano delle alterazioni che
rendono l’epitelio alveolare incapace di rispondere in maniera fisiologica ad un danno. Nel momento in cui
si ha una noxa patogena l’epitelio risponde producendo in maniera aberrante e persistente fattori di
crescita, metalloproteinasi, citochine e chemochine che attivano fibroblasti e miofibroblasti, i quali a loro
volta producono fibre reticoliniche si organizzano in fibre collagene. Il problema non è quindi nella risposta
dei fibroblasti, ma nella persistente stimolazione da parte dell’epitelio; inoltre, una volta prodotta la
matrice collagena, su di essa si depositano FGF e TGF- β, prodotti dall’epitelio, che attivano recettori tirosin-
chinasici e perpetuano l’attivazione dei miofibroblasti e la flogosi. Al fine di contrastare questo meccanismo
si usano terapia mirate basate su inibitori delle tirosin-chinasi.

Clinica

L’esordio è estremamente insidioso e la clinica è caratterizzata da tosse secca e dispnea, inizialmente sotto
sforzo, poi anche a riposo. Quando si arriva all’insufficienza respiratoria cronica si sviluppano anche crepitii
polmonari e ippocratismo digitale.

195
La diagnosi non è semplice dal momento che spesso la UIP rimane misconosciuta per anni o viene
scambiata per altre patologie polmonari, come la BPCO, o per insufficienza cardiaca.
Ogni anno circa il 10-20% dei pazienti presenta esacerbazioni acute caratterizzate da peggioramento
dell’insufficienza respiratoria e aspetti a vetro smerigliato o di consolidamento alla HRTC; la frequenza degli
eventi acuti influisce sulla velocità di progressione della malattia.
Aumenta il rischio di ipertensione polmonare, tromboembolismo e carcinoma polmonare; la sopravvivenza
in assenza di trattamento è di 3-5 anni.

Quadro anatomo-patologico

La malattia inizia con focolai periferici, spesso sub-pleurici e localizzati alle basi polmonari, con
distribuzione a macchia di leopardo; la caratteristica di questi focolai è quella di essere alternati, non
diffusi: nella UIP si hanno aree di parenchima malato alterante ad aree di parenchima sano. Inoltre, i diversi
focolai non sono tutti nelle medesima fase di sviluppo: si possono avere focolai in fase acuta o proliferativa
e focolai già in fase fibrotica. Quindi la UIP si caratterizza per la distribuzione irregolare e l’asincronia dei
focolai di lesione, almeno fino alla fase terminale; in fase terminale, infatti, non si ha più asincronia e tutti
i focolai sono in fase fibrotica.

Nell’immagine A si ha una HRTC in cui si


osservano aree sane ed aree di polmone
a favo d’api; la medesima alternanza di
aree sane e aree malate è visibile in
microscopia nell’immagine B;
nell’immagine C si osserva l’iperplasia
della muscolatura liscia associata alla
fibrosi, caratteristica tipica di questa
malattia.

Diagnosi e terapia

Alla base della diagnosi vi è una indagine


clinica che esclude altre cause di
polmonite interstiziale, associata all’imaging. La biopsia viene
presa in considerazione quando clinica ed imaging non
permettono una diagnosi certa e solo nel caso in cui essa possa
influenzare la terapia. in caso sia necessaria, la biopsia non può
essere eseguita per via trans-bronchiale, poiché, essendo la
malattia distribuita in maniera irregolare, è necessario il
campionamento di più lobi polmonari, pertanto si procede con
toracoscopia.

Questa malattia non è guaribile, ma è possibile rallentarne la


progressione con alcuni farmaci:
- Nintedanib → inibitore di torosin-chinasi attivo sul
recettore di FGF, PDGF e VEGF
- Pirfenidone → anti-TGFbeta

196
POLMONITE INTERSTISTIALE NON SPECIFICA – NSIP

È la seconda forma più frequente di polmonite interstiziale idiopatica e può presentarsi anche associata a
malattie del tessuto connettivo; nonostante l’aggettivo “non specifica” la NSIP ha caratteristiche
radiologiche ed istologiche differenti dalla UIP, con cui entra in diagnosi differenziale, ed è importante
riconoscerla dal momento che presenta prognosi nettamente migliore.
Le lesioni nella NSIP risultano più diffuse ed uniformi dal punto di vista dell’interessamento dei campi
polmonari rispetto alle lesioni della UIP e sono sincrone, ovvero si trovano tutte allo stesso grado di
evoluzione. La prognosi è migliore poiché la fibrosi è sottile ed associata ad un infiltrato flogistico cronico
linfoplasmacellulare poco abbondante. In fasi avanzate la fibrosi si localizza soprattutto a livello settale,
ma non implica importanti modificazioni architetturali del parenchima polmonare.
La NSIP colpisce pazienti sopra i 60 anni, soprattutto donne non fumatrici e a differenza della UIP risponde
ai corticosteroidi.
Nelle immagini in basso si osserva un quadro HRTC di NSIP, in cui non si evidenzia l’aspetto ad honeycomb
tipico della UIP, e un quadro istologico in cui si può vedere come il pattern di infiltrazione
linfoplasmacellulare e di fibrosi sia diffuso. La biopsia polmonare viene eseguita solo in caso in cui non si
riesca ad eseguire la diagnosi differenziale con UIP dal punto di vista clinico-radiologico.

POLMONITE CRIPTOGENETICA IN FASE DI RIORGANIZZAZIONE – COP

Malattia polmonare idiopatica con prognosi nettamente migliore rispetto alla UIP.
Radiologicamente è caratterizzata da danno irregolare a livello del parenchima polmonare in sede
subpleurica e peribronchiale, che si risolve con restitutio ad integrum o una sottile fibrosi dei setti
alveolari. Dal punto di vista anatomo-patologico sono visibili foci di miofibroblasti attivati.
In questa patologia la fibrosi è modesta e si ha un pattern ad alveoli pieni con ciuffi di fibroblasti attivati,
detti corpi di Masson, che occupano lo spazio areo. Le lesioni sono sincrone e l’infiltrato cellulare è scarso.
Clinicamente si presenta anch’essa con dispnea e tosse; risponde agli steroidi e può anche andare incontro
a remissione spontanea.

197
POLMONITE INTERSTIZIALE DESQUAMATIVA – DIP

Sebbene sia classificata nelle forme idiopatiche è in realtà correlata al fumo di sigaretta, così come la
pneumopatia interstiziale associata a bronchiolite respiratoria.
La DIP deve il nome al fatto che inizialmente si pensava che le cellule presenti negli spazi alveolari fossero
pneumociti desquamati, ma successivamente si è scoperto che si tratta di macrofagi: si ha un pattern ad
alveoli pieni di macrofagi. La malattia ha una distribuzione diffusa e uniforme.
I macrofagi possono presentare al loro interno dei pigmenti brunastri: si tratta di corpi lamellari di
surfactante combinati con particelle di ferro e sono caratteristici dei fumatori (macrofagi del fumatore).
L’architettura polmonare è conservata, l’infiltrato peribronchiale è modesto e la fibrosi lieve.
Si tratta di una malattia con prognosi ottima, infatti, può regredire con la sospensione dell’abitudine al
fumo e con terapia steroidea. Si manifesta in soggetti fumatori di 40-50 anni con tosse secca, dispnea e
ippocratismo digitale. Entra quindi in diagnosi differenziale con la NSIP, nonostante questa insorga in
soggetti non fumatori, e talvolta è necessaria l’indagine istologica.

PNEUMOPATIA INTERSTIZIALE ASSOCIATA A BRONCHIOLITE RESPIRATORIA

È caratterizzata da infiammazione cronica e lieve fibrosi peribronchiale; vi sono aree localizzate di


accumulo di macrofagi negli alveoli, soprattutto intorno ai bronchioli respiratori, e associati modesti
infiltrati cronici linfoplasmacellulari. La fibrosi è minima e focale e la struttura del parenchima è
conservata. Colpisce i fumatori e si presenta con dispnea ingravescente e tosse; può regredire con la
sospensione dell’abitudine al fumo e la terapia steroidea.

POLMONITE INTERSTIZIALE ACUTA – AIP o SINDROME DI HAMMAN-RICH

Malattia idiopatica che si manifesta clinicamente in modo simile alla ARDS, con rapida insorgenza di
insufficienza respiratoria. Dal punto di vista istologico si ha un quadro di danno alveolare diffuso con:
Flogosi acuta e accumulo di granulociti
- Danno dell’epitelio alveolare ed edema dei setti alveolari (immagine in basso a sinistra)
- Presenza di trombi nei vasi
Si ha quindi una fase acuta molto grave, caratterizzata dalla formazione di membrane ialine, e se il paziente
sopravvive si ha una fase proliferativa che può esitare in una completa restitutio ad integrum o in fibrosi,
con attivazione di fibroblasti e invasione degli spazi aerei (immagine in basso a destra).

198
POLMONITE DA IPERSENSIBILITA’

La polmonite da ipersensibilità, in passato nota come alveolite allergica estrinseca, è responsabile del 20%
dei casi di fibrosi polmonare; con tale nome si indica uno spettro di malattie polmonari immunomediate
causate dalla inalazione di agenti organici, come proteine animali, prodotti batterici, spore e tossine
fungine. La patologia insorge in pazienti predisposti dal punto di vista dell’aplotipo ed è scatenata
dall’esposizione acuta e prolungata a determinati antigeni.
In base all’antigene responsabile si indentificano diverse polmoniti da ipersensibilità:
- Polmone del contadino, dovuto all’esposizione agli actinomiceti presenti nelle polveri del fieno
- Polmone dell’allevatore di uccelli, causata da proteine animali presenti nelle piume o nelle
secrezioni
- Polmone da umidificatore, dovuto a tossine di batteri termofili presenti nei serbatoi d’acqua
Si tratta quindi di una patologia immunomediata dovuta ad una reazione di ipersensibilità di tipo III: si
formano immunocomplessi che si depositano a livello di alveoli e setti alveolari, scatenando la risposta
infiammatoria. Tramite immunofluorescenza è possibile osservare gli anticorpi diretti contro uno specifico
antigene disposti lungo le membrane basali dei vasi.
La manifestazione può essere:
- Acuta, con febbre, tosse, dispnea e leucocitosi entro 3-5 ore dall’esposizione all’antigene
- Subacuta
- Cronica, dovuta all’esposizione continua a bassi livelli di antigene; si sviluppa una polmonite cronica
che si manifesta con dispnea, tosse secca, crepitii, insufficienza respiratoria e cianosi
La differente presentazione clinica dipende dalla durata dell’esposizione e dalla quantità di antigene cui si
è esposti: l’esposizione acuta e massiva, in un soggetto predisposto, può portare a quadri acuti di danno
alveolare diffuso e sindrome da distress respiratorio, mentre in caso di esposizione cronica con picchi di
esposizione all’antigene si può avere un andamento clinico cronico con fenomeni di acuzie.

Dal punto di vista anatomo-patologico la polmonite procede dalla fase acuta fino alla fase di fibrosi; la
fibrosi risulta grave e porta al rimodellamento del tessuto polmonare, che assume l’aspetto a favo d’api.
Essendo una condizione immunomediata, si ha un cospicuo infiltrato infiammatorio linfoplasmacellulare a
livello interstiziale. Se l’esposizione all’antigene si protrae nel tempo si possono instaurare meccanismi di
ipersensibilità di tipo IV, con formazione di granulomi a cellule giganti: i macrofagi vengono attivati dai
linfociti T CD4+ e divengono cellule epiteliodi che si aggregano a formare granulomi e cellule giganti;
solitamente i granulomi sono piccoli e poco definiti e generano strutture micronodulari visibili alla HRTC.
L’infiltrazione interstiziale di linfociti e plasmacellule quindi è inizialmente diffusa, ma successivamente
evolve verso la formazione focale di accumuli cellulari e porta ad un quadro micronodulare, costituito da
microgranulomi (l’evoluzione del pattern si ha quando alla ipersensibilità di tipo III si associa l’ipersensibilità
di tipo IV).

199
È molto importante la diagnosi precoce di questa condizione, prima che avvenga l’evoluzione in fase
fibrosa, dal momento che allontanando il paziente dall’antigene causale si arresta la progressione della
malattia. Come terapia si può ricorrere a farmaci immunomodulanti, come gli steroidi.
Se la progressione della malattia non viene arrestata si arriva ad un quadro di fibrosi polmonare; in un
quadro di fibrosi polmonare diffusa è difficile definire la causa che ha scatenato la reazione fibrotica e
differenziare le diverse interstiziopatie ma in caso di polmonite da ipersensibilità è probabile che nel
contesto fibrotico sia presente un importante infiltrato immunitario, assente invece nella UIP.

POLMONITI INTERSTIZIALI ASSOCIATE A COLLAGENOPATIE

Si tratta di malattie ad eziologia autoimmune associate a difetti del collagene, responsabili del 20% delle
fibrosi polmonari. La polmonite interstiziale può complicare diverse collagenopatie, come l’artrite
reumatoide, la sclerosi sistemica, il LES, la polimiosite-dermatomiosite e la sindrome di Sjrogren,
impattando morbilità e mortalità del paziente.
In generale, si riscontra un accumulo linfoplasmacellulare che può portare alla formazione di MALT
acquisito a livello polmonare. Tuttavia, il quadro anatomo-patologico varia in base alla causa
dell’interessamento polmonare:
- Quadri simil NSIP → associati a malattie autoimmuni, si ha una lieve fibrosi senza alterazioni della
struttura polmonare
- Quadri simil UIP → spesso associati ad artrite reumatoide, portano a rimodellamento del
parenchima polmonare
Essendo una condizione associata a malattia autoimmuni è possibile intervenire con farmaci
immunosoppressivi, come corticosteroidi.
Per quanto riguarda la diagnosi differenziale con la UIP bisogna considerare che se ad un quadro di fibrosi
polmonare avanzata si associa la presenza di MALT acquisito, con follicoli con centri germinativi, è più
probabile che alla base vi sia una condizione autoimmune, come una collagenopatia. Spesso nelle polmoniti
interstiziali associata a collagenopatie vi sono anche fenomeni pleuritici.

200
POLMONITE DA RADIAZIONI

Si tratta di una complicanza della radioterapia applicata nella terapia delle neoplasie polmonari e
toraciche; si localizza nel campo di irraggiamento e si manifesta con una forma acuta, che spesso
cronicizza.
Nella fase acuta si ha un pattern danno alveolare diffuso, con membrane ialine, iperplasia degli pneumociti
di tipo II e fibrosi dei vasi. I sintomi della fase acuta sono tosse, febbre e dispnea, che risultano
proporzionali al volume di polmone irradiato; si hanno anche versamento pleurico ed infiltrati.
Nella fase cronica si ha una fibrosi interstiziale nella zona irradiata; la fase cronica può essere asintomatica
o portare ad insufficienza respiratoria.
Tipiche delle lesioni da radiazioni è anche la presenza di cellule epiteliali atipiche e di cellule schiumose
nelle pareti dei vasi.
Va tenuto presente che attualmente, grazie alle nuove tecniche, il campo di irradiazione diviene sempre più
piccolo e mirato sulla lesione tumorale, pertanto la polmonite da raggi si sta riducendo; in alcuni pazienti i
sintomi possono essere trattanti con terapia steroidea.

POLMONITE DA FARMACI – Dispensa

I farmaci possono causare diverse alterazioni, sia acute che croniche, a carico di struttura e funzionalità
polmonare; infatti, possono portare a fibrosi interstiziale, bronchiolite obliterante e polmonite eosinofila.
L’amiodarone, antiaritmico, si concentra nei polmoni e causa polmonite nel 5-15% dei pazienti in
trattamento, mentre i farmaci citotossici anti-neoplastici provocano lesioni polmonari e fibrosi a causa della
loro tossicità diretta e a causa del fatto che stimolano l’afflusso di cellule infiammatorie negli alveoli.

201
PNEUMOCONIOSI

Le pneumoconiosi sono pneumopatie interstiziali causate dall’accumulo di polveri inorganiche che


provocano flogosi e reazione tissutale. Le polveri che possono causare pneumoconiosi sono diverse e
possono essere suddivise in due gruppi: polveri fibrogeniche, quindi polveri che portano a fibrosi
polmonare, e polveri non fibrogeniche.
Tra le pneumoconiosi non fibrogeniche rientrano siderosi, stannosi e baritosi, mentre tra le
pneumoconiosi fibrogeniche, che sono più frequenti, rientrano silicosi, asbestosi, berilliosi e
pneumoconiosi dei minatori di carbone.
La clinica delle pneumoconiosi è simile a quella delle polmoniti interstiziali: dispnea ingravescente, tosse
secca e crepitii polmonari all’esame obiettivo. La diagnosi si basa sulla clinica, sulla HRTC e talvolta
sull’istologia; molto importante è l’anamnesi del paziente, sia recente che remota, che può rivelare
l’esposizione a determinati agenti.

ASBESTOSI

L’asbestosi è una polmonite interstiziale che porta a fibrosi polmonare ed è causata dalla inalazione delle
fibre di asbesto. L’asbesto, detto anche amianto, è stato ampiamente usato nell’edilizia, nelle tubature, nei
freni delle auto, ecc. Nonostante l’uso dell’asbesto sia stato vietato nel 1992, il suo uso è stato talmente
diffuso che l’esposizione continua ancora oggi e il picco di incidenza del mesotelioma pleurico da esso
causato in Europa si avrà intorno al 2030.
L’asbesto è costituito da due tipologie di fibre:
- Anfiboli, di cui fanno parte le fibre crocidolite e amosite, che risultano rigide, dritte e poco
idrosolubili. Queste fibre per le loro caratteristiche una volta inalate si dispongono parallelamente
all’albero respiratorio, superano le biforcazioni delle piccole vie aeree e arrivano fino agli alveoli;
inoltre, essendo poco idrosolubili, vengono difficilmente catturate ed espulse dal flusso muco-
ciliare
- Fibre serpentine, tra le quali rientra il crisotile, che risultano ricurve, più ingombranti e più
idrosolubili rispetto agli anfiboli. Queste fibre tendono a bloccarsi a livello delle diramazioni
dell’albero bronchiale, pertanto arrivano raramente in periferia, e sono più facilmente eliminate
grazie al film mucoso
Sono diverse le patologie associate all’esposizione all’asbesto:
- Placche fibrose localizzate o, più raramente, fibrosi pleurica diffusa
- Versamenti pleurici ricorrenti
- Fibrosi interstiziale parenchimale (asbestosi)
- Carcinoma polmonare
- Mesotelioma
- Neoplasie extra-polmonari, come carcinoma del colon, delle ovaie e della laringe
Il quadro più frequente è la placca pleurica, che può essere solitaria o multipla, e che se non associata ad
altre condizioni non influenza la funzionalità respiratoria; tra le neoplasie il mesotelioma è il più specifico
dell’esposizione all’asbesto, ma è più frequente il carcinoma polmonare. Il mesotelioma è associato agli
anfiboli, mentre l’asbestosi a entrambi i tipi di fibre.

Meccanismo del danno

Sia gli anfiboli che le fibre serpentine risultano fibrogeniche.


Gli anfiboli arrivano in periferia, a livello alveolare, dove vengono fagocitate dai macrofagi, che però non
riescono a degradarle: sia i macrofagi alveolari che quelli interstiziali si attivano e rilasciano fattori
chemiotattici e fibrogenici, senza però riuscire ad eliminare le fibre. Le fibre persistono quindi a livello
tissutale e continuano a stimolare la reazione flogistica; la flogosi cronica implica a sua volta il rilascio di
ROS e ossidi di azoto che possono avere un effetto clastogenico e determinare mutazioni geniche.

202
Inoltre, se il paziente è anche un fumatore le fibre di asbesto assorbono le sostanze cancerogene:
l’esposizione concomitante ad asbesto e fumo aumenta il rischio di carcinoma polmonare di 55 volte
(l’esposizione solo all’asbesto lo aumenta di 5 volte).
La probabilità di sviluppare la malattia dipende dal tempo di esposizione e dalla quantità di esposizione, ma
va ricordato che anche se viene meno l’esposizione la patologia può continuare a svilupparsi dal momento
che le fibre precedentemente inalate persistono. Non tutti i soggetti esposti all’asbesto sviluppano la
malattia e ciò suggerisce il ruolo di fattori individuali.

Morfologia

Nel tessuto polmonare è possibile ritrovare le fibre di asbesto, che hanno un aspetto a bacchetta di
tamburo, con le estremità rigonfie e il centro più sottile. In genere le fibre di asbesto si trovano combinate
con proteine e ferro e pertanto si formano i corpi ferruginosi, che hanno l’aspetto di corpi marrone-dorato
fusiformi o bastoncellari, con centro traslucido. I corpi ferruginosi si formano nel momento in cui i
macrofagi tentano di fagocitare le fibre di asbesto, infatti, il ferro presente all’interno di questi corpi deriva
proprio dalla ferritina dei fagociti.
Si possono rinvenire anche le placche pleuriche, ovvero placche circoscritte di collagene denso, spesso
calcificate; esse si formano soprattutto nella regione anteriore e postero-laterale della pleura parietale e
sulla cupola del diaframma. Le placche pleuriche sono osservabili sia alla TC che all’RX.
Istologicamente la fibrosi si dispone intorno ai bronchioli respiratori e ai dotti alveolari, per poi arrivare ad
interessare i sacchi alveolari e gli alveoli adiacenti. La fibrosi inizia spesso a livello delle biforcazioni, dal
momento che qui è più probabile che si accumulino le fibre di asbesto.
Macroscopicamente la fibrosi ha inizio dai lobi inferiori, in sede sub-pleurica, e le lesioni risultano sincrone
ed omogenee; il tessuto fibroso arriva a distorcere l’architettura del parenchima polmonare e le zone
interessate assumono l’aspetto a favo d’api.

Clinica

L’asbestosi può rimanere asintomatica o esordire con dispnea ingravescente; i sintomi sono fatica a riposo,
dispnea, tosse, crepitii, cianosi e ippocratismo digitale, quando l’insufficienza respiratoria diventa
persistente. All’asbestosi può associarsi la pleurite, che determina dolore in inspirazione.
Le complicanze sono quelle delle malattie croniche polmonari fibrotizzanti ed includono ipertensione
polmonare e cuore polmonare.
I sintomi insorgono dopo 10-20 dall’esposizione; vi sono forme rapidamente progressive, che portano in
tempi brevi ad insufficienza respiratoria, e forme più stabili, meno progressive.
L’asbestosi entra in diagnosi differenziale con altre pneumopatie fibrosanti, come UIP, NSIP, polmonite da
ipersensibilità, silicosi, sarcoidosi, ecc. nella diagnosi di asbestosi è molto importante l’anamnesi, che
permette di individuare eventuali fonti di esposizione all’asbesto.

203
SILICOSI

La silicosi è dovuta alla inalazione di cristalli di diossido di silicio, SiO2, detto anche silice, e rappresenta la
malattia professionale più frequente al mondo. Dal punto di vista biochimico si distinguono forme amorfe
e forme cristalline di silice; le forme cristalline sono maggiormente fibrogeniche e possono derivare da
quarzo, pietre, arenaria e granito. I soggetti maggiormente a rischio sono coloro che lavorano nelle
fonderie, nelle miniere, nelle fabbriche di vetro, ceramica, abrasivi, ecc.
La silicosi si manifesta dopo decenni dall’esposizione come una pneumoconiosi fibrosante nodulare a lento
sviluppo.
Le malattie associate all’esposizione al silicio sono diverse: malattie polmonari, malattie infettive, come la
tubercolosi, malattie neoplastiche, come il cancro al polmone o i tumori gastroenterici, malattie renali e
malattia immunomediate, come sclerodermia e artrite reumatoide.

Meccanismo di danno

Le particelle di silice sono estremamente piccole e una volta inalate arrivano in periferia, negli alveoli e nei
setti alveolari. I macrofagi fagocitano queste particelle, ma non sono in grado di distruggere: vanno
incontro a morte cellulare e rilasciano le particelle di silice nell’ambiente circostante dove esse verranno
nuovamente fagocitate da altri macrofagi, pertanto il meccanismo si ripete e la malattia può progredire
anche se viene meno l’esposizione. L’attivazione dei macrofagi determina il rilascio di citochine, come IL-1,
IL-8 e IL-18, e la flogosi cronica.
La silicosi può essere di tre tipi:
- Acuta → si manifesta dopo settimane/mesi dall’esposizione massiva al silicio e risulta mortale in
poche settimane
- Classica → malattia cronica che si manifesta dopo 10-30 anni dall’esposizione
- Accelerata → forma classica che si manifesta prima di 10 anni dall’esposizione

Morfologia

Il patter istologico è micronodulare o nodulare, dal momento che la flogosi cronica scatenata dai macrofagi
porta alla deposizione di tessuto fibroso in manifera focole, non diffusa. La tipica lesione della silicosi è
costituita da un core centrale fibroso circondato da un vallo infiammatorio in cui predominano i
macrofagi.

Silicosi acuta
È associata ad esposizione acuta e massiva al silicio e dal punto di
vista anatomo-patologico è una proteinosi alveolare diffusa
associata ad alveolite: si ha un patter ad alveoli pieni di materiale
proteinaceo che ostacola la funzione respiratoria e lo scambio
gassoso, con conseguente insufficienza respiratoria.
Infatti, in caso di esposizione acuta e massiva, i macrofagi perdono
le proprie funzioni e si accula materiale proteico amorfo, costituito
da lipoproteine, a livello alveolare.

Silicosi classica
È un quadro cronico associato a un pattern nodulare di danno interstiziale; i noduli presentano un core
centrale fibroso e un vallo infiammatorio, ricco di macrofagi, intorno (i noduli non sono granulomi). Il
tessuto fibrotico assume quasi un aspetto circolare concentrico. Usando lenti particolari che permettono la
visione di particelle birifrangenti alla luce polarizzata è possibile osservare le particelle di silice.

204
Silico-tubercolosi
La silicosi si associa ad un maggior rischio infettivo, in particolare si ha un maggior rischio dell’infezione da
Mycobacterium tuberculosis: nei soggetti con silicosi il rischio di TBC è 40 volte maggiore rispetto alla
popolazione generale. Il maggior rischio di TBC è dovuto al fatto che i macrofagi, normalmente preposti
alla immunità anti-micobatterio, non possono svolgere la propria funziona a causa delle particelle di silicio.
Talvolta quindi il quadro di silicosi viene rapidamente peggiorato dalla sovrainfezione da Mycobacterium,
che porta alla formazione di caverne tubercolari.
Il quadro clinico può essere aggravato anche da fumo e immunodepressione.

205
MALATTIE GRANULOMATOSE

SARCOIDOSI

La sarcoidosi è una patologia dell’interstizio polmonare che


si manifesta con granulomi a livello interstiziale. Pur essendo
una patologia rara, viene presa in considerazione in diverse
diagnosi differenziali, dal momento che si manifesta con
noduli polmonari bilaterali (visibili alla radiografia come uno
slargamento a farfalla del torace) associati a linfoadenopatia
mediastinica bilaterale simmetrica.
L’eziologia della sarcoidosi è ignota, ma si ipotizza il ruolo di
un micobatterio dal momento che si tratta di una malattia
granulomatosa. È più frequente in Europa, soprattutto in
Europa settentrionale, rispetto ai paesi con sviluppo socio-
economico minore ed interessa soprattutto le donne adulte,
ma può colpire anche gli uomini. L’elevata concordanza tra gemelli omozigoti sottolinea il ruolo della
predisposizione genetica nello sviluppo della patologia, soprattutto degli aplotipi HLA, mentre pare che il
fumo di sigaretta in questo caso sia un fattore protettivo.

Nonostante l’eziologia sia ignota, il meccanismo patogenetico è abbastanza chiaro.


Alla base della formazione dei granulomi, che si localizzano soprattutto nei linfonodi e nei polmoni, ma che
possono interessare qualsiasi distretto corporeo, si ha l’attivazione dei linfociti T-helper1 che a loro volta
attivano i macrofagi a cellule epitelioidi. Alla base della sarcoidosi si ha quindi una attivazione aberrante
dei linfociti Th1, in particolare si è visto che nei pazienti affetti, sia nel sangue periferico che nel BAL, si ha
un aumento dei linfociti T CD4+ rispetto ai CD8+ e numerosi studi hanno dimostrato che tali linfociti Th1
non svolgono la propria funzione in maniera fisiologica. Pare inoltre che i pazienti affetti presentino
oligocloni T nel sangue periferico e quadri di ipogammaglobulinemia associati.

Il quadro di sarcoidosi è quindi caratterizzato da istiociti che formano granulomi non necrotizzanti ben
delimitati e privi di cellule giganti. Questo quadro è caratteristico della sarcoidosi, ma non è specifico,
infatti, può essere presente anche in caso di infezione, malattie immuno-mediate, pneumoconiosi e
neoplasie. Concrezìoni lamellari composte da calcio, proteine dette corpi di Schaumann e inclusioni stellate
note come corpi asteroidi racchiusi in cellule giganti sono riscontrate nel 60% circa dei granulomi.
I granulomi tendono a formarsi intorno ai piccoli bronchi e lungo il decorso dei vasi linfatici; essendo la
flogosi cronica i granulomi vengono progressivamente sostituiti da tessuto fibroso. Quando le diverse
aree fibrose confluiscono si può avere un quadro di fibrosi polmonare anche fatale.
Nei casi più gravi i granulomi possono interessare anche milza, fegato, cute, midollo, occhio, ghiandole
lacrimali, SNC (soprattutto l’ipofisi), cuore e reni.
I granulomi sono visibili alla HRTC, che mostrerà un pattern nodulare.

Il paziente con sarcoidosi può essere asintomatico o può presentare segni e sintomi legati
all’interessamento polmonare, come tosse, dispnea, dolore toracico, affaticamento e febbre. Non tutti i
pazienti presentano una forma progressiva della malattia e alcuni di essi rispondono al trattamento con
cortisone. La morte può sopraggiungere per complicanze polmonari e cardiache o per l’aumento di
pressione a livello di SNC.

La diagnosi parte dal sospetto clinico e laboratoristico, quindi dalla presenza di un quadro polmonare
caratteristico e dall’inversione del rapporto CD4/CD8 nel BAL, ma la conferma diagnostica richiede la
biopsia. In realtà la biopsia è dirimente per escludere altre patologie, mentre se rileva la presenza di
granulomi è necessaria la conferma del clinico sulla base del quadro sintomatologico del paziente, dal
momento che il pattern istologico non è specifico.

206
TUBERCOLOSI – Dispensa

La tubercolosi è una malattia granulomatosa causata da micobatteri, quindi infettiva e trasmissibile, che si
localizza soprattutto a livello polmonare, ma può colpire qualsiasi organo e tessuto.
La polmonite tubercolare può essere segno sia di tubercolosi primaria sia di tubercolosi secondaria, ovvero
la forma dovuta alla riattivazione di germi rimasti silenti all’interno di una lesione primitiva.
Benché sottostimata, la tubercolosi è una malattia molto frequente e anche frequentemente letale, con
milioni di decessi all’anno in tutto il mondo; fattori di rischio per l’infezione sono immunodepressione, età
avanzata, scarse condizioni socio-economiche, diabete mellito, linfoma di Hodgkin, malattie polmonari
croniche, soprattutto la silicosi, malnutrizione e alcolismo. Nella maggior parte dei casi l’infezione è
autolimitante e si forma un nodulo fibro-calcifico all’intero del quale i microorganismi sono però ancora
attivi e possono portare a malattia se le condizioni immunitarie del paziente decadono. La fonte di
infezione è l’uomo con lesioni aperte, ovvero con lesioni polmonari che drenano nel bronco e possono
trasmettere il patogeno tramite l’espettorato. Il principale agente eziologico è Mycobacterium
tubercolosis, ma esiste anche il Mycobacterium bovis, che viene ingerito tramite latte non pastorizzato e
tende a dare prima manifestazioni intestinali; nei pazienti immunodepressi, come pazienti HIV+, si possono
avere infezioni anche da micobatteri atipici, come il Mycobacterium avium.
La lesione tipica della TBC è il granuloma necrotizzante con necrosi caseosa all’interno e cellule epitelioidi,
cellule giganti multinucleate, linfociti, plasmacellule e fibroblasti all’esterno. Nei soggetti defedati, con
risposta immunitaria debole, la necrosi caseosa centrale può essere assente.

Patogenesi e lesioni

La patogenesi della tubercolosi è data dal bilanciamento tra la virulenza del patogeno e la capacità difensiva
del soggetto, basata sull’immunità cellulo-mediata.
Nella prima fase dell’infezione, ovvero nelle prime tre settimane, il micobatterio raggiunge il parenchima e
si innesca una risposta macrofagica, che però non riesce a distruggere il patogeno, il quale prolifera e si
diffonde.
Nella seconda fase si ha una risposta immunitaria adattiva: il
macrofago funge da APC e attiva i Th1, i quali a loro volta attivano i
macrofagi. I macrofagi attivati distruggono il patogeno e
richiamano altri monociti e linfociti T, pertanto si viene a formare
un granuloma epitelioide con nucleo centrale necrotico. Il
mediatore principale dei Th1 è INF-γ, che attiva i macrofagi, i quali
rilasciano TNF; l’interferone stimola anche la produzione di TGF-β e
quindi induce la proliferazione fibroblastica all’esterno della lesione
granulomatosa.
Lo sviluppo dell’immunità adattiva quindi contrasta l’infezione, ma
determina anche un danno tissutale immuno-mediato.

La tubercolosi primaria si manifesta in un soggetto non precedentemente esposto al patogeno, quindi che
non ha mai sviluppato ipersensibilità nei confronti degli antigeni tubercolari; la TBC primaria interessa
soprattutto polmoni, intestino, cute e cavità nasale ed è caratterizzata da tre elementi: focolaio di Ghon,
reazione linfatica e linfadenite.
Il focolaio di Ghon si forma nel polmone periferico, a ridosso della pleura e consiste in una lesione di 1,5
cm, bianco-grigiastra con necrosi caseosa centrale; tale lesione viene drenata dei linfonodi regionali
determinando linfangite. Il focolaio di Ghon può divenire sclerotico e calcifico e presentare al suo interno
bacilli di TBC, anche per anni, pertanto la malattia può riattivarsi.
Istologicamente quindi il sito di infezione è caratterizzato dai tubercoli, ovvero dalle reazioni infiammatorie
granulomatose, alcuni dei quali presentano necrosi caseosa. I tubercoli possono diventare cavitari nel
momento in cui si svuotano in un bronco.

207
Solitamente la TBC primaria induce ipersensibilità e resistenza al suo ulteriore sviluppo: si forma il
complesso primario, che però contiene bacilli ancora vitali e pronti a riattivarsi in caso di riduzione delle
difese immunitarie dell’ospite, portando a tubercolosi secondaria.
Nel 5% dei casi, soprattutto in pazienti immunodepressi, si ha una progressione della infezione primaria e si
parla di tubercolosi primaria progressiva; nei pazienti immunodepressi, in cui manca una efficacie risposta
CD4+-mediata, viene meno il controllo della infezione primaria e non si ha nemmeno ipersensibilità
tissutale, pertanto non si formano le tipiche lesioni granulomatose e il quadro è simile a quello di una
broncopolmonite batterica, con conseguente difficoltà nella diagnosi.
La tubercolosi polmonare progressiva determina lesioni multiple e di grandi dimensioni e può complicarsi
con ipertensione polmonare, versamento pleurico e diffusione nel micobatterio nell’organismo. L’adeguato
trattamento permette di arrestare il processo, ma la guarigione avviene attraverso la formazione di tessuto
fibroso che spesso distorce l’architettura del parenchima polmonare
I micobatteri possono anche disseminarsi a partire dal complesso primario; la disseminazione può essere:
- Locale → diffusione alla pleura e al parenchima polmonare circostante
- Ematica → tubercolosi miliare; se il bacillo entra in un’arteria il quadro rimane limitato al polmone,
mentre se si diffonde attraverso le vene arriva ad interessare fegato, rene, surrene, milza, osso,
meningi, tube di Falloppio ecc. La diffusione attraverso le arterie polmonari determina la
formazione di numerose lesioni di piccole dimensioni (quadro radiologico marezzato), versamento
pleurico, empiema o fibrosi polmonare pleurica.
La tubercolosi isolata d’organo può apparire in qualsiasi organo e talvolta rappresenta la
manifestazione d’esordio della tubercolosi stessa.
In Occidente è più comune il coinvolgimento intestinale, dovuto alla deglutizione dell’espettorato
infetto, non tanto alla diffusione ematica del bacillo.
- Linfatica → linfadenite tubercolare; rappresenta la forma più frequente di TBC extra-polmonare ed
interessa solitamente la regione cervicale. Nei soggetti immunocompetenti il coinvolgimento
linfonodale tende ad essere singolo, mentre nei pazienti HIV+ si possono avere linfoadenopatie
multiple e concomitante interessamento di altri organi.
Nel momento in cui il granuloma necrotico, carico di bacilli, drena in un bronco si ha una rapida
disseminazione al resto del polmone e si ha un quadro di broncopolmonite tubercolare, detta tisi
galoppante; si tratta di una forma rapidamente progressiva e spesso fatale.

La tubercolosi secondaria è quindi tipicamente dovuta alla riattivazione del complesso primario, ma
possono esservi anche casi di re-infezione esogena. La tubercolosi secondaria interessa quindi soggetti che
hanno già sviluppato una reazione di ipersensibilità e si caratterizza per l’esteso danno tissutale, dovuto
proprio all’ipersensibilità. Si ha una risposta rapida ed aggressiva che determina una rapida circoscrizione
della lesione, quindi si ha mano interessamento nodale, ma spesso la distruzione del tessuto circostante
determina il drenaggio della lesione nel bronco.
Le possibili evoluzioni della TBC secondaria dipendono dalle difese immunitarie dell’ospite e sono le
medesime della TBC primaria.

Diagnosi

Le manifestazioni cliniche sono quindi varie e vanno da quadri paucisintomatici, con febbricola, malessere,
inappetenza e calo ponderale, a quadro più gravi con tosse ingravescente ed emottisi. In caso di
coinvolgimento intestinale si ha anche diarrea ed è necessaria al diagnosi differenziale con IBD. In caso di
altre localizzazioni la sintomatologia dipende dalla sede interessata.
La diagnosi si basa su anamnesi, radiologia e dimostrazione della presenza di M. Tuberculosis.
I bacilli possono essere identificati nell’espettorato, ma solo in caso di quadro polmonare conclamato; la
coltura del batterio richiede circa due mesi, pertanto si ricorre alla PCR. La coltura va comunque eseguita
essendo necessaria per studiare la sensibilità del bacillo agli antibiotici.

208
MALATTIE POLMONARI OSTRUTTIVE

La malattia polmonare ostruttiva è legata all’aumento di resistenza al flusso per parziale o completa
ostruzione a qualsiasi livello dell’apparato respiratorio.
Nelle malattie polmonari ostruttive rientrano quattro entità anatomo-cliniche:
- Bronchite cronica
- Enfisema
- Asma bronchiale
- Bronchiectasie

BRONCOPNEUMOPATIA CRONICA OSTRUTTIVA – BPCO

La broncopneumopatia cronica ostruttiva è una malattia caratterizzata da ostruzione al flusso e


contemporanea presenza di bronchite cronica ed enfisema polmonare.
La sintomatologia varia a seconda che prevalga la componente bronchitica o la componente enfisematosa
ed è caratterizzata da tosse, dispnea da sforzo e sibilo respiratorio; in alcuni casi possono verificarsi
episodi di broncospasmo asmatico, trattabili con farmaci broncodilatatori. Nella BPCO si ha quindi una
ostruzione irreversibile o non completamente reversibile che determina uno svuotamento rallentato dei
polmoni durante l’espirazione forzata, rilevabile tramite spirometria.
In Italia la BPCO ha una incidenza del 10%; si tratta di una malattia con elevata morbilità e mortalità, tanto
che rappresenta la quarta causa di morte nei paesi occidentali. Nei paesi occidentali la prevalenza è
identica nei due sessi, mentre nei paesi in via di sviluppo risulta maggiore nel sesso maschile.
La BPCO ha un andamento cronico, ma può presentare riacutizzazioni, spesso associate ad infezioni o
inquinanti ambientali.
La BPCO è associata a fumo di sigaretta, inquinamento domestico, inquinamento ambientale, esposizione
lavorativa ad agenti chimici o polveri e storia di frequenti infezioni respiratorie durante l’età infantile.

Enfisema

L’enfisema consiste nella anomala e permanente dilatazione degli spazi aerei a valle del bronchiolo
terminale, secondaria alla distruzione dei setti, in assenza di fibrosi grossolana (l’assenza di fibrosi
grossolana è distintiva, infatti, nelle malattie interstiziali fibrosanti si ha la formazione di spazi cistici, quindi
una dilatazione degli spazi aerei, con associata la presenza di fibrosi).

Si distinguono quattro tipi di enfisema:


- Centroacinare o centrolobulare
- Panacinare o panlobulare
- Parasettale
- Irregolare
Le manifestazioni cliniche sono associate solo all’enfisema centroacinare, più frequente, e all’enfisema
panacinare, mentre l’enfisema parasettale e quello irregolare sono molto frequenti, ma raramente danno
manifestazioni cliniche.

209
Il bronchiolo terminale è responsabile della
ventilazione dell’acino polmonare; dopo il
bronchiolo terminale si hanno tre ordini di
bronchioli respiratori, cui seguono i condotti
alveolari, su cui si aprono gli spazi alveolari, e infine
i sacchi alveolari. A seconda della localizzazione del
danno si distinguono enfisema centroacinare e
panacinare.

Enfisema centroacinare
L’enfisema centroacinare è caratterizzato dalla
distruzione dei setti alveolari e la dilatazione
comincia, e rimane per gran parte della malattia
localizzata, a livello dell’area centrale dell’acino. Il
danno interessa quindi soprattutto i bronchioli
respiratori e i sacchi alveolari che vi si aprono e si
ha un’alternanza di parenchima danneggiato e di
parenchima non danneggiato, rappresentato dalla
porzione periferica dell’acino. Il quadro quindi
risulta non omogeno.
Nei casi più gravi il danno si estende anche ai sacchi alveolari
periferici, diventando un enfisema panacinare.
Tale quadro rappresenta il 95% degli enfisemi sintomatici dal
momento che è quello associato al fumo di sigaretta e
all’esposizione ad altri irritanti. Gli irritanti inalati, infatti, inducono
una flogosi cronica con richiamo e attivazione dei macrofagi: si ha il
rilascio di citochine e agenti che danneggiano il tessuto polmonare.
Un ruolo centrale nella patogenesi del danno, soprattutto nella
distruzione delle fibre elastiche dei setti alveolari, è giocato dalle
elastasi neutrofile, rilasciate sia dai neutrofili che dai macrofagi.
Fisiologicamente l’azione dell’elastasi è regolata dalla α-1-antitripsina, antiproteasi prodotta dal fegato, ma
in caso di flogosi cronica l’equilibrio si sposta a favore della elastasi, anche perché i prodotti secreti dai
macrofagi tendono ad inibire l’azione dell’α-1-antitripsina, e si ha danno tissutale.

Enfisema panacinare
Nell’enfisema panacinare il danno interessa ogni parte dell’acino
polmonare; non si ha alteranza tra parenchima sano e
parenchima danneggiato poiché vengono distrutti tutti i setti
alveolari dell’acino.
È generalmente dovuto al deficit funzionale dell’α-1-antitripsina,
ma il danno può essere amplificato se il soggetto fuma. In questo
caso quindi lo sbilanciamento tra attività proteasica e anti-
proteasica è funzionale: α-1-antitripsina prodotta dal fegato non
è funzionale o non viene immessa in circolo.
L’α-1-antitripsina è codificata da un locus genico che presenta un
elevato livello di polimorfismo, pertanto vi sono diverse varianti alleliche che possono determinare un
deficit più o meno grave.

210
Enfisema parasettale
È frequente, ma spesso clinicamente silente, così come l’enfisema
irregolare. Nell’enfisema parasettale, detto anche acinare distale, si
ha una dilatazione degli spazi aerei a livello sub-pleurico, che
talvolta risulta particolarmente evidente (la dilatazione va da alcuni
mm a 2 cm). L’eziologia di tale dilatazione non è nota e sebbene
risulti asintomatica in caso di rottura può portare a pneumotorace
spontaneo.

Enfisema irregolare
È una dilatazione degli spazi aerei secondaria a rottura dei setti alveolari provocata da neoplasie o aree di
cicatrizzazione post-infiammatoria.

Clinica

Le manifestazioni cliniche dell’enfisema compaiono quando viene interessato almeno un terzo del
parenchima polmonare e comprendono dispnea, tosse, sibili respiratori, calo ponderale, torace a botte,
espirazione prolungata a labbra corrugate. Il tipo di tosse e di espettorato variano in base all’estensione
della bronchite associata. In alcuni casi si sviluppa cuore polmonare secondario all’ipertensione polmonare;
altre complicanze possibili sono pneumotorace, acidosi respiratoria e coma.

Patogenesi dell’ostruzione

Nell’enfisema si assiste ad un aumento della resistenza all’espirazione, con intrappolamento d’aria.


Sono due i motivi che portano all’intrappolamento d’aria durante l’espirazione:
- Fisiologicamente quando aumenta la pressione, durante l’espirazione, i bronchioli respiratori
vengono mantenuti pervi dalla presenza di fibre elastiche; tali fibre elastiche risultano però
distrutte in caso di enfisema, pertanto, durante l’espirazione, si ha il collasso dei bronchioli. Si
tratta quindi di una ostruzione funzionale secondaria al danno dei setti alveolari.
- La flogosi cronica induce un progressivo rimodellamento delle vie aeree che comporta una
riduzione del calibro delle vie stesse. Nella flogosi cronica si ha il rilascio di citochine e fattori di
crescita che inducono metaplasia dell’epitelio bronchiale: da colonnare-cuboidale l’epitelio diviene
muco-secernente. Si ha anche una iperplasia delle cellule mucipare, le quali determinano un
ingombro volumetrico che riduce il calibro delle vie aeree. Inoltre, il muco che tali cellule
producono può formare tappi ostruenti; questo fenomeno è accentuato nei soggetti fumatori, in
cui le ciglia risultano ipofunzionanti e il muco difficile da eliminare.
Si può avere anche una iperplasia delle cellule basali o una metaplasia squamosa: anche in questo
caso aumenta lo spessore dell’epitelio e lo spazio aereo si riduce.
I fattori di crescita stimolano inoltre la proliferazione delle cellule muscolari lisce e vi possono
essere anche infiltrati infiammatori che determinano un ispessimento dell’epitelio.
Va ricordato che la flogosi cronica determina anche la produzione di tessuto fibroso, che inizia al di
sotto della membrana basale, contribuendo al restringimento del lume.
Oltre al rimodellamento delle piccole vie aeree si ha un rimodellamento della struttura vascolare, con
ispessimento dell’intima e della tonaca muscolare dei vasi arteriosi: ciò contribuisce allo sviluppo di

211
ipertensione polmonare, insieme alla perdita di letto vascolare dovuta alla distruzione dei setti alveolari,
all’interno dei quali decorrono i capillari.

Nella figura A sono evidenziate le fibre collagene, grazie alla colorazione di Masson, e si vede la fibrosi al di
sotto dell’epitelio. Nella figura B si ha un tappo di muco contente detriti di cellule infiammatorie. Nella
figura C sono evidenziate le cellule mucipare. Nella figura D è evidenziato un infiltrato infiammatorio
all’interno della parete.

Il fumo di sigaretta contribuisce al


danno tissutale, dal momento che
contiene diversi ROS. Il danno
ossidativo determina anche una
l’inattivazione delle anti-proteasi
con conseguente deficit funzionale
di α1-antitripsina. Pare il danno
persista anche dopo la cessazione
dell’abitudine al fumo: sebbene il
meccanismo non sia del tutto
chiaro, sembra che ciò sia dovuto
ad una risposta immunologica
inappropriata e di automantenimento.

Bronchite cronica – Dispensa

La bronchite cronica è clinicamente definita come una tossa produttiva che persiste per almeno 3 mesi
l’anno per almeno due anni consecutivi, in assenza di altre malattie endobronchiali.

Patogenesi

Il fattore scatenante la genesi della bronchite cronica sembra essere l’irritazione cronica causata da
sostanza inalatorie, come il fumo di tabacco, polvere di silicio o cotone, ecc. Nella fasi iniziali si ha
l’ipersecrezione di muco nelle grandi vie respiratorie, associata ad ipertrofia delle ghiandole sottomucose
nella trachea e nei bronchi.
212
L’ipersecrezione di muco è stimolata dalle proteasi rilasciate dai neutrofili, dalla catepsina e dalle
metalloproteinasi della matrice. Quando la bronchite persiste si ha l’incremento delle cellule caliciformi
anche nelle piccole vie aeree: questo porta ad una eccessiva produzione di muco e contribuisce
all’ostruzione delle vie respiratorie. Le infezioni, favorite dalla stasi di muco, non sono responsabili dello
sviluppo della bronchite cronica, ma svolgono un ruolo importante nel suo mantenimento e nelle
riacutizzazioni.
L’ispessimento della parete dovuto a iperplasia delle ghiandole muco-secernenti può essere valutato con
l’indice di Reid, ovvero il rapporto tra lo strato ghiandolare e la parete bronchiale.
Possono essere presenti anche infiltrati infiammatori, fenomeni metaplasici e congestione vascolare con
conseguente edema.

Clinica

Il sintomo principale è la tosse cronica produttiva, che rimane a lungo l’unico sintomo, anche se
successivamente si sviluppa dispnea da sforzo. Con il passare del tempo possono comparire anche ipossia,
ipossiemia e lieve cianosi; una bronchite cronica di lunga data può portare anche a cuore polmonare ed
insufficienza cardiaca.

La BPCO può sovrapporsi anche a pneumopatie interstiziali, come la fibrosi polmonare idiopatica, la
pneumopatia interstiziale desquamativa e la pneumopatia interstiziale associata a bronchiolite respiratoria.

BRONCHIECTASIE

Le bronchiectasie sono un quadro anatomo-clinico caratterizzato da anomala e permanente dilatazione


dei bronchi. Le bronchiectasie possono essere congenite o acquisite (85% dei casi) e nel 40% dei casi
l’eziologia è ignota; le bronchiectasie rappresentano lo stadio finale di diverse condizioni patologiche, sia
polmonari che sistemiche con interessamento polmonare.
Si tratta di patologie probabilmente sottostimate, vista la difficoltà diagnostica, che risultano più frequenti
nelle regioni con un alto tasso di infezioni respiratorie ricorrenti in età infantile. L’incidenza stimata nei paesi
sviluppati è di 55-65 casi/100.000 abitanti.

Bronchiectasie acquisite

Le cause di bronchiectasie sono diverse, ma le più comuni sono le bronchiectasie post-infettive o post-
ostruttive. Alla base dello sfiancamento della parete bronchiale si ritrovano episodi ripetuti di infezione
acuta: l’episodio infettivo danneggia la superficie mucosa e determina la stasi del muco, la quale
rappresenta un fattore predisponente per ulteriori infezioni, pertanto si innesca un meccanismo a catena
che porta a ripetuti fenomeni infettivi. Questo meccanismo ripetuto determina un danno esteso a tutta la
parete, non solo alla mucosa, con conseguente perdita di funzionalità bronchiale e dilatazione dello spazio
aereo.
Il medesimo meccanismo di instaura anche in caso di ostruzione, infatti, l’ostruzione determina la stasi di
muco, la quale facilita l’infezione.
Le cause infettive più frequenti sono:
- Polmoniti batteriche, da S. aureus, K. Pneumoniae, Pseudomonas, H. influenzae, pneumococco
- Polmoniti virali, da adenovirus o influenzavirus
- M. tubercolosis
Per quanto riguarda le cause ostruttive è possibile distinguere due tipi di ostruzione:
- Ostruzione intraluminale, tipicamente determinata da neoplasie o da un corpo estraneo inalato
- Ostruzione extraluminale, dovuta ad esempio a linfoadenopatia dei linfonodi mediastinici

213
Fattori predisponenti allo sviluppo di bronchiectasie:
- BPCO, dal momento che la stasi di muco favorisce le infezioni ricorrenti
- Malattia da reflusso gastro-intestinale, in cui il contenuto gastrico acido può refluire nelle vie aeree
determinando lesioni alla parete bronchiale che predispongono ad infiammazione ed infezioni
- Immunodeficienze secondarie, che favoriscono l’insorgenza di infezioni opportunistiche
- Aspergillosi broncopolmonare allergica, che determina processi flogistici cronici e ripetuti nei
soggetti ipersensibili agli antigeni dell’aspergillo

Bronchiectasie congenite

Queste forme sono associate a sindromi congenite che determinano un’alterazione strutturale del bronco
o a difetti genetici della funzionalità ciliare.
Nella discinesia ciliare primitiva, in cui rientra anche la sindrome di Kartagener, possono essere mutati
diversi geni, ma il risultato è sempre il medesimo: si ha una alterazione della struttura ciliare con
conseguente ridotta motilità delle ciglia e stasi di muco.
Le alterazioni delle ciglia si manifestano anche in altri distretti, come a livello dei seni paranasali, con
possibile sviluppo di sinusite, e a carico del flagello degli spermatozoi, con ripercussioni sulla fertilità.
La fibrosi cistica è caratterizzata da una alterata funzionalità dell’epitelio bronchiale per quanto riguarda lo
scambio salino tra interstizio e muco: il muco risulta denso e pertanto si sviluppa stasi. In questo caso la
stasi di muco è diffusa in tutti gli ambiti polmonari e si ha un quadro di bronchiectasia diffusa, che
rappresenta una delle possibili cause di morte del paziente affetto da fibrosi cistica.
Le bronchiectasie congenite possono essere associate anche ad alterazioni strutturali delle vie aeree, come
tracheobroncomegalia, broncomalacia e sequestro polmonare intralobare, nonché a sindromi da
immunodeficienza congenita.

Classificazione

Dal punto di vista anatomo-patologico le bronchiectasie possono essere divise in:


- Localizzate, in cui la dilatazione è successiva ad una ostruzione o ad un episodio infettivo localizzato
- Diffuse, associate a malattie sistemiche o congenite o presenti in pazienti immunocompromessi
Si osserva un danno alla parete bronchiale più o meno grave, con fibrosi, infiltrato infiammatorio, stasi di
muco e materiale detritico dovuto alle ripetute infezioni; si possono anche avere metaplasie.

Radiologicamente le bronchiectasie possono essere classificate, secondo la classificazione di Reid, in:


- Cilindriche, in cui la dilatazione è uniforme e dritta (quadro a binario di treno); generalemente sono
post-infettive o post-ostruttive. Se il piano di taglio segue l’asse minore del bronco, non quella
maggiore, la dilatazione viene osservata trasversalmente e si parla di bronco ad anello con castone.

214
- Sacculari, in cui la dilatazione è multipla; sappresentano la forma più grave e sono spesso associate
a fibrosi cistica
- Varicose, in cui si ha una alternanza di restringimenti e dilatazioni

Le bronchiectasie sono spesso asintomatiche, ma possono causare anche episodi broncopneumonici


ricorrenti caratterizzati da espettorato mucoso o muco-purulento, a seconda dell’agente patogeno
responsabile. A seconda dell’estensione del danno possono essere presenti altri sintomi, come dispnea e
dolore pleurico. Si possono anche avere complicanze, quali ascessualizzazione, empiema pleurico,
emoftoe ed emottisi e sovra-infezioni micotiche, ad esempio da Aspergillus. Le forme più gravi possono
portare ad insufficienza respiratoria, altero sviluppo fisico del bambino, ipertensione polmonare e
scompenso cardiaco.

ASMA – Dispensa

L’asma è una malattia infiammatoria cronica delle vie aeree che causa episodi ricorrenti di dispnea, sibili
respiratori, fame d’aria, senso di costrizione e tosse, soprattutto durante la notte o nelle prime ore del
mattino. Questi sintomi sono associati a broncocostrizione diffusa e limitazione al flusso aereo reversibili,
almeno in parte, spontaneamente o dopo adeguato trattamento.
Caratteristiche di questa malattia sono:
- Aumentata reattività bronchiale a diversi stimoli, che sfocia in broncocostrizione episodica
- Infiammazione delle pareti bronchiali
- Aumento della secrezione di muco
L’incidenza dell’asma nei paesi occidentali è significativamente aumentata negli ultimi 40 anni.
L’asma può essere classificata in asma atopica, quindi con segni di sensibilizzazione nei confronti di
determinanti allergeni, e asma non atopica, priva di segni di sensibilizzazione. In entrambi queste tipologie
gli episodi di broncospasmo possono essere innescati da diversi meccanismi: infezioni, esposizione a
sostanza ambientali irritanti, aria fredda, stress o attività fisica.
215
In base all’agente o all’evento che scatena la broncocostrizione l’asma può essere classificata in asma
stagionale, asma indotta dall’esercizio fisico, asma farmaco-indotta, asma professionale e bronchite
asmatica del fumatore.

Asma atopica
È la forma più comune di asma e rappresenta un esempio di ipersensibilità di tipo I IgE-mediata.
Solitamente si manifesta nell’infanzia ed è scatenata da allergeni ambientali, come polvere, pollini, detriti
animali e cibo. È possibile diagnosticarla sulla base dei segni di sensibilizzazione agli allergeni mediante il
test RAST.

Asma non atopica


Non presenta segni di sensibilizzazione agli allergeni e i test cutanei sono negativi. Fattori scatenanti
comuni sono le infezioni virali delle vie respiratorie: si ritiene che la flogosi virus-indotta della mucosa
respiratoria riduca la soglia di attivazione dei recettori vagali subepiteliali in risposta agli stimoli irritanti.

Asma farmaco-indotta
Molti farmaci possono indurre l’asma, tra cui FANS e aspirina; probabilmente l’aspirina scatena l’asma
poiché sposta l’equilibrio verso la sintesi di leucotrieni broncocostrittori. L’asma farmaco-indotta può
associarsi anche ad orticaria.

Asma professionale
Questa forma di asma è causata dall’esposizione a vapori (resine epossidiche, plastiche), polveri organiche
e chimiche (legno, cotone, platino), gas (toluene) e altri prodotti chimici (formaldeide, prodotti derivati
dalla penicillina) e generalmente si manifesta dopo esposizioni ripetute.

Patogenesi

Importante nella patogenesi dell’asma atopica sono una predisposizione genetica all’ipersensibilità di tipo
I (atopia) e l’esposizione a fattori ambientali scatenanti.
Pare che la predisposizione genica induca lo sviluppo di forti reazioni Th2-mediate nei confronti degli
allergeni ambientali: le cellule Th2 producono citochine che inducono l’infiammazione allergica e
promuovono la produzione di IgE da parte dei linfociti B. Le citochine coinvolte sono:
- IL-4, che stimola la produzione di IgE
- IL-5, che attiva gli eosinofili
- IL-13, che stimola la secrezione di muco da parte delle ghiandole sottomucose e la produzione di
IgE da parte delle cellule B
Le IgE così prodotte vanno poi a ricoprire i mastociti, i quali, in seguito alla riesposizione agli allergeni,
rilasciano il contenuto dei propri granuli. Si hanno quindi broncocostrizione, aumento della produzione di
muco e vasodilatazione; inoltre, la broncocostrizione è indotta anche dalla stimolazione diretta dei
recettori vagali sub-epiteliali.
Si ha anche una reazione tardiva, caratterizzata da uno stato infiammatorio connotato dal reclutamento di
eosinofili, neutrofili e cellule T; la proteina basica maggiore degli eosinofili determina poi lesioni epiteliali,
con conseguente maggior costrizione delle vie aeree.

Nell’attacco acuto sono quindi coinvolti diversi mediatori, sui quali si può intervenire farmacologicamente:
- Leucotrieni, che determinano broncocostrizione prolungata, aumento della permeabilità vascolare
e aumento della secrezione di muco
- Acetilcolina, che determina costrizione della muscolatura liscia
- Istamina, prostaglandina D2 e fattore attivante le piastrine
- Mediatori sospetti, ovvero citochine, chemochine, NO, neuropeptidi, bradichinina ed endotelina: si
tratta di mediatori contro i quali non sono stati ancora sviluppati inibitori o antagonisti efficaci

216
Episodi asmatici ripetuti portano al rimodellamento delle vie
aeree:
- Ipertrofia e iperplasia della muscolatura liscia bronchiale
- Aumento della vascolarizzazione
- Ipertrofia e iperplasia delle ghiandole mucose
subepiteliali
- Deposizione subepiteliale di collagene
Le infezioni respiratorie dovute a patogeni respiratori comuni
possono esacerbare le alterazioni croniche e portare ad un
peggioramento clinico della malattia.

Clinica e diagnosi

La classica crisi asmatica dura alcune ore, ma nelle forme gravi può durare per giorni o settimane, portando
a cianosi grave e morte. La diagnosi clinica è supportata dalla dimostrazione di una maggior ostruzione,
della difficoltà all’esalazione dell’aria, dall’elevata conta eosinofila nel sangue periferico e dal riscontro di
eosinofili nell’escreato.

217
MALATTIA POLMONARE NON NEOPLASTICA DA FUMO – Dispensa

ISTIOCITOSI A CELLULE DI LANGERHANS

Il termine istiocitosi indica una serie di malattie proliferative delle


cellule dendritiche o dei macrofagi; alcune sono malattie
maligne, come i linfomi istiocitici, mentre altre sono benigne.
Le istiocitosi a cellule di Langerhans sono una gamma di
proliferazioni di cellule dendritiche immature, dette appunto
cellule di Langerhans; nella maggior parte dei casi tali
proliferazioni sono monoclonali e quindi probabilmente di origine
neoplastica.
Le cellule di Langerhans presentano abbondante citoplasma,
spesso vacuolato, nuclei vescicolari contenenti solchi lineari o
ripiegamenti e granuli di Birbeck nel citoplasma; i granuli di
Birbeck, che risultano caratteristici contengono la proteina
langerina e al microscopio elettronico si presentano
pentalaminari, a bastoncino con una estremità dilatata. Oltre alla
proteina langerina queste cellule esprimono tipicamente anche
HLA-DR, S100 e CD1a.
L’istiocitosi a cellule di Langerhans si presenta come diverse entità
clinico-patologiche:
- Istiocitosi a cellule di Langerhans
multifocale/multisistemica
Insorge prima dei due anni di età e il paziente presenta
lesioni cutanee simili ad una eruzione seborroica,
costituite da cellule di Langerhans, a livello di tronco e
cuoio capelluto; sono presenti anche epatosplenomegalia,
linfoadenopatia, lesioni polmonari, lesioni ossee destruenti con infiltrazione del midollo osseo
- Istiocitosi a cellule di Langerhans unifocale e multifocale unisistemica
Caratterizzata da proliferazione di cellule di Langerhans mescolate ad eosinofili, linfociti,
plasmacellule e neutrofili; insorge tipicamente nella cavità midollare delle ossa, solitamente a
livello di cranio, coste e femore.
Le lesioni unifocali colpiscono bambini più grandi e adulti e possono essere asintomatiche o
determinare dolore e aumentata fragilità ossea; guariscono spontaneamente o con l’escissione e la
radiazione locale.
La malattia multifocale unisistemica colpisce i bambini piccoli e si caratterizza per la presenta di
multiple masse erosive che talvolta si espandono ai tessuti molli adiacenti. Può essere coinvolto
anche il peduncolo ipofisario con conseguente diabete insipido.
La combinazione di difetti delle ossa della teca cranica, diabete insipido ed esoftalmo prende il
nome di triade di Hand-Schulleß Christian. Molti pazienti vanno incontro a una risoluzione
spontanea.
- Istiocitosi a cellule di Langerhans polmonare
Si osserva soprattutto in adulti fumatori e può regredire con la cessazione dell’abitudine al fumo. La
popolazione di cellule di Langerhans è solitamente policlonale e ciò suggerisce che si tratti di una
iperplasia reattiva, non di una proliferazione neoplastica.
Un fattore che contribuisce all’hooming cellule di Langerhans neoplastiche è l'espressione aberrante dei
recettori per le chemochine. Ad esempio, mentre le normali cellule di Langerhans dell'epidermide
esprimono CCR6, le loro controparti neoplastiche migrano nei tessuti che esprimono le relative chemochine
- CCL20 (un ligando per CCR6) in cute e osso e CCLI9 e 21 (ligandi per CCR7) negli organi linfoidi.

218
BRONCHIOLITE RESPIRATORIA

Consiste in una lesione istologica comunemente riscontrata nei fumatori e caratterizzata dalla presenza di
macrofagi pigmentati intraluminari nel primo e nel secondo ordine di bronchioli respiratori.
Nei pazienti che sviluppano una importante sintomatologia polmonare, con alterazioni radiografiche e
funzionali si parla di polmonite interstiziale associata a bronchiolite respiratoria.
I sintomi sono solitamente lievi, con dispnea e tosse e migliorano con la sospensione del fumo.
Le alterazioni morfologiche sono rappresentate
da chiazze visibili a basso ingrandimento con
distribuzione bronchiolocentrica: i bronchioli
respiratori, i dotti alveolari e gli spazi
peribronchiolari contengono aggregati di
macrofagi brunastri, detti macrofagi del
fumatore, ed è presente un infiltrato
peribronchiale e sottomucoso costituito da
linfociti ed istiociti. Si ha anche una lieve fibrosi
peribronchiale e si può avere un lieve enfisema
centrolobulare.
Si può avere una sovrapposizione con la
polmonite interstiziale desquamativa.

Il fumo è responsabile anche della BPCO e della malattia delle piccole vie aeree; quest’ultima è una
variante della bronchiolite cronica caratterizzata da fenomeni di cicatrizzazione e obliterazione
infiammatoria.

219
EDEMA POLMONARE – Dispensa

Con il termine edema polmonare si intende la fuoriuscita di liquido interstiziale in eccesso che si accumula
negli spazi alveolari. L’edema polmonare può derivare da disturbi emodinamici o da aumenti diretti della
permeabilità capillare in seguito a danno microvascolare.
La terapia e l’esito dipendono dall’eziologia sottostante.

Edema polmonare cardiogeno

A livello emodinamico la causa più comune di edema polmonare consiste nell’aumento di pressione
idrostatica, come avviene nell’insufficienza cardiaca congestizia. A prescindere dalla situazione clinica, la
congestione polmonare e l’edema sono condizioni caratterizzate da polmoni pesanti e imbibiti.
Il liquido si accumula inizialmente nelle regioni basali dei lobi inferiori a causa della maggiore pressione
idrostatica in queste sedi (edema dipendente). Dal punto di vista istologico, i capillari alveolari appaiono
congesti e si osserva un precipitato granulare rosa intra-alveolare. Si possono verificare microemorragie
alveolari e macrofagi carichi di emosiderina.
In caso di congestione polmonare cronica, come quella osservata nella stenosi mitralica, i macrofagi carichi
di emosiderina sono abbondanti e la fibrosi con ispessimento delle pareti alveolari può portare i polmoni
edematosi a divenire duri e bruni (indurimento bruno). Queste alterazioni, oltre a compromettere la
normale funzionalità respiratoria, predispongono allo sviluppo di infezioni.

Edema polmonare da lesioni microvascolari

L'edema consegue a lesioni primitive dell'endotelio vascolare o a un danno delle cellule epiteliali alveolari
(con lesione microvascolare secondaria). Ne risulta una fuoriuscita di liquidi e proteine dapprima nello
spazio interstiziale e, nei casi più gravi, in quello alveolare. Nella maggior parte delle forme di polmonite,
l'edema resta localizzato e viene mascherato dalle manifestazioni di infezioni. Nelle forme diffuse, tuttavia,
l'edema alveolare contribuisce notevolmente allo sviluppo di una condizione grave e spesso letale, la
sindrome da distress respiratorio acuto.

220
MALATTIE VASCOLARI POLMONARI – Dispensa (Robbins)

EMBOLIA E INFARTO POLMONARE

L’embolia polmonare è una importante causa di morbilità e mortalità, soprattutto nei pazienti allettati, ma
anche in pazienti affetti da patologie associate a ipercoagulabilità.
I trombi che occludono le arterie polmonari sono quasi sempre di origine embolica e nella stragrande
maggioranza dei casi derivano da trombi delle vene profonde degli arti inferiori.

Patogenesi

L’embolia polmonare si sviluppa solitamente in pazienti affetti da


una malattia predisponente, che provoca un aumento della
tendenza alla coagulazione. Gli stati di ipercoagulabilità possono
essere primari, come mutazioni del fattore V o della protrombina, o
secondari ad altre condizioni, come obesità, recente intervento
chirurgico, immobilità, uso di contraccettivi orali, gravidanza, ecc. Un
altro importante fattore di rischio è la presenza di cateteri venosi
centrali, che possono portare alla formazione di trombi in atrio
destro, possibili fonti di emboli polmonari. Più raramente l’embolo
polmonare può essere costituito da grasso, midollo osseo, aria o
cellule neoplastiche.
La risposta fisiopatologica e il quadro clinico dell’embolia polmonare
dipendono in gran parte dall’estensione dell’ostruzione al flusso
dell’arteria, dalle dimensioni dei vasi occlusi, dal numero di emboli
e dalla salute cardiovascolare del paziente.
Gli emboli polmonari determinano compromissione respiratoria, dovuta alla mancata perfusione di alcuni
segmenti polmonari, e compromissione emodinamica, dovuta all’aumento delle resistenze al flusso
polmonare. Spesso ne consegue morte improvvisa per interruzione del flusso emodinamico attraverso i
polmoni; il decesso può essere determinato anche da insufficienza acuta del cuore destro.

Morfologia

Gli emboli possono collocarsi nell’arteria polmonare principale o nei suoi rami maggiori o a livello della
biforcazione; questi ultimi sono detti emboli a sella.
Gli emboli di dimensioni minori riescono a raggiungere i vasi periferici e possono provocare infarto
polmonare; nei pazienti con funzione cardiovascolare normale le arterie bronchiali sostengono l’apporto
ematico al parenchima e non si sviluppa infarto polmonare, mentre nei pazienti con malattie cardiache o
polmonari può verificarsi l’infarto polmonare. Nel complesso circa il 10% degli emboli causa infarto
polmonare; circa i ¾ degli infarti si localizzano nei lobi inferiori e in circa il 50% dei casi si hanno lesioni
multiple.
Le lesioni hanno dimensioni variabili e presentano tipicamente una forma a cuneo: si estendono dalla
periferia verso il centro del polmone, con l’apice rivolto verso l’ilo.
I trombi polmonari presentano striature visibili sia
macroscopicamente che microscopicamente, dette strie di Zahn: si
tratta di strati chiari contenenti piastrine e fibrina alternati a strati
scuri contenenti globuli rossi. Tali striature indicano la formazione del
trombo nel flusso ematico e la loro presenza consente di distinguere i
coaguli ante-mortem da quelli che si formano post-mortem, che
risultano privi di strie.
L’infarto polmonare è tipicamente emorragico e nelle prime fasi
assume un aspetto rilevato di colore rosso-brunastro.

221
Evoluzione clinica

Un embolo polmonare di grosse dimensioni può causare una morte praticamente istantanea; in questo
caso durante la rianimazione cardiopolmonare si ha una dissociazione elettromeccanica: l’ECG mostra una
traccia, mentre i polsi periferici sono assenti, dal momento che il sangue non entra nella circolazione
polmonare. L’embolia polmonare importante può simulare, dal punto di vista clinico, un infarto miocardico
presentandosi con dolore toracico, dispnea e shock.
Gli emboli di dimensioni minori sono silenti o inducono dolore toracico transitorio e tosse.
Gli infarti polmonari di manifestano con dispnea, tachipnea, febbre, dolore toracico, tosse ed emottisi.
Può sovrapporsi anche un pleurite fibrinosa, con conseguenti sfregamenti pleurici.
Gli esiti possono essere visibili radiograficamente e solitamente l’embolia polmonare viene diagnosticata
tramite angio-TC; la trombosi delle vene profonde viene invece diagnosticata con ultrasonografia a doppia
frequenza.
Dopo l’evento acuto, gli emboli solitamente si risolvono con contrazione e fibrinolisi, ma se non si risolvono
possono a portare ad ipertensione polmonare e cuore polmonare.
Va tenuto presente che la presenza di un embolo rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di un
ulteriore embolo: i pazienti con embolo polmonare hanno il 30% di probabilità di svilupparne un altro.

La terapia dell’embolia polmonare prevede l’uso di anticoagulanti e di misure di supporto; la trombolisi


può dare qualche beneficio nei pazienti con gravi complicanze (per esempio, shock), ma comporta un
elevato rischio di emorragia.
La prevenzione dell’embolia polmonare si basa sulla ripresa precoce della deambulazione nella fase post-
operatoria e post-partum, nell’utilizzo di calze elastiche a compressione graduata nei pazienti allettati e
nell’uso di anti-coagulanti nei pazienti ad alto rischio. Nei pazienti ad alto rischio in cui è controindicata la
terapia anticoagulante è possibile inserire un filtro nella vena cava inferiore che intercetta i coaguli prima
che giungano ai polmoni.

IPERTENSIONE POLMONARE

Si ha ipertensione polmonare quando la pressione arteriosa polmonare media è maggiore o uguale a 25


mmHg a riposo. In base ai meccanismi sottostanti, l’ipertensione arteriosa è classificata in cinque gruppi:
1. Ipertensione arteriosa polmonare
2. Ipertensione polmonare secondaria a insufficienza del cuore sinistro
3. Ipertensione polmonare associata a malattie del polmone o a ipossiemia
4. Ipertensione polmonare tromboembolica
5. Ipertensione polmonare su base multifattoriale

Patogenesi

L’ipertensione polmonare vede alla basa diverse cause, alcune delle più frequenti sono:
- BPCO o pneumopatie interstiziali (gruppo 3), che determinano un aumento della resistenza
polmonare al flusso ematico
- Cardiopatie congenite o acquisite (gruppo 2), che determinano un aumento pressorio nel cuore
sinistro e nelle vene polmonari, che viene poi trasmesso al versante arterioso del circolo polmonare
- Tromboembolie ricorrenti (gruppo 4), che determinano una amputazione del letto vascolare
polmonare
- Malattie autoimmuni (gruppo 1), che attaccano i vasi polmonari e/o l’interstizio polmonare
- Apnee ostruttive del sonno (gruppo 3), strettamente associate all’obesità
Raramente, tutte le cause note vengono escluse e l’ipertensione polmonare viene classificata come
idiopatica, ma fino all’80% delle forme di ipertensione polmonare idiopatica, detta anche primaria, ha alla
base cause genetiche, spesso a trasmissione autosomica dominante a penetranza incompleta.

222
La prima mutazione scoperta nell’ipertensione arteriosa polmonare familiare è la mutazione inattivante
del recettore di tipo 2 della proteina morfogenica dell’osso (BMPR2); successivamente si è visto che in
alcuni pazienti affetti BMPR2 va incontro a down regolazione senza che il gene codificante sia mutato.
La BMPR2 è una proteina cellulare di superficie appartenente alla superfamiglia dei recettori del TGFβ, che
lega una varietà di citochine, compresi il TGFβ, la proteina morfogenetica dell’osso (BMP), l’attivina e
l’inibina. Pare che il deficit di BMPR2 porti a disfunzione della proliferazione delle cellule endoteliali e delle
cellule muscolari lisce dei vasi. Dal momento che però la malattia si verifica solo nel 20% dei pazienti con
mutazione di BMPR2 è necessaria un’altra lesione genica o un danno ambientale.

Morfologia

A prescindere dalla eziologia, tutte le forme di ipertensione polmonare sono associate a ipertrofia della
media delle arterie polmonari, sia muscolari che elastiche, aterosclerosi dell’arteria polmonare e
ipertrofia ventricolare destra.
La presenza di molti trombi organizzati o ricanalizzati indica come causa probabile gli emboli polmonari
ricorrenti e la coesistenza della fibrosi polmonare diffusa una bronchite cronica con un enfisema grave.
Tutto ciò porta a considerare l’ipossia cronica come evento scatenante.
Nei casi più gravi si hanno depositi ateromatosi nell’arteria polmonare e nei suoi rami principali (figura A).
Risultano maggiormente colpite le arterie di piccole dimensioni e le arteriole, che presentano ipertrofia
della tonaca media e fibrosi della tonaca intima (figura B).
Si possono riscontrare anche lesioni plessiformi, nelle forme di grado avanzato, caratterizzate dalla
presenza di capillari a ciuffo che producono una rete che circonda i lumi delle piccole arterie (figura C).

Evoluzione clinica

I segni e i sintomi di ipertensione polmonare divengono evidenti solo nello stadio avanzato della malattia. I
sintomi d’esordio sono dispnea e affaticamento, anche se alcuni pazienti lamentano dolore anginoso.
Successivamente si sviluppano difficoltà respiratoria, cianosi, ipertrofia ventricolare destra e cuore
polmonare, spesso complicato da tromboembolia e polmonite.
La terapia dipende dall’eziologia: nelle forme secondarie si punta a trattare la causa sottostante, nelle
forme del primo gruppo e nelle forme refrattarie si ricorre a vasodilatatori, ma in alcuni casi l’unica terapia
è rappresentata dal trapianto.

SINDROMI EMORRAGICHE POLMONARI DIFFUSE

L’emorragia polmonare è una grave complicanza di alcune malattia interstiziali del polmone; tra le sindromi
emorragiche polmonari vi sono la sindrome di Goodpasture, l’emosiderosi polmonare idiopatica e
l’emorragia associata a vasculite, riscontrata nell’angioite da ipersensibilità, nella granulomatosi di
Wegener e nel LES.

223
Sindrome di Goodpasture

È una rara malattia autoimmune in cui si hanno lesioni polmonari e renali causate da autoanticorpi
circolanti diretti contro il dominio della catena α3 del collagene di tipo IV. Se si hanno solo lesioni renali si
parla di malattia anti-glomerulare della membrana basale, mentre il termine sindrome di Goodpasture
definisce la presenza di lesioni polmonari, oltre alla nefropatia.
Gli autoanticorpi determinano la distruzione della membrana basale dei glomeruli renali e degli alveoli
polmonari, portando a glomerulonefrite rapidamente progressiva e polmonite interstiziale necrotizzante
emorragica.
Nonostante questa patologia possa colpire qualsiasi fascia d’età, la maggior parte dei casi si presenta tra i
10 e i 20 e si ha una lieve prevalenza nel sesso maschile e nei soggetti fumatori.

La causa scatenante la formazione degli autoanticorpi anti-membrana basale è sconosciuta, ma si ritiene


siano implicati fattori genetici, come alcuni aplotipi di HLA, e fattori ambientali, come infezioni virali,
esposizione a idrocarburi e fumo di sigaretta, che portano allo smascheramento degli epitopi del collagene,
normalmente celati all’interno della molecola.

I polmoni appaiono pesanti con aree di consolidamento di colore rosso-marrone e istologicamente è visibile
necrosi focale delle pareti alveolari associata ad emorragie intra-alveolari; spesso gli alveoli contengono
macrofagi ricchi di emosiderina. Negli stadi avanzati si possono avere ispessimento fibroso dei setti,
ipertrofia degli pneumociti di tipo II e organizzazione del sangue negli spazi alveolari.
L’immunofluorescenza può evidenziare la presenza di immunoglobuline lungo le membrane basali dei
setti.
A livello renale si ha glomerulonefrite e anche qua l’immunofluorescenza mostra il deposito di
immunoglobuline lungo le membrane basali.

La maggior parte dei casi presenta all’esordio sintomi respiratori, in particolare emottisi e segni radiografici
di addensamenti polmonari focali. Successivamente compaiono i segni clinici di glomerulonefrite, che
porta a insufficienza renale rapidamente progressiva. La causa di morte più comune è l’uremia.
La prognosi della malattia è notevolmente migliorata con l’introduzione della plasmaferesi intensiva, che
consente di rimuovere gli autoanticorpi circolanti e i mediatori chimici del danno immunologico; alla
plasmaferesi si associa anche terapia immunosoppressiva, che limita la produzione di auto-anticorpi.

Emosiderosi polmonare idiopatica

È una rara malattia caratterizzata da emorragia alveolare diffusa e intermittente, tipica dei bambini.
Di solito ha un esordio insidioso con tosse produttiva, emottisi e anemia associate a infiltrati polmonari
diffusi. Eziologia e patogenesi sono ignote, ma l’efficacia della terapia immunosoppressiva indica un
probabile meccanismo immunologico alla base del danno capillare polmonare responsabile dell’emorragia
alveolare; inoltre, i pazienti affetti spesso sviluppano altre malattie autoimmuni.

Poliangioite granulomatosa

Detta anche granulomatosi di Wegener, è una patologia autoimmune che interessa soprattutto il tratto
respiratorio superiore e/o il polmone. Solitamente esordisce con emottisi e l’unico metodo diagnostico è la
biopsia transbronchiale; caratteristiche importanti per la diagnosi sono la capillarite, la necrosi e la
presenza di granulomi diffusi indefiniti.

224
POLMONITI – Dispensa

La polmonite è una malattia infettiva relativamente comune, infatti, essendo esposto all’ambiente esterno
il polmone si infetta più facilmente rispetto ad altri organi. Si stima che le polmoniti siano la prima causa
infettiva per mortalità e la sesta causa di mortalità al mondo. Le fasce della popolazione generale più a
rischio sono i bambini con meno di 5 anni e gli adulti di età maggiore a 50-60 anni.
Vi sono diversi fattori predisponenti, abbastanza frequenti nella popolazione:
- Perdita o soppressione del riflesso della tosse, come avviene nel coma, durante l’anestesia o in
presenza di patologie neuromuscolari
- Danno all’apparato mucociliare, sia alterazione funzionale che distruzione dell’epitelio ciliato
stesso; questa condizione è tipica dei soggetti fumatori o soggetti esposti a gas caldi o corrosivi, ma
può presentarsi anche in associazione a malattie virali o a causa di mutazioni genite che inficiano la
mobilità ciliare
- Accumulo di secrezioni, a causa di condizioni come l’ostruzione bronchiale o la fibrosi cistica
- Alterazioni della funzione fagocitaria e battericida dei macrofagi, dovute ad alcol, fumo, anossia o
intossicazione da ossigeno
- Congestione ed edema polmonare
- Deficit congeniti dell’immunità innata e immunodeficienza umorale e dell’immunità cellulo-
mediata
La polmonite può andare incontro a completa guarigione o portare a complicanze, come ascesso
polmonare, empiema pleurico e fibrosi polmonare.
Il parenchima polmonare profondo è solitamente sterile e la maggior parte delle infezioni avvengono
attraverso la via aerea tracheobronchiale mediante:
- Aspirazione di secrezioni provenienti da soggetti infetti
- Aspirazione di contenuto acido, cibo e liquidi (polmonite ab ingestis)
- Esposizione ambientale a polveri o sabbie in cui si trovano spore fungine
I meccanismi di contagio sono rappresentati da:
- Goccioline respiratorie o droplet → superano i 4-5 micron, ricadono rapidamente al suolo e sono
facilmente intrappolate dai meccanismi di difesa delle vie aeree
- Goccioline di Flugge → hanno dimensioni minori, costituiscono l’aerosol e possono penetrare
facilmente nel parenchima polmonare
I meccanismi di difesa dell’apparato respiratorio sono rappresentati dalle vibrisse del naso, dal muco
presente sulle mucose e il movimento muco-ciliare, dal sistema immunitario innato alveolare, costituito da
macrofagi, neutrofili e complemento, e dall’immunità adattativa, costituita da IgA mucosali, IgG e cellule
dell’immunità cellulo-specifica.
Più raramente l’infezione può giungere al polmone per via ematogena o per diffusione diretta da un altro
sito di infezione, come il mediastino, la parete toracica o l’addome; più comunemente però il polmone è
sede dell’infezione primitiva, che si diffonde poi ad altre sedi.

Classificazione

Dal punto di vista clinico si distinguono:


- Polmonite tipica → esordio improvviso con febbre, malessere, tosse produttiva, rumori umidi
all’auscultazione che poi scompaiono in seguito allo sviluppo di ostruzione e ottusità alla
percussione. Radiologicamente si presentano con aeree di consolidamento polmonare.
Il consolidamento consiste in una porzione di tessuto polmonare che risulta piena di liquido e
pertanto indurita e appesantita; il consolidamento è dovuto alla presenza di essudato intra-
alveolare. Nella polmonite lobare il consolidamento interessa una porzione estesa di un lobo o il
lobo intero, mentre nella polmonite lobulare, o broncopolmonite, vi sono piccole lesioni parcellari
multiple.
- Polmonite atipica → esordio graduale con tosse non produttiva (“walking pneumonia”), reperti
semeiologici non chiari e nessun addensamento delineato alla radiografia.

225
Dal punto di vista eziologico si distinguono polmoniti virali,
batteriche, fungine e parassitarie.
È importante anche la classificazione anatomica, poiché ad essa
corrispondono quadri clinici distinti; anatomicamente si distinguono:
- polmonite lobare, causata tipicamente da Legionella,
Klebsiella o pneumococco
- polmonite interstiziale, causata da batteri atipici come
Mycoplasma pneumonia, Legionella e Chlamydiae
- broncopolmonite o polmonite lobulare, causata ad esempio
da S. aureus
Epidemiologicamente è possibile distinguere polmoniti acquisite in
comunità e polmoniti acquisite in ambiente ospedaliero; nel secondo
caso è probabile che il patogeno responsabile risulti resistente ai
classici antibiotici.
I principali patogeni responsabili delle polmoniti di comunità sono
Streptococco pneumoniae, H. influenzae, Moraxella catarrhalis, S.
aureus, Legionella; i principali responsabili delle polmoniti
nocosomiali sono invece i batteri Gram – come Pseudomonas ed
enterobatteri.
Nei pazienti immunocompromessi è possibile avere polmoniti da
Aspergillus, Candida e virus normalmente non patogeni, come CMV.
È importante studiare i trend epidemiologici nel singolo reparto, in
modo da poter somministrare una terapia empirica ragionata.
Vi è una certa correlazione tra il patogeno, il quadro clinico e il quadro
anatomico, ma non si tratta di una correlazione univoca e possono
esservi sovrapposizioni.

POLMONITI ACUTE COMUNITARIE

Le polmoniti acute comunitarie possono essere batteriche o


virali; spesso l’infezione batterica segue un’infezione virale
del tratto respiratorio superiore.
L’invasione batterica del parenchima polmonare determina
la formazione di essudato infiammatorio intra-alveolare e
quindi il consolidamento del tessuto polmonare. Il quadro
specifico dipende dallo specifico agente eziologico, dalla
reattività dell’ospite e dall’estensione dell’interessamento
polmonare.
I patogeni che causano più frequentemente polmoniti acute comunitarie sono:
- Streptococco pneumoniae o pneumococco (causa più frequente)
- Haemophilus influenzae (molto comune nei bambini)
- Moraxella Catarrhalis (causa polmonite soprattutto negli anziani)
- Pseudomonas aeruginosa (dà infezioni nei pazienti con fibrosi cistica e in ambiente ospedaliero)
- Legionella pneumophila

POLMONITI ATIPICHE COMUNITARIE

Il termine atipica si riferisca alla modesta quantità di escreato, alla mancanza di reperti obiettivi di
consolidamento polmonare, al moderato aumento della conta leucocitaria e all’assenza di essudato
alveolare. È causata da diversi patogeni, tra i quali il più frequente è Mycoplasma pneumoniae, che
interessa soprattutto i bambini e i giovani.

226
Tra le cause virali si hanno: virus influenzali, virus respiratorio sinciziale, adenovirus, metapneumovirus,
rinovirus, morbillo, varicella. Altre cause sono Chlamydia pneumoniae e Coxiella Brunetii.
Ognuno di questi patogeni può causare una semplice infezione delle via aeree superiori, nota come
raffreddore, o una infezione delle vie respiratorie inferiori, più grave. Tra i fattori che favoriscono
l’infezione profonda vi sono età avanzata, malnutrizione, alcolismo e malattie debilitanti concomitanti.
Il meccanismo patogenetico più comune prevede l’adesione dei microorganismi all’epitelio respiratorio
superiore, necrosi delle cellule e risposta infiammatoria; quando il processo si estende agli alveoli vi è
flogosi interstiziale. Il danno all’epitelio inibisce la clearance mucociliare e predispone alla sovra-infezione
batterica.
Il decorso clinico è estremamente vario: la tosse può essere assente e le manifestazioni più importanti
possono essere rappresentate da febbre, cefalea, dolori muscolari; talvolta i sintomi sembrano
sproporzionanti rispetto ai reperti obiettivi.

POLMINTI NOCOSOMIALI

Le polmoniti nosocomiali sono infezioni polmonari contratte durante la degenza ospedaliera. Sono comuni
nei pazienti con gravi malattie croniche, immunodepressi, dopo terapia antibiotica prolungata o portatori di
accessi o cateteri intravascolari. Sono particolarmente a rischio di pazienti con ventilazione meccanica.
Queste infezioni sono spesso gravi e mortali e sono sostenute tipicamente da Enterobatteri, Pseudomonas,
S. aureus.

POLMITI DA ASPIRAZIONE

La polmonite da aspirazione si verifica in pazienti fortemente debilitati o per aspirazione di contenuto


gastrico dovuta allo stato di incoscienza (ad es. dopo un ictus) o per episodi di vomito ripetuti. Questi
pazienti hanno riflessi della deglutizione anomali che predispongono all'inalazione gastrica. La polmonite
che ne consegue è in parte chimica, a causa dell'effetto estremamente irritante del succo gastrico acido, e
in parte batterica (dalla flora orale). Di solito viene isolato in coltura
più di un microrganismo.
Si tratta di polmoniti necrotizzanti a decorso fulminante e spesso
mortale.

POLMONITE LOBARE

La polmonite lobare è un processo infiammatorio caratterizzato da 4


fasi clinico-patologiche e una evoluzione sincrona in tutta l’area
interessata; il fatto di avere una evoluzione sincrona la differenzia da
una broncopolmonite lobulare confluente, in cui le diverse aree
presentano una evoluzione asincrona.
Può associarsi anche a pleurite e organizzazione fibrosa, dal momento
che la malattia raggiunge le porzioni distali del parenchima
polmonare e coinvolge anche la pleura.
Le fasi sono:
1. Fase della congestione → si ha una dilatazione vascolare, il
parenchima polmonare appare scuro e pensante e si ha un
parziale consolidamento, infatti, gli alveoli presentano liquido
all’interno ma non sono ripieni.
Istologicamente si hanno ectasia capillare, abbondanza di
globuli rossi ed edema intra-alveolare con neutrofili e batteri.
2. Fase di epatizzazione rossa → si ha il consolidamento del
parenchima polmonare e gli alveoli risultano pieni di essudato
ricco di globuli rossi, insieme a fibrina, neutrofili e batteri.

227
3. Fase di epatizzazione grigia → gli alveoli sono
pieni di liquido, ma il colore del parenchima
diviene più chiaro, grigio, dal momento che
prevalgono fibrina e macrofagi: globuli rossi e
batteri vengono degradati dagli enzimi dei
neutrofili.
4. Fase di risoluzione → viene completata in un
mese e prevede la riareazione degli alveoli,
grazie alla fibrinolisi e alla pulizia eseguita dai
macrofagi
Inizialmente l’esame obiettivo rileva rumori respiratori
umidi, a causa della presenza di liquido negli alveoli,
successivamente si passa ad un totale silenzio,
all’ottusità percussoria e all’aumento del fremito vocale
tattile, a causa del consolidamento del parenchima; infine, durante la fase di risoluzione ricompaiono i
rumori, che tendono a normalizzarsi.

POLMONITE LOBULARE o BRONCOPOLMONITE

Si possono avere lesioni multifocali, anche


bilaterali, tendenzialmente nelle aree
inferiori, con un evoluzione asincrona,
pertanto è possibile ritrovare lesioni in fase
evolutiva differente. Un’altra caratteristica
distintiva è il fatto che anche i bronchioli
risultano infiltrati da cellule infiammatorie.
Interessa soprattutto anziani, bambini e
soggetti con malattie sottostanti, quindi
pazienti con una reattività del sistema
immunitario minore; questa patologia è la
tipica complicanza di malattie come bronchite
cronica, neoplasia e polmonite virale.
La restitutio ad integrum è più difficile da
ottenere rispetto alla polmonite lobare, anche perché i soggetti colpiti sono già compromessi e sono
possibili diverse complicanze:
- Ascesso, tipico in caso di pazienti con bronchiectasie, tumori o polmonite ab ingestis
- Empiema pleurico, che va poi incontro a riorganizzazione fibrosa, con conseguenti deficit funzionali
- Disseminazione e batteriemia

POLMONITE INTERSTIZIALE

La polmonite atipica è quella che anatomicamente viene classificata come interstiziale; solitamente è
causata da virus o mycoplasma pneumoniae ed è la forma più frequente nel giovane adulto.
Può avere un andamento indolente o evolvere in danno alveolare diffuso, dipende molto dalle condizioni
del paziente. Radiologicamente si osservano un interessamento multifocale bilaterale che dà un quadro
detto a vetro smerigliato.
Le polmoniti interstiziali, soprattutto quelle virali, sono caratterizzate da due fenomeni isto-patogenetici:
- Necrosi cellulare, indotta dal virus che penetra nelle cellule, non dai neutrofili. Si ha quindi la
liberazione di materiale proteinaceo che forma le caratteristiche membrane ialine e la
proliferazione cellulare come tentativo di riparazione del danno. L’origine virale è identificata
tramite l’analisi di tamponi, BAL e test microbiologici; l’esame istologico aiuta solo nel caso in cui il
virus lasci segni specifici, come ad esempio inclusi nucleari.

228
- Interessamento polmonare diffuso, con evoluzione
più o meno sincrona delle lesioni. L’interessamento
diffuso fa sì che a fronte ad un quadro clinico e
semeiologico poco marcato, si ha un difetto
funzionale importante, fino all’ipossiemia. Il
parametro chiave da valutare è quindi
l’ossigenazione del sangue, dal momento che tosse e
febbre non sono molto evidenti.
L’interessamento è prevalentemente interstiziale e alveolare
ed è presente un infiltrato infiammatorio costituito
soprattutto da linfociti e plasmacellule, quindi gli alveoli
non sono particolarmente ricchi di liquidi e il quadro radiologico è sfumato.

POLMONITI VIRALI

Le infezioni virali sono citopatiche quindi causano morte cellulare: la necrosi cellulare determina
proliferazione e formazione delle membrane ialine, che contribuiscono alla compromissione della
respirazione. Inoltre, il danno mucosale determina un deficit delle difese superficiali del paziente e
predispone ad una infezione batterica. I virus tendono ad interessare soprattutto bambini ed anziani e
sono sempre più frequenti i casi di infezioni partiti da serbatoi animali. Caratteristica dei virus è quella di
andare incontro a frequenti mutazioni: questo facilita il passaggio animale-uomo e l’insorgenza di
pandemie.
Le polmoniti virali tendono ad essere diffuse e bilaterali e ad interessare soprattutto l’interstizio: si ha un
infiltrato infiammatorio mononucleato, costituito soprattutto da linfociti, e un certo grado di congestione.
Negli alveoli sono presenti cellule morte, cellule sfaldate e materiale amorfo che va a costituire le
membrane ialine; nel tentativo di riparare il danno si ha la proliferazione esuberante degli pneumociti di
tipo II. A seconda del grado di infiammazione si può avere una quota di essudato endoalveolare ed è
possibile avere una sovra-infezione batterica.

Infezione polmonare da SARS-COV-2

I Coronavirus sono virus diffusi, soprattutto nei bambini, e solitamente causano blande infezioni delle vie
respiratorie. Negli ultimi 20 anni si sono però osservare gravi epidemie da Coronavirus: il virus SARS-COV-1
è altamente letale, ma diffonde più difficilmente rispetto a SARS-COV-2, anche perché i pazienti risultano
fortemente sintomatici e facilmente identificabili e quindi isolabile. Ancora più letale, con una mortalità del
30%, è il virus della MERS, che però, sia per le sue caratteristiche che per le caratteristiche del territorio,
non si è diffuso al di fuori della penisola arabica.
L’infezione causata da SARS-COV-2, Covid19, è una malattia acuta respiratoria febbrile in cui meno nel 5%
dei pazienti affetti necessita di un trattamento intensivo. L’esordio si è avuto in Cina, a Wuhan, nel
dicembre 2019 e attualmente la letalità è di circa il 3% ed interessa soprattutto pazienti anziani o con
comorbidità.
Nella forma clinicamente manifesta la malattia è caratterizzata da:
- Polmonite interstiziale che può portare a danno alveolare diffuso
- Sovrainfezione batterica
- Danno endoteliale
Le lesioni primarie si localizzazione nel polmone, determinano danno cellule, formazione di membrane
ialine, reclutamento di cellule mononucleate infiammatorie e proliferazione degli pneumociti di tipo II; in
un secondo momento vengono coinvolti anche i miofibroblasti e si ha una fase organizzativa di fibrosi.
All’esame istopatologico è comune ritrovare le classiche lesioni da danno virale, inclusioni virali, che ne
facilitano il riconoscimento, e ulteriore infezione batterica, soprattutto da Pseudomonas aeruginosa o altri
Gram -. Si è visto che in alcuni casi si possono avere segni istologici di polmonite interstiziale anche in

229
pazienti completamente asintomatici, per questo l’uso del saturimetro e della HRTC possono svelare la
polmonite in un paziente senza clinica evidente.
Si hanno anche danni extra-polmonari, tra i quali predomina il danno microvascolare endoteliale, a diversi
livelli. Si ha endotelite, dovuta sia alla presenza del virus a livello endoteliale sia all’infiltrato infiammatorio,
che determina malattia del microcircolo, sindrome da perdita di capillari e microtrombosi. Per prevenire
fenomeni microtrombotici si ricorre all’eparina.
Altra caratteristica dell’impatto extra-polmonare dell’infezione da SARS-COV-2 è l’iper-reattività
immunologica: si può avere una linfocitosi con aumento delle citochine pro-infiammatorie circolanti, come
IL-6, IL-8, IL-1; questa condizione correla con una maggior severità e letalità della malattia e legittima l’uso
del cortisone.

POLMONITE NEL PAZIENTE IMMUNOCOMPROMESSO

Un’ampia varietà di cosiddetti agenti infettivi opportunistici,


molti dei quali causano raramente infezioni nel soggetto
normale, possono provocare polmoniti di questa natura nel
paziente immunocompromesso.

Pneumocystis jirovecii

È un fungo che interessa soprattutto i soggetti prematuri o


immunocompromessi e causa polmonite atipia con esordio subdolo e ingravescente, che porta
rapidamente ad insufficienza respiratoria. Alla TC l’infezione si presenta con un pattern a vetro
smerigliato, opacità a fiocchi di cotone con periferia sfumata. Si ha quindi una polmonite atipica con
dissociazione clinico-radiologica: il quadro radiologico e la febbre sono modesti, ma l’ipossiemia è severa.
Macroscopicamente si ha congestione interstiziale, con aree di addensamento sparse di colore diverso,
segno di una evoluzione asincrona.
Gli addensamenti tendono ad essere asciutti, compatti con chiaro ispessimento della trama interstiziale,
con un aspetto lobulato, a “celletta” anche durante epatizzazione. All’interno degli interstizi si trova un
materiale schiumoso PAS positivo, costituito da detriti e parassiti, che si addensano e formano le
membrane ialine. Negli infiltrati troviamo soprattutto linfociti e diverse plasmacellule. Anche dopo la
risoluzione, può rimanere un certo grado di fibrosi.

Aspergillus

Si tratta della pneumoconiosi più frequente in Italia, anche perché le spore si trovano nell’ambiente, nel
terreno e nelle polveri. Nei pazienti con iper-reattività l’aspergillo può causare delle malattie di origine
allergica, come asma e polmonite eosinofila, alveolite allergica estrinseca e aspergillosi broncopolmonare
allergica; in questo caso il polmone non subisce danni strutturali.
Nei pazienti immunocompromessi invece, soprattutto nei pazienti neutropenici, si può avere aspergillosi
polmonare invasiva: il patogeno infiltra il tessuto e si espande e nel momento
in cui vengono recuperate le difese si ha un danno tissutale che determina la
formazione di una lesione cavitaria. Si hanno lesioni necrotizzanti e
suppurative, per la presenza di neutrofili e ife fungine, circondate da linfociti e
plasmacellule.
Una peculiarità dell’aspergillo è l’angiotropismo: il patogeno invade il vaso e
determina necrosi a valle; le lesioni necrotiche presentano una forma a cuneo
con base pleurica (simil-infartuali) e sono possibili emorragie. Se il focolaio è
centrale ed erode un grosso vaso si può avere un’emorragia grave e
potenzialmente fatale.

230
ASCESSI POLMONARI

L’ascesso polmonare è un processo suppurativo locale nei


polmoni, caratterizzato da necrosi del tessuto polmonare.
Potenzialmente qualsiasi patogeno, nelle giusti condizioni,
può portare alla formazione di un ascesso, i patogeni
principalmente associati alla sua formazione sono S.
aureus e alcuni Gram +; spesso si hanno infezioni miste.
Le lesioni ascessuali sono molto eterogenee: possono
essere uniche o multiple, a seconda della causa, e avere
dimensioni da alcuni millimetri a grandi cavità anche di 6
cm. La cavità ascessuale può essere riempita da detriti
suppurativi e, se in comunicazione con una via aerea,
l’essudato contenuto può essere drenato, creando una
cavità contenente aria. Nel materiale necrotico già
esistente si realizzano spesso sovrainfezioni saprofitiche.
L’alterazione istologica principale in tutti gli ascessi è la
distruzione suppurativa del parenchima polmonare entro
la zona centrale di cavitazione. Nei casi cronici, si può formare una parete fibrosa grazie all’attività dei
fibroblasti. L’evoluzione dell’ascesso polmonare consiste in un esito fibroso più o meno distorcente.

SINDROME DA DISTRESS RESPIRATORIO ACUTO – ARDS

Rappresenta la fase terminale di un esteso danno acuto a livello polmonare ed è clinicamente definita
come una insufficienza respiratoria che insorge entro una settimana da un insulto clinico noto o
riconosciuto all’imaging, che però non è al contempo spiegato dalla presenza di versamento, atelettasia,
insufficienza polmonare, sovraccarico di liquidi. Patologicamente è invece definita come un danno
alveolare diffuso dovuto ad un severo ed acuto danno endoteliale all’epitelio polmonare, che
compromette l’integrità della barriera alveolo-capillare.
Le cause sono molteplici: infezioni virali e batteriche, aspirazione, inalazione di tossici, ossigenoterapia,
ustioni estese, ingestione di tossine, ecc. La mortalità ospedaliera è del 39% e il 60% dei pazienti che
guariscono sviluppa una fibrosi interstiziale diffusa con malattia respiratoria debilitante.
Istologicamente si notano membrane ialine estese causate dal danno epiteliale, trombi di fibrina da danno
endoteliale, grado variabile di fibrosi. Questo è il quadro corrispondente ai casi gravi di infezione da Covid-
19. Si ha anche una incontrollata attivazione della risposta infiammatoria, come nelle forme severe di
Covid19.
Inizialmente ci sarà una fase essudatizia, con arrivo dei neutrofili, congestione, stravaso con eritrociti,
essudato molto ricco di proteine e formazione di membrane ialine; col tempo si sviluppa una fase
proliferativa fibrotica, con sostituzione del parenchima con fibrina e a seguire, quindi, ci sarà un danno
respiratorio cronico.

231
TUMORI DEL POLMONE – Dispensa

I tumori del polmone sono una realtà oncologica di grande impatto sulla popolazione e sul SSN, infatti, in
Europa il tumore del polmone si trova al terzo posto per incidenza, se consideriamo i tumori di prostata e
mammella come esclusivi di uno o dell’altro sesso, e al primo posto per mortalità.
Il 95% dei casi di tumore al polmone è rappresentato da carcinomi, che interessano tipicamente pazienti
con più di 60 anni, il 5% dei casi è rappresentato dai carcinoidi bronchiali e il 2-5% da neoplasie
mesenchimali e altre neoplasie.

Fattori di rischio

Alcuni fattori di rischio sono ben noti e modificabili, primo fa tutti


il fumo di sigaretta, tanto che l’87% dei carcinomi del polmone si
verifica in pazienti fumatori o in pazienti che hanno smesso
recentemente di fumare. Quando si considera l’abitudine al fumo
di sigaretta, oltre all’aspetto qualitativo, ovvero fumatore o non
fumatore, vanno presi in considerazione anche il numero di
sigarette fumate al giorno e il tempo complessivo di esposizione;
inoltre, anche il fumo di sigaro e pipa rappresenta un fattore di
rischio. È importante anche considerare l’esposizione al fumo
passivo.
Anche l’esposizione al radon e all’asbesto rappresenta un fattore di rischio; l’esposizione all’asbesto ha
inoltre un potente effetto sinergico con il fumo di sigaretta.
Altri fattori di rischio sono:
- Sostanze radioattive
- Tossici ambientali, come cadmio, arsenico, cloruro di vinile e altre sostanze
- Prodotti residuati da produzione di gasolio
- Supplementi alla dieta, come vitamine e Sali minerali, infatti, si è visto che la somministrazione di β-
carotene nei fumatori aumenta il rischio di cancro al polmone
- Terapia radiante che coinvolge il polmone
- Inquinamento ambientale
- Familiarità e predisposizione genetica
Vi poi alcuni fattori la cui associazione con il tumore al polmone non è dimostrata, ma che tuttavia non
vanno considerati come scevri dal rischio:
- Fumo di marijuana
- Polveri di talco da miniere
- Sigarette elettroniche: queste sigarette sono prive delle cartine e delle foglie di tabacco, dalla cui
combustione si generano sostanze cancerogene, ma contengono comunque nicotina, la quale si è
visto essere in grado di intervenire direttamente sulla proliferazione e la sopravvivenza delle cellule
epiteliali, attivando il recettore di IGF.

Classificazione

Tra i tumori epiteliali rientrano:


- Adenocarcinoma
- Carcinoma a cellule squamose
- Tumori di origine neuroendocrina
- Altri tipi
o Carcinoma a grandi cellule
o Carcinoma adenosquamoso
o Carcinoma sarcomatoide
o Tumori delle ghiandole salivari

232
Meno frequenti sono i tumori mesenchimali e i tumori ematopoietici. Rilevanti sono i tumori metastatici,
infatti, molti tumori danno lesioni metastatiche polmonari.

Staging

La stadiazione clinica ha un notevole impatto terapeutico e prognostico.


Quando si esegue lo staging del tumore al polmone va fatta una prima distinzione tra i tumori a piccole
cellule, SCLC (small cell lung cancer), e i tumori non a piccole cellule, NSCLC (non small cell lung cancer); i
tumori a piccole cellule sono sostanzialmente rappresentati dal tumore neuroendocrino a piccole cellule,
detto anche microcitoma.

Nei tumori non a piccole cellule si hanno:


1. Stadio I → tumore monolaterale e non diffuso ai
linfonodi
2. Stadio II → tumore monolaterale con coinvolgimento
dei linfonodi omolaterali
3. Stadio III → coinvolgimento dei linfonodi della linea
mediana (stadio IIIa) o coinvolgimento dei linfonodi
cervicali o controlaterali (stadio IIIb). Lo stadio IIIb
sancisce la non operabilità.
4. Stadio IV → coinvolgimento locale, per contiguità, di
altre strutture o metastasi a distanza

Nei tumori a piccole cellule si distinguono invece:


- Stadio limitato → tumore omolaterale con
coinvolgimento o meno dei linfonodi omolaterali
(corrisponde agli stadi I e II)
- Stadio avanzato → qualsiasi altra condizione; quindi si
ha una diffusione locale o sistemica

Evoluzione clinica

È una delle forme più insidiose e aggressive di cancro; i principali sintomi di esordio sono tosse, calo
ponderale, dolore toracico e dispnea. La sintomatologia perdura in genere per mesi e la diagnosi avviene
solitamente durante le indagini cliniche per indagare un’altra neoplasia in un’altra sede.
Il carcinoma polmonare può essere associato a diverse sindromi paraneoplastiche, alcune delle quali
possono precedere lo sviluppo di una lesione polmonare macroscopica. Gli ormoni e i fattori simil-ormonali
elaborati comprendono:
- Ormone anti-diuretico, ADH, con conseguente iponatriemia
- Ormone adrenocorticotropo, ACTH, con conseguente sindrome di Cusching
- Paratormone, prostaglandina E e citochine, associati all’ipercalcemia che spesso si rileva in caso di
carcinoma polmonare
- Calcitonina, che causa ipocalcemia
- Gonadotropine, che inducono ginecomastia
- Serotonina e bradichinina, associate alla sindrome da carcinoide
Si hanno sindromi paraneoplastiche clinicamente evidenti nell’1-10% dei casi; sebbene ogni tipo istologico
possa produrre uno qualunque di questi fattori, i tumori che producono ACTH e ADH sono solitamente
carcinomi a piccole cellule, mentre quelli associati ad ipercalcemia sono soprattutto i tumori
squamocellulari. Per quanto riguarda la sindrome da carcinoide essa è tipica nei tumori carcinoidi, ma può
essere raramente associata anche ai tumori a piccole cellule: essendo i tumori a piccole cellule più comuni
dei carcinoidi, nella pratica clinica è più probabile riscontrare la sindrome da carcinoide associata a tumore
a piccole cellule.

233
Altre manifestazioni cliniche del carcinoma polmonare sono:
- Sindrome miastenica di Lamliet-Eaton, causata dalla presenza di autoanticorpi diretti contro il
canale neuronale del calcio con conseguente ipostenia
- Neuropatia periferica
- Alterazioni dermatologiche, come l’acantosi nigricans
- Alterazioni ematologiche, come reazioni leucemoidi
- Osteartropatia polmonare ipertrofica, alterazione del connettivo associata a ipoocratismo digitale
I tumori che insorgo all’apice del polmone possono invadere le strutture neuronali intorno alla trachea e il
plesso cervicale del simpatico, causando ad esempio la sindrome di Horner, caratterizzata da enoftalmo,
ptosi palpebrale, miosi e anidrosi; questi tumori sono detti anche tumori di Pancoast.

Per quanto riguarda le forme non a piccole cellule la sopravvivenza 5 anni è pari a:
- 60% nelle forme localizzate
- 33% nelle forme con diffusione regionale
- 6% nelle forme con diffusione a distanza
La sopravvivenza complessiva a 5 anni è inferiore al 25%: molte diagnosi avvengono in fase avanzata.
Nel carcinoma a piccole cellule la prognosi è peggiore e la sopravvivenza a 5 anni risulta pari a:
- 30% con malattia localizzata
- 3% con malattia a distanza
La sopravvivenza complessiva a 5 anni è del 6%, infatti, si tratta di tumori che metastatizzano rapidamente.

ADENOCARCINOMA

È una delle due forme più frequenti, l’altra è il carcinoma squamocellulare, e attualmente è la prima forma
per frequenza negli USA. È un tumore invasivo, maligno, epiteliale con differenziazione ghiandolare o
comunque con evidenza di produzione di mucina; la produzione di mucina è un dato importante nella
diagnosi differenziale con forme meno differenziate, in cui non si hanno strutture ghiandolari.
L’adenocarcinoma è la forma meno correlata al fumo: colpisce sicuramente di più i soggetti fumatori, ma
se si considera una popolazione di non fumatori con carcinoma polmonare l’adenocarcinoma è sicuramente
la forma più frequente.
L’adenocarcinoma può vedere una condizione pre-
neoplastica, l’iperplasia adenomatosa atipica, che consiste
in lesioni inferiori ai 5 mm, non evidenziabili tramite imaging
e visibili solo all’analisi del tessuto. Nell’iperplasia
adenomatosa atipica la parete alveolare è rivestita da cellule
displastiche, ovvero cellule irregolari, con alterazioni del
rapporto nucleo/citoplasma e nucleolo evidente, e si ha un
moderato grado di fibrosi, visibile come un moderato
ispessimento dell’interstizio. Queste lesioni possono essere
singole o multiple e solitamente si ritrovano in prossimità
delle aree colpite dall’adenocarcinoma.
Altra peculiarità dell’adenocarcinoma è quella di insorgere tipicamente alla periferia dell’organo ed
eventualmente in sede sub-pleurica.
Questa neoplasia presenza mutazioni gain of function degli oncogeni coinvolti nella via di segnalazione
dei fattori di crescita; spesso sono mutati geni che codificano per recettori tirosin-chinasi, come EGFR, ALK,
ROS, MET e RET, ma possono essere presenti anche mutazioni di KRAS.

Morfologia

La neoplasia può presentare diverse varianti istologiche: si possono avere forme ben differenziate con
evidenti elementi ghiandolari, lesioni papillari e masse solide che presentano rare strutture ghiandolari e
cellule secernenti mucina.

234
I pattern di crescita possono essere diversi:
- Forme propriamente acinari, in cui l’acino
ghiandolare è ben distinguibile
- Pattern di crescita lepidica, in cui la
crescita della neoplasia va a seguire la
struttura dell’alveolo, fino a rivestirlo (in
passato si parlava di carcinoma bronchiolo-
alveolare)
- Pattern di crescita papillare
- Pattern di crescita micropapillare
- Pattern di crescita solido, in cui viene meno
la differenziazione
- Pattern citologico con cellule ad anello con
castone
Le forme solide meno differenziate non sono
tipiche del polmone, ma insorgono più
frequentemente a livello gastrico, pertanto è
necessario distinguere tra tumore primitivo e
metastasi. Anche nelle forme meno differenziate,
senza un pattern ghiandolare identificabile, è possibile evidenziare la produzione di mucina grazie
all’immunoistochimica.
Un’altra variante possibile è la forma colloide, in cui si ha una importante produzione di mucina, fino alla
formazione di laghi di mucina all’interno dei quali si trovano cellule tumorali; essendo i tumori colloidi
frequenti anche in altri sedi è anche in questo caso necessario distinguere tra lesione primitiva del polmone
e lesione metastatica.

L’adenocarcinoma in situ è definito come una lesione neoplastica isolata, inferiore ai 3 cm, caratterizzata
da crescita lepidica pura: gli alveoli risultano rivestiti da una popolazione cellule francamente atipica, ma
non si ha alcun segno di invasione o differenziazione. Non solo è assente l’invasione tissutale, ma non si ha
nemmeno lo spargimento di cellule neoplastiche all’interno degli spazi aerei.

Nell’adenocarcinoma minimamente invasivo, invece, la lesione è singola, ma il pattern di crescita lepidica


è solo predominante, non esclusivo, e si può avere un’area, di dimensioni inferiori ai 5 mm, in cui si ha una
componente invasiva, ovvero una componente non lepidica, ma che non invade francamente lo stroma.
Nel momento in cui si ha una chiara invasione dei vasi, degli spazi aerei o della pleura o vi è necrosi, si ha un
adenocarcinoma invasivo.
La diffusione dell’adenocarcinoma può quindi avvenire anche attraverso gli spazi arei, non solo per via
ematica, e ciò è responsabile di un certo tasso di insuccessi in pazienti dichiarati originariamente a basso
stadio.

Le varianti istologiche dell’adenocarcinoma sono:


- Carcinoma bronchiolo-alveolare
- Adenocarcinoma in situ, AIS
- Adenocarcinoma minimamente invasivo, MIA
- Adenocarcinoma a crescita lepidica
- Adenocarcinoma mucoso
- Adenocarcinoma papillare

Carcinoma bronchiolo-alveolare

Si sviluppa nelle regioni terminali bronchioloalveolari del parenchima polmonare e rappresenta l’1-9% di
tutti i carcinomi polmonari.

235
Macroscopicamente si presenta come un nodulo singolo nella periferia dell’organo o come noduli
molteplici e diffusi che talvolta confluiscono, determinando un addensamento simile ad una polmonite. I
noduli appaiono grigi, traslucidi e mucinosi se si ha produzione di mucina, altrimenti risultano bianco-
grigiastri.
Istologicamente la lesione neoplastica è caratterizzata da un quadro a sviluppo esclusivamente bronchiolo-
alveolare, senza alcuna evidenza di invasione stromale, vascolare o pleurica. Questi carcinomi crescono
lungo strutture pre-esistenti, senza distruggere l’architettura alveolare.
Si distinguono due sottotipi: muciparo e non muciparo.
I carcinomi bronchiolo-alveolari non mucipari sono costituiti
da cellule collari, spinose o cuboidi e si presentano come
noduli periferici con rara diffusione aerogena, pertanto sono
adatti alla resezione chirurgica e la sopravvivenza a 5 anni è
eccellente.
I carcinomi bronchiolo-alveolari mucipari presentano cellule
colonnari con mucina citoplasmatica e mucina intra-alveolare
e tendono a diffondere per via aerogena.
Si ipotizza che questi tumori insorgano su una iperplasia
adenomatosa atipica e tendano poi ad evolvere in
adenocarcinoma invasivo, ma non tutti si sviluppano secondo
questo schema e non tutti tendono a divenire invasivi se non
trattati.

CARICONOMA SQUAMOSO O SQUAMOCELLULARE

Il carcinoma squamocellulare è definito come una neoplasia epiteliale maligna con differenziazione
squamosa o epidermoide ed è il tumore più frequente nel maschio fumatore.
Si sviluppa prevalentemente in sede centrale, a livello delle diramazioni bronchiali principali.
La lesione precursore in questo caso è la metaplasia squamosa dell’epitelio respiratorio, che può arrivare
fino agli alveoli, cui si possono associare segni di displasia. La metaplasia/displasia squamosa dell’epitelio
bronchiale evolve poi in carcinoma squamoso in situ, completamente asintomatico e non rilevabile
all’esame radiografico, che può poi portare alla formazione di una massa tumorale ben definita che
ostruisce il lume del bronco, determinando atelettasia ed infezioni.
Il carcinoma squamocellulare in situ può essere identificato tramite la ricerca di cellule atipiche.

Macroscopicamente i tumori squamocellulari possono presentare pattern di crescita diversi:


- Pattern di crescita esofitico, all’interno del lume bronchiale, che arriva a determinare ostruzione
completa del bronco, atelettasia e collasso del polmone a valle non areato, alterazioni del rapporto
ventilazione/perfusione e ricorrenti infezioni.
- Pattern infiltrante il tessuto peribronchiale
- Pattern di crescita a cavolfiore, con lesioni che schiacciano il parenchima circostante

Istologia

Si distinguono forme più o meno differenziate.

236
I principali elementi che caratterizzano la
differenziazione sono:
- Segni di cheratinizzazione, visibili
attraverso il riscontro delle perle cornee
- Ponti intercellulari
- Cellule ben distinte le une dalle altre
con abbondante citoplasma eosinofilo
Più questi elementi sono rappresentati maggiore
è il grado di differenziazione, si hanno forme ben
differenziate.
Le forme moderatamente differenziate
presentano aree in cui questi elementi sono
chiaramente identificabili e aree in cui essi
mancano, mentre le forme scarsamente
differenziate sono le forme non cheratinizzanti.
Nelle forme scarsamente differenziate l’indice mitotico è maggiore.
All’esame immunoistochimico si ricercano le cheratine e si esegue la colorazione PAS per escludere la
presenza di mucina, in modo da distinguerlo dall’adenocarcinoma.
Aree di metaplasia, displasia e carcinoma in situ possono essere osservate nell’epitelio bronchiale
adiacente il carcinoma squamocellulaere.

I carcinomi squamocellulari sono, tra i carcinomi polmonari, quelli in cui la mutazione di p53 è più
frequente (fino al 50% delle lesioni displasiche). Vi possono essere anche mutazioni a carico di altri geni
oncosoppressori, come RB1 e p16, che favoriscono e precedono l’invasione tumorale. Possono essere
iperespressi EGFR e HER2-NEU.

Esistono due varianti del carcinoma squamocellulare che sono rilevanti sia dal punto di vista clinico che di
diagnostica differenziale:
- Forma basaloide → presenta le medesima caratteristiche citologiche dei tumori cutanei a cellule
basali, quindi presenta cellule scure, densamente colorate; queste caratteristiche si fondono con
quelle tipiche del carcinoma squamocellulare. È molto importante escludere che si tratti di lesioni
metastatiche.
- Forma a piccole cellule → entra in diagnosi differenziale con il carcinoma neuroendocrino a piccole
cellule, da cui è distinguibile grazie ad alcune caratteristiche
o Il carcinoma squamoso a piccole cellule presenta una cromatina irregolare e vescicolosa,
mentre il carcinoma neuroendocrino presenta una cromatina più sfumata, detta a sale e
pepe
o Le forme squamocellulari presentano un nucleolo evidente, mentre nelle forme
neuroendocrine il nucleolo è di solito assente
o Nelle forme squamocellulari il citoplasma risulta più abbondante, quindi si ha una minor
densità nucleare
o Nelle forme squamocellulari
i margini delle singole
cellule sono più netti
o Nel tumore neuroendocrino
possono essere ricercati
marcatori specifici come
CD56, cromogramina e
sinaptofisina, mentre le
forme squamocellulari sono
positive alle cheratine

237
CARCINOMA A GRANDI CELLULE

Tumore epiteliale maligno indifferenziato tipico delle caratteristiche citologiche del carcinoma a piccole
cellule e della differenziazione ghiandolare o squamosa. Le cellule presentano grossi nuclei, nucleoli
prominenti e modesto citoplasma. Probabilmente si tratta di adenocarcinomi e carcinomi squamosi
talmente indifferenziati da non essere più riconoscibili al microcopio ottico, anche se dal punto di vista
ultrastrutturale è visibile una minima differenziazione ghiandolare o squamosa.
Una variante istologica è il carcinoma a grandi cellule neuroendocrine, caratterizzato da crescita
organoide, trabecolare, simile a rosette e dall’aspetto a palizzata; la differenziazione neuroendocrina può
essere poi confermata dall’immunoistochimica o dalla microscopia elettronica.
Questo tumore presenta le medesime alterazioni molecolari del carcinoma a piccole cellule.

TUMORE TIPO GHIANDOLARE SALIVARE

Dal momento che presenta caratteristiche del tutto analoghe, quando


si riscontra questo referto istologico è necessario escludere la presenza
di un tumore primitivo della ghiandola salivare.
Origina dalle ghiandole sottomucose dei bronchi ed è
tendenzialmente indolente; prognosi peggiore è associata alla
variante adenoido-cistica, che non risponde bene ai farmaci e alle
radiazioni.

CARCINOMA
ADENOSQUAMOSO

Si ha una commistione dei due


tipi istologici, l’adenocarcinoma e il carcinoma squamoso: almeno il
10% della cellularità del tumore deve essere riconducibile ai due
componenti.

CARCINOMA SARCOMATOIDE

Le cellule sono fusate e possono assumere un atteggiamento


vorticoide, pertanto può essere confuso con un sarcoma; per la
diagnosi differenziale è fondamentale la caratterizzazione istochimica.

AMARTOMA POLMONARE

È una lesione relativamente comune scoperta di solito


accidentalmente; alla radiografia si presenta come un
addensamento radiopaco a forma di moneta.
La maggior parte di questi tumori è periferica e isolata, ben
circoscritta e con diametro inferiore a 3-4 cm.
Consiste in noduli di connettivo intersecati da epitelio anomalo; il
tessuto connettivo è solitamente rappresentato da cartilagine, ma
può esserci anche tessuto fibroso o tessuto adiposo. La componente
epiteliale è costituita da lamine di epitelio colonnare ciliato o non
ciliato e probabilmente deriva dall’intrappolamento dell’epitelio
respiratorio. Nonostante sia denominato amartoma, è più probabile
che si tratti di una neoplasia, non di una malformazione, come suggerisce il fatto che l’incidenza aumenta
con l’età e sono presenti aberrazioni cromosomiche.

238
TUMORI DI ORIGINE NEUROENDOCRINA

Originano dal sistema APUD, le cellule del Kultschitzsky, che si trovano nello strato basale dell’epitelio
bronchiale e nelle ghiandole sotto-epiteliali della mucosa. Possono essere presenti come singoli elementi o
come aggregati, detti corpi neuroepiteliali.
Una possibile lesione pre-invasiva è l’iperplasia a cellule neuroendocrine polmonari idiopatica diffusa: le
cellule neuroendocrine proliferano diffusamente lungo tutto l’epitelio dell’albero respiratorio e vanno a
formare i corpi neuroepiteliali.
Generalmente i tumori neuroendocrini presentano un pattern di crescita organoide, quindi crescita solida,
e si caratterizzano per la presenza di granuli di secrezione, visibili all’immunoistochimica e alla microscopia
elettronica.

Carcinoide

Rappresenta il 5-10% dei tumori del polmone ed è caratterizzato da un basso grado di malignità.
Tende a svilupparsi in sede centrale, anche se talvolta si riscontrano noduli periferici, ed è comune anche
nei soggetti giovani, con meno di 40, sia maschi che femmine.
La crescita è solitamente organoide, ma si può avere anche una crescita a palizzata, a nastro o trabecolare.
Si hanno nidi di cellule poligonali quasi rotondeggianti con citoplasma eosinofilo separati da un esile
stroma fibroso.
Si distinguono due varianti:
- Tipica, che rappresenta un tumore sostanzialmente benigno, con meno di 2 mitosi per 10 campi a
forte ingrandimento e privo di necrosi. La sopravvivenza a 5 anni è del 95%.
- Atipica, che presenta un moderato grado di aggressività: si hanno più mitosi, sono presenti aree di
necrosi e le cellule hanno un maggior grado di atipia. Si hanno cellule con nuclei irregolari,
cromatina vescicolosa, aperta, e nucleoli evidenti; si possono avere ostruzione bronchiale e
disseminazione per via linfatica. La sopravvivenza a 5 anni è del 70%.
Queste forme possono provocare un effetto massa e sintomi legati alla secrezione di ammine
vasoattive, ovvero la sindrome da carcinoide, con diarrea, rush cutaneo, ecc.
Inoltre, i carcinoidi atipici mostrano mutazioni di p53, BCL2 e BAX.
All’esame microscopico i tumori centrali crescono come masse digitate o sferiche polipoidi e si proiettano
nel lume del bronco, ma rimangono rivestiti da mucosa intatta. Alcuni, tuttavia, formano una massa
intraluminale e penetrano nella parete bronchiale fino ad emergere nel tessuto peribronchiale, producendo
le cosiddette lesioni a “bottone di colletto”.
Le neoplasie periferiche sono invece solide e nodulari.

Le manifestazioni cliniche dei carcinoidi sono quindi legate sia allo sviluppo intraluminale sia alla capacità di
metastatizzare e produrre amine vasoattive, tipica solo di alcune lesioni. I sintomi legati alla presenza della
massa sono tosse, emottisi, infezioni secondarie ricorrenti, bronchiectasie, enfisema, atelettasia, ecc.
La sindrome da carcinoide si manifesta solo nelle lesioni funzionali.
239
Carcinoma neuroendocrino a grandi cellule

È una patologia piuttosto aggressiva, con una sopravvivenza a 5 anni del 30%.
Si tratta di un carcinoma neuroendocrino scarsamente differenziato, con cellule di grandi dimensioni,
atipiche, che formano nidi; sono presenti aree di necrosi e numerose mitosi.
Entrano in diagnosi differenziale con altre forme di carcinoma scarsamente differenziato, ma
l’immunoistochimica permette di evidenziare:
- Minore presenza di citocheratine, che nei tumori neuroendocrini risulta citoplasmatica e granulare
- Positività a marker specifici dei tumori neuroendocrini
- Negatività a marker dei carcinomi e degli adenocarcinomi

Tumore a piccole cellule

È la forma neuroendocrina più frequente e per le sue caratteristiche rappresenta anche una categoria
clinica a se stante. È il tumore polmonare più aggressivo, con una sopravvivenza a 5 anni del 5%, e ciò è
dovuto al fatto che diffonde molto rapidamente e sono spesso presenti micro-metastasi al momento della
diagnosi. È strettamente associato al fumo ed interessa soprattutto soggetti tra i 50 e i 70 anni.
La cellule APUD sono presenti in tutto l’albero respiratorio, tranne che nel bronchiolo terminale e negli
alveoli, pertanto la neoplasia può avere sia uno sviluppo centrale che uno sviluppo periferico.
Le cellule sono di piccole dimensioni e presentano citoplasma poco definito e cromatina finemente
grossolana, detta a sale e pepe; i nucleoli sono difficilmente osservabili. Le cellule possono essere
rotondeggianti o fusate e talvolta si ha l’aspetto vorticoso tipico del sarcoma.
Il tasso di proliferazione è elevato e sono osservabili molte mitosi; inoltre, l’alto tasso di crescita rende
ragione della presenza di zone estese di necrosi. È spesso presente la colorazione basofila delle pareti
vascolari dovuta a incrostazioni di DNA da cellule tumorali necrotiche (effetto di Azzopardi).
Sono presenti granuli neurosecretori, identificabili tramite immunoistochimica, e possono essere presenti
diverse sindromi associate alle secrezioni.
Sono spesso mutati gli oncosoppressori p53 e RB1 e sono spesso presenti alti livelli della proteina anti-
apoptotica BCL2 e bassi livelli della proteina pro-apoptotica BAX.
È riconosciuta una sola variante del carcinoma a piccole cellule, il carcinoma a piccole cellule combinato, in
cui si hanno zone di carcinoma a piccole cellule e zone di carcinoma con una qualsiasi altra differenziazione.

IMMUNOFENOTIPO DEL TUMORE AL POLMONE e TARGET TERAPEUTICI

Gli adenocarcinomi del polmone esprimono TTF-1, che permette di distinguerli da quelli del tubo
digerente.
TTF-1 può essere presente anche nel carcinoma squamocellulare, pertanto per distinguere le forme
indifferenziate di adenocarcinoma e carcinoma squamocellulare si usa la Napsina.
Un buon marcatore per il carcinoma squamocellulare è p40.
I marcatori d’elezione per identificare le neoplasie di origine neuroendocrina sono: cromogranina, CHGA,
sinaptofisina, SYP, CD56 e INSM1, che rappresenta il fattore di trascrizione che regola l’espressione della
cromogramina e della sinaptofisina.

Esistono poi marcatori immunoistochimici che non servono per la diagnosi differenziale, ma per valutare la
presenza di lesioni geniche specifiche e la possibilità di ricorrere a terapie mirate.
Alcuni adenocarcinomi del polmone presentano la traslocazione di ALK, l’anaplastic lymphoma kynase: ALK
ha un pathway che coinvolge JAK e STAT, su cui si può intervenire con l’inibitore delle tirosin-chinasi
Crizotinib.
Altri importanti target terapeutici sono RET, ROS e EGFR; se risulta mutato EGFR si può intervenire con
inibitori delle tirosin-chinasi.
Molto importanti si sono rilevati anche i farmaci che inibiscono il legame PD1-PDL1, che permette alla
neoplasia di sfuggire alla risposta immune.

240
La prognosi del tumore al polmone dipende da:
- Estensione della malattia, sia locale che a distanza
- Istotipo: il carcinoma a piccole cellule è quello a prognosi peggiore
Il tumore del polmone può avere metastasi linfatiche, per cui è importante valutare i linfonodi
controlaterali toracici, del collo o metastasi per via ematica, molto comuni e con localizzazione molto varia.
I tumori del polmone possono dare metastasi ovunque: a livello cerebrale (da slide: 20%), a livello osseo
(20%) e di midollo osseo, per cui è da prestare attenzione ad un possibile esordio con dolore osseo. Si
possono poi avere metastasi epatiche e alle ghiandole surrenali. Soprattutto con il microcitoma, che ha
crescita rapida, bisogna tenere in considerazione la possibile insorgenza di insufficienza surrenalica.
Tendenzialmente le metastasi si sviluppano rapidamente, tranne che nel carcinoma squamocellulare.

241
LESIONI DELLA PLEURA – Dispensa

L’interessamento patologico della pleura è molto spesso una complicanza secondaria ad alcune malattie
sottostanti. Tra le patologie primitive della pleura ritroviamo le infezioni batteriche intrapleuriche primitive
e il mesotelioma, neoplasia primitiva della pleura.

VERSAMENTO PLEURICO

Il versamento pleurico è una manifestazione frequente di malattia pleurica, sia primaria che secondaria, sia
di natura infiammatoria che non infiammatoria.
L’accumulo di liquido pleurico, che normalmente è pari a 15 ml, si verifica in caso di:
- Aumento della pressione idrostatica, come nell’insufficienza cardiaca congestizia
- Aumento della permeabilità vascolare, come nella polmonite
- Riduzione della pressione oncotica, come nella sindrome nefrosica
- Aumento della pressione negativa intra-pleurica, come nella atelettasia
- Riduzione del drenaggio linfatico, come nella carcinomatosi mediastinica

Versamenti pleurici infiammatori

Le cause più frequenti di pleurite sono le malattie infiammatorie polmonari, come polmonite, ascesso
polmonare, infarto polmonare, bronchiectasie, ecc., l’artrite reumatoide, il LES, l’uremia, le infezioni
sistemiche diffuse e l’interessamento metastatico della pleura; un’altra possibile causa è la radioterapia per
tumori del polmone o del mediastino.
La formazione di essudato fibrinoso o siero-fibrinoso può poi portare a pleurite sierosa, siero-fibrinosa e
fibrinosa. Generalmente l’essudato viene riassorbito e si ha risoluzione della componente fibrinosa, ma se
si accumulano grandi quantità di liquido si possono avere compressione polmonare e distress respiratorio.
In caso di disseminazione batterica o micotica, da una infezione polmonare o da una infezione a distanza
per via ematogena o linfatica, si un essudato pleurico purulento e si ha un empiema pleurico. L'empiema è
caratterizzato da una raccolta di pus saccata, giallo-verdastra, di consistenza cremosa composta da
accumuli di neutrofili associati ad altri leucociti. L’empiema può andare incontro a risoluzione, ma è più
frequente che si formino aderenze fibrose che riducono l’espansione polmonare.
Nella diatesi emorragica, nelle malattie rickettsie e in caso di interessamento neoplastico del cavo pleurico
si ha una essudazione sieroematica con pleurite emorragica.

Versamenti pleurici non infiammatori

La raccolta non infiammatoria di liquido sieroso nella cavità pleurica è detta idrotorace; il liquido è chiaro e
di colore paglierino. In base alla causa sottostante l’idrotorace può essere mono- o bi-laterale; la principale
causa di idrotorace è l’insufficienza cardiaca, ma può essere dovuto anche ad insufficienza renale e cirrosi
epatica.
L’emotorace è caratterizzato dalla fuoriuscita di sangue nella cavità pleurica, è dovuto a rottura di un
aneurisma aortico o ad un trauma vascolare e risulta spesso fatale.
Il chilotorace è rappresentato dall’accumulo di liquido lattescente nella cavità pleurica, spesso di origine
linfatica, ed è tipicamente associato a traumi del dotto toracico e ad ostruzione dei principali vasi linfatici,
spesso dovuta a neoplasia.

TUMORI DELLA PLEURA

La pleura può essere colpita da tumori primitivi o secondari, ma l’interessamento secondario metastatico è
nettamente più frequente, soprattutto in caso di tumori del polmone e delle mammella.
I tumori primitivi della pleura sono il tumore fibroso solitario e il mesotelioma.

242
I tumori secondari sono il tumore broncogeno, il carcinoma mammario, il carcinoma ovarico, che presenta
uno spiccato tropismo per le sierose, e altri tumori di torace e addome.

Tumore fibroso solitario

Precedentemente noto come mesotelioma benigno, è un tumore del tessuto connettivo con tendenza a
formarsi a livello pleurico è più raramente nei polmoni o in altre sedi. Solitamente la neoplasia risulta
adesa alla superficie pleurica tramite un peduncolo e può presentare dimensioni variabili, anche di diversi
centimetri. Macroscopicamente si presenta come tessuto fibroso denso con cisti occasionali ripiene di
liquido viscoso.
Microscopicamente, si ha una impalcature di fibre reticolari e collagene tra le quali si trovano cellule
fusate, simili a fibroblasti; le cellule tumorali sono CD34+ e cheratina-negative all’immunoistochimica e ciò
permette di distinguere queste lesioni dal mesotelioma, che mostra il fenotipo opposto.
Raramente questo tumore può essere maligno, con pleomorfismo, attività mitotica elevata, necrosi e
grandi dimensioni.

Mesotelioma pleurico

Il 90% dei casi di mesotelioma pleurico nei paesi industrializzati è legato all’esposizione all’asbesto, che
aumenta il rischio di oltra 1000 volte rispetto alla popolazione generale non esposta.
Le fibre dell’amianto maggiormente coinvolte nello sviluppo del mesotelioma sono gli anfiboli, crocidolite e
amosite, che risultano rigide, dritte e poco solubili.
Si tratta di un tumore più frequente nei soggetti anziani di sesso maschile, a causa della maggior
esposizione degli uomini all’asbesto sui luoghi di lavoro. L’aumento di incidenza riguarda anche i parenti di
coloro che lavoravano a stretto contatto con l’asbesto, sia perché le fibre venivano portate a casa
attraverso i vestiti sia perché spesso i lavoratori risiedevano nei pressi della fabbrica.
Vista la lunghissima latenza tra esposizione e sviluppo della neoplasia, i casi sono ancora in aumento.

Dal punto di vista clinico i sintomi principali sono: dispnea, conseguente al versamento pleurico, e dolore
toracico. La neoplasia viene spesso diagnosticata in fase avanzata, pertanto sono comuni anche sintomi
costituzionali, come calo ponderale, malessere, debolezza, cachessia, sudorazioni, e complicanze locali,
come pneumotorace, disfonia per infiltrazione del nervo laringeo, sindrome della vena cava superiore.

Macroscopicamente si presenta con noduli solidi, duri e biancastri diffusi sulla superficie della pleura
viscerale e parietale; con il tempo i noduli tendono a fondersi e a formare placche sempre più estese, fino
a circondare completamene il polmone. La consistenza è variabile in base all’aspetto microscopico: può
essere molliccia, gelatinosa o dura.
Tende a diffondere lungo la superficie polmonare, lungo la pleura e lungo le scissure, fino ad invadere il
mediastino, il pericardio e la parete toracica; si può avere anche una infiltrazione del diaframma, con
conseguente interessamento del peritoneo e ascite.
Il mesotelioma ha quindi una importante diffusione locale, ma può dare anche metastasi linfonodali e
metastasi ematogene, coinvolgendo fegato, osso, SNC, ecc.

Il segno più frequente è il versamento pleurico (solo l’1% dei versamenti è causato da mesotelioma), ma il
citologico del versamento è un metodo diagnostico poco accurato dal momento che solo nel 50% dei casi
sono presenti cellule neoplastiche nel liquido e perché qualora presenti tale cellule non hanno caratteri di
anaplasia o displasia tali da permettere una diagnosi certa; si tratta, infatti, di cellule ampie con molto
citoplasma, simili a quelle dell’iperplasia reattiva. Inoltre, tale metodica non dà informazioni sull’invasione
tissutale. Per la diagnosi quindi si ci basa su biopsie multiple eseguite in corso di videotoracoscopia e
metodiche di imaging, come RX, TC e PET.

243
Istologicamente si distinguono più varianti: epitelioide (60%), sarcomatosa (20%), mista (20%) e
desmoplastica. Identificare la variante morfologica è importante la differenziazione con una eventuale
lesione secondaria, ma essa non influenza la prognosi.

La variante epitelioide presenta cellule medio-grandi,


con citoplasma ampio ed eosinofilo, cromatica
vescicolosa ed irregolare e nucleoli evidenti. Le mitosi
sono poche, essendo un tumore a lenta crescita,
nonostante l’elevata invasività.
Della variante epitelioide vi sono diversi tipi: papillare,
micro-papillare, microcistica/adenomatoide, ma
solitamente le cellule sono appiattite, ovoidali e non
organizzate in strutture particolari.
Talvolta il mesotelioma epitelioide può essere difficile
da distinguere dall’adenocarcinoma polmonare; le
caratteristiche che conducono alla diagnosi di
mesotelioma sono:
- Colorazione positiva per il mucopolisaccaride acido
- Mancanza di colorazione per l’antigene carcino-embrionario e per altri antigeni glicoproteici
epiteliali, generalmente espressi dai carcinomi
- Colorazione perinucleare evidente per le proteine di cheratina
- Colorazione positiva per calretinina, WT1, citocheratina 5 e 6 e D2-40
- Presenza di microvilli lunghi e tonofilamenti, ma assenza di microvilli corti e corpi lamellari alla
microscopia elettronica

La variante sarcomatoide presenta cellule fusate organizzate in fasci o con orientamento vorticoide.
La variante mista presenta una morfologia in parte epitelioide e in parte sarcomatoide, per questo è
necessario eseguire biopsie multiple.
La variante desmoplastica presenta cellule tumorali immerse in un denso tessuto collagene e separate da
cellule atipiche; entra in diagnosi differenziale con la pleurite in fase di organizzazione.

Le varianti epitelioide e sarcomatoide presentano una consistenza molle-gelatinosa, mentre la variante


desmoplastica presenta una consistenza dura.

Per differenziare il mesotelioma dai tumori polmonari si ricorre all’immunoistochimica: il mesotelioma


risulta negativo per i marker del carcinoma polmonare, come TTF-1. Marcatori specifici del mesotelioma
sono WT1, prodotto del gene del tumore di Wilms, e la calretinina. La differenziazione in senso
sarcomatoide può accompagnarsi all’espressione della proteina S100, della desmina, della vimentina, che
sono marcatori tipici dei sarcomi.

Dal punto di vista genetico si tratta di tumori complessi:


- Si ha la perdita di eterozigosi di NF2, oncosoppressore situato sul cromosoma 22
- Viene meno CDKN2A, che regola il ciclo cellulare, situato sul cromosoma 9
- In circa il 25% dei pazienti risulta mutato il gene BAP1, localizzato sul cromosoma 3: pare che
questa sia una mutazione predisponente allo sviluppo di mesotelioma maligno
- Si può avere la mutazione di SEDT2, adiacente a BAP1

244
- Possono essere implicati anche HMGB1 e SV40 (simian virus 40), che hanno un ruolo nella reazione
infiammatoria e nella predisposizione allo sviluppo della neoplasia.

La prognosi è spesso infausta: il 50% dei pazienti muore entro un anno.


Gli approcci terapeutici sono molto radicali e prevedono l’asportazione di polmone, pleura, pericardio e
parte del diaframma e servono solo a rallentare l’exitus, non risultano curativi.

245
MALATTIE E TUMORI DELLA LARINGE
Da un punto di vista funzionale e patologico la laringe può essere
suddivisa in tre porzioni:
- Regione sovra-glottica
- Regione glottica, che comprende le corde vocali
- Regione sottoglottica
Tra le patologie della laringe quelle maggiormente diagnosticate
sono quelle che interessano la glottide, dal momento che
implicano un progressivo cambio della voce, segno clinicamente
caratteristico.

NODULI REATTIVI DELLE CORDE VOCALI

I noduli reattivi delle corde vocali, detti anche polipi delle corde vocali, sono molto frequenti, soprattutto
in soggetti adulti che sottopongono queste strutture a forti sollecitazioni, come i cantanti, e in soggetti
fumatori. I noduli che insorgono in questi due gruppi di pazienti hanno caratteristiche differenti:
- Noduli da sollecitazione (noduli dei cantanti) → sono generalmente bilaterali e all’endoscopia si
presentano di colore roseo, non differente dalla mucosa circostante (immagine a sinistra)
- Noduli dei fumatori → si tratta solitamente di un nodulo singolo monolaterale, di colore biancastro
perlaceo a causa di una maggiore cheratinizzazione superficiale (immagine a destra)

Istologia

I noduli reattivi delle corde vocali presentano uno stroma mixoide,


quindi un deposito stromale di polisaccaridi acidi, rivestito da epitelio
squamoso pluristratificato.
I polipi dei cantanti presentano solitamente un epitelio privo di
displasia e atipie, anche se in alcuni casi, a causa dei ripetuti
traumatismi, si possono ritrovare aree iperplastiche rigenerative e aree
ipercheratosiche.
Il rischio di trasformazione neoplastica è maggiore nei polipi dei
fumatori, in cui si hanno evidenti aree di ipercheratosi e displasia
epiteliale, che poi evolve in carcinoma in situ.
Nell’immagine in basso a sinistra si nota l’ipercheratosi, mentre
nell’immagine in basso a destra si ha un esempio di displasia epiteliale.

246
PAPILLOMA SQUAMOSO E PAPILLOMATOSI

I papillomi squamosi sono lesioni estremamente frequenti


che si localizzano soprattutto a livello delle corde vocali; in
genere sono correlati ad HPV a basso rischio, quindi ceppi 6
e 11.
In caso di papillomi multipli, contigui, floridi e localmente
recidivanti si parla di papillomatosi laringea.
Sia il papilloma squamoso che la papillomatosi sono tumori
benigni epiteliali squamosi a crescita esofitica, con core
fibrovascolare.
In endoscopia presentano una superficie biancastra e villosa,
essendo costituiti da strutture digitiformi con asse fibro-
vascolare rivestito da epitelio squamoso con ipercheratosi.
Sia i papillomi che la papillomatosi possono colpire qualsiasi fascia d’età, senza differenze nei due sessi; la
papillomatosi è più comune nei bambini: si parla di papillomatosi laringea giovanile. Spesso le lesioni
regrediscono spontaneamente con la pubertà.
Nella papillomatosi si hanno recidive multiple e la trasformazione maligna è meno rara rispetto alla
controparte singola.
Un importante fattore prognostico è la risposta immunitaria del paziente; in seguito alla prima
presentazione papillomatosa si interviene con l’asportazione chirurgica e la vaccinazione per HPV, per
ridurre il rischio di recidive.

CARCINOMA SQUAMOSO DELLE PRIME VIA AEREO-DIGESTIVE

Il carcinoma squamoso delle prime vie aereo-digestive ha una prevalenza nel sesso maschile, con una
incidenza stimata di 7000 casi/anno nei maschi e 2200 casi/anno nelle femmine; sebbene i casi non siano
rari, dal momento che ha una incidenza minore rispetto ad altri tumori maligni, risulta trascurato dal punto
di vista della ricerca terapeutica.

I principali fattori di rischio sono:


- Fumo
- Alcol
- HPV ad alto rischio
- Fattori genetici
- Immunosoppressione

Prima di sviluppare il carcinoma si ha una displasia, ovvero


un’alterazione citologica e strutturale che sottende delle
alterazioni molecolari, che può essere classificata in displasia
di basso grado o displasia di alto grado.
La storia naturale dei carcinomi squamosi delle prime vie areo-digestive prevede infatti la sequenza:
iperplasia – displasia – carcinoma. La displasia tende ad evolvere in carcinoma in 3-10 anni.
Per queste neoplasie è molto importante la diagnosi precoce, in cui giocano un ruolo importante anche i
dentisti, perché permette di intervenire ambulatorialmente in lesioni di piccole dimensioni.

CARCINOMA SQUAMOSO DELLA LARINGE – CSL

Il carcinoma squamoso della laringe è la più comune neoplasia maligna della laringe. Si tratta di una
neoplasia maligna epiteliale con differenziazione squamosa che origina dall’epitelio di superficie.
Il 90% dei casi è associato al fumo, più rari sono i casi associati ad HPV e ancora più rari quelli senza
apparente fattore eziologico.
247
Il carcinoma può insorgere in qualsiasi sede della laringe (sopraglottica, glottica, sottoglottica,
transglottica), ma più frequentemente interessa la regione glottica e sopraglottica.
Definire la zona interessata dalla neoplasia è importante dal punto di vista prognostico e terapeutico: le
neoplasie che insorgono in sede glottica si associano ad una sintomatologia più rilevante, mentre le lesioni
della regione sopraglottica presentano una maggior tendenza alla metastatizzazione, dal momento che a
questo livello si ha una maggior densità linfatica. I carcinomi sono definiti transglottici quando interessano
più zone.
I tumori confinati all’interno della laringe sono detti intrinseci, mentre quelli che si estendono al di fuori di
essa, o insorgono al di fuori di essa, sono detti estrinseci.
Nonostante il carcinoma squamoso sia quella più frequente, in questa regione possono insorgere anche
altre neoplasie, come i sarcomi a partenza cartilaginea.

Storia naturale

Fase iniziale
Inizialmente si presenta come una lesione rilevata e biancastra, a causa dell’ipercheratosi; si differenzia dal
nodulo reattivo poiché risulta molto esteso.
I carcinomi squamosi della laringe, come tutti i carcinomi squamosi, iniziano come lesioni in situ, quindi
ancora confinate nell’epitelio, e successivamente divengono infiltranti. In caso di carcinoma squamoso
infiltrante la prognosi è buona finché la profondità di infiltrazione è inferiore a 4 mm, poiché la capacità di
metastatizzazione è ancora limitata.
Queste lesioni sono osservabili tramite TC, che permette anche di definire il grado di infiltrazione.
Dal punto di vista terapeutico queste lesioni sono in genere trattabili con chirurgia endoscopica
minimamente invasiva, che permette di conservare l’organo e garantisce ottimi risultati in termini di
sopravvivenza.

Fase avanzata
Nelle fasi avanzata il carcinoma squamoso è estremamente aggressivo e invade le strutture circostanti.
Istologicamente sono identificabili diversi gradi di differenziazione.
Importanti fattori prognostici sono:
- Profondità dell’infiltrazione
- Presenza di emboli neoplastici nei vasi ematici o linfatici, dal momento che favoriscono la
metastatizzazione
- Presenza di infiltrazione perineurale, che favorisce
la disseminazione a distanza
- Interessamento linfonodale, in particolare vanno
considerati
o Sede e numero dei linfonodi interessati
o Dimensione del linfonodo metastatico
maggiore
o Estensione extracapsulare delle metastasi, soprattutto se maggiore di 2 mm
La terapia prevede l’uso combinato di chirurgia e radioterapia; il decesso si ha
nel 30% dei casi circa.
Se il tumore non viene diagnosticato in fase precoce va incontro a crescita
ulcerativo-infiltrativa (immagina a sinistra), con
sovvertimento della struttura laringea, o a
crescita polipoide (immagine a destra); la
crescita polipoide ha una prognosi migliore, non
perché sia meno maligna, ma perché dà segni
clinici maggiori e pertanto è più facilmente
identificata.

248
MALATTIE E TUMORI DI NASO E OROFARINGE

CARCINOMA SQUAMOSO OROFARINGEO

Il carcinoma squamoso orofaringeo interessa l’orofaringe, comprendendo anche base della lingua, tonsille
palatine e adenoidi. A seconda dell’eziologia può essere classificato in HPV-correlato (CSO HPV+) e HPV-
non correlato.

CSO-HPV+

L’incidenza è in crescita nei paesi industrializzati, con una prevalenza nel sesso maschile; l’età di insorgenza
è variabile, ma si assesta intorno ai 60 anni. Solitamente è implicato HPV16, ma possono essere riscontrati
anche i ceppi 33 e 35.

Si presenta come un piccolo tumore oro-faringeo con metastasi a livello di linfonodi latero-cervicali, tanto
che in presenza di un linfonodo ingrossato, con istologia tipica del carcinoma squamoso, si esegue la ricerca
della neoplasia primitiva a livello orofaringeo.
È necessario distinguere le forme causata da HPV trascrizionalmente attivo dalle forme con positività
HPV, ma virus trascrizionalmente inattivo: queste ultime sono forme HPV-non correlate e hanno prognosi
peggiore.
Per distinguere istologicamente queste due forme si sfrutta una caratteristica
dell’attività virale: HPV, tramite le proteine E6 ed E7, blocca p53 e pRb e
bloccando pRb determina l’accumulo di p16INK4A a livello cellulare, che viene
evidenziata tramite immunoistochimica.
Inoltre, p53 non risulta mutato, come avviene invece tipicamente nei carcinomi
HPV-non correlati.
Un’altra metodica utilizzabile, ma più difficoltosa e meno riproducibile, è la
ricerca dell’mRNA di HPV tramite ibridazione in situ.
La distinzione tra queste due forme è fondamentale dal punto di vista terapeutico: le forme HPV-correlate
vengono trattate con radio- chemio- terapia e l’intervento chirurgico
non è necessario, mentre le forme HPV-non correlate vanno trattate
chirurgicamente, infatti, le forme in cui HPV è presente ma inattivo
presentano le medesime caratteristiche, in termini di aggressività e
resistenza alla radioterapia, delle forme HPV-negative.

Istologicamente il CSO-HPV+ ha aspetto basaloide con notevole infiltrato


infiammatorio.
La sopravvivenza a 5 anni è dell’80%.

CSO-HPV-

È per definizione caratterizzato da negatività per HPV-DNA o dalla presenza di HPV trascrizionalmente
inattivo. I fattori di rischio e gli aspetti clinico-patologici sono assimilabili al carcinoma squamoso del cavo
orale anteriore. Questi tumori presentano mutazione di p53 e sono pertanto molto aggressivi.

POLIPI INFIAMMATORI

Nella regione naso-faringea le lesioni più frequenti sono i polipi infiammatori, ovvero protrusioni focali
della mucosa che possono raggiungere i 3-4 cm di lunghezza, generalmente conseguenti ad attacchi di
rinite.

249
Alla base dei polipi vi può essere un’eziologia allergica, nonostante la maggior parte dei pazienti affetti non
sia atopica.
Quando sono multipli o di grandi dimensioni, i polipi possono arrivare ad ostruire le vie aeree ed impedire
lo svuotamento dei seni, pertanto è necessario asportarli. Attualmente vi sono farmaci biologici molto
efficaci, pertanto il numero di pazienti che necessitano dell’intervento chirurgico si è notevolmente ridotto.
Istologicamente la mucosa respiratoria appare edematosa e chiara, con un infiltrato infiammatorio ricco
di granulociti eosinofili (la presenza degli eosinofili non permette però di definire l’eziologia come
allergica); si possono avere anche ghiandole iperplastiche o cistiche nello stroma lasso.
In assenza di infezione batterica il rivestimento mucoso dei polipi è intatto, ma con la cronicizzazione può
ulcerarsi o infettarsi.

ANGIOFIBROMA NASOFARINGEO

L’angiofibroma nasofaringeo è una neoplasia benigna molto


vascolarizzata che compare quasi esclusivamente nei maschi
adolescenti, spesso di carnagione chiara e con i capelli rossi. Si ritiene
che insorga nello stroma fibrovascolare della parete posterolaterale
del tetto della cavità nasale.
Si presenta clinicamente con sanguinamento dal naso, pertanto è
necessario indagare a fondo le ripetute perdite ematiche dal naso.
È correlato con la poliposi adenomatosa familiare. Grazie
all’immunoistochimica è possibile rinvenire, in alcuni angiofibromi, la
traslocazione nucleare della β-catenina: ciò indica la mutazione della
β-catenina e che il paziente presenta la poliposi adenomatosa familiare. Quando il paziente presenta un
angiofibroma nasofaringeo è quindi necessario escludere la FAP tramite esame immunoistochimico.

Istologicamente sono presenti una componente fibrosa formata da fibroblasti particolari e numerosi vasi
con parete delicata e sottile, tanto che l’angiofibroma presenta emorragie al suo interno.

Il trattamento d’elezione è l’asportazione chirurgica, ma il tasso di recidiva arriva al 20% dal momento che
la lesione risulta localmente aggressiva e può estendersi intracranicamente.
La prognosi di questa neoplasia è buona, ma nel 9% dei casi risulta fatale; il decesso è legato all’emorragia
e all’estensione intracranica.

PAPILLOMA NASO-SINUSALE

PAPILLOMA NASO-SINUSALE INVERTITO

È una neoplasia benigna che origina dalla mucosa respiratoria o schenideriana che riveste la cavità nasale
e i seni paranasali; è detto anche papilloma Scheneideriano. Si tratta di una neoplasia benigna di
derivazione ectodermica in cui si ha una crescita non destruente, ma invertita all’interno dello stroma.
250
La definizione “papilloma invertito” è dovuta al fatto che le
masse di epitelio squamoso crescono verso l’interno: la
neoplasia cresce endofiticamente, erodendo la base cranica.
È solitamente localizzato nelle pareti laterali della cavità
nasale o nei seni paranasali, come il seno mascellare e il seno
etmoidale, ed è caratterizzato da numerose e grosse
invaginazioni dell’epitelio di superficie all’interno dello stroma.
A livello istologico non si hanno grosse atipie: l’epitelio
squamoso è immaturo, ovvero non cheratinizzato, e possono
essere presenti anche epitelio ciliato e rare cellule mucose.
È una lesione che interessa soprattutto i maschi tra i 50 e i 70 anni ed è spesso associata ad HPV, sia alle
forme a basso rischio, come i ceppi 6 e 11, che alle forme ad alto rischio, come il ceppo 16; la si può trovare
anche in soggetti esposti a solventi per motivi lavorativi.
La prognosi è buona, anche nel 12-16% dei casi si hanno recidive; le recidive dipendono dalla sede, dalle
dimensioni e dalla possibilità di fare un intervento radicale. La trasformazione maligna si ha nel 2-4% dei
casi e si pensa sia legata o a ceppi cancerogeni di HPV o a carcinogeni esogeni, come il fumo o altri inalanti.

PAPILLOMA NASO-SINUSALE ONCOCITICO

È una neoplasia epiteliale, quindi di derivazione ectodermica,


molto simile al papilloma naso-sinusale invertito, da cui si
distingue per la presenza di epitelio colonnare con
modificazioni oncocitiche. Gli oncociti sono cellule ricche di
mitocondri e le modificazioni oncocitarie possono interessa
tutti gli organi.
Il papilloma oncocitico non è HVP correlato e in genere è
benigno, ma può recidivare e andare incontro a
trasformazione maligna.

PAPILLOMA NASO-SINUSALE ESOFITICO

È un papilloma costituito da fronde che presentano un asse fibro-vascolare


rivestito da epitelio squamoso maturo e risulta associato ai ceppi 6 e 11 di HPV.
Ha una buona prognosi, ma si possono avere recidive locali, se non è asportato
completamente. La trasformazione maligna è rara, ma possibile.

NEOPLASIE MALIGNE DELLA REGIONE NASO-SINUSALE

Si distinguono:
- Neoplasie esclusive della regione naso-sinusale
- Neoplasie del distretto testa-collo che prediligono la regione naso-
sinusale
- Neoplasie che possono insorgere in vari distretti, compresa la regione naso-sinusale
A livello del naso vi sono diversi tessuti (tessuto osseo, cartilaginea, mucose) e pertanto possono insorgere
diversi istotipi di tumori; inoltre, nella mucosa naso-sinusale sono presenti diversi tipi cellulari che possono
potenzialmente dar vita a neoplasie, come le cellule respiratorie, le cellule muco-secernenti, le cellule delle
ghiandole salivari.

Per quanto riguarda i carcinomi del distretto naso-sinusale si distinguono i carcinomi con differenziazione
squamosa, i carcinomi con differenziazione neuroendocrina, i carcinomi con differenziazione ghiandolare e
quelli indifferenziati. La categoria dei carcinomi indifferenziati è sempre meno copiosa, poiché si stanno

251
identificando specifici istotipi molecolari, che oltre a permettere di etichettare i carcinomi indifferenziati
rappresentano anche un importante target terapeutico.

CARCINOMI CON DIFFERENZIAZIONE SQUAMOSA

I carcinomi con differenziazione squamosa possono essere


ulteriormente distinti in forme cheratinizzanti e forme non
cheratinizzanti.

Carcinoma squamoso cheratinizzante

Si tratta di un carcinoma derivante dall’epitelio superficiale ed


evidenza di differenziazione squamosa e produzione di cheratina, che si esplica con la presenza di perle
cornee.
Sono possibili diverse varianti: papillare, verrucoso, acantolitico, adenosquamoso, cuniculato e a cellule
fusate.
Interessa soprattutto i maschi con più di 50 anni ed insorgere solitamente a livello di vestibolo nasale,
determinando una sintomatologia ostruttiva nasale e, viste le dimensioni abnormi, un impatto estetico
non indifferente.
Fattori di rischio per lo sviluppo della lesione sono l’esposizione al fumo e a cangerogeni lavorativi.
Può originarsi anche per trasformazione maligna da un papilloma invertito revidivante e può esserci una
associazione con ceppi di HPV ad alto rischio.
Le mutazioni più frequenti sono p53, EGFR, MSI (instabilità dei microsatelliti) PTEN e CDKN2A.
La prognosi dipende dallo stadio e dalla sede di presentazione e generalmente è migliore nelle forme del
vestibolo nasale, dal momento che si riesce a fare una diagnosi precoce e un intervento radicale. La
sopravvivenza a 5 anni è del 50-60%.

Carcinoma squamoso non cheratinizzante

Ha degli aspetti correlati alla differenziazione


squamosa, ma non presenta cheratinizzazione.
Colpisce i maschi di 50-70 anni e si manifesta in
primis a livello di orofaringe, poi dei seni paranasali
e della cavità nasale, dove può determinare una
ostruzione.
Può essere correlato ad HPV: quando tale
correlazione è presente rappresenta un aspetto
positivo, infatti, le forme HPV-correlate sono meno aggressive di quelle HPV-non correlate e rispondono

252
meglio ai trattamenti chemioterapici. Nei casi HPV-non correlati sembrano implicati il fumo e la
trasformazione malinga da papilloma invertito recidivante.
Istologicamente le cellule presentano una crescita a nastro e hanno una scarsa maturazione, quindi non
producono cheratina; sono presenti aree di necrosi e infiltrato linfocitario.
Le forme HPV-correlate presentano p16 iper-espressa e p53 non espressa, mentre le forme HPV-non
correlate presentano p53 iper-espressa e p16 poco espressa.
Le forme HPV-non correlate presentano il
riarrangiamento tra il gene DEK, collocato sul
cromosoma 6, e il gene AFF2, presente sul
cromosoma X; queste forme sono dette forme DEK-
AFF2 e presentano una citoarchitettura
prevalentemente papillare.

Carcinoma linfoepiteliale – LEC

Rientrare tra le forme di caricinoma squamoso,


somiglia ad un linfoma ed è strettamente associato
all’infezione da virus di Epstein-Barr, EBV. È presente
soprattutto nei maschi a livello nasale e dei seni
paranasali ma può interessare anche l’orofaringe.
A causa dell’importante infiltrato linfocitico a livello
istologico prevale la colorazione blu scuro; grazie
all’immunoistochimica si possono evidenziare le
cellule tumorali, che presentano citocheratine ad
alto peso molecolare. Inoltre, grazie all’ibridazione in
situ, si può evidenziare il DNA virale.
Può dare metastasi a livello latero-cervicale,
raramente a distanza, e presenta un’ottima risposta
alla radio- chemio- terapia, pertanto non richiede l’intervento chirurgico. Recentemente si è osservato che
la radioterapia determina la scorsa del tumore principale, ma al tempo stesso insorgono altre neoplasie
nella regione irradiata.

Carcinoma NUT

Si tratta di un carcinoma squamoso caratterizzato dal riarrangiamento del gene NUT, Nuclear Protein
Testis, che sintetizza per la proteina di fusione NUT-BRD4. NUT è un regolatore della cromatina e BRD4 è
una porzione di proteina che legge la cromatina.
L’eziologia è ignota; si tratta di una forma estremamente aggressiva che può interessare qualsiasi regione
del distretto testa collo, con una prevalenza nella regione naso-sinusale, e presenta un picco di incidenza in
soggetti di 20 anni. La crescita è estremamente rapida e la sopravvivenza media è di 1 anno.
Istologicamente si osserva la cheratinizzazione ed è
importante, per la diagnosi, mettere in evidenza la
presenza della proteina di fusione NUT-BRD4, grazie
all’immunoistochimica.

253
CARCINOMI CON DIFFERENZIAZIONE GHIANDOLARE

Oltre ai carcinomi che originano dalle ghiandole salivari si hanno anche gli adenocarcinomi tipici della
regione naso-sinusale, che si classificano in adenocarcinomi di tipo intestinale e adenocarcinomi di tipo
non-intestinale.

Adenocarcinoma di tipo intestinale – ITAC

Dal punto di vista morfologico, immunoistochimico e


molecolare è indistinguibile dall’adenocarcinoma
dell’intestino. Generalmente è associato all’esposizione a
cancerogeni, come polveri di legno e collanti usati nelle
fabbriche di calzature; questa forma associata a
cancerogeni esterni colpisce prevalentemente gli uomini,
per motivi lavorativi, ed è estremamente aggressiva: la
sopravvivenza a 5 anni è del 50%.
Vi è anche un’altra forma, impropriamente definita
sporadica, che colpisce soprattutto le donne che lavorano
in forni e pasticcerie; in questo caso la sopravvivenza a 5
anni è del 20-40%.
La forma più aggressiva è la variante mucoide.
Ovviamente, la presenza di budding tumorale, quindi di piccoli nidi di cellule neoplastiche che infiltrano i
tessuti limitrofi, è indicativa di una neoplasia aggressiva.
Prognosi peggiore si ha negli adenocarcinomi con mutazione di p53 (50% dei casi), poiché risultano
resistenti ai trattamenti chemioterapici.

Adenocarcinomi di tipo non-intestinale – non-ITAC

Gli adenocarcinomi di tipo non-intestinale rappresentano un gruppo eterogeno di adenocarcinomi e


vengono classificati in:
- Forme a basso grado, ad eziologia ignota
- Forme ad alto grado, rare e associate ad HPV ad alto rischio

CARCINOMI INDIFFERENZIATI

Carcinoma indifferenziato naso-sinusale – SNUC

È un carcinoma privo di qualsiasi caratteristica specifica; rappresenta


il 3-5% dei carcinomi della regione naso-sinusale ed interessa
soprattutto i maschi caucasici, sia adolescenti che anziani. Può
svilupparsi anche all’apice dell’orbita, a livello del basicranio e
dell’endocranio.
Istologicamente risulta poco differenziato e negativo per tutti i
marcatori neuroendocrini; recentemente si è identificata la
mutazione di IDH2, che può essere anche un target terapeutico.
È una neoplasia aggressiva a rapida crescita e la sopravvivenza a 10
anni è del 30%.

Carcinomi naso-sinusali con mutazioni del complesso SWI/SNF

Rappresentano un sottogruppo dei carcinomi indifferenziati, identificabile tramite immunoistochimica.


Sono molto aggressivi e sono suddivisibili in due gruppi:

254
- Tumori che presentano mutazione di SMARCB1
- Tumori che presentano mutazione di SMARCA4

CARCINOMI CON DIFFERENZIAZIONE NEUROENDOCRINA – Dispensa

Sono identici ai carcinomi neuroendocrini del polmone: si tratta di carcinomi di alto grado con aspetti
istologici ed immunoistochimici di differenziazione neuroendocrina. Si distinguono due varianti: a grandi
cellule e a piccole cellule. L’eziologia è ignota, ma probabilmente associata ad HPV e radiazioni, e il picco di
incidenza si ha intorno ai 50 anni.

Nella mucosa nasale può insorgere anche il neuroblastoma olfattorio, simile ai neuroblastomi localizzati in
altre sedi. I neuroblastomi olfattori originano dalle cellule olfattive neuroectodermiche presenti nella
mucosa ed entrano in diagnosi differenziano con il carcinoma neuroendocrino.
L’incidenza del neuroblastoma olfattivo presenta due picchi: uno a 15 anni e uno a 50 anni.
I neuroblastomi olfattivi sono in genere composti di nidi e lobuli di cellule ben delimitate, separate da uno
stroma fibrovascolare. Molti tumori contengono inoltre una matrice fibrillare corrispondente, a livello
ultrastrutturale, ad ammassi di processi neuronali.

255
PATOLOGIE NEOPLASTICHE DELLE GHIANDOLE SALIVARI
Vi sono tre ghiandole salivari principali, parotide, sottomandibolare e sottolinguale, e numerose ghiandole
salivari minori distribuite in tutta la mucosa del cavo orale. In tutte queste ghiandole possono insorgere
malattie infiammatorie o neoplastiche.
L’unità fondamentale della ghiandola salivare è
l’acino, costituito da cellule epiteliali, produttrici
di salive, che poggiano su cellule mioepiteliali,
che servono a spremere le cellule epiteliali.
All’acino segue il dotto intercalato, costituito da
cellule epiteliali non secernenti e cellule basali,
che rigenerano tutti i tipi cellulari dell’intera
ghiandola. Il dotto intercalato si continua nel
dotto striato, che contiene cellule ricche di
mitocondri deputate alla secrezione ionica
attiva, e infine si ha il dotto escretore, in cui
l’epitelio diviene pluristratificato e va a fondersi
con l’epitelio della cavità orale.

I tumori delle ghiandole somigliano spesso ad un tipo cellulare specifico della struttura ghiandolare e
possono essere classificati in:
- Benigni
- Benigni a possibile evoluzione maligna
- Maligni di basso grado
- Maligni di alto grado
Nonostante la morfologia sia abbastanza semplice, le ghiandole salivari danno vita a non meno di 30
neoplasie istologicamente distinte.
Complessivamente le neoplasie delle ghiandole salivari sono relativamente rare e rappresentano meno del
2% di tutti i tumori dell’uomo; circa il 65-80% interessa la parotide, il 10% la ghiandola sottomandibolare e
la restante parte le ghiandole salivari minori, compre le ghiandole sub-linguali.
Approssimativamente la probabilità che la neoplasia sia maligna è del 15-30% per la parotide, 40% per la
sottomandibolare e 70-90% per le sub-linguali; la probabilità che un tumore di una ghiandola salivare sia
maligno è quindi inversamente proporzionale alle dimensioni della ghiandola interessata.
Questi tumori interessano solitamente i soggetti adulti, con una prevalenza nel sesso femminile, ma il 5%
circa compare in soggetti con meno di 16 anni. I tumori benigni insorgono tipicamente tra il quinto e il
settimo decennio di vita, mentre i tumori maligni tendono a insorgere più tardivamente. I tumori maligni
giungono all’osservazione medica più precocemente rispetto a quelli benigni, probabilmente a causa della
crescita più rapida.

NEOPLASIE BENIGNE DELLE GHIANDOLE SALIVARI

TUMORE DI WARTHIN O ADENOLINFOMA

È un tumore benigno delle ghiandole salivari composto da cellule epiteliali oncocitarie che rivestono
strutture duttali, papillari e cistiche, localizzate in uno stroma linfoide. Si tratta della degenerazione dei
residui ghiandolari interni ai linfonodi intra- o peri- parotidei.
È un tumore frequente è pressoché esclusivo della parotide (da ricordare!): questa sua esclusività è
importante per evitare diagnosi errate di tumori di Warthin in altre sedi, come nella ghiandola
sottomandibolare, onde evitare di sottovalutare tumori in realtà aggressivi. Eventualmente, può localizzarsi
nei linfonodi peri-parotidei. Colpisce soggetti di età avanzata, tra i 50 e i 70 anni, senza differenze tra i due
sessi. Può crescere rapidamente e la componente cistica può andare incontro a rottura, determinando una
reazione infiammatoria.
256
Fattori predisponenti:
- Fumo, tanto che si registra una incidenza 8 volte maggiore nei fumatori, nonostante il meccanismo
alla base non sia noto
- Esposizione a radiazioni, infatti, si ha una elevata incidenza nei soggetti sopravvissuti a bombe
atomiche
- Malattie autoimmuni

Clinica

Si presenta come un nodulo mobile e tendenzialmente non dolente, a meno che si abbia la rottura della
componente cistica e la conseguente reazione flogistica dolorosa.
Può crescere rapidamente, grazie alla componente cistica che si riempie di liquido, e può arrivare a
comprimere il nervo facciale, che decorre nello spessore della parotide.
Può essere presente anche in forma multipla (12-20% dei casi), con crescita che può essere sia sincrona che
asincrona, e/o bilaterale (5-17% dei casi), nel momento in cui i residui ghiandolari interessino multipli
linfonodi intraparotidei. Tali residui ghiandolari, stimolati da fattori esogeni, come fumo e radiazioni,
possono infatti andare incontro a proliferazione fino allo sviluppo del tumore di Warthin.
Il tumore è specifico della parotide poiché solitamente solo questa ghiandola contiene residui ghiandolari
ectopici all’interno dei linfonodi.
Vista la natura multifocale, nel momento in cui si identica un altro tumore in un paziente già sottoposto ad
intervento non è da considerarsi una recidiva; al momento della diagnosi è importante avvisare il paziente
che in futuro potrebbe presentare altri adenolinfomi di Warthin.

Istologia

Dal punto di vista istologico il tumore di Warthin è costituito da un linfonodo capsulato, presente nella
parotide o intorno ad essa, all’interno del quale sono presenti strutture ghiandolari; la neoplasia deriva
proprio dalla mutazione dell’epitelio ghiandolare presente
all’interno del linfonodo.
Il tumore ha margini netti, dati dalla capsula vera del
linfonodo pre-esistente (immagine a lato); questa capsula vera
differisce dalla pseudo-capsula che si sviluppa come tessuto
reattivo di contenimento del tumore, presente in altre
neoplasie, come l’adenoma pleomorfo.
Le strutture ghiandolari risultano morfologicamente variegate,
di dimensioni variabili, e ricalcano il dotto striato: presentano
due strati di epitelio, uno basale e uno con cellule epiteliali rosa
e striate. L’epitelio è costituito da cellule ossifile, ricche di
mitocondri; le cellule basali sono evidenziabili tramite immunoistochimica di p53.

Talvolta, oltre alla componente ghiandolare (aree solide) è presente anche una componente cistica (aree
liquide) ripiena di materiale mucoide.
257
Gli spazi cistici sono ricoperti da cellule epiteliali neoplastiche
che formano un duplice strato e poggiano su un denso
stroma linfoide, che talvolta presenta centri germinativi. Gli
spazi cistici sono spesso ristretti da proiezioni polipoidi degli
elementi linfoepiteliali.
Il doppio strato di cellule epiteliali è costituito da:
- Strato superiore di cellule colonnari disposte a
palizzata, con abbondante citoplasma eosinofilo
finemente granulare, a causa della presenza di
numerosi mitocondri, che caratterizza gli elementi
cellulari definiti oncociti.
- Strato inferiore di cellule cuiboidali o poligonali
Nello strato colonnare sono disperse cellule secretorie. Talvolta possono essere presenti focolai si
metaplasia squamosa.

Citologia

La diagnosi pre-operatoria può essere eseguita anche tramite agoaspirato,


che permette di osservare il caratteristico quadro citologico: muco,
linfociti, macrofagi sparsi e agglomerati di epitelio ossifilo.

Prognosi

La prognosi è ottima, dal momento che si tratta di un tumore benigno.


Trattandosi di una neoplasia a lenta crescita, la gestione dipende dall’età del paziente: in un paziente
anziano il tumore può essere lasciato in situ, mentre in un paziente giovane si procede con l’intervento dal
momento che la neoplasia può raggiungere dimensioni ragguardevoli nel corso degli anni, cosa che
complicherebbe la successiva asportazione.

Trasformazione maligna

La trasformazione maligna si verifica nell’1% dei casi e può essere a carico sia della componente epiteliale
che di quella linfoide.
La trasformazione carcinomatosa può esitare in: carcinoma oncocitario, carcinoma mucoepidermoide,
adenocarcinoma, carcinoma squamoso, carcinoma poco differenziato, carcinoma a cellule di Merkel.
Se la trasformazione maligna avviene in senso linfoide si ottengono linfomi non-Hodgkin.
Dal momento che si tratta di un linfonodo, prima della programmazione dell’intervento, è sempre
necessario escludere che la lesione sia una metastasi proveniente da un tumore maligno.

ADENOMA PLEOMORFO (frequente domanda d’esame)

L’adenoma pleomorfo è il tumore più frequente delle ghiandole salivari, ma non è di semplice diagnosi dal
momento che, come si evince dal nome, può presentarsi in diverse forme.
Si tratta di un tumore benigno epiteliale caratterizzato
da ampia variabilità cito-architetturale, composto da
una commistione di cellule duttali e mioepiteliali,
generalmente immerso in uno stroma condromixoide o
fibroso. Si parla anche di tumore misto benigno.
L’adenoma pleomorfo entra in realtà a far parte di un
ampio gruppo di tumori benigni delle ghiandole salivari,
che insieme costituiscono lo spettro dell’adenoma
pleomorfo. Le diverse neoplasie possono essere

258
composte da un unico tipo cellulare, tra cellule duttali, canicolari, mioepiteliali e basali, o da un misto di
questi tipi cellulari, ma sono accomunate da presentazione e comportamento biologico simili.

L’adenoma pleomorfo rappresenta il 60% delle neoplasie delle ghiandole salivari, ma si tratta di un
tumore relativamente raro, con una incidenza di 4-5 casi/100.000 abitanti/anno.
Generalmente si presenta singolo, più raramente è multiplo o bilaterale; può raramente associarsi ad altre
neoplasie delle ghiandole salivari, come il tumore di Warthin e il carcinoma mucoepidermoide.
Può insorgere in qualsiasi fascia d’età, ma presenta un picco di incidenza tra la quinta e la sesta decade di
vita, con una prevalenza nel sesso femminile.

Localizzazione

Le ghiandole più frequentemente coinvolte sono:


- Parotide: è quella maggiorente interessata (80% dei casi nel lobo superficiale)
- Sottomandibolare
- Ghiandole salivari minori intraorali, soprattutto quelle del palato
- Labbro
Più raramente può localizzarsi anche a livello di ghiandole lacrimali, ghiandola mammaria, sedi ectopiche
del collo e tessuto osseo.
In realtà, seppur raramente, tutti i tumori delle ghiandole salivari possono insorgere in sede intraossea,
anche in assenza del tumore primitivo. Per definire un tumore intraosseo delle ghiandole salivari si ricorre
ai criteri di Batsakis:
- Evidenza radiologica di danno osseo, con lesione radiotrasparente, ma corticale intatta
- Non evidenza di tumore primitivo alla ghiandola salivare
- Mucosa soprastante intatta
- Conferma istologica

Alterazioni molecolari

Quasi sempre l’adenoma pleomorfo è caratterizzato tra traslocazioni o riarrangiamenti intra-cromosomiali


che determinano la fusione genica tra PLAG1 e HMGA2; tuttavia, la ricerca di tali fusioni geniche non è
necessaria a fini diagnostici.
Il gene PLAG1 codifica per un fattore di trascrizione che in presenza di queste fusioni risulta iper-espresso e
determina una iper-espressione di geni coinvolti nella proliferazione cellulare e nelle vie di segnalazione dei
fattori di crescita.

Clinica

Parotide
La presentazione più frequente dell’adenoma pleomorfo è un nodulo a superficie
plurilobulata in regione parotidea, mobile rispetto ai piani sottostanti. Quando il
nodulo è in sede superficiale diviene rapidamente evidente, mentre se è localizzato
in profondità risulta meno evidente e il primo sintomo clinico potrebbe essere
dovuto alla compressione della faringe, quando la massa ha già raggiunto i 10 cm; in
altri casi si possono avere sintomi da compressione del nervo facciale.

Palato
In questo caso il nodulo non è mobile, dal momento che mucosa e sottomucosa
sono adese all’osso a questo livello.

Labbro
Si presenta come un piccolo nodulo mobile.

259
Il tumore non è maligno, ma può raggiungere dimensioni abnormi. Avendo una lenta crescita, se
diagnosticato in un paziente anziano con aspettativa di vita limitata, può essere lasciato in sede, mentre se
viene individuato in paziente giovane deve essere asportato.
Si procede asportando la massa con la sua pseudo-capsula, ma talvolta è difficile rimuovere tutto il
tumore con tutte le sue protuberanze, pertanto possono rimanere in situ alcuni nidi di cellule che possono
portare a recidive, anche multiple, negli anni a venire.

Morfologia

Macroscopicamente appare come un nodulo rotondeggiante o ovoidale con un


caratteristico aspetto bozzoluto. Appare come un tessuto biancastro, di
consistenza dura, con aree di necrosi o aree emorragiche, soprattutto se è stato
sottoposto ad agoaspirato.

Istologicamente risulta separato dalla ghiandola, con


margini netti e regolari.
È rivestito da una pseudo-capsula, talvolta incompleta, che
gli conferisce la mobilità rispetto ai piani circostanti. Tale
pseudo-capsula si sviluppa come reazione fibrosa del
tessuto adiacente: tutti i tumori che crescono lentamente,
quindi i tumori benigni o i tumori maligni a basso grado,
evocano una reazione di contenimento da parte dei tessuti
circostanti.
In alcuni casi, soprattutto in tumori più aggressivi come
l’adenoma pleomorfo condromixoide, il tumore riesce a
spezzare la struttura della pseudocapsula.

L’aspetto istologico è complesso dal momento che possono essere coinvolti diversi tipi cellulari, epiteliali e
mioepiteliali, con forme e rapporti variabili. Si possono quindi avere diversi aspetti istologici, come
l’adenoma pleomorfo cellulato o l’adenoma pleomorfo con metaplasia ossea o cartilaginea.
L’unica variante che presenta un diverso impatto prognostico è l’adenoma pleomorfo mixoide,
caratterizzato dalla presenza di un accumulo di mucine stromali prodotte dalle cellule epiteliali.
L’adenoma pleomorfo mixoide presenta una pseudo-capsula minima o assente e una consistenza
gelatinosa che rende difficile la rimozione chirurgica e aumenta il rischio di disseminazione e recidive.

260
Diagnosi e prognosi

La diagnosi è difficoltosa a causa del pleomorfismo, soprattutto su agoaspirato e piccole biopsie, pertanto è
necessaria la correlazione con dati clinici e radiologici. La diagnosi differenziale è con neoplasie a basso
grado di malignità.
La prognosi è buona dopo l’asportazione chirurgica. In genere le masse di 1-1,5 cm vengono operate
tramite enucleoresezione, che consiste nella asportazione del nodulo con una sottile rima di tessuto
circostante. Visto il rischio di recidive dopo l’intervento si esegue un follow-up clinico-radiologico con
ecografia.

Adenoma pleomorfo metastatizzante

È una variante dell’adenoma pleomorfo, benigna e senza atipie, istologicamente e molecolarmente


sovrapponibile al tumore primitivo, in grado di dare metastasi a distanza. Non ci sono aspetti istologici o
molecolari in grado di predire la metastatizzazione, che è probabilmente dovuta ad invasione vascolare da
parte di emboli dell’adenoma pleomorfo. I casi di adenoma pleomorfo metastatizzante sono più spesso
forme mixoidi.
Nonostante il comportamento biologico, questo tumore viene classificato come benigno, piuttosto che
come tumore a basso grado di malignità, e ciò è legato all’ottima prognosi e al fatto che non presenti
aspetti istologici di malignità o atipie cellulari.
I casi più a rischio di metastatizzazione sono gli adenomi profondi, che rimangono in sede per lungo tempo;
infatti, l’intervallo medio tra neoplasia primitiva e insorgenza di metastasi è di circa 15 anni.
La prognosi dei pazienti con adenoma pleomorfo metastatizzante con sopravvivenza dell’80% a 16 anni, si
tratta dunque si una prognosi buona, ma con una percentuale di decessi che può essere evitata se la
neoplasia viene diagnosticata precocemente.

Carcinoma ex adenoma pleomorfo

Le cellule epiteliali e mioepiteliali che costituiscono l’adenoma pleomorfo possono andare incontro a
trasformazione maligna, portando allo sviluppo di un carcinoma; questa evenienza caratterizza il 12% dei
carcinomi delle ghiandole salivari e può svilupparsi sia un adenoma pleomorfo non trattato per anni sia in
uno recidivato.
La componente carcinomatosa può essere epiteliale pura o mista epiteliale-mioepiteliale.
La trasformazione maligna si verifica tipicamente in pazienti anziani, intorno ai 60 anni, ed è rarissima nei
pazienti con meno di 30 anni.
Parametri prognostici:
- Tipo e grado di carcinoma: generalmente prevalgono le forme di carcinoma aggressivo, che
metastatizzano rapidamente (carcinoma duttale, mioepiteliale ed epi-mioepiteliale)
- Estensione intra- o extra- capsulare: se la componente maligna è intra-capsulare la prognosi dopo
asportazione chirurgica è buona, mentre se c’è una minima invasione della capsula la prognosi è
considerata buona entro i 6 mm di estensione extra-capsulare. Spesso però si hanno carcinomi
diffusamente invasivi, che talvolta non sono più operabili.
Se presente una estensione extra-capsulare ne vanno valutate le dimensioni.
La prognosi dei carcinomi diffusamente invasivi dipende da:
o Istotipo e grado istologico
o Presenza o assenza di invasione perineurale e/o linfo-vascolare
o Estensione locale
o Presenza o assenza di metastasi linfonodali
o Espressione di specifici target terapeutici: alcuni tumori delle ghiandole salivari iper-
esprimono il recettore degli androgeni o HER2
L’adenoma pleomorfo deve quindi essere asportato perché può aumentare di dimensioni, evolvere in
adenoma pleomorfo metastatizzante o andare incontro a trasformazione maligna.

261
NEOPLASIE MALIGNE DELLE GHIANDOLE SALIVARI

Le neoplasie maligne si presentano più frequentemente a livello delle ghiandole salivari minori, infatti, si
ha una relazione di proporzionalità inversa tra la grandezza della ghiandola e la prevalenza di lesioni
maligne rispetto alle lesioni benigne: questo rapporto è pari circa al 50% delle ghiandole salivari minori
intra-orali e si riduce nelle ghiandole salivari di dimensioni maggiori.
La diagnosi differenziale con la controparte benigna è difficoltosa, soprattutto se la lesione precoce è
esaminata tramite ecografia e/o tecniche radiografiche, per questo è necessario eseguire almeno un
agoaspirato, meglio se si procede con biopsia.

CARCINOMA MUCOEPIDERMOIDE – MEC

È una neoplasia maligna delle ghiandole salivari formata da cellule mucoidi, produttrici di muco, e da
cellule epidermoidi, differenziate in senso squamoso, ma non al punto da formare perle cornee; queste
cellule si organizzano a formare strutture cistiche e/o solide.
Si tratta della più frequente neoplasia delle ghiandole salivari e colpisce maggiormente il sesso femminile,
con un picco di incidenza intorno ai 45 anni, sebbene possa interessare tutte le fasce d’età, compresa
quella pediatrica (è la prima causa di cisti della parotide in bambini sotto i 10 anni). Una maggior incidenza
si osserva nella popolazione esposta a radiazioni della regione testa-collo.
Può colpire sia le ghiandole salivari maggiori, in particolare parotide e sottomandibolare, sia le salivari
minori intraorali, principalmente quelle del palato, ma può presentarsi anche in forme intra-ossee
primitive.

Alterazioni molecolari

Spesso si associa a riarrangiamenti del gene MAML2, situato sul braccio lungo del cromosoma 11, con il
gene CRTC1, presente sul braccio corto del cromosoma 19, o più raramente con il gene CRTC3, situato sul
braccio lungo del cromosoma 15.

Clinica

In base al grado è possibile distinguere due forme di presentazione clinica del carcinoma
mucoepidermoide: forme a basso grado di malignità e forme ad alto grado di malignità.

Forme a basso grado di malignità


Hanno spesso aspetto cistico e crescita lenta, pertanto entrano in diagnosi differenziale con neoplasie
benigne. Colpiscono spesso pazienti giovani, anche in età pediatrica, quindi è necessario instaurare una
terapia tempestiva e corretta: un intervento tempestivo, quando il tumore è ancora localizzato, permette di
ottenere una buona prognosi, con una sopravvivenza a 5 anni del 90-95%.

Forme ad alto grado di malignità


Interessano soprattutto i pazienti anziani e si presentano come masse solide, fisse rispetto ai piani
circostanti e a rapida crescita, pertanto sono facilmente riconoscibili. Possono portare a paralisi del nervo
facciale. In questi casi la prognosi è infausta, infatti, nonostante l’intervento chirurgico le recidive sono
frequenti (25%) e la sopravvivenza a 5 anni è del 50-56%.

Istologia

Il carcinoma mucoepidermoide è costituito da diversi tipi cellulari, presenti in diversa percentuale in ogni
tumore:
- Cellule basaloidi
- Cellule intermedie

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- Cellule epidermoidi
- Cellule colonnari
- Cellule mucipare
Le cellule epidermoidi somigliano alle cellule squamose, ma non danno vita a perla cornee.
Il MEC può simulare una lesione benigna dal momento che spesso presenta margini netti ed è circondato
da tessuto linfoide con linfociti e centri germinativi. In alcuni casi si possono avere margini bitorzoluti, che
all’ecografia fanno pensare erroneamente ad un adenoma pleomorfo.

CARCINOMA ACINICO

È una neoplasia maligna epiteliale che deriva da cellule acinari a differenziazione sierosa.
Colpisce ghiandole salivari con componente sierosa, quindi parotide (sierosa pura), sottomandibolare
(prevalentemente sierosa) e sottolinguale (50% sierosa e 50% mucosa). Essendo le ghiandole salivari minori
mucose pure, risultano indenni dalla trasformazione carcinomatosa in senso acinico.
Il carcinoma acinico rappresenta il 2-5% dei carcinomi delle ghiandole salivari ed interessa soprattutto il
sesso femminile, con un picco di incidenza intorno ai 50 anni, anche se può manifestarsi dai 3 ai 91 anni.
In età pediatrica è il secondo tumore salivare più frequente ed interessa soprattutto i bambini trattati per
neoplasie ematologiche (non è chiaro se ciò sia dovuto al trattamento o al fatto che questi bambini sono
predisposti all’insorgenza di neoplasie).

Alterazioni molecolari

È spesso associato ad una traslocazione tra il cromosoma 4 il cromosoma 9 che determina l’iper-
espressione del gene NR4A3.

Clinica

Cresce lentamente e tipicamente passano anni prima che dia segno di sé, dal momento che è un tumore a
basso grado di malignità. Questo lungo tempo di sviluppo dà però tempo al tumore di sviluppare
metastasi, in media dopo 5 anni. Se infiltra i nervi si associa a sintomatologia dolorosa.

Istologia

La lenta crescita permette la formazione di una pseudo-capsula per reazione, che lo rende mobile lungo i
piani circostanti. La presenza della pseudo-capsula può creare confusione con l’adenoma pleomorfo
all’esame ecografico.
La pseudo-capsula può essere circondata da un infiltrato linfocitario flogistico cronico.
È possibile che il tumore superi la pseudo-capsula e dia vita a noduli neoplastici nel tessuto circostante. Il
fatto che il tumore superi la pseudo-capsula dà la certezza della presenza di metastasi a distanza, seppur
occulte.

263
Istologicamente si ha la differenziazione in senso sieroso e la
presenza di setti di separazione, che permettono la diagnosi
differenziale con il tessuto sano, che non è sempre immediata.
Nell’immagine a lato si osserva sulla sinistra tessuto sano e sulla
destra tessuto neoplastico, che forma una massa uniforme senza
strutture ben delineate.
Può assumere aspetti architetturali diversi: solido, microcistico,
papillare-cistico, follicolare.

Prognosi

La prognosi è generalmente buona, ma vi è il 30% di probabilità di recidiva, il 13% di metastasi a distanza


(anche dopo 20-30 anni dalla diagnosi) e il 13% di exitus. La prognosi migliora nettamente con un
intervento tempestivo, che permette anche un approccio meno demolitivo.
Fattori prognostici: grading, stadio clinico, trasformazione di alto grado, Ki67 (cut-off del 5%) e presenza di
infiltrato linfoide intenso.

CARCINOMA SECRETORIO

È una neoplasia maligna, un carcinoma monofasico, caratterizzato da cellule con citoplasma abbondante
contenenti un secreto denso ed aggregate in strutture microcistiche, tubulari o solide. Rappresenta il
corrispettivo del carcinoma acinico nelle ghiandole salivari minori ed è detto anche carcinoma simile al
carcinoma mammario secretorio, MASC.
Si tratta di un tumore maligno a basso grado e l’intervento chirurgico radicale può essere curativo.
Può localizzarsi sia a livello di ghiandole salivari maggiori che a livello di ghiandole salivari minori.

Alterazioni molecolari

Spesso si associa al riarrangiamento del gene ETV6 con NRTK3 o al riarrangiamento di ETV6 con RET e la
proteina mutata che ne deriva è un target terapeutico.

Istologia

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Prognosi

L’intervento precoce è importante per garantire una buona prognosi. Le recidive si hanno nel 15% dei casi,
le metastasi linfonodali nel 25% dei casi e le metastasi a distanza nel 5%; il decesso è rarissimo.

CARCINOMA ADENOIDOCISTICO

È una neoplasia ad alto grado di malignità; si tratta di un carcinoma infiltrante composto da cellule
epiteliali e mioepiteliali, organizzate in configurazioni morfologiche variabili, che comprendono pattern
di crescita tubulare, cribriforme e solido. Istologicamente riprende la forma del dotto intercalato.
Talvolta è ancora, erroneamente, definito cilindroma.
Può colpire tutte le ghiandole salivari, ma si ritrova più frequentemente nella sottomandibolare e nelle
salivari minori intraorali del palato.
Rappresenta il 10% dei tumori delle ghiandole salivari e colpisce soprattutto pazienti adulti, con un picco di
incidenza a 60 anni, senza differenze tra i due sessi.

Alterazioni molecolari

Si associa alla traslocazione cromosomica t(6;9) che porta alla formazione del gene di fusione MYB-NFIB e
all’iper-espressione di MYB; questa mutazione risulta utile per la diagnosi ma non per la prognosi.

Clinica

Si caratterizza per una crescita lenta, ma progressiva, che può portare al decesso del paziente se non si ha
una diagnosi tempestiva. Si presenta come un nodulo di dimensioni variabili, inizialmente non ulcerato; è
importante che la diagnosi venga eseguita prima che il carcinoma ulceri, poiché l’ulcerazione rappresenta lo
stadio tardivo.
L’aggressività del carcinoma adenoidocistico è dovuta anche allo spiccato neurotropismo: la neoplasia
infiltra le guaine perineurali e spesso il primo specialista da cui il paziente si reca è il neurologo. Infatti, una
sede frequente di presentazione della neoplasia è la parotide profonda, con conseguente infiltrazione del
nervo facciale ed emiparesi facciale, che entra in diagnosi differenziale con la paralisi di Bell.
Se si identifica una emiparesi facciale idiopatica è quindi necessario eseguire una ecografia o una RM della
parotide, per escludere la presenza di un nodulo neoplastico.

Istologia

Ricalca la forma del dotto intercalato ed è composto da cellule epiteliali e mioepiteliali che possono
organizzarsi in diverse forme:
- Tubulare, che corrisponde al grado I
- Cribriforme, che corrisponde al grado II
- Solida, che corrisponde al grado III
Indipendente dal grado risulta una neoplasia molto aggressiva.

L’elemento caratteristico è la produzione di mucina, di cui si riscontrano due tipi, una grigio-azzurra e una
rosacea.
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All’immunoistochimica è possibile osservare le proteine MYB, p63 e CD117.

Prognosi

Nonostante la lenta crescita la prognosi a lungo termine non è ottimale: la sopravvivenza a 5 anni è del 60%
e la sopravvivenza a 10 anni del 50%. Può dare metastasi tardive e la diagnosi precoce è importante per
ottenere una prognosi migliore.

Carcinoma adenoidocistico con trasformazione di alto grado

La prognosi di queste forme è infausta già a breve


termine. In questo caso la trasformazione è
tipicamente a carico di un clone di cellule mioepiteliali
che presenta una aggressività tale da distruggere non
solo il tessuto sano circostante, ma anche il tessuto
tumorale da cui esso origina: è come avere un
carcinoma dentro al carcinoma.
Il meccanismo molecolare alla base di questa
trasformazione è l’aumentata espressione di c-kit, p53
e ki67, osservabile tramite colorazione istochimica
(porzione in basso a destra del vetrino a fianco).
A fini prognostici è importante la stadiazione TNM.

ADENOCARCINOMA POLIMORFO – Dispensa

Neoplasia maligna epiteliale caratterizzata da uniformità citologica, diversità architetturale e pattern di


crescita infiltrativo. Si definiscono due forme di adenocarcinoma polimorfo:
- Tipo convenzionale → cellule monomorfe con pattern architetturali variabili, crescita infiltrativa e
mutazione del gene PRDK
- Tipo cribriforme → cellule con nuclei chiari e crescita papillare o glomeruloide; le alterazioni
molecolari più frequenti sono le fusioni di PRDK1, PRDK2 o PRDK3.
Colpisce soprattutto le donne adulte tra i 50 e i 70 anni.
Risulta quasi esclusivo della cavità orale: il tipo convenzionale interessa maggiormente il palato, mentre il
tipo cribriforme interessa la base della lingua, la guancia, le gengive e il pavimento della cavità orale.

Clinica

La forma convenzionale ha una crescita lentissima e può dare segni di sé solo dopo anni, mentre la forma
cribriforme ha una crescita moderatamente lenta; questa neoplasia può quindi simulare una condizione
benigna. La crescita è infiltrativa, pertanto nelle fasi tardive può portare ad ulcerazione e sanguinamento.
Nel 10-30% dei casi si hanno recidive e nel 9-15% dei casi si hanno metastasi linfonodali.

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Morfologia

Si presenta come un nodulo non capsulato e le cellule appaiono piccole e con nucleo ipercromico.
Può avere una architettura cribriforme (immagine a sinistra), una invasione a singola cellula (immagine al
centro) o aspetti papillari (immagine a destra).

Prognosi

La prognosi è buona, con rari decessi, ma sono frequenti le recidive locali e si può avere una trasformazione
di alto grado.

267
MALATTIE DELL’APPARATO CARDIOCIRCOLATORIO

CARDIOPATIA ISCHEMICA

Nei paesi economicamente sviluppati la cardiopatia ischemica è la prima causa di morte. Questa patologia
sta alla base dell’infarto, nella forma acuta, e alla base dell’angina, nella forma cronica. Sia nella forma
acuta che nelle forma cronica alla base dell’ischemia si ha uno squilibrio metabolico tra la richiesta di
ossigeno da parte del muscolo cardiaco e l’ossigeno fornito dal flusso sanguigno; inoltre, si ha la riduzione
della disponibilità di nutrienti e della rimozione dei metaboliti.
Lo squilibrio tra domanda e richiesta è solitamente secondario ad aterosclerosi, situazione prodromica alla
malattia ischemica: in più del 90% dei casi la causa dell’ischemia cardiaca è la riduzione del flusso ematico
coronarico causata da lesioni aterosclerotiche ostruttive delle coronarie. Con il termine aterosclerosi si
indica quindi una stenosi permanente delle coronarie, con restringimento fino al 75% del lume arterioso.
Con un grado di stenosi al 75% la vasodilatazione arteriosa coronarica compensatoria non è in grado di
fronteggiare gli aumenti, anche modesti, di richiesta miocardica; se la lesione stenotica occupa
percentuali superiori del lume arterioso il flusso risulta inadeguato anche a riposo.
Affinché si sviluppi l’ischemia non è necessario che si instauri una complicanza della aterosclerosi, è
sufficiente la presenza della lesione aterosclerotica: una qualsiasi condizione che determini una
vasocostrizione può peggiorare la condizione stenotica di base e portare ad ischemia.
Ovviamente, anche le complicanze della lesione aterosclerotica possono portare all’ischemia:
- La trombosi coronarica, dovuta alla lesione intimale presente nel vaso aterosclerotico, può portare
ad occlusione acuta e infarto.
- Aggregazione piastrinica, che comporta un moto turbolento del sangue e la stimolazione
endoteliale, con conseguente rilascio di mediatori che inducono vasospasmo
- Fissurazioni ed emorragie
- Emboli, che occludono il vaso a valle della lesione
Le forme acute di malattia ischemica, quindi angina instabile, infarto miocardico e morte improvvisa, sono
tipicamente scatenate da una imprevista e brusca trasformazione di una placca ateromasica instabile, che
potrebbe anche essere rimasta silente fino a quel momento.
L’ischemia coronarica può anche essere esasperata da una maggiore richiesta di ossigeno da parte del
miocardio, ad esempio in caso di tachicardia o ipertrofia cardiaca, o per riduzione della disponibilità di
ossigeno e sangue, come in caso di shock. In alcuni casi, ad esempio in una condizione di stress acuto
o a causa di una forte emozione, si può avere il rilascio di catecolamine che inducono un vasospasmo.

Fattori di rischio
I fattori di rischio per la cardiopatia ischemica sono gli stessi della aterosclerosi, essendone questa la causa
sottostante:
- Ipertensione arteriosa
- Fumo di sigaretta, che danneggia l’endotelio vascolare ed è fattore eziologico della vasocostrizione
conseguente ad attività adrenergica
- Elevati livelli di colesterolo

Dal punto di vista clinico si differenziano diverse forme di cardiopatia ischemica:


- Angina pectoris
- Morte improvvisa cardiaca
- Infarto miocardico acuto
- Malattia ischemica cronica del miocardio

ANGINA PECTORIS

L’angina pectoris è definita come un dolore acuto parossistico di tipo costrittivo retrosternale o
pericordiale per ischemia transitoria del miocardio.
268
Gli episodi di dolore toracico possono essere ricorrenti.
La manifestazione dolorosa regredisce alla cessazione dello sforzo che ha causato l’angina (durata
massima di 15 minuti).
L’angina pectoris è dovuta a vasospasmo, stenosi coronarica o insufficienza aortica.
Se la causa è il vasospasmo non ne consegue alcun danno strutturale o morfologico, cosa che invece
avviene quando gli episodi ischemici si ripetono ravvicinati nel tempo e prolungati.
L’angina stabile, che è la forma più comune, deriva dalla incapacità delle coronarie di fronteggiare un
incremento della richiesta di ossigeno da parte dal miocardio, come avviene ad esempio durante uno
sforzo fisico. In questo caso la risoluzione clinica è permessa dal riposo e dalla somministrazione di
nitroglicerina, che ha azione vasodilatatrice.
L’angina instabile è caratterizzata da un dolore che si presenta con frequenza progressivamente
crescente, di durata prolungata, provocato da sforzi di entità sempre minore, fino a comparire anche a
riposo. Si presenta come conseguenza della rottura di una placca complicata da trombosi parzialmente
occlusiva e vasocostrizione, che portano a gravi ma transitorie riduzioni del flusso. Dal momento che può
essere il prodromo di un infarto è detta anche angina pre-infartuale.
Esiste anche una angina atipica, detta angina di Prinzmetal, che insorge anche a riposo ed è dovuta o a
vasospasmo o a trombosi non occlusiva. Il vasospasmo, che può avvenire anche in coronarie perfettamente
sane, è dovuto ad un aumento di acetilcolina, che determina una alterata produzione di ossido nitrico, e
alla liberazione di trombossano dalle piastrine. La trombosi non occlusiva insorge su una placca ateromasica
che determina una occlusione incompleta.

MORTE IMPROVVISA

La morte si definisce improvvisa se avviene in soggetti senza


cardiopatia sistemica o se insorge entro l’ora dall’inizio dei sintomi. È
in genere conseguenza di una aritmia fatale, pertanto i segni tipici sono
tachicardia ventricolare o fibrillazione atriale.
Anche in questo caso una delle cause più importanti è l’aterosclerosi
che può portare ad una trombosi coronarica acuta, ma possono essere
coinvolte anche altre malattie coronariche, come embolia, vasculiti,
anomalie congenite, ecc.
L’ischemia miocardica acuta può interessare il sistema di conduzione
cardiaco e determinare un’aritmia fatale; anche cicatrici di pregressi
infarti possono determinare l’insorgenza di aritmie fatali.
L’aritmia può anche insorgere in situazione di severa insufficienza delle
coronarie in assenza di trombosi e senza che ci sia un franco infarto del
miocardio, ovvero si possono avere miocardiosclerosi o ipertrofia
ventricolare che possono portare a tachicardia ventricolare spontanea, a fibrillazione ventricolare e quindi a
morte improvvisa.
La morte improvvisa può essere causata anche da malattie del miocardio, come miocardite fulminante,
cardiomiopatie genetiche, malattie valvolari, endocarditi, ipertensione polmonare, ecc.

INFARTO MIOCARDICO ACUTO

L’infarto si definisce come l’area limitata e definita di miocardio coinvolto in meccanismi degenerativi che
portano alla necrosi. L’ischemia si realizza localmente in tempi piuttosto rapidi e il danno strutturale
insorge già nei primi minuti di carenza di flusso, anche se le lesioni non sono evidenziabili né a livello
macroscopico né a livello microscopico; infatti, gli esiti immediati dell’ischemia sono osservabili solo al
microscopio elettronico, che permette di valutare il danno agli organelli mitocondriali.
I primi ad essere interessati dal danno ischemico sono i mitocondri, mentre la necrosi post-ischemica
insorge dopo 20-30 minuti di ischemia e raggiunge la sua completa estensione dopo 3-6 ore.

269
L’infarto è quindi un’area delimitata di ischemia acuta la cui estensione e localizzazione dipendono
dall’anatomia del circolo coronarico, quindi da quale arteria coronaria risulta dominante e dalla possibilità
che si instauri un circolo collaterale che attenui la gravità del danno.

Cause e patogenesi

L’infarto miocardico è strettamente associato alla malattia ateromasica, pertanto la sua incidenza aumenta
con l’avanzare dell’età e con la presenza di fattori favorenti l’aterosclerosi.
Le principali cause di infarto miocardico sono:
- Occlusione trombotica di una arteria ateromasica (85% dei casi)
- Tromboembolismo per ulcerazione della placca ateromasica o emboli dell’atrio sinistro associati a
fibrillazione atriale, vegetazioni infettive o materiali protesici (10% dei casi)
- Aggregazione piastrinica e/o vasospasmo, che può essere dovuto anche ad abuso di sostanze (5%
dei casi)
- Inefficienza e malattie dei piccoli vasi coronarici, senza aterosclerosi, come amiloidosi, anemia
falciforme, shock

Localizzazione

Solitamente sono colpiti da aterosclerosi almeno due, se non tutti e tre, i principali rami epicardici delle
coronarie. Le placche ateromasiche possono essere localizzate ovunque, ma preferenzialmente
interessano:
- Coronaria anteriore discendente sinistra, DAS → infarto della parete anteriore del ventricolo
sinistro, dell’apice del ventricolo o dei 2/3 anteriori del setto (40% dei casi)
- Coronaria destra, CD → infarto della parete posteriore e della base del ventricolo sinistro, della
porzione posteriore del setto e della porzione postero-inferiore del ventricolo destro (30-40% dei
casi)
- Coronaria circonflessa sinistra, CS → infarto della parete laterale del ventricolo sinistro o della
parete posteriore, se il circolo sinistro risulta dominante (20-30% dei casi)
Il concetto di dominanza dipende da quale arteria perfonde il terzo posteriore del setto; circa i 4/5 della
popolazione presentano una dominanza destra.

Estensione

In base all’estensione è possibile classificare l’infarto miocardico in:


- Infarto subendocardico → coinvolge 1/3 della parete interna del ventricolo, nella porzione
prossima alla camera cardiaca: infarto NSTEMI (non si ha sopraslivellamento del tratto ST)
- Infarto transmurale → interessa tutto lo spessore della parete ventricolare: infarto STEMI (si ha il
sopraslivellamento del tratto ST
L’infarto si realizza più facilmente nella porzione subendocardica, dal momento che a questo livello si
hanno le diramazioni terminali delle coronarie ed è difficile che si formino circolo collaterali o anastomotici.
Il sub-endocardio inoltre è normalmente vascolarizzato per diffusione dalle camere cardiache, quindi
durante la contrazione sistolica è già fisiologicamente meno vascolarizzato.
Va sottolineato che sia nell’infarto NSTEMI che nell’infarto STEMI una sottile rima di sub-endocardio rimane
preservata, proprio grazie alla diffusione di ossigeno e nutrienti dalla camera cardiaca.
L’ischemia si diffonde quindi dal sub-endocardio, il primo a soffrire della ridotta disponibilità di ossigeno,
verso l’epicardio; la riperfusione limita ovviamente l’estensione dell’area infartuata.
La sede più vulnerabile è il ventricolo sinistro dal momento che ha un maggior carico lavorativo e un
maggior spessore della parete; un infarto del ventricolo destro può avvenire invece in caso di ipertensione
polmonare, che determina un ispessimento del cuore di destra.

270
Le principali differenze tra infarto subendocardico e infarto transmurale sono:

L’infarto sub-endocardico può essere multifocale, a causa dell’occlusione di piccoli vasi intramurali, mentre
l’infarto transmurale risulta unifocale, con una distribuzione uniforme.
Mentre gli infarti transmurali si manifestano nel territorio di irrorazione dell’arteria danneggiata, gli infarti
sub-endocardici possono essere circonferenziali, ovvero estendersi lungo tutto il perimetro del sub-
endocardio, soprattutto se sono associati ad uno stato ipertensivo grave e prolungato.
L’infarto transmurale può portare a diverse conseguenze, come shock, pericardite, aneurisma o rottura del
cuore, che risultano rare o assenti nell’infarto sub-endocardico. Un’altra complicanza possibile è
l’emopericardio, che può portare a morte del paziente per tamponamento cardiaco.

Lesioni morfologiche

Le lesioni morfologiche da danno ischemico sono: necrosi coagulativa, necrosi a bande di contrazione e
micro-vacuolizzazione dei miociti subendocardici.

La necrosi coagulativa si evidenzia morfologicamente con acquisizione di tintorialità per i coloranti acidi,
quindi con aree eosinofile: all’interno del citoplasma si ha la degenerazione degli organelli; l’ultimo a subire
modificazioni è il nucleo, che va incontro a carioressi o picnosi e si ha la dissoluzione della cromatina.
Nell’infarto cerebrale si ha invece necrosi colliquativa, in cui non si riconosce più lo stampo del tessuto
sottostante.

La necrosi a bande di contrazione è dovuta ad un patologico eccesso di contrazione: si può avere


l’ipercontrazione del muscolo cardiaco, con eccessivo e prolungato avvicinamento delle linee Z dei
sarcomeri. Le bande di contrazione sono delle vere e proprie strisce intracellulari intensamente eosinofile
composte dai sarcomeri strettamente addossati tra loro. Questa contrazione esasperata è dovuta ad un
iper-afflusso di calcio all’interno della cellula cardiaca degenerata: il calcio deriva sia dall’ambiente
extracellulare che dagli organelli intra-cellulari, come reticolo endoplasmatico e mitocondri, la cui
membrana viene danneggiata. Inoltre, venendo meno l’apporto di ossigeno, non si ha più formazione di
ATP e viene meno il distacco tra miosina e actina della fibra contratta.
L’ipercontrazione determina acidità all’interno della cellula, così come il deficit di ossigeno, che comporta
l’aumento dei radicali liberi e degli ioni idrogeno, pertanto si attivano gli enzimi litici contenuti nei
lisosomi: la componente contrattile va incontro a lisi, ma le fibre risultano ancora identificabili.
L’ipercontrazione porta quindi a necrosi delle cellule muscolari, con aspetto a bande di contrazione.
Questo è il medesimo meccanismo che avviene nel rigor mortis.

Il danno cellulare viene amplificato dalla riperfusione:


- Il sangue torna a fluire all’interno di vasi danneggiati e si ha emorragia
- Le membrane delle cellule sono danneggiate e non sono in grado di realizzare l’equilibrio ionico tra
interno ed esterno della cellula, pertanto si ha un afflusso maggiore di ioni all’interno della cellula,
con conseguente dilatazione e degenerazione cellulare

271
Un’altra lesione tipica è la micro-vacuolizzazione o miocitolisi, ovvero la perdita di componente
miofibrillare, soprattutto nei miociti sub-endocardici: dal reticolo endoplasmatico liscio vengono rilasciati
liquidi e ioni all’interno della cellula e si ha uno squilibrio osmotico per cui il sistema tubulare si dilata.
Viene meno il rapporto stechiometrico tra enzimi e si formano dei vacuoli, che vanno poi incontro a
coalescenza tra loro. La conseguenza di questo processo è l’incapacità contrattile della cellula cardiaca.

Infiammazione reattiva e riparazione

Al danno, di qualsiasi tipo esso sia (necrosi coagulativa, necrosi a bande di contrazione o miocitolisi)
seguono fisiologicamente due meccanismi: infiammazione e riparazione.
L’infiammazione reattiva è determinata dal rilascio di citochine e proteine chemiotattiche che richiamano
neutrofili, linfociti e macrofagi allo scopo di eliminare il tessuto necrotico. Queste cellule infiammatorie,
soprattutto i macrofagi, richiamano a loro volta i fibroblasti, allo scopo di riparare il tessuto danneggiato; il
tessuto infartuato viene però sostituito con tessuto non funzionale e ciò porta all’instaurarsi di complicanze
post-infartuali, come le alterazioni della trasmissione dell’impulso elettrico, e induce l’ipertrofia delle
cellule cardiache superstiti.
Il tessuto cardiaco necrotico viene quindi sostituito con tessuto fibroso, privo di capacità contrattile, che
può portare alla formazioni di circuiti di rientro ed aritmie, talvolta fatali.
Recentemente si è visto che nella zona perivascolare sono presenti cellule staminali mesenchimali
multipotenti, con una potenzialità differenziativa in senso muscolare. Queste cellule staminali, che fanno
parte della cosiddetta nicchia vasogenica, non rigenerano il tessuto muscolare cardiaco (per motivi non
ancora chiariti), ma stimolano, grazie ad un meccanismo secretivo, la neoangiogenesi e la ricostruzione del
tessuto cardiaco.

Fasi dell’evoluzione dell’infarto

Le lesioni che si verificano nelle prime 12 ore, sequenza della timing precoce, non sono visibili
macroscopica, mentre le lesioni che avvengono successivamente sono visibili sia a livello microscopico che
a livello macroscopico.

Timing precoce
1. A 10 secondi dall’ischemia il tessuto appare cianotico e il cuore si dilata in sistole anziché contrarsi;
se la causa dell’ischemia viene repentinamente rimossa la contrazione riprende, anche se in alcuni
casi essa rimane depressa a lungo e si parla di miocardio stordito.
A questa prima fase corrisponde l’arresto del metabolismo aerobico e si ha deplezione di fosfati ad
alta energia e accumulo di metaboliti potenzialmente dannosi, come l’acido lattico.
In 60 secondi il miocardio perde la capacità contrattile, anche a causa di alterazioni ultrastrutturali,
come rilassamento mio-fibrillare, deplezione di glicogeno e rigonfiamento cellulare.
2. A 20-30 minuti dall’ischemia si ha necrosi miocitaria
3. Fino a 12 ore dall’ischemia l’infarto non è identificabile all’esame macroscopico: sono osservabili
sono evidenze ultrastrutturali e sieriche di danno miocitario irreversibile.
Si ha innanzitutto la perdita di integrità della membrana sarcoplasmatica, con fuoriuscita di enzimi
e conseguente rialzo di mioglobina, LDH, CPK e troponine; la valutazione della CPK deve essere
attentamente eseguita, poiché i suoi livelli possono risultare aumentati anche in seguito ad intenso
sforzo fisico, per rilascio da parte del muscolo scheletrico.
I danni permanenti alle cellule cardiache si ipotizzano dopo 2-4 ore dall’ischemia e la completa
necrosi si realizza dopo 6 ore, a meno che non intervengano circoli collaterali.

Timing macroscopico
1. Dopo 18-24 ore il miocardio appare pallido
2. Dopo 24-72 ore al pallore si accompagna iperemia
3. Dopo 3-7 giorni la regione colpita appare ingiallita all’interno e iperemica all’esterno.

272
L’area necrotica, infatti, va incontro a solubilizzazione delle componenti strutturali, si infarcisce di
cellule infiammatorie e risulta circondata da un bordo iperemico.
In questa fase si ha un tessuto di granulazione reattivo infiammatorio, quindi un tessuto di
transizione tra il tessuto cardiaco infartuato necrotico e il tessuto fibrotico di riparazione, si tratta
quindi di un tessuto privo sia della componente contrattile che della resistenza meccanica, pertanto
in questa fase, tipicamente intorno al 7 giorni, può avvenire la rottura del cuore, importante
complicanza dell’infarto.
4. Dopo 10-20 giorni si ha il massimo ingiallimento dell’area necrotica, i cui margini risultano sempre
più vascolarizzati dal momento che si ha dilatazione dei vasi residui e neoangiogenesi.
5. Dopo circa 7 settimane si ha il completamento della cicatrice, che risulta fibrotica e biancastra.
La riparazione della zona infartuata avviene in senso centripeto, visto che le cellule infiammatorie
migrano dai vasi sani e giungono alla periferia della lesione. È quindi possibile riscontrare segni di
non uniformità nella progressione della lesione.

Timing microscopico
1. Da 1 a 3 ore si osservano, alla periferia della zona colpita, delle fibre ondulate: i miociti vitali stirano
le cellule inerti adiacenti, conferendo loro questo andamento curvilineo.
Le cellule presentano anche degenerazione vacuolare irreversibile, con vacuoli contenenti acqua.
Le lesioni macroscopiche, da tra le 2 e le 3 ore, possono essere evidenziate con colorazioni
specifiche, ottenute tramite i cosiddetti coloranti vitali, ovvero tetrazolio e fucsina basica.
Il tetrazolio è una colorazione istochimica che conferisce un colore rosso mattone al miocardio
integro, dove l’attività deidrogenasica è preservata, mentre il miocardio infartuato appare come
una zona pallida, non colorata, dal momento che le deidrogenasi diffondono attraverso le
membrane danneggiate.
Si ha anche la necrosi coagulativa e la necrosi a bande di contrazione ed emorragia.
Dopo 3 ore inizia la reazione infiammatoria con richiamo di neutrofili (se l’ischemia è poco evidente
l’infiltrato neutrofilo in questa fase può entrare in diagnosi differenziale con una miocardite).
2. A 18-24 ore la necrosi coagulativa prosegue e i nuclei si fanno picnotici; le bande di contrazione si
formano anche alla periferia della zona infartuata.
3. A 24-72 ore si ha la perdita completa dei nuclei e la perdita di striatura, il tessuto necrotico diviene
irriconoscibile e viene sostituito da un importante infiltrato di neutrofili
4. Dopo 3-7 giorni i polimorfonucleati lasciano il posto a macrofagi e monociti, giunti grazie al flusso
ematico, e inizia la risposta fibrovascolare
5. Dopo 10-21 giorni il tessuto di granulazione è preponderante, con neovascolarizzazione, aumento
dell’irrorazione e tessuto fibroso prodotto dai fibroblasti. Questa è la fase più suscettibile alla
rottura del cuore
6. Dopo 7 settimane si instaura il quadro di fibrosi

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Sviluppo dell’infarto miocardico:
a. Miocardio normale
b. Colorazione eosinofila dopo 12-18
ore
c. Infiltrazione di neutrofili, dopo
circa 24 ore
d. Tessuto di granulazione che
sostituisce il tessuto infartuato
e. Tessuto cicatriziale

Nell’immagine in basso a sinistra si ha un


infarto colorato con ematossilina-eosina, in
cui si ha necrosi coagulativa con scomparsa
della striatura trasversale e presenza di
alcuni elementi infiammatori.
Nell’immagine in basso a destra si ha un
infarto di vecchia data, con aree biancastre
e sparsi fibroblasti.

Le tempistiche indicative da tenere bene a mente sono:


- 0-2 minuti → perdita di funzionalità del miocardio
- 20 minuti → entro i 20 minuti i danni dei miocardiociti sono reversibili e non si sviluppa necrosi,
pertanto la vitalità del tessuto viene completamente ripristinata in seguito a riperfusione. Le cellule
in questa fase entrano in una modalità di risparmio e adottano un metabolismo ridotto: fase di
stordimento/ibernazione
- 3-6 ore → il miocardio è ischemico, ma mantiene un certo grado di vitalità, che va
progressivamente riducendosi: dalla precocità di riperfusione dipende la possibilità di recupero del
tessuto
- Dopo 6 ore → la riperfusione non riduce l’estensione della necrosi

Riperfusione

La riperfusione viene garantita grazie ad interventi che sciolgono, alterano meccanicamente o bypassano
l’occlusione coronarica che ha scatenato l’evento acuto.
La riperfusione comporta:
- Emorragia e bande di contrazione
- Stress ossidativo, sovraccarico di calcio e infiammazione che ledono le cellule che presentano una
certa vitalità post-ischemica
- Danno microvascolare che oltra all’emorragia implica anche il rigonfiamento endoteliale e
l’occlusione dei capillari, con conseguente ostacolo alla riperfusione stessa del miocardio
- Miocardio stordito: i miociti vitali mantengono alterazioni biochimiche per un certo lasso di tempo
- Aritmie

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Nell’immagine a sinistra si ha la necrosi a bande di contrazione, mentre nell’immagine a destra si ha un
infarto a bande di contrazione cui si associa un’emorragia (infarto emorragico)

Clinica e diagnosi

La diagnosi di infarto miocardico acuto si basa su evidenze cliniche, come polso rapido e debole,
sudorazione, dispnea, congestione ed edema polmonare, su alterazioni elettrocardiografiche e su esami di
laboratorio. Laboratoristicamente l’infarto può essere identificato grazie all’innalzamento di marcatori
cardiaci:
- Troponine T e I → aumentano dopo 2-4 ore, raggiungono il picco di concentrazione dopo 48 ore e
rimangono in circolo per 7-10 giorni; sono i marcatori più sensibili e specifici
- Forma MB della creatin-chinasi → sensibile, ma non specifica dal momento che può aumentare
anche in caso di danno alla muscolatura liscia. Aumenta dopo 2-4 ore e raggiunge i massimi livelli in
24 ore; permane in circolo per 72 ore.
L’innalzamento di questi biomarcatori risulta più precoce nei soggetti trattati e riperfusi dal momento che il
tessuto necrotico viene “lavato” dagli enzimi.

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Le terapie somministrate nel quadro dell’IMA includono: acido acetilsalicilico ed eparina, per prevenire la
trombosi, ossigeno, per minimizzare l’ischemia, nitrati, per indurre vasodilatazione e risolvere il
vasospasmo, beta-bloccanti, per ridurre la richiesta cardiaca e ridurre il rischio di aritmie, ACE-inibitori, che
limitano la dilatazione ventricolare, farmaci fibrinolitici e angioplastica per riaprire i vasi occlusi.

Complicanze dell’infarto

Aritmia
Le aritmie possono essere causate da squilibrio elettrolitico o da farmaci che aumentano la tensione
muscolare.

Shock cardiogeno
Interessa meno del 5% dei casi di IMA e si instaura nelle prime ore dall’infarto, nei casi in cui la massa
infartuata sia superiore al 40-50%, infatti, in queste condizioni si ha una dissociazione tra funzione
meccanica e stimolo elettrico cardiaco.

Insufficienza cardiaca congestizia sinistra


È una complicanza tardiva, dovuta alla presenza di cicatrici di tessuto non funzionale e alla conseguente
ipertrofia del tessuto cardiaco superstite. Aumenta quindi lo spessore della parete cardiaca e il flusso
ematico non è in grado di garantire una corretta perfusione, pertanto la sistole risulterà inefficace, nella
camera cardiaca permane del sangue e nel tempo si ha sfiancamento della parete ventricolare e dilatazione
della camera cardiaca. Si instaura quindi una cardiomiopatia dilatativa che porta ad insufficienza congestizia
sinistra, che a sua volta implica l’aumento di pressione polmonare e l’insorgenza di edema polmonare.

Rottura del miocardio


Si realizza dopo 4-7 giorni dall’ischemia ed è dovuta alla presenza di tessuto di granulazione, che non è né
funzionale né efficace in termini di resistenza meccanica.
Esistono diversi tipi di rottura:
- Rottura della parete libera, caso più frequente, che porta ed emopericardio e tamponamento
cardiaco
La rottura della parete libera del cuore è spesso rapidamente fatale, ma se sono presenti aderenze
pericardiche la lacerazione può essere limitata e può esitare in uno pseudo-aneurisma
- Rottura del setto interventricolare con conseguente DIV e shunt sinistro-destro
- Rottura del muscolo papillare ed insufficienza valvolare, tipicamente mitralica
Questa complicanza insorge tipicamente in pazienti con più di sesso femminile, con più di 60 anni ed
ipertesi; inoltre, è più frequente in pazienti senza pregresso IMA, dal momento che gli esiti cicatriziali di un
pregresso infarto tendono ad inibire la lacerazione del miocardio.

Pericardite
Al 2-3° giorno dall’infarto transmurale può insorgere una pericardite fibrinosa o fibrinoemorragica

Estensione dell’infarto o re-infarto

Trombosi murale ed embolizzazione


La combinazione tra l’anomala contrattilità cardiaca, che determina stasi ematica, e il danno endocardico,
che genera una superficie trombogenica, può favorire la trombosi murale e portare potenzialmente a
tromboembolia.

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Aneurisma
Si può avere la dilatazione della parete cardiaca,
condizione che favorisce la formazione di trombi.
Si distinguono:
- Aneurisma vero → protrusione per cedimento
della parete ventricolare nell’area infartuata
- Aneurisma falso → si formano dei piccoli gap
nella parete e le adesioni del pericardio limitano
l’emorragia

CARDIOMIOPATIA ISCHEMICA CRONICA – Dispensa

La cardiomiopatia ischemica cronica è causata da aterosclerosi di grado severo che coinvolge tutte le
branche di maggior calibro delle coronarie e comporta un circolo sanguigno inadeguato, che sfocia in una
perdita costante di miociti. Si realizzano quindi micro-infarti, che comportano la perdita di alcuni miociti e
fibrosi reattiva, con deposizione puntiforme di collagene interstiziale.
Il muscolo cardiaco diviene progressivamente meno compliante e va incontro a dilatazione e ipertrofia
compensatoria: si instaura una cardiomiopatia dilatativa che porta all’insufficienza cardiaca progressiva,
per sovraccarico dei miociti superstiti.
Finchè il cuore riesce a compensare la progressiva perdita di funzionalità la clinica può essere silente o si
può avere angina, ma il quadro può sfociare anche in un infarto acuto. Inoltre, questa condizione
predispone allo sviluppo di aritmie ventricolari ed è la più comune causa di morte improvvisa.
I reperti microscopici includono ipertrofia miocardica, diffusa vacuolizzazione subendocardica e fibrosi.

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MIOCARDITE

La miocardite è un processo infiammatorio a carico del miocardio, caratterizzato da infiltrato leucocitario


e necrosi o degenerazione dei miociti e dovuto ad un insulto primitivo da parte dei sistema immunitario
nei confronti della cellula cardiaca.
La miocardite si distingue quindi da altre patologie in cui i danni causati da altri meccanismi innescano una
risposta infiammatoria secondaria del miocardio.
La miocardite può colpire tutte le fasce d’età e presenta una maggior frequenza durante il periodo
invernale, in associazione all’influenza; negli ultimi anni l’interesse nei confronti di questa malattia è
aumentato dal momento che essa rappresenta una complicanza sia dell’infezione da Covid-19 che del
vaccino.
La diagnosi di miocardite richiede l’esecuzione di una biopsia miocardica, che deve evidenziare sia la
necrosi che la presenza di infiltrato leucocitario.
Altre patologie che richiedono una biopsia miocardica per la diagnosi sono: amiloidosi cardiaca,
emocromatosi, malattie lisosomiali, come la malattia di Fabry o la glicogenosi (le malattie lisosomiali sono
trattate con terapia ERT, ovvero terapia sostitutiva mirata dell’attività enzimatica assente), neoplasie
cardiache e cardiotossicità da farmaci, indotta ad esempio dalle antracicline.

Classificazione

Le miocarditi possono essere suddivise in due macrogruppi:


- Eziologia nota
o Infettive → le più comuni sono di origine virali, ma è possibile anche un’eziologia batterica,
fungina, parassitaria.
Tra i virus che causano miocardite vi sono: coxsackievirus A e B, adenovirus, herpes simplex
virus, citomegalovirus, virus influenzale, agenti virali della malattie esantematiche, HIV.
I virus infettano la cellula cardiaca e determinano una risposta del sistema immunitario
contro tali cellule, sia a causa della presenza del virus stessa sia a causa della modificazione,
indotta dal virus, delle proteine di membrana, che vengono quindi riconosciute come
antigeni.
o Tossiche → causate da sostanze d’abuso o farmaci, come antracicline, litio, interferone,
clorochina, ecc. o da eccesso di catecolamine, come in pazienti con feocromocitoma
o Da ipersensibilità → si tratta di una reazione allergica ritardata, spesso nei confronti di un
farmaco (penicilline, sulfonamidi, streptomicina, isoniazide, ecc.)
o Da agenti fisici → radiazioni, ipotermia, ipertermia
- Idiopatiche
Queste vengono differenziate in base alle caratteristiche dell’infiltrato infiammatorio:
o Miocardite linfocitaria
o Miocardite a cellule giganti
o Miocardite eosinofila
o Miocardite neutrofila
o Miocardite da rigetto di trapianto
Clinica

La sintomatologia è legata alla patologia infettiva, quindi è caratterizzata da febbre, dolore toracico
pericardico, segni di scompenso cardiaco, sincope ed aritmie; è necessaria la diagnosi differenziale con
scompenso cardiaco e sottostante malattia coronarica o valvulopatia.
Dal punto di vista clinico le miocarditi possono essere classificate in:
- Fulminante
- Acuta
- Subacuta
- Ricorrente

278
- Cronica
Inoltre, si possono avere anche differenti quadri evolutivi:
- Guarigione completa
- Guarigione incompleta, con alterazioni della conduzione ed aritmie
- Evoluzione cronica, che può portare a cardiomiopatia dilatativa

Diagnosi

Nel momento in cui alla biopsia si rilevano sia la necrosi che l’infiltrato leucocitario, la diagnosi di
miocardite viene posta attraverso i criteri di Dallas.
Se alla biopsia si rileva solo uno dei due eventi, quindi solo la necrosi o solo l’infiltrato leucocitario, non è
possibile fare diagnosi e va ripetuto il prelievo, infatti, si potrebbe essere di fronte ad un caso di miocardite
in fase di guarigione o miocardite che sta per realizzarsi. La presenza della sola necrosi può inoltre indicare
un fenomeno ischemico.

Gli aspetti della degenerazione miocitaria, che evolve poi in necrosi, richiesti dai criteri di Dallas sono:
- Vacuolizzazione dei miociti dovuta a miocitolisi, ovvero a perdita della componente contrattile: il
citoplasma della cellule apparare costituito da vacuoli
- Presenza di margini cellulari irregolari e non ben visibili, a causa delle alterazioni del citoplasma
- Nuclei ancora presenti
- Fenomeno della miofagia: i macrofagi digeriscono le cellule muscolari degenerate (si vedono
macrofagi all’interno dei miocardiociti)
È molto comune un infiltrato infiammatorio mononucleato, prevalentemente linfocitario, diffuso.

Nei controlli successivi si può poi fare diagnosi di:


- Miocardite persistente con o senza fibrosi, se i parametri diagnostici rimangono inalterati
- Miocardite risolta, se vengono meno la necrosi e l’infiltrato
- Miocardite in risoluzione, se i parametri diagnostici sono meno marcati rispetto alle valutazioni
precedenti

Nei preparati in basso si osservano:


- Miocardite attiva, con cellule cardiache necrotiche, nuclei picnotici e esteso infiltrato infiammatorio
- Miocardite borderline, con edema, scarsi linfociti e necrosi. Gli spazi intercellulari risultano allargati,
a causa dell’edema, i linfociti sono pochi e non si hanno grandi segni di necrosi; si tratta quindi una
miocardite in fase di realizzazione o in fase di guarigione, pertanto è necessario ripetere la biopsia
- Miocardite guarita, con deposizione di tessuto fibrotico in sostituzione delle cellule miocardiche
degenerate; se estesa la fibrosi può portare all’insorgenza di aritmie.

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Il tipo di infiltrato infiammatorio aiuta a definire l’eziologia della miocardite:

L’infiltrato infiammatorio viene descritto


anche in termini di estensione, quindi se
risulta focale, multi-focale o diffuso, e in
termini di entità, quindi se è lieve,
moderato o severo.

Vanno descritte anche le caratteristiche


della necrosi, ad esempio si può avere una
necrosi a gruppi di cellule o una
degenerazione di singoli miociti.

L’estensione della fibrosi dipende dalla durata della malattia; si possono avere più forme di fibrosi:
- Fibrosi miocardica, con costituzione del tessuto miocardico da parte di tessuto fibroso
- Fibrosi interstiziale, con aumento dello spessore dell’interstizio

Eventuali virus responsabili della patologia possono essere identificati sul campione bioptico tramite
metodiche che permettono di valutare la presenza di genoma virale o tramite sierologia.

Terapia

Il trattamento farmacologico si basa sull’uso di immunosoppressori, come aziotropina o steroidi;


solitamente la miocardite fulminante presenta una risposta migliore ai farmaci rispetto alla miocardite
acuta.

MIOCARDITE A CELLULE GIGANTI – Dispensa

La forma idiopatica è detta miocardite isolata di Fielder, ma può essere secondaria anche a malattie
sistemiche caratterizzate dalla formazione di granulomi e infezioni fungine.
Può colpire qualsiasi fascia d’età e può evolvere verso una prognosi rapidamente infausta.
Istologicamente si caratterizza per la presenza di necrosi, spesso estesa, plasmacellule, eosinofili, linfociti
CD8+, cellule giganti multinucleate e macrofagi; le cellule giganti possono essere miogene o istiocitarie.
È necessaria la diagnosi differenziale con malattia reumatica, sarcoidosi, tubercolosi e granulomi da ife
fungine.

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MIOCARDITE EOSINOFILA IDIOPATICA – Dispensa

Può essere secondaria ad una iper-eosinofilia idiopatica sistemica (malattia di Loeffler) e la fisiopatologia è
collegabile all’azione tossica delle proteine rilasciate dai granuli dei neutrofili.
È possibile osservare anche microtrombi costituiti dalla aggregazione delle cellule eosinofile.

MIOCARDITE NEUTROFILA IDIOPATICA – Dispensa

Va in diagnosi differenziale con miocardite reumatica e tutti i quadri infiammatori che vedono una iniziale
azione dei neutrofili.

MIOCARDITE DA IPERSENSIBILITA’ E DA TOSSICI – Dispensa

Entrambi i tipi di miocardite possono essere causati


da farmaci o sostanze d’abuso, la differenza sta
nella dose: l’effetto tossico si manifesta a dosi
maggiori. La miocardite da ipersensibilità può avere
una latenza di insorgenza e può regredire con la
sospensione dell’assunzione della sostanza.
Le reazioni da ipersensibilità sono caratterizzate da
un elevato grado di miocitolisi, plasmacellule ed
eosinofili, mentre necrosi e fibrosi non sono visibili,
visto che il danno cellulare è limitato.
Nel caso del danno da tossico si hanno vasculiti
necrotizzanti, aree emorragiche, evidenti segni di
necrosi e fibrosi e infiltrato neutrofilo.
Le sostanze coinvolte nelle reazioni da ipersensibilità sono: sulfonamidi, isoniazide, penicilline, tetracicline,
fenilbutazone, metil-dopa, streptomicina, cocaina.
Le sostanze coinvolte nella miocardite da tossico sono: catecolammine, antracicline, anfetamine, barbiturici,
antipertensivi, fluorouracile, teofillina, fenotiazine.

MIOCARDITE DA
MALATTIA DI CHAGAS
– Dispensa

È caratterizzata dalla
presenza del parassita
all’interno delle fibre
muscolari cardiache
ed è associata ad
infiltrato
infiammatorio
composto da
neutrofili, linfociti,
macrofagi e
occasionalmente
eosinofili.

MIOCARDITE ASSOCIATA A MALATTIA DI WHIPPLE – Dispensa

Si ha infiltrazione del miocardio, del pericardio e della valvole da parte di macrofagi PAS+ presenti
all’interno di aree di fibrosi interstiziali. Si hanno strutture bastoncellari e Tropheryma whippelii.

281
ELEMENTI ESSENZIALI DI PATOLOGIA DELLE CARDIOPATIE CONGENITE – Dispensa

Con il termine cardiopatia congenita si intendono le anomalie cardiache o dei grossi vasi presenti alla
nascita. La maggior parte di queste condizioni origina da difetti dell’embriogenesi tra al 3° e la 18°
settimana di gestazione. Le anomalie più gravi sono incompatibili con la sopravvivenza uterina, mentre i
difetti cardiaci congeniti compatibili con lo sviluppo dell’embrione e la nascita sono solitamente difetti
morfogenetici di singole camere o regioni cardiache, come difetti del setto interatriale o interventricolare,
lesioni stenotiche delle valvole o delle camere cardiache e anomalie del tratto di efflusso.
Alcune forme danno luogo a manifestazioni subito dopo la nascita, con il passaggio dalla circolazione fetale
alla circolazione post-natale; circa la metà delle malformazioni
cardiovascolari congenite viene diagnosticata nel primo anno di vita,
ma alcune forme lievi possono rimanere silenti fino all’età adulta.
Piccoli difetti come DIV e DIA vengono rilevati nel 5% dei neonati, ma
essi si chiudono spesso spontaneamente nel primo anno di vita;
considerando i difetti più severi si ha una incidenza di circa l’1%, con
una incidenza maggiore nei neonati prematuri e nei nati morti. I
difetti cardiovascolari congeniti rappresentano la cardiopatia più
comune nei bambini.
Le tecniche di correzione chirurgica dei diversi difetti strutturali
cardiaci sono notevolmente migliorate, ma in alcuni casi non si riesce
a ripristinare la normale funzionalità cardiaca e i pazienti possono
soffrire di aritmie o disfunzioni ventricolari.

Sviluppo cardiaco

Le diverse malformazioni osservate nelle cardiopatie congenite sono causate da errori che si verificano
durante lo sviluppo cardiaco.
I precursori cardiaci originano dal mesoderma laterale e si muovono verso la linea mediana, in due
successive ondate migratorie, per creare un semicerchio di cellule, che comprende il primo e il secondo
abbozzo cardiaco. Ciò avviene intorno al 15° giorno di sviluppo.
Entrambi gli abbozzi cardiaci contengono cellule staminali multipotenti che possono generare tutti i
principali tipi cellulari del cuore, quindi endocardio, miocardio e cellule muscolari lisce. Ogni abbozzo
cardiaco è destinato a dar vita a specifiche porzioni di cuore:
- Primo abbozzo cardiaco → ventricolo sinistro
- Secondo abbozzo cardiaco → tratto di efflusso, ventricolo destro e atri
Entro il 20° giorno l’iniziale semicerchi di cellule diviene un tubo pulsante, che dal 28° giorno si avvolge a
destra e a sinistra e inizia a formare le camere cardiache.
In questo periodo si realizzano due importanti eventi:
- Cellule della cresta neurale migrano nel tratto di efflusso, dove partecipano al processo di
settazione e alla formazione degli archi aortici
- La matrice extracellulare sottostante il futuro canale atrioventricolare e il tratto di efflusso si
espande e dà vita a protuberanze, dette cuscinetti endocardici. Questo processo dipende dalla
delaminazione di un sottotipo di cellule endocardiche, che invadono la matrice extra-cellulare,
proliferano e si differenziano in cellule mesenchimali, responsabili dello sviluppo valvolare.
Entro il 50° giorno si ha la settazione dei ventricoli, degli atri e delle valvole, fino ad arrivare al cuore a
quattro camere.
Il corretto svolgimento di questo processo dipende da diversi fattori di trascrizione, regolati da varie vie di
segnalazione, tra cui le vie di NOTCH, WNT, VEGF, TGF, FGF e bone morphogenetic factor. Molti difetti
genetici che interessano lo sviluppo cardiaco sono mutazioni di questi fattori di trascrizione.
Un ruolo importante nello sviluppo cardiaco è giocato anche dalle forze emodinamiche, infatti, il cuore è
esposto al flusso ematico fin dalle prime fasi dello sviluppo.

282
Eziologia e patogenesi

Le principali cause di cardiopatia congenita sono anomalie genetiche sporadiche, quindi mutazioni
monogeniche, delezioni cromosomiche e aggiunte cromosomiche.
Molte mutazioni monogeniche colpiscono geni codificanti per fattori di trascrizione indispensabili per il
normale sviluppo cardiaco:

I pazienti sono solitamente eterozigoti per queste mutazioni, ciò vuol dire che la riduzione del 50%
dell’attività di questi fattori è sufficiente ad alterare lo sviluppo cardiaco. Alcuni di questi fattori lavorano
insieme in grandi complessi proteici, ecco perché mutazioni di geni diversi possono portare a difetti simili;
ad esempio, GATA4, TBX e NKX2-5 sono reciprocamente collegati e se mutati portano a difetti del setto
interatriale e interventricolare. GATA4 e TBX20 sono mutati anche in rare forme di cardiomiopatia ad
esordio nell’adulto, pertanto la loro azione non è importante solo per lo sviluppo cardiaco, ma anche per la
funzionalità cardiaca post-natale.
Altre mutazioni monogeniche colpiscono proteine delle vie di segnalazione o proteine strutturali. Ad
esempio, mutazioni delle componenti della via di Notch, come JAGGED1, NOTCH1 e NOTCH2, sono
associate a valvola aortica bicuspide e tetralogia di Fallot, mentre mutazioni della fibrillina sono alla basa
della sindrome di Marfan (la fibrillina oltre ad essere una importante proteina strutturale è anche un
regolatore negativo della via del TGFβ).

Anche alcune alterazioni cromosomiche sono associate a cardiopatie congenite:


- La delezione del cromosoma 22q11.2 è associata alla sindrome di De George, in cui il quarto arco
branchiale e i derivati della terza e della quarta tasca faringea si sviluppano in modo anomalo,
pertanto si hanno anomalie di tipo, paratiroidi e cuore.
- La trisomia 21, responsabile della sindrome di Down, è associata, nel 40% dei casi, ad uno o più
difetti cardiaci, soprattutto a carico delle strutture derivanti dai cuscinetti endocardici
283
- Monosomia X (sindrome di Turner)
- Trisomia 13 e trisomia 18

Non tutti i pazienti affetti da cardiopatia congenita presenta però fattori di rischio genetico identificabili,
pertanto si ritiene che abbiano un ruolo anche i fattori ambientali, come rosolia congenita, diabete
gestazionale ed esposizione a teratogeni (inclusi farmaci).
C’è anche un forte interesse nei confronti dell’identificazione di fattori nutrizionali che possano modificare
il rischio, ad esempio l’assunzione di complessi multivitaminici contenenti folato sembra ridurre il rischio di
difetti cardiaci congeniti.

Caratteristiche cliniche

Le anomalie strutturali presenti nella cardiopatie congenite rientrano in 3 importanti categorie:


- Malformazioni che causano shunt sinistro-destro
- Malformazioni che causano shunt destro-sinistro
- Malformazioni che causano ostruzione

Shunt destro-sinistro
Il sangue venoso scarsamente ossigenato si mischia con il sangue arterioso sistemico e si verificano ipossia
e cianosi (cardiopatia congenita cianogena). Le principali cause di shunt destro-sinistro sono tetralogia di
Fallot, trasposizione dei grossi vasi, tronco arterioso persistente, atresia della tricuspide e ritorno venoso
anomalo polmonare totale.
Lo shunt destro-sinistro può causare anche embolia paradossa: eventuali emboli provenienti dalle vene
periferiche non arrivano nei polmoni, ma entrano nel circolo sistemico, portando anche ad infarto
cerebrale.

Shunt sinistro-destro
Determina un aumento del flusso e della pressione nel circolo polmonare, portando a ipertrofia
ventricolare destra e aterosclerosi del sistema vascolare polmonare.
Le arteriole muscolari polmonari rispondono all’aumento di pressione e di flusso con ipertrofia della media
e vasocostrizione, per evitare l’insorgenza di edema polmonare, ma la vasocostrizione polmonare
prolungata stimola la proliferazione delle cellule della parete vascolare e porta allo sviluppo di lesioni
ostruttive irreversibili dell’intima. Come esito finale di questa condizione, le resistenze vascolari polmonari
raggiungono i livelli sistemici e si ha l’inversione dello shunt (sindrome di Eisenmenger).
Quando si sviluppa ipertensione polmonare irreversibile, i difetti strutturali della cardiopatia congenita
sono considerati irreparabili.
Cause di shunt sinistro-destro sono i DIA, i DIV e la pervietà del dotto arterioso.

Cardiopatie congenite ostruttive


Le anomalie dello sviluppo cardiaco, come la coartazione aortica, la stenosi valvolare aortica e la stenosi
valvolare polmonare, che provocano restringimenti anomali delle camere cardiache, delle valvole o dei vasi
sono dette cardiopatie congenite ostruttive; una ostruzione completa è detta atresia.

DIFETTI DEL SETTO INTERATRIALE – DIA

Il difetto del setto interatriale è un’apertura anomala e stabile del setto interatriale causata da una
incompleta formazione del tessuto che consente il passaggio di sangue dall’atrio sinistro all’atrio destro.
I DIA sono solitamente asintomatici fino all’età adulta e possono essere classificati in base alla
localizzazione:
- DIA di tipo ostium secundum (90% dei casi) → deficit o fenestrazione della fossa orale in
prossimità del centro del setto interatriale; possono essere singoli o multipli e di dimensioni
variabili

284
- DIA di tipo ostium primum (5%) → situati in prossimità delle
valvole atrioventricolari e spesso associati ad anomalie
valvolari
- DIA di tipo seno venoso (5%) → localizzati in prossimità
dello sbocco della vena cava superiore, possono essere
associati a ritorno polmonare anomalo

I DIA causano uno shunt sinistro-destro dal momento che le


resistenze vascolari polmonari sono nettamente minori di quelle
sistemiche e la compliance, ovvero la distensibilità, del ventricolo
destro è maggiore di quella del ventricolo sinistro.
I DIA determinano un aumento del flusso ematico polmonare, che diviene pari a 2-8 volte quello normale,
e spesso si associano ad un soffio, dovuto o al passaggio di sangue attraverso il DIA o all’eccessivo flusso
ematico attraverso la valvola polmonare.
I DIA spesso vanno incontro a chiusura spontanea o comunque rimangono asintomatici a lungo.
Le complicanze, rappresentate da scompenso cardiaco, embolia paradossa e malattia vascolare
polmonare irreversibile possono essere prevenute tramite chiusura chirurgica o transcatetere del DIA.
La sopravvivenza a lungo termine è paragonabile a quella della popolazione generale.

FORAME OVALE PERVIO

Il forame ovale pervio è un piccolo foro generato da un lembo aperto di tessuto nel setto interatriale a
livello di fossa ovale. Il forame ovale è un importante shunt destro-sinistro fisiologico nel feto, dal
momento che permette al sangue ossigenato proveniente dalla placenta di bypassare i polmoni non ancora
ventilati, andando direttamente dall’atrio destro all’atrio sinistro.
Il forame ovale si chiude alla nascita come conseguenza dell’aumento di pressione nel cuore destro, almeno
nell’80% dei casi; nel 20% dei casi circa il lembo di tessuto non è sigillato e può aprirsi quando la pressione
del cuore destro aumenta, portando a shunt destro-sinistro, anche transitorio.

Fasi evolutive del setto atriale

Verso la fine della quarta settimana sul tetto dell’atrio primitivo si forma una sottile lamina divisoria, detta
septum primum, che cresce verso i cuscinetti endocardici e il septum intermedium, che divide il canale
atrioventricolare in due fori, dai quali derivano poi le valvole atrioventricolari.
Durante questa fase i due atri sono in comunicazione tramite una apertura, detta ostium primum, che si
riduce progressivamente di dimensioni, fino a scomparire alla fine della 6° settimana.
Prima che si abbia la chiusura dell’ostium primum, nella parte superiore del septum primum compaiono,
grazie a meccanismi di morte cellulare programmata, numerose lacune che confluiscono a formare una
apertura unica, detta ostium secundum, in modo che al comunicazione tra gli atri non venga interrotta.
Tra la 6° e la 7° settimana sul tetto dell’atrio primitivo inizia a formarsi una seconda lamina divisoria, il
septum secundum, immediatamente a destra del septum primum. Anche il septum secundum si dirige
verso i cuscinetti endocardici, ma si arresta prima di raggiungerli, delimitando una apertura detta forame
ovale.
La comunicazione tra gli atri si
interrompe alla nascita, quando
si ha l’inversione della differenza
pressoria tra gli altri, che spinge il
septum primum contro il septum
secundum, formando una parete
divisoria priva di aperture.

285
DIFETTI DEL SETTO INTERVENTRICOLARE – DIV

La chiusura incompleta del setto interventricolare è la forma più comune di anomalia cardiaca congenita
e nella maggior parte dei casi è associata ad altre anomalie cardiache congenite, come la tetralogia di
Fallot; solo il 20-30% dei DIV è isolato.
I DIV sono classificati in base a dimensioni e localizzazione:
- DIV membranoso (90%) → interessa il setto interventricolare membranoso
- DIV infundibolare → localizzato al di sotto della valvola polmonare
- DIV muscolare → localizzato nella porzione muscolare del setto
Le conseguenze cliniche dipendono dalle
dimensioni del difetto e dalla associazione con
altre anomalie; i DIV estesi causano problemi
quasi subito dopo la nascita, mentre difetti di
piccole dimensioni possono passare
inosservati per anni.
Circa il 50% dei DIV muscolari si chiude
spontaneamente, mentre i DIV membranosi o
infundibolari sono spesso di dimensioni
maggiori e comportano un significativo shunt
sinistro-destro, con ipertrofia ventricolare
destra e ipertensione polmonare. Se il DIV
non viene trattato il paziente sviluppa
malattia polmonare vascolare irreversibile,
inversione dello shunt e cianosi e va incontro
a morte.
Anche in questo caso il difetto può essere
chiuso chirurgicamente o transcatetere.

DOTTO ARTERIOSO PERVIO – PDA

Il dotto arterioso pervio, o dotto di Botallo pervio, si verifica quando il dotto


arterioso rimane pervio anche dopo la nascita. Nella circolazione fetale il dotto
arterioso devia il sangue dall’arteria polmonare all’aorta, in modo da bypassare i
polmoni. In circa il 90% dei casi questa anomalia è isolata.
L’impatto clinico del dotto arterioso pervio dipendono da diametro e condizioni
cardiovascolari del paziente; inizialmente causa uno shunt sinistro-destro, ma
successivamente, a causa delle alterazioni ostruttive delle arteriole polmonari, si
ha l’inversione dello shunt.
In alcuni casi la pervietà del dotto arterioso viene ricercata e mantenuta a scopi
terapeutici, somministrando prostaglandina E: ad esempio, in caso di atresia
valvolare aortica il PDA permette di garantire un flusso sistemico accettabile.

DIFETTI DEL SETTO ATRIOVENTRICOLARE – DSAV

Il difetto del setto atrioventricolare deriva da una anomala fusione dei cuscinetti endocardici superiore ed
inferiore del canale atrioventricolare embrionale, che comporta una incompleta chiusura del setto
atrioventricolare e la malformazione delle valvole tricuspide e mitrale.
Le forme più comuni sono:
- DSAV parziale → consiste in un DIA tipo ostium primum e in un cleft del lembo anteriore mitralico,
con conseguente insufficienza mitralica
- DSVA completo → si ha un’unica ampia valvola atrioventricolare e tutte e quattro le camere
cardiache comunicano liberamente (spesso associato a sindrome di Down)

286
TETRALOGIA DI FALLOT

Si tratta di una cardiopatia congenita cianogena, ovvero associata a


shunt destro-sinistro.
Presenta quattro caratteristiche fondamentali:
- DIV
- Ostruzione del tratto di efflusso del ventricolo destro (stenosi
sottopolmonare)
- Aorta a cavaliere del DIV, che quindi riceve sangue da entrambi i
ventricoli
- Ipertrofia ventricolare destra
Le prime tre alterazioni derivano embriologicamente dalla dislocazione
anterosuperiore del setto infundibolare, mentre l’ipertrofia ventricolare
destra è dovuta al sovraccarico pressorio. Inoltre, si può avere anche la
stenosi della valvola polmonare, che aggrava l’ostruzione dovuta alla stenosi sottopolmonare. In altri casi
ancora si ha la completa atresia della valvola polmonare e di porzioni di arterie polmonari e la
sopravvivenza può essere garantita solo attraverso la presenza di dotto arterioso pervio e arterie bronchiali
dilatate. Vi si possono associare anche insufficienza valvolare aortica o DIA.

Le conseguenze cliniche dipendono principalmente dalla gravità della stenosi sottopolmonare, poiché da
essa dipende la direzione del flusso sanguigno:
- Stenosi lieve → l’anomalia mima un DIV isolato e si ha shunt sinistro-destro (si parla di Fallot rosa)
- Stenosi moderata-grave → con l’aumentare della gravità della ostruzione aumenta la resistenza
all’efflusso destro e aumento pressorio nel cuore destro, fino ad avere uno shunt destro-sinistro,
che provoca cianosi. Con l’aumentare della gravità della stenosi le arterie polmonari diventano
progressivamente più piccole ed ipoplasiche, mentre l’aorta si dilata.
L’ostruzione aumenta progressivamente man mano che il bambino cresce, dal momento che il cuore
aumenta di dimensioni ma l’orifizio polmonare non si espande proporzionalmente.
La stenosi sottopolmonare, tuttavia, protegge il circolo polmonare dal sovraccarico pressorio e lo
scompenso cardiaco destro è raro dal momento che il sangue viene deviato nel circolo sistemico.

TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE – TGA

La trasposizione delle grandi arterie provoca discordanza ventricolo-arteriosa: nella variante più comune
l’aorta origina dal ventricolo destro e decorre anteriormente e alla destra dell’arteria polmonare, che
deriva dal ventricolo sinistro (dextro-TGA). Il difetto embrionale sottostante è rappresentato dalla anomala
formazione dei setti truncali e aortopolmonari.
287
Questa condizione porta quindi alla separazione della
circolazione sistemica da quella polmonare e risulta
incompatibile con la vita post-natale, a meno che non vi
sia associata un’altra anomalia, come un DIV, che
consenta l’instaurarsi di uno shunt.
Il ventricolo destro diviene rapidamente ipertrofico, dal
momento che funge da ventricolo sistemico, mentre il
ventricolo sinistro va incontro a progressiva atrofia, visto
che supporta la circolazione polmonare a bassa resistenza.
Senza intervento la maggior parte dei pazienti muore
dopo pochi mesi di vita.

Una variante meno comune è la levo-TGA in cui l’atrio destro è connesso a un


ventricolo che presenta morfologia del ventricolo sinistro e si svuota nelle arterie
polmonari e l’atrio di sinistra è connesso ad un ventricolo che presenta la morfologia
del ventricolo destro e si svuota in aorta. Non porta a cianosi e può rimanere
asintomatica fino all’età adulta. Comporta ipertrofia del ventricolo
morfologicamente destro connesso all’aorta e scompenso cardiaco.

TRONCO ARTERIOSO PERSISTENTE – TAP

Origina dalla mancata divisione del tronco arterioso embrionale in aorta e arteria polmonare: si ha
un’unica grande arteria che riceve sangue da entrambi i ventricoli e dà origine alla circolazione sistemica,
alla circolazione polmonare e alla circolazione coronarica. Dal momento che vi si associa un DIV, questa
condizione comporta cianosi e aumentato flusso sanguigno polmonare.

ATRESIA DELLA TRICUSPIDE

Consiste nella occlusione completa dell’orifizio della


valvola tricuspide e deriva embriologicamente da una
ineguale divisione del canale atrioventricolare, pertanto
la valvola mitrale risulta più ampia del normale e si ha
ipoplasia del ventricolo destro. La circolazione è
mantenuta, in una certa misura, dalla presenza di un
DIA e di un DIV. La cianosi è presente poco dopo la
nascita e si ha un’alta mortalità nei primi mesi di vita.

RITORNO VENOSO POLMONARE ANOMALO TOTALE – RVPAT

In questo caso le vene polmonari non si uniscono direttamente all’atrio


sinistro, ma affluiscono all’atrio destro o alle vene sistemiche; questa
anomalia deriva da un mancato sviluppo della arteria polmonare comune.
Lo sviluppo fetale è reso possibile da canali venosi sistemici primitivi che
drenano dal polmone nella vena anonima sinistra o nel seno coronarico.
Questo difetto si associa sempre ad un forame ovale pervio o ad un DIA,
che permettono al sangue venoso polmonare si entrare nell’atrio
sinistro.
Il RVPAT determina ipertrofia e dilatazione del cuore destro, dilatazione
del tronco polmonare e ipoplasia dell’atrio sinistro.

288
COARTAZIONE AORTICA

È una delle più comuni malformazioni strutturali e sembra interessare maggiormente il sesso maschile,
anche se spesso è associata a sindrome di Turner.
Se ne distinguono due forme “classiche”:
- Forma infantile → ipoplasia tubulare dell’arco aortico prossimale e dotto arterioso pervio
- Forma adulta → discreto strozzamento eccentrico dell’aorta a livello di legamento arterioso (che
deriva dal dotto arterioso chiuso)
Nel 50% dei casi questa malformazione si accompagna alla presenza di valvola aortica bicuspide, ma può
essere anche isolata o associata ad stenosi aortica, DIA, DIV, insufficienza mitralica e aneurismi del poligono
di Willis.

Morfologicamente si distinguono:
- Coartazione preduttale → restringimento
localizzato tra succlavia sinistra e dotto
arterioso; il dotto arterioso risulta
tipicamente pervio e rappresenta la
principale fonte di sangue non ossigenato
che viene riversato nel circolo sistemico. Il
tronco polmonare risulta dilatato per
adeguarsi all’aumento di flusso sanguigno e
il ventricolo destro è ipertrofico
- Coartazione post-duttale → l’aorta è
costretta da una porzione di tessuto
adiacente al legamento arterioso; l’arco
aortico e i suoi rami sono dilatati, prossimalmente alla coartazione, e il ventricolo sinistro è
ipertrofico. Questa forma è più comune negli adulti.

La clinica dipende dalla gravità del restringimento e dalla pervietà del dotto arterioso: la coartazione con
PDA risulta sintomatica poche settimane dopo la nascita, infatti, il passaggio di sangue non ossigenato
attraverso il dotto arterioso pervio provoca cianosi e senza un intervento si ha una elevata mortalità.
La coartazione senza PDA è invece spesso asintomatica e passa inosservata fino all’età adulta, quando si
osservano ipertensione degli arti superiori, polsi deboli, ipotensione degli arti inferiori, claudicatio, ecc.
Caratteristica particolare negli adulti è lo sviluppo del circolo collaterale tra rami arteriosi a monte della
coartazione e arterie a valle della coartazione, tramite le arterie intercostali e mammarie interne dilatate,
che provocano erosioni visibili radiologicamente (“incisure”) delle superfici inferiori delle coste.
In presenza di coartazione significativa si hanno soffi olosistolici, fremito e cardiomegalia, a causa
dell’ipertrofia ventricolare sinistra.

289
STENOSI E ATRESIA POLMONARE

Si ha una ostruzione, di gravità variabile, a livello di valvola polmonare; può essere associata o meno ad
altre malformazioni. Spesso comporta ipertrofia ventricolare destra e dilatazione post-stenotica
dell’arteria polmonare (quest’ultima è assente in caso di associazione con stenosi sottopolmonare).
In caso di completa atresia viene meno la comunicazione tra ventricolo destro e polmoni, si ha
l’associazione con un DIA e il sangue giunge ai polmoni attraverso un dotto arterioso pervio.

STENOSI E ATRESIA AORTICA

Il restringimento e l’ostruzione congeniti della valvola aortica possono verificarsi in tre livelli:
- Stenosi aortica valvolare
Le cuspidi valvolari possono essere ipoplasiche, diplastiche o anomale nel numero.
L’ostruzione all’efflusso comporta ipoplasia del ventricolo sinistro e dell’aorta ascendente, talvolta
associata a fibroelastosi endocardica ventricolare sinistra a porcellana. Il dotto arterioso deve
essere pervio per mantenere il flusso ematico in aorta. Questa condizione, nota come sindrome del
cuore sinistro ipoplasico, risulta fatale nella prima settimana di vita, quando il dotto arterioso si
chiude.
- Stenosi aortica sottovalvolare
Si ha un ispessimento anulare o collare (a forma di tunnel) di tessuto fibroso endocardico denso al
di sotto delle cuspidi valvolari.
- Stenosi aortica sopravalvolare
La parete dell’aorta ascendente è ispessita e si ha restringimento del lume.
In alcuni casi è correlata a delezioni a livello del cromosoma 7, che interessano anche il gene
dell’elastina e comportano anche ipercalcemia, anomalie cognitive e caratteristiche anomalie del
volto (sindrome di Williams-Beuren).

290
VALVULOPATIE

La patologia valvolare può manifestarsi con stenosi, insufficienza o entrambe; le anomalie valvolari possono
essere congenite o acquisite.
La stenosi consiste nella incapacità della valvola di aprirsi completamente, con conseguente ostacolo al
flusso anterogrado.
L’insufficienza consiste nella incapacità della valvola di chiudersi completamente, condizione che
comporta quindi un flusso retrogrado.
Queste alterazioni possono presentarsi singolarmente o coesistere e possono interessare una sola o più
valvole contemporaneamente.
Le conseguenze cliniche della disfunzione valvolare dipendono dalla valvola coinvolta, dalla gravità della
disfunzione, dalla rapidità di sviluppo della disfunzione ed dalla efficacia dei meccanismi compensatori.
Ad esempio, l’improvviso cedimento di una cuspide valvolare aortica causata da una endocardite può
determinare una insufficienza massiva acuta, anche fatale, mentre una stenosi aortica reumatica si sviluppa
lentamente negli anni, con conseguenze cliniche ben tollerate.
Alcune condizioni che aumentano la richiesta cardiaca, come la gravidanza, possono esacerbare una
valvulopatia sottostante.
La stenosi e l’insufficienza valvolare possono provocare alterazioni secondarie, sia prossimalmente che
distalmente rispetto alla valvola colpita; generalmente la stenosi valvolare implica un sovraccarico
pressorio del cuore, mentre l’insufficienza valvolare un sovraccarico di volume. Inoltre, l’eiezione di
sangue attraverso valvole stenotiche può determinare un flusso turbolento ad alta velocità che danneggia
l’endocardio.
La stenosi è tipicamente dovuta ad una anomalia cronica delle cuspidi valvolari, mentre l’insufficienza può
essere dovuta sia a difetti intrinseci delle cuspidi che ad alterazioni delle strutture di sostegno valvolari.

Le cause più frequenti dei principali difetti valvolari sono:


- Stenosi aortica → calcificazione valvolare
- Insufficienza aortica → dilatazione aorta ascendente
- Stenosi mitralica → malattia reumatica
- Insufficienza mitralica → degenerazione mixomatosa (prolasso della valvola mitrale)

DENEGERAZIONE CALCIFICA VALVOLARE

Le valvole cardiache sono sottoposte a stress meccanici ripetuti, soprattutto a livello delle cerniere delle
cuspidi e dei lembi, a causa delle ripetute contrazioni cardiache, della deformazione tissutale che si verifica
ad ogni contrazione e del gradiente pressorio transvalvolare che si instaura in fase di chiusura (120 mmHg
per la mitrale e 80 mmHg per la valvola aortica).
Le valvole subiscono quindi un danno cumulativo e vanno incontro a calcificazioni distrofiche.
291
Stenosi aortica calcifica

La stenosi aortica acquisita è la più comune anomalia valvolare ed è conseguenza di un processo di usura e
lacerazione associato all’età che colpisce sia le valvole anatomicamente normali che le valvole bicuspidi.
La stenosi aortica di valvole anatomicamente normali, detta stenosi aortica calcifica senile, si manifesta
clinicamente tra i 70 e i 90 anni, mentre la stenosi di valvole bicuspidi tende a manifestarsi prima, in
pazienti dai 50 ai 70 anni. Le valvole bicuspidi vanno incontro a stenosi calcifica più rapidamente poiché
sono sottoposte ad uno stress meccanico maggiore.
Nella degenerazione calcifica si ha l’accumulo di Sali di fosfato di calcio, ma si è visto che anche
l’iperlipidemia, l’ipertensione, l’infiammazione e altri fattori coinvolti nella aterosclerosi hanno un ruolo
nel danno valvolare, nonostante il danno valvolare calcifico differisca dall’aterosclerosi per diversi aspetti.
In particolare, anziché cellule muscolari lisce, le valvole accumulano cellule simil-osteoblastiche che
sintetizzano proteine della matrice ossea e promuovono la deposizione di Sali di calcio.

Morfologicamente la stenosi aortica calcifica è caratterizzata da dalla presenza di masserelle calcifiche


nelle cuspidi, che protrudono dalle superfici di efflusso all’interno dei seni del Valsalva e impediscono
l’apertura delle cuspidi stesse. I margini liberi delle cuspidi non sono in genere coinvolti.
Il processo calcifico inizia nella parte fibrosa della valvola, in prossimità dei margini di inserzione delle
cuspidi, ovvero nei punti di massima flessione della cuspide. Nelle fasi precoci il processo di calcificazione,
ancora emodinamicamente ininfluente, viene detto sclerosi valvolare aortica.
Microscopicamente l’architettura stratificata della valvola è conservata.

La stenosi aortica calcifica conduce ad un graduale restringimento dell’orifizio valvolare e ad un aumento


del gradiente pressorio attraverso la valvola, che raggiunge, nei casi più gravi, i 75-100 mmHg. Si ha quindi
un sovraccarico pressorio del ventricolo sinistro, che diviene ipertrofico e tende ad essere ischemico, con
conseguente insorgenza di angina pectoris. Si possono avere anche sincope e scompenso cardiaco.

La valvola aortica bicuspide, con una prevalenza dell’1%, è la malformazione cardiovascolare congenita più
frequente; sebbene non presenti complicanze nei primi anni di vita, la valvola aortica bicuspide predispone
all’insorgenza di stenosi aortica, insufficienza aortica, endocardite infettiva e dilatazione aortica. Anomalie
strutturali della parete aortica spesso accompagnano la valvola aortica bicuspide e aumentano il rischio di
dilatazione e dissecazione aortica.
In una valvola aortica congenitamente bicuspide ci sono solo due cuspidi funzionali, solitamente di
dimensioni diverse, la più grande delle quali ha un rafe mediano che risulta dall'incompleta separazione
commissurale durante lo sviluppo. Il rafe è frequentemente la principale sede delle calcificazioni.

Calcificazione dell’anulus mitralico

Nell’anulus mitralico possono svilupparsi depositi calcifici di natura degenerativa, che macroscopicamente
appaiono come noduli irregolari, duri, talvolta ulcerati di 2-5 mm di spessore, situati dietro i lembi valvolari.
Solitamente la calcificazione dell’anulus non compromette la funzionalità valvolare e non diviene
clinicamente evidente.

292
Raramente la calcificazione anulare può portare a:
- Insufficienza valvolare, dal momento che interferisce con la contrazione fisiologica dell’anulus
- Stenosi, se impedisce l’apertura dei lembi valvolari
- Aritmie, se i depositi di calcio penetrano in profondità e compromettono il sistema di conduzione
atrioventricolare
I noduli calcifici aumentano il rischio di endocardite infettiva e ictus, dal momento che possono costituire
una sede di apposizione trombotica con possibilità di embolizzazione.
Le calcificazioni dell’anulus mitralico sono più frequenti nelle donne dopo i 60 anni e nei pazienti con
prolasso mitralico o elevata pressione ventricolare sinistra (ipertensione sistemica, stenosi aortica,
cardiomiopatia ipertrofica).

PROLASSO DELLA VALVOLA MITRALE

Nel prolasso della valvola mitrale uno o entrambi i lembi valvolari risultano di consistenza molle e
prolassano, sporgendo nell’atrio sinistro durante la sistole. L’alterazione istologica che definisce questa
forma di valvulopatia è la degenerazione mixomatosa.
I lembi valvolari risultano spesso slargati, ispessiti e gommosi; le corde tendinee possono essere allungate,
assottigliate o rotte e l’anulus mitralico può essere dilatato.
Questa condizione può colpire anche le valvole tricuspide, aortica e polmonare.

Istologicamente si ha l’assottigliamento dello strato fibroso valvolare, da cui dipende l’integrità strutturale
dei lembi, e il marcato ispessimento dello strato spongioso, a causa della deposizione di materiale
mucoide di aspetto mixomatoso.
Le lesioni secondarie, espressione del danno meccanico cui sono sottoposti i lembi, sono:
- Ispessimento fibroso dei lembi valvolari, soprattutto nei punti di attrito reciproco
- Ispessimento fibroso lineale dell’endocardio del ventricolo sinistro, nei punti in cui le corde
tendine allungate generano attrito contro di esso
- Ispessimento dell’endocardio ventricolare o atriale, come effetto della frizione dei lembi prolassati
- Formazione di trombi a livello dei lembi
- Calcificazioni alla base del lembo mitralico posteriore

293
Nella maggior parte dei casi le alterazioni dei lembi valvolari hanno eziologia ignota, ma in altri casi la
degenerazione mixomatosa è associata a malattie ereditarie del connettivo, inclusa la sindrome di Marfan.
La sindrome di Marfan è riconducibile a mutazioni del gene codificante per al fibrillina: tali mutazioni
alterano l’interazione cellula-matrice e deregolano la via del TGF-β; alla base della degenerazione
mixomatosa potrebbe esserci proprio l’eccesso di TGF, come dimostra che in topi geneticamente modificati
il prolasso della mitrale può essere prevenuto da inibitori del TGF-β.

Spesso il prolasso mitralico è asintomatico e diagnosticato in maniera accidentale, ad esempio per


l’auscultazione del click mesosistolico dovuto alla brusca tensione dei lembi valvolari e delle corde tendine
quando la valvola cerca di chiudersi. La diagnosi può essere confermata tramite ecografia.
Una minoranza dei pazienti presenta dolore toracico, dispnea e affaticamento; possibili complicanze sono:
endocardite infettiva, insufficienza mitralica, formazione di trombi a livello valvolare e conseguenti emboli
aritmie.

FEBBRE REUMATICA

La febbre reumatica è una patologia infiammatoria acuta immuno-mediata multisistemica che si presenta
qualche settimana dopo un episodio di faringite da streptococco di gruppo A.
Durante la fase attiva della febbre reumatica si può avere cardite reumatica attiva, che può poi progredire
in cardiopatia reumatica cronica, con anomalie valvolari. Altri tessuti coinvolti nella febbre reumatica sono
articolazioni e cute.
La cardiopatia reumatica è caratterizzata da valvulopatia fibrotica deformante che causa soprattutto
stenosi mitralica.
L’incidenza della cardiopatia reumatica si è notevolmente ridotta, grazie alle miglior tecniche di diagnosi e
trattamento delle infezioni da streptococco e alle migliori condizioni socioeconomiche, ma rimane ancora
diffusa nei paesi in via di sviluppo.

Nella fase acuta della febbre reumatica possono essere riscontrate lesioni infiammatorie in diversi tessuti.
Nel cuore si hanno lesioni caratteristiche, i corpi di Aschoff, che sono costituiti da focolai di linfociti,
soprattutto linfociti T, plasmacellule e grossi
macrofagi detti cellule di Anitschkow (patognomici
per la febbre reumatica). Questi macrofagi sono
caratterizzati da citoplasma abbondante, nucleo
tondo o ovoidale e cromatina centrale disposta a
formare un nastro sottile e ondulato (queste cellule
sono dette anche cellule a bruco); alcuni macrofagi
possono essere multinucleati.
Durante la febbre reumatica acuta si possono avere contemporaneamente pericardite, miocardite ed
endocardite (pancardite).
L’infiammazione dell’endocardio e delle valvole esita tipicamente in necrosi fibrinoide delle cuspidi o delle
corde tendinee. Sopra questi focolai necrotici si trovano piccole vegetazioni, di 1-2 mm, denominate
verruche: la febbre reumatica rientra nelle forme di endocardite vegetativa (insieme a endocardite
infettiva, endocardite trombotica non batterica e endocardite di Libman-Sacks).
Le lesioni sub-endocardiche, continuamente sollecitate, possono dare luogo a ispessimenti irregolari, detti
placche di MacCallum, generalmente localizzati nell’atrio sinistro.

Nella febbre reumatica è tipicamente colpita la valvola mitrale, che va incontro a ispessimento dei lembi,
fusione delle commissure e accorciamento, ispessimento e fusione delle corde tendinee: si ha quindi
stenosi valvolare mitralica.
Se la stenosi mitralica è grave l’atrio sinistro si dilata progressivamente, condizione che predispone alla
formazione di trombi murali nell’auricola. Si ha una persistente congestione polmonare che porta ad

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alterazioni della circolazione polmonare e ipertrofia del ventricolo destro. Nella stenosi mitralica isolata il
ventricolo sinistro è generalmente normale.
La miocardite può causare dilatazione cardiaca e insufficienza mitralica funzionale

La febbre reumatica è causata dalla risposta immune contro gli streptococchi di gruppo A: anticorpi diretti
contro le proteine M degli streptococchi cross-reagiscono con antigeni self cardiaci, così come cellule T,
che producono citochine e richiamano i macrofagi a livello cardiaco.
La febbre reumatica si manifesta nel 3% dei pazienti con faringite da streptococco.

La febbre reumatica si manifesta con:


- Poliartrite migrante delle grandi articolazioni
- Pancardite
- Noduli sottocutanei
- Eritema marginato della cute
- Corea di Syndeham
La diagnosi di basa sui criteri di Jones:
- Precedente infezione da streptococchi di gruppo A + una delle manifestazioni appena elencate
- Oppure una delle manifestazioni elencate + un sintomo non specifico, come febbre, artralgia,
proteine della fase acuta aumentate
Possono anche essere rilevati anticorpi diretti contro gli antigeni streptococcici

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ENDOCARDITE INFETTIVA – Dispensa

L’endocardite infettiva è una grave infezione caratterizzata dalla colonizzazione o invasione delle valvole
cardiache o dell’endocardio parietale da parte di microorganismi. L’infezione causa la formazione di
vegetazioni, costituite da detriti trombotici e microorganismi, che distruggono i tessuti sottostanti.
Dal punto di vista clinico le endocarditi sono classificate in acute e subacute: la gravità e l’andamento
temporale della malattia sono determinanti dalla virulenza del microorganismo infettante e dalla eventuale
presenza di una preesistente cardiopatia.
L’endocardite infettiva acuta è tipicamente dovuta ad un microorganismo altamente patogeno (S. aureus)
che colpisce valvole cardiache anatomicamente normali provocando lesioni destruenti, ulcerate e
necrotizzanti. Queste forme richiedono spesso un trattamento chirurgico e sono associate ad una alta
mortalità.
L’endocardite infettiva subacuta è invece dovuta a microorganismi meno virulenti (S. viridans) che
attaccano valvole anatomicamente alterate; queste forme hanno un decorso lungo, ma solitamente il
paziente guarisce con la terapia antibiotica.

Eziologia e patogenesi

L’endocardite infettiva può insorgere anche su valvole anatomicamente normali, ma le principali condizioni
predisponenti sono malattia reumatica, prolasso della mitrale, stenosi valvolare calcifica degenerativa,
valvola aortica bicuspide, protesi valvolare e difetti cardiaci congeniti, sia corretti chirurgicamente che no.
Importanti fattori predisponenti sono anche quelli correlati alla immissione in circolo di microorganismi,
come procedure chirurgiche e odontoiatriche, abuso di droghe per via endovenosa, soluzioni di continuità
presenti nella mucosa intestinale o orale o nella cute.
L’endocardite delle valvole compromesse è causata, nel 50-60% dei casi da streptococco viridans, normale
componente della flora del cavo orale.
Lo S. aureus può invece infettare sia valvole sane che valvole danneggiate ed è responsabile del 10-20% di
tutte le endocarditi infettive.
Altri patogeni responsabili di endocardite infettiva sono: Haemophilus, Actinobacillus, Cardiobacterium,
Eikenella, Kingella, S. epidermidis (responsabile di endocardite su protesi valvolare), bacilli Gram – e
funghi.
Nel 10-15% dei casi si endocardite non si riesce ad isolare il patogeno responsabile: si parla di endocardite a
coltura negativa.

Morfologia

Il segno distintivo della endocardite infettiva è la presenza sulle valvole cardiache di vegetazioni destruenti,
voluminose e friabili, contenti fibrina, cellule infiammatorie e microorganismi. Solitamente sono coinvolte
la valvola mitralica e la valvola aortica, ma tra i tossicodipendenti sono comuni le endocarditi del cuore
destro.
Dalle vegetazioni vengono liberati emboli settici; spesso le vegetazioni causano erosioni del miocardio
sottostante, creando cavità ascessuali, e distruggono le valvole colpite. Con il tempo possono svilupparsi
fibrosi, calcificazioni e infiltrato infiammatorio cronico.

Clinica e diagnosi

Il segno più costante di endocardite infettiva è la febbre, associata a brividi, debolezza, astenia, calo
ponderale; in alcuni pazienti, soprattutto anziani, la febbre può essere assente. Nel 90% dei pazienti con
endocardite infettiva sinistra si hanno soffi cardiaci.
Si possono avere anche complicanze, come:
- Glomerulonefrite da deposito di immunocomplessi
- Sepsi

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- Aritmie, dovute all’invasione del miocardio e del sistema di conduzione
- Embolizzazione sistemica
- Ascessi del miocardio
Se non trattata l’endocardite infettiva è generalmente fatale.

La diagnosi si basa sui criteri di Dukes:

Se ci si basa sui criteri clinici per la diagnosi sono necessari


2 criteri maggiori o 1 criterio maggiori e due criteri minori o
5 criteri minori.

La diagnosi precoce e il trattamento hanno quasi eliminato


alcune manifestazioni tardive della endocardite infettiva
- Lesioni di Janeway → lesioni eritematose o
emorragici presenti sui palmi delle mani o sulle piante dei
piedi, secondarie ad emboli settici
- Noduli di Osler → piccoli noduli sottocutanei molli
che si sviluppano tipicamente sui polpastrelli delle dita
- Macchie di Roth → emorragie retiniche ovalari

VEGETAZIONI NON INFETTIVE

Endocardite trombotica non batterica – ETNB

È caratterizzata dal deposito di piccoli trombi sterili sui lembi delle valvole cardiache. Tali lesioni misurano
da 1 a 5 mm, possono essere singole o multiple e istologicamente si presentano come materiale
trombotico lassamente adeso alla valvola. Si tratta di vegetazioni non invasive che non determinano
alcune reazione infiammatoria locale, ma che possono dar vita ad emboli sistemici.
Spesso insorge in pazienti debilitati o con uno stato di ipercoagulabilità sistemica; la ETNB risulta associata
ad adenocarcinomi mucinosi, per l’effetto procoagulante della mucina, e a sindromi paraneoplastiche.

Endocardite in corso di LES – morbo di Libman-Sacks

Le vegetazioni in questo caso hanno un aspetto verrucoso, sono di colore rosa e misurano 1-4 mm di
diametro; possono interessare sia le valvole, sia l’endocardio e le corde tendinee. Tali lesioni sono
costituite da materiale fibrinoso eosinofilo, finemente granulare, che può contenere residui omogenei di
nuclei danneggiati dagli anticorpi anti-nucleo tipici del lupus. Le lesioni si manifestano come conseguenza
del deposito di immunocomplessi e reclutamento di cellule dell’immunità.

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CARDIOMIOPATIE – Dispensa

Il termine cardiomiopatia indica una cardiopatia derivante da una alterazione del miocardio. Le
cardiomiopatie sono un gruppo eterogeno di patologie del miocardio associate ad alterazioni strutturale
o funzionale, quindi elettrica, dello stesso, le cui cause sono spesso genetiche, ma talvolta si tratta anche
di condizioni acquisite.
Le cardiomiopatie possono essere classificate come primitive, se limitate prevalentemente al muscolo
cardiaco, o secondarie, se il coinvolgimento del muscolo cardiaco rientra nel quadro di una malattia
sistemica o multiorgano.

La cardiomiopatia può essere:


- Dilatativa, con dilatazione delle camere
cardiache (è la forma più comune: 90%
dei casi)
- Ipertrofica, con ispessimento della parete
ventricolare
- Restrittiva, con limitazione della
compliance in diastole e in sistole

Un’altra rara forma di cardiomiopatia è il ventricolo sinistro non compatto, patologia congenita
caratterizzata dall’aspetto spongioso del miocardio ventricolare sinistro e associata a scompenso cardiaco o
aritmie. Anche le mutazioni geniche che alterano la funzionalità dei canali ionici sono state recentemente
incluse nelle cardiomiopatie primitive.
In questa trattazione la cardiomiopatia ventricolare destra aritmogena è inclusa nella cardiomiopatia
dilatativa, ma alcuni la considerano una entità separata.
Vi è ovviamente uno spettro di gravità di queste condizioni e spesso vi è una sovrapposizione delle
caratteristiche cliniche delle varie cardiomiopatie.
Per la diagnosi e il monitoraggio delle cardiomiopatie si ricorre alla biopsia endomiocardica, che implica
l’inserimento del biotomo per via trans-venosa nel cuore destro e il prelievo di frammenti di miocardio
settale.

Le cardiomiopatie primitive possono essere genetiche, acquisiste o miste. Tra le forme genetiche vi sono
diverse patologie, tra cui delle cardiomiopatie mitocondriali; tra le forme acquisite si ha ad esempio la
cardiomiopatia peripartum.

Le cardiomiopatie secondarie possono essere:


- Infiltrative, causate ad esempio da amiloidosi
- Da accumulo, dovute ad esempio a malattie lisosomiali, come la malattia di Fabry
- Da tossici, dovute a droghe o metalli pesanti
- Infiammatorie
- Endocrine

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- Neuromuscolari, associate a distrofinopatie,
come la distrofia di Duchenne e la distrofia
di Baker, meno grave, che comportano un
danno cardiaco e cardiomiopatia dilatativa
che necessita del trapianto di cuore.
- Nutrizionali
- Autoimmuni, associate a LES, sclerodermia,
dermatomiosite
- Dovute a terapie antitumorali

Vi sono anche forme idiopatiche di cardiomiopatia.


Recentemente sono stati identificati alcuni geni
coinvolti nelle cardiomiopatie, soprattutto per
quanto riguarda la cardiomiopatia ipertrofica,
mentre le conoscenze sulle forme dilatative sono più esigue.
Se si prendono in considerazione le proteine deficitarie, le cardiomiopatie possono essere distinte in:
- Patologie in cui si ha l’alterazione delle proteine del complesso di membrana (distrofinopatie)
- Patologie correlate all’alterazione delle proteine costituenti la porzione contrattile del muscolo
- Patologia correlate alla alterazione di geni codificanti per proteine costituenti il citoscheletro e il
nucleo della cellula muscolare (laminina e desmina)

Sono state differenziate tre tipologie di lesioni geniche, alla base delle tre tipologie di cardiomiopatia:
- Le cardiomiopatie ipertrofiche sono in genere associate a mutazioni di geni che codificano per le
proteine del sarcomero
- Le cardiomiopatie dilatative sembrano invece associate a mutazioni dei geni che codificano per il
citoscheletro, anche se in alcuni casi mutazioni dei geni sarcomerici danno quadri di cardiomiopatia
ipertrofica e dilatativa
- La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è dovuta a mutazioni di geni codificanti per le
proteine dei desmosomi, ovvero le giunzioni cellulari presenti nei dischi intercalari; questa forma di
cardiomiopatia può essere in realtà dovuta anche a mutazioni di geni che codificano per proteine
del citoscheletro.

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CARDIOMIOPATIA DILATATIVA

La cardiomiopatia dilatativa è caratterizzata da una progressiva dilatazione cardiaca con disfunzione delle
contrattilità, in genere associata a ipertrofia.
Si ha quindi una dilatazione cardiaca in assenza di patologia coronarica, ipertensiva o valvolare; molti casi
sono idiopatici, anche se vi sono casi familiari. Colpisce soprattutto il sesso maschile e la razza nera e ha una
incidenza di 6 casi ogni 100.000 abitanti.
Il cuore risulta ingrandito, dalle due alle tre volte più pesante del normale e flaccido, a causa della
dilatazione di tutte le camere. La dilatazione delle camere cardiache può portare alla formazione di trombi
murali e a insufficienza valvolare funzionale; può essere presente fibrosi interstiziale ed endocardica.

Istologia

Le caratteristiche istologiche sono:


- Ipertrofia dei miociti con aspetti degenerativi: si hanno nuclei ingranditi circondati da un alone
privo di componente contrattile
- Nuclei polimorfi, ipercromici e con profilo irregolare della membrana.
Nella cardiomiopatia dilatativa causata da mutazioni a carico del gene
della titina, i nuclei assumono un aspetto a Ninja star (si tratta di un
reperto aspecifico, ma se rinvenuto in più del 5% dei miociti è
suggestivo di mutazioni a carico della titina)
- Aspetti infiammatori con infiltrato variabile, a causa della
degenerazione cellulare
- Vacuolizzazione e perdita delle componente contrattile del miocita, evidenziabili tramite
microscopia elettronica
- Tessuto fibroso, che va a sostituite i miociti persi.
Fibrosi e cicatrici sono probabilmente dovute alla riparazione della necrosi ischemica miocitaria,
dovuta allo sbilanciamento, indotto dall’ipertrofia, tra perfusione e richiesta di ossigeno del
miocardio. Il tessuto connettivo che si forma è costituito soprattutto da collagene di tipo I che
determina rigidità e accentua la disfunzione diastolica.
Le anomalie istologiche della cardiomiopatia dilatativa sono aspecifiche e solitamente non permettono di
risalire ad uno specifico agente eziologico; inoltre, la gravità delle alterazioni morfologiche non sempre
riflette il grado di disfunzione e la prognosi del paziente.

Patogenesi

Molti pazienti affetti hanno una forma genetica, ma la cardiomiopatia dilatativa può essere anche dovuta a
insulti miocardici acquisiti e dall’interazione tra fattori ambientali e genetici; possibili cause sono:
- Miocardite
- Agenti tossici, inclusi alcol e farmaci chemioterapici.
L’abuso di alcol è strettamente associato a cardiomiopatia dilatativa: l’alcol e i suoi metaboliti
hanno un effetto tossico sul miocardio, inoltre, l’alcolismo si associa anche a carenze nutrizionali (il
deficit di tiamina porta alla cardiomiopatia da beri-beri, indistinguibile dalla cardiomiopatia
dilatativa)
- Parto
La cardiomiopatia peripartum sembra essere legata a ipertensione gravidica, sovraccarico di
volume, carenze nutrizionali, squilibri metabolici e possibili reazioni auto-immuni; recenti studi
suggeriscono il ruolo di fattori anti-angiogenici derivanti dal clivaggio della prolattina.
- Sovraccarico di ferro, da emocromatosi o trasfusioni multiple, che determina danno ossidativo e
interferenza con la funzionalità di enzimi mutallo-dipendenti
- Stress sovrafisiologico: eccesso di catecolamine, ipertiroidismo, tachicardia persistente, ecc.

300
Le catecolamine risultano tossiche per il miocardio sia per una tossicità diretta legata all’overload di
calcio, sia perché inducono un’aumentata frequenza cardiaca e una vasocostrizione del circolo
coronarico.
La cardiomiopatia di Takotsubo è
caratterizzata da una disfunzione del
ventricolo sinistro causata da uno stress
psicologico estremo; il nome deriva dal fatto
che l’apice del ventricolo sinistro è spesso
ipocinetico e conferisce al cuore la tipica
forma a takotsubo, strumento giapponese
per catturare i polpi.

Nel 20-50% dei casi è causata da anomalie genetiche


ereditarie a carico di geni codificanti per proteine
del citoscheletro, del sarcolemma e della membrana
nucleare; nella maggior parte dei casi queste
mutazioni sono autosomiche dominanti, più
raramente sono legate al cromosoma X, autosomiche
recessive o associate al DNA mitocondriale. Nel 10-
20% dei casi è coinvolto il gene TNN, codificante per
la titina; può essere coinvolta anche la mutazione del
gene codificante per la distrofina, che risulta
associata al cromosoma X.

Nell’immagine sono indicati in rosso le proteine


mutate nella cardiomiopatia dilatativa, in blu quelle
mutate nella cardiomiopatia ipertrofica e in verde
quelle mutate in entrambe le forme.

Clinica

La cardiomiopatia dilatativa può manifestarsi ad ogni età, inclusa l’infanzia.


Si presente con segni lentamente progressivi di insufficienza cardiaca congestizia, come respiro corto e
ridotta tolleranza agli sforzi fisici. Comune è il riscontro di insufficienza mitralica secondaria ed aritmie, che
possono anche portare a morte improvvisa. Possono verificarsi embolie a causa dei trombi intracardiaci.
Il paziente viene sottoposto a trapianto cardiaco; in alcuni casi è utile l’assistenza meccanica ventricolare a
lungo termine.

CARDIOMIOPATIA/DISPLASIA ARITMOGENA DEL VENTRICOLO DESTRO

È una malattia ereditaria del muscolo cardiaco che comporta scompenso cardiaco destro e diversi
disturbi del ritmo, in particolare tachicardia o fibrillazione ventricolare, che possono portare anche a
morte improvvisa, soprattutto nei pazienti giovani. Si può avere anche il coinvolgimento del cuore sinistro
con scompenso cardiaco sinistro.
Morfologicamente si ha l’assottigliamento della parete ventricolare destra, a causa della perdita di
miociti, e il tessuto contrattile viene sostituito da tessuto adiposo e fibroso.
La malattia sembra essere trasmessa con ereditarietà autosomica dominante a penetranza variabile e le
mutazioni coinvolte riguardano spesso geni che codificano per proteine della giunzione desmosomiale a
livello dei dischi intercalari.

La sindrome di Naxos è caratterizzata da cardiomiopatia ventricolare destra aritmogena e ipercheratosi


delle superfici cutanee palmoplantari; è dovuta a mutazioni del gene della placoglobina.

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CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA

È caratterizzata da ipertrofia miocardica, miocardio ventricolare sinistro scarsamente deformabile che


conduce ad un anomalo riempimento diastolico e, in circa 1/3 dei casi, intermittente ostruzione
all’efflusso ventricolare. Il cuore risulta quindi ispessito, pesante e in uno stato di ipercontrazione.
La cardiomiopatia ipertrofica determina in prima istanza una disfunzione diastolica, con funzione sistolica
preservata. Entra in diagnosi differenziale con malattie da accumulo, come amiloidosi e malattia di Fabry, e
cardiopatia ipertensiva associata a ipertrofia settale subaortica legata all’età.

L’aspetto tipico è l’ispessimento del setto interventricolare, detto ipertrofia settale asimmetrica, ma nel
10% dei casi l’ipertrofia è distribuita in maniera simmetrica nelle pareti cardiache.
L’ipertrofia interessa prevalentemente la regione sub-aortica del setto interventricolare: durante la sistole il
lembo mitralico anteriore, che spesso risulta ispessito, entra in contatto con il setto e si ha una ostruzione
funzionale all’efflusso.

Caratteristiche istologiche:
- Estesa ipertrofia miocitaria
- Disorganizzazione spaziale delle cellule e delle
componenti contrattili all’interno delle cellule
- Fibrosi interstiziale
- Restringimento fibroso delle arterie intramurali e
ispessimento della media e dell’intima delle arterie coronarie
- Alterazioni mitraliche

La cardiomiopatia ipertrofica è causata da mutazioni di geni che codificano per le proteine del sarcomero,
solitamente trasmesse con ereditarietà autosomico dominante con penetranza variabile. I geni
principalmente coinvolti sono quelli codificanti per:
- Catena pesante della β-miosina
- Troponina T cardiaca
- Α-tropomiosina
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- Proteina C legante la miosina
La sequenza di eventi che porta dalla presenza di queste mutazioni allo sviluppo della malattia non è ancora
del tutto chiara. Queste mutazioni comportano una contrazione inefficace che la cellula cardiaca cerca di
compensare con l’ipertrofia.

Il ventricolo sinistro massivamente ipertrofico risulta poco complicante e di dimensioni ridotte, pertanto si
ha un alterato riempimento diastolico e un ridotto volume di eiezione cardiaca. Inoltre, circa il 25% dei
pazienti presenta anche una ostruzione funzionale al tratto di efflusso sinistro.
All’auscultazione si ha un aspro soffio sistolico da eiezione, causato dall’ostruzione all’efflusso ventricolare.
La riduzione della gittata cardiaca comporta un aumento secondario della pressione venosa polmonare e
dispnea da sforzo.
A causa dell’ipertrofia, del sovraccarico pressorio e delle frequenti anomalie a carico delle arterie
intramurali si ha spesso focale ischemia miocardica, che comporta angina.
La cardiomiopatia ipertrofica può portare anche a fibrillazione atriale, trombi murali e conseguenti
emboli, scompenso cardiaco, aritmie ventricolari e morte improvvisa.
Dei benefici possono essere ottenuti somministrando β-bloccanti o andando a ridurre la massa del setto
interventricolare, riducendo l’ostruzione al tratto di efflusso.

CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVA

La cardiomiopatia restrittiva è una patologia caratterizzata da una riduzione primitiva della compliance
ventricolare, che produce un alterato riempimento ventricolare durante la diastole; generalmente la
funzionalità sistolica è conservata.
Questa malattia può essere idiopatica o secondaria ad amiloidosi, sarcoidosi, emocromatosi, talassemia,
alterazioni del metabolismo del glicogeno, sfingolipidosi, mucopolissacaridosi, fibrosi endomiocardica,
fibrosi da radiazioni, ecc. La biopsia permette di definire l’eziologia.
Il miocardio è compatto e non deformabile con conseguente restrizione al riempimento ventricolare;
spesso si osserva una dilatazione degli atri.

Fibrosi endomiocardica
Si ha fibrosi dell’endocardio e del subendocardio ventricolari, che si estende dall’apice fino verso la base del
cuore, fino ad interessare le valvole atrioventricolari. È una delle forme più frequenti di cardiomiopatia
restrittiva e sembra correlata a deficit nutrizionali e/o a infiammazione dovuta a infezioni parassitarie,
infatti, interessa soprattutto giovani adulti e bambini in Africa.

Endomiocardite di Loeffler
Determina una fibrosi endomiocardica con grandi trombi murali ed è associata a eosinofilia periferica e
infiltrati di granulociti eosinofili in vari organi. Gli eosinofili rilasciano prodotti tossici che determinano
necrosi endocardica, successivamente seguita da cicatrizzazione e rivestimento dell’endocardio colpito da
parte di trombi. Alcuni pazienti affetti da questa condizione presentano una malattia mieloproliferativa
associata a riarrangiamenti cromosomici che portano alla presenza di tirosin-chinasi PDGFR
costitutivamente attive (condizione trattabile con Imatinib).

Fibroelastosi endocardica
Rara malattia cardiaca ad eziologia ignota caratterizzata da ispessimento fibroelastico, focale o diffuso,
dell’endocardio parietale ventricolare sinistro; può derivare da infezioni virali, come l’esposizione
intrauterina alla parotite, o da mutazioni del gene codificante per la tafazzina, responsabile della integrità
della membrana mitocondriale interna.

Glicogenosi
Determina una estesa degenerazione vacuolare, sia a livello cardiaco che a livello di muscolo sceletrico, in
cui i vacuoli sono positivi alla colorazione PAS-diastasi, che evidenzia l’accumulo di glicogeno.

303
ALTRE CAUSE DI PATOLOGIA MIOCARDICA – Dispensa

FARMACI CARDIOTOSSICI

Le complicanze cardiache della terapia oncologica sono un


importante problema clinico.
Le antracicline, doxorubicina e daunorubicina, sono i
chemioterapici più frequentemente associati a danno
miocardio, che spesso conduce a cardiomiopatia dilatativa
e scompenso cardiaco. L’effetto tossico delle antracicline è
dose dipendente ed è attribuito soprattutto alla
perossidazione dei lipidi delle membrane cellulari dei
cardiomiociti.
Anche litio, fenotiazine, clorochina e cocaina causano
danno miocardio e talvolta morte cardiaca improvvisa.
Reperti comuni nei cuori danneggiati da questi composti
chimici e farmacologici sono rigonfiamento delle miofibre,
vacuolizzazione citoplasmatica e degenerazione adiposa.
Con la sospensione del farmaco responsabile del danno tali modificazioni possono regredire
completamente, ma talvolta, in caso di danno esteso si può avere necrosi miocitaria, che può a sua volta
evolvere in cardiomiopatia dilatativa.
Anche le radiazioni possono determinare danno miocardico da radicali liberi e possono portare a fibrosi
cardiaca.

AMILOIDOSI

L’amiloidosi consiste nella deposizione di frammenti proteici fibrillari extracellulari, insolubili, in diversi
tessuti, tra cui il cuore. I depositi β-amiloidei possono essere conseguenza di diversi processi, come
degenerazione di neurofilamenti, patologie endocrine, come carcinoma papillifero della tiroide, ecc.
L’amiloidosi cardiaca può insorgere nel quadro di una amiloidosi sistemica o essere limitata al cuore,
soprattutto nell’anziano; in questo secondo caso si parla di amiloidosi cardiaca senile.
L’amiloidosi cardiaca senile colpisce soggetti con più di 70 anni ed è causata dal deposito di transtiretina,
proteina sierica prodotta dal fegato e deputata al trasporto della tiroxina e della proteina legante il
retinolo. La presenza di mutazioni a carico della transtiretina favorisce l’accumulo della proteina e
l’insorgenza di amiloidosi (ad esempio la sostituzione della valina in posizione 122 con l’isoleucina,
mutazione comune negli afroamerica, porta alla produzione di una forma amiloidogenica di transtiretina).
L’amiloidosi isolata atriale può essere dovuta anche all’accumulo di peptide natriuretico atriale, ma la sua
rilevanza critica è incerta.

L’amiloidosi cardiaca provoca in genere un quadro emodinamico di tipo restrittivo, ma può anche
manifestarsi con dilatazione cardiaca, aritmie o aspetti che simulano una cardiopatia ischemica o una
valvulopatia; queste differenti presentazioni dipendono dalla predominante localizzazione dei depositi di
amiloide, che possono trovarsi nell’interstizio, nel sistema di conduzione, nei vasi o nelle valvole.
I depositi di amiloide possono essere evidenziati, e distinti da altri depositi ialini, grazie alla colorazione
Rosso Congo,
che produce la
tipica
birifrangenza
verde quando
osservata al
microscopio con
luce polarizzata.

304
ACCUMULO DI FERRO

Il sovraccarico di ferro può verificarsi in caso di emocromatosi o in caso di emosiderosi, che fa seguito a
diverse trasfusioni ematiche. In entrambi i casi il cuore risulta dilatato e gli accumuli di ferro sono più
comuni nei ventricoli piuttosto che negli atri e nel miocardio piuttosto che nel sistema di conduzione.
Il ferro interferisce con la funzione sistolica compromettendo i sistemi enzimatici ferro-dipendenti o
causando danno da ROS.
Macroscopicamente il miocardio appare color ruggine, ma per il resto è indistinguibile dal miocardio in
caso di cardiomiopatia dilatativa idiopatica.
Microscopicamente l’accumulo di emosiderina si ha soprattutto nella regione perinucleare ed è
dimostrabile con la colorazione blu di Prussia. Questo aspetto si associa a gradi variabili di degenerazione
cellulare e fibrosi sostitutiva.

IPERTIROIDISMO E IPOTIROIDISMO

Entrambe queste condizioni sono associate a manifestazioni cardiache, che riflettono gli effetti diretti ed
indiretti degli ormoni tiroidei sulle cellule cardiache.
Nell’ipertiroidismo sono comuni tachicardia, palpitazioni, cardiomegalia, aritmie; in questo caso gli aspetti
macroscopici ed istologici sono quelli di una ipertrofia aspecifica, talvolta con focolai ischemici.
Nell’ipotiroidismo la gittata cardiaca è ridotta, dal momento che si ha una riduzione del volume di eiezione
e della frequenza, e si ha un aumento delle resistenze vascolari: nel complesso si ha un prolungamento del
tempo di circolazione e una riduzione del flusso ematico ai tessuti periferici.
Nell’ipotiroidismo si hanno: rigonfiamento dei miociti con perdita delle striature e degenerazione
basofila, edema interstiziale ricco di mucopolisaccaridi (mixedema cardiaco).

305
MALATTIE DEL PERICARDIO – Dispensa

VERSAMENTO PERICARDICO ED EMOPERICARDIO

Normalmente nel sacco pericardico sono presenti circa 30-50 ml di liquido limpido, trasparente e di colore
giallo paglierino. In alcuni casi il pericardio parietale si distende per accumulo di liquido sieroso
(versamento pericardico), di sangue (emopericardio) o di pus (pericardite purulenta).
In caso di versamento che si accumula lentamente il pericardio è in grado di distendersi e non si ha
interferenza con la funzionalità cardiaca; quindi in versamenti cronici fino a 500 ml l’unica manifestazione è
l’ingrandimento dell’ombra cardiaca alla radiografia.
In caso di un accumulo di liquido rapido, invece, il pericardio non si distende e si ha tamponamento
cardiaco, potenzialmente fatale.

PERICARDITE

L’infiammazione del pericardio può avvenire secondariamente a varie patologie cardiache, malattie
toraciche e sistemiche. Le principali cause di pericardite sono:

L’essudato pericardico può essere di diversa natura:


- Sieroso (insufficienza cardiaca congestizia, ipoalbuminemia)
- Sieroemorragico (trauma, neoplasie)
- Sangue – emopericardio
- Chilopericardio (ostruzione linfatica mediastinica)

Pericardite acuta sierosa

È generalmente causata da malattie infiammatorie non infettive, come febbre reumatica, LES,
sclerodermia, tumori e uremia. Una infezione dei tessuti contigui al pericardio, ad esempio una pleurite
batterica, può determinare una irritazione del pericardio e un versamento sieroso sterile, che può poi
evolvere in pericardite sierofibrinosa o in una franca reazione suppurativa.
Istologicamente si è un infiltrato infiammatorio prevalentemente linfocitario; se la causa è una neoplasia è
possibile vedere cellule tumorali.

Pericardite fibrinosa e sierofibrinosa

Queste due forme sono quelle più frequenti e sono caratterizzate da accumulo di liquido sieroso misto ad
essudato fibrinoso. Le principali cause sono infarto miocardico, uremia, malattia reumatica, LES, radiazioni
e traumi, compresi interventi chirurgici.
Nella pericardite fibrinosa la superficie pericardica risulta secca e presenta un fine corrugamento granuloso.

306
Nella pericardite sierofibrinosa si ha l’accumulo di liquido torbido che presenta leucociti, globuli rossi e
fibrina; la fibrina può essere poi degradata completamente o andare incontro a organizzazione.
Clinicamente il segno tipico della pericardite fibrinosa è la comparsa di un rumore da sfregamento
pericardico; possono essere presenti anche dolore, febbre e segni di insufficienza cardiaca.

Pericardite purulenta

È causata dalla invasione dello spazio pericardico da parte di microorganismi, che possono giungere alla
cavità pericardica tramite diverse vie:
- Estensione diretta da focolai contigui
- Disseminazione ematogena
- Disseminazione per via linfatica
- Penetrazione diretta in caso di cardiotomia
Microscopicamente vi è una reazione infiammatoria acuta, che può estendersi alle strutture circostanti
(mediastino-pericardite) e spesso comporta esiti cicatriziali e pericardite costrittiva.

Pericardite emorragica

L’essudato è costituito da sangue misto a versamento fibrinoso o suppurativo ed è spesso causato dalla
diffusione di una neoplasia maligna allo spazio pericardico, ma può riscontrarsi anche in caso di infezioni
batteriche, diatesi emorragica, tubercolosi ed interventi di cardiochirurgia.

Pericardite caseosa

È di origine tubercolare: l’interessamento del pericardio avviene per diffusione diretta da focolai
tubercolari localizzati nei linfonodi tracheobronchiali. Esita spesso in pericardite cronica fibrocalcifica.

Pericardite cronica

In alcuni casi i processi di organizzazione determinano l’ispessimento fibrinoso della membrana pericardica,
mentre in altri casi la fibrosi oblitera completamente il sacco pericardico.
Nella mediastino-pericardite adesiva l’aderenza del pericardio parietale alle strutture limitrofe determina
un aumento del lavoro cardiaco, quindi ipertrofia e dilatazione cardiaca, retrazione sistolica della gabbia
toracica e del diaframma e polso paradosso.
Nella pericardite costrittiva il cuore è incarcerato da una densa reazione cicatriziale che limita l’espansione
diastolica e la gittata cardiaca, simulando una cardiomiopatia restrittiva. Il trattamento consiste nella
rimozione chirurgica del tessuto fibroso (pericardiectomia).

307
PATOLOGIA POST-TRAPIANTO CARDIACO – Dispensa

Le due patologie che richiedono più frequentemente il trapianto cardiaco sono la cardiomiopatia dilatativa
e la cardiopatia ischemica.
Le complicanze post-trapianto sono:
- Insufficienza cardiaca del cuore trapiantato
- Rigetto iperacuto
- Riperfusione o danno ischemico
- Rigetto acuto

Il rigetto acuto rappresenta la principale complicanza post-trapianto e l’unico mezzo per diagnosticarlo
precocemente è la biopsia endomiocardica. Il rigetto acuto è caratterizzato da un infiltrato linfocitario
interstiziale che arriva a danneggiare i miociti adiancenti.
La valutazione del grado di rigetto avviene sulla base del prelievo bioptico (analisi di 4 frammenti bioptici):
- Grado 0 → infiltrato assente
- Grado 1a → infiltrato limitato alle aree perivascolari o presente a livello interstiziale ma in maniera
sparsa; sono presenti linfociti attivati e immunoblasti
- Grado 1b → infiltrato perivascolare + infiltrato interstiziale maggiormente rappresentato; sono
presenti anche eosinofili
- Grado 2 → si ha un infiltrato peri-miocitario, ovvero un infiltrato che circonda e attacca singoli
miociti focalmente; a questo quadro infiammatorio segue un quadro di necrosi (di fatto si ha un
quadro di miocardite autoimmune)
- Grado 3a → l’infiltrato è diffuso e associato a necrosi
- Grado 3b → la necrosi è diffusa e sono presenti linfociti, eosinofili e qualche polimorfonucleato
- Grado 4 → la necrosi è evidente e accompagnata da emorragia, i polimorfonucleati sono
abbondanti
Questa valutazione, eseguita in continuo, soprattutto nelle ore post-trapianto, è importante per definire
l’iter terapeutico immunosoppressivo anti-rigetto.

Il rigetto può evolvere in diversi quadri, osservabili nei prelievi successivi:


- Resolved → corrisponde a un grado 0, quindi non si ha più l’infiltrato
- Resolving → grado di infiammazione minore rispetto alla precedente biopsia
- Ongoing → grado di infiammazione sovrapponibile alla precedente biopsia

L’arteriopatia da allotrapianto è la più importante limitazione a lungo termine per il trapianto cardiaco. Si
tratta di una tardiva, progressiva e diffusamente stenosante proliferazione intimale nelle arterie coronarie
che porta a una lesione ischemica. Entro 5 anni dal trapianto, il 50% dei pazienti sviluppa una rilevante
arteriopatia da allotrapianto, e quasi tutti i pazienti presentano lesioni entro 10 anni. La patogenesi
dell’arteriopatia da allotrapianto implica risposte immunologiche che stimolano la secrezione locale di
fattori di crescita che promuovono il reclutamento e la proliferazione di cellule muscolari lisce intimali
con sintesi di ECM.

308
ANEURISMI E DISSECAZIONE DELL’AORTA – Dispensa

L’aneurisma è una dilatazione patologica circoscritta a carico della parete di un vaso sanguigno o del
cuore; può essere congenito o acquisito.
Quando un aneurisma interessa la parete arteriosa assottigliata, ma intatta, o una parete ventricolare
assottigliata, viene detto aneurisma vero; esempi di aneurisma vero sono gli aneurismi aterosclerotici, gli
aneurismi sifilitici, gli aneurismi congeniti e gli aneurismi ventricolari secondario ad infarto transmurale.
Gli aneurismi falsi, detti anche pseudo-aneurismi, sono invece costituiti da un difetto della parete
vascolare che determina la formazione di ematoma extravascolare, liberamente comunicante con la cavità
luminale.
La dissezione arteriosa insorge quando il flusso ematico penetra nella parete dell’arteria, insinuandosi tra i
sui strati, e dà vita ad un ematoma intramurale.
Gli aneurismi, sia veri che falsi, e le dissezioni possono andare incontro a rottura.

Gli aneurismi possono essere classificati anche in base a forma e dimensione:


- Aneurismi sacciformi → estroflessi sferiche, solitamente di 5-20 cm di diametro; spesso
contengono materiale trombotico
- Aneurismi fusiformi → dilatazione diffusa di un lungo segmento vascolare; variano in diametro e
lunghezza

Patogenesi

Gli aneurismi possono formarsi nel momento in cui la struttura o il funzionamento del tessuto connettivo
all’interno della parete vascolare sono compromessi.
Condizioni predisponenti alla formazione di aneurismi sono:
- Sindrome di Marfan: le mutazioni della fibrillina implicano anomalie dell’attività del TGFβ e un
progressivo indebolimento dei tessuti elastici.
- Sindrome di Loeys-Dietz: si hanno mutazioni del recettore del TGFβ che determinano anomalie
dell’elastina e del collagene di tipo I e III
- Sindrome di Elzlers-Danlos: anomalie della sintesi del collagene di tipo III
- Carenza nutrizionale di vitamina C
- L’infiltrazione di cellule infiammatorie e il rilascio di enzimi proteolitici alterano l’equilibrio tra la
sintesi e la degradazione del collagene: questo avviene ad esempio in caso di aterosclerosi o
vasculite
- L’ischemia della tonaca media indebolisce la parete del vaso: ciò avviene in caso di ispessimento
ateromasico dell’intima o in caso di ipertensione sistemica, che determina il restringimento dei
vasa vasorum. L’ischemia della media determina perdita di cellule muscolari lisce, perdita di fibre
elastiche, inadeguata sintesi di matrice extracellulare e maggior produzione di glicosamminoglicani;
queste modificazioni sono collettivamente denominate necrosi cistica della media.

309
- Infezioni: gli aneurismi micotici possono derivare da emboli settici, estensione da un adiacente
processo suppurativo, infezione diretta della parete vascolare da parte di microorganismi circolanti.
Anche la sifilide può portare ad aneurismi.

ANEURISMI DELL’AORTA ADDOMINALE – AAA

Gli aneurismi associati ad aterosclerosi interessano soprattutto l’aorta addominale: la placca ateromasica
nell’intima comprima la media sottostante, compromettendo la diffusione di sostanze nutritive e rifiuti,
pertanto la media va incontro a degenerazione e necrosi e la parete del vaso risulta indebolita e
assottigliata. Inoltre, le cellule infiammatorie producono metalloproteinasi che degradano la matrice.
Gli aneurismi dell’aorta addominale interessano soprattutto i maschi fumatori con più di 50 anni;
l’incidenza degli AAA negli uomini con più di 60 anni è del 5%, quindi l’aterosclerosi non è l’unico fattore
coinvolto nella patogenesi.
Due varianti degli AAA che meritano attenzione sono:
- AAA infiammatori → l’eziologia è sconosciuta, anche se talvolta sono associati alla malattia IgG4-
relata
- AAA micotici → dovute alla deposizione di microorganismi circolanti; spesso si presentano in
seguito a batteriemie in corso di gastroenteriti da Salmonella
Gli AAA si trovano solitamente distalmente rispetto alle arterie renali e al di sopra della biforcazione
dell’aorta; possono essere sia sacciformi che fusiformi e arrivare a misurare 15 cm di diametro e 25 cm di
lunghezza.
Nella maggior parte dei casi gli AAA sono asintomatici e vengono diagnosticati accidentalmente all’esame
obiettivo addominale, dal momento che si presentano come massa pulsante.
Possono portare a:
- Emorragia, potenzialmente fatale
Il rischio di rottura è direttamente proporzionale alle dimensioni dell’aneurisma: 1% annuo per
dimensioni di 4-5 cm, 11% annuo per 5-6 cm, 25% annuo per dimensioni maggiori di 6 cm; è
importante anche considerare la rapidità di espansione dell’aneurisma
- Ostruzione di una diramazione vascolare con conseguente danno ischemico a valle
- Distacco di emboli dell’ateroma o dai trombi murali
- Compressione di strutture adiacenti, come l’uretere, o erosione vertebrale
Generalmente vengono trattati aggressivamente gli aneurismi con un diametro pari o superiore a 5 cm.

ANEURISMI DELL’AORTA TORACICA

Sono comunemente associati ad ipertensione o condizioni genetiche come la sindrome di Marfan o la


sindrome di Loeys-Dietz. Possono andare in contro a rottura o dare vari segni e sintomi:
- Difficoltà respiratoria, per compressione di polmoni e vie aeree
- Difficoltà di deglutizione, per compressione dell’esofago
- Tosse persistente, per irritazione dei nervi laringei ricorrenti
- Erosione ossea e dolore
- Insufficienza valvolare aortica e restringimento degli osti coronarici con conseguente ischemia
cardiaca
310
DISSEZIONE AORTICA

È una condizione caratterizzata dallo slaminamento da parte del sangue delle strutture lamellari della
tonaca media dell’aorta, con formazione di un canale pieno di sangue nel contesto della parete aortica.
La dissezione si fa strada verso l’avventizia provocando emorragia nei tessuti adiacenti, anche fatale.
La dissezione non si associa necessariamente alla dilatazione del vaso.
Colpisce maggiormente uomini tra i 40 e i 60 anni con storia di ipertensione o soggetti più giovani con
patologie del connettivo, come la sindrome di Marfan.

Patogenesi

Il principale fattore di rischio è l’ipertensione, infatti, l’aorta dei pazienti con ipertensione presenta
ipertrofia della media dei vasa vasorum, con conseguente riduzione del flusso attraverso di essi, e
alterazioni degenerative della media aortica, con perdita variabile di cellule muscolari lisce; inoltre, il vaso è
soggetto al danno meccanico causato dall’ipertensione stessa.
Un numero minore di casi di dissezione aortica è associato a disturbi del connettivo, ereditari o acquisiti.
La dissezione può anche essere associata a gravidanza, probabilmente a causa del rimodellamento
vascolare indotto dalla presenza degli ormoni e dello stress emodinamico, o iatrogena.
In ogni caso, indipendentemente dall’eziologia alla base della debolezza della media, la causa della rottura
intimale e dell’emorragia intramurale non è nota; in alcuni casi si può avere una dissezione senza
lacerazione intimale: questi casi sono dovuti alla rottura dei vasi penetranti dei vasa vasorum.

Morfologia

La più frequente lesione istologica rilevabile è la necrosi cistica della media, mentre l’infiammazione è
tipicamente assente. In alcuni casi la dissezione si verifica in un contesto di degenerazione della media
piuttosto modesto.
La dissezione inizia con la lacerazione dell’intima a livello di aorta ascendente, nella maggior parte dei casi,
e da qui può estendersi in direzione retrograda verso il cuore o distalmente, comprendo una lunghezza
variabile del vaso. Spesso si rompe nell’avventizia, determinano un’emorragia massiva o tamponamento
cardiaco. In alcuni casi l’ematoma dissecante rientra nel lume dell’aorta, grazie ad una seconda lacerazione
intimale, creando un doppio condotto aortico con un falso lume: in questo caso non si ha emorragia.

Clinica

Il rischio e la natura delle complicanze della dissezione dipendono dalla


regione dell’aorta interessata, tanto che le dissezioni vengono proprio
classificate in base alla localizzazione:
- Dissezioni di tipo A → interessano l’aorta ascendete e
discendente (DeBekey I) o solo l’arta ascendente (DeBekey II) e
sono le forme più comuni e pericolose
- Dissezioni di tipo B → iniziano distalmente rispetto l’ostio della
succlavia (DeBekey III)
Il sintomo tipico della dissezione aortica è un dolore lancinante, che si
irradia seguendo il percorso della dissezione stessa. Le complicanze
includono: emorragia potenzialmente fatale, alterazioni architetturali
dell’apparato valvolare aortico, tamponamento cardiaco, IMA, ostruzione delle diramazioni vascolari ed
esiti ischemici, mieliti trasverse per compressione delle arterie spinali.
Grazie alla diagnosi precoce e alle nuove tecniche interventistiche si riesce a salvare il 60-75% dei pazienti.

311
MALATTIE DEL RENE
Per quanto riguarda il rene si distinguono le quattro componenti morfologiche fondamentali: glomeruli,
tubuli, interstizio e vasi ematici; questa catalogazione è utile poiché le manifestazioni precoci delle diverse
patologie renali variano in base alla componente interessata. Inoltre, le diverse componenti sembrano
essere più vulnerabili a forme specifiche di danno renale, ad esempio le malattie glomerulari sono
solitamente immuno-mediate, mentre le patologie interstiziali e tubulari sono frequentemente causate da
agenti tossici o infettivi; vi sono tuttavia alcuni agenti patogeni in grado di danneggiare più di una struttura
e l’interdipendenza anatomica e funzionale tra le diverse strutture renali implica che il danno ad una
componente causi quasi sempre una alterazione secondaria nelle altre.
Il rene presenta una cospicua riserva funzionale, pertanto prima che si manifesti una alterazione è
necessario che una grossa parte di esso sia danneggiata: il riconoscimento di segni e sintomi precoci è
quindi fondamentale dal punto di vista clinico.

Manifestazioni cliniche delle malattie renali

Iperazotemia
Alterazione biochimica che consiste nell’aumento dei livelli di azoto ureico nel sangue e dei valori di
creatinina, che si correla solitamente con una diminuzione del tasso di filtrazione glomerulare.
L’iperazotemia può essere dovuta anche ad affezioni extra-renali.
L’iperazotemia pre-renale si manifesta in caso di ipoperfusione renale, che compromette la funzione renale
senza che vi sia una lesione parenchimale. L’iperazotemia post-renale si manifesta quando si ha una
ostruzione al flusso di urina nelle basse vie urinarie. Quando l’iperazotemia si associa a segni clinici, sintomi
e alterazioni biochimiche si parla di uremia. L’uremia è una sindrome clinica caratterizza sia da una
insufficienza della funzione escretoria renale, sia da diverse alterazioni metaboliche ed endocrine associate
al danno renale; si associa quindi ad alterazioni gastro-intestinali, nervose e cardiache.

Sindrome nefritica
È causata da malattia glomerulare e si manifesta con ematuria, macroscopica o microscopica, GFR ridotto,
lieve o moderata proteinuria e ipertensione.

Sindrome nefrosica
È caratterizzata da una grave proteinuria (< 3,5 g/die), ipoalbuminemia, edema, iperlipidemia e lipiduria.

Danno renale acuto


È caratterizzato dal rapido declino di GFR, alterazioni dell’equilibrio di liquidi ed elettroliti, ritenzione di
prodotti metabolici di scarto normalmente eliminati dal rene, oliguria o anuria.

Danno renale cronico


È caratterizzato dalla presenza di GFR < 60 ml/min per almeno tre mesi e da albuminuria persistente.
È il risultato finale di tutte le nefropatie parenchimali croniche. L’evoluzione dalla normale funzionalità
renale alla insufficienza renale cronica sintomatica solitamente attraversa quattro stadi:
1. Riduzione della riserva renale → GFR pari al 50% del normale, azotemia e creatininemia sono nella
norma e il soggetto è asintomatico
2. Insufficienza renale → GFR pari al 20-50% del normale, compare iperazotemia, spesso associata ad
anemia e ipertensione; possono esserci anche poliuria e nicturia
3. Scompenso renale → GFR inferiore al 20-25% del normale e i pazienti sviluppano edema, acidosi
metabolica e ipocalcemia. Può svilupparsi una evidente uremia.
4. Malattia renale terminale → GFR minore del 5% del normale: è la fase finale dell’uremia

Deficit tubulari renali


Sono caratterizzato da poliuria, nicturia, disturbi elettrolitici.
312
GLOMERULOPATIE

La patologia glomerulare prevede una grande


complessità diagnostica e richiede un approccio
multidisciplinare, infatti, il quadro patologico
deve essere analizzato sotto diversi aspetti:
clinico, radiografico e anatomo-patologico.
La patologia renale infiammatoria può
interessare sia la componente glomerulare che
la componente tubulo-interstiziale e
tipicamente coinvolge la corticale del rene,
dove sono localizzati i nefroni.
Ogni nefrone è costituito da:
- Componente vascolare, ovvero il
glomerulo, costituito da capillari con
endotelio fenestrato.
La membrana basale glomerulare,
MBG, è una struttura fondamentale,
insieme ai podociti, per garantire la
filtrazione renale.
La membrana basale glomerulare è
costituita da tre strati, visibili solo tramite microscopia elettronica:
o Lamina rara esterna, interposta tra pedicelli e lamina densa
o Lamina densa, costituita da fibrille e filamenti di collagene di tipo IV e glicoproteine, come
fibronectina, laminina e proteoglicani. Il collagene di tipo IV è composto da fibrille corte e
va a formare strutture poligonali a intreccio, che consento l’appoggio delle cellule e la
filtrazione. Mutazioni del collagene possono quindi portare a patologie.
o Lamina rara interna, compresa tra lamina densa e cellule epiteliali capillari
Tra i diversi strati della MBG si hanno spazi virtuali, che divengono però reali in caso di malattie;
ad esempio, gli immunocomplessi si localizzano tra i diversi strati. La localizzazione specifica degli
immunocomplessi può essere sub-epiteliale (a livello di lamina rara esterna), sub-endoteliale (nella
lamina rara interna) o intramembranosa (nella lamina densa); tale localizzazione è importante per
la classificazione delle glomerulonefriti.
- Componente epiteliale, ovvero la capsula di Bowman che circonda il glomerulo.
La capsula di Bowman è costituita da un epitelio parietale e da un epitelio viscerale; l’epitelio
viscerale è formato dai podociti che, attraverso i pedicelli, si appoggiano sulla membrana basale
glomerulare e separano l’endotelio capillare dalla porzione urinaria.
I pedicelli dei podociti, chiaramente visibili al microscopio elettronico, hanno una disposizione
interdigitata e sono separati gli uni dagli altri da spazi di 20-30 nm, spazi che rappresentano le
fessure di filtrazione. Queste fessure sono rivestite da un sottile diaframma costituito da diverse
proteine, che risultano fondamentali per la creazione di una barriera filtrante.
Vi sono delle patologie, dette podocitopatie, caratterizzate da mutazioni che alterano queste
strutture.
I podociti, oltra a garantire la filtrazione, sono in grado di attivarsi e divenire elementi fagocitanti,
ad esempio in caso di sindrome nefrosica fagocitano materiale proteico.
- Componente tubulare, costituita da tubulo contorto prossimale, ansa di Henle, tubulo contorto
distale e dotto collettore

La matassa glomerulare è sostenuta dal mesangio, costituito da una componente stromale e da una
cellulare. La matrice mesangiale ha una composizione simile alla membrana basale glomerulare e forma un
reticolo in cui sono disposte le cellule mesangiali, che hanno origine mesenchimale. Le cellule mesangiali
sono contrattili, fagocitiche, in grado di proliferare, produrre matrice e mediatori biologicamente attivi.

313
Il glomerulo sano, grazie alla barriera di filtrazione, ha una straordinaria permeabilità all’acqua e ai piccoli
soluti, ma impedisce il passaggio di proteine di dimensioni pari o maggiori dell’albumina (3,6 nm di raggio e
70 kDa di peso). Le caratteristiche della membrana di filtrazione consentono infatti di discriminare tra le
diverse molecole proteiche in base alla dimensione e alla loro carica: più sono grandi e cationiche minore è
la permeabilità nei loro confronti.

BIOPSIA RENALE

La diagnosi di patologia renale è spesso complessa: vanno considerate sia la clinica del paziente che le
caratteristiche dei preparati istologici. A fini diagnostici è importante che la biopsia vada a prelevare una
porzione di corticale, infatti, se viene prelevata solo la midollare non vi sono glomeruli da esaminare.
Per lo studio della biopsia renale al microscopio ottico sono necessarie diverse colorazioni, per
approfondire lo studio del connettivo e dei vasi:
• Ematossilina-eosina → colora nuclei e citoplasma (figura A)
• PAS → colora le membrane basali, i capillari e il mesangio, dal momento che colora il collagene di
tipo IV e le glicoproteine (figura B)
• Colorazioni tricromiche → permette di valutare entità ed estensione della fibrosi ed evidenzia i vasi
(figura C)
• Impregnazione argentica → usata per la valutazione del connettivo e dello spessore delle
membrane basali (figura D)

Vi sono poi colorazioni specifiche per determinate condizioni patologiche, ad esempio la colorazione Rosso
Congo permette di evidenziare i depositi di amiloide.

Dal momento che molte patologie renali sono immunomediate, spesso si ricorre
all’immunofluorescenza: tramite anticorpi anti-IgG/IgA/IgM o anti-fattori del
completo è possibile identificare la natura degli immunodepositi alla base della
patologia.
Infine, per una analisi precisa della
localizzazione degli immunocomplessi si
ricorre alla microscopia elettronica, che permette di distinguere
strutture che si trovano ad una distanza l’una dall’altra di 3-10
angstrom.
La microscopia elettronica permette anche di misurare lo spessore
della membrana basale, che fisiologicamente varia in base a sesso ed
età: 150 nm nell’uomo adulto, 130 nm nella donna adulta; lo spessore
risulta minore nei bambini fino a 10 anni
314
La valutazione dello spessore della membrana basale è importante poiché vi sono patologie genetiche,
come la sindrome di Alport o l’ematuria familiare benigna, in cui risultano alterate le componenti della
lamina densa; in questi casi il valore della MBG deve essere < 200 nm.

I campioni istologici vengono ottenuti tramite biopsia renale, che permette quindi di ottenere diverse
informazioni riguardo la patologia: tipo, origine, localizzazione, estensione, possibile evoluzione.
La biopsia permette quindi di definire la prognosi e il piano terapeutico, sulla base delle percentuali di
progressione e regressione della patologia e di eventuali tossicità farmaco-indotte.
La biopsia renale è eco-guidata e permette di ottenere un frustulo di tessuto, molto sottile e di circa 1 cm
di lunghezza; il frustolo viene poi suddiviso in frammenti e il frammento più lungo viene incluso in paraffina:
da questo frammento derivano le convenzionali sezioni istologiche destinate alla microscopia ottica.
Il frammento dedicato alla valutazione con immunofluorescenza viene invece congelato a -90°C dal
momento che il congelamento, a differenza della fissazione, permette il mantenimento della attività
antigenica.
Le parti estreme del frustolo vengono invece dedicate alla microscopia elettronica, per la quale è sufficiente
poco tessuto.
Quando si hanno due frammenti biotici uno viene dedicato alla microscopia ottica e l’altro viene diviso e su
una parte si esegue l’immunofluorescenza e sull’altra la microscopia elettronica.
L’esecuzione della biopsia renale deve essere sempre attentamente valutata, infatti, i pazienti nefropatici
presentano forti comorbidità. Nel momento in cui si esegue il prelievo, per assicurarsi di aver prelevato tutte
le componenti, si può usare un microscopio micromanipolatore, che permette di osservare e contare i
glomeruli, ma tale strumento non è sempre disponibili, pertanto solitamente si eseguono due prelievi
bioptici.

Terminologia istologica

La lesione può essere definita:


- Diffusa, se coinvolge tutti i glomeruli del frustolo bioptico analizzato
- Focale, quando coinvolge meno del 50% dei glomeruli presenti nel frustolo bioptico
- Segmentale, se coinvolge solo parte del glomerulo
- Globale, se coinvolge tutto il glomerulo

La matrice mesangiale può essere invece descritta con diversi termini:


- Ialinosi → indica una matrice acellulata
- Sclerosi → aumento di una o più componenti della matrice mesangiale: quando il glomerulo subisce
un danno e va incontro ad una reazione infiammatoria il mesangio risponde proliferando e
determinando la sclerosi (da non confondere con la fibrosi, in cui si ha deposito di collagene). Un
glomerulo sclerotico è definito obsolescente, dal momento che non è più in grado di svolgere la
propria funzione.
- Crescents o semilune → formazioni a semiluna che si formano in seguito alla proliferazione delle
cellule epiteliali parietali e all’accumulo di leucociti in risposta a danno glomerulare: il danno
compromette l’epitelio parietale e la membrana basale esterna e dall’interstizio arrivano macrofagi
e fibroblasti che vanno a colonizzare la semiluna. Questa infiltrazione cellulare cresce e diviene una
formazione circonferenziale che comprime il glomerulo fino a farlo collassare
- Sinechia → crescent posta tra la capsula di Bowman e l’ansa capillare

RISPOSTE PATOLOGICHE DEL GLOMERULO ALLE LESIONI – Dispensa

I vari tipi di glomerulonefrite sono caratterizzati da uno o più delle seguenti reazioni tissutali di base:
- Ipercellularità → l’ipercellularità può essere dovuta ad uno o più dei seguenti fattori:
o Proliferazione delle cellule mesangiali o endoteliali

315
o Infiltrazione leucocitaria, soprattutto da parte di neutrofili e monociti, ma talvolta anche
linfociti. La compresenza di infiltrazione leucocitarie e della proliferazione delle cellule
epiteliali e/o mesangiali è spesso definita proliferazione endocapillare
o Formazione di semilune, ovvero accumuli di cellule costituito da cellule epiteliali
glomerulari proliferanti e leucociti
- Ispessimento della membrana basale → l’ispessimento, al microscopio ottico, è visibile soprattutto
tramite la colorazione PAS e si presenta come un ispessimento della parete dei capillari.
Al microscopio elettronico tale ispessimento assume tre forme:
o Deposizione di materiale amorfo elettrondenso, generalmente costituito da
immunocomplessi; si può avere anche il deposito di fibrina, amiloide, crioglobuline e
proteine fibrillari
o Incremento della sintesi delle componenti proteiche della membrana basale, come avviene
nella glomerulosclerosi diabetica
o Formazione di strati aggiuntivi della matrice della membrana basale, come avviene nella
glomerulonefrite membranoproliferativa
- Ialinosi e sclerosi → la ialinosi, al microscopio ottico, si presenta come l’accumulo di materiale
omogeneo ed eosinofilo, costituito da proteine plasmatiche che si depositano nelle strutture
glomerulari; la ialinosi è tipicamente conseguente a danno endoteliale o della parete dei capillari.
La sclerosi è caratterizzata dall’accumulo di matrice extracellulare collagena e può essere confinata
al mesangio o estesa ai capillari. Sia la ialinosi che la sclerosi possono determinare l’obliterazione
dei capillari glomerulari.

PATOGENESI DEL DANNO GLOMERULARE – Dispensa

Malattie causate dalla formazione di immunocomplessi in situ


In questo caso gli immunocomplessi si formano localmente da anticorpi che reagiscono con antigeni
tissutali intrinseci o con antigeni estrinseci circolanti depositatesi a livello glomerulare.
Un esempio è la glomerulonefrite membranosa, in cui si hanno anticorpi diretti contro antigeni tissutali del
glomerulo, ma vi sono anche forme secondarie indotte da farmaci, da infezioni o da graft-versus-host
disease. La deposizione di immunocomplessi circolanti e la formazione di immunocomplessi in situ sono
caratterizzati da un pattern granulare all’immunofluorescenza.

Glomerulonefrite da deposizione di immunocomplessi circolanti


Il danno glomerulare è dovuto all’intrappolamento dei complessi antigene-anticorpo circolanti all’interno
dei glomeruli. Gli immunocomplessi di depositano a livello glomerulare per le loro proprietà chimico e per i
peculiari fattori emodinamici presenti nel glomerulo.
Gli antigeni che innescano la formazione degli immunocomplessi circolanti possono essere endogeni, come
nel caso del LES o della nefropatia da IgA, o esogeni, come nelle glomerulonefriti secondarie ad infezioni
(HCV, streptococco, malaria, treponema pallidum e diversi virus).

Malattia da anticorpi diretti contro le normali componenti della membrana basale


Gli anticorpi sono diretti contro normali componenti della membrana basale glomerulare, distribuiti in
modo omogeno lungo l’intera lunghezza della MBG, pertanto all’immunofluorescenza si ha una colorazione
diffusa e lineare. Molto spesso gli anticorpi anti-MBG cross-reagiscono anche con altre membrane basali,
come quelle degli alveoli polmonari (sindrome di Goodpasture).

I complessi antigene-anticorpo, formatesi o depositatesi nel glomerulo, innescano una reazione


infiammatoria locale, che produce il danno. Si è a lungo creduto che il danno fosse mediato
essenzialmente dal complemento, ma studi recenti hanno evidenziato come anche leuciti e cellule
mesangiali abbiano un ruolo. Se l’esposizione all’antigene scatenante è limitata e di breve durata gli
immunocomplessi formatesi possono essere degradati, ma se essi permangono il danno può cronicizzare.

316
Gli immunocomplessi circolanti di grandi dimensioni solitamente non sono nefritogeni dal momento che
vengono eliminati dai macrofagi e non entrano in contatto con la MBG in quantità significative.
Anche la carica delle molecole coinvolte è influente:
- Gli antigeni cationici tendono ad attraversare al MBG e i complessi risultanti si localizzano in sede
subepiteliale
- Gli antigeni anionici solo escluse dalla MBG e si depositano in sede subendoteliale o non sono
nefrogeniche
- Antigeni con carica neutra e immunocomplessi da essi derivanti tendono ad accumularsi a livello
mesangiale
Gli immunocomplessi situati nelle porzioni subendoteliali dei capillari e nelle regioni mesangiali sono
accessibili alla circolazione e hanno maggiore probabilità di essere coinvolti in processi infiammatori che
richiedono l’interazione e l’attivazione dei leucociti circolanti. Le malattie in cui gli immunocomplessi sono
confinati in sede subepiteliale e per le quali le membrane basali capillari possono costituire una barriera
all’interazione con i leucociti circolanti, come nel caso della nefropatia membranosa, presentano
tipicamente una patologia non infiammatoria.

Si è visto che anche le cellule T sensibilizzate possono provocare un danno glomerulare e sono coinvolte
nella progressione di molte glomerulonefriti. Un ruolo importante è giocato dalla attivazione del
complemento con conseguente rilascio di fattori chemiotattici per i leucociti e lisi cellulare.

Mediatori del danno glomerulare


- Neutrofili e monociti, che rilasciano proteasi, con conseguente degradazione della MBG, ROS, che
causano danno cellulare, e metaboliti dell’acido arachidonico, che contribuiscono alla riduzione
della frazione di filtrazione glomerulare
- Macrofagi e linfociti T
- Piastrine, che rilasciano eicosanoidi, fattori di crescita e mediatori che contribuiscono al danno
vascolare e alla proliferazione delle cellule glomerulari
317
- Cellule glomerulari residenti, soprattutto le cellule
mesangiali, che possono essere stimolate a
produrre numerosi fattori infiammatori, tra cui
ROS, citochine, chemochine, fattori di crescita,
eicosanoidi, ossido di azoto e endotelina. Queste
cellule possono anche iniziare una risposta
infiammatoria del glomerulo in assenza di
infiltrazione leucocitaria.
- Attivazione del complemento, che porta al rilascio
di fattori chemiotattici, soprattutto per i neutrofili,
e alla formazione del complesso litico C5b-C9, che
porta a lisi cellulare e stimola le cellule mesangiali a produrre fattori infiammatori.
- Eicosanoidi, ossido di azoto, angiotensina ed endotelina, coinvolti nelle alterazioni emodinamiche
- Citochine, soprattutto IL-1 e TNF, e chemochine
- Fattori di crescita, come PDGF, TGFβ e VEGF
- Sistema della coagulazione

Danno alle cellule epiteliali

La lesione dei podociti è comune in molte glomerulopatie, sia ad eziologia immune sia non-immune: si
parla di podocitopatia. Il danno ai podociti può essere indotto da: anticorpi, tossine, citochine, infezioni
virali (HIV) e altri fattori circolanti non ancora identificati con chiarezza.
Tale danno si traduce nella scomparsa dei pedicelli, nella vacuolizzazione dei podociti, nella retrazione e
distacco degli stessi dalla MBG, con conseguente proteinuria.

Meccanismi di progressione delle malattie glomerulari

Una volta innescato il danno, l’esito dipende da diversi fattori,


come la gravità del danno renale iniziale, la natura e la persistenza
degli antigeni, lo stato immunitario, l'età e la predisposizione
genetica dell'ospite. È noto da lungo tempo che in ogni malattia
renale, glomerulare o di altro tipo, che distrugga i nefroni
funzionanti e riduca il filtrato glomerulare (GFR) fino a circa il 30-
50% del normale, l'evoluzione verso l'insufficienza renale
terminale progredisce a una velocità costante,
indipendentemente dallo stimolo originario o dall'attività della
malattia di base.
Le due principali caratteristiche istologiche del danno renale progressivo sono:
- Glomerulosclerosi focale e segmentaria → la fibrosi progressiva consegue a diversi tipi di danno
renale e conduce a proteinuria e compromissione funzionale sempre maggiore. Inizialmente i
glomeruli rimanenti vanno incontro a ipertrofia compensatoria, ma alla fine anche loro vanno
incontro a glomerulosclerosi. Attualmente il trattamento più idoneo per contrastare la
glomerulosclerosi è basato sulla somministrazione di inibitori del sistema renina-angiotensina.
- Fibrosi tubulo-interstiziale → Molti fattori possono condurre a tali lesioni tubulointerstiziali, tra cui
il danno ischemico dei segmenti tubulari a valle dei glomeruli sclerotici, l’infiammazione acuta e
cronica dell'interstizio adiacente e la riduzione o la perdita dell'apporto ematico dei capillari
peritubulari. Uno studio evidenzia anche gli effetti della proteinuria sulla struttura e sulla funzione
delle cellulari tubulari. Sembra che la proteinuria possa causare direttamente il danno e
l'attivazione delle cellule tubulari. Le cellule tubulari attivate, a loro volta, esprimono, le molecole di
adesione e producono citochine proinfiammatorie, chemochine e fattori di crescita che
contribuiscono alla fibrosi interstiziale.

318
SINDROME NEFROSICA – Dispensa

La sindrome nefrosica è causata da una alterazione delle pareti capillari glomerulari che determina
l’aumento della permeabilità alle proteine plasmatiche. Le manifestazioni della sindrome nefrosica
includono:
- Proteinuria massiva, con perdita giornaliera ≥ 3,5 g di proteine
- Ipoalbuminemia, con livelli di albumina plasmatica < 3 g/dl
- Edemi generalizzati
- Iperlipidemia e lipiduria
Le alterazioni strutturali della parete capillare glomerulare, dell’endotelio dei capillari, della MBG e delle
cellule epiteliali viscerali del glomerulo comportano una alterata permeabilità della barriera di filtrazione e
il passaggio delle proteine plasmatiche nelle urine, con conseguente proteinuria. La proteinuria massiva
porta alla perdita di albumina e ipoalbuminemia, con conseguente riduzione della pressione
colloidosmotica e formazione di edemi generalizzati; l’edema è aggravato anche dalla ritenzione di sodio e
acqua, legata a diversi fattori: secrezione compensatoria di aldosterone, indotta dall’ipovolemia, stimolo
del sistema simpatico e ridotta secrezione di peptidi natriuretici, come quelli atriali.
L’edema è localizzato soprattutto nelle regioni declivi e nella regione peri-orbitaria e se grave può portare a
versamento pleurico e ascite.
La genesi della iperlipidemia è complessa: la maggior parte dei pazienti presenta un aumento dei livelli di
colesterolo, trigliceridi, VLDL, LDL e lipoproteine e ciò sembra legato ad un aumento della sintesi epatica e
ad un ridotto catabolismo. La lipiduria segue l’iperlipidemia perché le lipoproteine attraversano la parete
capillare glomerulare.
La proteinuria può essere di diversi tipi:
- Altamente selettiva → passano solo proteine di basso peso molecolare, come albumina e
transferrina
- Scarsamente selettiva → passano anche proteine ad alto peso molecolare
I pazienti nefrosici sono particolarmente soggetti ad infezioni, probabilmente a causa della perdita di
immunoglobuline con le urine, e complicanze tromboemboliche, per la perdita di anticoagulanti.

Le cause di sindrome nefrosica variano in rapporto all’età del paziente e all’area geografica; ad esempio nei
giovani prevalgono le malattie primitive del rene, mentre negli adulti le conseguenze di malattie sistemiche.
Le cause sistemiche più comuni sono diabete, amiloidosi e LES, mentre le lesioni glomerulari primitive
associate a sindrome nefrosica sono la malattia a lesioni minime, la glomerulonefrite membranosa a la
glomerulosclerosi focale e segmentaria. Cause meno comuni di sindrome nefrosica sono glomerulonefriti
proliferative, come la membrano-proliferativa e la nefropatia a IgA.

PODOCITOPATIE

Con il termine podocitopatie si fa riferimento a malattie renali che coinvolgono direttamente o


indirettamente i podociti e che esitano in proteinuria. Sono state identificate più di 50 varianti di geni
costitutivi dei podociti che determinano podocitopatie primitive, alcune delle quali causano sindrome
nefrosica resistente agli steroidi. Le podocitopatie possono essere anche associate ad agenti ambientali,
come infezioni, tossici, farmaci e obesità, che determinano un danno ai podociti.
Le manifestazioni morfologiche tipiche delle podocitopatie sono:
- Glomerulopatia a lesioni minime
- Glomerulosclerosi focale segmentale, FSGS → si ha la presenza di sclerosi mesangiale segmentale,
quindi che interessa solo una parte del glomerulo, e focale, quindi interessante meno del 50% dei
glomeruli esaminati. Anche in assenza di sclerosi al microscopio elettronico è possibile osservare
l’appiattimento dei pedicelli, lesione morfologica diagnostica per queste patologie.
La glomerulopatia a lesioni minime, se non trattata può portare a glomerulosclerosi focale
segmentale. Nei pazienti pediatrici in cui si sospetta FSGS si esegue un’analisi genetica.

319
Glomerulopatia a lesioni minime

La glomerulopatia a lesioni minime, detta anche nefrosi lipoidea, porta a sindrome nefrosica con
proteinuria selettiva (che diviene non selettiva se la malattia evolve in glomerulosclerosi segmentale
focale). Colpisce maggiormente il sesso maschile e ha un picco di incidenza tra i 2 e i 6 anni.
È definita “a lesioni minime” poiché osservando i preparati istologici al microscopio ottico o
all’immunofluorescenza non si hanno alterazioni che fanno sospettare patologie glomerulari, nonostante si
abbia un quadro clinico di sindrome nefrosica. La lesione, infatti, risulta visibile solo al microscopio
elettronico, che evidenzia l’appiattimento dei pedicelli, che convergono in un unico grande piede piatto
poggiante sulla membrana basale, alterando completamente la filtrazione. Nel tentativo di aumentare la
superficie di contatto sul versante urinario i podociti divengono ipertrofici ed emettono microvilli.

Patogenesi
Sembrano essere coinvolte mutazioni genetiche a carico di geni codificanti per le proteine dei diaframmi
inter-pedicillari: si ha la perdita delle cariche negative del glicocalice posto sopra ai pedicelli con
conseguente perdita selettiva di proteine cariche negativamente, come l’albumina.
L’altra caratteristica peculiare è l’appiattimento dei pedicelli, che sembrano quasi “fusi” tra loro, lesione
visibile solo al microscopio ottico.
Si hanno anche forme secondarie della malattia, associate a infezioni, linfomi, reazioni allergiche, LES, graft
versus host disease e rigetto acuto.
Si ritiene che alla base della malattia a lesioni minime vi sia una qualche disfunzione autoimmune,
probabilmente mediata dai linfociti T, che determinano il danno alle cellule epiteliali viscerali e la perdita dei
polianioni glomerulari, con conseguente proteinuria. È ancora sconosciuta la strada che le proteine seguono
per attraversare il versante epiteliale della barriera glomerulare, ma le ipotesi sono: passaggio tra i pedicelli
superstiti, passaggio attraverso gli spazi anomali che si formano sotto i processi pedicillari adiacenti alla MB
o passaggio attraverso le zone in cui le cellule epiteliali si distaccano dalla MB.

Morfologia
Al microscopio ottico i glomeruli appaiono normali e
l’immunofluorescenza non evidenzia immunoreattività, anche se
talvolta possono essere presenti IgM e C3, che rappresentano un segno
negativo, infatti, spesso sono associati a non risposta al trattamento con
steroidi.
Al microscopio elettronico si evidenziano:
- “Fusione dei pedicelli”, con formazione di uno strato epiteliale
continuo, liscio e privo di inter-digitazioni
- Vacuoli citoplasmatici nei podociti, indicativi di retrazione e
riassorbimento
- Microvilli, ovvero proiezioni citoplasmatiche sul versante
urinario, che rappresentano il tentativo del podocita di
aumentare la superficie assorbente per limitare la perdita proteica

Prognosi
Nella maggior parte dei bambini (90%) la malattia risponde bene alla terapia con steroidi e la prognosi è
buona, con remissione completa. Vi sono però dei casi in cui la terapia fallisce e la matrice mesangiale
prolifera, in risposta al danno dei podociti, e arriva a comprimere le strutture vascolari adiacenti.
Si ha quindi l’evoluzione in glomerulonefrite proliferativa mesangiale e successivamente in
glomerulosclerosi segmentale focale; queste sono patologie a se stanti che possono però presentarsi come
evoluzione l’una dell’altra, dal momento che il meccanismo patogenetico è il medesimo. La prognosi
rimane comunque buona, infatti, le forme steroido-dipendenti tendono a risolversi con la pubertà; negli
adulti la risposta è più lenta, ma la prognosi è comunque buona.

320
Glomerulonefrite proliferativa mesangiale

La glomerulonefrite proliferativa mesangiale è clinicamente indistinguibile dalla glomerulonefrite a lesioni


minime, ad eccezione del fatto che richiede una costante terapia steroidea per tenere le urine libere da
proteine.

Morfologia
Al microscopio ottico si osserva una modesta proliferazione delle cellule
mesangiali, mentre la matrice appare generalmente normale.
All’immunofluorescenza si può avere la positività per IgM e C3 (fattore che fa
pensare che questa patologia possa derivare dalla evoluzione della
glomerulonefrite a lesioni minime).
Alla microscopia elettronica si osserva un quadro analogo alla glomerulonefrite
a lesioni minime, con appiattimento dei pedicelli e vacuoli intraepiteliali, e in
aggiunta sono presenti depositi intra-mesangiali di materiale elettrondenso di
colore grigio scuro (evidenziato da anticorpi anti-IgM all’immunofluorescenza).

Prognosi
Nel 30-50% dei casi il trattamento steroideo porta a remissione completa.
Se invece la lesione progredisce la proliferazione mesangiale e l’aumento della
matrice comprimono i glomeruli e determinano glomerulosclerosi segmentale e
focale.

Glomerulosclerosi focale segmentale – FSGS

Si ha la sclerosi di alcuni glomeruli (sclerosi focale) e nei glomeruli interessati solo una parte degli stessi è
colpita (sclerosi segmentaria). Anche in questo caso si ha sindrome nefrosica, ma la proteinuria diviene
non-selettiva, quindi si ha un quadro clinico peggiore rispetto alle glomerulonefriti viste precedentemente.
La FSGS è una delle più comuni cause di sindrome nefrosica nell’adulto.

La glomerulosclerosi focale segmentale si presenta come:


- Forma primitiva idiopatica
- Associata ad altre patologie note, come HIV, dipendenza da eroina, anemia falciforme e obesità
severa
- Evento secondario dovuto ad esito cicatriziale di lesioni necrotizzanti glomerulari, come nella
nefropatia a IgA o nella glomerulonefrite infettiva
- Parte di una risposta adattativa alla perdita di tessuto renale, dovuta ad anomalie congenite o a
cause acquisite, come nella nefropatia ipertensiva, nefropatia da reflusso e agenesia unilaterale
- Forma ereditaria dovuta a mutazioni di podocina, actinina e altre proteine del diagramma
podocitario
I segni clinici differiscono da quelli tipici della malattia a lesioni minime dal momento che la proteinuria è
non-selettiva, spesso si hanno ematuria, riduzione di GFR e ipertensione e si ha la progressione verso
l’insufficienza renale cronica (nel 50% dei casi); la risposta ai corticosteroidi è scarsa.

Patogenesi
La patogenesi è ancora poco chiara. Sicuramente un ruolo è giocato dalla riduzione delle cariche anioniche
a livello di lamina rara esterna della MBG, che determina un difetto della barriera di filtrazione e
proteinuria, solitamente non selettiva.
In alcuni casi si ha una recidiva della proteinuria dopo 24 ore dal trapianto e ciò suggerisce che possa essere
un fattore circolatorio sconosciuto il responsabile del danno epiteliale; questo fattore potrebbe essere un
analogo della linfochina, che se iniettato nel ratto induce proteinuria, per perdita di cariche anioniche, dopo
6-24 ore dall’iniezione.

321
Sono state scoperte anche della cause genetiche della FSGS, infatti, si possono avere mutazioni a carico di:
- Il gene NPHS1 che codifica per la nefrina, una componente chiave del diaframma di filtrazione
- Il gene NPHS2 che codifica per la podocina, componente del diaframma di filtrazione; queste
mutazioni, autosomiche recessive, causano sindrome nefrosica steroido-dipendente nell’infanzia
- Il gene che codifica per la proteina α-actinina4, che lega la podocita (autosomiche dominanti)
- Il gene codificante per TRPC6, Transient Receptor Potential Calcium Channel-6, responsabili di FSGS
ad esordio nell’adulto
- Varianti del gene apoliproteina L1 sono associate ad un aumento del rischio di FSGS e insufficienza
renale in individui di origine africana, sebbene i meccanismi alla base di tale associazione non sono
ancora chiari

Fattori che inducono la progressione della malattia sono: dieta proteica, elevata pressione vascolare,
fattori di crescita, metabolismo dell’acido arachidonico; tutti questi fattori contribuiscono alle alterazioni
delle membrana basale.

Morfologia
Al microscopio ottico si evidenziano adesioni fiocculo-capsulari, ialinosi e sclerosi alla periferia del
glomerulo, degenerazione vacuolare dei podociti e ialinosi delle arteriole, che quando presente correla
con una prognosi peggiore. Si ha un aumento nei nuclei mesangiali, con moderato incremento della
matrice, depositi ialini PAS+, foam celle e vacuoli lipidici, occasionali sinechie e capsula di Bowman
plurilaminata in corrispondenza delle sinechie. La sclerosi porta a obliterazione del tuft glomerulare.
Nelle aree di sclero-ialinosi si possono trovare depositi di IgM, IgG e C3, visibili all’immunofluorescenza.
Al microscopio elettronico si osserva un aumento del mesangio sclerotico, con cellule non più funzionali, e
l’allargamento della lamina rara interna.
Nelle aree non sclerotiche si hanno quindi appiattimento dei pedicelli, vacuoli citoplasmatici, pseudo-cisti
ed incremento degli organelli citoplasmatici.
Nelle aree sclerotiche si evidenziano invece aumento della matrice, che ingloba la membrana basale e
forma dei punti di unione (sineche) tra il tuft glomerulare e la capsula di Bowman; la MB risulta contratta e
raggrinzita. Le aree sclerotiche del sono ipocellulari e si ha ipertrofia delle cellule endoteliali.

La prognosi è buona in assenza di sindrome


nefrosica, mentre la non risposta agli steroidi
correla con la progressione della malattia.

322
Nefropatia da HIV – Dispensa

L’infezione da HIV può causare direttamente o indirettamente complicanze renali, come l’insufficienza
renale acuta o la nefrite interstiziale acuta, indotte da farmaci o dall’infezione stessa, microangiopatia
trombotica, glomerulonefrite post-infettiva e, più comunemente, una forma severa di FSGS di tipo
collassante, detta nefropatia HIV-associata. Con l’avvento della terapia antiretrovirale l’incidenza della
nefropatia HIV-correlata si è notevolmente ridotta.
Le caratteristiche morfologiche sono:
- Variante collassante delle FSGS
- Dilatazione cistica focale dei segmenti tubulari che si riempiono di materiale proteinaceo, con
flogosi e fibrosi interstiziale
- Inclusioni tubulo-reticolari nelle cellule epiteliali, visibili alla microscopia elettronica; tali inclusioni
sono dovute all’azione dell’interferone circolane e possono quindi avere un valore diagnostico

GLOMERULONEFRITE MEMBRANOSA

Può essere una malattia primitiva idiopatica o una condizione secondaria a farmaci, come penicillamina,
captopril, oro e FANS, tumori maligni, soprattutto carcinomi del polmone e del colon e melanomi, LES,
infezioni, come HBV, HCV, sifilide, malaria, schistosomiasi, e disturbi autoimmuni, come tiroiditi.
È caratterizzata dal diffuso ispessimento della parete capillare glomerulare e dall’accumulo di depositi
contenenti Ig lungo il lato sub-epiteliale della membrana basale.
Si tratta di una malattia da deposito di immunocomplessi e risulta colpita soprattutto la membrana
basale. In base all’evoluzione del deposito di immunocomplessi vengono definiti 4 stadi clinici.

Patogenesi

Nella maggior parte degli adulti si hanno anticorpi diretti contro l’antigene PLA2R, ovvero autoanticorpi
diretti contro il recettore della fosfolipasi A2 (tale antigene viene usato anche per il monitoraggio della
malattia). Si ha la formazione/deposito di immunocomplessi con conseguente attivazione del
complemento e danno alla membrana basale e ai podociti, pertanto anche questa patologia porta a
sindrome nefrosica.

Morfologia

All’immunofluorescenza si apprezza una positività granulare per le IgG nella MBG.


In base ai depositi, osservabili con microscopia elettronica, la glomerulonefrite si suddivide in 4 stadi:

Stadio 1
Al microscopio ottico la parete vascolare appare normale, ma con colorazione PAS si osserva un aspetto
granulare: la colorazione PAS lega la membrana basale, mentre i depositi risultano PAS-negativi e
appaiono come punti neri.
L’immunofluorescenza mostra positività per le IgG.
La microscopia elettronica evidenza depositi di immunocomplessi solo a livello sub-epiteliale, a livello di
lamina rara esterna.

Stadio 2
La microscopia ottica mostra una membrana basale ispessita che cerca di inglobale i depositi di
immunocomplessi, portando alla formazione di spikes, ovvero “parentesi” di MB tra un immunocomplesso
e l’altro.
L’immunofluorescenza mostra positività granulare per IgG e talvolta anche per IgM e IgA.
La microscopia elettronica mostra la proliferazione della membrana basale che tenta di inglobare gli
immunocomplessi, formano le spikes.

323
Stadio 3
La microscopia ottica mostra un diffuso ispessimento della MB con spikes.
L’immunofluorescenza mostra depositi progressivamente più estesi. Il glomerulo a questo stadio tende
all’obsolescenza, ovvero all’esclusione funzionale.
Alla microscopia elettronica la lamina densa è marcatamente ispessita e si hanno depositi di
immunocomplessi intra-membranosi, oltre che sub-epiteliali.

Stadio 4
Alla microscopia ottica i glomeruli risultano obsolescenti e sclerotici, con MB ispessita, ialinosi, sclerosi e
sinechie.
Alla microscopia elettronica i depositi, di colore grigio, presentano un alone più chiaro in periferia,
indicativo del riassorbimento da parte della membrana basale, e alcuni non sono più visibili. In questo
stadio la membrana basale viene detta membrana tarlata, dal momento che si hanno depositi scuri con
aloni chiari. Accanto a queste lesioni continuano ad esserci depositi neoformati e spikes, dal momento che
la glomerulonefrite membranosa è un processo continuo.

Riassumendo, nel primo stadio si hanno depositi sub-epiteliali, appoggiati nella lamina rara esterna, nel
secondo stadio si ha la formazione di spikes e nel terzo stadio, quando la MB avvolge completamente i
complessi, si ha la formazione di depositi intra-membranosi, che porta all’ispessimento della membrana
stessa. Caratteristica del quarto stadio è invece la membrana tarlata, dovuta al riassorbimento dei depositi
di immunocomplessi, processo affiancato dalla deposizione di nuovi immunocomplessi a livello sub-
epiteliale.

La colorazione dell’argento evidenzia in nero la MB: nell’immagine a


lato la colorazione nera non è uniforme, ma si notano aree bianche
occupate da sostanze negative alla colorazione, ovvero gli
immunocomplessi.

La membrana basale in grigio risulta


ispessita dai depositi presenti nella
lamina rara esterna, tra MB e pedicelli
dei podociti: la membrana basale si
inserisce tra gli immunocomplessi, nel
tentativo di inglobarli, e forma delle
spikes.

Nel terzo stadio la membrana basale circonda completamente i


depositi e li contiene nella lamina densa.

Questa malattia può presentare una remissione completa, ma nel


50% dei casi progredisce fino all’insufficienza renale, nell’arco di 2-3
anni, nonostante il trattamento con steroidi. Fattori prognostici
favorevoli sono: giovane età, sesso femminile, assenza di sindrome
nefrosica, normale funzionalità renale e normotensione.

324
SINDROME NEFRITICA – Dispensa

Le malattie glomerulari che si presentano con sindrome nefritica sono spesso causate da processi
infiammatori a carico dei glomeruli. La sindrome nefritica è caratterizzata da ematuria, cilindri di globuli
rossi nelle urine, azotemia elevata, ipertensione lieve-moderata, proteinuria ed edema; queste ultime
due condizioni risultano meno gravi che nella sindrome nefrosica.
La sindrome nefritica può essere secondaria anche a patologie sistemiche, come LES e poliartrite, ma
tipicamente è conseguente a glomerulonefrite acuta proliferativa.
Le glomerulonefriti acute proliferanti sono istologicamente caratterizzate da una diffusa proliferazione
delle cellule glomerulari, associata alla presenza di leucociti. Queste lesioni sono tipicamente dovute ad
immunocomplessi che si formano a partire sia da antigeni esogeni, come in caso di glomerulonefrite post-
infettiva, sia da antigeni endogeni, come nel caso della nefrite in corso di LES.

GLOMERULONEFRITE ACUTA PROLIFERANTE POST-STREPTOOCCICA

L’incidenza di questa patologia si è ridotta grazie alla diffusione degli antibiotici; si tratta di una
glomerulopatia diffusa e proliferativa che si evidenzia dopo 8-14 giorni da un’infezione streptococcica delle
vie aeree o della cute. Può colpire qualsiasi fascia d’età, ma risulta diffusa soprattutto in bambini di 6-10
anni.

Eziologia e patogenesi – Dispensa

È causata da immunocomplessi contenenti antigeni streptococcici e anticorpi specifici che si formano in


situ; solo alcuni ceppi di streptococco β-emolitico di gruppo A risultano nefritogeni e il 90% dei casi è
dovuto ai ceppi 12, 4 e 1. Nei glomeruli sono presenti depositi granulari di immunocomplessi e i livelli
sierici del complemento sono bassi, vista la cospicua attivazione.
Il principale fattore antigenico è rappresentato dalla esotossina B piogena streptococcica: gli antigeni si
depositano in sede sub-endoteliale nelle pareti dei capillari glomerulari e determinano la formazione di
immunocomplessi in situ, inoltre, essi sono in grado di attivare direttamente il complemento.
Successivamente, per motivi non del tutto chiari, i complessi antigene-anticorpo si dissociano e migrano
attraverso la MBG, per poi riformarsi sul lato sub-epiteliale.

Istologia

Alla microscopia ottica è visibile una flogosi importante nell’interstizio


e nel glomerulo, caratterizzata da infiltrato neutrofilo. Si ha anche la
proliferazione di cellule endoteliali e mesangiali, con la formazione, nei
casi più gravi di semilune; tutto ciò porta ad un quadro di
ipercellularità. L’infiltrazione e la proliferazione sono tipicamente
globali e diffuse, ovvero interessano tutti i lobuli di tutti i glomeruli. Si ha
anche il rigonfiamento delle cellule endoteliali e ciò, insieme alla
proliferazione e all’infiltrazione, oblitera i capillari glomerulari.
Possono esserci anche edema e infiammazione interstiziale e spesso i
tubuli contengono globuli rossi impilati.

L’immunofluorescenza mostra positività granulare per IgG e C3,


talvolta anche IgM, con localizzazione sub-epiteliale dei depositi. I
depositi hanno una forma a campana, ben visibile alla microscopia
ottica, e sono detti humps.

Alla microscopia elettronica sono visibili i pedicelli appiattiti e gli


humps. Si hanno anche proliferazione endoteliale, cellule endoteliali

325
con citoplasma ricco di organelli, espansione della matrice mesangiale. I depositi
sono tipicamente sub-epiteliali, ma possono anche essere mesangiali,
subendoteliali (soprattutto nelle fasi precoci della malattia) o intramembranosi.

La prognosi è generalmente buona, soprattutto nei bambini, ma in alcuni casi si può


avere la progressione in glomerulonefrite cronica o glomerulonefrite rapidamente
progressiva.

GLOMERULONEFRITE ACUTA NON STREPTOCOCCICA (POST-INFETTIVA) – dispensa

È simile alla glomerulonefrite post-streptococcica ma si forma in seguito ad infezioni


sostenute da altri batteri, come meningococco, pneumococco e stafilococco, o virus, come HBV, HCV,
parotite, varicella, mononucleosi, o ancora parassiti, come la malaria o la toxoplasmosi. La glomerulonefrite
post-infettiva da stafilococco si distingue perché porta alla formazione di depositi contenenti IgA invece che
IgG.

GLOMERULONEFRITE RAPIDAMENTE PROGRESSIVA

È una forma grave di glomerulonefrite che vede la proliferazione extra-capillare con interessamento delle
cellule parietali che formano la capsula di Bowman; l’interessamento del mesangio è secondario. I target
principali sono quindi le cellule epiteliali parietali, che vanno a formare le semilune che evolvono poi in
crescents, costituiti da cellule epiteliali e macrofagi (si parla anche di crescentic glomerulonephritis).
Si ha una rapida progressione e se non trattata questa patologia porta al progressivo deterioramento della
funzionalità renale.

Classificazione e patogenesi

La glomerulonefrite rapidamente progressiva può essere causata da diverse patologie, alcune proprie del
rene, altre secondarie. Sebbene non vi sia una eziologia univoca alla base della patologia, nella maggior
parte dei casi il danno è immuno-mediato.
Si distinguono più tipi di glomerulonefrite rapidamente progressiva:
- Tipo I (20%) → è causata da auto-anticorpi anti-membrana basale (sindrome di Goodpasture)
L’antigene riconosciuto nella maggior parte dei casi è la porzione non collagena della catena α3 del
collagene di tipo IV; nella sindrome di Goodpasture gli anticorpi possono colpire anche la
membrana basale degli alveoli. La formazione degli auto-anticorpi sembra legata alla
predisposizione genica (aplotipi HLA) e alla esposizione a virus, solventi idrocarburici, farmaci o
neoplasie. La terapia prevede plasmaferesi e immunosoppressori.
- Tipo II (40%) → causata da immunocomplessi (glomerulonefrite post-infettiva, nefrite lupica,
nefrite da IgA, porpora di Schonlein-Henoch, evoluzione della glomerulonefrite membrano-
proliferativa)
Oltre alle semilune, questa forma presenta anche proliferazione cellulare e leucociti. La terapia si
basa sul trattamento della patologia alla base.
- Tipo III (40%) → non-immune o pauci-immune (ANCA-associata, idiopatica, poliangite
granulomatosa di Wegener)

Morfologia

Alla microscopia ottica si nota un glomerulo compresso, con semiluna


circonferenziale: attraverso dei gaps entrano dentro fibroblasti e
macrofagi. Si ha obliterazione dello spazio di Bowman. Queste semilune
(crescents) andranno a comprimere la struttura del glomerulo,
rendendolo obsolescente. C’è una rottura della lamina basale della

326
capsula: attraverso queste spaccature entrano nelle semilune macrofagi e fibroblasti che danno un quadro
di fibrosi. Inizialmente le semilune presentano una componente cellula varia, ma successivamente, grazie
alla rottura delle membrana basale, giungono fibroblasti e macrofagi che conferiscono l’aspetto fibroso.
Con il tempo, la maggior parte delle semilune si organizza e i foci di necrosi segmentaria si risolvono come
cicatrici segmentarie (un tipo di sclerosi segmentaria), ma mediante un trattamento aggressivo si può
ripristinare una normale architettura glomerulare.
All’immunofluorescenza, nelle forme di tipo I si evidenzia una fluorescenza lineare della MBG per IG e
complemento; nelle forme di tipo II si evidenziano depositi mesangiali, subendoteliali e subepiteliali (IgG,
IgA, IgM), fibrina e fibrinogeno; nelle forme di tipo III si evidenzia presenza di scarsità o addirittura assenza
di depositi immunitari e sono presenti solo fibrina e fibrinogeno.
Al microscopio elettronico si evidenzia il collasso delle anse capillari glomerulari, proliferazione cellulare,
allargamento della lamina rara interna e rigonfiamento endoteliale, fibrina, frammentazione della lamina
basale, cellule infiammatorie e fibroblasti nella capsula, matrice tipo lamina basale o contenente collagene.
La microscopia elettronica non è però molto rilevante, dal momento che le caratteristiche sono già evidenti
alla microscopia ottica.

Clinica e prognosi

Colpisce principalmente i soggetti maschi con aplotipo HLA-DR2 e si presenta con insufficienza renale
oligurica o anurica.
La prognosi dipende dal grado della lesione glomerulare irreversibile, la presenza di crescents ha valore
prognostico negativo, e dalla risposta alla terapia steroidea e immunosoppressiva.

GLOMERULONEFRITE MEMBRANO-PROLIFERATIVA (GNMP)

Va considerata un quadro di danno immuno-mediato piuttosto che una malattia specifica; la


denominazione membrano-proliferativa si riferisce al fatto che sono coinvolti sia il mesangio, che prolifera
nella sua componente cellulare e porta ad un aumento della matrice, sia la membrana basale: vi sono
quindi un aumento della cellularità e un ispessimento della parete vascolare, condizioni che comprimono il
lume vascolare. L’aspetto finale della patologia è una lobulazione del glomerulo, caratteristica tipica della
malattia.
Vi sono forme ereditarie, tipiche dei bambini, forme idiopatiche e forme secondarie a malattie sistemiche,
come epatite C e B e crioglobulinemie. Clinicamente si manifesta con sindrome nefrosica o più raramente
con sindrome nefritica.

Classificazione

Esiste una vecchia classificazione che vede la GNMP divisa in tre gruppi, sulla base della localizzazione degli
immunocomplessi:
- Tipo I → il microscopio elettronico evidenzia depositi mesangiali e sub-endoteliali di IgM, IgG e C3
(evidenziabili all’immunofluorescenza); la microscopia ottica evidenzia un aumento delle cellule
mesangiali, che vanno ad inserirsi nella lamina densa della membrana basale, conferendo alla
membrana un aspetto ispessito, detto a doppio contorno o aspetto a binario. Il microscopio
elettronico evidenzia anche un appiattimento dei pedicelli, infatti, clinicamente la malattia si
manifesta con sindrome nefrosica. Al microscopio elettronico sono visibili i depositi a livello
endoteliale e sub-mesangiale, quindi nella lamina rara interna, e una lamina densa duplicata per
interposizione di prolungamenti delle cellule mesangiali.
- Tipo II → è detta malattia a depositi densi e si hanno depositi di C3 che permeano completamente
la membrana basale e all’immunofluorescenza si presentano con deposizione lineare, che distorce
l’architettura vascolare. La microscopia elettronica evidenzia depositi intramembranosi, che
possono interessare anche la capsula di Bowman e i tubuli, appiattimento dei pedicelli e aumento

327
della matrice mesangiale. Al microscopio ottico il glomerulo appare dilatato, con ispessimento
diffuso della MB e sclerosi mesangiale. Nel 50% dei casi evolve in insufficienza renale dopo 10 anni.
- Tipo III → è simile al tipo I, con membrana basale a doppio contorno, ma si hanno anche depositi
sub-epiteliali, con formazione di spikes

La nuova classificazione distingue invece le varie forme sulla base alla composizione dei depositi:
- Tipo I → deposizione di immunocomplessi contenenti IgG e complemento
- Tipo II → malattia a depositi densi, il cui in fattore preponderante è l’attivazione del complemento;
questa forma rientra nelle glomerulopatie da C3

Malattia a depositi densi – Dispensa

La maggior parte dei pazienti affetti da questa condizione presenta anomalie che portano alla eccessiva
attivazione della via alternativa del complemento: questi pazienti presentano bassi livelli di C3, ma
normali livelli di C1 e C4; sono ridotti anche il fattore B e la properdina, componenti della via alternativa del
complemento. C3, fattore B e properdina si depositano nei glomeruli.
La maggior parte dei pazienti presenta un anticorpo circolante, detto fattore nefritico C3, che lega la C3-
convertasi e ne inibisce l’inattivazione, favorendo quindi la costante attivazione di C3.
Questa malattia si manifesta tipicamente nei bambini e nei giovani adulti, con ematuria e sindrome
nefrosica. La prognosi è sfavorevole, infatti, circa la metà dei pazienti progredisce a nefropatia terminale;
l’incidenza delle recidive post-trapianto è alta.

In molti casi predomina un quadro di tipo proliferativo mesangiale, mentre altri hanno un aspetto
infiammatorio e, focalmente, a semilune. La caratteristica patognomica si osserva al microscopio
elettronico: la lamina densa della MBG è permeata da materiale elettrondenso omogeno di origine
sconosciuta. L’immunofluorescenza evidenzia depositi di C3 da ambo i lati della membrana basale, ma
non nei depositi densi; C3 è presente anche nel mesangio sottoforma di anelli mesangiali.

328
NEFROPATIA A IgA – MALATTIA DI BERGER

È tra le patologie renali più diffuse e si caratterizza per la presenza di depositi di IgA nelle regioni
mesangiali ed ematuria ricorrente. Può essere una patologia isolata renale o si può avere un
coinvolgimento renale con deposito di IgA nella porpora di Henoch-Schonlein o nel LES.
I depositi di IgA sono estesi e si ha la proliferazione mesangiale con deposito di matrice mesangiale.
Può colpire qualsiasi fascia d’età, ma interessa soprattutto i giovani adulti di sesso maschile.
Non si ha coinvolgimento dei pedicelli, quindi la manifestazione clinica non è la sindrome nefrosica, ma è
caratterizzata da ematuria macro- o microscopica che si presenta ad intervalli di alcuni mesi; nel 15-40% dei
casi si ha la progressione verso l’insufficienza renale cronica, in un lasso di tempo di circa 20 anni.

Patogenesi – dispensa

È molto importante la predisposizione genetica, infatti, la malattia, che si presenta spesso


secondariamente ad una infezione delle vie respiratorie, presenta una aumentata produzione e una
deposizione aberrante delle IgA polimeriche che pare legata ad un difetto ereditario o acquisito a carico
delle catene di zuccheri contenenti galattosio della regione di legame delle IgA (glicani O-linked). Si ha
quindi una glicosilazione aberrante delle IgA, soprattutto delle IgA1, che comporta la deposizione a livello
glomerulare.
Gli immunodepositi mesangiali attivano le cellule mesangiali, che proliferano e producono matrice,
citochine e fattori di crescita, con conseguente richiamo di cellule infiammatorie.
Le IgA attivano la via alternativa del complemento, infatti, la presenza di C3 nei glomeruli, in assenza di C4
e C1, è tipica di questa patologia.
L’aumentata produzione di IgA che sottende la patologia può essere dovuta ad infezioni dell’apparato
respiratorio o gastroenterico; una aumentata incidenza di nefropatia a IgA si ha nei pazienti con malattia
celiaca e malattie epatiche.

Istologia

Il microscopio ottico mostra un aumento della cellularità e della quota


del mesangio e un concomitante aumento della matrice mesangiale. La
lesione attraversa 5 stadi ingravescenti fino a portare alla completa
obsolescenza del glomerulo. La fase terminale della patologia è
rappresentata dalla sclerosi.
Il mesangio quindi prolifera fino a determinare l’obliterazione del lume
vascolare e l’obsolescenza del glomerulo, con sclerosi visibile nella fase
terminale. Si differenzia dalla glomerulonefrite proliferativa mesangiale
perché in questo caso si ha il deposito di IgA, non IgM
L’immunofluorescenza mostra depositi di IgA ad aspetto semilunare
nelle regioni para-mesangiali e mesangiali; i depositi spesso si
associano a C3.
Il microscopio elettronico si evidenziano i depositi semilunari tra la
membrana basale e il mesangio ed eventualmente l’appiattimento dei
pedicelli.

329
GLOMERULOPATIA DIABETICA – Dispensa

Circa il 30-40% di tutti i diabetici sviluppa segni clinici evidenti di nefropatia, ma solo una frazione
decisamente minore di pazienti con diabete di tipo 2 progredisce fino allo stadio terminale della malattia
renale. La frequenza di nefropatia diabetica nei pazienti con DMT2 è notevolmente influenzata dal corredo
genetico dei pazienti, ad esempio, ispanici, i nativi americani e gli afroamericani presentano un rischio
maggiore di sviluppare insufficienza renale terminale.
La malattia renale nei pazienti diabetici attraversa più fasi:
- Prima dell’insorgenza dei segni clinici si osserva un aumento della VFG e della perfusione
glomerulare
- Si ha l’ispessimento della MBG, l’aumento di volume del glomerulo e l’espansione del mesangio
- La manifestazione clinica precoce è la micro-albuminuria (< 300 mg/die)
- Compare poi macro-albuminuria (> 300 mg/die) e nel corso dei decenni si va incontro a
insufficienza renale e malattia renale terminale; la progressione è più lenta in caso di DMT2
rispetto ai pazienti con DMT1

Patogenesi

La nefropatia diabetica è il risultato diretto delle alterazioni metaboliche indotte dal diabete.
L’iperglicemia porta alla apoptosi delle cellule mesangiali e alla sovraproduzione di matrice mesangiale.
330
La glicazione delle proteine, tipica della iperglicemia, comporta una diffusa micro-angiopatia.
Si ha una diminuzione delle resistenze dell’arteriola afferente e dell’arteriola efferente del glomerulo, che
esita in un aumentata perfusione e filtrazione glomerulare; si ha quindi ipertrofia glomerulare con un
aumento della VFG. La perdita di albumina comporta ispessimento della membrana basale, danno ai
podociti e iperproduzione di matrice mesangiale.
I pazienti diabetici che presentano un danno renale hanno un rischio maggiore di sviluppare altre
complicanze della malattia, come retinopatia, neuropatia, gastroparesi, disfunzioni sessuali, turbe
cognitive, disordini del sonno, scompenso cardiaco, patologia cardiovascolare e piede diabetico.
Nel diabete di tipo I la malattia renale esordisce più tipicamente col quadro tradizionale puro, mentre in
quello di tipo 2 la malattia renale presenta un quadro più confuso a causa della sovrapposizione
dell’invecchiamento, della patologia vascolare, della resistenza all’insulina e dell’obesità.

Morfologia

Sono presenti tre tipi di lesioni: lesioni glomerulari, lesioni vascolari renali e pielonefrite.
Le lesioni glomerulari più importanti sono:
- Ispessimento della membrana basale, che rientra nei sintomi di microangiopatia diabetica ed è
rilevabile al microscopio elettronico. Si ha anche un ispessimento della membrana basale tubulare.
- Sclerosi mesangiale diffusa, in cui si ha un aumento diffuso della matrice mesangiale con
deposizioni PAS+; man mano che la malattia progredisce l’espansione delle aree mesangiali può
portare a configurazioni nodulari
- Glomerulosclerosi nodulare, detta anche glomerulosclerosi intercapillare o malattia di Kimmelstiel-
Wilson. Si hanno noduli di matrice PAS+, ovoidali o sferici, spesso laminati, alla periferia del
glomerulo. Spesso i noduli mostrano caratteristiche della mesangiolisi con sfilacciamento
dell’interfaccia tra mesangio e lume capillare e rottura dei siti di ancoraggio dei capillari; tale
rottura può portare a micro-aneurismi. Con il progredire della malattia i noduli si ingrossano e
possono obliterare il fiocchetto glomerulare. Queste lesioni nodulari sono spesso associate ad
accumuli di materiale ialino nelle anse capillari o adesi alla capsula di Bowman.
In seguito alle lesioni glomerulari e arteriolari, il rene soffre di ischemia, sviluppa atrofia tubulare e fibrosi
interstiziale e solitamente subisce una contrazione.
L'aterosclerosi e l'arteriolosclerosi renale costituiscono parte della macroangiopatia diabetica.
L'arteriolosclerosi ialina interessa non soltanto le arteriole afferenti ma anche quelle efferenti. Questa
arteriolosclerosi delle arteriole efferenti non viene praticamente mai riscontrata nei soggetti non affetti da
diabete.
La pielonefrite è un'infiammazione acuta o cronica dei reni che di solito inizia nel tessuto interstiziale per
propagarsi poi ai tubuli. Un quadro speciale di pielonefrite acuta, la papillite necrotizzante (o necrosi della
papilla), è molto più comune nei diabetici che nei non diabetici.

331
GLOMERULOPATIA IN CORSO DI LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO – Dispensa

Il LES è una malattia autoimmune multiorgano caratterizzata da un’ampia gamma di anticorpi, in


particolare anticorpi anti-nucleo, ANA, in cui i danni sono causati dall’accumulo di immunocomplessi e
degli anticorpi diretti contro cellule e tessuti. Potenzialmente possono essere interessati tutti gli organi e
tessuti, ma prevalgono le lesioni di cute, articolazioni e reni.
Come tutte le malattie autoimmuni, colpisce maggiormente il sesso femminile e alcune etnie, in particolare
quelle nera e ispanica. Il quadro clinico è estremamente variabile.

Gli anticorpi anti-nucleo sono diretti contro gli antigeni nucleari e se ne distinguono quattro tipi: anticorpi
anti-DNA, anticorpi anti-istoni, anticorpi anti-ribonucleoproteine e anticorpi anti-nucleolo.
La determinazione degli ANA si basa principalmente sulla immunofluorescenza indiretta, infatti, la
distribuzione della fluorescenza nucleare è indicativa del tipo di anticorpi presente:
- Fluorescenza omogenea e diffusa del nucleo → anticorpi anti-cromatica, anti-istoni e anti-DNAds
- Fluorescenza ad anello o periferica → anticorpi anti-DNAds e anti-membrana nucleare
- Fluorescenza puntiforme → anticorpi diretti contro costituenti nucleari diversi dal DNA, come
antigene Sm, ribonucleoproteina e antigeni reattivi SS-A e SS-B
- Fluorescenza centromerica → anticorpi anti-centromeri (tipici della sclerosi sistemica).
Gli ANA sono presenti anche in altre patologie autoimmuni, come sclerosi sistemica e sindrome di Sjogren;
gli anticorpi virtualmente diagnostici di LES sono gli anticorpi anti-DNAds e anti-Sm (antigene di Smith).
Nel LES sono spesso presenti anche autoanticorpi diretti contro cellule ematiche e contro i fosfolipidi;
alcuni degli anticorpi presenti nel LES interferiscono in vitro con i parametri coagulativi, pertanto sono detti
anticoagulante del lupus, LAC.
Strettamente associati allo sviluppo di nefrite lupica sono gli anticorpi anti C1q: il C1q è molto importante
per lo smaltimento dei NETs e se esso non funziona in modo adeguato i NETs non vengono sgomberati e si
accumulano cellule apoptotiche, con conseguente danno d’organo. Se gli anticorpi anti-C1q sono assenti,
non si ha danno renale; prima di decidere se eseguire una biopsia renale è quindi importante valutare
questi anticorpi.
332
Alla base dello sviluppo del LES vi è un deficit di tolleranza immunologica nei confronti degli antigeni self.
La causa di tale deficit di tolleranza immunologica è sconosciuta, ma sono stati identificati fattori
predisponenti, sia genetici che ambientali.
Fattori genetici:
- Specifici alleli HLA-DQ
- Deficit dei fattori del complemento, con conseguente compromissione della rimozione degli
immunocomplessi circolanti da parte dei fagociti. Il deficit di C1q comporta anche una riduzione
della rimozione delle cellule apoptotiche da parte dei fagociti
- Alterazione di proteine che intervengono nella segnalazione linfocitaria e nelle risposte basate
sull’interferone
Fattori ambientali:
- Esposizione alla luce ultravioletta, che può determinare l’apoptosi e alterare il DNA, rendendolo
immunogeno
- Ormoni sessuali
- Farmaci, come idralazina, procainainide, penicillamina
L’irradiazione UV e altri fattori ambientali causano apoptosi cellulare e il deficit del meccanismo di
rimozione dei nuclei apoptotici genererebbe un sovraccarico di antigeni nucleari. A loro volta, anomalie
congenite dei linfociti B e T interferirebbero con la tolleranza immunologica promuovendo la sopravvivenza
e l’attivazione di linfociti autoreattivi che, stimolati dagli antigeni self nucleari, produrrebbero autoanticorpi
antinucleo.

La maggior parte delle lesioni sistemiche è causata dagli immunocomplessi (ipersensibilità di tipo III), ma
alcuni anticorpi sono in grado di opsonizzare eritrociti, piastrine e leucociti, promuovendone la fagocitosi
e lisi. Nei tessuti i nuclei delle cellule danneggiate interagiscono con gli ANA e si formano le cellule LE,
ovvero fagociti che hanno internalizzato il nucleo di una cellula danneggiata. pazienti con anticorpi
antifosfolipidi possono sviluppare trombosi venose e arteriose che possono essere associate ad aborti
spontanei ricorrenti e a ischemia focale cerebrale o oculare. Questo quadro clinico associato al LES è detto
sindrome secondaria da anticorpi antifosfolipidi.
Le manifestazioni neuropsichiatriche del LES sono state attribuite ad anticorpi che reagiscono con neuroni
o recettori per vari neurotrasmettitori e attraverso la barriera emato-encefalica. Tuttavia, questa teoria non
è stata dimostrata e le disfunzioni cognitive e le anomalie del SNC associate al LES potrebbero essere
causate da meccanismi che coinvolgono altri fattori immunitari, come le citochine. Le manifestazioni
neuropsichiatriche potrebbero anche essere associate alla sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi: tale
sindrome può danneggiare i vasi encefalici.

Morfologia

Le lesioni tipiche prevedono l’accumulo di immunocomplessi nei vasi, nel rene e nella cute, ma possono
essere coinvolti diversi organi.
Circa il 50% dei pazienti con lupus presenta un interessamento renale legato al deposito di
immunocomplessi e alla loro formazione in situ.
Si distinguono sei gradi di danno glomerulare che possono essere compresenti e evolvere l’uno nell’altro:
1. Glomerulonefrite mesangiale del lupus → deposizione mesangiale di immunocomplessi visibile
solo al microscopio elettronico e alla immunofluorescenza
2. Glomerulonefrite mesangioproliferativa del lupus → si ha proliferazione mesangiale, spesso
accompagnata da accumulo di matrice mesangiale e depositi granulari mesangiali di
immunoglobuline e complemento; i capillari non sono interessati
3. Glomerulonefrite proliferativa focale → le lesioni possono essere segmentali o globali e si
osservano ingrossamento e proliferazione delle cellule mesangiali ed endoteliali, accumulo di
leucociti, necrosi capillare e trombi ialini; spesso si hanno semilune epiteliali. Il quadro clinico varia
da una lieve ematuria e proteinuria ad insufficienza renale acuta.

333
4. Glomerulonefrite proliferativa diffusa → le lesioni sono simili a quelle del grado 3, ma interessano
più del 50% dei glomeruli. I depositi di immunocomplessi subendoteliali possono creare un
ispessimento circolare intorno alla parete capillare, formando strutture ad “ansa di fil di ferro”
visibili al microscopio ottico.
5. Glomerulonefrite membranosa → ispessimento diffuso delle pareti capillari dovuto all’accumulo di
immunocomplessi subepiteliali; si ha un ispessimento della membrana basale
6. Glomerulonefrite sclerosante avanzata → si ha la sclerosi di più del 90% dei glomeruli e
rappresenta lo stadio terminale della malattia.
Nella nefrite lupica sono comuni anche alterazioni interstiziali e tubulari: si hanno depositi di
immunocomplessi anche nelle membrane basali dei capillari tubulari e peri-tubulari e nell’interstizio
possono esserci follicoli di linfociti B e plasmacellule.

A livello cutaneo si possono avere eritema a farfalla, detto anche eritema malare, orticaria, vescicole,
maculopapule e ulcere; l’esposizione alla luce solare scatena o aggrava le manifestazioni cutanee.
All’esame istologico, le aree interessate presentano: degenerazione vacuolare dello strato basale
dell’epidermide, edema variabile del derma con infiammazione perivascolare, importante vasculite e
necrosi fibrinoide. L'immunofluorescenza mostra depositi di immunoglobuline e complemento lungo la
giunzione dermoepidermica, che possono interessare anche la cute sana.
A livello articolare si ha una sinovite non erosiva.
A livello di SNC la lesione tipica è l’obliterazione dei piccoli vasi in seguito a proliferazione intimale,
probabilmente dovuta a lesioni endoteliali indotte dagli anticorpi o dagli immunocomplessi.
A livello cardiaco possono svilupparsi miocardite, endocardite e pericardite. Molti pazienti presentano una
aterosclerosi accelerata che porta a coronaropatia sintomatica.

Lupus eritematoso discoide

Il lupus eritematoso discoide cronico è una malattia con segni cutanei che mimano il LES, ma in cui le
manifestazioni sistemiche sono rare. Il quadro clinico è caratterizzato da placche cutanee atrofiche, con
edema variabile, eritema, desquamazione e occlusione follicolare, delimitate da un margine eritematoso
rilevato. Le lesioni si localizzano generalmente al volto e sul cuoio capelluto, ma talora possono essere

334
disseminate. L’immunofluorescenza della cute mostra i tipici depositi di immunoglobuline e C3 in
corrispondenza della giunzione dermoepidermica. Il 35% circa dei pazienti è positivo per gli ANA generici,
ma gli anticorpi anti-DNAds sono rari.

Lupus eritematoso cutaneo subacuto

Anche questa patologia interessa prevalentemente la cute e si differenzia dal lupus discoide per alcuni
criteri. L’eritema è tendenzialmente diffuso, superficiale e non cicatriziale, anche se in alcuni casi si
possono sviluppare lesioni cicatriziali. C’è una forte associazione con gli anticorpi anti-SS-A e con il genotipo
HLA-DR3.

LES iatrogeno

Vari farmaci, quali idralazina (attualmente non in commercio in Italia), procainamide, isoniazide,
penicillina-D, possono causare una sindrome lupica iatrogena. Molti di questi farmaci inducono la
formazione di ANA, ma la maggior parte dei pazienti è asintomatica; l’interessamento renale e nervoso è
raro. Soggetti con genotipo HLA-DR4 hanno un rischio maggiore di sviluppare una sindrome simil-lupoide se
trattati con idralazina, mentre quelli con HLA-DR6 (ma non DR4) presentano un rischio elevato con
procainamide. La malattia è reversibile con la sospensione del farmaco. Gli anticorpi anti-DNAds sono rari,
mentre sono frequenti gli anticorpi anti-istone.

GLOMERULOPATIE EREDITARIE PRIMITIVE

Le forme principali sono la sindrome di Alport e l’ematuria benigna familiare, entrambe caratterizzate da
mutazioni dei geni codificanti per le catene α3, α4, α5 del collagene di tipo IV, principale costituente della
lamina densa della membrana basale, e dalla presenza di ematuria.

Ematuria benigna familiare

È detta anche nefropatia a membrane basali sottili, a causa del diffuso assottigliamento della membrana
basale, infatti, lo spessore della membrana basale diviene quasi la metà (150 nm) dello spessore normale
(300-350 nm). È causata da mutazioni autosomiche dei geni codificanti per le catene α3 e α4.
Clinicamente si manifesta con ematuria familiare asintomatica persistente, macroscopica o microscopica.
La prognosi è eccellente nei pazienti senza altre patologie associate, ma può presentarsi anche in
associazione ad altre patologie glomerulari, come la glomerulonefrite proliferativa mesangiale o la
glomerulosclerosi segmentale focale, determinando un quadro più complesso.
È necessaria la diagnosi differenziale con la nefropatia a IgA, dal momento che entrambe la condizioni sono
caratterizzate da ematuria e MB sottile.

Alla microscopia ottica il rene appare normale.


Alla immunofluorescenza è possibile rilevare una deposizione di C3.
Alla microscopia elettronica è ben osservabile l’assottigliamento della
membrana basale, spesso segmentale, associato ad un ispessimento
della matrice mesangiale e alla presenza di depositi.

Sindrome di Alport

Si tratta di una malattia genetica ereditaria associata, oltre che al danno renale e all’ematuria microscopica,
a sordità neurosensoriale progressiva e ha problemi di visione.

335
È sempre coinvolta la lamina densa della MB, ma in questo caso le lesioni possono essere più eterogenee: è
possibile che vi sia un assottigliamento, ma in altri casi si ha uno slaminamento con conseguente
ispessimento.
Nell’85% dei casi l’ereditarietà è legata al cromosoma X, mentre nel 10-15% dei casi si tratta di una malattia
autosomica dominante o recessiva; la mutazione è a carico del gene codificante per la catena α5.
Clinicamente si presenta con ematuria microscopica, difetto cocleare progressivo e difetti visivi. I sintomi
si manifestano tra i 5 e i 20 anni e l’insufficienza renale conclamata si raggiunge tra i 20 e i 50 anni.

Al microscopio ottico si ha un lieve aumento della matrice mesangiale


con caratteri di irregolarità; l’interstizio diventa progressivamente fibroso
e presenta diverse foam cells.
Tramite immunofluorescenza non si ha reattività, ma solo positività
tramite anticorpi specifici per le catene α3, α4, e α5 del collagene.
Fondamentale è l’analisi con il microscopio elettronico: la membrana
basale mostra irregolari focolai di ispessimento alteranti ad aree di
assottigliamento; si ha slaminamento e frammentazione della lamina
densa, che assume il tipo aspetto a briciole di pane, per la presenza dei
frammenti cellulari.

336
TUMORI DEL RENE

Epidemiologia

I tumori della corticale del rene originano dai tubuli e la loro incidenza è in forte aumento; tale aumento
dell’incidenza è anche dovuto ad un aumento delle diagnosi, soprattutto in fase precoce, grazie ad
ecografia o TC eseguita per altri motivi. La sopravvivenza a 5 anni è del 76,5%.
Quando la neoplasia non può essere aggredita dal punto di vista chirurgico, la sopravvivenza è minore;
quando la lesione è di dimensioni ridotte si procede con nephron sparing, tecnica oncologicamente
radicale che permette di preservare una quota maggiore di parenchima renale e ridurre il tasso di incidenza
delle insufficienze renali post-operatorie (in passato si asportava tutto il rene indipendentemente dalle
dimensioni del tumore).
Il 17% dei pazienti presenta metastasi al momento della diagnosi, con una sopravvivenza a 5 anni pari al
12%; in questi casi si procede con immunoterapia o terapia con fattori anti-angiogenetici, infatti, molti
tumori del rene presentano una importante base angiogenica.
Complessivamente i tumori del rene rappresentano il 2% di tutti i tumori maligni dell’uomo e in Italia si
hanno circa 15.000/20.000 nuovi casi all’anno.

Epidemiologia molecolare

Vi sono alcune sindromi con predisposizione familiare associate a neoplasia renale:


- Malattia di Von Hippel-Lindau → condizione a trasmissione autosomica dominante caratterizzata
dalla perdita dell’oncosoppressore VHL, coinvolto nella resistenza cellulare all’ipossia. Il deficit di
questo gene comporta la mancata ubiquitinazione di HIF-1α che si accumula determinando un
incremento dell’angiogenesi; questo processo fa sì che le cellule riescano a resistere a condizioni
con pressione parziale di ossigeno ridotta, condizioni tipiche dei tumori.
Tale sindrome è caratterizzata da: emangioblastomi nella retina, lesioni del SNC, feocromocitoma,
cistoadenoma dell’epididimo, cisti pancreatiche, cisti renali, carcinoma delle cellule renali, RCC (che
si manifesta in giovane età ed è tipicamente bilaterale e multiplo).
- Sclerosi tuberosa → patologia autosomica dominante legata alla perdita degli oncosoppressori
TSC1 e TSC2, tuberous scleoris complex, caratterizzata da:
o Lesioni amartomatose a carico di SNC, retina, cuore, osso, polmone e rene
o Cisti renali e aumentato rischio di RCC
- Malattia policistica renale autosomica dominante
- Carcinoma papillare renale ereditario – HPRC → neoplasie che presentano mutazioni
dell’oncogene MET; la trasmissione è autosomica dominante
- Leiomiomatosi ereditaria e sindrome da carcinoma renale → patologia autosomica dominante
causata da mutazioni del gene FH, codificante per la fumarato idratasi, caratterizzata da leiomiomi
cutenei ed uterini e una forma aggressiva di carcinoma papillare renale
- Sindrome di Birt-Hogg-Dubè → causata da mutazioni, autosomico dominanti, del gene BDH,
codificante per la follicolina; questa sindrome è caratterizzata da tumori cutanei, polmonari e
renali.
- Sindrome da predisposizione a tumori correlata a BAP1 → sindrome autosomica dominante
associata a melanomi, mesotelioma e tumori renali a cellule chiare
Tutte queste mutazioni presentano anche un corrispettivo sporadico.

Fattori di rischio

Un fattore di rischio correlato allo sviluppo di tumori renali è l’obesità, infatti, alcune vie cancerogenetiche
coinvolte sono associate a mutazioni di enzimi appartenenti al ciclo di Krebs; questo fattore spiega anche
l’aumento di incidenza di neoplasie renali che si è riscontrato negli ultimi anni e l’istologia di alcuni gruppi
di tumori renali, che presentano molti lipidi.

337
Altri fattori di rischio sono il fumo di sigaretta, l’ipertensione, la malattia renale cistica acquisita e
ovviamente la familiarità. Diuretici, farmaci anti-ipertensivi, patologie urologiche e anfetamine sono fattori
di rischio ancora controversi. Sono in corso studi sul ruolo di analgesici, fattori dietetici, fattori riproduttivi
ed esposizione occupazionale.

Segni e sintomi

I sintomi principali sono dolore al fianco ed ematuria; in alcuni casi si ha anche la presenza di una massa
palpabile. L’ematuria può essere intermittente e microscopica, quindi può succedere che il tumore rimanga
silente fino al raggiungimento di grandi dimensioni e alla comparsa di una sintomatologia sistemica, che
comprende febbre, malessere, debolezza e calo ponderale. In alcuni casi si possono avere sintomi associati
ad una anomala produzione ormonale: policitemia, ipercalcemia, ipertensione, disfunzione epatica,
femminizzazione o mascolinizzazione, sindrome di Cushing, eosinofilia, reazioni leucemoidi e amiloidosi.
Una complicanza del tumore renale è la tendenza a metastatizzare prima di dare sintomi locali, tanto che
nel 25% dei pazienti si hanno metastasi al momento della diagnosi. Le metastasi sono tipicamente al
polmone e alle ossa, ma possono interessare anche linfonodi, fegato, ghiandole surrenali ed encefalo.

Classificazione

I tumori renali risultano molto diversi tra loro dal punto di vista morfologico e le diverse proprietà
tintoriali, con ematossilina-eosina, sono sfruttate per la classificazione delle lesioni. Nell’ambito poi della
specifica tipologia di tumore, vi sono poi diversi tipi di neoplasia, che si distinguono dal punto di vista
molecolare, prognostico e terapeutico.

Il più frequente è il carcinoma a cellule chiare, CC-RCC, così chiamato dal momento che presenta cellule
con citoplasma ricco di lipidi, che si sciolgono nella processazione istologica con l’alcool e conferiscono alle
cellule un aspetto vuoto, quindi chiaro. Molti di questi tumori presentano mutazioni di VHL, ma vi sono
anche tipologie benigne che potenzialmente possono essere lasciate in sede.
Il tumore papillare, papillary-RCC, assume una forte colorazione, tanto che viene detto cromofilo.
I tumori cromofobi, Ch-RCC, sono invece tumori che si presentano con cellule chiare, dal momento che non
attirano l’eosina e nuclei tondi, ma presentano caratteristiche differenti dai tumori a cellule chiare. Questi
tumori sono stati rinominati ossifli o pink tumors e la denominazione cromofobi viene è riservata alle forme
più maligne.
Altre forme sono quelle inclassificabili, i tumori da traslocazione e il tumore midollare.

338
La classificazione MAINZ del 1986 distingue le varie forme di carcinoma renale sulla base della morfologia e
della correlazione citogenetica:
- 70% tumori a cellule chiare
- 15% cromofili
- 5% cromofobi
- 2% carcinomi del dotto collettore
- 5% oncocitoma
La classificazione è stata aggiornata nel corso degli anni e nel 2022 si è giunti alla distinzione di più di 20
tipologie di tumore.

Classificazione immunoistochimica:
I tumori renali nell’adulto si localizzano
sempre a livello tubulare e sono stati
identificati diversi marcatori
immunoistochimici per distinguere il
coinvolgimento dei tubuli prossimali dal
coinvolgimento dei tubuli distali. Ad
esempio, i carcinomi a cellule chiare VLH-
correlati sono CK7+ e RCC+ e pertanto
originano probabilmente dai tubuli
prossimali, mentre i tumori papillari
risultano CK7+ e CD10- ed originano
probabilmente dai tubuli distali.

Un’altra tecnica utile alla classificazione è


la FISH, che in passato permise di capire
che la maggior parte dei tumori a cellule chiare presenta delezione del locus 3p, dove si trova il gene VHL; la
perdita di tale locus è infatti patognomica dei tumori a cellule chiare.
La possibilità di distinguere le diverse neoplasie da un punto di vista molecolare ha anche importanti risvolti
terapeutici, ad esempio l’identificazione di una neoplasia benigna in un paziente anziano permette di
evitare una nefrotomia non necessaria.

ANGIOMIOLIPOMA - AML

È il più frequente tumore benigno del rene ed è dotato di tre componenti: sottili vasi sanguini (angio),
muscolo liscio (mio) e grasso (lipo). Appare come un nodulo giallastro di tessuto adiposo con zone più
grige di tessuto muscolare e molti vasi; in alcuni casi può avere anche un aspetto quasi completamente
muscolare.
Viene solitamente diagnosticato incidentalmente e se non provoca dolore o compressione di altri organi e
non è emorragico non si asporta.
Nella metà dei casi si associa a sclerosi tuberosa e la prevalenza è nettamente maggiore nel sesso
femminile. È fortemente predisposto all’emorragia spontanea. Entra in diagnosi differenziale con lipoma,
leiomioma e leiomiosarcoma.

Angiomiolipoma epitelioide

Deriva dalla proliferazione delle cellule PEC, periendotelial cells, che possono avere una differenziazione
sia in senso muscolare che in senso mesenchimale. Può essere associato a sclerosi tuberosa e ad alcune sue
manifestazioni, come la linfangioleiomiomatosi, malattia rara che interessa soprattutto le giovani donne ed
è caratterizzata da cisti polmonari, che originano dalla proliferazione delle cellule PEC alveolari, oltre a
lesioni renali.

339
La denominazione epitelioide indica la somiglianza con il carcinoma.
In alcuni casi questa neoplasia può risultare aggressiva e disseminare ai linfonodi o ad altri organi.
I fattori che indicano una maggiore aggressività sono:
- > 70% di cellule epitelioidi atipiche
- > 2 figure mitotiche atipiche su 10 hpf
- Necrosi
Queste caratteristiche distinguono l’AML epitelioide con atipie da quello senza atipie.
Dal punto di vista immunoistochimico si ha una lesione positiva per HMB45, marcatore melanocitario
tipico dei melanomi, e negativa per WSCKs, marcatore della cheratina, tipico dei carcinomi.
I parametri clinico-patologici associati ad un maggior rischio di progressione sono:
- Associazione con la sclerosi tuberosa
- Presenza di necrosi
- Dimensioni del tumore > 7 cm
- Estensione extra-renale
- Pattern di crescita simil-carcinoma
La presenza di meno di due parametri prognostici negativi si associa ad un basso rischio di progressione, la
presenza di 2-3 parametri prognostici negativi ad un rischio intermedio e la presenza di più di 4 di tali
parametri ad un rischio elevato.
Gli angiomiolipomi sono caratterizzati da mutazioni di TSC1 e TSC2 che alterano il pathway cellulare della
fosfoinositolo 3 chinasi, PI3K, e sono trattati con inibitori della via di mTOR, come tracolimus, sirolimus ed
everolimus.

TUMORI A CELLULE CHIARE

Il tumore a cellule chiare, detto anche tumore convenzionale, rappresenta il 70% dei tumori renali
dell’adulto ed è caratterizzato da cellule vacuolate per la presenza di lipidi a loro interno; sempre per la
presenza di lipidi macroscopicamente si presenta con aree giallastre, affiancate ad aree grigiastre ripiene di
sangue. È un tumore neoangiogenetico ed è frequente l’emorragia al suo interno, che una volta riassorbita
lascia posto alla sclerosi.
La maggior parte dei casi sono associati alla perdita di VLH, ma si hanno anche forme non VHL-relate.
Questa neoplasia può insorgere in qualsiasi porzione del rene, ma nella maggior parte dei casi interessa i
poli. Origina quasi sicuramente dall’epitelio del tubulo prossimale e si sviluppa come una lesione solitaria
monolaterale, solitamente con margini ben definiti e contenuta nella capsula renale. La crescita varia da
una forma solida, a una forma trabecolare o ad una forma tubulare.
Le cellule tumorali hanno una forma rotonda o poligonale, con citoplasma chiaro o granulare contente
glicogeno e lipidi. Questi tumori presentano una trama vascolare delicata e ramificata e mostrano aree
cistiche e solide. La maggior parte risulta ben differenziata, ma alcuni esibiscono caratteri di atipia cellulare
e nucleare e presentano cellule giganti.
Aumentando di dimensioni la neoplasia può invadere i calici e la pelvi renale, arrivando anche fino
all’uretere.
Una delle caratteristiche tipiche di questa neoplasia è la tendenza a invadere la vena renale: si possono
formare trombosi neoplastiche che arrivano fino alla vena cava inferiore e, talvolta, in atrio destro.

Profilo immunoistochimico

La neoplasia risulta positiva per:


- Citocheratina
- CA IX (99% dei casi), anidrasi carbonica associata metabolicamente a HIF-1α
- RCC
- Vimentina
- CD10
- PAX VIII

340
Risulta invece negativa per CK7 (90% dei casi) e AMACR.

Aspetto radiologico

Radiologicamente non è semplice distinguere i tumori a


cellule chiare; attualmente i radiologici adottano la
classificazione di Bosniak:
- Bosniak 1 → cisti benigne semplici, con pareti
sottili e senza setti, calcificazioni e componenti
solide. Il contenuto presenta la medesima densità
dell’acqua.
- Bosniak 2 → cisti con sottili setti o fini
calcificazioni; il contenuto può essere più denso
dell’acqua, ma non assorbe il mezzo di contrasto
- Bosniak 3 → formazioni cistiche indeterminate
che presentano pareti e setti spessi e assumono il
mezzo di contrasto
- Bosniak 4 → le cisti contengono evidenti zone solide in grado di assumere il mezzo di contrasto;
l’aspetto è fortemente sospetto per lesione maligna.

Lesioni geniche associate

Nelle forme associate ad alterazioni di VHL è possibile riscontrare:


- Mutazione somatica del gene o ipermetilazione del promotore, nella sindrome di Von Hippel-Lindau
- Nelle forme sporadiche si ha la perdita di 3p per un evento di cromotripsi
La perdita di VHL nei ccRCC risulta in un’attivazione costitutiva di HIF e nell’espressione dei geni target [R:
Fra questi vi sono geni che promuovono l’angiogenesi, come il VEGF, e geni che stimolano la crescita
cellulare, come il fattore di crescita simil-insulina di tipo 1 (IGF-1).
In altri casi si riscontrano mutazioni di TCEB1 (5% dei casi) che risultano mutualmente esclusive con le
mutazioni di VHL, ma che portano comunque, probabilmente, ad una compromissione della funzione di VHL.
In circa il 20% dei carcinomi a cellule chiare le alterazioni geniche riguardano geni legati alla
deconvoluzione del DNA dalle proteine istoniche: si tratta dei geni SETD2, BAP1 e PBRM1, localizzati
sempre sul braccio corto del cromosoma 3, come VHL.
In base alle mutazioni presenti si hanno diversi gradi di aggressività della neoplasia:
- Se manca solo VHL il tumore è poco aggressivo
- Se si hanno alterazioni di VHL e PBRM1 il tumore è poco aggressivo
- Se si hanno alterazioni di VHL e BAP1 il tumore è più aggressivo
I tumori VHL-relati possono essere trattati, in caso di metastasi, con farmaci anti-angiogenici, mentre nei
tumori VHL-non relati questi farmaci non hanno efficacia.

Neoplasia multiloculare cistica a basso potenziale di malignità (ex carcinoma a cellule chiare cistico)

Si tratta di una lesione benigna caratterizzata da cisti


(Bosniak III-IV) con proliferazione di cellule chiare.
Non presenta delezione di VHL e viene trattata
rimuovendo solo la cisti nucleata, grazie alle tecniche
di chirurgia robotica.

341
TUMORI PAPILLARI

Progressione e aggressività di queste lesioni dipendono dalle dimensioni:


- < 15 mm → lesione benigna, detta adenoma papillare
- > 15 mm → lesione maligna, detta carcinoma papillare

Adenoma papillare

È spesso riscontrato incidentalmente, anche in corso di


autopsia, non è capsulato e presenta papille regolari. Le
papille presentano un asse vasculo-stromale rivestito da
epitelio.
I criteri diagnostici sono: architettura tubulo-papillare,
diametro < 15 mm, somiglianza con carcinoma papillare di
basso grado e assenza di somiglianza con altri RCC.

Carcinoma papillare (cromofilo)

Il carcinoma papillare è il secondo tumore renale per frequenza e colpisce soprattutto soggetti di sesso
maschile intorno ai 55 anni. Si hanno lesioni circoscritte che presentano emorragia e necrosi e risultano
spesso multifocali o bilaterali. Predomina l’architettura papillare, ma la neoplasia può anche essere solida.
Si hanno cellule cuboidali o cilindriche organizzate in formazioni papillari; tali cellule presentano
dimensioni variabili e varia anche la colorazione citoplasmatica. Il volume citoplasmatico è ridotto e il
rapporto nucleo/citoplasma aumentato. Possono essere presenti psammomtosi, macrofagi foamy ed
edema delle papille. Si ritiene che origini dai tubuli contorti distali.
Si associa ad alterazioni di MET (esiste anche la forma familiare: carcinoma papillare renale familiare) e
polisomie dei cromosomi 7 e 17.
Dal punto di vista immunoistochimico risulta positivo per CK7 e
AMARC e negativo per CK20.

Basso grado
Presenta piccole cellule con citoplasma basofilo, nuclei con nucleoli
poco evidenti, macrofagi, corpi psammomatosi e cristalli di calcio
ossalato. È spesso associato a mutazioni o ad un incremento di
espressione di MET. La prognosi è buona e l’asportazione è spesso
curativa.

Alto grado
Presenta una architettura solida con grandi cellule con citoplasma
eosinofilo abbondante e nucleoli prominenti. Rare sono le papille, i
macrofagi, i corpi psammomatosi e l’edema.
È correlato alla perdita di geni coinvolti in vie metaboliche o TSC1 e
TSC2. La prognosi è infausta.
Pare siano associati a deficit della fumarato idratasi e a perdita per
metilazione di CDKN2A.
Alcuni tipi di carcinoma papillare sono associati alla leiomiomatosi
ereditaria; si tratta di tumori dovuti alla mutazione germinale della
fumarato idratasi e associati a prognosi peggiore.
La perdita di funzione del ciclo di Krebs pare favorire i tumori poiché facilita l’effetto Warburg.

342
TUMORI DELLE CELLULE RENALI CON CARATTERISTICHE ONCOCITICHE

I tumori oncocitari risultano microscopicamente rosa, dal momento che sono formati da cellule ricche di
mitocondri e possono essere sia benigni che maligni. La classificazione WHO del 2016 distingue:
- Oncocitoma, benigno
- Carcinoma cromofobo, maligno
- Tumore oncocitico ibrido, forma familiare presente della sindrome di Birt-Hogg-Dubè
La classificazione WHO del 2022 ha aggiunto tre entità, che sono lesioni intermedie con un potenziale di
malignità basso o incerto. Si tratta di carcinomi renali non classificabili con aspetti oncocitari:
- Eosinophilic Solid and Cystic renal cell carcinoma (ESC RCC)
- Low-grade Oncocytic renal Tumor (LOT)
- High-grade Oncocytic renal Tumor (HOT)

Questi tumori sono associati a mutazioni somatiche inattivanti TSC2 o mutazioni attivanti mTOR, questi
sono geni coinvolti in diverse vie di trasduzione del segnale, compresa quella di PI3K. Si tratte di neoplasie
spesso associate alla sclerosi tuberosa, sindrome caratterizzata da fibromi ungueali, lesioni cutanee
ipocromatiche intorno alla bocca, epilessia, convulsioni, ritardo mentale, interessamento polmonare,
cardiaco, renale, oculare, ecc.

Oncocitoma

Lesione benigna che costituisce l’8% delle neoplasie tubulari renali e si verifica negli adulti, tra i 50 e gli 80
anni, con una prevalenza nel sesso maschile.
Gli oncocitomi mostrano perdite cromosomiche ricorrenti (1, 14, 21, X e Y) e possono essere associati a
mutazioni di geni mitocondriali. Si ritiene che questa neoplasia derivi da cellule intercalari del tubulo
distale.
Può manifestarsi come massa palpabile e con ematuria, ma solitamente la diagnosi è incidentale, tramite
indagini radiografiche: spesso presentano una caratteristica cicatrice centrale che conferisce loro l’aspetto
a ruota di carro e li distingue dal carcinoma renale;
tale caratteristica non è sempre presente, pertanto
a volte vengono rimossi.
L’immunoistochimica evidenzia positività per
CD117/CKIT e indice proliferativo Ki67 basso.
Macroscopicamente si presentano come lesioni
rosso scure compatte.
Microscopicamente le lesioni sono caratterizzate
da isole di cellule immerse in uno stroma lasso,
che nel corso degli anni può organizzarsi portando
alla formazione della cicatrice centrale.
Gli oncocitomi di recente insorgenza hanno uno
stroma mixoide e sono privi di cicatrice centrale.

Tumore oncocitico ibrido

È considerato una via di mezzo tra l’oncocitoma e il carcinoma cromofobo e spesso si presenta in
associazione con la sindrome di Bird-Hogg-Dubè e con l’oncocitosi renale, condizione caratterizzata da
multiple lesioni bilaterali (questa condizione in passato era tratta con nefrectomia bilaterale, attualmente
questo approccio non si segue MAI).
Caratteristiche istologiche:
- Aree miste di oncocitoma e carcinoma cromofobo
- Citoplasma granulare esosinofilico

343
- Alone chiaro che circonda i nuclei rotondeggianti
Raramente queste neoplasie presentano la perdita del cromosoma 1.
L’immunocolorazione per CK7 può aiutare nella diagnosi differenziale delle lesioni oncocitiche:
- Oncocitoma → cellule negative o rare cellule positive
- Tumore oncocitico ibrido → piccoli ammassi di cellule positive
- Carcinoma cromofobo → diffusamente positivo

Carcinoma cromofobo

Rappresenta il 6% delle neoplasie epiteliali renali e colpisce in ugual modo entrambi i sessi.
È circoscritto, globoso, solido, bruno-grigiastro e presenta architettura solida compatta.
Microscopicamente presenta cellule con membrane citoplasmatiche prominenti e citoplasma che si
condensa in posizione peri-nucleare, formando un alone intorno al nucleo. I nuclei hanno un aspetto simile
all’uvetta e si riscontra la presenza di
microvescicole citoplasmatiche.
La forma classica è caratterizzata dalla monosomia
dei cromosomi 1, 2 e 6 e da diverse alterazioni
molecolari a carico di TP53, PTEN e altri geni della
via di PI3K/mTOR, TERT e mutazioni del DNA
mitocondriale a carico di geni codificanti per il
complesso 1 della catena di trasporto degli
elettroni, con conseguente aumento
dell’espressione dei geni codificanti per enzimi del
ciclo di Krebs e della catena di trasporto degli
elettroni.

Eosinophilic Solid and Cystic renal cell carcinoma (ESC RCC)

Si tratta di un tumore solitamente sporadico, non sindromico,


privo di capsula ben formata e con pattern misti macrocistici e
solidi. Nella maggior parte dei casi si tratta di tumori solitari di
basso grado, riscontrati soprattutto nel sesso femminile, con
comportamento indolente, sebbene si abbiano rari casi di
metastatizzazione.
Si hanno cellule dal citoplasma voluminoso e eosinofilo, che
mostra vacuolizzazione intracitoplasmatica e granuli
citoplasmatici viola.
L’immunoistochimica mostra positività per CK20 e Catepsina K e
negatività per CK7 e CD117.
Molti geni mutati associati a questa neoplasia sono coinvolti
nella via di mTOR, caratteristica importante che potrebbe
candidare i pazienti affetti a trattamento con terapia mirata.

Low-grade Oncocytic renal Tumor (LOT)

È tipicamente un tumore singolo e sporadico riscontrato in un


contesto non sindromico in pazienti di 60-70 anni, soprattutto di
sesso femminile. Sono tumori indolenti, senza evidenza di
progressione della malattia; si tratta quindi di una lesione
benigna da non operare.

344
Presenta una morfologia sovrapposta all’oncocitoma e al carcinoma cromofobo, ma non rientra
comletamente in nessuna di queste entità. Risulta CD117-negativo e diffusamente positivo a CK7.
Presenta un aspetto a barchetta, con cellule disperse nello stroma.

Eosinophilic Vacuoleted Tumor (EVT)

Tumore sporadico a cellule renali con citoplasma voluminoso, eosinofilo e


vacuolato.
Risulta positivo per CD117, CK7 in modo sparso e catepsina K.
Ha un andamento indolente.

CARCINOMA DEI DOTTI COLLETTORI

Rappresenta l’1% delle neoplasie epiteliali renali è ha un’alta malignità.


Nella maggior parte dei casi risulta in stadio avanzato, con infiltrazione del
grasso periviscerale, e metastatico già al momento della diagnosi.
Non ha caratteristiche morfologiche o molecolari ben definite ed è
necessaria la diagnosi differenziale con il carcinoma della pelvi renale.
Presenta bordi bianco-grigi, necrotici ed infiltrativi; l’architettura è tubulare/ghiandolare irregolare e si ha
uno stroma abbondate con desmoplasia, edema ed infiltrato infiammatorio.
Le alterazioni molecolari ricorrenti includono la perdita di CDKN2A e le mutazioni di NF2 e SETD2.

ALTRI TUMORI RENALI

Neoplasia tubulo-papillare a cellule chiare

È una neoplasia a cellule chiare che non ha niente a che fare con il carcinoma a cellule chiare, infatti, non
presenta mutazioni di VHL e pertanto non è coinvolto il processo di angiogenesi.
Sono tumori spesso presenti nei reni di pazienti trapiantati, anche in virtù della terapia immunosoppressiva
cui i pazienti sono sottoposti, e vengono lasciati in situ dal momento che in genere sono benigni.
All’immunoistochimica presenta una diffusa positività per CK7 (il carcinoma a cellule chiare è invece
negativo).

RCC in malattia cistica acquisita

Inizialmente compresa nei carcinomi inclassificabili, si tratta


di una lesione caratterizzata dalla presenza di cristalli di
ossalato, che a volte presenta un aspetto papillare e altre
volte presenta cellule chiare.
La diagnosi si basa sulla immunoistochimica, che evidenzia
positività a AMACR (racemasi), CD10, CK7 e RCC.
È tipico di pazienti con malattia renale terminale e risulta più aggressivo
dell’RCCA cromofobo, ma la prgnosi è generalmente buona.

Carcinoma a cellule renali tubulo-cistico

Neoplasia epiteliale renale a predominanza cistica, presenta un aspetto


spugnoso con cisti multiple di piccole e medie dimensioni. È tipico dell’anziano
e può essere lasciato in sede.
Le cellule presentano nuclei ingranditi con nucleoli di grado 3 WHO/ISUP e
citoplasma fortemente eosinofilo. Dal punto di vista immunoistochimico risulta
CK+ e AMACR-. Solo 4 dei 70 casi segnalati hanno mostrato metastasi.

345
TUMORI A CELLULE RENALI CON CARATTERISTICA MOLECOLARE DEFINITA

Tumori da traslocazione

Hanno una morfologia mista, ma alterazioni molecolari ben definite e sono stati introdotti nella
classificazione WHO 2022. Sono i tumori maligni renali più frequenti in pazienti con meno di 40 anni e
interessano anche pazienti pediatrici.
Questa categoria include due tipi di tumore:
- fusione t(X;1)Xp11(TFE3);1q21 (PRCC)
- fusione t(6;11) 6p21(TFEB);11q13(ALPHA)
TFE e TFEB sono fattori di trascrizione coinvolti nella via di VHL, mentre PRCC e ALPHA sono espressi
normalmente nelle cellule dei tubuli renali. Le traslocazioni comportando lo spostamento di TFE o TFEB a
valle di PRCC o ALPHA con conseguente loro sovra-espressione; pur non essendovi perdita di VHL, viene
comunque alterato il pathway di HIF-1α, quindi si tratta di tumori angiogenetici.
Si sospettano in pazienti giovani con zone di calcificazioni e zone di mosaicismo, ovvero zone con
morfologia differente vicine, nel preparato; sono molto più aggressivi dei carcinomi a cellule chiare
convenzionali, pertanto richiedono un follow-up più stretto.

t(X;1)Xp11(TFE3) tRCC
Questa forma è il risultato della fusione di TFE3 con più geni, tra cui
PCRR. Ha caratteristiche istologiche miste a cellule chiare e papillari,
con presenza di corpi psammomatosi. È più aggressivo del
convenzionale carcinoma a cellule chiare e presenta un potenziale
metastatico. Questo tipo di tumore va sempre sospettato in un
preparato con aspetto a mosaico e zone di calcificazioni. Spesso in
anamnesi si rivela un’esposizione a chemioterapia.
Sono catepsina K positivi, dal momento che essa è coinvolta nella via
di TFE/TFE3 (i carcinomi a cellule chiare convenzionali sono catepsina
K negativi).

t(6;11) 6p21(TFEB) tRCC


E’ il risultato della fusione ALPHA-TEFB, che porta alla sovra-
espressione della proteina TFEB; è più raro dell’altro tipo. È
positivo per catepsina K e per marcatori melanocitari e la
prognosi sembra essere migliore, pur essendo una forma
maligna.

Carcinoma a cellule renali con mutazione ELOC – carcinoma a cellule renali con stroma leiomiomatoso

Nuovo tumore introdotto nella classificazione WHO 2022 che


vede la mutazione del gene ELOC (TCEB1) codificante per
l’elongina C, che fa parte del complesso del VHL: queste
mutazioni coinvolgono il residuo Y79 del sito di legame della
proteina VHL con conseguente impossibilità di legame del
complesso VHL e accumulo di HIF-1α.
Queste neoplasie hanno un aspetto nodulare con reazione
spessa, bande fibromuscolari e tubuli ripiegati; sono simili al
carcinoma a cellule chiare, ma sono positivi per CK7. In molti casi
hanno decorso indolente e possono essere lasciati in sede.

346
Carcinoma a cellule renali deficiente di succinato deidrogenasi

L’immunoistochimica evidenzia un aspetto brunastro dovuto


all’accumulo dell’enzima mutato in vacuoli intracellulari. Questa
neoplasia è causata da mutazioni della linea germinale della
subunità della succinato deidrogenasi che determinano un
accumulo dell’enzima, l’inibizione della prolil-idrossilasi e
l’accumulo di HIF. Inoltre, tali mutazioni determinano anche un
aumento del numero di mitocondri, incrementando l’attività
metabolica e favorendo la trasformazione neoplastica.
Ha aspetti simili ad un carcinoma oncocitario, ma presenta
aggressività minore.

Leiomiomatosi ereditaria e carcinoma a cellule renali

Si tratta di tumori rari associati a mutazione germinali della fumarato


idratasi, FH, enzima del ciclo di Krebs che converte il fumarato in
L.malato. Queste mutazioni inattivano l’enzima e determinano l’accumulo
di fumarato oncometabolico, predisponente alla formazione di leiomiomi
cutenei ed uterici e carcinoma a cellule renali di tipo II aggressivo. Si
tratta di una lesione aggressiva, nonostante le piccole dimensioni,
pertanto spesso si consiglia l’asportazione del rene; spesso si ha uno
stadio avanzato al momento della diagnosi e la prognosi è infausta.
I tumori presentano una architettura papillare, abbondante citoplasma
eosinofilo e nucleoli prominenti rosso ciliegia.

RCC midollare carente di SMARCB1

La maggior parte dei carcinomi midollari renali sono stati riscontrati in pazienti di origine africana affetti da
anemia falciforme; tale neoplasia può interessare anche polmone e ossa.
L’ambiente ipossico del midollo, esacerbato dall’occlusione microvascolare da parte degli eritrociti
falciformi, può favorire rotture e delezioni del dsDNA che portano ad inattivazione di SMARCB1,
rimodellatore della cromatina.
Le cellule crescono in cordoni, nidi, microcisti, fogli e tubuli e si hanno necrosi, reazione desmoplastica e
infiltrato infiammatorio cronico. Le cellule risultano pleomorfe con nucleoli prominenti e citoplasma
eosinofilo, con aspetto rabdoide, infatti, sembra un rabdomiosarcoma con grossi nucleoli.
Ha una prognosi infausta e il 90% dei pazienti presenta metastasi al momento della diagnosi.

TUMORI METANEFRINICI

Si tratta di tumori derivanti dal metanefro, la componente embrionaria che dà origine ai tubuli renali.
Si tratta del corrispettivo nell’adulto del tumore di Wilms del bambino (nefroblastoma).
Può capitare che dei nefroblasti, ovvero delle cellule immature embrionali, rimangono nell’organo adulto e
vadano incontro a trasformazione neoplastica. Solitamente questa neoplasia è monolaterale, ma nel 5% dei
casi interessa entrambi i reni.
In questa categoria rientrano neoplasie epiteliali pure, gli adenomi metanefrinici (neoplasie benigne spesso
associate a mutazioni di BRAF), neoplasie stromali pure, dette tumore stromale metanefrinico, e lesioni
epiteliali e stromali composite, gli adenofibromi metanefrinici.
Tutte queste neoplasie presentano spesso la mutazione BRAF V600E.

347
PROGNOSI

La prognosi dei tumori renali dipende da diversi fattori:


• Grado
In passato veniva usato il Fuhrman’s
Grading System, basato sulla forma e
sulla dimensione dei nuclei, ma è stato
abbandonato poiché molto soggettivo.
Attualmente si usa il grado nucleolare,
basto sulla dimensione dei nucleoli.
La classificazione nucleolare OMS/ISUP
dell’RCC è raccomandata per l’RCC a
cellule chiare e l’RCC papillare. I gradi 1-
3 sono definiti sulla base della
prominenza nucleolare, mentre il grado
4 è definito dalla presenza di
pleomorfismo, cellule giganti tumorali,
caratteristiche rabdoidi e sarcomatoidi.
Tra il grado 3 e il grado 4 si ha la
trasformazione mesenchimale, con
differenziazione in senso rabdoide o sarcomatoide, ma una migliore risposta a farmaci come gli
anti-PDL1.
Questa classificazione non è applicabile per l’RCC cromofobo.
Il grado correla con la prognosi: la sopravvivenza a 20 anni di pazienti con un tumore di grado 1 è
del 90%, ma scende al 20% in pazienti con tumore di grado 4.
• Differenziazione sarcomatoide o rabdoide
Definisce la presenza e la percentuale di differenziazione rabdoide/sarcomatoide; se la percentuale
arriva al 100% si parla di RCC NOS.
I tumori sarcomatoidi presentano un aspetto bianco, mal definito, con zone di necrosi, cellule
fusate, mitosi e nucleoli evidenti. Rappresenta la trasformazione di alto grado di diversi sottotipi di
RCC. Il sottotipo istologico primario e il grado di differenziazione sarcomatoide non influenzano
significativamente la prognosi, mentre lo stadio TNM influenza significativamente la sopravvivenza
e spesso i tumori sarcomatoidi si presentano in uno stadio avanzato. Questi tumori presentano
però una buona risposta ai farmaci anti- PDL1.
• Necrosi
La necrosi coagulativa è un indicatore prognostico dell’aggressività del carcinoma a cellule renali. È
quindi necessario segnalare la presenza e la percentuale di necrosi coagulativa.
• Stadio
È l’elemento più significativo dal punto di
vista prognostico, ma è anche molto
importante dal punto di vista terapeutico:
tumori si stadio 1 hanno indicazione alla
chirurgia nefro-sparing tramite
enucleazione robotica o laparoscopica,
tranne nel caso di tumori di stadio 1 vicini
alla pelvi renale, che vengono comunque
rimossi con nefrectomia totale.
La presenza o meno di trombosi correlate
ai carcinomi non influenza la prognosi, ma
tali trombi devono essere rimossi
chirurgicamente.
• Istotipo
348
TERAPIA

La terapia è completamente cambiata negli ultimi 10 anni, sia dal punto di vista chirurgico che molecolare.
Non si effettua chemioterapia, che risulta inefficace, ma si usano farmaci inibitori dei checkpoint
immunitari, come farmaci anti-PDL1.
Come prima linea si procede con immunoterapia, ad esempio con farmaci anti-angiogenetici; i farmaci di
prima linea sono Sunitinib e Sorafenib, che inibiscono diverse chinasi contemporaneamente.
La classificazione molecolare del 2022 suddivide i tumori renali in 7 famiglie: angiogenico, immune,
metabolico, stromale, proliferativo, cell-cycle prolifes.
Il carcinoma renale ha come sede preferenziale di metastasi il pancreas; è stato dimostrato che le
alterazioni molecolari presenti nel tumore primario spesso non si hanno nelle metastasi, dove sono
presenti mutazioni differenti, pertanto si usano farmaci in grado di inattivare diverse chinasi
contemporaneamente, come Sunitinib, o farmaci cha attivano in maniera massiva il sistema immunitario.

LESIONI CISTICHE DEL RENE – Dispensa

Il gruppo delle malattie cistiche del rene è eterogeneo e comprende forme ereditarie, di sviluppo e
acquisite. Le lesioni cistiche sono importanti dal momento che sono molto frequenti e spesso rappresenta
un problema diagnostico, anche perché possono occasionalmente essere scambiate per tumori maligni;
inoltre, alcune forme sono tra le maggiori cause di insufficienza renale cronica.

Rene a spugna midollare

Questa condizione, insieme alla nefronoftisi e alla malattia cistica midollare dell’adulto, rientra nelle
malattie cistiche della midollare renale, che sono quasi sempre associate a disfunzione renale.
La definizione rene a spugna midollare deve essere limitata alle dilatazione cistiche multiple dei dotti
collettori della midollare ed è una condizione solitamente diagnostica incidentalmente nell’età adulta.
I dotti midollari sono dilatati e presentano piccole cisti; le cisti sono rivestite da epitelio cuboidale o,
occasionalmente, da epitelio di transizione. A meno che non vi sia una pielonefrite sovrapposta, la sclerosi
è assente. La patogenesi è sconosciuta.

Nefronoftisi e malattia cistica midollare dell’adulto

Queste patologie sono caratterizzate dalla presenta di un numero variabile di cisti nella midollare, spesso
concentrate nella giunzione corticomidollare. Il danno coinvolge inizialmente i tubuli distali e si manifesta
come degenerazione della membrana basale, seguita da atrofia tubulare cronica e progressiva, che
interessa anche la corticale, e fibrosi interstiziale.
La cisti innescano il danno, ma lo sviluppo di insufficienza renale è legato al danno corticale tubulo-
interstiziale.
349
Esistono tre varianti di nefronoftisi:
- Sporadica, non familiare
- Nefronoftisi familiare giovanile (forma più comune) con ereditarietà autosomica recessiva
- Displasia renale-retinica, in cui la patologia renale si associa ad alterazioni oculari
La malattia cistica midollare dell’adulto ha una trasmissione autosomica dominante.
Nel complesso questo gruppo di patologie rappresenta la più comune causa di insufficienza renale
terminale nei bambini e nei giovani adulti.
I bambini colpiti presentano poliuria e polidpsia, indicativi del danno tubulare, perdita di sodio e acidosi
tubulare; alcune forme si associano ad alterazioni oculari, fibrosi epatica e anomalie cerebellari. La
progressione a malattia renale terminale impiega circa 5-10 anni.
Le mutazioni responsabili delle patologie sono diverse ed interessano proteine presenti nelle ciglia
primarie, come le nefrocistine o l’inversina.

Nella nefroniftisi i reni sono piccoli e hanno una superficie granulosa; le cisti sono presenti nella midollare,
soprattutto nella giunzione cortico-midollare, ma spesso piccole cisti sono presenti anche nella corticale.
Le cisti sono rivestite da epitelio appiattito o cuboidale e sono generalmente circondate da cellule
infiammatorie o tessuto fibroso. Nella corticale si hanno atrofia diffusa, ispessimento della membrana
basale tubulare e fibrosi interstiziale.

Displasia renale multicistica

La displasia è una patologia sporadica


che può essere unilaterale o
bilaterale ed è quasi sempre cistica.
Il rene si presenta ipertrofico,
irregolare e multicistico. Le cisti
possono essere di diverse dimensioni,
da pochi mm a diversi cm di
diametro, e sono rivestite da epitelio
appiattito. Istologicamente è caratteristica la presenza di isole di mesenchima indifferenziato, spesso con
cartilagine, e dotti collettori immaturi.
Quando monolaterale questa condizione può mimare una neoplasia maligna e portare a nefrectomia; se
bilaterale conduce a insufficienza renale.
La maggior parte dei casi è associata a ostruzione ureteropelvica, agenesia o atresia ureterali e altre
anomalie delle basse vie urinarie.

Malattia cistica acquisita (associata a dialisi)

Le cisti misurano da 0,1 a 4 cm di diametro, contengono un liquido chiaro, sono rivestite da epitelio
tubulare appiattito o iperplastico e spesso contengono cristalli di ossalato di calcio. Probabilmente sono il
risultato di un'ostruzione dei tubuli dovuta alla fibrosi interstiziale o ai cristalli di ossalato. Sono per lo più
asintomatiche, ma talvolta sanguinano determinando ematuria. Vi è un aumento di 12-18 volte del rischio
di carcinoma renale.

Cisti semplici

Le cisti semplici possono essere multiple o singole e in genere interessano la corteccia. Misurano
comunemente 1-5 cm ma possono raggiungere anche dimensioni ≥10 cm. Si presentano di solito come
piccole formazioni traslucide, rivestite da una parete liscia, lucente, grigiastra e ripiene di un liquido chiaro.
All’esame microscopico, le cisti sono rivestite da un unico strato di epitelio cubico o appiattito che molte
volte può essere completamente atrofico. Clinicamente sono poco rilevanti (al massimo vanno incontro a
fenomeni emorragici), ma sono importanti dal punto di vista della diagnosi differenziale.

350
MICROANGIOPATIA TROMBOTICA E SINDROME UREMICO EMOLITICA – Dispensa

Il termina microangiopatia trombotica comprende uno spettro di sindromi cliniche, tra cui la porpora
trombotica trombocitopenica e la sindrome uremico-emolitica, SEU. Queste due condizioni sono causate
da una serie di lesioni che conducono all’eccessiva attivazione delle piastrine, le quali si depositano sotto
forma di trombi nei capillari e nelle arteriole di diversi distretti, compreso quello renale. I trombi
producono occlusioni microvascolari, con conseguente ischemia tissutale, determinano una
trombocitopenia e creano anomalie del flusso che frammentano i globuli rossi, portando ad anemia
microangiopatica.
La porpora trombotica trombocitopenica, TTP, è spesso associata a deficienze ereditarie o autosomiche di
ADAMTS13, metalloproteinasi plasmatica che regola la funzione del fattore di Von Willebrand.
La sindrome emolitica-uremica, SEU, può essere di due tipi:
- SEU tipica → caratterizzata da diarrea e spesso conseguente al consumo di cibi contaminati da
batteri che producono la tossina Shiga-like; si manifesta in forme epidemiche
- SEU atipica → non è epidemica e non è associata a diarrea; può essere causata da:
o Mutazioni ereditarie di proteine che regolano il complemento
o Cause acquisite di danno endoteliale, come anticorpi anti-fosfolipidi, farmaci contraccettivi
orali, complicanze della gravidanza, patologie vascolari renali, ipertensione, chemioterapia,
radioterapia e farmaci immunosoppressori

Patogenesi

Tra le microangiopatie trombotiche i quadri patogenetici dominanti sono due:


- Danno endoteliale
Nella SEU tipica il danno endoteliale è determinato solitamente dalla tossina Shiga-like, mentre
nella SEU atipica ereditaria il danno sembra dovuto ad un eccessiva attivazione del complemento.
Il danno endoteliale provoca poi l’attivazione piastrinica e la formazione di trombi.
- Eccessiva attivazione e aggregazione piastrinica
Nella TTP l’evento iniziale è invece l’aggregazione piastrinica, indotta dai multimeri di fattore di Von
Willebrand, che si accumulano a causa del deficit di ADAMST13, proteasi plasmatica che serve a
degradare tali multimeri. Il deficit di ADAMST13 è dovuto alla presenza di anticorpi diretti contro
tale enzima o, più raramente, a deficit ereditari dello stesso.

SEU tipica o dell’infanzia

Molti casi sono dovuti ad infezioni intestinali da E. Coli produttore di tossina Shiga-like, contratto tramite
l’ingestione di carne di manzo contaminata, acqua contaminata, latte non pastorizzato e trasmissione da
persona a persona. Meno comunemente la sindrome può essere dovuta ad altri patogeni, come Shigella.
La SEU tipica può insorgere negli adulti, soprattutto negli anziani, ma interessa in modo particolare i
bambini, nei quali rappresenta una delle principali cause di insufficienza renale.
Dopo una sintomatologia simil-influenzale e diarrea, i pazienti presentano sanguinamenti improvvisi, con
ematemesi e melena, oligo-anuria, ematuria e anemia emolitica microangiopatica, associata a
trombocitopenia; in alcuni pazienti si hanno anche marcate alterazioni neurologiche.
Il modello patogenetico vede la tossina responsabile della attivazione dell’endotelio, con conseguente
aumentata espressione di molecole di adesione, aumentata produzione di endotelina e ridotta produzione
di ossido nitrico. Queste alterazioni inducono l’aggregazione piastrinica e la vasocostrizione.
Secondo alcune ipotesi la tossina potrebbe essere in grado di attivare direttamente le piastrine o inibire
l’attività di fattori regolatori del complemento, determinando una iper-attivazione del complemento.
L’insufficienza renale è trattata con la dialisi e solitamente i pazienti recuperano la normale funzionalità
renale entro poche settimane; a lungo termine però, a causa del danno renale sottostante, il quadro è
meno roseo.

351
SEU atipica

Questa forma si manifesta soprattutto negli adulti e ha solitamente un decorso caratterizzato da molteplici
ricadute e progressione verso l’insufficienza renale. Le cause sono:
- Deficit ereditari di inibitori del complemento, come fattore H, fattore I e CD46; essendo queste
alterazioni congenite non si sa perché la manifestazione della malattia si abbia in età adulta e si
sospetta il ruolo di cofattori
- Sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi
- Complicanze della gravidanza e del periodo post-partum (insufficienza renale post-partum)
- Patologie vascolari che coinvolgono il rene, come sclerosi sistemica e ipertensione maligna
- Farmaci chemioterapici e immunosoppressori, come mitocina, ciclosporina, cisplatino,
gamcitabina e antagonisti di VEGF
- Irradiazione del rene

Porpora trombotica trombocitopenica

Si manifesta con febbre, sintomi neurologici, anemia emolitica microangiopatica, trombocitopenia e


insufficienza renale. La causa più comune è il deficit funzionale di ADAMST13 a causa di anticorpi inibitori,
ma si possono avere anche mutazioni inattivanti l’enzima. La maggior parte dei pazienti hanno meno di 40
anni e sono di sesso femminile. La caratteristica dominante della TTP, per motivi sconosciuti, è il
coinvolgimento neurologico, mentre il coinvolgimento renale si manifesta solo nella metà dei casi.
La presenza di anticorpi inibenti circolanti può essere trattata con plasmaferesi.

Morfologia

I quadri morfologici di SEU e TTP si sovrappongono: nella fase acuta e attiva della malattia il rene mostra
necrosi corticale diffusa e petecchie sub-capsulari. All’esame microscopico i glomeruli appaiono occlusi da
aggregati piastrinici e fibrina. Le pareti capillari sono ispessite a causa delle alterazioni delle cellule
endoteliali e dei depositi di fibrina e detriti cellulari. Si può avere mesangiolisi.
La corticale del rene è caratterizzata da vari gradi di cicatrizzazione, la membrana basale ha aspetto a
doppio contorno e si ha un ispessimento della parete delle arteriole a bulbo di cipolla; queste variazioni
portano ad una ipoperfusione persistente e atrofia ischemica del parenchima, che clinicamente si
manifesta con insufficienza renale e ipertensione.

352
RENE DA SHOCK e DANNO TUBULARE ACUTO – Dispensa

Il rene da shock rientra nel quadro del danno tubulare acuto.


Il danno tubulare acuto è un’entità clinico-patologica caratterizzata clinicamente da insufficienza renale
acuta e spesso, ma non sempre, da un’evidenza morfologica di danno tubulare, sotto forma di necrosi
delle cellule epiteliali tubulari.
Il danno tubulare acuto, ATI, può essere dovuto a:
- Ischemica causata da diminuzione o interruzione del flusso ematico (poliangite microscopica,
ipertensione maligna, sindrome emolitico-uremica, porpora trombotica trombocitopenica, CID,
shock ipovolemico, ecc.)
- Danno tossico diretto del tubulo da parte di agenti endogeni, come mioglobina, emoglobina,
catene leggere monoclonali, bilirubina, o esogeni, come farmaci, mezzi di contrasto radiologici,
metalli pesanti e solventi organici
- Altre cause: nefrite acuta tubulo-interstiziale, dovuta a farmaci o tumori, ipertrofia prostatica e
coaguli ematici, che determinano una ostruzione urinaria
Si vanno quindi a distinguere due macrogruppi: l’ATI ischemico e l’ATI nefrotossico.

Dal punto di vista eziopatogenetico si distinguono tre forme di insufficienza renale acuta:
- Pre-renale o funzionale, dovuta a danno cardiocircolatorio
- Renale o organica, correlata e lesioni organiche parenchimali del rene. In questa forma rientra il
danno tubulare acuto
- Post-renale o ostruttiva, legata all’ostruzione delle vie escretrici
L’ATI è responsabile circa della metà dei casi di insufficienza renale acuta nei pazienti ospedalizzati.

Patogenesi

Gli eventi critici che determinano l’ATI, sia ischemico che nefrotossico, sono:
- Danno alle cellule tubulari → le cellule tubulari sono particolarmente sensibili ad ischemica e
tossine, infatti, esse richiedono grandi quantità di ossigeno per svolgere le proprie funzioni ed
essendo deputate al riassorbimento di sostanze sono molto sensibili all’azione dei tossici.
Una conseguenza precoce, e reversibile, dell’ischemia è la perdita di polarizzazione delle cellule,
ovvero una ridistribuzione delle proteine di membrana, che comporta un alterato trasporto ionico e
un aumentato flusso di sodio a livello di tubulo distale, con conseguente vasocostrizione a causa del
feedback tubulo-glomerulare. Inoltre, le cellule ischemiche esprimono molecole di adesione per
leucociti e producono citochine.
Nel tempo le cellule danneggiate si distaccano dalla membrana basale e causano un’ostruzione del
lume tubulare, un aumento della pressione endotubulare e una riduzione della filtrazione
glomerulare. Il filtrato glomerulare presente nei tubuli può poi fuoriuscire nell’interstizio,
determinando edema, aumento della pressione interstiziale e ulteriore danno tubulare.
- Alterazioni del flusso ematico renale → la vasocostrizione intrarenale determina un ridotto flusso
plasmatico glomerulare e un ridotto apporto di ossigeno si tubuli.
Se la causa scatenante viene rimossa in tempo il danno è ancora reversibile.

Morfologia

L’ATI ischemica è caratterizzato da necrosi focale dell’epitelio tubulare, con ampie aree vacuolari, rottura
della membrana basale e occlusione dei lumi tubulari da parte di cilindri. Il tubulo prossimale e la parte
ascendente dell’ansa di Henle sono le regioni maggiormente sensibili al danno ischemico, mentre i cilindri
sono tipicamente presenti nel tubulo distale e nel dotto collettore.
I cilindri sono costituiti principalmente dalla proteina di Tamm-Horsfall, una glicoproteina urinaria
normalmente prodotta dalle cellule del tratto ascendente dell’ansa di Henle e dai tubuli distali, associata ad
emoglobina, mioglobina e altre proteine plasmatiche.

353
Altri segni di ATI
ischemico sono edema
interstiziale, accumuli di
leucociti nei vasi retti
dilatati e proliferazione
cellulare, che si manifesta
con cellule epiteliali
appiattite con nuclei
ipercromici e figure
mitotiche. Con il tempo la
proliferazione ripara il
danno.

Nell’ATI tossico il danno è


più evidente nei tubuli
contorti prossimali.
Talvolta la necrosi presenta delle caratteristiche istologiche riconducibili a determinati tossici:
- Cloruro di mercurio → larghi inclusi acidofili nelle cellule danneggiate
- Tetracloruro di carbonio → accumulo di grassi neutri nelle cellule
- Glicole etilenico → degenerazione balloniforme e degenerazione vacuolare

Evoluzione clinica

Il decorso clinico dell’ATI è altamente variabile, ma la forma classica può essere suddivisa in tre fasi:
1. Fase iniziale → è dominata dagli eventi scatenanti il danno; gli unici segni di coinvolgimento renale
sono una lieve riduzione del flusso renale e un aumento dell’azotemia
2. Fase di mantenimento → severa riduzione del flusso urinario con sovraccarico di Sali e acqua,
aumento della azotemia, iperkaliemia, acidosi metabolica e manifestazioni uremiche.
3. Fase di guarigione → è preceduta da un incremento del volume urinario, che può arrivare a 3
litri/die e si ha un aumento della vulnerabilità agli agenti infettivi, ma nel tempo la funzione renale
viene ripristinata
Nell'ATI nefrotossico ci si attende la guarigione se la tossina non ha causato gravi danni ad altri organi,
come fegato o cuore. Con le attuali terapie di supporto, il 95% dei pazienti che non muoiono, ha un ritorno
alla normofunzionalità. Al contrario, nello shock ipovolemico legato alla sepsi, alle ustioni estese o ad altre
cause di insufficienza multiorgano, l’indice di mortalità può salire oltre il 50%.

354
PIELONEFRITE E RENE VASCOLARE – Dispensa

La pielonefrite è una delle più comuni patologie renali ed è definita come una infiammazione che colpisce i
tubuli, l’interstizio e la pelvi renale; si presenta in due forme:
- Pielonefrite acuta, causata da un’infezione batterica
- Pielonefrite cronica, in cui l’infezione ha un ruolo dominante, ma intervengono anche altri fattori,
come l’ostruzione e il reflusso vescico-ureterale, che predispongono ad episodi ripetuti di
pielonefrite acuta

Eziologia e patogenesi

Più dell’85% delle infezioni delle vie urinarie è causato da batteri Gram-negativi che compongono la
normale flora batterica intestinale; nella maggior parte dei casi i microorganismi infettanti derivano dalla
flora fecale del paziente stesso. I più comuni sono E. Coli, Proteus, Klebsiella, Enterbacter, S. faecalis e
stafilococchi; nei pazienti immunodepressi anche poliomavirus, citomegalovirus e adenovirus possono
causare infezioni renali.
I microorganismi possono giungere al rene per via ematogena o per via ascendente, dalle basse vie
urinarie; la seconda modalità di infezione è più frequente. Le infezioni delle vie urinarie possono essere
facilitate da manovre di cateterizzazione; in assenza di manovre strumentali le infezioni urinarie sono più
comuni nel sesso femminile, vista la maggior brevità dell’uretra, le modificazioni ormonali che influenzano
l’adesione dei batteri alla mucosa e i traumi uretrali che avvengono durante i rapporti sessuali.
Una volta infettata la vescica i batteri risalgono verso il rene in caso di:
- Ostruzione del tratto urinario e stasi urinaria → in caso di stasi urinaria o ostruzione che
determina uno svuotamento vescicale incompleto, i batteri giunti nella vescica possono replicarsi.
Le infezioni del tratto urinario sono quindi molto frequenti in pazienti con ipertrofia prostatica,
tumori, calcoli, disfunzioni vescicali su base neurogena, dovute ad esempio al diabete.
- Reflusso vescico-ureterale → l’insufficienza della valvola vescicoureterale consente ai batteri di
risalire lungo l’uretere. Il reflusso è quasi sempre associato all’assenza o all’accorciamento
congenito della porzione intravescicale dell’uretere: in queste condizioni l’uretere non viene
compresso durante la minzione. Il reflusso può essere indotto anche dall’infezione vescicale stessa,
a causa dei patogeni e dell’infezione associata che alterano la contrattilità ureterale.
In assenza di reflusso vescicoureterale l’infezione rimane localizzata nella vescica.
- Reflusso intrarenale

PIELONEFRITE ACUTA

È una infezione suppurativa del rene causata da una infezione


batterica o virale, giunta al rene per diffusione ematogena o per via
ascendente dagli ureteri.
Segni tipici sono la flogosi interstiziale suppurativa, con aggregati
neutrofili endotubulari, e necrosi tubulare. Negli stadi precoci
l’infiltrato neutrofilo è limitato ai tubuli renali, ma l’infezione si
diffonde presto anche all’interstizio, determinando la formazione di
ascessi.
I glomeruli sono generalmente indenni, ma in forme estese della
malattia o in caso di pielonefrite micotica vengono coinvolti.
Complicanze della pielonefrite acuta sono:
- Necrosi papillare, tipica dei pazienti con diabete, anemia falciforme o ostruzione delle vie urinarie.
È solitamente bilaterale, ma può essere anche monolaterale, e possono essere coinvolte una o
tutte le piramidi renali. Al microscopio ottico si ha necrosi coagulativa ischemica e risposta
leucocitaria, limitata alle zone di passaggio tra aree tissutali necrotiche e aree sane.

355
- Pielonefrosi, in cui l’essudato suppurativo non viene drenato, a causa di una ostruzione totale o
sub-totale delle alte vie urinarie, e riempie la pelvi, i calici e l’uretere.
- Ascesso perinefrico, in cui l’infiammazione suppurativa si estende al tessuto peri-renale
Dopo la fase acuta l’infiltrato neutrofilo viene sostituito da macrofagi, plasmacellule e leucociti e
successivamente i foci infiammatori vengono sostituiti da fibrosi.

La pielonefrite da poliomavirus è tipica dei pazienti trapiantati ed è caratterizzata dall’infezione virale dei
nuclei delle cellule epiteliali tubulari, che porta a un ampliamento nucleare e alla presenza di inclusioni
intranucleari al microscopio ottico (effetto virale citopatico); si ha sempre infiammazione interstiziale. Il
trattamento consiste in una riduzione dell’immunosoppressione.

Clinica

La pielonefrite acuta si associa a:


- Ostruzione del tratto urinario, congenita o acquisita
- Manipolazioni strumentali delle vie urinarie, come cateterizzazione
- Reflusso vescicoureterale
- Gravidanza
- Sesso femminile, soprattutto entro i 40 anni; dopo i 40 anni aumenta l’incidenza nel sesso maschile
a causa dell’ipertrofia prostatica
- Lesioni renali pre-esistenti, che causano cicatrizzazione ed ostruzione intrarenale
- Diabete mellito, che determina una aumentata suscettibilità alle infezioni e disfunzioni vescicali
neurogene
- Immunosopressione
La pielonefrite acuta si manifesta con dolore all’angolo costo-vertebrale, febbre e malessere generale.
Spesso si hanno segni di irritazione vescicale ed ureterale, come disuria, pollachiuria e minzione imperiosa.
Si ha piuria, ovvero presenza di neutrofili nelle urine, che però non permette di distinguere tra infezioni
delle alte vie urinarie e infezioni delle basse vie urinarie; il coinvolgimento renale è indicato dalla presenza
di cilindri leucocitari, tipicamente di neutrofili, nelle urine (i cilindri si formano solo nei tubuli).
Si eseguono poi esami colturali per confermare la diagnosi.
La pielonefrite acuta non complicata si rivolve entro pochi giorni dall’inizio della terapia antibiotica,
anche se la batteriuria può persistere a lungo; in caso di complicanze il decorso è più grave e la necrosi
papillare può portare ad insufficienza renale acuta.

PIELONEFRITE CRONICA

È una patologia in cui la flogosi e le cicatrici tubulo-interstiziali croniche coinvolgono i calici e la pelvi.
Solo la pielonefrite cronica e la nefropatia da analgesici colpiscono i calici renali, pertanto il danno pelvico-
caliceale è un importante indizio diagnostico.
La pielonefrite cronica può essere distinta in due forme:
- Nefropatia da reflusso → si sviluppa precocemente nei bambini, come esito della sovrapposizione
tra infezione urinaria e reflusso vescicoureterale e intrarenale. Il danno può essere monolaterale o
bilaterale.
- Pielonefrite cronica ostruttiva → le infezioni ricorrenti che si sovrappongono a una lesione
ostruttiva diffusa o localizzata portano a episodi ricorrenti di infiammazione e cicatrizzazione,
determinando pielonefrite cronica. Anche in questo caso il danno può essere mono- o bi-laterale.

Morfologia

I reni presentano cicatrici irregolari, asimmetriche se l’interessamento è bilaterale.


Si hanno cicatrici cortico-midollari sopra i calici, che risultano troncati e deformati, e le papille sono
appiattite.

356
La maggior parte delle cicatrici interessano il polo superiore e il polo inferiore, in accordo con la maggior
frequenza di reflusso in queste sedi.
Microscopicamente i tubuli appaiono atrofici in alcune zone e ipertrofici o dilatati in altre e possono
essere ripieni di cilindri simili alla colloide tiroidea (tiroidizzazione). A livello di corticale e midollare si
hanno gradi diversi di infiammazione interstiziale cronica e fibrosi. Nelle aree cicatriziali i vasi arcuati e
interlobulari mostrano sclerosi intimale obliterate e in presenza di ipertensione si ha ateriolosclerosi
ialina. I glomeruli possono apparire normali o presentare alterazioni ischemiche e alterazioni legate
all’ipertensione.
La pielonefrite xantogranulomatosi è una forma abbastanza rara caratterizzata dall’accumulo di macrofagi
schiumosi frammisti a plasmacellule, linfociti, leucociti polimorfonucleati e occasionalmente cellule giganti.

Clinica

Può avere un esordio subdolo o presentarsi con manifestazioni cliniche tipiche della pielonefrite acuta
ricorrente, ovvero dolore dorsale, febbre, piuria e batteriuria. I pazienti sviluppano gradualmente
insufficienza renale e ipertensione. La perdita di funzione tubulare causa poliuria e nicturia.
Lo studio radiologico mostra reni di volume ridotto con cicatrici grossolane e deformità dei calici.
In genere la proteinuria è lieve, ma alcuni pazienti sviluppano glomerulosclerosi focale segmentale e
sindrome nefrosica, che può progredire fino alla malattia renale terminale.

MALATTIE VASCOLARI

Nefrosclerosi benigna

Il termine indica una malattia renale che si associa alla sclerosi delle arteriole e delle piccole arterie renali
ed è fortemente associata a ipertensione, che può essere sia causa che conseguenza della nefrosclerosi.
I vasi colpiti presentano pareti ispessiti e lume ristretto, alterazioni che inducono ischemia parenchimale, la
quale a sua volta porta a glomerulosclerosi e danno tubulo interstiziale cronico, con conseguente riduzione
della massa renale funzionante.

I processi che si manifestano nelle lesioni arteriose sono due:


- Ispessimento della media e dell’intima, come risposta a variazioni emodinamiche, invecchiamento
o anomalie genetiche
- Ialinizzazione delle pareti delle arteriole, a causa dello stravaso di proteine ematiche attraverso
l’endotelio danneggiato e della aumentata deposizione di matrice simil-membrana basale

I reni appaiono di dimensioni normali o lievemente ridotte e presentano una superficie corticale finemente
granulare.
Istologicamente si osserva un restringimento del lume dei vasi a
causa della arteriosclerosi ialina, glomeruli sclerotici, sovvertimento
tubulare e cicatrici microscopiche sub-capsulari. Le arterie arcuate e
interlobulari presentano anche ipertrofia della media, duplicazione
della lamina elastica interna e aumento del tessuto miofibroblastico
dell’intima: si parla di iperplasia fibroelastica.
Conseguentemente al restringimento vascolare si hanno lesioni
ischemiche, che consistono in:
- Focolai di atrofia tubulare e fibrosi interstiziale
- Diverse alterazioni glomerulari, come collasso della MBG,
deposizione di collagene nella capsula di Bowman, fibrosi
periglomerulare e sclerosi totale del glomerulo
I pazienti di origine africa, ipertensione o patologia concomitane, come il diabete, possono andare incontro
a insufficienza renale.

357
Nefrosclerosi maligna

È una malattia vascolare renale che si associa a ipertensione maligna o accelerata. Può svilupparsi
all’improvviso in pazienti normalmente normotesi, ma solitamente si associa ad una preesistente
ipertensione o ad una preesistente patologia renale cronica. È una causa frequente di insufficienza renale
nei pazienti con sclerosi sistemica.

La lesione fondamentale nella nefrosclerosi maligna è il danno vascolare. L’evento iniziale sembra essere
una qualche forma di danno vascolare renale, causato da ipertensione, arterite o coagulopatia. La lesione
endoteliale provoca un aumento della permeabilità dei piccoli vasi a fibrinogeno e proteine plasmatiche,
deposizione di piastrine e morte focale delle cellule della parete vascolare. Ciò può portare a necrosi
fibrinoide delle arteriole con attivazione piastrinica e trombosi intravascolare.
Piastrine ed altre cellule rilasciano fattori che determinano l’iperplasia delle cellule muscolari lisce intimali,
con conseguente arteriolosclerosi iperplastica, responsabile di un ulteriore restringimento dei lumi.
I reni diventano marcatamente ischemici e il coinvolgimento delle arteriole efferenti determina la
stimolazione del sistema renina-angiotensina, che determina una ulteriore vasocostrizione intrarenale.

Macroscopicamente le dimensioni del rene variano a seconda della durata e della malattia ipertensiva; a
causa della rottura delle arteriole e dei capillari glomerulari si possono avere emorragie petecchiali a
capocchia di spillo sulla superficie corticale renale.
I vasi sanguini nell’ipertensione maligna sono caratterizzati da:
- Necrosi fibrinoide delle arteriole → si ha necrosi e la parete dei vasi assume un aspetto eosinofilo
a causa della deposizione di fibrina. I capillari glomerulari possono trombizzarsi e i glomeruli
divengono necrotici e pieni di neutrofili
- Arteriolosclerosi iperplastica → ispessimento a bulbo di cipolla delle arteriole

La sindrome dell’ipertensione maligna è caratterizzata da indici pressori sistolici superiori ai 200 mmHg e
diastolici superiori ai 120 mmHg, edema papillare, emorragie della retina, encefalopatia, anomalie
cardiovascolari e insufficienza renale. In genere, i sintomi precoci sono correlati all’aumento della
pressione endocranica e comprendono cefalea, nausea, vomito, alterazioni della visione e, in particolare,
comparsa di scotomi o di macchie scure nel campo visivo. A volte si osservano “crisi ipertensive”,
caratterizzate da episodi di perdita di coscienza o convulsioni. All’inizio possono essere presenti solo una
proteinuria marcata e macro- o microematuria, ma presto si manifesta anche l'insufficienza renale.

Stenosi dell’arteria renale

L’ipertensione in seguito a stenosi dell’arteria renale è causata dall’aumento di produzione di renina da


parte del rene ischemico. Si tratta quindi una forma di ipertensione curabile chirurgicamente.
La causa più frequente (70%) è il restringimento del lume dovuto a placca ateromasica, mentre la seconda
causa per frequenza è rappresentata dalla displasia fibro-muscolare, ovvero un ispessimento fibroso o
fibromuscolare dell’intima.

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Il rene ischemico appare generalmente di dimensioni ridotte e mostra segni di atrofia ischemica diffusa,
con glomeruli ravvicinati, atrofia dei tubuli, fibrosi interstiziale e focali infiltrati infiammatori. Le arteriole
nel rene ischemico sono di solito protette dagli effetti dell'ipertensione e mostrano, quindi, solo una lieve
arteriolosclerosi. Al contrario, il rene non ischemico controlaterale può presentare un’arteriolosclerosi più
grave, a seconda della gravità dell'ipertensione.

Malattia renale ischemica aterosclerotica

La stenosi bilaterale dell’arteria renale, confermata mediante arteriografia, è una comune causa di ischemia
cronica con insufficienza renale nei soggetti anziani, a volte in assenza di ipertensione. Si può intervenire
con rivascolarizzazione chirurgica.

Malattia renale ateroembolica

Si ha l’embolizzazione di frammenti di placche ateromatose, derivanti dall'aorta o dalle arterie renali, e che
coinvolge i vasi intra-renali; questi emboli possono essere riconosciuti nel lume delle arterie grazie alla
presenza di cristalli di colesterolo, che appaiono di forma romboidale. Frequentemente gli emboli sono
clinicamente silenti, ma possono anche portare ad insufficienza renale acuta.

Nefropatia da anemia falciforme

L'anemia falciforme (omozigosi) o il tratto falciforme (eterozigosi) possono determinare una varietà di
alterazioni nella morfologia renale e nella funzionalità che possono produrre anomalie clinicamente
significative. Le più comuni alterazioni sono l’ematuria e una riduzione della capacità di concentrazione
delle urine (ipostenuria). Si pensa che siano secondarie a un aumento della produzione di cellule falciformi
nell'ambiente ipertonico ipossico della midollare renale; l’iperosmolarità disidrata i globuli rossi e aumenta
la concentrazione intracellulare di emoglobina, effetto che giustifica perché anche i portatori del tratto
falciforme ne siano coinvolti. Si possono avere anche proteinuria, sindrome nefrosica e necrosi papillare.

Necrosi corticale diffusa

Questa rara malattia si verifica in genere dopo un’emergenza ostetrica, come il distacco di placenta, uno
shock settico o successivamente a chirurgia estesa. La distruzione corticale ha le caratteristiche della
necrosi ischemica. Le lesioni si presentano a chiazze, con aree di necrosi coagulativa e altre di corticale
intatta. La trombosi intravasale e intra-glomerulare può essere diffusa ma è solitamente focale e
occasionalmente si può osservare necrosi di piccole arteriole e di capillari. Nei glomeruli vi sono aree di
emorragia, contestualmente alla formazione di agglomerati di fibrina nei capillari glomerulari.
La necrosi corticale massiva porta ad anuria improvvisa e morte uremica.

Infarto renale

Il rene è particolarmente soggetto ad infarti dal momento che riceve un enorme flusso ematico e presenta
pochi circoli collaterali extrarenali. Sebbene l’occlusione delle arterie possa derivare da un’aterosclerosi
grave o da vasculite acuta in corso di poliarterite, la maggior parte degli infarti è dovuta a embolia,
derivante da trombosi murali in atrio e ventricolo sinistri. Endocardite, aneurisma aortico e aterosclerosi
sono cause meno comuni di emboli.
A causa della mancanza di circoli collaterali la maggior parte degli infarti renali sono di tipo bianco.
Entro le 24 ore, l'area infartuale diventa ben demarcata, pallida, con aree bianco-giallastre che possono
contenere piccoli e irregolari foci di discromia emorragica. Queste aree sono solitamente circondate da
zone di intensa iperemia. Gli infarti sono a forma di cuneo, con base rivolta verso la corticale e l'apice verso
la midollare. Con il tempo, queste aree di necrosi ischemica vanno incontro a una progressiva
cicatrizzazione.

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MALATTIA TUBULO-INTERSTIZIALE – Dispensa

NEFRITE TUBULO-INTERSTIZIALE

Questo gruppo di malattie renali comporta lesioni infiammatorie a carico dei tubuli e dell’interstizio,
spesso ad esordio insidioso, che si manifestano soprattutto con iperazotemia. Il danno cronico tubulo-
interstiziale è una conseguenza importante della progressione delle malattia che interessano
primariamente il glomerulo.
Le principali cause di danno tubulo-interstiziale sono:
- Infezioni, ad esempio in caso di pielonefrite
- Tossine, come farmaci, metalli pesanti
- Malattie metaboliche, come in caso di nefropatia da urato, nefropatia ipercalcemica, nefropatica
ipokaliemica, nefropatia da fosfati e nefropatia da ossalato
- Fattori fisici, come in caso di uropatia cronica ostruttiva
- Neoplasie, come in caso di nefropatia da catene leggere nel mieloma multiplo
- Reazioni immunologiche, come nel rigetto di trapianto, nella sarcoidosi o nella sindrome di Sjogren
- Malattie vascolari
- Miscellanea: nefropatia dei Balcani, complesso nefronoftisi e malattia cistica midollare, nefrite
interstiziale idiopatica
Le nefriti tubulo-interstiziali hanno un andamento acuto o cronico.
La forma acuta ha una rapida insorgenza clinica e istologicamente è caratterizzata da edema interstiziale,
spesso associato a infiltrazione leucocitaria a carico di tubuli e interstizio, e da danno tubulare.
Nella forma cronica si ha un infiltrato leucocitario prevalentemente mononucleato, prominente fibrosi
interstiziale e atrofia tubulare diffusa.
Le nefropatie tubulo-interstiziali si distinguono dalle malattie glomerulari per:
- Assenza di sindrome nefrosica o nefritica
- Presenza di alterazioni delle funzione tubulare: poliuria e nicturia, che sottendono la ridotta
capacità di concentrazione delle urine, acidosi metabolica, deficit isolati di riassorbimento o
secrezione tubulare
Nelle forme avanzate sono tuttavia difficili da distinguere da altre cause di insufficienza renale.

La nefrite tubulo-interstiziale da farmaci o da tossici è la seconda causa di danno renale acuto, dopo la
pielonefrite. Farmaci e tossici possono provocare lesioni renali attraverso tre meccanismi:
- Reazione immunologica interstiziale
- Danno tubulare acuto
- Danno cumulativo sub-clinico ma persistente dei tubuli, che esita dopo anni in insufficienza renale
cronica; talvolta questa forma si manifesta solo quando il danno renale è irreversibile

Nefrite interstiziale acuta da farmaci

Si manifesta solitamente come conseguenza dell’assunzione di penicilline sintetiche, quindi meticillina e


ampicillina, antibiotici di sintesi, come la rifampicina, diuretici, ad esempio tiazidici, FANS, allopurinolo,
cimetidina e altri farmaci. La nefropatia da analgesici, indotta dalla fenacetina, riveste un’importanza
soprattutto storica dal momento che la sua incidenza è diminuita notevolmente con il ritiro del farmaco.
La nefrite interstiziale acuta si manifesta dopo 2-40 giorni dall’esposizione al farmaco con febbre, rush
cutanei, eosinofilia, ematuria, lieve proteinuria e leucocituria; lo sviluppo di danno renale acuto con
oliguria si ha soprattutto nei pazienti anziani.

Molte caratteristiche della malattia suggeriscono un danno idiosincrasico di tipo immunitario non dose-
dipendente alla base. Fanno pensare ad una reazione di ipersensibilità il periodo di latenza, l’eosinofilia e le
recidive in caso di esposizione allo stesso farmaco o a farmaci chimicamente correlati. Nelle lesioni possono
essere riscontrati plasmacellule, IgE e basofili (reazione di ipersensibilità IgE-mediata di tipo I).

360
In altri casi la presenza di una reazione mononucleare o granulomatosa fa pensare ad una reazione di
ipersensibilità ritardata mediata da cellule T (tipo IV).
Si ipotizza che i farmaci fungano da apteni e si leghino a componenti della membrana plasmatica o a
proteine extracellulari delle cellule tubulari: gli antigeni modificati acquisiscono proprietà immunogene.

Istologicamente si hanno edema di grado variabile e infiltrato infiammatorio, costituito da linfociti e


macrofagi, ma anche da eosinofili, neutrofili, plasmacellule e mastociti.
Con alcuni farmaci si possono riscontrare granulomi interstiziali non necrotizzanti, ad esempio in caso di
danno da meticillina o tiazidici. Si hanno anche vari gradi di necrosi tubulare e rigenerazione.
I glomeruli sono generalmente normale, tranne in alcuni casi di danno da FANS, in cui si sviluppano malattia
a lesioni minime e sindrome nefrosica.
Nella nefropatia da analgesici le papille possono mostrare vari stadi di necrosi, calcificazioni,
frammentazione e sfaldamento.
In alcuni casi di nefropatia da farmaci le papille necrotiche possono essere espulse determinando macro-
ematuria o colica renale da ostruzione ureterale.
È importante riconoscere il quadro della nefropatia da farmaci poiché la sospensione del farmaco stesso
porta alla risoluzione del quadro, anche se in alcuni casi la guarigione impiega mesi, altrimenti può
verificarsi un danno irreversibile.

Nefropatia da analgesici
È una nefropatia cronica causata dall’eccessiva assunzione di analgesici e caratterizzata da nefrite tubulo-
interstiziale e necrosi papillare renale. L’incidenza di questa malattia riflette il consumo di analgesici nelle
diverse parti del mondo e gli interventi di salute pubblica attuati per ridurlo.
Il danno è principalmente associato alla fenacetina, ma può essere dovuto anche ad acido acetilsalicilico,
caffeina, paracetamolo (metabolita della fenacetina) e codeina, presenti nelle combinazioni analgesiche.
Il danno si esplica in primo luogo con la necrosi papillare, che successivamente comporta nefrite tubulo-
interstiziale per ostruzione al deflusso urinario.
La necrosi papillare è facilmente indotta dalla combinazione fenacetina e aspirina:
- Acetomifene, metabolita della fenacetina, causa un deficit di glutatione e un danno da metaboliti
ossidanti
- l’acido acetilsalicilico ne potenzia gli effetti dannosi, inibendo la vasodilatazione indotta dalle
prostaglandine ed esponendo le cellule a danno ischemico
Le papille mostrano vari gradi di necrosi, calcificazione, frammentazione e distacco (in caso di necrosi
papillare diabetica le lesioni sono tutte al medesimo stadio); inizialmente la necrosi è focale, ma arriva poi a
coinvolgere tutta la papilla, che può staccarsi.
Si hanno anche atrofia dei tubuli, fibrosi e infiammazione interstiziale (le colonne del Bertin sono
risparmiate dall’atrofia).
La clinica comprende: ipostenuria, acidosi renale tubulare, calcolosi renale, cefalea, anemia, sintomi
gastroenterici, ipertensioni, infezioni urinarie, ematuria macroscopica o colica renale; si può arrivare
all’insufficienza renale cronica.
Una piccola quota di pazienti sviluppa carcinoma transizionale papillifero della pelvi renale.

Nefropatia da FANS
Gli effetti avversi dei FANS sono legati alla inibizione della sintesi di prostaglandine; anche gli inibitori
selettivi della COX2, che non danneggiano il tratto gastro-intestinale, possono danneggiare i reni, dal
momento che a questo livello la COX2 è ampiamente espressa.
Le sindromi renali da FANS includono:
- danno renale acuto, dovuto alla riduzione delle prostaglandine e alla conseguente ischemia
- nefrite interstiziale acuta da ipersensibilità
- nefrite interstiziale acuta e malattia a lesioni minime
- glomerulonefrite membranosa e sindrome nefrosica (la patogenesi non è chiara)

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Nefropatia da urati

Nei pazienti con patologie iperuricemiche possono verificarsi tre tipi di nefropatia:
- Nefropatia acuta da acido urico, dovuta alla precipitazione di cristalli di acido urico nei tubuli
renali, con conseguente ostruzione dei nefroni e insufficienza renale acuta. Questa condizione è
particolarmente frequente in pazienti con leucemie e linfomi sottoposti a chemioterapia (sindrome
da lisi tumorale): i farmaci uccido le cellule neoplastiche e l’acido urico viene rilasciato dai nuclei.
- Nefropatica cronica da urati, detta anche nefropatia gottosa, in cui i cristalli di urato monosodico si
depositano nei tubuli distali e nei dotti collettori, ma anche nell’interstizio, formando cristalli
aghiformi birifrangenti. I depositi di urato inducono una risposta infiammatoria con cellule
mononucleate e cellule giganti da corpo estraneo; tale lesione è detta tofo.
- Nefrolitiasi, ovvero calcoli di acido urico

Ipercalcemia e nefrocalcinosi

Malattie caratterizzate da ipercalcemia, come iperparatiroidismo, mieloma multiplo, intossicazione da


vitamina D, lesioni ossee metastatiche, possono indurre la formazione di calcoli di calcio e la deposizione
di calcio a livello renale (nefrocalcinosi). Una calcinosi estesa può portare a malattia tubulo-interstiziale e
insufficienza renale.

Nefropatia acuta da fosfati

Nei tubuli dei pazienti che assumono elevate dosi di alcune soluzioni orali di fosfato per la preparazione alla
colonscopia si può creare un importante accumulo di cristalli di fosfato di calcio. Questi pazienti non sono
ipercalcemici, ma un eccessivo carico di fosfati, associato a disidratazione, causa una marcata
precipitazione di calcio fosfato, che si presenta tipicamente con un’insufficienza renale dopo molte
settimane dall’esposizione. Spesso si tratta di una lesione acuta e reversibile.

Nefropatia da cilindri a catene leggere – Rene da mieloma

Il coinvolgimento renale in caso di neoplasie può essere legato a complicanze del tumore stesso, come
ipercalcemia o ostruzione degli ureteri, o della terapia, come irradiazione, iperuricemia, infezioni in pazienti
immunodepressi, ecc.
Il danno renale è tipico del quadro di mieloma multiplo e diversi fattori contribuiscono a tale danno:
- Proteinuria di Bence-Jones e nefropatia da cilindri tubulari → la proteina di Bence-Jonce è
costituita dalle catene leggere delle immunoglobuline, che
hanno un effetto tossico diretto sulle cellule epiteliali e che
possono combinarsi con glicoproteine urinaria, come la
proteina di Tamm-Horsfall, formando cilindri che
ostruiscono il lume tubulare e inducono una reazione
infiammatoria
I cilindri tubulari appaiono come masse amorfe di colore
rosa-blu, a volte con aspetto a lamine concentriche o
fratturato; alcuni sono circondati da cellule giganti
multinucleate. Questa condizione si manifesta nel 70% dei
pazienti con mieloma e può avere un esordio insidioso o
manifestarsi con danno renale acuto e oliguria.
Il tessuto interstiziale intorno mostra infiammazione e fibrosi.
- Amiloidosi di tipo AL, ovvero al forma associata alle catene leggere (spesso tipo λ)
- Malattia da deposizione di catene leggere → in alcuni pazienti le catene leggere delle
immunoglobuline (spesso quelle di tipo κ) si depositano nella MBG e nel mesangio sotto forma

362
fibrillare e inducono una glomerulopatia; le catene si depositano anche nelle membrane basali
tubulari, con conseguente nefrite tubulo-interstiziale.

Nefropatia da cilindri biliari

Il termine sindrome epatorenale indica la compromissione della funzione renale in pazienti con epatopatia
acuta o cronica con insufficienza epatica avanzata. In queste condizioni la bilirubina sierica può essere
marcatamente aumentata e può portare alla formazione di cilindri biliari nei segmenti distali del nefrone. I
cilindri possono estendersi ai tubuli prossimali, causando effetti tossici diretti sulle cellule epiteliali
tubulari e ostruzione del nefrone interessato. I cilindri di bile nei tubuli possono avere un colore dal verde-
giallastro al rosa e contenere gradi variabili di cellule distaccate o residui cellulari.

UREMIA

L’uremia è la fase terminale dell’insufficienza renale e costituisce una sindrome multiorgano dovuta alla
ritenzione di numerose sostanze tossiche, compresa l’urea.
Le manifestazioni includono:
- Polisierositi e pericardici infiammatorie siero-fibrinose
- Calcificazioni di vasi sanguini e organi
- Polmoni e danno alveolare diffuso
- Disidratazione, edema, iperkaliemia, acidosi metabolica
- Iperfosfatemia, ipocalcemia, iperparatiroidismo secondario, osteodistrofia renale
L’ipocalcemia e l’iperparatiroidismo secondario sono il risultato della ritenzione di fosfato e
dell’inibizione dell’attività dell’1-alfa-idrossilasi nel rene affetto, con conseguente carenza della
forma attiva di vitamina D. Nel tempo, l’ipertrofia parotidea, inizialmente adattativa, diviene
disadattativa e causa patologia ossea e calcinosi tissutale.
- Sintomi gastrointestinali, come nausea e vomito, sanguinamento, esofagite, gastrite, colite
- Sintomi neuromuscolari, come miopatia, neuropatia periferica, encefalopatia
- Manifestazioni dermatologiche: ittero, prurito, dermatite

Il coinvolgimento osseo viene attestato sulla base di biopsia ossea. La biopsia ossea transiliaca preceduta
da marcatura con tetracicline è il mezzo diagnostico più sensitivo e specifico per distinguere le varie
affezioni ossee correlate con la patologia renale, e per porre, per esclusione, la diagnosi di osteoporosi.
Prima di fare la biopsia il patologo somministra tetracicline che si vanno a deporre nell'osso insieme col
Ca2+ (tetracicline fluorescenti), e allora si può andare a vedere dove sono depositate e se si sono
depositate: se l'osso lavora bene ci vanno, se invece non c'è turnover le tetracicline non ci vanno e non
abbiamo fluorescenza. Col microscopio a fluorescenza è così possibile eseguire valutazioni quantitative sul
turnover osseo.

GLOMERULONEFRITE CRONICA

Si tratta della malattia glomerulare allo stadio terminale e può derivare da tipi specifici di
glomerulonefrite o svilupparsi in assenza di anamnesi positiva per glomerulonefrite acuta.
I reni appaiono simmetricamente ridotti di volume, con superficie corticale diffusamente granulare. La
corticale risulta assottigliata e si ha un aumento del grasso ilare. Nei casi più recenti i glomeruli possono
ancora mostrare segni della malattia primitiva, ma successivamente si ha la completa obliterazione dei
glomeruli e la loro trasformazione in massa eosinofila acellulare, costituita da una combinazione di
proteine plasmatiche, matrice mesangiale, materiale simile alla membrana basale e collagene.
Dal momento che la glomerulonefrite cronica si accompagna a ipertensione si hanno anche sclerosi
arteriosa e arteriolare, atrofia tubulare, fibrosi interstiziale e infiltrazione linfocitaria.
Nel corso degli anni la malattia evolve in insufficienza renale e può portare a morte per uremia.

363
RENE POLICISTICO – Dispensa

MALATTIA POLICISTICA AUTOSOMICA DOMINANTE (DELL’ADULTO)

La malattia policistica autosomica dominante è una malattia ereditaria caratterizzata da molteplici cisti
espansive in entrambi i reni, che conducono alla distruzione del parenchima renale e all’insufficienza
renale. L’incidenza è di 400-1000 nati vivi. La modalità di trasmissione è autosomica dominante ad alta
penetranza, ma affinché la malattia si manifesti è necessario che siano non funzionali entrambi gli alleli dei
geni coinvolti, pertanto gli individui predisposti ereditano una coppia del gene mutato e acquisiscono la
mutazione dell’altro allele nelle cellule somatiche renali.

Genetica e patogenesi

I geni implicati sono:


- PDK1, situato sul cromosoma 16, codificante per la policistina-1, proteina di membrana di grandi
dimensioni espressa a livello delle cellule tubulari renali, soprattutto quelle del nefrone distale. La
sua funzione non è ancora del tutto chiara, ma contiene domini implicati nelle interazioni cellula-
cellula e cellula-matrice. La mutazione di questo gene è presente nell’85% dei casi di malattia.
- PDK2, situato sul cromosoma 4, codificante per la policistina-2, proteina di membrana espressa in
tutti i segmenti dei tubuli renali e in diversi tessuti extra-renali. Questa proteina funziona come
canale del Ca2+ e la sua mutazione implica una forma di malattia policistica meno grave.
La patogenesi della malattia policistica renale non è ancora del tutto chiara, ma l’ipotesi patogenetica vede
al centro il complesso cilia-centrosoma delle cellule epiteliali tubulari. Le cellule dei tubuli renali
contengono un singolo ciglio mobile che sporge nel lume del tubulo e funge da meccanosensore per
rilevare le variazioni di flusso e gli stress da distensione: in risposta a questi segnali vengono regolati il
flusso ionico, la polarità delle cellule e la proliferazione cellulare.
Difetti della sensibilità meccanica, del flusso di calcio e del
segnale di trasduzione potrebbero essere alla base della
formazione delle cisti, infatti, policistina-1 e policistina-2 sono
localizzate a livello di ciglio primario. La mutazione di
entrambi i geni PDK determina la perdita del complesso delle
policistine o la formazione di un complesso aberrante e
alterazioni dei livelli intracellulari di calcio, con conseguenti
alterazioni della proliferazione cellulare, dell’apoptosi e delle
funzioni secretorie.
L’aumento di calcio stimola la proliferazione e la secrezione
delle cellule epiteliali che rivestono internamente le cisti e
alterano il rapporto cellula-matrice, con conseguente fibrosi
interstiziale. Inoltre, il liquido contenuto nelle cisti presenta
mediatori, rilasciati dalle cellule epiteliali, che esaltano la
secrezione di liquidi e inducono infiammazione.

Morfologia

Macroscopicamente i reni sono ingranditi, fino a raggiugere dimensioni enormi, e presentano cisti sulla
superficie esterna. Le cisti possono essere piene di liquido sieroso chiaro o torbido, talvolta emorragico, e
man mano che si accrescono possono determinare alterazioni da compressione. Le cisti originano da varie
parti del nefrone, pertanto hanno rivestimento epiteliale di vario tipo. Occasionalmente si osservano
proiezioni papillari, polipi e ciuffi glomerulari proiettati nel lume cistico.

364
Clinica

Molti pazienti rimangono asintomatici fino all’insorgenza di insufficienza renale, mentre in altri casi la
progressiva dilatazione delle cisti e le emorragia possono determinare una sintomatologia dolorosa.
I pazienti con mutazione di PDK2 hanno solitamente un’età di esordio più avanzata e sviluppano
insufficienza renale più tardi, rispetto ai pazienti con mutazione di PDK1.
I pazienti con malattia policistica renale tendono ad avere altre anomalie congenite extra-renali.
Spesso si associa la malattia policistica del fegato, in cui le cisti si formano dall’epitelio biliare; più
raramente si possono avere cisti nella milza, nel pancreas e nei polmoni. Una possibile causa di morte dei
pazienti con malattia policistica renale è l’emorragia dovuta ad aneurismi intracranici, sempre associati a
mutazione della policistina, espressa a livello di parete vascolare. Altre cause di morte sono cardiopatia
ischemica, ipertensione, processi infettiva, rottura di aneurismi.

MALATTIA POLICISTICA AUTOSOMICA RECESSIVA (INFANTILE)

Questa forma viene distinta in perinatale, neonatale, infantile e giovanile in base al momento della
presentazione e all’eventuale compresenza di lesioni epatiche. Manifestazioni cliniche rilevanti sono spesso
presenti già alla nascita e i bambini possono morire in giovane età a causa dell’insufficienza renale.

Genetica e patogenesi

In molti casi la malattia è causata dalla mutazione del gene PKHD1 che codifica per la fibrocistina, proteina
di membrana localizzata a livello di ciglio primario delle cellule tubulari; la funzione di questa proteina non
è nota, ma si ipotizza possa essere un recettore cellulare con ruolo nella differenziazione tra dotto
collettore e dotto biliare.

Morfologia

I reni sono ingranditi e presentano una superficie esterna liscia; corticale e midollare presentano molte
piccole cisti, che conferiscono al rene un aspetto spugnoso. È tipica la presenza di canali dilatati e allungati
disposti ad angolo retto rispetto alla superficie corticale.
Microscopicamente si vede la dilatazione sacculare o cilindrica di tutti i dotti collettori. Le cisti presentano
un rivestimento uniforme di cellule cubiche, che riflette l’origine dai dotti collettori.
In quasi tutti i casi sono presenti cisti multiple nel fegato, associate alla proliferazione dei dotti biliari
periportali.

Clinica

I pazienti che vivono oltre l’infanzia possono sviluppare un peculiare danno epatico caratterizzato da
modesta fibrosi periportale e proliferazione di duttuli biliari ben differenziati; tale condizione è detta fibrosi
epatica congenita. Si possono sviluppare ipertensione portale e splenomegalia.

365
NEOPLASIE DELLE VIE URINARIE
Le neoplasie delle vie urinarie hanno un’origine complessa, infatti, l’epitelio che va dalla parete dei calici
renali all’imboccatura degli ureteri in vescica è di origine mesodermica, mentre vescica e terzo prossimale
dell’uretra sono di origine endodermica e la porzione esterna dell’uretra di origine ectodermica.
Nell’adulto si ha un urotelio transizione pseudo-stratificato con membrana basale continua: l’epitelio del
bulbo uretrale si trasforma progressivamente in epitelio colonnare stratificato, che nel meato uretrale
diviene squamoso. Lo spesso dell’epitelio è variabile e va da 3 cellule di spessore nella pelvi a 7 cellule di
spessore in vescica. La lamina propria è costituita da collagene lasso e numerosi vasi.
Lo strato muscolare, ove presente, è sempre di origine mesodermica e costituito da uno strato spiraliforme a
livello della pelvi, uno longitudinale e uno trasversale esterno; il coinvolgimento dello strato muscolare è
importante per la stadiazione.
Le neoplasie delle vie urinarie rappresentano il 7% di tutti i cancri e il 3% della mortalità per cancro negli
USA. Nel 95% dei casi si tratta di tumori epiteliali, di cui il 90% è costituito da cellule uroteliali (carcinoma
a cellule transizionali), mentre una minoranza è rappresentata da carcinomi squamosi e adenocarcinomi.
L’incidenza è in costante aumento grazia al miglioramento delle metodiche di screening e diagnosi,
rispettivamente basate su citologia del sedimento urinario e biopsia transuretrale; la prevalenza è maggiore
nel sesso maschile, nei paesi industrializzati e nelle zone urbane.
La classificazione distingue:
- Neoplasie uroteliali (90%)
o Papillomi, esofitici o invertiti
o Neoplasia uroteliale a basso grado di malignità
o CIS
o Carcinoma uroteliale papillare
- Carcinoma a cellule squamose
- Carcinoma misto
- Adenocarcinoma
- Tumori mesenchimali (5%)

CARCINOMA VESCICALE UROTELIALE

Nell’80% dei casi interessa soggetti tra i 50 e gli 80 anni, soprattutto di sesso maschile; non è familiare e
un ruolo importante nella patogenesi è legato all’esposizione a carcinogeni ambientali, tra i quali:
- Composti chimici industriali, come coloranti o ammine
- Fumo di sigaretta, che aumenta il rischio di 3-7 volte
- Infestazione da schistosoma haemotobium, tipica di Egitto e Sudan: le uova del verme vengono
deposte nella parete vescicale e inducono una risposta infiammatoria; nel 70% dei casi la neoplasia
associata è di tipo squamoso.
- Analgesici non steroidei e ciclofosfamide
- Terapia radiante eseguita per altre neoplasie
Questi carcinogeni ambientali vengono filtrati dal rene ed escreti con l’urina, pertanto ristagnano in vescica
e causano una cancerizzazione a campo; i tumori tendono a recidivare poiché anche se si rimuove una
lesione il resto dell’urotelio è comunque predisposto all’insorgenza di neoplasie.
I tumori uroteliali hanno sempre lo stesso aspetto istologico, indipendentemente dalla sede di
insorgenza, che è quasi sempre la vescica. Spesso sono tumori multifocali e hanno un’ampia variabilità: si
possono avere piccole lesioni che recidivano raramente o carcinomi molto aggressivi; generalmente la
prognosi peggiora con l’invasione della lamina propria e della tonaca muscolare, arrivando nel secondo
caso ad una sopravvivenza a 5 anni del 50%.
I pattern di crescita possono essere:
- Pattern di crescita piatto
o Non-invasivo → carcinoma in situ
o Invasivo → carcinoma uroteliale non papillare
366
- Pattern di crescita papillare
o Non-invasivo → papilloma, neoplasia uroteliale a basso potenziale di malignità e carcinoma
uroteliale non invasivo
o Invasivo → carcinoma uroteliale papillare
I CIS e i tumori uroteliali papillari non invasivi rappresentano le lesioni pre-invasive in queste neoplasie.
L’utilizzo della dicitura carcinoma per tutte le neoplasie uroteliali è tecnicamente scorretto, dal momento
che il carcinoma uroteliale non invasivo potrebbe essere paragonato ad un polipo adenomatoso del colon,
ma tale nomenclatura rende conto della cancerizzazione a campo, che fa sì che anche le forme non invasive
recidivino. Macroscopicamente si ha quindi un aspetto variabile: le lesioni possono essere piatte, nodulari
o papillari.
La stadiazione si basa proprio sulla invasione delle varia parti della parete:
- pTa: non invasivo, papillare
- pTis: carcinoma in situ
- pT1: invasione lamina propria
- pT2: invasione muscolare propria
- pT3: invasione microscopica (pT3a) o macroscopica (pT3b) extravescicale
- pT4: invasione di organi o strutture adiacenti

Sono state identificate alcune mutazioni associati a queste neoplasie:


- mutazione gain of fuction di FGFR3, soprattutto nei carcinomi papillari non invasivi di basso grado
- mutazione di HRAS, mutualmente esclusiva con quella di FGFR3, sempre nei tumori di basso grado
- mutazioni loss of fuction di p53 e RB, soprattutto in tumori invasivi di alto grado
- perdita del cromosoma 9, presente nei carcinomi papillari non invasivi e nei CIS (eliminazione di
CDKN2A)

Papilloma transizionale

Lesione papillare con proiezioni digitiformi di lamina propria rivestite


da urotelio istologimente normale, quindi con non più 7 strati cellulari e
privo di atipie citologiche.
Si tratta di un tumore raro, tipico dei giovani, non associato a
carcinogeni ambientali; non recidiva, quindi la rimozione è curativa.
Si distinguono due tipologiche:
- papilloma esofitico → la struttura papillare si estrinseca nel
lume vescicale; solitamente è singolo e presenta un aspetto
ramificato, con proiezioni digitiformi, e risulta ancorato alla
parete tramite un peduncolo.
- Papilloma invertito/endofitico → le strutture papillari si
insinuano nel connettivo della lamina propria; sembrano
invasive, ma non lo sono.

Neoplasia papillare a basso potenziale di malignità - PUNLMP

È una neoplasia rara; somiglia al papilloma, ma presenza dimensioni


maggiori, lesioni esofitiche, urotelio con più di 7 strati e nuclei
diffusamente ingranditi. Non sono però presenti né marcate atipie né
aree di necrosi. Può recidivare, ma solitamente non progredisce alla
forma invasiva.

367
Carcinoma uroteliale papillare di basso grado

È una neoplasia papillare indistinguibile da un papilloma esofitico o


da un PUNLMP; presenta una architettura parzialmente conservata,
con cellule che tendono a staccarsi dall’asse fibro-vascolare. Vi sono
atipie ben evidenti: nuclei ipercromici e polimorfici e anomalie
citologiche, ma le mitosi sono rare e non è presente necrosi.
Possono recidivare, ma solo nel 10% dei casi tendono ad invadere lo
stroma. Queste neoplasie sono l’equivalente dei polipi adenomatosi
del colon con displasia di basso grado.

Carcinoma uroteliale papillare di alto grado

Ha un aspetto papillare e una architettura disordinata. Le cellule


presentano grossi nuclei ipercromici, polimorfismo e mitosi
frequenti; vengono meno coesione e polarizzazione cellulare.
Nell’80% dei casi sono associati ad infiltrazione della lamina propria
e sono ad alto rischio di metastasi, sia linfonodali che a distanza,
soprattutto a livello di fegato, osso e polmoni; inoltre, la neoplasia
può attraversare la parete vescicale ed estendersi agli organi
circostanti e/o creare fistole cisto-vaginali e cisto-rettali.

Carcinoma in situ – carcinoma uroteliale piatto non invasivo

Una minoranza dei tumori della vescica presenta un pattern di


crescita piatto.
Il CIS cresce lungo il lume della vescica, senza produrre una massa
endoluminale, presentandosi come una mucosa
arrossata/granulosa/ispessita, che simula una cistite. Presenta
una citologia atipica e nella maggior parte dei casi, soprattutto in
assenza di trattamento, evolve in carcinoma infiltrante.
Solitamente, inoltre, è associato alla presenza di altri tipi di
carcinomi. Talvolta richiede la cistectomia radicale.
L’atipia può essere presente in tutto lo spessore dell’urotelio o solo in cellule sparse, circondate da cellule
normali (diffusione pagetoide).
I nuclei sono ipercromici, le mitosi frequenti e si ha una scarsa differenziazione cellulare: le cellule poco
differenziate riducono l’espressione delle giunzioni cellulari e tendono a sfaldarsi, galleggiando nell’urina e
risultando visibili all’esame del sedimento urinario.

Carcinoma uroteliale invasivo

Può derivare da una lesione pre-esistente, sia papillare che


piatta, che invade la lamina propria; se invade la muscolare
propria la sopravvivenza a 5 anni è del 50%.
Macroscopicamente possono ritrovare una componente
esofitica papillare o un pattern di crescita piatto e si possono
avere ulcerazioni.
La progressione verso forme invasive vede la perdita di
oncosoppressori, inizialmente p16, e successivamente p53, che
determina lesioni geneticamente instabili e predispone alla
perdita di altre regioni cromosomiche, portando a tumori
invasivi. L’aneuploidia può essere evidenziata tramite sonde FISH eseguite su campioni di citologia urinaria.

368
Diagnosi e trattamento dei carcinomi uroteliali

La clinica è caratterizzata da ematuria non dolorosa, ma talvolta si possono avere pielonefriti e idronefrosi.
Altre manifestazioni possono essere: pollachiuria, minzione imperiosa e disuria.
La prognosi dipende dallo stadio.
Il trattamento prevede:
- Lesioni papillari di basso grado → rimozione transuretrale e follow-up a vita della citologia urinaria;
si possono usare anche chemioterapici intravescicali, immunoterapia o il bacillo di Calmette-
Guerine, batterio che stimola infiammazione locale che distrugge il rumore
- Carcinomi infiltranti la muscolare o refratti ad altre terapie → cistectomia radicale
- Carcinoma metastatico → chemioterapia

Rare forme di carcinoma vescicale

Le forme miste sono altamente invasive e presentano aree di differenziazione squamosa associate ad aree
di differenziazione uroteliale e si possono ritrovare anche perle cornee; possono avere aspetto vegetante o
infiltrante-ulcerante.
Il carcinoma squamoso è tipicamente dovuto a ad infezioni, soprattutto a schistomiasi.
L’adenocarcinoma, anch’esso raro, rientra nei carcinoidi disemebriogenetici dal momento che deriva
dall’uraco, residuo della cloaca, e si presenta a livello di cupola anteriore della vescica (mentre tutti gli altri
carcinomi insorgono alla base della vescica, dove c’è il ristagno di urina).
Si possono avere anche carcinomi a piccole cellule, identici a quelli polmonari.

TUMORI VESCICALI MESENCHIMALI e NEOPLASIE SECONDARIE DELLA VESCICA

Rappresentano il 5% dei tumori vescicali e sono classificabili in:


- Leiomiomi, che si presentano come masse sferiche ovoidali capsulate nella parete vescicale
- Sarcomi, rari, tranne il rabdomiosarcoma embrionario in età pediatrica, che presenta un aspetto
plurilobato. Si possono avere anche pseudotumori infiammatori e carcinomi a crescita
pseudosarcomatosa.
Metastasi vescicali possono derivare da tumori della prostata, adenocarcinoma del colon, carcinoma della
cervice uterina e linfomi.

TUMORI DELL’URETERE

I tumori primitivi dell’uretere sono rari. I carcinomi uroteliali sono analoghi a quelli vescicali, ma presentano
una incidenza minore dal momento che l’uretere è meno soggetto al ristagno di urina e clinicamente
causano prima una ostruzione delle vie urinarie. I polipi fibro-epiteliali sono lesioni benigne rare che
possono interessare sia la pelvi che gli ureteri, ma non la vescica; si presentano soprattutto nelle donne e
nell’uretere sinistro. Sono formati da connettivo vascolarizzato ed edematoso, rivestito da urotelio normale
o iperplastico; nello stroma può essere presente un importante infiltrato flogistico. Causanom dolore ed
ematuria ed entrano in diagnosi differenziale con le neoplasie uroteliali maligne.

TUMORI DELL’URETRA

Sono rari, e il più frequente è la caruncola uretrale, massa di 1-2cm, dolorosa e rossastra a livello del meato
esterno, tipicamente nelle donne, soprattutto anziane. Si tratta in realtà di uno pseudo-tumore di natura
infiammatoria istologicamente costituito da connettivo riccamente vascolarizzato con componenti
flogistiche e mucosa intatta ma friabile; è quindi una lesione benigna, ma può dare vita ad ulcere e
sanguinamenti. La resezione è curativa. Tra i tumori benigni rientrano anche papillomi a cellule
squamose/uroteliali e invertiti e condilomi. Tra i tumori maligni ritroviamo carcinomi uroteliali, con
caratteristiche analoghe a quelli vescicali, carcinomi squamosi e adenocarcinomi.

369
MALATTIE DELL’APPARATO GENITALE MASCHILE

TUMORI DEL TESTICOLO

I tumori del testicolo rappresentano la causa più frequente di massa testicolare non dolente; colpiscono
soprattutto pazienti tra i 15 e i 35 anni e causano il 10% dei decessi per tumore.
La maggior parte delle neoplasie testicolari è maligne e l’autopalpazione risulta importante per la diagnosi
precoce.
I tumori testicolari possono essere classificati in:
- Tumori a cellule germinali (90% dei casi), che sono identici ai tumori a cellule germinali dell’ovaio,
anche se varia la frequenza dei diversi istotipi, e possono insorgere anche in sedi extra-gonadiche,
soprattutto lungo la linea mediana del corpo, dove iniziano a maturare le cellule da cui derivano.
- Tumori che originano dai cordoni sessuali o dallo stroma gonadico, che sono rari e principalmente
benigni; talvolta possono essere associati a sindromi endocrinopatiche
- Tumori misti a cellule germinali e stroma gonadico, rarissimi
- Altri tumori, come i linfomi
- Tumori metastatici, tipicamente leucemie

TUMORI A CELLULE GERMINALI

Oltre che nel testicolo, i tumori a cellule germinali possono insorgere anche lungo la linea mediata del
corpo, ad esempio nell’epifisi.
I fattori di rischio per l’insorgenza dei tumori a cellule germinali sono:
- Precedente diagnosi di tumore testicolare controlaterale
- Criptorchidismo, che aumenta il rischio di 10-40 volte
- Disgenesie testicolari, come la sindrome di Klinefelter (XXY) e la femminilizzazione testicolare
- Familiarità
- Etnia caucasica
Dal punto di vista molecolare presentano quasi tutti copie extra del braccio corto del cromosoma 12, per la
presenza dell’isocromosoma 12, dovuto alla divisione aberrante dello stesso; sono invece rare le mutazioni
puntiformi.

Questi tumori possono essere classificati in tumori a singolo istotipo, che rappresentano un terzo dei casi,
e tumori a istotipo multiplo, che rappresentano i 2/3 dei casi.
Gli istotipi singoli sono:
- Seminoma (l’unico frequente come istotipo singolo)
- Carcinoma embrionario
- Teratoma
- Coriocarcinoma
- Tumore del sacco vitellino
Questi singoli istotipi possono coimbinarsi tra loro e generare gli istotipi multipli:
- Carcinoma embrionario + teratoma, con o senza seminoma: è il più frequente ed è detto
teratocarcinoma.
- Carcinoma embrionario + tumore del sacco vitellino, con o senza seminoma
- Carcinoma embrionario + seminoma
- Tumore del sacco vitellino + teratoma, con o senza seminoma
- Cariocarcinoma + altri istotipi

La cellula germinale può andare incontro a trasformazione neoplastica e assumere diversi fenotipi: se
rimane indifferenziata si ha un seminoma (detto disgermona se riguarda l’ovaio). La cellula tumorale può
anche continuare il processo differenziativo, dando un seminoma spermatocitico.

370
La cellula tumorale germinale indifferenziata per intraprendere un percorso differenziativo deve superare
un blocco biologico, risultando nel carcinoma embrionario; la cellula tumorale può seguire una
differenziazione trofoblastica, portando a coriocarcinoma, o somatica, formando un teratoma. Dalla
differenziazione epiteliale si può formare il sacco vitellino e quindi il tumore del sacco vitellino. Questo è il
motivo per cui si hanno tumori ad istotipo singolo o multiplo ed è anche il motivo per cui il seminoma è
quello più frequente tra gli istotipi singoli.

Seminoma

Si presenta intorno ai 30 anni di età, mai nell’infanzia, come una massa di grandi dimensioni circoscritta,
carnosa, bianco-giallastra con crescita espansiva, lobulata ed omogenea.
Istologicamente presenta cellule neoplastiche di grandi dimensioni con nucleoli ben evidenti, membrana
ben distinta e citoplasma chiaro, per l’alto contenuto di glicogeno; le cellule sono disposte secondo un
pattern solido, con setti fibrosi popolati da linfociti T.
In alcuni tumori si hanno aspetti di anaplasia, ma questa non correla con una prognosi peggiore.
Possono esserci aree necrotiche, ma non vi sono aree emorragiche.
Frammiste alle cellule neoplastiche si possono avere cellule di tipo sinciziotrofoblasto, derivanti dalla tras-
differenziazione delle cellule neoplastiche, che producono β-HCG, sfruttata come marker diagnostico.

Le cellule del seminoma non sono cellule epiteliali, quindi possono


portare alla diffusione pagetoide della rete testis: le cellule
neoplastiche perdono le giunzioni inter-cellulari e migrano a livello di
rete testis e epiteli ad essa connessi.
La presenza di questa diffusione impone
l’esecuzione di una orchidectomia radicale, che
prevede la rimozione anche del funicolo
spermatico.

Il precursore del seminoma è la neoplasia intratubulare delle cellule germinali: si


tratta di lesioni displastiche, indistinguibili dal seminoma, disposte tra i tubuli
seminiferi; le cellule di queste lesioni sono positive a PLAP, la fosfolipasi A placentare
(presente in tutte le cellule germinali).

Seminoma spermatocitico

Si presenta intorno ai 65 anni, con prognosi eccellente. Si presenta come una massa con superficie morbida
grigio-chiara, talvolta contente cisti mucoidi.
Si hanno cellule analoghe a quelle del seminoma che si differenziano lungo il percorso differenziativo degli
spermatogoni. Queste cellule provano ad effettuare delle meiosi, pertanto presentano nucleo grande e

371
cromatina filamentosa. Si hanno quindi piccole
cellule completamente indifferenziate, cellule
intermedie con citoplasma esosinofilo e cromatica
filamentosa (indicate dalla freccia nell’immagine) e
cellule giganti, mono o multi-nucleate, che ricordano
cellule che tentano di eseguire una meiosi.

Carcinoma embrionario

È un tumore che raramente si presenta come istotipo singolo. Si presenta come una piccola massa non ben
circoscritta, con aree emorragiche e necrotiche. Si tratta di un tumore aggressivo, di alto grado, che dà
precoce diffusione metastatica, anche invadendo epididimo e funicolo, tramite l’albuginea.
È un seminoma differenziato in senso epiteliale, quindi forma cordoni solidi, con aree ghiandolari e
papillari. Istologicamente si hanno cellule grandi, ovoidali, con nucleo tondo e nucleolo ben evidente;
sono presenti una cospicua attività mitotica e numerosi corpi apoptotici.
Si ha positività a PLAP e OCT3-4 e negatività a citocheratina, CD30 e KIT.

Tumore del sacco vitellino

È la neoplasia a cellule germinali più frequente nei bambini


sotto i 3 anni, nei quali solitamente si presenta come istotipo
singolo, mentre negli adulti è più frequente in istotipi misti.
Istologicamente si hanno aree solide, cordoni, microcisti con
stroma mixoide immaturo e i caratteristi corpi perivascolari di
Schiller-Duval, ovvero formazioni abortive di sacchi vitellini da
parte del tumore.
Si possono ritrovare corpi ialini, lucidi ed eosinofili, intra- e
extra-plasmatici, dovuti all’accumulo di α-fetoproteina,
marker del tumore, essendo prodotta dalla neoplasia stessa.

Coriocarcinoma

Si tratta di un tumore a cellule germinali che riproduce l’aspetto del trofoblasta, da cui origina la placenta.
È un tumore emorragico, angio-invasivo e metastatizza rapidamente; è associato alla produzione di β-
HCG. È costituito da cellule citotrofoblastiche, cuboidali, e sinciziotrofoblastiche, multinucleate e atipiche,
con caratteristiche di malignità. In alcuni casi si possono trovare strutture tipo villo coriale, con
citotrofoblasto all’interno e
sinciziotrofoblasta all’esterno.
L’angioinvasione, provocando
emorragie, può talvolta determinare
una regressione completa del
tumore primitivo: si possono avere
metastasi a distanza in assenza del
tumore primario testicolare.

372
Teratoma

Le cellule germinali proseguono la differenziazione in senso somatico, sia


endodermico, che mesodermico che ectodermico. Nella massa tumorale, che di
solito misura 5-10 cm, si possono quindi avere masse cutanee, nervose, cartilaginee,
intestinali ben differenziate.
Si possono distinguere teratomi maturi, costituiti da tessuti completamente
differenziati, e teratomi immaturi, costituiti da elementi somatici a diverso grado di
maturità.
La diagnosi si basa sul ritrovamento di più tipi cellulari ed è importante andare a
ricercare la presenza di istotipi a maggior grado di malignità, che influenzeranno la prognosi.
I teratomi maturi singoli benigni sono tipici del testicolo in età pre-puberale; i teratomi in età post-puberale
sono solitamente associati ad altri istotipi maligni.
Il teratoma immaturo ha potenziale di malignità, ma anche il teratoma maturo può andare incontro a
trasformazione maligna, infatti, si può avere la trasformazione maligna delle componenti somatiche
precedentemente differenziate, ad esempio, un frammento intestinale può dar vita ad un adenocarcinoma
del colon.
Macroscopicamente si hanno quindi aspetti organoidi, che possono essere riscontrati anche
microscopicamente.
Nelle forme immature, si hanno aree
blastematose (immagine a sinistra), ovvero
costituite da tessuto indifferenziato, con
stroma mixoide e ghiandole di spetto
primordiale. Altro segno di immaturità è la
presenza di strutture neuroepiteliali
(immagine a destra) che ricordano il tubo
neurale e formano rosette.

Tumori misti

Rappresentano la maggior parte dei tumori a cellule germinali (60%) e la forma più frequente è il
teratocarcinoma. La distinzione tra neoplasie seminomatose e non seminomatose è importante poiché i
seminomi sono radiosensibili; tumori seminomatosi con alti livelli di AFP vengono trattati come tumori non
seminomatosi.
La proporzione di ciascun istotipo nel tumore misto deve essere specificata dal momento che correla con
la diffusione metastatica e la risposta alla chemioterapia. Il rischio di metastasi è minimo per il teratoma e
massimo per il coriocarcinoma.
Clinicamente si hanno tumefazioni testicolari indolenti che si diffondo:
- Ai linfonodi iliari, para-aortici retoperitoneali, mediastini e sovraclaveari per quanto riguarda i
seminomi
- A distanza, soprattutto nel fegato e nei polmoni, per quanto riguarda gli altri istotipi. Le metastasi
possono avere istotipo differente da quello di partenza
Importanti per la diagnosi ed il follow up sono il dosaggio dell’alfafetoproteina e del β-HCG che sono
marcatori specifici del sacco vitellino e del coriocarcinoma, ma anche delle cellule sinciziotrofoblastiche.
Fattori associati a prognosi infausta sono:
- Metastasi a fegato, ossa e cervello
- Numerose metastasi polmonari
- Markers tumorali elevati
- Tumori a cellule germinali primitivi extra-gonadici
La terapia si basa su orchiectomia radicale, per via della diffusione pagetoide; radio- e chemio- terapia
sono efficaci nei tumori seminomatosi. Pur essendo neoplasie aggressive grazie alla combinazione di
chirurgia e radioterapia si riesce a guarire un cospicuo numero di pazienti.

373
TUMORI DEI CORDONI SESSUALI – STROMA GONADICO – Dispensa

Tumori a cellule di Leydig

Questi tumori possono produrre androgeni e in alcuni casi estrogeni e corticosteroidi; si presentano
intorno ai 60 anni come una tumefazione testicolare. Possono esordire con ginecomastia o, nei bambini,
con pseudo-pubertà precoce tumorale. Nella maggior parte di casi sono benigni, ma nel 10% dei casi sono
invasivi e metastatizzanti.
Formano noduli circoscritti, omogenei e bruno-dorati.
Le cellule tumorali sono grandi, tonde o poligonali, con citoplasma granuloso eosinofilo e nucleo tondo.
Il citoplasma contiene gocce lipidiche, vacuoli, pigmenti di lipofuscina e nel 25% dei casi i caratteristici
cristalloidi a bastoncello di Reinke.

Tumori a cellule di Sertoli

Formano piccoli noduli fibrosi con superficie omogenea e grigio-biancastra o giallastra; solo normalmente
silenti, presentandosi come massa testicolare. Istologicamente si hanno trabecole di cellule che tendono a
formare cordoni e tubuli. Nel 10% dei casi sono maligni.

GONADOBLASTOMA – Dispensa

Si sviluppano spesso nelle gonadi con disgenesia testicolare; sono rari e contengono una miscela di cellule
germinali ed elementi stromali. Talvolta, la componente germinale forma un seminoma.

LINFOMA DEL TESTICOLO – Dispensa

Linfomi non Hodgkin aggressivi rappresentano il 5% dei tumori testicolari, e sono le forme più comuni negli
over 60. Spesso si hanno metastasi al momento della diagnosi. In ordine decrescente di frequenza, in
particolare, abbiamo il linfoma diffuso a grandi cellule B, il Burkitt e l’EBV-positivo extralinfonodale a cellule
NK/T.

374
PATOLOGIE DELLA PROSTATA

Dal punto di vista anatomico-funzionale la prostata può essere suddivisa in una zona centrale, che circonda
l’uretra, una zona di transizione e una zona periferica. L’iperplasia prostatica fibromioghiandolare interessa
solitamente la regione interna peri-uretrale, mentre l’adenocarcinoma prostatico la zona periferica.
La prostata non ha una capsula ben definita, ma si ha un piano di clivaggio tra la ghiandola e i tessuti
circostanti.
Il 50% del volume prostatico è rappresentato dallo stroma fibromuscolare, che con la sua contrazione
consente la spremitura del secreto prostatico, il quale può fuoriuscire grazie ad un sistema di dotti, che a
differenza di quanto avviene in altre ghiandole, non presentano cellule mioepiteliali intorno.
A livello stromale si possono quindi distinguere cellule fibrillari rosa, ovvero le fibrocellule muscolari lisce, e
cellule con citoplasma chiaro, i fibroblasti.
La ghiandole tubulo-alveolari prostatiche presentano uno strato
interno di cellule colonnari secernenti e uno strato esterno di
cellule basali di riserva (da non confondere con le cellule
mioepiteliali).
Le cellule basali non sono facilmente visibili, pertanto sono molto
importanti i loro marcatori specifici: le citocheratine ad alto peso
molecolare identificate, tramite immunoistochimica,
dall’anticorpo 34β-E12.
La presenza delle cellule basali è importante per distinguere una
proliferazione iperplastica da una neoplastica. Le cellule colonnari
formano un epitelio pseudo-stratificato, mentre le cellule basali
sono piccole e cuboidi, con elevato rapporto nucleo/citoplasma.
All’interno delle ghiandole è possibile ritrovare i corpora amilacea,
concrezioni di secreto più o meno calcifiche; questi sono presenti
soprattutto nella iperplasia fibromioghiandolare, ma non hanno
valore diagnostico.
La crescita, sia fisiologica che neoplastica, è sotto il controllo
ormonale del testosterone, in particolare del diidrotestosterone.

PROSTATITE

La prostatite consiste nella infiammazione della prostata.


Si può avere una forma acuta (immagine a lato), con infiltrazione neutrofila,
congestione stromale e formazione di micro-ascessi, generalmente dovuta a
microorganismi responsabili di infezioni delle vie urinarie o patogeni
sessualmente trasmessi, come Neisseria Gonorrhoeae.
La prostatite acuta può essere seguita dalla prostatite cronica, caratterizzata
da infiltrazione prevalentemente linfocitaria, distruzione tissutale e
proliferazione fibroblastica (immagine in basso); la prostatite cronica può
essere causata da Chlamydia.

Vi è scarsissima correlazione tra l’istologia e la clinica,


pertanto la diagnosi di prostatite è clinica e il referto
istologico può indicare solo una forma di infiammazione
prostatica, che può anche essere presente in caso di
iperplasia.

375
IPERTROFIA PROSTATICA

L’ipertrofia prostatica, detta anche iperplasia stromale e ghiandolare della prostata o iperplasia
fibromioghiandolare, è una delle patologie più comuni nei soggetti di sesso maschile, tanto da essere
considerata parafisiologica nel paziente anziano.
Colpisce il 25% degli over 40 e il 90% degli over 70, ma solo il 10% dei pazienti presenta una sintomatologia
tale da richiedere il trattamento. Inoltre, solo il 50% dei casi con evidenze istologiche di ipertrofia presenta
un effettivo aumento di dimensioni della ghiandola.
Si ritiene che alla base di questa condizione vi sia un accumulo di DHT nel tessuto prostatico, responsabile
dell’induzione di FGF, con conseguente crescita epiteliale, e TGF-β, con conseguente crescita fibroblastica;
per questo motivo il trattamento, non particolarmente efficace, si basa su farmaci inibenti la 5-α-reduttasi
di tipo 2, come la finesteride.
È importante sottolineare che questa patologia non rappresenta un precursore dell’adenocarcinoma
prostatico.

Nell’ipertrofia prostatica la ghiandola, che normalmente pesa circa 30g, risulta ingrandita, talvolta anche in
maniera abnorme, e determina un ostacolo all’efflusso di urina. Sono presenti dei noduli, sia a livello
macroscopico che microscopico, che distorcono il parenchima.
Solo una minoranza dei pazienti presenta una sintomatologia associata; i noduli, infatti, determinano
sintomi solitamente quando sono di consistenza dura o quando sono localizzati vicino all’imbocco
dell’uretra in vescica, poiché determinano problemi di efflusso urinario o di continenza. La definizione
“iperplasia del lobo medio” non indica una vera e propria entità distinta, ma la presenza di nodularità alla
base della prostata (la base della prostata è la porzione posta superiormente, in contatto con la vescica).
I noduli coinvolgono quindi sia la componente ghiandolare che la componente fibromuscolare: i noduli in
cui prevale la componente fibromuscolare sono quelli più duri, mentre quelli a prevalenza ghiandolare sono
meno consistenti e sono definiti come noduli cistici.
In alcuni casi i noduli presentano aree di infarto, necrosi e infiltrati infiammatori (flogosi secondaria a
necrosi).

Nelle zone in cui prevale l’iperplasia ghiandolare si hanno strutture tubulo-alveolari, quindi l’architettura
della ghiandola non cambia, ma si possono avere aree di dilatazione cistica. Non aumenta solo il numero di
ghiandole, ma anche la cellularità nella ghiandola stessa: si ha una pseudo-stratificazione, ma senza atipie.
Si può avere proliferazione sia delle cellule secretorie che delle cellule basali, con prevalenza dell’una o
dell’altra. La proliferazione delle cellule basali è identificabile per la presenza di cellule più blu con un
rapporto nucleo/citoplasma aumentato o tramite l’immunoistochimica, mentre la proliferazione delle
cellule secernenti dà vita ad un aspetto affastellato, detto simil-fibroadenomatoso.
Nelle zone in cui prevale l’iperplasia stromale si ha proliferazione di cellule mesenchimali indifferenziate,
fibroblasti, cellule muscolari lisce (iperplasia leiomiomatosa o simil-filloide).
Questi due differenti pattern, a prevalenza ghiandolare o a prevalenza stromale, non hanno però valore
diagnostico. Nell’iperplasia prostatica sono comuni i corpora amilacea.
L’iperplasia prostatica viene trattata con resezione trans-ureterale della prostata, TURP, che consiste nella
frammentazione della prostata, con formazione di “chips” che vengono poi rimosse ed analizzati al
microscopio,
in modo da
evidenziare
eventuali
focolai di
adeno-
carcinoma.

376
NEOPLASIA PROSTATICA INTRAEPITELIALE – PIN

Si tratta di una lesione displastica delle cellule secernenti colonnari e rappresenta il precursore
dell’adenocarcinoma prostatico, infatti, può evolvere in carcinoma in situ pre-invasivo.
Può precedere l’adenocarcinoma anche di 10 anni e non sempre determina un aumento del PSA, pertanto
questo non viene usato per lo screening del PIN (il PSA viene usato come test di screening
nell’adenocarcinoma prostatico e la diagnosi viene poi confermata tramite biopsia prostatica trans-rettale).
La storia naturale di questa neoplasia non è chiara e per questo non viene usata la dicitura carcinoma in
situ nella diagnosi. Istologicamente si ha una progressione: displasia molto lieve – displasia lieve – displasia
moderata – displasia severa – carcinoma in situ; dal punto di vista pratico è necessario distinguere la
displasia intraepiteliale di alto grado (moderata-severa) da quella di basso grado (lieve-media).
La storia naturale è caratterizzata da un progressivo rarefarsi delle cellule basali, che risultano
completamente assenti nell’adenocarcinoma invasivo. L’identificazione delle cellule basali tramite
immunoistochimica è quindi fondamentale per la diagnosi differenziale tra iperplasia, PIN e
adenocarcinoma.
In caso di PIN di alto grado si ha il 30-40% di probabilità che esso sia associato in maniera sincrona o
metacrona con l’adenocarcinoma prostatico, mentre tale associazione non è chiara nel PIN di basso grado.

A basso ingrandimento prevale la colorazione blu, dal


momento che le cellule displastiche presentano un
aumentato rapporto nucleo/citoplasma, ma non cambia
l’architettura ghiandolare.
Nel PIN di basso grado di ha una lieve stratificazione, i
nuclei risultano un po’ ingranditi, ma nel complesso le
alterazioni non sono drammatiche.
Nel PIN di alto grado i nuclei sono ipercromici con nucleoli
ben evidenti, il rapporto nucleo/citoplasma è elevato, così
come la densità cellulare e le cellule basali sono diradate,
ma ancora presenti.
La displasia è definita da una progressiva perdita di differenziamento di tipo secretorio e un progressivo
aumento del potenziale proliferativo. Inoltre, la micro-vascolarizzazione aumenta e lo strato basale tende a
sfaldarsi.

ADENOCARCINOMA PROSTATICO

È la più comune neoplasia maligna negli uomini anziani, soprattutto dopo gli 80 anni, mentre è raro prima
di 50 anni. L’adenocarcinoma clinicamente rilevante, tipico degli anziani, rappresenta un sottoinsieme di
tutti gli adenocarcinomi prostatici riscontrati negli esami autoptici. Negli uomini rappresenta la seconda
causa di morte, dopo il cancro al polmone, e i fattori di rischio per il suo sviluppo sono: età avanzata, etnia
africana, familiarità e mutazione di BRCA2 (correla con forme giovanili) e forse una dieta ricca di grassi.
Fattori protettivi sono invece vitamina D, selenio e licopeni.

377
La neoplasia insorge tipicamente nella zona periferica della prostata, pertanto è facilmente identificabile
con esami trans-rettali. La diagnosi è poi definita con l’esame istologico su biopsia trans-rettale.
L’incidenza è in aumento, mentre la mortalità è variata poco e ciò è dovuto al fatto che l’aumento
dell’incidenza è secondario all’efficacia dello screening basato su PSA, che permette di diagnosticare
neoplasie di basso grado e stadio. In alcuni casi di diagnosi precoce, soprattutto in pazienti anziani, non si
interviene immediatamente, ma si osserva l’andamento della neoplasia e la si tratta solo se necessario.
Dal punto di vista molecolare si riscontrano delezioni o traslocazioni che coinvolgono la via di TMPRSS2, una
molecola androgeno-regolata.

Tramite agobiopsia si prelevano multiple “carotine” di tessuto, lunghe circa 2 cm e larghe 1 mm, in maniera
random o eco-guidata.
In caso di esame istologico positivo si osserva la ripetizione di strutture ghiandolari che hanno perso
l’aspetto tubulo alveolare: si tratta di strutture acinari disposte schiena contro schiena. Tra le strutture
ghiandolari con architettura acinare non si ha stroma, pertanto esse risultano addossate le une alle altre.
Nei gradi più elevati si hanno numerose mitosi e nucleoli evidenti.
Il tumore cresce sia in modo espansivo che infiltrativo; nei carcinomi scarsamente differenziati si ha crescita
infiltrativa a singole cellule con perdita della struttura ghiandolare.
È tipica l’invasione peri-neurale e sono comuni i corpi cristalloidi, bastoncelli eosinofili, privi però di valore
diagnostico. A maggior ingrandimento si vedono grandi nuclei con nuclei evidenti e mitosi, ma non si ha un
grande pleomorfismo; esistono forme altamente differenziate in cui la diagnosi è difficoltosa.

Marcatori immunoistochimici

Spesso i prelievi bioptici sono di dimensioni ridotte e presentano solo alterazioni focali, pertanto nella
diagnosi di adenocarcinoma sono molto importanti i marcatori immunoistochimici:

378
- Citocheratine ad alto peso molecolare → presenti nelle ghiandole normali o displastiche, ma
assenti nell’adenocarcinoma
- Recemasi (AMACR) → espressa dalle cellule dell’adenocarcinoma, ma non dalle cellule normali; si
tratta di un marcatore tumore-specifico, ma non sede-specifico dal momento che può essere
espresso anche da tessuti tumorali diversi dalla prostata
- PSA → è tessuto-specifico, ma non tumore-specifico; risulta utile quando l’adenocarcinoma
prostatico si manifesta come tumore occulto, ovvero al IV stadio con metastasi a distanza, ad
esempio può essere utile per svelare l’origine prostatica di una metastasi ossea
Le immunocolorazioni possono essere combinate su una stessa sessione: in un campione sano sono
presenti le cellule basali, quindi si ha positività alle cheratine ad alto peso molecolare, mentre nel tessuto
tumorale si ha positività per la racemasi e negatività alle citocheratine.
Per confermare la diagnosi si può ricercare anche il PCA3, RNA non codificante, nelle urine, dal momento
che risulta iperespresso nel 95% dei cancri prostatici.

Grading dell’adenocarcinoma prostatico

Grado e stadio sono due misure prognostiche complementari; lo stadio valuta l’estensione del tumore
(TNM). Il grading misura l’aggressività biologica intrinseca della neoplasia e può basarsi su:
- Differenziazione, ovvero quanto il tumore di è allontanato dal tessuto di riferimento (grading
architetturale/istologico)
- Attività mitotica, presenza di necrosi, atipie cellulari e densità cellulare (grading citologico)
Il tipo di grading di riferimento varia da tumore a tumore, infatti, può prevalere l’uso di criteri architetturali
o di criteri citologici.
Nell’adenocarcinoma prostatico si usa il grading di Gleason, ideato nel 1966 e basato solo su criteri
architetturali; questo grading identifica 5 pattern di differenziazione ghiandolare:
1. Acini piccoli formati da masserelle ben circoscritte: ghiandole singole, separate, uniformi e
addossate tra loro
2. Acini più irregolari con iniziali aspetti infiltrativi: singole, separate e uniformi ghiandole non
addensate e con margine irregolare
3. Acini ancora più irregolari con strutture di tipo cribriforme o aspetto decisamente infiltrativo:
singole, separate e uniformi ghiandole frammentate, che possono anche essere molto piccole,
oppure possiamo avere masse cribriformi/papillari circoscritte
4. Fusione ghiandolare con acini giustapposti tra loro: ghiandole fuse e con infiltrazione irregolare, che
può anche presentare
grandi cellule chiare
(“ipernefroidi”)
5. Crescita solida o a
singole cellule: masse
tonde e quasi solide
con necrosi
(comedocarcinoma), o
masse anaplastiche
con infiltrazione
irregolare
Il sistema di grading è basato
sullo score di Gleason,
definito sommando i due
parametri dominanti
(punteggi da 2 a 10); se sono
presenti tre pattern vengono
sommati il pattern più elevato
e quello più rappresentato. Se

379
il tumore è ben campionato il grading bioptico è equivalente al grading istologico e pertanto influenza la
prognosi:
- Score di Gleason ≤ 6 → prognosi favorevole
- Score di Gleason = 7 → prognosi intermedia
- Score di Gleason ≥ 8 → prognosi sfavorevole
Studi recenti hanno dimostrato che a parità di punteggio la prognosi può cambiare in base al pattern
maggiormente rappresentato.

Per la stadiazione ci si basa sulla crescita:


- pT1: diagnosticata incidentalmente in TURP, spesso di basso grado nella zona transizionale (score 2-
4, o comunque < 6) o diagnosticata post-biopsia per elevato PSA. Sono solitamente seguiti (pT1a)
nell’anziano e con agobiopsia nei giovani. Nel T1b si ha trattamento identico alle altre forme, in
quanto altrimenti la mortalità è del 20%.
- pT2: palpabile o visibile ecograficamente, e confinata alla ghiandola (a = < 50% di un lobo; b = > 50%;
c = entrambi i lobi)
- pT3: supera la capsula prostatica con estensione extraprostatica locale, che può coinvolgere le
vescicole seminali (se le coinvolge è 3b, altrimenti 3a)
- pT4: diffusa estensione extraprostatica che coinvolge strutture adiacenti come la parete o pavimento
pelvico, la parete vescicale e il retto.

Metastasi ossee in tumori occulti

I tumori che si manifestano come neoplasie occulte con metastasi ossee, in particolare a livello vertebrale,
formano un “esagono” nell’organismo e sono: carcinoma papillare tiroideo, tumore della mammella, del
polmone, del rene e della prostata. Questi organi, infatti, drenano sangue venoso in parte anche nel
sistema vertebrale e ciò favorisce l’insediazione metastatica.
Tipicamente le metastasi da adenocarcinoma prostatico sono osteoblastiche, non osteoclastiche, pertanto
inducono un addensamento osseo, che appare come una zona radiopaca alla radiografia.
Per definire la provenienza della metastasi è necessario eseguire una biopsia, che mostra tessuto
neoplastico ghiandolare, e la colorazione immunoistochimica con PSA, che risulterà positivo (la racemasi
non è utile perché fornisce solo informazioni tumore-specifiche, non tessuto-specifiche).
L’adenocarcinoma prostatico metastatizza anche a livello linfatico, soprattutto nei linfonodi otturatori e
para-aortici.

TUMORI VARI E CONDIZIONI PSEDUO-TUMORALI

Gli adenocarcinomi prostatici possono originare anche dai dotti prostatici periferici; se originano dai dotti
periuretrali possono manifestarsi con segni e sintomi simili a quelli dei carcinomi uroteliali.
Si può avere una differenziazione squamosa, sia spontanea che post-terapia ormonale.
Nei carcinomi colloidi della prostata si ha una abbondante secrezione mucinosa.
Una variante molto aggressiva e spesso fatale è il carcinoma prostatico a piccole cellule (o
neuroendocrino).
Si possono avere anche un carcinoma uroteliale secondario, derivante da tumori uroteliali invasivi di
vescica o uretra, tumori mesenchimali e linfomi dovuti a patologia sistemica.

380
PATOLOGIA DELLA MAMMELLA

ANATOMIA E FISIOLOGIA DELLA MAMMELLA

La principale funzione della mammella è fornire supporto nutrizionale al neonato e la sua struttura subisce
importanti cambiamenti nel corso dell’età adulta, soprattutto durante la gravidanza, per poi andare
incontro ad involuzione con l’avanzare dell’età; inoltre, la mammella è un organo con un significato sociale,
culturale e personale. Tutte queste considerazioni sono importanti nel momento in cui si valutano le origini,
le manifestazioni e il trattamento delle malattie della mammella.

La mammella è un organo pari formato da una ghiandola esocrina


immersa in tessuto fibroso e in una quota variabile di tessuto adiposo.
La mammella può essere suddivisa in quattro quadranti considerando
due rette perpendicolari, una verticale e una orizzontale, che si
incontrano a livello del capezzolo:
- Quadrante supero-esterno
- Quadrante supero-interno
- Quadrante infero-esterno
- Quadrante infero-interno
Se le due rette perpendicolari sono oblique si vanno a identificare altri
quattro quadranti: quadrante superiore, quadrante equatoriale esterno,
quadrante equatoriale interno e quadrante inferiore.
L’unità anatomo-funzionale della mammella è il lobo mammario.

A livello di superficie cutanea del capezzolo si aprono i dotti galattofori, che


mediamente sono 15-20 per capezzolo, approfondendosi nel tessuto
ghiandolare i dotti galattofori si dividono in dotti segmentari e dotti sub-
segmentari, fino ad arrivare alle TDLU, Terminal Duct Lobular Unit, costituiti dagli acini, ovvero la
componente ghiandolare responsabile della produzione del secreto mammario. Il secreto mammario viene
sempre prodotto, ma risulta particolarmente abbondante durante la gravidanza.
L’unità terminale duttolo-lobulare rappresenta l’unità funzionale responsabile della produzione del secreto,
pertanto è la parte maggiormente sottoposta a stimolazione ormonale e quindi quella da cui originano la
maggior parte dei processi patologici, sia benigni che maligni; inoltre, questa parte è anche quella che va
incontro ai maggiori cambiamenti nel corso della vita della donna.

Da un punto di vista istologico la porzione superficiale del dotto, quindi l’orifizio, è rivestito da epitelio
squamoso cheratinizzato, che si continua con un epitelio bistratificato, costituito da cellule epiteliali
luminali e cellule mioepiteliali, che caratterizza il sistema dutto-lobulare. Le cellule mioepiteliali, come
evidenziato nell’immagine in basso a destra, sono localizzate esternamente e aiutano la fuoriuscita del
secreto.
La maggior parte dei processi neoplastici origina
dalle cellule luminali, ricche di recettori per
estrogeni e progesterone, mentre solo una
minoranza ha inizio dalle cellule mioepiteliali.
Le cellule mioepiteliali, inoltre, finché attive e
funzionanti, hanno un importante funzione di
contenimento dei processi neoplastici: quando
l’azione di queste cellule diviene insufficiente si ha
l’invasione stromale.

381
Molto importante è la teoria della suddivisione in lobi della
mammella, infatti, considerando il dotto galattoforo e le sue
diramazioni quasi mai si osservano interconnessioni tra un lobo
e l’altro, pertanto il lobo mammario rappresenta l’unità
anatomo-funzionale della ghiandola. Considerando che
mediamente si hanno 15-20 sbocchi dei dotto galattofori si può
concludere che vi siano 15-20 lobi; le connessioni tra i lobi
possono tuttavia essere presenti in natura.
L’individualità dei lobi mammari è importante per comprendere
lo sviluppo e la diffusione dei processi patologici che
interessano la mammella.
I lobi sono diversi tra loro, infatti, alcuni sono maggiormente
ricchi di tessuto ghiandolare rispetto ad altri, in particolare a
risultare particolarmente ricco di tessuto mammario è il
quadrante superiore-esterno e pertanto esso è quello maggiormente interessato da fenomeni patologici.
Le differenze tra i lobi sono molto importanti anche da un punto di vista neoplastico: una neoplasia che
insorge in un lobo di modeste dimensioni risulterà limitata e vale il contrario in caso sia interessato un lobo
di grandi dimensioni.
La suddivisione della mammella in lobi è alla base della Teoria del Lobo Malato del prof. Tibor Tot: secondo
tale teoria le neoplasie nascono e si sviluppano all’interno di un lobo, pertanto se si riuscisse a definire
l’estensione del lobo si potrebbe ipotizzare l’estensione della patologia stessa.

La ghiandola mammaria va incontro a diversi cambiamenti nel corso della vita della paziente, sotto stimolo
ormonale: in età prepubere il tessuto mammario è immaturo e sono presenti solo i dotti, mentre andando
verso l’età fertile iniziano a comparire gli acini, fino ad arrivare all’età post-menopausale in cui si assiste
ad una involuzione degli acini e ad un aumento del tessuto adiposo. In età post-menopausale la
mammella ritorna alla struttura anatomica pre-puberale, quindi rimangono solo i dotti, ma le dimensioni
non regrediscono dal momento che aumenta la quota di tessuto adiposo; in fase post-menopausale, con
tessuto involuto, risultano maggiormente visibili eventuali alterazioni radiologiche.
In età riproduttiva il tessuto mammario va incontro a cambiamenti periodici legati al ciclo mestruale: nella
prima fase del ciclo i lobuli sono relativamente quiescenti, mentre dopo l’ovulazione vi è un incremento della
proliferazione cellulare e del numero di acini per lobo, inoltre, il tessuto stromale intralobulare diviene
notevolmente edematoso. Durante la mestruazione poi, la caduta dei livelli di estrogeni e progesterone,
determina la riduzione delle dimensioni dei lobuli e la scomparsa dell’edema stromale.
Solo con la gravidanza la mammella raggiunge la completa maturazione morfologica e l’attività
funzionale: i lobuli aumentano progressivamente di dimensioni fino a che la mammella non risulta
composta quasi esclusivamente da lobuli, con uno stroma relativamente scarso.
Subito dopo il parto, i lobuli producono il colostro (a elevato contenuto di proteine) che si trasforma in latte
(a più elevato contenuto di grassi e calorie) entro i primi 10 giorni, non appena si riducono i livelli di
progesterone. I cambiamenti permanenti determinati dalla gravidanza possono spiegare la riduzione nel
rischio di cancro della mammella osservata nelle donne che partoriscono in giovane età. Concluso
l’allattamento, le cellule epiteliali vanno incontro ad apoptosi e i lobuli regrediscono. Tuttavia non si verifica
una completa regressione e vi è quindi un aumento permanente delle dimensioni e del numero dei lobuli.

La diagnosi delle patologie della mammella si basa sul triplo test, ovvero deve tenere conto di quadro
clinico, quadro radiografico e quadro anatomopatologico. Se questi tre quadri sono concordanti il rischio di
sbagliare la diagnosi pre-operatoria è molto basso.

382
ALTERAZIONI DELLO SVILUPPO – Robbins

Residui embrionali lungo la linea del latte

Capezzoli o mammelle sovrannumerari derivano dalla persistenza di ispessimenti dell’epidermide lungo la


linea del latte, che va dall’ascella al perineo. Le affezioni che interessano la mammella possono insorgere
anche in questi focolai eterotopici responsivi agli ormoni, che giungono comunemente all’attenzione in
questo sedi di dolorosi aumenti di volume nei periodi pre-mestruali.

Tessuto mammario accessorio ascellare

In alcune donne il normale sistema duttale si può estendere fino al tessuto sottocutaneo della parete
toracica o della fossa ascellare; in questo caso, dal momento che il tessuto mammario in queste regioni non
può essere rimosso, la mastectomia profilattica riduce, ma non elimina, il rischio di sviluppare una
neoplasia.

Inversione congenita del capezzolo

La mancata eversione del capezzolo durante lo sviluppo è comune e può essere monolaterale. I capezzoli
invertiti congeniti sono di scarsa importanza e possono risolversi spontaneamente durante la gravidanza o
con la trazione.
La retrazione acquisita del capezzolo non deve essere invece trascurata, dal momento che può indicare la
presenza di un carcinoma invasivo o di un processo infiammatorio.

CARATTERISTICHE CLINICHE DI MALATTIA DELLA MAMMELLA – Robbins

I sintomi più comunemente riportati dalle donne con patologia della mammella sono dolore, presenza di
una massa palpabile, nodularità (senza una massa discreta) e/o secrezione del capezzolo. Si tratta di
sintomi aspecifici che devono essere comunque attentamente valutati perché possono indicare la presenza
di una neoplasia.
Il dolore, definito come mastalgia o mastodinia, è un sintomo comune che può essere ciclico, in relazione al
ciclo mestruale, o meno: il dolore ciclico è solitamente diffuso e associato all’edema pre-mestruale, mentre
il dolore non ciclico è solitamente localizzato in un’area della mammella. Possibili cause del dolore sono la
rottura di cisti, i traumi fisici e le infezioni; una massa dolente è di solito benigna, ma il 10% circa dei
carcinomi mammari si presenta con dolore.
Per quanto riguarda le masse palpabili esse sono solitamente rappresentate da cisti, fibroadenomi o
carcinomi invasivi; prima dei 40 anni nella maggior parte dei casi le masse palpabili risultano benigne e solo
il 10% risulta maligno, percentuale che sale al 60% nelle donne dopo i 50 anni.
Lo screening basato sulla palpazione del seno risulta poco efficace nel ridurre la mortalità dovuta a cancro
alla mammella poiché la maggior parte dei tumori maligni rilascia cellule metastatiche prima di raggiungere
dimensioni palpabili (2 cm circa).
La fuoriuscita di secreto dal capezzolo è un sintomo meno frequente; una secrezione spontanea e
unilaterale non va sottovalutata poiché potrebbe essere legata ad un carcinoma.
La galattorrea è associata ad un aumento della prolattina, a ipotiroidismo, all’assunzione di contraccettivi
orali, antidepressivi e metildopa, mentre non è associata a neoplasie maligne.
Una secrezione emorragica o sierosa è solitamente legata a papilloma solitario dei grandi dotti e a cisti; la
secrezione emorragica può verificarsi anche durante la gravidanza in seguito alla rapida crescita e alla
trasformazione della mammella.

383
CARATTERISTICHE RADIOGRAFICHE DI MALATTIA DELLA MAMMELLA – Robbins

Lo screening mammografico è stato introdotto negli anni ’80; la sensibilità e la specificità della
mammografia aumentano con l’età poiché si ha la sostituzione del tessuto fibroso radiointenso con tessuto
adiposo radiotrasparente.
I principali segni mammografici di carcinoma della mammella sono:
- Addensamenti → le lesioni della mammella che sostituiscono il tessuto adiposo con tessuto
radiointenso formano degli addensamenti: gli addensamenti tondeggianti sono solitamente delle
masse benigne, come fibroadenomi e cisti, mentre i carcinomi si presentano come addensamenti
dai margini irregolari. La mammografia permette di individuare masse di dimensioni minori rispetto
a quelle identificabili tramite palpazione.
- Calcificazioni → le calcificazioni si formano da secrezioni, residui necrotici o stroma ialinizzato e
possono essere associate sia a lesioni benigne che a lesioni maligne. Le calcificazioni associate a
neoplasie maligne sono piccole, irregolari, numerose e raggruppate. La mammografia, grazie alla
possibilità di evidenziare le calcificazioni, ha aumentato la frequenza di diagnosi di carcinoma
duttale in situ.
Circa il 10% dei carcinomi invasivi non è rilevato alla mammografia e le principali cause di tale insuccesso
sono la presenza di tessuto stromale radiointenso circostante che nasconde il tumore, le piccole dimensioni
della massa, la localizzazione vicino alla parete toracica o alla periferia della mammella e la diffusa
infiltrazione con risposta desmoplastica minima o assente.
Altri esami strumentali utili sono l’ecografia, che permette di distinguere tra lesioni solide e cisti, e la RM,
che evidenzia le neoplasie grazie al rapido assorbimento del mezzo di contrasto che la loro aumentata
vascolarizzazione comporta.
Molti dei tumori identificati tramite lo screening sono invasivi e già in metastasi all’inizio della diagnosi,
inoltre, tumori molto aggressivi possono insorgere tra una mammografia e la successiva o in donne giovani
di età inferiore a quella indicata per lo screening, per questo motivo i benefici dello screening
mammografico sono risultati inferiori a quelli attesi in origine. D’altra parte alcuni tumori identificati
tramite mammografia risultano in realtà indolenti e clinicamente poco importanti.

RUOLO DELLA DIAGNOSI ANATOMOPATOLOGICA NELLA PATOLOGIA DELLA MAMMELLA

Il patologo interviene nella diagnosi pre-operatorio, nella diagnosi intra-operatoria e nella diagnosi post-
operatoria.

Diagnosi pre-operatoria

Nel momento in cui si rilevano dei noduli è necessario procedere con una valutazione citologica e una
biopsia per eseguire la diagnosi e fornire indicazioni sul trattamento adatto.
La valutazione citologica viene effettuata sul secreto mammario o sul prelievo con agoaspirato.
Il secreto mammario può essere fisiologico o patologico e deve insospettire soprattutto se presente nel
sesso maschile o se monolaterale, mono-orifiziale o ematico. Il secreto viene raccolto su un vetrino o si
esegue lo scraping, ovvero si tocca delicamente la punta del capezzolo e si raccoglie il secreto; si tratta
quinti di un prelievo veloce, non invasivo e poco costoso. Successivamente sul secreto viene effettuata la
valutazione citologica e si procede anche con mammografia.
Un secreto bilaterale e pluri-orifiziale indica uno sbilanciamento ormonale, come ad esempio
iperprolattinemia dovuta a prolattinomi ipofisari, mentre un secreto mono-laterale e mono-orifiziale è
indicativo si un problema locale.

L’agoaspirato consente di ottenere solo cellule, quindi non dà informazioni sull’architettura istologica, e
può essere eseguito a mano libera, se la lesione è ben palpabile, o in maniera eco-guidata.
La refertazione citologica prevede:
- C1: materiale non sufficiente per la diagnosi, occorre ripetere il prelievo

384
- C2: lesione benigna
- C3: lesione dubbia, probabilmente benigna, ma meglio procedere con asportazione chirurgica
- C4: lesione dubbia, probabilmente maligna, è necessario procedere con asportazione chirurgica
- C5: lesione maligna

Tramite la biopsia, che può essere eseguita a mano libera, sotto guida ecografica o con guida stereotassica,
si ottengono frammenti di tessuto che permettono di avere informazioni sull’architettura istologica e
pertanto si ha un’accuratezza diagnostica maggiore rispetto all’agoaspirato.
La refertazione istologica prevede:
- B1: la lesione non è stata centrata ed è necessario ripetere il prelievo
- B2: lesione benigna
- B3: lesione benigna, ma è necessaria l’asportazione chirurgica
- B4: lesione probabilmente maligna, da asportare
- B5: lesione maligna
In caso di lesioni di grandi dimensioni, facilmente
identificabili tramite palpazione, si procede con NCB,
Needle Core Biopsy, che sfrutta un ago sottile (14G),
mentre in caso di piccole lesioni non palpabili si procede
con VAB, Vacuum Assisted Biopsy, o biopsia stereotassica,
ovvero una biopsia sotto guida mammografica che sfrutta
un ago di dimensioni maggiori (8-11G); in alcuni casi si
procede con la VAB escissionale, ovvero si asportano
direttamente le piccole lesioni, senza l’intervento
chirurgico.

Diagnosi intraoperatoria

La diagnosi intraoperatoria è estemporanea (richiede 15-20 minuti) e può essere eseguita sia all’interno
della sala operatoria sia inviando il tessuto prelevato e congelato al laboratorio di anatomia patologica; la
diagnosi intra-operatoria non sostituisce quella pre-operatoria, ma permette di valutare il margine di
resezione e determinare quindi se l’intervento è stato curativo o meno: permette di correggere
l’intervento durante la medesima operazione, senza che sia necessario ri-intervenire nelle settimane
successive.

Diagnosi post-operatoria

Permette una diagnosi completa della lesione e nel caso delle neoplasie maligne permette anche di
eseguire la stadiazione; permette anche di valutare i parametri predittivi, ma ha tempi di esecuzione più
lunghi, circa 120 minuti.

385
PATOLOGIE INFIAMMATORIE

Le patologie infiammatorie della mammella sono rare, responsabili di meno dell’1% dei sintomi della
mammella, e sono causate da infezioni, malattie autoimmuni o cheratina riversata nei tessuti periduttali.
In alcuni casi il carcinoma simula una infiammazione (si parla di carcinoma infiammatorio della mammella)
dal momento che i vasi del derma vengono ostruiti da emboli tumorali: questa condizione deve essere
sempre presa in considerazione in pazienti con mammella ingrossata ed eritematosa.

STEATONECROSI

La mammella ha una importante componente di tessuto


adiposo e la steatonecrosi è proprio la necrosi del tessuto
adiposo. La steatonecrosi può essere dovuta a diversi
fattori, tra cui i traumi, intesi anche come interventi
chirurgici e manovre diagnostiche, come ad esempio
l’agobiopsia, o la rottura di cisti.
La steatonecrosi può simulare, da un punto di vista
radiografico e clinico, il carcinoma della mammella,
infatti, può determinare la formazione di un nodulo su
cui compaiono microcalcificazioni (questo accade
soprattutto in donne sottoposte a quadrantectomia per
carcinoma durante il follow-up).
La presentazione clinica della steatonecrosi è variabile e può essere molto simile a quella di una neoplasia: si
ha una massa palpabile non dolente o una retrazione della cute o un addensamento radiografico con
calcificazioni.
Le lesioni acute possono essere emorragiche e presentare una necrosi colliquativa centrale del grasso con
neutrofili e macrofagi. Dopo pochi giorni, l’area affetta viene circondata da fibroblasti proliferanti e cellule
infiammatorie croniche. In seguito compaiono cellule giganti, calcificazioni ed emosiderina, e infine il
focolaio centrale è sostituito da tessuto cicatriziale.

MASTITE e ASCESSO MAMMARIO

La mastite e l’ascesso mammario sono patologie abbastanza


frequenti che si manifestano solitamente a causa
dell’ostruzione, di eziologia variabile, di un dotto. L’ascesso
mammario si manifesta di solito durante l’allattamento, a
causa della congestione del secreto nei dotti, ma esiste
anche una forma che si presenta nelle giovani fumatrici e
simula una neoplasia, a causa delle sue dimensioni. In 1 caso
su 10 l’ostruzione è invece legata allo sviluppo di un
carcinoma.
Nel momento in cui si ha l’ostruzione di un dotto si ha la stasi del secreto al suo interno con conseguente
slargamento del dotto stesso e rottura della parete del dotto, condizione che determina un importante
processo infiammatorio. Inoltre, essendo i dotti in comunicazione con l’esterno ed essendo il secreto ricco di
zuccheri e grassi, è possibile che si sviluppi una infezione batterica.
Durante l’allattamento la mammella è vulnerabile alle infezioni batteriche a causa dello sviluppo di ragadi o
fissurazioni del capezzolo, tanto che la quasi totalità dei casi di mastite batterica acuta si sviluppano
durante il primo mesi di allattamento. I principali batteri coinvolti sono lo stafilococco aureo e gli
streptococchi, in quest’ultimo caso l’infezione si può diffondere sotto forma di cellulite.
In caso di mastite la mammella è dolente ed eritematosa e spesso è presente febbre; dal momento che la
mastite può simulare o celare un carcinoma è indicata l’ecografia con agoaspirato in modo da effettuare
una valutazione citologica.

386
La mastite viene trattata con anti-infiammatori (se si ha una rapida risposta agli anti-infiammatori non è
necessario l’agoaspirato); i casi di mastite associati alla lattazione possono essere facilmente trattati con
antibioticoterapia e continuo drenaggio del latte dalla mammella.

METAPLASIA SQUAMOSA DEI DOTTI GALATTOFORI – Robbins

Questa condizione, nota anche come ascesso subareolare ricorrente, mastite periduttale o malattia di
Zuska, è caratterizzata da una massa subareolare dolente ed eritematosa che spesso viene clinicamente
classificata come un processo infettivo. Nei casi ricorrenti si può formare un tragitto fistoloso tra le cellule
muscolari lisce del muscolo erettore del capezzolo; molte donne colpite da tali condizioni sono affette da
una inversione del capezzolo, dovuta ad una infiammazione sottostante.
Questa condizione può interessare anche gli uomini e oltre il 90% delle persone colpite è rappresentato da
fumatori: è stato ipotizzato che il deficit di vitamina A associato al fumo o le sostanze tossiche presenti nel
fumo possano interferire con la differenziazione dell’epitelio duttale.
La principale caratteristica di questa patologia è la metaplasia squamosa cheratinizzante dei dotti
galattofori: la cheratina proveniente da queste cellule occlude il dotto con conseguente accumulo di
secreto, rottura del dotto stesso e risposta infiammatoria cronica e granulomatosa. Nelle recidive può
sovrapporsi una infezione batterica.
Da un punto di vista terapeutico si può intervenire drenando l’ascesso che ne consegue, ma l’epitelio che
provoca il danno permane e predispone a recidive, pertanto nella maggior parte dei casi si procede con
rimozione chirurgica completa del dotto interessato e del tramite fistoloso; se presenta una sovra-
infezione si procede con terapia antibiotica.

ECTASIA DUTTALE – Robbins

Si presenta come una massa palpabile periareolare, che può essere accompagnata da secrezione
biancastra dal capezzolo e retrazione della cute. Colpisce soprattutto le donne multipare tra la quinta e la
sesta decade di vita; dolore ed eritema sono rari.
Si ha una dilatazione dei dotti con secrezione viscosa ricca di macrofagi carici di lipidi: in seguito alla
rottura del dotto si sviluppa una reazione infiammatoria cronica che esita in fibrosi, dando vita ad una
massa irregolare che determina la retrazione cutanea del capezzolo. Tale massa, sia clinicamente che
radiologicamente, può essere scambiata per un carcinoma.

MASTOPATIA LINFOCITICA – Robbins

Questa condizione, detta anche lobulite linfocitica sclerosante, si presenta con noduli duri palpabili, singoli
o multipli, o addensamenti mammografici. È una condizione comune nelle donne con diabete mellito di
tipo 1 o tiroidite autoimmune, pertanto si sospetta una eziologia autoimmune, ed è caratterizzata da dotti
e lobuli con membrane basali ispessite circondati da un cospicuo infiltrato infiammatorio. È clinicamente
rilevante perché deve essere distinta dal carcinoma della mammella.

MASTITE GRANULOMATOSA - Robbins

La flogosi granulomatosa della mammella può essere una manifestazione di malattie granulomatose
sistemiche, come la sarcoidosi e la tubercolosi, o di malattie localizzate della mammella, più rare, come la
mastite granulomatosa lobulare.
La mastite granulomatosa lobulare si presenta solo nelle donne che hanno avuto figli ed probabilmente
causata da una reazione di ipersensibilità agli antigeni espressi durante l’allattamento.
Un quadro simile si osserva nelle mastiti causate da micobatteri o miceti, che sono però rare e tipiche di
pazienti immunocompromessi o di coloro che presentano un corpo estraneo, come protesi o piercing.
Il trattamento con steroidi può essere efficace.

387
PATOLOGIA MAMMARIA BENIGNA

Le lesioni epiteliali benigne vengono classificate in tre gruppi, in base al rischi di evoluzione verso un
carcinoma:
- Lesioni non proliferative della mammella, dette anche lesioni fibrocistiche
- Malattia proliferativa della mammella senza atipia
- Iperplasia atipica
La maggior parte di queste lesioni vengono identificate tramite mammografia o incidentalmente tramite
biopsia. Le lesioni non proliferative non aumentano il rischio di sviluppare un carcinoma, mentre la malattia
proliferativa senza atipia lo aumenta di 1,5-2 volte e l’iperplasia atipica di 4-5 volte.
Si tratta quindi di lesioni proliferative o non proliferative e ne esistono tantissime variazioni, dal momento
che sono regolate dalla secrezione ormonale, che nel corso delle vita di una donna varia di continuo; si
verificano quindi variazioni fisiologiche che possono portare ad evoluzione patologica o riduzione
spontanea della lesione, che solitamente non è associata a trasformazione carcinomatosa.

LESIONI NON PROLIFERATIVE DELLA MAMMELLA

Cisti

Piccole cisti si formano da dilatazione degli acini e possono a loro volta confluire in cisti di dimensioni
maggiori, che in alcuni caso possono risultare piuttosto numerose (si parla di mammella a palline da calcio).
Le cisti sono lesioni estremamente frequenti, infatti colpiscono l’80% delle donne, e sono riconoscibili
all’ecografia e alla mammografia. Le dimensioni sono variabili, fino a 2-3 cm.
Le cisti sono delimitate da epitelio apocrino variabile da piatto a cubico o cilindrico e, quando non ancora
aperte, contengono un fluido torbido di colore marrone o bluastro. Sono comuni le micro-calcificazioni,
dovute alla precipitazione dei Sali di calcio contenuti nel secreto, dette anche calcificazioni laminari o
psammomatose. Le cisti risultano preoccupanti solo quando sono solitarie e fisse alla palpazione; la diagnosi
è confermata dalla scomparsa della cisti dopo ago-aspirazione del contenuto. In presenza di una lesione
cistica di grandi dimensioni e fastidiosa è necessario eseguire una ecografia e un agoaspirato.

Fibrosi

Le cisti apocrine spesso vanno incontro a rottura, liberando il materiale secretorio nello stroma adiacente e
determinando una risposta infiammatoria macrofagica che esita in fibrosi e nodularità della mammella alla
palpazione. Le microcalcificazioni stromali non vengono fagocitate.

Adenosi

L’adenosi è definita come l’aumento del numero di acini per lobulo (fino a 100-200), condizione che si
verifica fisiologicamente durante la gravidanza, ma può verificarsi come modificazione locale nelle donne
non gravide. Possono essere presenti calcificazioni dentro il lume. Si possono avere acini piccoli e visibili in
corso di mammografia, mentre in altri casi possono essere grandi e palpabili, detti adenosis tumor.
Gli acini possono essere rivesti da cellule cilindriche morfologicamente normali o da cellule con
caratteristiche atipiche, in quest’ultimo caso si parla di atipia epiteliale piatta: si tratta di una
388
proliferazione clonale associata a delezioni sul cromosa 16q e rappresenta il primo precursore
morfologicamente riconoscibile di tumori alla mammella di basso grado, tuttavia, non determina un
aumentato rischio di cancro perché altri passaggi limitano la progressione verso lo sviluppo tumorale.
Durante la gravidanza e l’allattamento vi possono essere degli adenomi da lattazione che non sono vere e
proprie neoplasie, ma rappresentano un’esagerata risposta focale agli ormoni gestazionali.
La forma più frequente di adenosi è quella sclerosante, che fa parte delle malattie proliferative.

MALATTIA PROLIFERATIVA DELLA MAMMELLA SENZA ATIPIA

Queste lesioni sono caratterizzate da proliferazione delle cellule epiteliali senza atipia morfologica e sono
associata ad un modesto incremento del rischio di carcinoma.

Epiteliosi o iperplasia duttale di tipo usuale

È una lesione benigna particolarmente frequente ed è


caratterizzata dalla proliferazione di cellule epiteliali e
mioepiteliali all’interno dei dotti e dalla formazione di strutture
polipoidi dotate di ampie fenestrature periferiche entro le quali si
osserva tale proliferazione. L’epiteliosi non ha un rischio reale di
trasformazione maligna, ma viene spesso isolata in biopsie
effettuate per altre patologie maligne. L’epitelioso ostacola il
deflusso del secreto e predispone alla formazione di cisti, ma
cnahe di lesioni sclerosanti complesse. Istologicamente le lesioni
ricordano un sorriso (metodo per ricordarsi che sono benigne).

Adenosi sclerosante

Si ha un incremento del numero di acini che risultano compressi e deformati al centro della lesione; il
secreto non riesce a scorrere, ristagna e va incontro a micro-calcificazioni. Talvolta si ha una fibrosi
stromale tale da comprimere i lumi e determinare la comparsa di cordoni solidi o doppie file di cellule
(quadro istologico che mima l’aspetto di un carcinoma invasivo).

Lesione sclerosante complessa – Robbins

Queste lesioni hanno componenti di adenosi sclerosante, papillomi e iperplasia epiteliale. La lesione radiale
sclerosante è costituita da un agglomerato centrale di ghiandole in uno stroma ialinizzato circondato da
lunghe proiezioni radiali nello stroma circostante e può assomigliare molto ad un carcinoma invasivo, sia da
un punto di vista mammografico che istologico.

MALATTIA PROLIFERATIVA DELLA MAMMELLA CON ATIPIA – Robbins

L’iperplasia atipica è una proliferazione clonale che ha le caratteristiche di carcinoma in situ ben
differenziato, ma è di estensione minima (non più di due acini e massimo 2 mm). È associata ad moderato
incremento del rischio di carcinoma ed è suddivisibile in due forme:
- Iperplasia duttale atipica → istologicamente somiglia al carcinoma duttale in situ, ma si distingue
perché occupa solo parzialmente gli acini o i dotti coinvolti.
- Iperplasia lobulare atipica → le cellule proliferanti sono identiche a quelle del carcinoma lobulare
in situ, ma riempiono o distendono meno del 50% degli acini del lobulo.
Queste patologie possono presentare le aberrazioni cromosomiche acquisite che si osservano anche nel
carcinoma in situ, ovvero la perdita del cromosoma 16q o l’acquisizione del 17p; inoltre, nell’iperplasia
lobulare atipica si ha il deficit di espressione dell’E-caderina.

389
TUMORI STROMALI o FIBRO-EPITELIALI

A livello mammario si hanno due tipi di stroma, lo stroma intra-lobulare e lo stroma inter-lobulare, che
danno origine a due tipi distinti di neoplasie.
Il fibroadenoma e il tumore filloide, tumori specifici della mammella, originano dallo stroma intralobulare,
che risulta specializzato e può elaborare i fattori di crescita per le cellule epiteliali determinando la
proliferazione non neoplastica della componente epiteliale di queste neoplasie.
Lo stroma inter-lobulare dà invece vita tipologie di tumori che possono essere presenti anche in altre sedi
corporee, come lipomi o angiosarcomi.

FIBROADENOMA

Il fibroadenoma è il più comune tumore benigno della mammella femminile


e solitamente si presenta singolo, anche se nel 20% dei casi può essere
multiplo. Si ha un picco di incidenza tra i 20 e i 30 anni, sebbene possa
presentarsi a qualsiasi età. Nello 0,5% dei casi si ha trasformazione maligna.
Il fibroadenoma si presenta come un nodulo a margini netti, con forma
bozzoluta, mobile sui piani circostanti e senza pseudo-capsula (ma viene
comunque facilmente escisso grazie ai margini netti). Solitamente l’asse
maggiore della massa ha una lunghezza di 2-3 cm, ma dal momento che
risente della stimolazione ormonale nelle adolescenti può raggiungere i 10 cm e in tal caso di parla di
fibroadenoma gigante. Solitamente il nodulo viene identificato all’autopalpazione, non allo screening, che
viene proposto dopo i 40 anni; successivamente si esegue una ecografia e un agoaspirato o un’agobiopsia
(la presentazione clinica è analoga a quella del carcinoma, quindi non ci si può accontentare dell’ecografia).
L’aspetto citologico del fibroadenoma è caratterizzato da una elevata cellularità, dalla presenza di cellule
epiteliali e dalla presenza di sparsi fibroblasti stromali.
Da un punto di vista istologico si ha la presenza di stroma fibroso che ingloba strutture ghiandolari prive di
atipie.
La componente epiteliale del fibroadenoma è responsiva agli ormoni pertanto si verifica un aumento delle
dimensioni dovuto ai cambiamenti lattazionali duranti la gravidanza; tale aumento può essere complicato
da infarto o infiammazione e può far pensare ad un carcinoma. In altri casi i fibroadenomi rimangono
silenti per tutta l’età fertile della donna, nascosti nella porzione profonda della ghiandola, e possono andare
incontro a degenerazione sclerocalcifica e involuzione dopo la menopausa, lasciando calcificazioni visibili
alla mammografia che vanno in diagnosi differenziale con lesioni maligne.
Il fibroadenoma viene generalmente rimosso, soprattutto se fastidioso, tranne che in gravidanza, per
evitare l’anestesia totale, e nelle donne anziane.

390
TUMORE FILLOIDE

I tumori filloidi originano sempre dallo stroma intra-lobulare, ma sono meno comuni dei fibroadenomi e
presentano la possibilità di progressione maligna; possono insorgere a qualsiasi età, ma presentano un
picco di incidenza tra i 45 e i 55 anni.
I tumori filloidi sono associati a modificazioni cromosomiche clonali acquisite, fra cui la più frequente è
l’acquisizione del cromosoma 1q; il sommarsi di aberrazioni cromosomiche comporta un grado tumorale più
elevato e un comportamento clinico più aggressivo.
Esistono tre forme di tumore filloide: benigna, borderline e maligna. Le forme benigne sono le più comuni,
ma senza un adeguato trattamento evolvono verso le forme borderline e maligne. I tumori filloidi possono
portare a recidive locali e metastasi, con una probabilità direttamente proporzionale al grado di malignità,
pertanto devono essere sempre asportati, anche le forme benigne, a differenza del fibroadenoma.

Il tumore filloide si presenta come un nodulo a margini netti e polilobati e


ha dimensioni variabili; generalmente ha dimensioni maggiori rispetto al
fibroadenoma (mediamente 3-4 cm di asse maggiore) e cresce rapidamente.
Si differenzia dal fibroadenoma per la presenza di strutture che prendono il
nome di foglie (indicata nell’immagine a lato): le lesioni più grandi hanno
aspetti macroscopici di protrusioni polipoidi dovute alla presenza di stroma
proliferante ricoperto di epitelio che si aggetta negli spazi cistici; l’epitelio
può risultare iperplastico, ma l’aspetto istologico più preoccupante è la
presenza di stroma ipercellulato.
Le lesioni ad alto grado di malignità possono essere difficilmente
distinguibili dai sarcomi e possono presentare focolai di
differenziazione mesenchimale.
Dopo la diagnosi certa il fibroadenoma è classificato come B2,
mentre il tumore filloide come B3, poiché deve essere
necessariamente asportato.
Per distinguere forme borderline o forme maligne di tumore
filloide ci si basa su quattro parametri:
- Margini infiltranti
- Elevata cellularità
- Atipie delle cellule stromali
- Numero di mitosi atipiche

Il problema risiede nel fatto che si ha una grande variabilità punto a punto, infatti, è possibile avere aree
benigne, aree bordeline e aree maligne all’interno del medesimo tumore. Ad esempio, nell’immagine in
basso la porzione di tessuto in basso, più rosea, è rappresentata da tessuto connettivale fibroso poco
cellulato, la porzione subito sopra ha una colorazione più intensa e quindi è maggiormente cellulata,
mentre in alto è presente un’area di trasformazione maligna dello stroma, un liposarcoma (frequente nei
tumori filloidi).
La forma benigna può recidivare; la forma borderline può recidive e spesso si trasforma nella forma
maligna. La forma maglia recidiva frequentemente e si comporta come un sarcoma, con trasformazione
maligna delle cellule stromali e possibili metastasi a linfonodi, polmoni, ecc.

391
La diagnosi differenziale tra fibroadenoma e tumore filloide non è semplice e si basa su:
- Età dei pazienti
- Crescita, che risulta rapida nel fibroadenoma e molto rapida nel tumore filloide
- Dimensioni, tipicamente di 2-3 cm nel fibroadenoma e tipicamente > 3 cm nel filloide
- Istologia: Il tumore filloide si distingue dal fibroadenoma per la presenza di:
o Maggiore cellularità
o Indice mitotico più elevato
o Pleomorfismo nucleare delle cellule stromali
o Eccessiva crescita della quota stromale
o Bordi infiltranti
- Recidive: rare nel fibroadenoma, frequenti nel filloide
- Trasformazione malinga: rara nel fibroadenoma, più probabile nel filloide

LESIONI DELLO STROMA INTER-LOBULARE – Robbins

I tumori dello stroma inter-lobulare sono costituiti esclusivamente da cellule stromali, possono essere sia
benigni che maligni, ma sono piuttosto rari.
Il miofibroblastoma è costituito da miofibroblasti ed è l’unico con identica incidenza tra i due sessi.
I lipomi sono lesioni contenti grasso abbastanza frequenti, rilevanti solo perché vanno distinte da quelle
maligne.
La fibromatosi consiste nella proliferazione clonale di fibroblasti e miofibroblasti e si presenta come una
massa irregolare infiltrante che può interessare cute e muscoli; pur risultando localmente aggressiva,
questa lesione non metastatizza. La fibromatosi può essere associata a traumi, interventi chirurgici, poliposi
adenomatosa familiare, fibromatosi infiltrativa familiare e sindrome di Gardner.
I tumori stromali maligni includono l’angiosarcoma, il rabdomiosarcoma, il liposarcoma, il leiomiosarcoma,
il condrosarcoma e l’osteosarcoma, ma l’unico che si verifica con una qualche frequenza nella mammella è
l’angiosarcoma (meno dello 0,05% dei tumori maligni della mammella).
L’angiosarcoma si può presentare come lesione sporadica o insorgere in seguito a complicanza della
terapia. La forma sporadica è tipica delle giovani donne, è di alto grado e ha una prognosi infausta, mentre
la forma secondaria a trattamento è associata a radioterapia o stasi linfatica post-chirurgica.

392
LESIONI PAPILLARI INTRADUTTALI

PAPILLOMA BENIGNO o INTRADUTTALE

I papillomi crescono all’interno dei dotti dilatati e sono composti da assi fibrovascolari con ramificazioni
multiple rivestiti da epitelio bistratificato con cellule epiteliali e mioepiteliali regolari.
I papillomi dei grandi dotti sono solitamente solitari e siti nei seni galattofori del capezzolo, mentre i
papillomi dei piccoli dotti sono frequentemente multipli e siti più in profondità nel sistema duttale.
L’epitelio del papilloma può andare incontro a trasformazione neoplastica e portare alla formazione di un
carcinoma in situ a basso grado di malignità, che può essere anche focale e quindi non interessare il
papilloma nella sua interezza (area indicata dalla freccia nell’immagine in basso). Dal momento che i
papillomi intraduttali possono portare a trasformazione neoplastica la maggior parte di essi viene asportata
chirurgicamente.

Forma centrale
La forma centrale del papilloma intraduttale, spesso retro-alveolare, occlude un dotto centrale galattoforo
e determina la formazione di una cisti a monte. Il primo segno clinico è tipicamente rappresentato dalla
secrezione ematica del capezzolo, pertanto vengono spesso riscontrate fuori dalle mammografia di
screening. La diagnosi avviene tramite esame citologico del secreto, che evidenzia emazie e piccole papille
dell’epitelio, e tramite ecografia/mammografia (anche se in alcuni casi il papilloma centrale non è ben
visibile alla radiografia).

Forma periferica
Si tratta di lesioni microscopiche, in genere multiple, che si sviluppano dai dotti secondari; queste lesioni
non tendono ad ingrandirsi. Determinano la formazione di cisti di piccole dimensioni e solitamente
vengono riscontrati accidentalmente, dal momento che non determinano secrezioni del capezzolo.

CARCINOMA PAPILLARE

Questa neoplasia colpisce tipicamente le donne di età


avanzata, intorno ai 70 anni, e si localizza solitamente
nei dotti galattofori determinando una ostruzione con
dilatazione a monte e secrezione ematica.
Si hanno delle papille, ovvero delle fronde di tessuto
fibrovascolare rivestite da cellule tumorali; le atipie
citologiche sono modeste ma vi possono essere foci
invasivi. In genere è HER2-negativo, possiede recettori
per estrogeni e progesterone e ha un Ki-67 basso.
Mentre nel papilloma alcune cellule possono andare incontro a trasformazione neoplastica, nel carcinoma
papillare tutte le cellule che rivestono il tessuto fibrovascolare risultano neoplastiche. Spesso si tratta di
neoplasie a basso grado di malignità, ma è sempre importante valutare l’eventuale infiltrazione della
parete del dotto. La diagnosi si basa su radiologia e ago-biopsia e il trattamento richiede una resezione
estesa, con analisi del linfonodo sentinella.

393
CARCINOMI DELLA MAMMELLA

Il carcinoma della mammella è la più comune neoplasia non cutanea nelle donne ed è seconda solo al
cancro al polmone come causa di morte. Una donne che vive fino a 90 anni ha 1 possibilità su 8 di
sviluppare un carcinoma della mammella; il picco di incidenza si osserva verso i 50-60 anni, ma può colpire
tutte e le età e può manifestarsi anche nella mammella maschile.
Il rischi di morte si è progressivamente ridotto, grazie allo screening mammografico e alle terapie più
efficaci, e si è assestato intorno al 20%. Attualmente la sopravvivenza a 5 anni, in Italia, è dell’87%.
L’incidenza del carcinoma della mammella è maggiore nei paesi industrializzati come l’Europa e l’America
settentrionale, ma sta aumentando anche nei paesi in via di sviluppo, probabilmente a causa dell’adozione
di uno stile di vita occidentale, che comporta meno gravidanze, gravidanze più tardive e minore
allattamento.
In Italia ogni anno si attuano circa 48000 nuove diagnosi nel sesso femminile e circa 300 nel sesso maschile.

Fattori di rischio – dispensa

Oltre al sesso femminile, i fattori di rischio identificati sono:


- Fattori genetici familiari legati ad alterazioni della linea germinale in geni oncosoppressori
- Parenti di primo grado affetti
- Etnia: in America l’incidenza del tumore alla mammella è maggiore nelle donne caucasiche, inoltre,
si ha una elevata prevalenza delle mutazioni dei geni BRCA negli ebrei askenaziti
- Età
- Menarca precoce: le donne che presentano il menarca prima degli 11 anni hanno un aumento del
rischio del 20% rispetto alle donne che raggiungono il menarca dopo i 14 anni
- Menopausa tardiva
- Malattia benigna della mammella rilevata in una precedente biopsia
- Esposizione agli estrogeni: la terapia ormonale sostitutiva post-menopausale aumenta il rischio di
carcinoma della mammella, mentre la riduzione degli estrogeni endogeni mediante ovariectomia
riduce il rischio del 75%; anche i farmaci che bloccano la formazione degli estrogeni o i loro effetti
diminuiscono il rischio di carcinoma alla mammella ER-positivo
- Densità della mammella: le donne con un’elevata densità mammografica hanno un rischio 4-6
volte superiore di sviluppare carcinoma della mammella, sia ER-positivo che ER-negativo.
- Esposizione a radiazioni
- Carcinoma della mammella controlaterale o dell’endometrio
- Dieta: il consumo moderato o forte di alcool aumenta il rischio
- Obesità: nelle donne obese con meno di 40 anni si ha una riduzione del rischio legata ai cicli
anovulatori e a livelli di progesterone più bassi, mentre nelle donne obese in menopausa si ha un
aumento del rischio associato alla sintesi di estrogeni dei depositi di tessuto adiposo
- Fattori ambientali, come l’inquinamento

Tra i fattori protettivi ritroviamo invece:


- Attività fisica
- Allattamento al seno: quanto più le donne allattano al seno tanto minore è il rischio

Eziologia e patogenesi – Robbins

Come altri tipi di tumori, i tumori della mammella sono proliferazioni clonali che insorgono da cellule con
multiple aberrazioni genetiche, la cui acquisizione è influenzata dall’esposizione ormonale e da geni di
suscettibilità ereditati. I carcinomi della mammella possono essere ereditari e insorgere in donne portatrici
di mutazioni di geni oncosoppressori o essere sporadici, ma in ogni caso giovano un ruolo importante anche
fattori ambientali.

394
Carcinoma della mammella familiare – Robbins

Circa il 12% dei carcinomi della mammella è dovuto all’eredità di almeno un gene di suscettibilità
identificabile; la probabilità di un’eziologia ereditaria aumenta se ci sono parenti di primo grado affetti, se il
tumore insorge precocente, se si hanno neoplasie multiple.
I principali geni di suscettibilità noti per i tumori familiari della mammella, ovvero BRCA1, BRCA2, TP53,
CHEK2, PTEN, ATM, STK11, sono tutti geni oncosoppressori implicati nella riparazione del DNA e nel
mantenimento dell’integrità del genoma; quando è danneggiato uno di questi geni la probabilità che una
cellula con un danno al genoma sopravviva aumenta e pertanto si accumulano mutazioni. Tuttavia, non è
chiaro perché la mutazione di questi geni, soprattutto dei BRCA, sia particolarmente associata al tumore
della mammella, dal momento che essi sono ubiquitari; una possibile spiegazione vede le cellule della
mammella e dell’ovaio particolarmente predisposte ai tipi di danno la cui riparazione richiede BRCA1 e 2.
Le mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 sono responsabili dell’80-90% dei carcinomi familiari attribuibili a
mutazioni singole e del 3% di tutti i carcinomi della mammella. La penetranza, ossia la percentuale dei
portatori che sviluppa la patologia, varia dal 30 al 90% in base alla mutazione presente. Le mutazioni di
BRCA1 aumentano anche il rischio di sviluppare un carcinoma dell’ovaio, che si manifesta nel 20-40% dei
portatori, mentre le mutazioni di BRCA2 predispongono meno allo sviluppo di carcinoma dell’ovaio, ma
sono associate al carcinoma della mammella maschile. I portatori di mutazioni a carico di BRCA1-2 sono
anche maggiormente a rischio di sviluppare altri carcinomi, come quelli del pancreas e della prostata.
I geni BRCA1, sito sul cromosoma 17, e BRCA2, nel cromosoma 13, sono geni lunghi e sono state
identificate centinai di mutazioni associate al carcinoma alla mammella e i polimorfismi silenti sono comuni,
per questo motivo lo screening genetico è limitato solo a pazienti con una storia familiare positiva o che
appartengono a gruppi etnici particolarmente a rischio.
L’identificazione dei portatori a rischio è importante per inserirli in follow-up periodici o indirizzarli verso la
mastectomia e ovariectomia profilattiche.

395
Carcinoma della mammella sporadico – Robbins

I principali fattori di rischio per il carcinoma della mammella sporadico sono legati all’esposizione ormonale,
infatti, gli estrogeni stimolano la crescita della mammella durante la pubertà, il ciclo mestruale e la
gravidanza e pertanto aumentano il numero di cellule che potenzialmente possono andare incontro a
trasformazione neoplastica. La proliferazione dell’epitelio mammario durante il ciclo mestruale favorisce
anche l’accumulo di danni al DNA, e la sospensione temporanea della divisione cellulare che si verifica nella
seconda parte del ciclo mestruale può concedere tempo per la riparazione del DNA danneggiato e per
permettere alle mutazioni di venire “fissate” nel genoma. Inoltre, una volta comparse cellule pre-cancerose
o neoplastiche gli ormoni possono favorirne la crescita e favoriscono anche la crescita delle cellule stromali
normali, che sostengono e favoriscono lo sviluppo tumorale.

Meccanismi molecolari di cancerogenesi e progressione tumorale – Robbins

È stato ipotizzato che le cellule staminali residenti nel tessuto mammario siano le cellule di origine di tutti i
tumori della mammella; una volta iniziato il processo pare vi siano tre principali vie genetiche di
cancerogenesi:
- Tumori ER-positivi, HER-negativi ( 50-65% dei casi)
Questo sottotipo è il più comune negli individui con mutazione di BRCA2 ed è spesso associato
all’acquisizione del cromosoma 1q, alla perdita del cromosoma 16q e a mutazioni attivanti di
PIK3CA, ovvero del gene che codifica per la fosfoinositolo-3-fosfato chinasi, componente
importante della via di trasduzione del segnale a valle dei recettori dei fattori di crescita. Queste
modificazioni si trovano spesso anche nella atipia epiteliale piatta e nell’iperplasia duttale atipica,
che si ipotizza siano delle lesioni precursore di questo sottotipo tumorale. I tumori ER-positivi sono
definiti luminali poiché ricordano le normali cellule luminali mammarie per il loro profilo di
espressione degli mRNA.
- Tumori HER2-positivi
Insorgono per una via strettamente associata all’amplificazione del gene HER2 presente sul
cromosoma 17q, rappresentano il 20% circa di tutti i tumori mammari e possono essere sia ER-
positivi che ER-negativi. Questo sottotipo tumorale è frequente in caso di mutazione di TP53
(sindrome di Li-Fraumeni) ed è stato ipotizzato che l’adenosi apocrina atipica sia la lesione
precursore.
- Tumori ER-negativi, HER2-negativi
Questi tumori rappresentano il 15% circa di tutti i tumori mammari e sono particolarmente
frequenti in caso di mutazione di BRCA1 della linea germinale, mentre in caso di tumore sporadico
di questo tipo si ha solitamente la mutazione di TP53. Alcuni di questi tumori hanno un profilo di
espressione di mRNA di tipo “simil-basale”, che include geni normalmente espressi in cellule
mioepiteliali. Questa è la via di cancerogenesi meno conosciuta e non sono state descritte lesioni
precursori.
Le più comuni mutazioni guida interessano i protooncogeni PIK3CA, HER2, MYC e CCND1 (che codifica per
la ciclina D1) e i geni oncosoppressori TP53 e BRCA1 e BRCA2, successivamente l’eterogeneità subclonale
che si crea casualmente in seguito all’instabilità genomica contribuisce sia alla progressione tumorale sia
alla resistenza alla terapia. Infatti, la profonda eterogeneità genetica dei tumori mammari è una delle
principali difficoltà nello sviluppo di una terapia efficace, in quanto aumenta la probabilità che emergano
sottocloni più aggressivi, resistenti al trattamento. Le cellule epiteliali neoplastiche non si sviluppano in
isolamento ma dipendono dall’interazione con le cellule stromali nel microambiente locale: i tumori si
verificano in aree di massima densità mammografica, suggerendo che la maggiore quantità di stroma
fibroso sia un fattore biologicamente importante per la cancerogenesi. Lo stadio finale della
cancerogenesi, la transizione da carcinoma in situ e carcinoma invasivo, è quello più importante e anche
quello meno conosciuto. È possibile che gli stessi eventi molecolari che permettono la normale formazione
di nuovi punti di ramificazione duttale e di acini durante la gravidanza (perdita della membrana basale,

396
aumento della proliferazione, perdita di inibizione della crescita, angiogenesi, invasione stromale) siano
utilizzati durante l’invasione.

Presentazione generale del carcinoma della mammella

Il carcinoma della mammella può presentarsi attraverso:


- Nodulo palpabile
- Secrezione del capezzolo
- Screening mammografico
Il riscontro tramite nodulo avviene generalmente quando il tumore ha raggiunto dimensioni importanti,
solitamente in donne che non si sottopongono allo screening sebbene appartengano alla fascia d’età in cui
esso è consigliato, in giovani donne nelle quali lo screening non è eseguito, in gravidanza o nei maschi.
Lo sviluppo e la crescita del nodulo può verificarsi anche nel contesto del cancro-intervallo: trattandosi di un
tumore che cresce rapidamente può svilupparsi nell’arco di tempo che intercorre tra una mammografia e la
successiva, lasso di tempo che corrisponde di norma a due anni.
Di solito il nodulo si localizza nel quadrante supero-esterno in virtù della maggiore densità ghiandolare.
La secrezione del capezzolo è solitamente mono-laterale, mono-orifiziale ed ematica; in caso di secrezione
del capezzolo la neoplasia è localizzata nei dotti galattofori oppure è una neoplasia molto estesa che
interessa anche i dotti, pur non originando da essi.
Lo screening mammografico è rivolto a donne asintomatiche:
- Tra i 40 e i 45 anni la mammografia è gratuita, ma è su base volontaria e non viene inviato il
richiamo
- Tra i 45 e i 50 anni si esegue una mammografia all’anno
- Tra i 50 e i 74 anni il richiamo è una volta ogni due anni
Questo è il programma di screening vigente in Emilia-Romagna, ma varia in base alle regioni.
La mammografia consente di apprezzare anomalie radiografiche molto piccole, inferiori al mm, come
microcalcificazioni, distorsioni architetturali o addensamenti, che spesso rappresentano i primi segni di
carcinoma. Nelle donne che si sottopongono allo screening vengono identificati soprattutto carcinomi in
situ e carcinomi di piccole dimensioni, soprattutto allo stadio T1, mentre nelle donne che non si
sottopongono allo screening la diagnosi avviene spesso quando la neoplasia è di dimensioni cospicue.
I tumori di piccole dimensioni sono di più facile gestione e non richiedono la mastectomia radicale: si può
intervenire con resezioni parziali che garantiscono un risultato oncologico corretto e un esito estetico
gradevole. La possibilità di identificare neoplasie di piccole dimensioni tramite mammografia garantisce una
mortalità inferiore alle donne sottoposte a screening.

Tipi di carcinoma della mammella

Esistono diverse forme istologiche di carcinoma della mammella, associate a prognosi differenti.
Oltre il 95% dei tumori maligni della mammella è rappresentato da adenocarcinomi che originano dal
sistema duttolo-lobulare e possono invadere lo stroma aprendosi un varco nella membrana basale: il
carcinoma in situ consiste in una proliferazione neoplastica di cellule epiteliali confinata nei dotti e negli
acini della membrana basale, mentre il carcinoma invasivo supera la membrana basale e penetra nello
stroma, da dove le cellule possono poi invadere i vasi e raggiungere i linfonodi regionali.
Le due tipologie di tumore più frequenti sono:
- Carcinoma duttale non altrimenti specificato (NAS)
- Carcinoma lobulare
Originano entrambi dalla unità terminale duttolo-lobulare, TDLU, ovvero dalla parte terminale costituita
dall’acino e dal duttulo, che rappresenta la parte che risente maggiormente della stimolazione estrogenica;
le due tipologie differiscono però per morfologia, alterazioni molecolari e comportamento biologico.
Il carcinoma in situ è stato originariamente classificato come duttale o lobulare sulla base della somiglianza
delle aree interessate con i dotti o i lobuli normali. Ormai è stato dimostrato tuttavia che questi schemi di
crescita non dipendono dalla cellula originale ma riflettono piuttosto differenze nella genetica e nella

397
biologia delle cellule tumorali. Convenzionalmente il termine lobulare si riferisce a carcinomi invasivi che
sono biologicamente correlati con il carcinoma lobulare in situ, mentre duttale è usato più genericamente
per indicare adenocarcinomi che non possano essere classificati come uno specifico tipo istologico.

CARCINOMA DUTTALE IN SITU – CDIS

Il carcinoma in situ è definito come un carcinoma confinato all’interno dei dotti e delle strutture ghiandolari
della mammella. Secondo la definizione WHO del 2019, il carcinoma duttale in situ è una proliferazione
non-invasiva di cellule neoplastiche epiteliali, confinate nel sistema duttale e lobulare, con ampia varietà
di pattern architetturali e di atipie cito-nucleari.
Il carcinoma in situ è spesso definito come un carcinoma che non supera la membrana basale, ma tale
definizione è errata dal momento che le cellule neoplastiche sono in grado di produrre la propria membrana
basale. Per la definizione di carcinoma in situ ci si basa quindi sulla presenza delle cellule mioepiteliali: si ha
un carcinoma in situ se è presente un mioepitelio, anche scarso.
Il CDIS è quasi sempre identificato tramite screening mammografico: in assenza di screening meno del 5% di
tutti i carcinomi è identificato quando in situ.
La maggior parte è identificata grazie alla presenza di calcificazioni associate a materiale secretorio o
necrosi o meno comunemente grazie alla fibrosi periduttale che circonda il CDIS e forma un’area di densità
aumentata o una massa vagamente palpabile. Raramente il CDIS determina una secrezione del capezzolo o
è identificato come reperto incidentale in una biopsia eseguita per un’altra lesione.
È possibile distinguere tre gradi di CDIS, grado 1, 2 e 3.

Carcinoma duttale in situ di basso grado

Colpisce soprattutto le donne in post-menopausa in età avanzata, sopra i 70 anni, e viene identificato in
corso di screening per la presenza di microcalcificazioni, dovute a Sali di calcio che si depositano sulle
mucine secrete dalle cellule neoplastiche. Infatti, le cellule neoplastiche sono ben differenziate e ancora in
grado di produrre secreto come le cellule normali: il secreto è denso e ristagna nei dotti, predisponendo
alla formazione di microcalcificazioni.
Le forme di basso grado sono dette anche CDIS non comedonico, consistente in una popolazione di cellule
tumorali monomorfe con grado nucleare da basso ad alto, atipie citologiche modeste, nucleolo appena
visibile e mitosi molto rare.
Il carcinoma in situ di basso grado presenta quindi cellule
con modeste atipie citologiche che possono disporsi in
diversi pattern architetturali; i pattern prevalenti sono:
- Pattern micro-papillare, in cui le cellule si
organizzano in piccole estroflessioni papillari
- Pattern cribriforme, in cui le cellule formano
strutture ghiandolari all’interno del dotto stesso
Si possono avere anche un pattern di crescita solido, in cui
la neoplasia riempie completamente i dotti, e un pattern
papillare.
Nella maggior parte dei casi le cellule neoplastiche mantengono una elevata espressione dei recettori per
estrogeni e progesterone e presentano un indice proliferativo Ki67 basso.

398
Si tratta quindi di una neoplasia a lenta crescita, con prognosi ottima, infatti, anche se dovesse essere
lasciato in situ si svilupperebbe una forma infiltrante solo nel 30% dei casi e sarebbe comunque a bassa
aggressività.
Nel 75% dei casi il carcinoma in situ di basso grado risulta multifocale e nel 25% dei casi bilaterale.
Il trattamento ottimale è ancora molto discusso: la quadrantectomia non garantisce l’asportazione di tutti i
foci neoplastici, ma la mastectomia, che in alcuni casi dovrebbe essere bilaterale, risulta troppo invasiva
vista la scarsa aggressività della neoplasia. In Italia, solitamente si procede con quadrantectomia e follow-
up mammografico; nelle donne anziane in menopausa si può procedere con terapia ormonale.

Essendo il CDIS di basso di basso grado una lesione


a lenta crescita, con sviluppo graduale, la
mammografia può evidenziare anche i suoi
precursori:
- Atipia epiteliale piatta, DIN 1a → dotti
rivesti da cellule colonnari con modeste
atipie (immagine in alto)
- Iperplasia duttale atipica, DIN 1b →
cellule con modeste atipie, simile a quelle
del CDIS, ma con estensione < 2 mm
(immagine in basso)
Anche in queste fasi precoci possono infatti essere
presenti microcalcificazioni visibili alla
mammografia.
Nonostante il rischio di trasformazione di questi precursori sia inferiore al 20% si preferisce comunque
asportare l’area interessata.

Carcinoma duttale in situ di alto grado

Colpisce soprattutto le donne in età post-menopausale, tra i 50 e i 70 anni,


ma può interessare anche donne tra i 45 e i 50 anni. Viene facilmente
identificato allo screening mammografico grazie alla presenza di grossolane
micro-calcificazioni, che si depositano su cellule necrotiche e seguono
l’andamento dei tubuli.
Le cellule sono poco differenziate e presentano atipie: nucleo irregolare,
nucleolo prominente, necrosi interna e diverse mitosi.
Le cellule hanno una crescita solida e possono disporsi secondo diversi
pattern, tra cui quello a crescita solida con necrosi
comedonica centrale (comedocarcinoma).
Anche se in alcuni casi possono mantenerli, più
frequentemente le cellule neoplastiche perdono
l’espressione dei recettori per estrogeni e
progesterone e presentano un indice proliferativo
Ki67 elevato.
È una neoplasia a rapida crescita, ma se asportato in
modo radicale la prognosi è ottima; se lasciato in
sede evolve in carcinoma infiltrante, di solito molto
aggressivo, nel 50% dei casi.

Il carcinoma duttale in situ di alto grado è generalmente unifocale e può raggiungere dimensioni
importanti; cresce in modo continuo ed interessa, solitamente, un unico lobo mammario, pertanto le
dimensioni che il carcinoma può raggiungere dipendono dalla grandezza del lobo coinvolto. Ovviamente, le
dimensioni dipendono anche dal momento in cui viene fatta la diagnosi.

399
Vista la rapida crescita può succedere che si sviluppi nell’arco di tempo che intercorre tra un controllo
mammografico e il successivo, ma in questi casi solitamente si diagnosticano forme di piccole dimensioni
facilmente trattabili. Inoltre, sempre a causa della rapida crescita, difficilmente si indentificano i precursori:
è più comune identificare direttamente il tumore.
La crescita della neoplasia ha un andamento
schematicamente triangolare: si estende lungo il
dotto galattoforo, con la punta rivolta verso il
capezzolo.
L’epidermide produce fattori chemiotattici che
richiamano le cellule neoplastiche: le cellule
neoplastiche possono emettere pseudopodi e farsi
strada lungo i dotti galattofori fino a raggiungere
l’epidermide del capezzolo, generando il cosiddetto
carcinoma di Paget (immagine a sinistra).

Il trattamento ottimale consiste nella asportazione chirurgica del quadrante interessato, con margini di
resezione liberi da neoplasia distanti almeno 2 mm dal CIS. È importante prestare attenzione al margine
retro-areolare, vista la tendenza del carcinoma a colonizzare il capezzolo.
L’aggiunta della radioterapia riduce notevolmente il rischio di recidiva.

CARCINOMA DUTTALE INFILTRANTE

Solitamente si presenta con un nodulo duro di colore biancastro.


Istologicamente presenta una forma stellata, con margini infiltranti, ma esistono
eccezioni morfologiche: talvolta la lesione presenta una forma sferica con margini
netti e crescita espansiva, caratterizzata da un’area necrotica centrale che simula
una cisti.
Mammograficamente quindi non sempre si ha un quadro tipico di una lesione
maligna e si può avere una fallace diagnosi di neoplasia benigna. La crescita
compatta, con formazione di un nodulo a margini netti, è tipica delle giovani
donne, ma andando ad esaminare la lesione con ecodoppler si vede che il nodulo
non è vascolarizzato, dal momento che i vasi non hanno tempo di formarsi.
Dal punto di vista istologico il carcinoma duttale invasivo è costituito da cellule
atipiche che si organizzano a formare strutture duttali. Si riconoscono forme ben
differenziata, forme moderatamente differenziate e forme scarsamente
differenziate, ma in ogni caso si tratta di neoplasie infiltranti il tessuto adiposo e
presentanti un certo rischio di metastatizzazione.
Le forme ben differenziate sono costituite prevalentemente da
tubuli rivestiti da cellule con nuclei tondi e piccoli e presentano rare
figure mitotiche.
Le forme moderatamente differenziate possono formare tubuli,
ma presentano anche aggregati solidi e aspetti di infiltrazione a
singola cellula.
Entrambe le forme presentano un alto tasso di proliferazione e
aree necrotiche.
La terapia d’elezione è quadrantectomia associata a radioterapia.

400
CARCINOMA LOBULARE

Il nome è dovuto al fatto che si pensava originasse dai lobuli, ma in realtà origina anch’esso dalla TDLU; la
denominazione è stata conservata per via di determinate caratteristiche biologiche che lo rendono unico.
Caratteristica del carcinoma lobulare è la perdita della E-caderina, o più raramente la produzione di una
forma aberrante della stessa, con conseguente perdita di adesione cellulare e crescita delle cellule in
modo individuale, non in massa. Si ha quindi la crescita a cellule singole, che si dispongono in fila e
infiltrano il tessuto, senza formare una vera e propria massa. Questa peculiarità fa sì che sia la clinica che la
radiologia possano essere negative.
La perdita di espressione della E-caderina può essere dovuta a:
- Perdita di eterozigosi a livello del braccio lungo del cromosoma 16
- Mutazioni inattivanti o ipermetilazione del promotore che portano ad inattivazione di entrambi gli
alleli
- Delezioni
- Modulazioni ad opera di miRNA

Carcinoma lobulare in situ – CLIS

Il carcinoma lobulare in situ, ovvero confinato negli acini e


nei dotti della ghiandola, è distinto in tre forme:
- Iperplasia lobulare atipica, LIN1
- Carcinoma lobulare in situ di tipo classico, LIN2
- Carcinoma lobulare in situ florido/pleomorfo, LIN3
Le prime due forme sono precursori non obbligati del
carcinoma infiltrante, con un rischio di evoluzione del 20-
30%, mentre il LIN3 si accompagna al carcinoma infiltrante
nel 60-70% dei casi.
Le cellule sono piccole e discoese tra loro, per via del deficit
di E-caderina, hanno nuclei ovali o tondi e nucleoli piccoli. Spesso sono presenti cellule ad anello con
castone contenti mucina. Il CLIS raramente distorce l’architettura ghiandolare sottostante ed esprime quasi
sempre i recettori per estrogeni e progesterone.
Nel LIN1 i foci neoplastici sono molto piccoli e limitati ad un lobulo, con cellule che iniziano ad insinuarsi tra
le cellule normali.
Nel LIN2 i foci sono più estesi e multipli, spesso bilaterali; le cellule mantengono una elevata espressione di
recettori per estrogeni e progesterone. Essendo precursori non obbligati il LIN1 e il LIN2 spesso vengono
seguiti in follow-up, ma non trattati.
Il LIN3 presenta calcificazioni grossolane e aree di necrosi e risulta più aggressivo, associandosi spesso a
carcinoma infiltrante, pertanto richiede l’intervento chirurgico. Le cellule in questo caso sono atipiche.
L’ultima classificazione dell’AJCC del 2018 non definisce il carcinoma lobulare in situ come un vero
carcinoma, dal momento che non si conosce il suo reale potenziale di aggressività e ciò espone i medici a
denunce in caso di trattamenti non adeguati alla pericolosità della lesione.

Carcinoma lobulare invasivo

Le cellule del carcinoma lobulare crescono sparse e indipendenti e ciò rende la neoplasia molto subdola.
Le cellule tumorali infiltrato i tessuti in maniera indipendente, senza formare una massa, e possono quindi
mescolarsi alla popolazione cellulare sana, confondendosi tra di essa. Si ha quindi una diffusione silente
che può esitare facilmente nella presenza di metastasi già al momento della diagnosi; tuttavia, grazie alla
mammografia digitale la situazione diagnostica è nettamente migliorata.
Il tumore quindi non è palpabile e spesso le pazienti si presentano dal medico per via di metastasi
linfonodali; per le sue caratteristiche, infatti, il carcinoma lobulare spesso non consente una diagnosi
precoce. Altre sedi di metastatizzazione preferenziale sono retro-peritoneo, encefalo e stomaco.

401
Questo tumore risponde bene alla terapia ormonale, dal mento che presenta
elevati livelli di recettori per estrogeni e progesterone, bassi livelli di HER2 e
basso indice proliferativo, tuttavia, la terapia ormonale rallenta la
progressione della malattia ma non è risolutiva.
Esistono due varianti del carcinoma tubulare invasivo:
- Variante classica → prognosi simile a quella del carcinoma duttale,
tipico delle donne anziane
- Variante pleomorfa → interessa donne intorno ai 60 anni e presenta
una prognosi severa; è apocrino, presenta espressione dei recettori per
estrogeni e progesterone variabile, ma tendenzialmente bassa, e
risulta debolmente positivo per HER2-neu.
Di per sé il carcinoma lobulare non risulta biologicamente più aggressivo del
duttale, ma la prognosi risulta peggiore dal momento che si ha difficoltà
nell’eseguire una diagnosi precoce.

FORME SPECIALI DI CARCINOMA MAMMARIO

Carcinoma di Paget

Si ha quando le cellule neoplastiche del carcinoma duttale in situ di alto grado si


estendono lungo l’albero duttale del lobo mammario e raggiungono
l’epidermide del capezzolo, infiltrandola. Clinicamente si presenta come una
erosione del capezzolo; si tratta di una lesione subdola, anche perché
inizialmente sembra un graffio (che però non guarisce).
Nel 90% dei casi è associato a sottostante carcinoma duttale in situ e talvolta, sia
nelle donne che negli uomini, può esserne la prima manifestazione, pertanto è
necessario eseguire una biopsia in pazienti con erosione del capezzolo.

Carcinoma secretorio – dispensa

Colpisce entrambi i sessi, con un picco di incidenza sotto i 20 anni. Si presenta come un nodulo retro-
areolare, dal momento che nei soggetti giovani questa è l’unica sede in cui è presente tessuto ghiandolare,
e causa secrezione del capezzolo. Si tratta di un nodulo mobile e ben circoscritto che nelle bambine,
soprattutto intorno ai 12-13 anni, entra in diagnosi differenziale con il normale sviluppo ghiandolare.
È un tumore a basso grado di malignità, ma se non individuato e trattato può metastatizzare.
Se durante l’intervento chirurgico invece di rimuovere la neoplasia si rimuove l’abbozzo ghiandolare si
determina amastia nella bambina.

Carcinoma tubulare – dispensa

Si tratta di un tumore HER2-, ER+, PgR+, Ki67 basso e per definizione per differenziato; si presenta come
un nodulo a margini irregolari e in genere la prognosi è ottima, infatti la quadrantectomia risulta
solitamente risolutiva.

Carcinoma mucoide – dispensa

È detto anche colloide o mucinoso e si presenta nelle donne intorno ai 70 anni. È solitamente HER2-, ER+,
PgR+ e Ki67 basso; si presenta come nodulo a margini netti e le metastasi sono rare. Talvolta può
presentarsi associato a carcinoma duttale invasivo.

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Carcinoma midollare – dispensa

È più comune nelle donne con più di 60 anni o nelle donne giovani con carcinoma familiare; sia
clinicamente che radiologicamente può essere confuso con una lesione benigna o presentarsi con una
massa in rapida crescita. È solitamente HER2-, ER+, PgR+ e con Ki67 alto.
Istologicamente si presenta con lamine solide simil-sinciziali di grandi cellule con nuclei vescicolosi e
pleomorfi e nucleoli prominenti; sono frequenti le figure mitotiche e si può avere un infiltrato
linfoplasmacellulare associato. Tutti i carcinomi midollari sono poco differenziati e hanno prognosi
lievemente migliore rispetto ai NAS (carcinoma invasivo non altrimento specificato).

Carcinoma metaplastico – dispensa

Questo gruppo comprende un’ampia varietà di rari tipi di carcinoma della mammella (<1% di tutti i casi),
quali i carcinomi che producono matrice, i carcinomi squamocellulari e i carcinomi con una prominente
componente di cellule fusate. Le metastasi linfonodali non sono frequenti, ma la prognosi è in genere
sfavorevole.

ASPETTI PROGNOSTICI E PREDITTIVI DEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA

I parametri prognostici indicano la prognosi, fotografando tipo ed estensione della malattia, mentre i
parametri predittivi indicano invece la possibilità di risposta al trattamento.
La sopravvivenza del paziente dipende da entrambi i parametri.

Parametri prognostici – dispensa

La prognosi nelle donne con carcinoma alla mammella varia ampiamente: vi sono donne con aspettativa di
vita normale e donne con il 10% di possibilità di sopravvivere entro 5 anni. I parametri prognostici sono:
- Tipo istologico, ad alto o basso grado di malignità
- Grado istologico, basato su caratteristiche cellulari determinate da Elston e Ellis nel 1991:
o Formazione di ghiandole
o Atipie citologiche
o Numero di mitosi atipiche su 10 campi a forte ingrandimento
Grado I: formano ghiandole, i nuclei sono piccoli e tondi e l’indice mitotico è basso.
Grado II: presentano qualche formazione ghiandolare, ma anche aree solide e singole cellule
infiltranti; presentano maggior pleomorfismo cellulare e più figure mitotiche.
Grado III: invadono come nidi cellulari frastagliati o strati compatti di cellule con nucleo irregolare e
voluminoso. Sono comuni aree di necrosi e il tasso proliferativo è elevato.
- Dimensioni della neoplasia: carcinomi di piccole dimensioni, spesso identificati tramite screening,
hanno prognosi migliore
- Linfonodi metastatici: lo stato dei linfonodi ascellari, valutati a partire del linfonodo sentinella, è il
più importante fattore prognostico nei carcinomi invasivi della mammella senza metastasi a
distanza. Senza coinvolgimento linfonodale la sopravvivenza libera da malattia a 10 anni è vicina al
70-80%; con un numero da uno a tre linfonodi positivi l’indice scende al 35-40% e al 10-15 % in
presenza di più di 10 linfonodi positivi.
In caso di metastasi al linfonodo sentinella presenti i quadri possibili sono:
o ITC, isolated tumour cells
o Micro-metastasi → dimensioni < 2 mm e basso rischio che siano coinvolti gli altri linfonodi;
si può optare per un trattamento chemioterapico aggiuntivo, ma non si esegue lo
svuotamento ascellare
o Macro-metastasi → dimensioni > 2 mm e rischio di coinvolgimento degli altri linfonodi >
20%; la necessità di eseguire lo svuotamento ascellare viene valutata caso per caso

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- Metastasi a distanza: in caso di riscontro di metastasi a distanza la guarigione completa è
improbabile, ma possono essere ottenute remissioni a lungo termine
- Invasione vascolare e peri-neurale, che vengono valutati per decidere se è necessario un
intervento chemioterapico, dal momento che aumentano il rischio di metastasi a distanza

Parametri predittivi

Espressione recettoriale
L’espressione dei recettori per estrogeni, progesterone e androgeni viene valutata tramite
immunoistochimica. Fisiologicamente questi recettori sono espressi in modo variabile in base all’età e
aumentano fino a 60 anni. La loro presenza nelle cellule neoplastiche indica che si tratta di una neoplasia
ben differenziata che può rispondere al trattamento ormonale.
A guidare la terapia è essenzialmente il recettore per gli estrogeni, ma vengono ricercati anche gli altri per
ottenere indicazioni sul grado di differenziazione: l’espressione di tutti e tre i recettori indica una neoplasia
altamente differenziata che risponde meglio alla terapia.
La terapia ormonale permette di arrestare/rallentare la crescita tumorale e nelle donne molto anziane,
intorno agli 85 anni, è spesso l’unica terapia che viene messa in atto poiché permette di salvaguardare
l’aspettativa di vita della paziente senza sottoporla ad interventi invasivi.
I cut-off di positività ai recettori sono:
- Cellule positive > 10% della popolazione neoplastica → ottima risposta alla terapia
- Cellule positive comprese tra l’1% e il 10% → risposta alla terapia presente, ma non ottimale
- Cellule positive < 1% della popolazione neoplastica → nessuna risposta alla terapia

Indice proliferativo
Ki67 è una proteina presente in tutte le cellule nel ciclo proliferativo, tranne che nella fase G0, e indica
quindi il grado di proliferazione del tumore. Ki67 è un indice continuo, ma il cut-off proposto è del 20%:
quando le cellule positive sono più del 20% si considera il tumore altamente proliferante.
Questo parametro permette quindi di valutare la proliferazione anche in assenza di mitosi visibili.
Il cut-off del Ki67 non è così netto, ma in futuro metodi di valutazione informatizzata e intelligenze artificiali
potrebbero migliorarne la misurazione.

Iper-espressione o amplificazione di HER2


HER2, Human Epidermal Growth factor Receptor, appartiene alla famiglia dei recettori del fattore di
crescita epidermico; questa famiglia contiene almeno 5 recettori, il più espresso dei quali a livello di
mammella è HER2. HER2 è una proteina di membrana presente anche nelle cellule sane che permette
loro di crescere e rigenerarsi, ma alcuni tumori la iper-esprimono, tramite un meccanismo di
amplificazione genica, e divengono molto aggressivi.
Contro questi tumori sono usati degli anticorpi monoclonali anti-HER, come Trastuzumab, usati
soprattutto come terapia neo-adiuvante o adiuvante; grazie all’introduzione di questi farmaci i tumori ad
alta espressione di HER2 sono passati da essere mortali ad essere curabili, se non presentano metastasi.
L’iper-espressione di HER2 viene visualizzata tramite immunoistochimica; se la colorazione non è
particolarmente intensa si ricorre ad un esame di secondo livello: la FISH, ovvero l’ibridazione in situ a
fluorescenza, permette di valutare se si ha amplificazione del sito genico.
Il segnale verde indica il cromosoma 17, mentre il segnale rosso è specifico del gene: in un tessuto sano ad
ogni segnale verde corrisponde un segnale rosso, mentre nelle neoplasie che sopra-esprimono HER2 si
hanno segnali rossi numerosissimi, dal momento che il gene è espresso in diverse copie su ogni
cromosoma.
Quindi alla valutazione immunoistochimica la cellula può presentarsi con:
- Completa negatività per HER2 (0)
- Blanda positività per HER2 (1+)
- Positività intermedia per HER2 (2+), condizione che richiede l’ulteriore indagine tramite FISH
- Positività intensa per HER2 (3+), condizione che rappresenta il 10-20% dei casi

404
La terapia con anti-HER2 è indicata nelle forme 2+ amplificate e 3+.
Nelle forme 1+ e 2+ non-amplificate fino a qualche anno fa si procedeva con chemioterapia classica,
mentre attualmente si usano, non in Italia, gli ADC, antibody drug-conjugates, ovvero anticorpi coniugati a
farmaci, in cui HER2 viene usato come driver per guidare il farmaco verso le cellule tumorali; questi farmaci
hanno avuto buoni risultati anche in tumori metastatici.
La molecola Trastuzumab-Deruxtecan unisce l’anticorpo monoclonale ad un farmaco molto potente che se
usato singolarmente presenta effetti collaterali molto forti: nelle forma ADC il farmaco si lega
prevalentemente alle cellule tumorali che esprimono HER2 e si riducono quindi gli effetti collaterali. Una
volta raggiunte le cellule tumorali il farmaco viene internalizzato e ne provoca la morte; le cellule
neoplastiche morenti rilasciano nell’ambiente circostante il farmaco, che quindi riesce a colpire le altre
cellule tumorali adiacenti, anche quelle che non esprimono HER2 (effetto bystander).

Infiltrato linfocitario intra-tumorale


La presenza di infiltrato linfocitario intra-tumorale, TIL, è un fattore positivo poiché indica che il sistema
immunitario del paziente sta cercando di distruggere le cellule neoplastiche e l’aggiunta di un
trattamento, soprattutto nei casi HER2+ trattati con Trastuzumab, ha solitamente esito positivo.
La cellula neoplastica, tuttavia, attiva dei meccanismi di mimetismo per sfuggire al sistema immunitario ed
esprime molecole del checkpoint immunitario, come PD-L1: la cellule neoplastica esprime PD-L1 che lega
PD1 posto sul linfocita T-citotossico e induce l’inattivazione del linfocita stesso.
In questo caso è necessario ricorrere a farmaci detti inibitori dei checkpoint immunitari, come gli anticorpi
anti-PDL1. Nell’ambito della mammella, i farmaci inibitori dei checkpoint immunitari sono importanti nel
trattamento dei tumori triplo negativi.

Parametri molecolari
Esistono dei test molecolari, basati su set di geni, detti parametri molecolari, che permettono di valutare la
prognosi e la terapia più adatta alla neoplasia.
Generalmente i tumori classificati come a basso rischio di progressione non richiedono la chemioterapia,
mentre questa va eseguita nei tumori ad alto rischio di progressione. I test molecolari sono molto utili nei
tumori che appartengono a classi di rischio intermedie, che richiedono una valutazione caso per caso.

405
Esistono diversi test molecolari e i più usati sono il Mamma Print e l’Oncotype DX; attualmente il SSN
consente l’esecuzione di un test molecolare a paziente.

Classificazione molecolare
I tumori della mammella possono essere suddivisi in forme luminali e forme non luminali.
Le forme luminali sono le forme che somigliano di più al tessuto normale, dal momento che esprimo il
recettore degli estrogeni e del progesterone e in alcuni casi anche quello degli androgeni. Si tratta quindi di
tumori che rispondono alla terapia ormonale, ma la prognosi non è sempre favorevole.
Il tumore luminale A si presenta con il profilo: ER+, PgR+, HER2- e Ki67 basso. È un tumore ben
differenziato, che in genere risponde alla terapia ormonale, ma la prognosi deve essere definita tenendo
conto anche di istotipo e grando tumorale e delle condizioni generali del paziente. La prognosi è migliore
nei casi AR+, ovvero nei casi che esprimono il recettore per gli androgeni.
Esempi di carcinomi luminali A sono:
- Carcinoma tubulare, che è un istotipo a
bassissima aggressività
- Carcinoma duttale NAS
- Carcinoma lobulare, che per le sue caratteristiche
raramente viene identificato allo stadio pT1.
Risulta responsivo alla terapia ormonale per circa
10 anni, successivamente infatti tendono a
manifestarsi resistenze.
Il carcinoma luminale B risulta ER+, PgR positivo o
negativo e presenta Ki67 elevato; il carcinoma luminale B
può essere sia HER2-positivo che HER2-negativo. Queste neoplasie rispondono quindi alla terapia
ormonale, dal momento che esprimono il recettore per gli estrogeni, ma la negatività al recettore per il
progesterone indica un minor grado di differenziazione; inoltre, sono altamente proliferanti.
Nei casi HER2-negativi è lo stadio a determinare la necessità di chemioterapia, mentre nei casi HER2-
positivi alla terapia ormonale si aggiunge la chemioterapia più
indicata in base ai livelli di espressione di HER2. I carcinomi
luminali B sono la forma più frequente di carcinoma mammario
e solitamente sono carcinomi duttali NAS.
Esempi di carcinoma luminale B sono:
- Carcinoma duttale NAS n0, che ha una buona prognosi
con terapia ormonale
- Carcinoma duttale NAS n1, il cui sviluppo, nonostante la
presenza di metastasi linfonodali, può essere rallentato
dalla terapia ormonale, soprattutto se associata a
chemioterapia

406
- Carcinoma duttale NAS n1 HER2-amplificato, tumore aggressivo che richiede ormoterapia,
chemioterapia e trattamento specifico
Nei casi HER2-amplificato mancano i recettori per estrogeni e progesterone (ER-, PgR-) ed è presente solo
HER2 amplificato o sovra-espresso. In questi casi non è necessario specificare il Ki67, dal momento che sarà
per forza alto, essendo sovra-espresso HER2. I carcinomi HER2-amplificati rappresentano il 10-20% dei
carcinomi mammari e sono molto aggressivi, ma rispondono bene al trattamento con terapia anti-HER2,
che viene usata sia come terapia neo-adiuvante, quindi prima dell’intervento chirurgico (in alcuni casi può
indurre la remissione completa), sia come terapia adiuvante, quindi post-intervento per prevenire le
recidive.
La risposta alla terapia anti-HER2 è ottima, ma in presenza di metastasi a distanza l’exitus del paziente è
comunque praticamente certo, nonostante la terapia rallenti la progressione della malattia.
I carcinomi triplo-negativi sono tumori ER-, PgR- e HER2-. Si tratta di tumori derivanti da cellule epiteliali e
poco differenziati o tumori derivanti da cellule apocrine.
Nello spettro dei tumori triplo-negativi rientrano quindi sia tumori poco differenziati che tumori che si
differenziano verso istotipi speciali; in questo gruppo rientrano:
- LAR, luminal androgen receptor type, carcinomi a fenotipo apocrino, AR+, con PIK3CA mutate e
trattabili con terapia specifica con inibitori di PI3K.
- BRCAness signature, tumori infiltranti di alto grado che presentano BRCA mutato o inattivo a causa
di mutazione somatica, non germinale; rispondono bene a chemioterapici inibitori di PARP (quando
BRCA è inattivato o mutato, inibendo PARP si causa la morte delle cellule, dal momento che esse
non riescono più a riparare il danno al genoma. Infatti, PARP è coinvolto nei processi di riparazione
del genoma)

407
CARCINOMA MAMMARIO GIOVANILE

L’incidenza del carcinoma mammario giovanile è in aumento, soprattutto per quanto riguarda le forme
metastatiche, e ciò è dovuto al fatto che i giovani sono esclusi dei programmi di screening.
Quando si parla di carcinoma mammario giovanile l’età di insorgenza non è univocamente definita: alcuni
considerano il cut-off a 35 anni, altri a 40 anni. In generale è possibile distingue due gruppi di pazienti:
- 0-15 anni → si osserva tipicamente il carcinoma secretorio
- 15-39 anni → prevalgono il carcinoma mammario de novo e il carcinoma mammario secondario,
che si presenta in pazienti già trattati per altre neoplasie, ad esempio leucemie in età pediatrica.
La predisposizione genetica del carcinoma alla mammella non è ancora del tutto nota; tra le forme che
conosciamo rientrano:
- Mutazioni di BRCA1 (cromosoma 17) e BRCA2 (cromosoma 13)
- Mutazioni di TP53, presenti anche nel carcinoma alla mammella maschile
- Mutazioni di PALB2, tipico dei carcinomi alla mammella che insorgono durante la gravidanza o
l’allattamento
- Mutazioni di CHEK2, tipiche di pazienti già guariti da altri tumori

Nella fascia d’età fino ai 15 anni prevale il carcinoma secretorio; un nodulo riscontrato in sede retro-
areolare in un paziente di giovane età entra in diagnosi differenziale con l’abbozzo di ghiandola mammaria
in accrescimento.
Se il nodulo è bilaterale difficilmente si tratta di una formazione neoplastica: più probabilmente si tratta
dell’abbozzo della ghiandola mammaria; talvolta però l’abbozzo della ghiandola mammaria si presenta in
modo asimmetrico, pertanto la asimmetria non è un dato sufficiente su cui basare la diagnosi differenziale.
Si procede con ecografia e nei casi dubbi è necessario un ago-aspirato.
Nelle donne tra i 15 e i 39 anni possono insorgere tutti i tipi di carcinoma mammario, ma nella maggior
parte dei casi si hanno carcinomi duttali NAS tripli negativi ad alto indice proliferativo. Probabilmente ciò
è legato all’ambiente ormonale: nelle donne di 30 anni ci sono meno recettori degli estrogeni,
indipendentemente dal ciclo mestruale, infatti, l’espressione dei recettori aumenta dopo la menopausa e
raggiunge il picco intorno ai 60 anni. Inoltre, la mammella di una donna giovane è sempre attiva, sollecitata
dal ciclo ormonale, pertanto le cellule si trovano per molto tempo in un ciclo cellulare attivo e Ki67 sarà
molto elevato.
Il carcinoma della mammella giovanile cresce quindi molto rapidamente e nella maggior parte dei casi si
presenta come nodulo palpabile con margini netti (può sembrare un fibroadenoma, comune nelle giovani
donne) e necrosi centrale (può simulare una cisti).
Tra i tumori triplo negativi nelle giovani donne è molto comune la forma BRCAness.

CARCINOMA MAMMARIO E GRAVIDANZA

In corso di gravidanza e allettamento possono insorgere diversi tipi di carcinoma: il carcinoma mammario è
secondo per frequenza, preceduto dal melanoma della cute. L’incidenza del carcinoma mammario in
gravidanza è in aumento ed è circa 1 caso su 3000 gravidanze.
Interessa soprattutto le donne tra i 30 e i 40 anni e tipicamente insorgere durante la seconda gravidanza;
l’epoca gestazionale più colpita è la 21° settimana, anche se potenzialmente può verificarsi in qualsiasi
momento della gestazione. Risulta più frequente in donne con storia familiare positiva per carcinoma
mammario e donne con mutazioni di BRCA1 e BRCA2.
Si presenta come una massa palpabile, ma risulta difficile da diagnosticare, sia perché durante la
gravidanza non si esegue lo screening mammografico, sia perché durante la gestazione la mammella risulta
grande, densa, congesta e nodosa al tatto. In caso di sospetto è quindi necessario eseguire indagini
radiografiche e un’ago-biopsia.
La neoplasia può ostruire i dotti, determinare la stasi di secreto e portare ad un ascesso mammario.
L’ascesso mammario è comune durante l’allattamento, ma non va mai sottovalutato: si prescrive una
terapia antibiotica e anti-infiammatoria, per migliorare il quadro infettivo, e successivamente va eseguita

408
una ecografia, accompagnata o meno da ago-biopsia, per escludere o confermare la presenza di una
neoplasia sottostante, nascosta dall’ascesso.
Durante l’allattamento è frequente il sanguinamento del capezzolo e anche in questo caso vanno
attentamente indagate tutte le possibili cause:
- Erosione dovuta a traumatismo
- Rottura di acini, dotti e capillari a causa della abbondante produzione di latte e della pressione
esercitata sul tessuto
- Mastite
- Papilloma intraduttale
- Carcinoma mammario
Dal punto di vista istologico durante la gravidanza prevalgono neoplasie aggressive, ER-, PgR- e HER2-,
come il carcinoma duttale NAS ad alto grado.
La prognosi dipende dallo stadio alla presentazione e dal momento della diagnosi: i carcinomi diagnosticati
a 4-6 mesi dal parto sono gravati dalla mortalità maggiore.
Il carcinoma mammario insorto in gravidanza è curabile grazie a specifici protocolli terapeutici, adatti alla
gravidanza e all’allattamento. Vi sono, infatti, dei trattamenti chemioterapici tollerati dal feto, che non
richiedono quindi il parto prematuro; l’allattamento può invece essere sospeso per proteggere il bambino.
La sensibilizzazione nei confronti del carcinoma mammario in gravidanza è fondamentale per implementare
le diagnosi precoci.

409
MAMMELLA MASCHILE

La mammella maschile consiste nel capezzolo, circondato dall’areola, e in un rudimentale sistema duttale
che si conclude in gemme terminali, senza formazione del lobulo; i dotti galattofori sono pochi, piccoli e
limitati all’area retro-areolare.

GINECOMASTIA

La ginecomastia consiste in una proliferazione diffusa o focale di tessuto ghiandolare della mammella
maschile. È una condizione frequente e spesso transitoria, ad esempio si manifesta nella adolescenza, per
poi regredire spontaneamente.
La ginecomastia è associata ad alterazioni ormonali: si presenta quando si ha uno sbilanciamento tra
estrogeni, che stimolano il tessuto mammario, ed androgeni, che ne contrastano gli effetti.
L’eziologia è varia: si possono avere forme familiare, forme secondaria all’assunzione di alcuni farmaci,
forme secondarie a cirrosi epatica, ecc.

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La ginecomastia viene classificata in:
- Pseudo-ginecomastia → aumento delle dimensioni della mammella dovuto a deposito di tessuto
adiposo
- Ginecomastia vera → aumento delle dimensioni della mammella dovuto ad un aumento del
tessuto ghiandolare in posizione retro-areolare

La ginecomastia si presenta come un nodulo retro-areolare, duro e mobile; dal momento che la
presentazione ecografica della ginecomastia può essere simile a quella di un carcinoma in fase iniziale è
necessario eseguire un ago-aspirato.
La ginecomastia può anche non essere trattata, in quanto sintomo, ma è necessario andare ad indagare la
causa alla base (ad esempio un tumore testicolare secernente ormoni).
Va ricordato che la ginecomastia non predispone all’insorgenza di carcinoma mammario.

Istologicamente si hanno ipertrofia e iperplasia della componente


epiteliale e di quella stromale.
Si evidenziano un aumento del tessuto fibroso e un ispessimento dei dotti.
Tipicamente l’epitelio dei dotti in corso di ginecomastia presenta tre strati:
strato mioepiteliale periferico, strato epiteliale, intermedio, e strato di
piccole cellule che aggettano nel lume del dotto. Gli ultimi due strati sono
ben distinguibili, poiché positivi alla citocheratina ad alto peso molecolare.

CARCINOMA DELLA MAMMELLA MASCHILE

È una condizione rara che rappresenta circa l’1% di tutti i carcinomi mammari; in Italia si stimano circa 300
nuovi casi all’anno, con un picco di incidenza in pazienti di 65-70 anni, ma può insorgere anche in pazienti
più giovani.
La diagnosi è quasi sempre tardiva poiché i sintomi vengono sottovalutati e i pazienti tendono a tacere un
disturbo mammario; inoltre, spesso i pazienti colpiti sono sovrappeso e possono presentare pseudo-
ginecomastia, condizione confondente per la diagnosi.
Prognosi e trattamento sono simili a quelli del carcinoma mammario femminile.
La presentazione si distingue in carcinoma in situ e carcinoma invasivo.

I principali fattori predisponenti sono:


- Mutazioni di BRCA1 e, soprattutto, di BRCA2
- Sindrome di Klinefelter, che comporta un rischio 20-30 volte maggiore rispetto alla popolazione
generale. L’aumento del rischio è dovuto all’assetto cromosomico XXY, infatti, il gene codificante
per il recettore degli androgeni e i geni che lo regolano si trovano sul cromosoma X, pertanto questi
pazienti presentano una iperstimolazione androgenica.
- Fattori che determinano uno sbilanciamento ormonale a favore degli estrogeni, come disfunzioni
gonadiche, obesità, etilismo, esposizione a radiazioni ionizzanti.

La ginecomastia non è un fattore predisponente, ma è possibile che il carcinoma mammario insorga in


quadro di ginecomastia: circa il 40% dei carcinomi mammari maschili presenta un’area di ginecomastia
nelle zone limitrofe, ma si tratta di una associazione casuale, non causale (il carcinoma insorge nella
ginecomastia, non dalla ginecomastia). Di fronte ad un paziente con ginecomastia è quindi necessario
escludere che essa nasconda un principio di carcinoma.

Carcinoma in situ

Il carcinoma in situ può essere:


- Un reperto occasionale associato a ginecomastia (6-7% di tutti i casi di ginecomastia)

411
- Associato a carcinoma infiltrante (46% dei carcinomi infiltranti)
- Carcinoma in situ puro associato a carcinoma di Paget,
situazione rara ma tipica dei pazienti giovani (18% dei casi di
carcinoma mammario nei soggetti giovani)
Il carcinoma in situ solitamente si presenta come una massa retro-
areolare e raramente può essere bilaterale, se associato a
ginecomastia.
Può determinare secrezione del capezzolo o erosione del capezzolo, se
associato a carcinoma di Paget.

Carcinoma di Paget

È una forma rara e può essere pura, ovvero presentarsi da sola o associata a carcinoma in situ, soprattutto
nei pazienti giovani, o associata a carcinoma infiltrante. Tipicamente si manifesta con una erosione del
capezzolo che non guarisce. Istologicamente è identico al tipo femminile.

Carcinoma secretorio

È una rara forma di carcinoma mammario


invasivo tipica di giovani e adolescenti, con un
picco di incidenza a 20 anni. Colpisce sia i
maschi che le femmine.
Le cellule sono organizzate in strutture micro-
cistiche e solide ed è presente una
abbondante produzione di secreto denso, sia
intra- che extra-citoplasmatico.
Dal punto di vista genetico si associata ad una
mutazione che porta alla formazione della
proteina di fusione ETV6-NTRK3 e ciò è molto
importante non solo dal punto di vista diagnostico, ma anche dal punto di vista terapeutico, poiché questa
proteina rappresenta un target terapeutico.
Si presenta con un nodulo retro-areolare (l’unica zona in cui nei soggetti giovani si ha la ghiandola
mammaria) a margini netti e mobile sui piani circostanti.
Si tratta di un carcinoma triplo negativo, ma presenta un basso grado di malignità e prognosi buona,
soprattutto nei pazienti sotto i 20 anni: dopo l’asportazione si ha una guarigione completa; ovviamente
l’intervento deve essere eseguito tempestivamente, dal momento che si ha comunque il rischio di
metastasi. Nei soggetti di età più avanzata la prognosi è peggiore, ma si ha la possibilità di abbinare
all’intervento la terapia specifica contro la proteina di fusione.

Carcinoma invasivo

È comune nei pazienti adulti-anziani e in genere si presenta come nodulo retro-areolare che arriva
facilmente ad ulcerare la cute ed infiltrare la parete toracica (negli uomini il tessuto mammario è
nettamente inferiore rispetto alle donne, soprattutto in pazienti magri).
La maggior parte dei tumori è di tipo duttale NAS, con una prevalenza dei gradi 2 e 3; istologicamente
prevalgono i casi luminali A e B HER2-negativi e nella maggioranza dei casi esprimono il recettore per gli
androgeni. La presenza dei recettori degli androgeni è spiegabile con un aumento dei cromosomi X nelle
cellule neoplastiche, anche in assenza di sindrome di Klinefelter: si è visto che le cellule tumorali tendono
spontaneamente ad acquisire cromosomi X. Si sta valutando l’efficacia della terapia anti-androgenica nel
trattamento del carcinoma mammario maschile, infatti, il trattamento con terapia ormonale classica ha
come effetto collaterale l’acquisizione di sintomi tipicamente femminili, come le vampate di calore.

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MALATTIE DELL’APPARATO GENITALE FEMMINILE
L’apparato genitale femminile è costituito da utero, ovaio, salpingi,
canale vaginale e vulva, localizzata esternamente. Queste strutture,
come la mammella, risentono dell’azione del sistema estro-
progestinico dalla pubertà alla menopausa e ciò risulta importante
quando si considerano i tumori estrogeno-dipendenti.
Il ciclo mestruale dura 28 giorni; la fase progestinica, che va
dall’ovulazione alla mestruazione (giorni 15-28) è fissa e dura 14,
mentre la fase estrogenica (giorni 1-14) è variabile e risulta dilatata nel
caso in cui la donna presenti un ciclo di durata maggiore di 28 giorni.
La fase estrogenica rappresenta la fase proliferativa degli organi
bersaglio, mentre durante la fase progestinica avvengono le modificazioni, ad esempio l’endometrio si
prepara ad accogliere l’eventuale ovulo fecondato.

CARCINOMA DELLA CERVICE UTERINA

La cervice è definita come il distretto dell’utero caratterizzato da epitelio pavimentoso non cheratinizzato
che costituisce l’esocervice; procedendo verso l’interno si ha una zona di transizione e l’epitelio diviene
colonnare ghiandolare e questo tratto è detto endocervice. La cervice uterina è quindi costituita da due
tratti: esocervice ed endocervice. La giunzione squamo-colonnare, ovvero la zona di transizione tra
esocervice ed endocervice, è generalmente localizzata a livello di orifizio uterino esterno, ma tale
localizzazione varia in base allo stato ormonale della donna; ad esempio, nelle pazienti giovani o sotto
stimolazione estro-progestinica si ha una estensione della giunzione squamo-colonnare verso l’esterno e
ciò aumenta l’esposizione dell’epitelio colonnare ghiandolare alle noxe patogene; con l’avanzare dell’età poi
la zona di transizione tende a sollevarsi in senso craniale nel canale endocervicale. La giunzione squamo-
colonnare è proprio una delle sedi elettive dell’infezione da HPV.
L’epitelio colonnare ghiandolare esposto ad un ambiente non adatto alle proprie caratteristiche, va
incontro a metaplasia squamosa, che rappresenta un meccanismo di difesa per rendere l’epitelio più
resistente alle sollecitazioni: si parla di cervice cronica metaplasica.

L'epitelio squamoso pluristratificato non cheratinizzato è composto da cellule basali deputate al turnover
cellulare: man mano che si sale verso la superficie epiteliale la cellula procede nel suo ciclo vitale. Negli
strati basali sono presenti cellule con un nucleo grande e ben definito ed un citoplasma rosa intenso, che
dimostra l’elevata presenza di organuli cellulari. Man mano che si analizzano le cellule sovrastanti i
citoplasmi diventano sempre più chiari, quindi perdono la loro componente citoplasmatica ed il nucleo
diventa sempre più picnotico finché, nello strato superficiale, vi sono cellule che vanno incontro ad apoptosi
ed esfoliazione (immagine a sinistra).
L'epitelio ghiandolare o colonnare ha la funzione di produrre un secreto fondamentale per l'omeostasi della
vagina (immagine a destra).

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Papillomavirus - HPV

Il papillomavirus presenta come sede elettiva di infezione il cavo orale e la cervice uterina.
Esistono più di 150 tipi di HPV classificati, in base alla capacità patogena, in ceppi ad alto, medio e basso
rischio. Questo virus può determinare l’insorgenza di lesioni inizialmente non neoplastiche e
successivamente neoplastiche a carico della cervice uterina.
Si tratta di un virus diventato ormai endemico, con un elevatissimo numero di contagi, ma nella maggior
parte dei casi l’infezione è silente e va incontro a risoluzione spontanea. Il virus è trasmesso per via
sessuale e penetra nelle cellule attraverso micro-traumi tipici della giunzione squamo-colonnare. In alcuni
casi l’infezione diviene persistente e determina l’insorgenza di lesioni.
La distribuzione dei diversi ceppi di HPV varia in base alla regione geografica e ciò è dovuto in gran parte
all’introduzione dei vaccini. I vaccini sono stati approvati per prevenire l’insorgenza del cancro alla cervice
uterina; dal momento che i vaccini sono diretti contro i ceppi ad alto rischio, come HPV 16 e 18,
attualmente si sta assistendo ad un aumento dei casi di cancro alla cervice uterina associato a ceppi a
minor rischio, non coperti dal vaccino. Per questo motivo la copertura dei vaccini è stata allargata anche ad
altri ceppi, ma le lesioni HPV-associate possono insorgere anche in donne vaccinate.
La vaccinazione ha comunque avuto un impatto molto positivo sull’incidenza delle lesioni HPV-associate,
anche grazie alle metodiche di screening.
Lo screening convenzionalmente avviene tramite Pap-Test, ma questa metodica è ormai in parte
soppiantata da altri test.
Il Pap-Test è una metodica citologica eseguita su striscio di cellule endo- ed eso-cervicali e identifica le
alterazioni citologiche conseguenti al danno virale. Nell’ottica dello screening risulta più efficace
intercettare l’infezione prima che causi alterazioni citologiche, pertanto si ricorre alla ricerca del genoma
virale tramite HPV-DNA Test.
Lo screening è attualmente rivolto a soggetti con più di 25 e prevede in primo luogo l’esecuzione dell’HPV-
DNA Test:
- Se il test è positivo si procede con Pap-Test
o Se il pap-test è positivo si procede con colposcopia
- Se il test è negativo si procede con follow-up con HPV-DNA Test ogni 3 anni

Per quanto riguarda l’epitelio cervicale l’HPV può interessare sia l’epitelio squamoso che, meno
frequentemente, l’epitelio ghiandolare.
Affinché avvenga l’infezione è necessario un danno alle cellule mature superficiali, in modo che il virus possa
entrare in contatto con le cellule immature basali.
La capacità cancerogena dell’HPV è dovuta alle proteine virali E6 ed E7, che interferiscono con l’attività
degli oncosoppressori cellulari e determinano la progressione del ciclo cellulare. La proteina E7 infatti
inattiva RB, p21 e p27 determinando la progressione del ciclo cellulare e ostacolando la capacità della
cellula di riparare i danni al genoma. Il difetto di riparazione del genoma è amplificato da E6 dei ceppi ad
alto rischio che lega p53 e ne promuove la degradazione.
L’effetto netto è una aumentata proliferazione cellulare e una maggior suscettibilità alle mutazioni.
I ceppi a basso rischio non interferiscono in maniera altrettanto efficace con la proteine dell’ospite.
Un altro fattore che contribuisce alla trasformazione maligna da parte di HPV è la capacità di integrare il
proprio genoma virale nel genoma delle cellula ospite: ciò porta ad una maggior espressione di E6 ed E7
(rispetto alla forma episomiale) e alla disregolazione degli oncogeni presenti vicino al sito di inserzione
virale. La progressione dell’infezione e l’eventuale trasformazione neoplastica dipendono anche dallo stato
immunitario dell’ospite e dall’esposizione a fattori ambientali co-cancerogeni.

Classificazione delle lesioni

Le lesioni della cervice uterina possono essere classificate in lesioni squamose e lesioni ghiandolari.
Le lesioni possono essere classificate come HPV-associate e HPV-indipendenti (più rare).

414
Storicamente tali lesioni squamose venivano definite come neoplasie intraepiteliali cervicali di grado 1, 2
e 3 (CIN1, CIN2 e CIN3), mentre attualmente si ha la distinzione in lesioni squamose di basso grado, L-SIL, e
lesioni squamose di alto grado, H-SIL. Questa distinzione vale sia dal punto citologico che istologico.

Il virus infetta le cellule basali dell’epitelio pluristratificato e si assiste ad un’alterazione del rapporto
nucleo/citoplasma e alla comparsa di nuclei più grandi e irregolari o binucleosi; allo stesso tempo si ha
un’alterazione della maturazione dell’epitelio pluristratificato.
Nelle lesioni di basso grado le alterazioni sono a carico del terzo basale dell’epitelio, mentre nelle lesioni di
alto grado le alterazioni interessano i 2/3 o la totalità dell’epitelio.

Le alterazioni cellulari sono visibili al Pap-Test: si hanno cellule


atipiche con nucleo grande, talvolta accartocciato e incisioni
nucleari. Una alterazione tipica dell’infezione da HPV è la coilocitosi
(letteralmente: alterazione a falce) in cui si ha un alone chiaro
intorno al nucleo ipertrofico della cellula alterata.

Distinguere le lesioni squamose di basso e alto grado è molto


importante dal momento che il 60% delle lesioni di basso grado va incontro a regressione spontanea,
quindi vengono normalmente seguite con follow-up a 6 mesi.
Il 40% delle lesioni di basso grado evolve invece in lesioni di alto grado, che possono dar vita a carcinomi
squamocellulari infiltranti.
L-SIL è una lesione relativamente frequente nelle giovani donne, è associata sia ceppi di HPV ad alto rischio
che a ceppi a basso rischio e riguarda il terzo inferiore dell’epitelio pativementoso pluristratificato: si ha un
aumento della proliferazione delle cellule basali, quindi un aumento delle mitosi. I nuclei delle cellule
risultano irregolari e aumentati di dimensioni; si possono avere binucleosi e coilociti.
L’evoluzione delle lesioni L-SIL in lesioni H-SIL avviene lentamente, impiegando mesi, pertanto queste
lesioni possono essere controllate tramite screening. Le H-SIL impiegano poi anni ad evolvere in carcinoma
infiltrante. Circa il 20% delle H-SIL insorge de novo, senza L-SIL precedenti.
Nelle H-SIL le alterazioni nucleari, come la binucleosi, sono più marcate e diffuse rispetto alla L-SIL.
Altra caratteristica è la presenza di nuclei piccoli e ipercromici in un contesto di discheratosi, altra
caratteristica tipica dell’infezione da HPV.
Vista la lenta evoluzione delle lesioni, le H-SIL sono più frequentemente riscontrante in donne intorno alla
quarta decade di vita.

Andando da una lesione a


basso grado verso una
lesione ad alto grado si
hanno:
- Riduzione del
citoplasma
- Aumento delle
dimensioni nucleari
- Aumento del
pleomorfismo
- Nuclei ipercromatici
- Aumento delle figure
mitotiche, anche
anormali

Le lesioni HPV-correlate possono essere evidenziate anche tramite immunochimica, infatti, si ha l’iper-
espressione della proteina p16, proteina del ciclo cellulare. La positività a p16 è quindi indicativa di
presenza di HPV nel tessuto.

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Per quanto riguarda le lesioni ghiandolari esse possono
essere distinte in:
- Adenocarcinoma in situ, AIS
- Adenocarcinoma endocervicale invasivo

Le H-SIL possono anche colonizzare l’epitelio


ghiandolare e ciò rappresenta un fattore prognostico
negativo.
Il rischio delle H-SIL di dare metastasi linfonodali
dipende da:
- Dimensione dell’invasione in profondità
- Estensione orizzontale
- Presenza o assenza di angio-invasione
Le L-SIL e le H-SIL sono solitamente asintomatiche, ma
vi si possono associare concomitanti stadi infiammatori, che portano a leucorrea, perdite ed odore
sgradevole delle secrezioni vaginali.

Algoritmo diagnostico

Per lo screening le donne vengono sottoposte a HPV-DNA Test e se questo risulta positivo a Pap-Test; se
anche il pap-test risulta positivo si procede con colposcopia, in sede di visita ginecologica.
Un esame importante per la definizione della presenza di lesioni a livello di cervice uterina è la colposcopia:
il colposcopio consente di ottenere un ingrandimento (20-30 volte) della cervice uterina e ricercare
alterazioni macroscopiche dell’epitelio cervicale tramite l’iniezione di acido acetico. Le lesioni cervicali
sono distinte in:
- Acido acetico positive/reattive, che appaiono biancastre e devono essere sottoposte a biopsia
- Non acido acetico positive/reattive
Un altro metodo per evidenziare le lesioni intraepiteliali è la spennellatura con iodio: le zone displastiche
risultano iodio-negative.
La biopsia e l’analisi istologica confermano quanto visualizzato tramite colposcopia.
Se viene diagnosticata una lesione di alto grado, H-SIL, è necessario un intervento di conizzazione: il
ginecologo identifica, tramite colposcopio, la zona alterata e la rimuove, rimuovendo un piccolo cono di
cervice uterina. È importante che il ginecologo proceda prima con lama fredda, per rimuovere il cono, e
successivamente con lama calda per coagulare; se viene usata direttamente la lama calda per la rimozione
del cono il tessuto viene compromesso e il patologo non riesce ad eseguire alcuna diagnosi.
Dal punto di vista anatomo-patologico è importante considerare, sul tessuto prelevato tramite
conizzazione, l’estensione della lesione, il grado e i margini di resezione, per capire se essi sono indenni e la
lesione è stata completamente asportata.
Se tramite colposcopia si visualizza una lesione ulcerata si va diagnosi di cancro ulcerato della cervice
uterina.
La conizzazione non è indicata in caso di L-SIL, dal momento che si tratta di lesioni che possono regredire
spontaneamente. La conizzazione induce la riparazione e la cicatrizzazione del tratto cervicale e ciò può
portare a stenosi cervicali, che impediscono la risalita degli spermatozoi e possono portare a infertilità.
Inoltre, la cicatrizzazione può portare ad un accorciamento del canale endocervicale con conseguente
possibile incontinenza del canale durante la gravidanza e parto prematuro.

CARCINOMA SQUAMOCELLULARE DELLA CERVICE

In generale, l’età media delle pazienti con carcinoma della cervice uterina è 45 anni.
Il carcinoma a cellule squamose rappresenta circa l’80% dei casi, l’adenocarcinoma il 15% e il restante 5% è
rappresentato da carcinomi adenosquamosi e neuroendocrini.

416
Si parla di carcinoma squamocellulare quando la neoplasia è infiltrante (non esiste la denominazione
carcinoma cervicale squamocellulare in situ).
Il carcinoma squamocellulare infiltrante è definito come un tumore epiteliale maligno infiltrante costituito
da cellule con differenziazione squamosa.
La maggior parte dei casi è HPV-correlata, soprattutto associata ai ceppi 16 e 18.
La lesione precursore è rappresentata da H-SIL.
La presentazione clinica più frequente è rappresentata da sanguinamenti anomali, ovvero sanguinamenti
nel periodo inter-mestruale o post-menopausale, ma si possono avere anche dolore e sintomi urinari.
Il carcinoma squamocellulare può derivare da:
- Epitelio squamoso nativo
- Epitelio cilindrico ghiandolare andato incontro ad un processo di metaplasia squamosa difensiva

La lesione neoplastica infiltra l’epitelio a tutto spessore e oltrepassa la


membrana basale e forma nidi di cellule squamose all’interno dello
stroma cervicale.
Attorno alla neoplasia si possono osservare infiltrati
linfoplasmacellulari, infatti, il carcinoma squamoso è strettamente
associato ad una intensa risposta infiammatoria; questa caratteristica
è molto importante dal punto di vista terapeutico, infatti, si possono
adoperare farmaci immunoterapici.
Le cellule neoplastiche risultano atipiche, con un nucleo grande e una elevata attività mitotica.
La presenza di piccoli nidi di cellule neoplastiche all’interno di spazi otticamente chiari indica la presenza di
invasioni linfatiche, con potenziale interessamento linfonodale associato.
I carcinomi squamocellulari possono essere distinti in:
- Forme cheratinizzanti, caratterizzati dalla presenza di perle cornee
- Forme non cheratinizzanti, caratterizzati da cellule basaloidi, che ricordano le cellule dello strato
basale dell’epitelio
Il grading distingue tre gradi:
1. Carcinomi ben differenziati
2. Carcinomi moderatamente differenziati
3. Carcinomi scarsamente differenziati
Generalmente, il grado di differenziazione correla con la produzione di cheratina.
Tumori ben differenziati possono nel tempo divenire moderatamente o scarsamente differenziati; le forme
scarsamente differenziate danno solitamente una infiltrazione a cellula singola o a piccoli nidi cellulari.

Nell’immagine a lato si osserva l’aspetto colposcopico del carcinoma: la


lesione risulta rilevata, biancastra per la colorazione con acido-acetico e
sono presenti aree necrotiche ed emorragiche. La lesione neoplastica tende
ad insorgere intorno all’orifizio uterino esterno, dalla zona di transizione,
per poi coinvolgere i tessuti circostanti.
Nell’immagine in basso a sinistra si ha un carcinoma ben differenziato, con
una cospicua produzione di cheratina, mentre nell’immagine in basso a destra si ha un carcinoma poco
differenziato, privo di cheratina, in cui si hanno piccoli nidi cellulari.

417
Le forme scarsamente differenziate tendono a non presentare cheratina, ma a presentare aree di necrosi;
inoltre, tendono ad assumere una forma solida.
Per capire se un tumore poco differenziato è una forma squamosa si ricorrere all’immunoistochimica,
ricercando P40, P63 e le citocheratine 5 e 6.

Il grado della neoplasia ne rappresenta l’aggressività biologica, mentre lo stadio ne rappresenta


l’estensione. Il tipo di trattamento si basa proprio su grado e stadio della neoplasia:
- Basso grado e stadio inziale → conizzazione
- Alto grado e stadio avanzato → isterectomia
In fasi molto avanzate è necessario, prima dell’intervento, un trattamento radio-chemioterapico
neoadiuvante per ridurre la massa tumorale.

ADENOCARCINOMA DELL’ENDOCERVICE

Le lesioni epiteliali ghiandolari sono suddivise in due macrogruppi:


- Adenocarcinomi HPV-associati
o Adenocarcinoma di tipo usuale (più frequente)
o Adenocarcinoma mucinoso
o Adenocarcinoma mucinoso di tipo intestinale
o Adenocarcinoma mucinoso signet ring
o I-SMILE, invasive stratified mucin-producing carcinoma (forma molto aggressiva)
- Adenocarcinomi HPV-indipendenti
Si tratta di istotipi rari che presentano una aggressività maggiore rispetto a quelli HPV-associati; il
più frequente è il tipo gastrico.
La prognosi delle forme HPV-associate è nettamente migliore di quella delle forme HPV-indipendenti, sia
in termini di sopravvivenza libera da malattia, sia in termini di sopravvivenza globale malattia-specifica.
Gli adenocarcinomi risultano più difficili da visualizzare tramite colposcopio, pertanto vengono spesso
diagnosticati in stadio più avanzato.

Adenocarcinoma in situ – AIS

Lesione maligna intraepiteliale che non infiltra lo


stroma, ma può evolvere in adenocarcinoma invasivo.
L’età media di insorgenza è intorno ai 40 anni e nella
maggior parte dei casi risulta associato ad HPV, quindi
identificabile tramite lo screening, ma può essere anche
HPV-indipendente.
Istologicamente l’AIS presenta:
- Alterazioni del rapporto nucleo/citoplasma: i
nuclei sono grandi, il citoplasma è scarso ed è
presente meno mucina del normale
- Tendenza alla pseudo-stratificazione
- Perdita di polarità cellulare
- Numerose mitosi
- Cromatina a zolle e nucleoli prominenti
Anche in questo caso, nelle forme HPV-associate, si ha una iper-espressione di p16.
Le proliferazioni endo-ghiandolari possono creare delle strutture papillari o cribriformi.
La presenza di nuclei ipercromici e la scarsità di mucina nel citoplasma conferiscono alle cellule neoplastiche
un colore più scuro rispetto alle normali cellule ghiandolari.
Nell’AIS queste alterazioni sono limitate all’interno di ogni struttura ghiandolare e non si ha potenziale
metastatico. Il trattamento si basa su conizzazione e stretto follow-up citologico.

418
Adenocarcinoma invasivo

Si tratta di un adenocarcinoma infiltrante originante dalle ghiandole cervicali; rappresenta la fase


successiva dell’adenocarcinoma in situ. I ceppi di HPV maggiormente associati all’adenocarcinoma sono 16,
18 e 45. Clinicamente si presenta con Pap-Test positivo e indurimento, retrazione o asimmetria
dell’esocervice, valutabili tramite visita ginecologica.
L’età media alla diagnosi è di 40-50 anni.

Gli adenocarcinomi infiltranti possono avere diversi pattern di invasione, che correlano con diverso rischio
di invasione neoplastica linfovascolare e metastasi linfonodali:
• Pattern A
Non si ha invasione stromale né cellule singole distaccatesi; si tratta quindi di uno stadio precoce
della malattia ed è il pattern associato a minore aggressività biologica
• Pattern B
Inizia ad esserci una invasione stromale distruttiva e si possono trovare nidi di cellule neoplastiche
separati dalla componente principale; l’invasione vascolare può essere o meno presente, ma non si
ha crescita solida del tumore. Si tratta quindi di un pattern intermedio tra A e C.
• Pattern C
Si ha una crescita destruente e a cellule singole, quindi si ha una maggior aggressività biologica e un
maggior rischio di invasione linfovascolare e metastasi linfonodali; spesso vi si associano necrosi
tumorale e linfangite carcinomatosa.

Adenocarcinoma cervicale di tipo usuale


Rappresenta l’istotipo più frequente tra gli adenocarcinomi endocervicali (75% dei casi).
Può essere presente mucina intracitoplasmatica, ma essa occupa meno del 50% del citoplasma; l’indice
proliferativo Ki67 è solitamente moderato. Possono essere presenti aree necrotiche e numerose mitosi; le
cellule tendono a perdere la polarità.
Fa parte del tipo usuale anche il tipo villo-ghiandolare, in cui la neoplasia cresce formando villi e ghiandole
superficiali.

Adenocarcinoma di tipo gastrico


È il principale istotipo tra gli adenocarcinomi HPV-indipendenti ed è così chiamato perché è simile
all’adenocarcinoma gastrico. Si tratta di una neoplasia che non viene identificata all’HPV-DNA Test e può
risultare di difficile identificazione anche al Pap-Test dal momento che spesso le atipie citologiche sono
poco evidenti.
Presenta una alta aggressività biologica e una tendenza alla infiltrazione e alla metastatizzazione, spesso già
presenti al momento della diagnosi.
Si tratta di una patologia subdola dal momento che crescendo all’interno della parte muscolare della
cervice non causa una destrutturazione del canale cervicale visibile macroscopicamente.
Questo istotipo spesso si associa a mutazione del gene STK11, uno dei geni coinvolti nella sindrome di
Peutz-Jeghers. Il precursore è l’AIS HPV-indipendente.

Il alcuni casi l’infezione da HPV può portare alla contemporanea


formazione di una neoplasia epiteliale e di una ghiandolare

Stadiazione FIGO

Tutti i carcinomi della cervice, indipendentemente dall’istotipo,


vengono stadiati secondo il sistema FIGO.
Stadiazione – FIGO stage (non è importante saperla nel dettaglio):
- PTis: carcinoma in situ (H-SIL)
- Stadio 1: carcinoma strettamente confinato alla cervice

419
o Stadio 1a1: invasione stromale < 3 mm in profondità e 7 mm in orizzontale (microinvasivo)
o Stadio 1a2: invasione stromale compresa tra 3 e 5 mm in profondità e < 7 mm in orizzontale
o Stadio 1b: lesioni visibili macroscopicamente
- Stadio 2: carcinoma esteso oltre alla cervice, ma non alla parete pelvica; interessa la vagina, ma
non il terzo inferiore
- Stadio 3: esteso alla parete pelvica e al terzo inferiore della vagina
- Stadio 4: esteso oltre la pelvi o con coinvolgimento di vescica e retto
Ad ogni stadio si associa una diversa percentuale di sopravvivenza a 5 anni:
- Stadio 1 → 81-96%
- Stadio 2 → 65-87%
- Stadio 3 → 35-50%
- Stadio 4 → 15-20%

Nuove strategie terapeutiche

Per quanto riguarda il carcinoma della cervice uterina esiste una forte eterogeneità in termini di marcatori
biologici e alterazioni molecolari: riuscire ad identificare delle alterazioni molecolari precise permetterebbe
di intervenire con trattamenti target altamente specifici.
Il carcinoma della cervice uterina è spesso associato ad un intenso infiltrato infiammatorio: essendo una
neoplasia molto spesso legata ad una infezione virale, stimola il sistema immunitario. Si è visto che la
terapia con inibitori di PDL1 in alcuni casi ha permesso una remissione completa, anche senza il
trattamento radio-chemioterapico.

420
PATOLOGIA DELL’ENDOMETRIO

L’endometrio è il tessuto che riveste


la cavità interna dell’utero ed è
composto da una componente
ghiandolare e da una componente
stromale, pertanto può presentare sia
tumori epiteliali che tumori
stromali/mesenchimali.
L’endometrio è suddivisibile in uno
strato basale profondo e in uno
strato funzionale, a contatto con il
lume della cavità endometriale, che
va incontro a modificazioni durante il
ciclo mestruale, in seguito alle oscillazioni ormonali.
L’endometrio poggia sul miometrio, lo strato muscolare uterino, il quale può essere interessato da tumori
muscolari, benigni o maligni.

Classificazione delle lesioni endometriali

Lesioni epiteliali endometriali


- Lesioni benigne, tra cui le più frequenti sono i polipi endometriali
- Lesioni maligne
o Lesioni precancerose
▪ Iperplasia endometriale senza atipia
▪ Iperplasia endometriale con atipia o neoplasia intraepiteliale endometriale, EIN
o Carcinomi endometriali
▪ Adenocarcinoma endometriale
▪ Carcinoma sieroso
▪ Carcinoma a cellule chiare
▪ Carcinoma indifferenziato e dedifferenziato
▪ Carcinosarcoma
Lesioni mesenchimali
- Tumori a cellule muscolari lisce, che originano dal miometrio
o Benigni: leiomioma e varianti (detti fibromi)
o Maligni: leiomiosarcoma
- Tumori dello stroma endometriale
o Benigni: nodulo stromale endometriale
o Maligni: sarcomi dello stroma endometriale, di alto e basso grado, e sarcomi indifferenziati
- Tumori misti epiteliali e mesenchimali
o Benigni: adenomioma
o Maligni: adenomioma polipoide atipico e adenosarcoma

Ciclo mestruale

L’endometrio è ormonalmente reattivo, risponde soprattutto ad estrogeni e progesterone e assume


morfologia diversa a seconda dello stimolo ormonale cui è sottoposto.
Il ciclo mestruale è suddivisibile in tre fasi:
1. Fase proliferativa o estrogenica
Predominano gli estrogeni, che hanno effetto proliferativo sia sulla componente ghiandolare che
sulla componente stromale; questa fase può essere ulteriormente divisa in una fase precoce e una
fase tardiva. Microscopicamente si osservano:

421
o Ghiandole tubulari con epitelio colonnare pseudo-stratificato e mitosi
o Stroma linfocito-simile ricco di figure mitotiche
2. Fase secretiva o progestinica
Il progesterone ha effetto differenziativo sull’endometrio e stimola la secrezione ghiandolare.
A livello microscopico si osservano:
o Ghiandole ben differenziate, di forma contorta, con epitelio cilindrico-cubico.
Le cellule presentano citoplasma abbondante e chiaro, ricco di glucosio.
o Stroma edematoso e pseudo-decidualizzato
3. Fase mestruale
Se non avviene la fecondazione i livelli di progesterone ematico calano rapidamente e lo strato
funzionale dell’endometrio viene eliminato. A livello microscopico si osservano:
o Materiale fibrino-ematico
o Eventuali trombi nelle arterie spirali
o Densi aggregati di materiale stromale e ghiandolare, frammisto a cellule infiammatorie
o Metaplasia papillare sinciziale: compaiono delle papille, che costituiscono un meccanismo
riparativo

Effetti degli estrogeni sull’endometrio


Gli estrogeni favoriscono la proliferazione endometriale.
Le ghiandole risultato mitoticamente attive e con epitelio pseudo-
stratificato (nuclei addossati l’uno all’altro). Lo stroma appare densamente
cellulato e ricco di figure mitotiche (immagina a destra).

Effetti del progesterone sull’endometrio


Ha effetto differenziativo, sia sullo stroma che
sulle ghiandole. Le cellule ghiandolari appaiono grandi e chiare, ricche di
glicogeno, e l’epitelio non è più pseudo-stratificato. Anche lo stroma va
incontro a differenziazione (immagine a sinistra).

Nella fase proliferativa si ha un alternarsi di


stroma e ghiandole costante, in rapporto 1:1,
mentre nella fase secretiva lo stroma assume
l’aspetto pseudo-decidualizzato, ovvero si
modifica per accogliere l’impianto dell’embrione.

422
Perdite ematiche anormali – AUB, Abnormal Uterine Bleeding

I sanguinamenti uterini anormali, ovvero sanguinamenti non sincroni con il ciclo mestruale, possono avere
cause diverse a seconda dell’età della paziente:
- Pre-pubertà → possono indicare una pubertà precoce, dovuta ad un alterato assetto ormonale; le
cause possono essere ipotalamiche, pituitarie o ovariche, come ad esempio un tumore secernente
- Adolescenza → cicli anovulatori, ovvero cicli mestruali senza ovulazione
- Età riproduttiva → complicanze della gravidanza, cicli anovulatori, proliferazioni anomale benigne
o maligne
- Epoca peri-menopausale e post-menopausale → lesioni proliferative benigne o maligne
Di fronte ad AUB è necessario chiedere alla paziente se normalmente il ciclo è regolare, se è sicura di non
essere incinta, se il sanguinamento è occasionale o perdura nel tempo, se le sono state diagnosticate
precedenti patologie endometriali e se il sanguinamento compare in corrispondenza della minzione, per
escludere che origini dall’uretra.

POILIPI ENDOMETRIALI

Rappresentano la lesione endometriale più frequente. Un polipo endometriale


consiste in una lesione vegetante della superficie endometriale, classificata
come lesione epiteliale endometriale benigna (ad eccezione del polipo
iperplastico).
Nella donna fertile solitamente si ha un polipo funzionale, o proliferativo,
ovvero una lesione vegetante costituita da endometrio attivo (immagine a lato
in alto).
Nella donna in post-menopausa solitamente si osservano due tipi di polipi:
- Polipo atrofico o fibroglandulo-cistico, che microscopicamente
presenta ghiandole ectasiche (cistiche) immerse in uno stroma fibroso;
non ha alcun significato neoplastico (immagine a lato in basso).
- Polipo iperplastico, espressione di una condizione di iperandrogenismo;
questa lesione va monitorata poiché può evolvere in adenocarcinoma
endometriale.
L’esame di primo livello per l’identificazione dei polipi endometriali è
l’ecografia: i polipi appaiono come lesioni sporgenti a margini netti nella cavità
endometriale, che appare come una cavità anecogena.
L’esame di secondo livello è l’isteroscopia, esame endoscopico che permette di
visualizzare la cavità uterina dall’interno: i polipi appaiono come lesioni
vegetanti dalla superficie liscia e riveste da mucosa normale, priva di alterazioni
vascolari; nei polipi maligni la superficie è spesso irregolare e caratterizzata da
una trama vascolare alterata.

423
IPERESTROGENISMO

È una condizione di eccessiva stimolazione estrogenica non controbilanciata da una adeguata risposta
progestinica e può avere cause endogene, come lesioni ovariche secernenti ormoni, o cause esogene.
Questa condizione determina una iper-proliferazione endometriale e può portare ad iperplasia
endometriale semplice, in cui si assiste ad un aumento della componente ghiandolare rispetto alla
componente stromale, associata ad un aumento dello spessore della mucosa endometriale.
Dall’iperplasia endometriale semplice può derivare una iperplasia endometriale complessa, in cui si
aggiunge una alterazione della architettura ghiandolare.
La situazione può poi evolvere verso l’iperplasia endometroide con atipia, detta anche neoplasia
endometroide intraepiteliale, in cui ha una vera e propria espansione clonale di cellule ghiandolari mutate,
che rimane però confinata allo stata mucoso. Se non tratta questa condizione può a sua volta evolvere in
adenocarcinoma endometroide.

IPERPLASIA ENDOMETRIALE SENZA ATIPIA

L’iperplasia endometriale senza atipia è una proliferazione di ghiandole endometriali di forma e


dimensioni irregolari ma prive di atipie citologiche. Questa condizione racchiude l’iperplasia endometriale
semplice e complessa.
Clinicamente si presenta con sanguinamento uterino anomalo in fase peri-menopausale o con
sanguinamento non ciclico.
I fattori di rischio sono rappresentati dalle condizioni che determinano iperestrogenismo:
- Perimenopausa, periodo in cui ci ha un improvviso squilibrio tra estrogeni e progesterone
- Sindrome metabolica e obesità, dal momento che il tessuto adiposo converte l’androstenedione in
estrogeni
- Patologie ovariche benigne o maligne (ad esempio la sindrome dell’ovaio policistico)
- Pillole contraccettive solo estrogeniche (non più usate)
L’ecografia evidenzia un endometrio ispessito.

424
All’isteroscopia si osserva una cavità endometriale con lume ridotto e una mucosa prominente,
dall’aspetto spugnoso. Si riscontrano lesioni dall’espetto pseudo-policistico o cistico e possono esserci
segni di sanguinamento.

Istologicamente si osserva una situazione simile ad un endometrio


proliferativo, con un incremento della componente ghiandolare, senza
una alterazione della architettura ghiandolare.
Le ghiandole aumentano in densità e si distribuiscono in modo
irregolare; talvolta assumono un aspetto ramificato o cistico.

In presenza di iperplasia endometriale senza atipia si ha un rischio 3-4


volte maggiore di sviluppare carcinoma endometriale; tale rischio aumenta nel tempo se la condizione
non viene trattata (a 10 anni il rischio aumenta di 10 volte). La progressione verso carcinoma endometriale
ben differenziato si verifica nel 1-3% delle donne.
Si può correggere l’iperestrogenismo alla base tramite l’assunzione di pillola estroprogestinica o l’impianto
di un dispositivo intrauterino a lento rilascio di progesterone.

NEOPLASIA ENDOMETROIDE INTRAEPITELIALE – EIN

La neoplasia endometroide intraepiteliale, o iperplasia endometriale atipica, è una proliferazione delle


ghiandole endometriali di forma e dimensioni irregolari con atipica citologica, associata ad un
incremento delle ghiandole rispetto allo stroma.
Si parla di neoplasia endometroide e non endometriale poiché essa è precursore dell’adenocarcinoma
endometroide, non di tutti i tipi di carcinoma dell’endometrio.
La presentazione clinica tipica è un sanguinamento anomalo in fase peri-menopausale (50-55 anni).
Questa condizione può essere causata da sindromi associate ad un aumento del rischio di carcinoma
endometriale, come la sindrome di Lynch e la sindrome di Cowden, o da una prolungata esposizione alla
stimolazione estrogenica (medesimi fattori di rischio della iperplasia endometriale senza atipia).

La EIN emerge come un’espansione clonale di ghiandole mutate, inizialmente localizzata, ma può
espandersi a tutto l’endometrio. Sono coinvolte diverse alterazioni molecolari, molte delle quali si
osservando anche nell’adenocarcinoma endometroide:
- Mutazioni dell’oncosoppressore PTEN
- Inattivazione di PAX2
- Mutazioni di KRAS e CTNNB (gene codificante per la β-catenina)
- Instabilità dei microsatelliti
Queste mutazioni non sono presenti nella iperplasia endometriale senza
atipia.

L’isteroscopia mostra un endometrio diffusamente ispessito con trama


vascolare atipica e ricco di lesioni ad aspetto polipoide o pseudo-
polipoide. La presenza di lesioni diffuse, e non focali, e di vascolarizzazione
atipica indirizzano verso la diagnosi di EIN.

425
Microscopicamente gli aspetti patologici più importanti sono:
- Incremento della componente ghiandolare rispetto
allo stroma, con rapporto ghiandole/stroma > 1
- Alterazioni del rapporto nucleo/citoplasma, nucleoli
prominenti, perdita di polarità cellulare.
La presenza di mitosi non è patologica, dal momento
che si tratta di un tessuto altamente proliferativo, ma
lo è la presenza di nucleoli prominenti.
Le ghiandole presentano una forma anomala e
tendono a fondersi tra loro.
- Presenza di papille intraghiandolari
- Nessuna evidenza di invasione dell’endometrio
Per avvalorare la diagnosi istologica è possibile procedere con immunoistochimica: dal momento che
spesso si verificano mutazioni di PTEN e PAX2 la parte di endometrio coinvolta da EIN perde
l’immunoreattività nei confronti delle proteine codificate da questi geni. Con il saggio immunoistochimico
è quindi possibile distinguere la parte di endometrio che esprime le proteine, quindi la parte sana, dalla
parte patologica, che non le esprime.
Talvolta in caso di EIN si può avere anche una differenziazione squamosa all’interno dello stroma, anche
con zone cheratinizzate (potrebbe far pensare ad un carcinoma, ma non lo è).

Ad 1/3 delle donne con EIN verrà diagnosticato un adenocarcinoma endometriale endometroide (il rischio
di carcinoma endometroide è 45 volte maggiore nelle donne con EIN)
Il trattamento dell’EIN è complesso, infatti, non esiste un trattamento univoco:
- Donna in età fertile → per preservare la fertilità si procede inizialmente con terapia progestinica e
follow-up, sia clinico che istologico, ogni 3-6 mesi, sperando di assistere ad una regressione, cosa
che avviene in 1/3 delle donne. Se la patologia non regredisce è necessario procede con
isterectomia o ablazione endometriale.
- Donne in post-menopausa → il trattamento d’elezione è l’isterectomia
Ovviamente la terapia va valutata in base alle condizioni della singola paziente, ad esempio una terapia
ormonale conservativa in una donna obesa causerebbe un ulteriore aumento di peso, pertanto in questo
caso sarebbe opportuno procedere con ablazione endometriale. In una donna con predisposizione genetica
il trattamento conservativo non sarebbe risolutivo, pertanto è consigliata l’isterectomia. Nelle pazienti che
intenzionate ad avere una gravidanza si procede inizialmente con terapia conservativa, in modo da
permette alla paziente di completare la gravidanza stessa, e successivamente, se necessario, si procede con
isterectomia.

CARCINOMA DELL’ENDOMETRIO

Si tratta del tumore ginecologico più frequente nei paesi industrializzati, mentre nei paesi non
industrializzati il carcinoma ginecologico più frequente è il carcinoma della cervice uterina HPV-relato;
considerando anche le altre neoplasie il carcinoma dell’endometrio è al quarto posto per frequenza, dopo
quello della mammella, del polmone e del colon. L’incidenza è di 98.000 casi/anno in Europa e 8000
casi/anno in Italia, ma fortunatamente solo nel 20% dei casi si hanno tumori aggressivi e il 77% delle
pazienti presenta la sopravvivenza a 5 anni libera da malattia (slide: sopravvivenza a 5 anni pari al 77%).
La maggior parte dei casi si verifica in donne in post-menopausa: il picco di incidenza si ha tra i 50 e i 70
anni, ma il 25% dei casi interessa donne in pre-menopausa e il 2-3% dei casi donne con meno di 40 anni.

Fattori di rischio

Fattori ambientali
Il più importante fattore ambientale è l’obesità, anche di grado moderato: l’obesità è responsabile del 40%
dei carcinomi dell’endometrio. Il rischio aumenta di 5 volte rispetto ad una donna normopeso.

426
L’obesità si associa soprattutto a carcinoma endometroide. Altri fattori di rischio ambientali sono
l’ipertensione e la sindrome metabolica.

Fattori ormonali
Il principale fattore di rischio ormonale è l’iperestrogenismo, sia esogeno che endogeno.
Fattori di rischio sono quindi le terapie estrogeniche non associate a progestinici e il Tamoxifene, agonista
parziale degli estrogeni. La terapia estro-progestinica è invece un fattore protettivo.

Fattori genetici
Esistono due sindromi associate allo sviluppo di carcinoma endometriale:
- Sindrome di Lynch, causata da mutazioni di geni codificanti per proteine del mismatch repair.
Questa sindrome si associa a anche a carcinoma del colon, dell’ovaio e della mammella.
La sindrome di Lynch è autosomica dominante e la sua diagnosi si basa su:
o Presenza di almeno 3 soggetti colpiti da tumori, istologicamente confermati, che
appartengono allo spetto della sindrome
o Uno dei soggetti colpiti deve essere parete di primo grado degli altri due su due generazioni
o Almeno uno dei tumori deve essere diagnosticato prima dei 50 anni (anche se ormai è noto
che la sindrome può manifestarsi dopo questa età)
- Sindrome di Cowden, più rara, dovuta a mutazione dell’oncosoppressore PTEN

Clinica e diagnosi

La manifestazione clinica tipica consiste in perdite ematiche anormali: bisogna prestare molta attenzione al
sanguinamento per-menopausale o post-menopausale e al sanguinamento intermestruale. In alcuni casi
decorre in maniera asintomatica e viene diagnosticato incidentalmente durante una visita ginecologica di
routine. L’iter diagnostico solitamente è: visita ginecologica, ecografia per valutare lo spessore
endometriale, isteroscopia e biopsia, durante la quale si preleva un campione di mucosa comprensiva della
neoplasia, un campione di mucosa adiacente alla neoplasie e campioni da altre regioni dell’utero.
L’isteroscopia è necessaria per l’inquadramento clinico, ma è difficile riconoscere le differenze tra i diversi
carcinomi dell’endometrio solo su base macroscopica, pertanto è necessario eseguire una biopsia e un
esame istologico. L’aspetto macroscopico può essere variabile: lesioni polipoidi, papillari, ecc. focali o
diffuse.

Per definire un carcinoma dell’endometrio è quindi necessario conoscere:


- Istotipo
- Grado
- Invasione del miometrio
- Invasione del canale cervicale
- Invasione neoplastica linfo-vascolare
- Infiltrato linfocitario associato al tumore, TIL
- Stadio patologico, quindi estensione della malattia
- Caratteristiche biologiche-molecolari

427
Caratteristiche macroscopiche

Tendenzialmente si tratta di una lesione polipoide vegetante molto friabile le cui dimensioni possono
essere molto variabili: si possono avere lesioni centimetriche e lesioni che arrivano ad interessare l’intera
cavità endometriale.

Caratteristiche microscopiche

La valutazione deve essere eseguita in modo


preciso, dal momento che esistono diversi
istotipi, associati a prognosi e terapie differenti.
La nuova classificazione dei tumori dell’apparato
genitale femminile (2020) è una classificazione
istologico-molecolare, ovvero integra le
caratteristiche
istopatologiche/morfologiche/microscopiche con
le caratteristiche molecolari.
L’istotipo più frequente è l’adenocarcinoma endometroide (70-75% dei casi), caratterizzato da
architettura ghiandolare e spesso differenziazione squamosa.
Altri istotipi da ricordare sono: carcinoma sieroso, carcinoma dedifferenziato, carcinoma indifferenziato,
carcinoma a cellule chiare, carcinosarcomi (tutti associati a comportamenti aggressivi).

Adenocarcinoma endometroide

È così chiamato perché ricorda l’endometrio in fase proliferativa e rappresenta l’istotipo associato a
sindrome di Lynch e iperestrogenismo. La componente ghiandolare è maggiore di quella stromale. La
neoplasia può essere sia intramucosa, quindi limitata all’endometrio, che invasiva, se interessa il miometrio.
L’architettura tipica è ghiandolare, ma talvolta può essere papillare o solida.
Colpisce soprattutto le donne in post-menopausa; una percentuale dei casi che si presenta in donne più
giovani è associata alla sindrome di Lynch.
La neoplasia rimane a lungo asintomatica, se non per la presenza di sanguinamenti anomali; solo in fase
avanzata si hanno dolori pelvici e addominali.

Patogenesi: l’istotipo endometriale è associato a iper-estrogenismo, ma anche alla sindrome di Lynch e alla
sindrome di Cowden. Il precursore è la neoplasia intraepiteliale endometroide, EIN.
Dal punto di vista molecolare è associato a mutazione di PTEN.

Macroscopicamente si presenta come tumore esofitico o


diffusamente infiltrativo, con aree di necrosi ed emorragia. È
importante valutare anche la sede di insorgenza: gli adenocarcinomi
endometriali associati a sindromi genetiche insorgono
prevalentemente nell’istmo; anche la sede di insorgenza della
neoplasia può quindi indirizzare la diagnosi.

Microscopicamente, le caratteristiche architetturali sono:


- Ghiandole confluenti o back to back, quindi senza stroma
interposto
- Strutture villo-ghiandolari con cellule colonnari pseudo-
stratificate
- Possibili strutture papillari, micro-papillari o villo-
ghiandolari complesse

428
- Configurazione cribriforme (presenza di piccoli lumi all’interno del
tessuto tumorale, che assume quindi un aspetto bucherellato;
immagine a lato) o micro-acinare

Caratteristiche citologiche:
- Le cellule neoplastiche ricordano quelle dell’endometrio
proliferativo
- Nuclei e cellule più grandi
- Arrotondamento nucleare e nucleoli prominenti
- Perdita di polarità cellulare
- Eosinofilia citoplasmatica
- Necrosi tumorale all’interno dei lumi
Nel 10-25% dei casi si ha una differenziazione squamosa, che si presenta con la formazione di morule, con
o senza cheratinizzazione (immagine in basso a destra); la presenza di queste caratteristiche potrebbe far
pensare ad un carcinoma squamoso, ma questo è per definizione eccezionale nell’endometrio.
Si possono avere anche aspetti mucinosi, con cellule ricche di mucine, secretori, simili a quelli
dell’endometrio secretorio, sertoliforme o a cellule fusate, ma ciò non influenza la prognosi.

L’adenocarcinoma endometroide di alto grado perde l’architettura ghiandolare, presenta nucleoli


prominenti, elevata attività mitotica e necrosi centrale. Caratteristica delle forme di alto grado è l’invasione
degli spazi linfo-vascolari, in cui sono presenti emboli di carcinoma endometriale.

Il carcinoma endometroide può infiltrare il miometrio: se l’infiltrazione è limitata alla metà interna del
miometrio, quindi se interessa meno del 50% del miometrio, è detta M1, mentre se interessa più della
metà del miometrio è detta M2.
La distinzione tra M1 e M2 è importante perché correla con la possibilità di trovare metastasi linfonodali a
livello pelvico: un’infiltrazione M2 è un importante fattore prognostico di metastasi linfonodali,
indipendente da altri campi istologici.

Il grading dell’adenocarcinoma endometroide distingue forme di basso grado (in passato G1 e G2) e forme
di alto grado (in passato G3); per tutti gli altri carcinomi endometriali non esiste un grading, dal momento
che sono per definizione forme di alto grado, biologicamente aggressive.

Carcinoma sieroso

Rappresenta il 10-15% dei carcinomi endometriali, quindi è il secondo istotipo per frequenza.
La denominazione “sieroso” indica la somiglianza dell’epitelio neoplastico con l’epitelio tubarico.
È responsabile del 40% delle morti per cancro dell’endometrio. Insorge tipicamente in donne in post-
menopausa con età maggiore rispetto a quelle colpite dall’istotipo endometroide (> 60 anni).

429
Può rimanere a lungo completamente asintomatico, o al massimo causare sanguinamento anomalo,
pertanto nel 40-50% dei casi la diagnosi è posta in fase avanzata, quando la neoplasia presenta già
localizzazione extra-uterina (linfonodi, omento e peritoneo sono le sedi più colpite).

Patogenesi
A differenza dell’endometroide, associato a iper-estrogenismo, il carcinoma sieroso non è estrogeno-
dipendente ed insorge in un contesto di endometrio inattivo.
Vi è un’associazione con il carcinoma mammario e ciò può essere dovuto ad una condizione eredo-
familiare predisponente, ancora oggetto di studio, o all’aumentato rischio conferito dall’uso del
Tamoxifene, usato nel trattamento del carcinoma mammario ER+. Alcune evidenze indicano una
associazione con le mutazioni somatiche e germinali di BRCA1 e BRCA2.
Dal punto di vista molecolare è associato a mutazione di TP53.
Il precursore del carcinoma sieroso è il carcinoma sieroso intraepiteliale, SEIC.
Fattori di rischio sono l’obesità e l’esposizione a radiazioni a livello pelvico.
Un dato piuttosto nuovo è la correlazione con l’amplificazione di HER2

Macroscopicamente presenta un aspetto piuttosto variabile, ma tipicamente nasce e cresce nel contesto di
polipi endometriali glandulo-cistici atrofici. Alcuni carcinomi sierosi crescono in formazioni polipoidi,
mentre altri non formano alcuna massa, quindi sono difficili da identificare macroscopicamente.
In alcuni casi l’invasione del miometrio, il coinvolgimento della cervice e degli annessi è già evidente
macroscopicamente, mentre in altri casi la presenza della neoplasia, soprattutto se insorge in un utero
atrofico, è visibile solo al microscopio.

Dal punto di vista morfologico il carcinoma sieroso cresce principalmente in papille e micro-papille e risulta
caratterizzato da un marcato pleomorfismo nucleare; i nucleoli sono molto prominenti e l’attività
mitotica è elevata. Per morfologia e biologia risulta simile al carcinoma sieroso di alto grado tubulo-
ovarico. Tipicamente si riscontra un background di endometrio atrofico, ovvero inattivo, o di polipo
endometriale glandulo-cistico.
La morfologia tipica delle cellule è detta hobnail, ovvero a testa di chiodo: le cellule tendono a sfaldarsi
all’interno dello pseudo-lume ghiandolare e a diffondere, pur non infiltrando; talvolta, pur senza una
evidente infiltrazione del miometrio si può avere una escoriazione e diffusione attraverso le tube.

Carcinoma a cellule chiare

Istotipo più raro che si ritrova anche nel carcinoma dell’ovaio. Il nome deriva
dalla presenza di cellule con citoplasma chiaro, molto ricco di glicogeno. Per
definizione è una neoplasia di alto grado.
L’architettura può essere molto variegata:
- Papillare, con papille caratterizzata da un cuore ialino, formato da
materiale eosinofilo
- Tubulo-cistica, con ghiandole e cisti confluenti
- Solida
A fronte dell’atipia, le cellule tendono ad essere monomorfe, ovvero una uguale
all’altra, e il nucleolo è spesso prominente.

430
Carcinoma indifferenziato e dedifferenziato

Il carcinoma indifferenziato fa
parte di un gruppo di neoplasie
maligne che hanno perso una
evidente differenziazione, mentre
il carcinoma dedifferenziato è
composto da una componente di
adenocarcinoma di basso grado
associata ad una componente
indifferenziata. Nel carcinoma
dedifferenziato si hanno quindi
aree simili al carcinoma endometroide e aree simili a sarcoma, melanoma o linfoma.
Si tratta di tumori sensibili ai trattamenti chemioterapici, me tendono a recidivare.

Carcinosarcoma

Istotipo raro e aggressivo, definito come neoplasia bifasica: presenta una


componente carcinomatosa e una sarcomatosa; si tratta di un carcinoma che
durante la sua evoluzione va incontro a transizione epitelio-mesenchima.
Macroscopicamente si presenta come una formazione polipoide che affiora
nella cavità endometriale.
Nel 45% dei casi è allo stadio III o IV già alla diagnosi. Esiste una associazione con
l’uso di Tamoxifene e nel 90% dei casi è caratterizzato dalla mutazione di TP53.

Grado del carcinoma dell’endometrio

Attualmente si parla di basso e alto grado per l’adenocarcinoma endometroide,


mentre carcinoma sieroso, carcinoma a cellule chiare, carcinoma indifferenziato,
carcinoma dedifferenziato e carcinosarcoma sono per definizione tutte neoplasie di alto grado.

Infiltrazione del miometrio

Un carcinoma limitato all’endometrio, senza infiltrazione del miometrio, è definito M0 o intramucoso.


Se il carcinoma infiltra meno del 50% della parete miometriale è detto M1, mentre se infiltra più del 50%
della parete miometriale è detto M2.
L’infiltrazione del miometrio è importante perché rappresenta un fattore prognostico indipendente di
metastasi linfonodali. L’infiltrazione miometriale può condizionare anche il tipo di intervento e la sua
valutazione può essere chiesta anche in estemporanea.

Infiltrazione del canale cervicale

Si tratta di un fattore prognostico: una neoplasia endometriale che infiltra il canale cervicale è una
neoplasia più avanzata.

Infiltrazione neoplastica linfovascolare

La presenza o meno di infiltrazione dei vasi linfatici può


influenzare il trattamento; ad esempio, la presenza di una
invasione neoplastica linfo-vascolare, focale o diffusa, può essere
un’indicazione al trattamento con radioterapia.

431
Invasione dei linfonodi

Nel caso del carcinoma endometriale la via linfatica di diffusione coinvolge prima i linfonodi pelvici e
successivamente i linfonodi lombo-aortici.
Attualmente, prima di procedere con linfadenectomia pelvica ed eventualmente lombo-aortica, si esegue la
valutazione del linfonodo sentinella; questo permette di evitare linfadenectomie non necessarie, infatti, la
linfadenectomia pelvica comporta conseguenze cliniche impattanti sulla qualità della vita, come edema
degli arti inferiori e conseguente difficoltà nella deambulazione.

Stadiazione

Per la stadiazione del carcinoma dell’endometrio si fa riferimento al sistema FIGO, Federation of


Gynecology and Obstetrics, che rappresenta l’indicatore prognostico per eccellenza e viene valutato,
insieme alle caratteristiche molecolari della neoplasia, per scegliere il trattamento più adeguato.
In base a stadiazione, istotipo, grado, profondità di invasione del miometrio e diffusione linfo-vascolare si
effettua una stratificazione del rischio che divide le pazienti in alto, medio e basso rischio, in riferimento
alla probabilità di recidiva.

Il rischio viene calcolato in sede pre-


operatoria, dopo visita ginecologica,
ecografia, isteroscopia e biopsia,
infatti, esso influenza la scelta del
trattamento di base (chirurgia,
trattamento conservativo,
isterectomia con o senza
linfadenectomia) e del trattamento
neo-adiuvante (radioterapia interna,
radioterapia esterna o chemioterapia).
Ovviamente più il rischio è elevato più
l’intervento chirurgico è demolitivo.

432
Classificazione clinico-patologica convenzionale del carcinoma endometriale

I carcinomi dell’endometrio sono storicamente


distinti in due gruppi patogenetici: carcinomi di
tipo 1 e carcinomi di tipo 2. Nel tipo 1 rientra il
carcinoma endometroide di basso grado, positivo
ai recettori ormonali e correlato ad
iperestrogenismo e obesità; si tratta quindi della
forma con prognosi migliore.
Nel tipo 2 rientrano invece i carcinomi non
endometroidi e i carcinomi di alto grado, privi di
recettori ormonali e non associati a
iperstrogenismo e obesità; il tipo 2 presenta quindi una prognosi peggiore, con un elevato rischio di
metastatizzazione.

Patogenesi dei carcinomi di tipo 1


Lo stimolo estrogenico determina proliferazione dell’endometrio e iperplasia endometriale senza atipia,
che evolve poi in iperplasia endometriale atipica o neoplasia intraepiteliale endometroide, EIN, e infine in
adenocarcinoma endometriale di tipo endometroide.
Nel passaggio tra iperplasia endometriale non atipica e iperplasia endometriale atipica sono coinvolte
l’instabilità dei microsatelliti e le mutazioni di PTEN, MLH1 e KRAS; nell’evoluzione ad adenocarcinoma
endometroide intervengono poi altre mutazioni di geni oncosoppressori e oncogeni.
Nei carcinomi endometroidi le mutazioni determinano solitamente un aumento della trasduzione del
segnale della via di PI3K/AKT, con conseguente aumento dei geni estrogeni-dipendenti. Mutazioni tipiche
sono:
- Mutazioni attivanti PIK3CA, oncogene che codifica per la subunità catalitica di PI3K
- Mutazioni attivanti KRAS, che stimolano il segnale di PI3K/AKT
- Mutazioni inattivanti il gene ARID1A, regolatore della struttura della cromatina
Nei casi associati a sindrome di Lynch è comune il difetto a carico di geni del mismatch repair del DNA, che
determinano un rapido accumulo di mutazioni; queste mutazioni possono essere presenti anche in forme
sporadiche.

Patogenesi dei carcinomi di tipo 2


Queste forme interessano donne più anziane rispetto a quelle colpite dai carcinomi di tipo 1.
I carcinomi di tipo 2 si sviluppano in un contesto di atrofia endometriale e sono per definizione scarsamente
differenziati. L’istotipo più comune di questo gruppo è il carcinoma sieroso.
Fondamentale nella patogenesi di questi tumori pare la mutazione di TP53, che determina l’insorgenza di
carcinoma sieroso intra-epiteliale, il
quale evolve poi in carcinoma
sieroso. Altre mutazioni coinvolte
sono quelle di PI3K e PP2A.

433
Carcinomi di tipo 1 e di tipo 2 possono concettualmente evolvere nella medesima tipologia tumorale:

Rivoluzione TCGA

Il modello dualistico risulta molto utile per il clinico, ma è semplicistico, insufficiente a spiegare la
complessità molecolare delle neoplasie e non efficace dal punto di vista terapeutico.
Nel 2006 nasce il programma TCGA, The Cancer Genome Atlas, che ha come obbiettivo la caratterizzazione
molecolare dei tumori solidi, ovvero mutazioni, metilazioni, DNA codificanti, ecc. caratteristici dei singoli
tumori. Grazie a questa caratterizzazione è possibile individuare target molecolari utilizzabili per terapie
mirate, quindi terapie più efficaci e meglio tollerate, rivoluzionare la classificazione dei tumori e ampliare
le conoscenze sulle basi molecolari dell’insorgenza dei tumori.

La classificazione TCGA, per quanto riguarda il carcinoma


dell’endometrio, distingue almeno 4 sottotipi tumorali, con
profili molecolari e prognosi differenti:
- Carcinomi ultramutati, POLE [pol-i]
- Carcinomi ipermutati
- Carcinomi con mutazione di TP53
- Carcinomi senza mutazione specifica
I carcinomi POLE sono quelli a prognosi migliore, mentre i
carcinomi con mutazione di TP53 sono quelli più aggressivi.
L’attuale classificazione dei tumori si basa quindi
sull’istopatologia e sulla biologia molecolare.

Carcinomi ultramutati – POLE


Sono caratterizzati da mutazioni del dominio esonucleasico di POLE, che rappresenta la subunità ε della
DNA-polimerasi coinvolta nel processo di replicazione del genoma.
Questa mutazione determina un incremento degli errori replicativi e un accumulo progressivo di
mutazioni; le mutazioni accumulatesi sono talmente tante da risultare svantaggiose per il tumore stesso,
fino a bloccarne la replicazione.
Inoltre, in questi tumori si assiste alla formazione di antigeni attivamente riconosciuti dal sistema
immunitario dell’ospite: si ha la formazione di un infiltrato infiammatorio intra-tumorale di
contenimento, che, insieme alle mutazioni svantaggiose, porta al blocco della progressione tumorale.
Questi tumori sono quindi istologicamente di alto grado, ma presentano una prognosi ottima, con una
sopravvivenza a 5 anni > 95%. Pur essendo istologicamente di alto grado, infatti, non progrediscono e

434
divengono atrofici. Questo implica che pazienti che dovrebbero essere trattate con approccio chemio-
radioterapico vengano escluse da questa terapia, con conseguente netto impatto sulla qualità della vita.
Fenotipi tipici di questo gruppo sono l’adenocarcinoma di alto grado, il carcinoma sieroso, il carcinoma a
cellule chiare, il carcinoma indifferenziato/dedifferenziato e il carcinosarcoma (frequenza del 9-22%, quindi
non è una condizione comune).

Carcinomi ipermutati
Sono carcinomi associati ad instabilità dei microsatelliti, quindi accumulano un elevato numero di
mutazioni. Le mutazioni possono colpire geni coinvolti del sistema di riparazione della replicazione
cellulare, come MHL1, PMS2, MSH2, MSH6, mutazioni rilevabili con immunoistochimica.
In casi particolari l’instabilità dei microsatelliti ha origine somatica, ma in molti casi si associata alla
sindrome di Lynch, condizione autosomica dominante.
Dal punto di vista istologico si tratta di carcinomi endometrioidi di grado variabile con aspetti eterogenei
associati ad infiltrato linfocitario intra e peri tumorale. Hanno prognosi intermedia.

Carcinomi p53-mutati
Si tratta di carcinomi di alto grado, spesso di istotipo sieroso, carcinosarcomatoso e differenziati.
Sono associati a prognosi peggiore, sia per l’aggressività biologica sia per l’alto rischio di recidiva locale e
metastasi a distanza.

Carcinomi senza mutazione specifica


Tendenzialmente corrispondono a carcinomi endometriali di basso grado; presentano recettori per
estrogeni e progesterone e hanno prognosi intermedia o favorevole.

Test diagnostici

Le metodiche TCGA sono molto costose e non sempre applicabili alla pratica clinica; dunque, per poter
integrare la classificazione convenzionale a quella molecolare, è stato necessario mettere a punto metodi
diagnostici pragmatici surrogati della TCGA, grazie all’utilizzo di tecniche di sequenziamento di Sanger o
della Next Generation sequencing.
Per identificare i carcinomi POLE si può ricorrere al sequenziamento di Sanger o alla NGS in modo da
ricercare la catena ε della DNA-polimerasi coinvolta nel processo di replicazione del genoma. Mentre il
sequenziamento di Sanger permette di ricerca una mutazione alla volta, la NGS permette di valutare più
mutazioni contemporaneamente e su più geni.
Per la valutazione dei carcinomi ipermutati si ricorre all’immunoistochimica, che controlla l’espressione
delle proteine dell’MMR (si tratta in realtà dello screening per la sindrome di Lynch).
Anche per i carcinomi associati a mutazione di p53 di procede con analisi immunoistochimica, che
evidenzia l’iper-espressione o la completa perdita di funzionalità della proteina, mentre nei carcinomi
senza mutazioni specifiche si procede con diagnosi per esclusione.

Eterogeneità intratumorale

L’eterogeneità è una caratteristica di molti


tumori ed è molto frequente nei carcinomi
endometriali: all’interno dello stesso tumore si
possono trovare cellule con profili molecolari
differenti, aspetto estremamente negativo. Ad
esempio, nell’immagine a lato, si osserva a
sinistra un carcinoma con iper-espressione di
p53 e a destra un carcinoma senza mutazione di
p53. La conoscenza dell’eterogeneità tumorale è
importante dal punto di vista terapeutico.

435
Stratificazione molecolare del rischio

Sulla base delle caratteristiche molecolari è


possibile eseguire una stratificazione del rischio
che consente di decidere la terapia più
adeguata. Ad esempio in caso di carcinoma
ipermutato è consigliata una immunoterapia
specifica associata a counseling ereditario,
mentre nel caso di mutazione di p53 è indicato
il trattamento chirurgico associato a chemio- e
radio- terapia.

TUMORI MESENCHIMALI DELL’UTERO –


Dispensa

La classificazione WHO del 2020 distingue le


lesioni mesenchimali dell’utero in:
- Tumori che originano dal tessuto
muscolare liscio
- Tumori che originano dallo stroma in
associazione alle ghiandole endometriali
- Tumori misti epiteliali e mesenchimali

TUMORI A CELLULE MUSCOLARI LISCE – Dispensa

Questi tumori originano dal miometrio.

Leiomioma

Il leiomioma, detto anche fibroma, è un tumore benigno della muscolatura lisca dell’utero.
Dal punto di vista molecolare si hanno forme a cariotipo normale e forme con anomalie cromosomiche, che
interessano geni implicati nella regolazione della struttura della cromatina.
I leiomiomi sono solitamente asintomatici, ma in alcuni casi possono determinare menorragia, dolore
pelvico e sintomi compressivi, a causa delle dimensioni cospicue che possono raggiungere e alla posizione.
Tali neoplasie benigne sono solitamente diagnosticate intorno ai 50 anni, soprattutto in donne che fanno
uso di progestinici. Le pazienti con leiomiomatosi ereditaria e carcinoma a cellule renali presentano
leiomiomi uterini sintomatici e leiomiomi cutanei, intorno alla seconda o terza decade di vita. La diagnosi è
poi confermata ecograficamente.
Varianti benigne dei leiomiomi comprendono tumori atipici o bizzarri, con atipia nucleare e cellule giganti, e
i leiomiomi cellulari; entrambe le forme hanno un basso indice mitotico, caratteristica che aiuta a
distinguerli dai leiomiosarcomi. Una variante rara è il leiomioma metastatizzante benigno, che si estende
nei vasi e migra in sedi extra-uterine, solitamente i polmoni, per via ematogena. La leiomiomatosi
peritoneale disseminata si presenta con noduli multipli nel peritoneo.

I leiomiomi sono lesioni singole o multiple, di dimensioni variabili, ma solitamente ben circoscritte.
Tipicamente hanno aspetto grigio-biancastro e fascicolato e una consistenza testo-elastica, ovvero
rispondente alla compressione.

In base alla localizzazione i leiomiomi si distinguono in:


- Sottomucosi → sporgono nell’endometrio, possono essere associati a menorragia
- Intramurali → crescono all’interno del miometrio e possono sovvertire l’architettura dell’utero

436
- Sotto-sierosi → originano perifericamente nel
miometrio e sono ricoperti dalla sierosa dell’utero;
alcuni sono peduncolati e in questo caso il peduncolo
si può rompere e determinare il distacco del
leiomioma, che arriva quindi in cavità peritoneale

Microscopicamente i leiomiomi presentano margini per definiti


e cellule fusate disposte in fasci o vortici che si intersecano. Le
cellule presentano bordi indistinti, citoplasma fibrillare
eosinofilo e nuclei a forma di sigaro; i nucleoli sono piccoli e le mitosi rare. I leiomiomi non trattati (o
comunque non asportati) mostrano anche delle modificazioni legate a vari fenomeni degenerativi in senso
di senescenza. Possono dunque assumere un aspetto ialino, legato alla diminuzione della componente
cellulare e all’aumento di quella extracellulare con accumulo di materiale ialino, o possono andare incontro
a calcificazione. Possono inoltre assumere aspetto mucoide o aspetto cistico. Nella donna giovane, invece,
il leiomioma può andare incontro ad una degenerazione definita “rossa” in quanto al taglio assume un
colore rosso che corrisponde ad un aspetto ischemico infartuale del leiomioma stesso. Spesso tale
degenerazione è correlata all’uso di contraccettivi orali che possono servire come terapia nella riduzione
dei leiomiomi stessi oppure è stata osservata in gravidanza. La presenza della degenerazione rossa non è
pertanto un carattere di malignità. I leiomiomi non evolvono in leiomiosarcomi.

Leiomiosarcoma

Il leiomiosarcoma uterino è un tumore mesenchimale maligno di derivazione della muscolatura liscia del
miometrio che presenta una morfologia a cellule fusate, epitelioide o mixoide.
La maggior parte origina nel corpo dell’utero (solo il 5% interessa il collo uterino) e possono essere
intramurali, sottomucosi o sottosierosi.
Clinicamente provocano sanguinamento vaginale, comparsa di massa pelvica, dolore pelvico, dolore
addominale e sintomi compressivi; essendo altamente proliferativi possono rompersi in peritoneo e
determinare emoperitoneo. In seguito a diffusione regionale possono portare a sintomi gastro-intestinali o
del tratto urinario. Alla diagnosi sono spesso già metastatici, soprattutto con metastasi polmonari che
provocano dispnea.
Rappresentano l’1-2% dei tumori maligni uterini e sono i più comuni tra i sarcomi uterini; interessano
soprattutto donne tra i 40 e i 60 anni.
Si presentano come massa singola di consistenza elastica e aspetto carnoso, con un diametro medio di 10
cm. Spesso sono presenti aree necrotiche ed emorragiche. Le varianti mixoidi possono avere consistenza
gelatinosa e friabile.

Istologicamente il leiomiosarcoma può presentarsi con vari aspetti morfologici, i più comuni sono:
- Morfologia a cellule fusate
- Morfologia a cellule epitelioidi
- Morfologia a cellule mixoidi, che presentano aspetto mucoso ricco di polisaccaridi

437
Si distinguono il leiomiosarcoma convenzionale e il leiomiosarcoma a cellule fusate, costituito da cellule
simili a quelle miometriali.
La diagnosi di leiomiosarcoma richiede almeno due delle seguenti
caratteristiche istologiche:
- Atipia cellulare marcata: pleiomorfismo e aberrazioni
nucleari; sono frequenti cellule multinucleate
- Elevato numero di mitosi (più di 10 mitosi in 10 campi 40x)
- Necrosi tumorale, che tipicamente è a carta geografica.
La necrosi può essere infartuale, legata ad alterazioni
vascolari, o tumorale, legata all’elevata attività proliferativa
del tumore.
I leiomiosarcomi presentano margini infiltrativi. I leiomiosarcomi
possono presentare vacuolizzazione e formare vasi, quindi possono mimare altre neoplasie, come
l’angiosarcoma.
Tra i marker immunoistochimici, utili nelle forme indifferenziate, si trovano: Desmina, Caldesmone, Actina
muscolo liscio, Recettori per estrogeni e progesterone, Mutazioni di p53.

La variante mixoide è caratterizzata dalla presenza di materiale chiarificato


all’interno delle cellule, che risultano poche, e da un abbondante stroma
mixoide (immagine a lato). La diagnosi di leiomiosarcoma mixoide ha criteri
diversi: l’atipia citologica è minore, la necrosi può essere assente e basta una
mitosi ogni 10 campi a grande ingrandimento.
Nella dispensa viene sottolineato che la professoressa invita a dubitare di un
referto in cui si ha la diagnosi di leiomioma benigno con morfologia mixoide
perché probabilmente si tratta di una diagnosi errata e in realtà la lesione è un
leiomiosarcoma, dal momento che la malignità è intrinseca nella componente
mixoide.

La variante epitelioide presenta come criteri diagnostici:


- Complessa atipia cellulare che può variare da moderata a grave
- Necrosi non sempre evidente
- Numero di mitosi maggiore o uguale a 4 su 10 campi ad alto
ingrandimento
Le cellule sono rotonde o poligonali e presentano citoplasma eosinofilo e
nucleolo evidente; le cellule si dispongono in cordoni e nidi o presentano
crescita diffusa.

La prognosi, a prescindere dall’istotipo, è sfavorevole, anche quando le lesioni


sono limitate all’utero. Lesioni mesenchimali maligne, oltre lo stadio II, non rispondono né a chemioterapia
né a radioterapia sono dunque forme resistenti a terapie convenzionali adiuvanti. È fondamentale in questi
casi una buona chirurgia ed una diagnosi precoce.

STUMP – uterine Smooth-muscle Tumors of Uncertain Malignant Potential


I tumori muscolari lisci di potenziale maligno incerto (STUMP) mostrano caratteristiche morfologiche
insufficienti per una diagnosi di leiomiosarcoma e si comportano in modo maligno solo in una minoranza di
casi. Questi tumori muscolari originano sempre da cellule muscolari del miometrio ma mostrano
caratteristiche morfologiche intermedie tra leiomioma e leiomiosarcoma.
Hanno buona prognosi anche se sono neoplasie che recidivano dopo dieci anni dalla diagnosi.
La diagnosi richiede almeno un criterio tra: mitosi atipiche, atipie cellulari, margini infiltrativi, diffusione
intravascolare. Tra leiomioma, STUMP e leiomiosarcoma non vi è evoluzione di una forma nell’altra.

438
TUMORI DELLO STROMA ENDOMETRIALE – Dispensa

Si tratta di neoplasie, benigne o maligne, che originano dallo stroma endometriale; sono tumori complessi
classificati in base alle alterazioni molecolari che le sottendono.

Nodulo stromale endometriale

È un tumore stromale benigno che può testare preoccupazione nel patologo quando è molto cellulato,
blu o costituito da cellule stromali che ricordano lo stroma endometriale in fase proliferativa, quindi sotto
lo stimolo estrogenico. Essendo una lesione ben confinata la terapia è escissionale.

Sarcoma stromale endometriale di basso grado

Il sarcoma stromale endometriale di basso grado è un tumore mesenchimale maligno costituito da cellule
che ricordano lo stroma endometriale in fase proliferativa ma che mostra una crescita infiltrativa
(permeativa) verso il miometrio con o senza invasione linfovascolare.
Clinicamente si presenta con: perdite ematiche anomale, dolore pelvico, sensazione di peso addominale e
presenta di una massa uterina. Può essere metastatico alla diagnosi, con metastasi linfonodali o
polmonari.
L’età media delle pazienti colpite è 52 anni, ma può interessare donne dai 18 agli 83 anni. I fattori di rischio
includono l’assunzione prolungata di estrogeni o tamoxifene e l’irradiazione pelvica.
Come molti sarcomi, quelli stromali sono associati a traslocazioni cromosomiche che creano geni di
fusione.
il sarcoma dello stroma endometriale è costituito da noduli intracavitari o intramurali o polipoidi, mal
definiti, coalescenti, di colore giallastro e dimensioni comprese tra 5-10 cm, tipicamente associati ad
infiltrazione miometriale evidente.
Inoltre, in seguito al taglio, è possibile riscontrare trombi vascolari macroscopicamente evidenti, poiché si
tratta di neoplasie con alta tendenza ad invadere i vasi sanguigni.

Microscopicamente si hanno isole cellulari tumorali costituite da


cellule fusate simili allo stroma endometriale, con crescita
diffusa. Hanno un pattern di crescita infiltrativa che tende a
dissecare le fibre muscolari del miometrio e con il medesimo
pattern crescono all’interno dei vasi.
Le cellule, la cui atipia è minima o assente, crescono con pattern
vorticoide intorno a delle arteriole; il citoplasma delle cellule è
scarso e l’attività mitotica bassa.
Gli stadi 1 e 2 presentano un tasso di sopravvivenza a 5 anni del
90%, che cala al 50% per gli stadi 3 e 4.
Nell’immagine in basso a sinistra si vede il pattern di crescita permeativo, mentre nell’immagine in basso a
destra gli emboli vascolari.

439
Sarcoma stromale endometriale di alto grado

Hanno morfologia di alto grado e sono classificati in base al numero di fusioni geniche, complesse ed
eterogenee, che presentano.
Macroscopicamente si presentano come masse carnose giallastre, spesso voluminose, con aree
emorragiche, gelatinose e necrotiche.
Dal punto di vista microscopico presentano:
- Crescita permeativa, infiltrativa ed espansiva
- Invasione vascolare e linfo-vascolare
- Elevata attività mitotica
- Necrosi
- Atipia cellulare
I tumori con fusione YWHAE-NUTM2A/B mostrano cellule rotonde con citoplasma eosinofilo e nuclei di alto
grado con contorni nucleari irregolari, cromatina vescicolare, e nucleoli variabilmente distinti.
La prognosi è peggiore rispetto ai sarcomi stromali di basso grado, me la terapia a base di antracicline può
essere utile nelle pazienti con sarcomi ricorrenti YWHAE-NUTM2A/B.

Tutti i sarcomi uterini, sia i sarcomi stromali che i


leiomiosarcomi, vengono stadiati con la stadiazione FIGO:

ENDOMETRIOSI E ADENOMIOSI

L’endometriosi è definita dalla presenza di tessuto endometriale ectopico, in una sede fuori dall’utero. Il
tessuto ectopico solitamente comprende sia ghiandole che stroma endometriale, ma può essere formato
anche da solo stroma. In ordine di frequenza decrescente le sedi interessate sono: ovaie, legamenti uterini,
setto rettovaginale, cavo di Douglas, peritoneo pelvico, intestino e appendice, mucosa di cervice, vagina e
tube di Falloppio, cicatrici laparatomiche.
L’endometriosi causa spesso infertilità, dismenorrea, dolore pelvico e altri problemi, come sintomi
intestinali. Colpisce il 6-10% delle donne, soprattutto tra i 30 e i 40 anni.

Le principali teorie patogenetiche sono:


- Teoria del rigurgito → il tessuto endometriale si instaura in sedi ectopiche tramite il flusso
retrogrado dall’endometrio mestruale. Questa teoria però non spiega i casi di endometriosi nelle
donne amenorroiche, i casi di endometriosi nei maschi, l’endometriosi in sedi distanti, come il
cervello e i polmoni, e il perché l’incidenza dell’endometriosi sia nettamente minore rispetto al
fenomeno delle mestruazioni retrograde, che interessa anche donne sane.
- Teoria delle metastasi benigne → il tessuto endometriale può diffondersi dall’utero a siti distanti
tramite vasi sanguigni e linfatici
- Teoria metaplasica → i residui mesonefrici possono subire una differenziazione in senso
endometriale e dare origine a tessuto endometriale ectopico
- Teoria delle staminali extrauterine → cellule progenitrici/staminali del midollo osseo si
differenziano in senso endometriale

440
Il tessuto endometriale ectopico presenta tipicamente il rilascio di fattori pro-infiammatori, una
aumentata produzione di estrogeni, grazie all’elevata espressione della aromatasi, e alterazioni
epigenetiche che aumentano la sensibilità agli estrogeni. Seppur raramente, l’endometriosi si associa allo
sviluppo di neoplasie maligne.

L’adenomiosi è invece definita come la presenza di tessuto endometriale all’interno del miometrio.

Le lesioni endometriosiche sanguinano periodicamente in risposta alla stimolazione ciclica ovarica e


intrinseca. Quando le lesioni sono estese i coaguli possono portare alla formazione di aderenze fibrose.
L’endometriosi ovarica può portare alla deformazione delle ovaie per la presenza di grandi cisti, ripiene di
liquido marrone risultante dalle precedenti emorragie.
L’endometriosi atipica, il probabile precursore del carcinoma ovarico correlato all’endometriosi, è
caratterizzata da due aspetti morfologici. Uno di essi è l’atipia citologica dell’epitelio che riveste la cisti
endometriosica, in assenza di alterazioni architetturali di rilievo. Il secondo è rappresentato
dall’affollamento ghiandolare dovuto a eccessiva proliferazione epiteliale, spesso con associata atipia
citologica, che produce un aspetto simile all’iperplasia endometriale complessa atipica.

CICLO ANOVULATORIO – Dispensa

L’assenza di ovulazione è generalmente dovuta a:


- Lievi squilibri ormonali
- Disturbi endocrini, come malattie tiroidee, surrenaliche o ipofisarie
- Lesioni dell’ovaio, come tumori ovarici secernenti ed ovaio policistico
- Alterazioni metaboliche, come obesità, malnutrizione o malattie croniche sistemiche
La mancata ovulazione determina un’eccessiva stimolazione endometriale da parte degli estrogeni, non
contrastata dal progesterone. In queste situazioni, le ghiandole endometriali subiscono lievi variazioni
strutturali, inclusa la dilatazione cistica, che solitamente si risolvono grazie al successivo ciclo ovulatorio.
Tuttavia, ripetute anovulazioni possono portare a sanguinamento che, in alcune situazioni cliniche, può
indurre a eseguire una biopsia endometriale. In queste condizioni le biopsie rivelano condensazione
stromale e metaplasia epiteliale eosinofila simile a quelle riscontrate nell’endometrio mestruale. Tuttavia,
diversamente dall’endometrio mestruale, l’endometrio delle donne con cicli anovulatori non presenta le
caratteristiche morfologiche progesterone-dipendenti.

441
OVAIO

L’ovaio è costituito da due porzioni: la corticale ovarica, la porzione più esterna, e la midollare ovarica, più
interna.
La corticale ovarica è rivestita da un epitelio di superficie costituito da cellule cubiche di origine
mesoteliale: si parla di epitelio celomatico, che può andare incontro a metaplasia, dando vita ad un epitelio
sieroso ciliato o ad un epitelio mucoso o epitelioide. A livello di corticale ovarica si ha uno stroma
fibroblastico che ha la caratteristica di produrre ormoni steroidei; inoltre, nello stroma, sono presenti le
cellule germinali, ovvero gli oociti primari, circondati da un singolo strato di cellule follicolari appiattite: si
hanno i follicoli primordiali. Durante il ciclo ovarico le cellule follicolari possono proliferare e aumentare di
numero.
Dallo stroma si differenziano due strati contigui, la teca esterna e la teca interna. Durante la fase di
sviluppo follicolare le cellule della granulosa e della teca interna producono estrogeni, mentre nella
seconda parte del ciclo le cellule del corpo luteo producono soprattutto progesterone, ma anche estrogeni.
La midollare ovarica è costituita da vasi sanguigni e linfatici, fibre nervose e stroma connettivale; inoltre,
nella midollare, sono presenti cellule con caratteristiche simili alle cellule interstiziali di Leydig del
testicolo.

Classificazione dei tumori ovarici

I tumori ovarici vengono classificati in base alle cellule d’origine:


- Tumori epiteliali, che originano dall’epitelio ovarico e rappresentano il 65-70% dei tumori ovarici
- Tumori germinali, che originano dalle cellule germinali e rappresentano il 15-20% dei tumori ovarici
- Tumori dello stroma ovarico, detti anche sex-cord stromal tumor, che originano dallo stroma
ovarico e dai cordoni sessuali, rappresentando il 5-10% dei tumori ovarici
- Tumori che coinvolgono secondariamente l’ovaio, che rappresentano il 5% dei casi
I tumori ovarici si differenziano anche in base all’età di insorgenza:
- I tumori epiteliali possono insorgere a diverse età, ma solitamente si manifestano a partire dai 20
anni
- I tumori germinali interessano solitamente l’età pediatrica e i giovani adulti
- I tumori dello stroma ovarico possono manifestarsi a qualsiasi età, sebbene siano tipici del giovane
adulto
- Nei tumori che coinvolgono secondariamente l’ovaio l’età di insorgenza è estremamente variabile

Algoritmo diagnostico

In presenza di una massa annessiale, ovvero una massa che interessa salpinge e/o ovaio, si procede per
gradi:
1. È necessario identificare l’origine della massa e distinguere una lesione di origine ovarica da una
lesione originante dai tessuti periannessiali (lesione tubarica, ascesso pelvico, ecc.)
2. Se la lesione è di origine ovarica
si deve distinguere tra massa
funzionale, ad esempio cisti di un
follicolo, e lesione neoplastica
3. In caso di lesione neoplastica si
distingue ulteriormente tra
lesione benigna, maligna o
borderline
4. Infine, si procede classificando la
neoplasia ovarica in base
all’origine cellulare

442
Epidemiologia

L’80-90% dei tumori ovarici insorgenza tra i 20 e i 65 anni; i tumori ovarici sono generalmente rari in età
pediatrica, ad eccezione dei tumori di origine germinale. Il 15-20% è costituito da tumori maligni, spesso
diagnosticati in donne con più di 40 anni, ma nella maggior parte dei casi sono benigni, spesso diagnosticati
in donne con meno di 40 anni. I tumori borderline rappresentano circa il 5-10% dei casi.
Per quanto riguarda le neoplasie maligne dell’ovaio, l’incidenza risulta maggiore nei paesi occidentali,
mentre nei paesi africani e nel sud-est asiatico queste neoplasie sono piuttosto rare.
L’età della paziente è molto importante poiché guida l’inquadramento clinico-diagnostico:
- Età pediatrica → cisti funzionali o tumore a cellule germinali
- Post-menopausa → tumore ovarico, spesso maligno
- Età riproduttiva e peri-menopausale → masse funzionali o tumori benigni

Sintomatologia

Generalmente i tumori ovarici sono asintomatici, ma in alcuni casi causano sintomi:


- Sintomi endocrini → sono dovuti alla secrezione di estrogeni e androgeni da parte dei tumori
ovarici, pertanto si possono avere sintomi iperestrogenici, come pubertà precoce o sanguinamento
uterino anomalo, o sintomi iperandrogeni, più frequenti, come irsutismo e virilizzazione.
- Sintomi legati all’accrescimento della massa, come sazietà precoce, sensazione di pressione
vescicale o rettale, formazione di massa palpabile all’esame obiettivo
- Dolore acuto, spesso correlato al ciclo mestruale → il dolore può essere dovuto ad emorragia
dovuta a rottura di una cisti, emoperitoneo, torsione di una cisti o torsione dell’ovaio; la
sintomatologia dolorosa può mimare un’appendicite acute

Masse/cisti ovariche più frequenti

Le masse ovariche più frequenti sono le cisti funzionali, caratteristiche della donna fertile.
Le cisti follicolari derivano dalla dilatazione dei
follicoli ovarici e sono legate alle fase proliferativa del
ciclo; in base alla composizione cellulare è possibile
distinguere tra cisti luteinizzate e cisti non luteinizzate.
Macroscopicamente si presentano come una massa
che affiora dalla superficie ovarica, con superficie
esterna liscia e contenuto emorragico.
Microscopicamente presentano uno strato granuloso
in accrescimento.
Le cisti da corpo luteo sono legate alla fase
progestinica del ciclo e sono spesso emorragiche.
Microscopicamente sono costituite da epitelio con
cellule eosinofile luteinizzate, corrispondenti alle
cellule della teca.

OVAIO POLICISTICO E IPERTECOSI STROMALE – Dispensa

La sindrome dell’ovaio policistico è una complessa malattia autoimmune caratterizzata da


iperandrogenismo, anomalie mestruali, ovaio policistico, anovulazione cronica e ridotta fertilità. Colpisce
il 6-10% delle donne. È associata ad obesità, DMT2 e aterosclerosi prematura. Caratteristica chiave della
malattia è l’iperproduzione di androgeni; l’anomalia morfologica principale è rappresentata dalla presenza
di numerosi follicoli cistici che ingrandiscono le ovaie (le ovaie policistiche non si hanno in tutte le donne
affette).

443
L’ipertecosi stromale, chiamata anche iperplasia corticale stromale, è una patologia dello stroma ovarico
spesso osservata nelle donne in postmenopausa, ma che nelle donne più giovani può sovrapporsi alla PCOS.
La malattia è caratterizzata da un ingrossamento uniforme dell’ovaio (fino a 7 cm), con un aspetto al taglio
dal bianco al bruno. Il coinvolgimento è in genere bilaterale e microscopicamente si osservano stroma
ipercellulare e luteinizzazione delle cellule stromali, apprezzabili come nidi circoscritti di cellule con
citoplasma vacuolizzato. La presentazione clinica e gli effetti sull’endometrio sono simili a quelli provocati
dalla PCOS, sebbene possano manifestarsi segni di virilizzazione ancora più marcati.
L’iperplasia teco-luteinica della gravidanza è una condizione fisiologica che può simulare queste sindromi.

TUMORI EPITELIALI DELL’OVAIO

Sono i tumori ovarici più frequenti, rappresentandone il 65-70% dei casi, e in genere si manifestano a
partire dai 20 anni.
Per anni sono state avanzate ipotesi patogenetiche nel tentativo di spiegare come possano originare tumori
epiteliali da un organo privo di componente chiaramente epiteliale, infatti, l’ovaio è costituito da stroma
ricoperto da mesotelio. Attualmente per ogni istotipo di tumore ovarico si ha una ipotesi patogenetica
differente.
Fino a qualche anno fa si pensava che durante il normale processo di ovulazione l’epitelio celomatico, che è
un epitelio pluripotente, andasse incontro a fenomeni di metaplasia, acquisendo caratteristiche simile agli
epiteli di tuba o endometrio. Si riteneva che durante l’ovulazione, come conseguenza della rottura della
superficie dell’ovaio, avvenissero fenomeni di metaplasia e l’epitelio celomatico andasse incontro a
differenziazione tubarica, endometroide o mucinosa.
Attualmente si è visto che l’ipotesi metaplasica più spiegare solo alcuni tipi di carcinoma ovarico.

In generale, quando si parla di tumori epiteliali ovarici si fa riferimento a tumori con epitelio mulleriano,
epitelio costituente i dotti di Muller, ovvero un abbozzo embrionale autonomo originante dal dotto
mesonefrico, dal quale derivano i genitali femminili.
L’epitelio mulleriano può ricordare:
- Epitelio della salpinge, con cellule ciliate e cellule secretorie → endosalpingiosi
- Endometrio → endometriosi
- Endocervice uterina → endocervicosi

I tumori epiteliali ovarici possono essere classificati in base al tipo di epitelio che presentano:
- Istotipo sieroso → l’epitelio tumorale ricorda l’epitelio tubarico, costituito da cellule ciliate e cellule
secretorie
- Istotipo endrometroide → l’epitelio tumorale ricorda le ghiandole endometriali, con cellule
cilindriche e regolari
- Istotipo a cellule chiare → epitelio costituito da cellule con citoplasma chiaro, ricco di glicogeno
- Istotipo mucinoso (intestinale/endocervicale) → le cellule presentano abbondante muco di tipo
gastro-
intestinale o
liquido cervicale
- Istotipo
transizionale →
si ha epitelio di
transizione,
tipicamente
urotelio

444
In base al comportamento clinico i tumori epiteliali ovarici vengono classificati in tumori benigni, tumori
borderline e tumori maligni (carcinomi), pertanto avremo:
- Tumori sierosi
o Benigni: cistoadenoma e adenofibroma sieroso
o Borderline: tumore sieroso borderline
o Maligni: carcinoma sieroso maligno di basso grado e di alto grado
- Tumori endometroidi
o Benigni: cistoadenoma e adenofibroma endometroide
o Borderline: tumore endometroide borderline
o Maligni: carcinoma endometroide
- Tumori a cellule chiare
o Benigni: cistoadenoma e adenofibroma a cellule chiare
o Borderline: tumore a cellule chiare borderline
o Maligni: carcinoma a cellule chiare
- Tumori mucinosi
o Benigni: cistoadenoma e adenofibroma mucinoso
o Borderline: tumore mucinoso borderline
o Maligni: carcinoma mucinoso
- Tumore transizionali o di Brenner
o Benigni: tumore di Brenner
o Borderline: tumore di Brenner borderline
o Maligni: tumore di Brenner maligno

I tumori epiteliali ovarici sono neoplasie eterogene, con comportamento clinico e biologica molto differenti
tra loro. Considerando il fatto che l’ovaio non presenta una vera e propria componente epitelioide, si è
ipotizzato che molti dei tumori epiteliali ovarici in realtà insorgano in un’altra sede ed interessino
secondariamente l’ovaio: ad esempio, si è visto che l’80% dei casi di carcinoma sieroso deriva in realtà dalla
fimbria tubarica e che molti casi di carcinoma endometroide insorgono nel contesto ci cisti
endometriosiche.

Per queste neoplasie non esiste ancora un programma di screening efficace, ma si sta cercando di
identificare marcatori sierici utili nella diagnosi precoce. La diagnosi precoce in queste neoplasie è molto
importante, dal momento che spesso si tratta di tumori che rimangono asintomatici fino a che non
raggiungono uno stadio avanzato.
La maggior parte dei tumori ovarici è sporadica e tra i fattori di rischio si hanno:
- Nulliparità e infertilità
- Gravidanza tardive (prima gravidanza in età > 35 anni)
- Età
- Etnia
- Obesità
- Esposizione al talco
- Terapia ormonale sostitutiva a base di estrogeni
- Pregresso tumore mammario, endometriale o colico
- Storia familiare positiva per carcinoma dell’ovaio
Nel 10% dei casi si riscontrano invece pattern familiari o ereditari:
- Sindrome familiare del carcinoma mammario ed ovarico, BOCS
- Sindrome specifica del carcinoma ovarico familiare, SSOCS
- Sindrome ereditaria del carcinoma colico non polipoide di tipo II, HNPCC
Sia BOCS che SSOCS sono causate da mutazioni ereditarie dei geni BRCA1 e BRCA2; le donne con questa
mutazione presentano un rischio di carcinoma ovarico del 20-60%, contro l’1,8% della popolazione
generale.

445
Tumori benigni

I tumori epiteliali benigni si presentano spesso come cisti ovariche uniloculari semplici o con pochi setti.
Solitamente queste lesioni sono unilaterali e con citologia benigna, quindi l’escissione chirurgica è curativa.

Tumori epiteliali benigni sierosi


Il cistoadenoma si presenta macroscopicamente con cisti semplici, con
superficie interna ed esterna lisce; microscopicamente il rivestimento
epiteliale è costituito da cellule cuboidali o colonnari non stratificate,
simili a cellule secretorie o ciliate tubariche.
Gli adenofibromi sierici sono composti da piccole ghiandole (papille) e
cisti in prominente stroma fibromatoso; si possono avere casi intermedi
tra cistoadenomi e adenofibromi.

Tumori epiteliali benigni endometrioidi


Il cistoadenoma e l’adenofibroma endometroidi sono tumori epiteliali
benigni che presentano differenziazione endometroide; macroscopicamente
i cistoadenomi sono solitamente cisti uniloculari, mentre gli adenofibromi
sono solidi, con superficie bianca e talvolta piccole cisti.
Microscopicamente i cistoadenomi endometrioidi sono cisti rivestite da
epitelio endometrioide senza stroma di tipo endometriale sottostante. Gli
adenofibromi endometrioidi sono caratterizzati da uno stroma fibromatoso
contenente ghiandole endometrioidi e in taluni casi possono avere
differenziazione squamosa (morule). Entrambi sono spesso associati
all’endometriosi.

Tumori epiteliali benigni mucinosi


Presentano epitelio mucinoso di tipo grastro-intestinale o
mulleriano endocervicale. Possono essere associati a cisti
dermoidi, e ciò suggeristiche l’origine da cellule germinali, o a
tumori di Brenner.
I cistoadenomi mucinosi possono raggiungere dimensioni
cospicue, anche > 30 cm, mentre gli adenofibromi sono di
dimensioni minori e solitamente solidi, punteggiati da piccole
cisti.
Da un punto di vista istologico i cistoadenomi mucinosi sono
composti da cisti multiple e ghiandole rivestite da epitelio
mucinoso semplice non stratificato di tipo Mülleriano, di tipo foveolare gastrico, o epitelio intestinale. I
nuclei sono piccoli e situati basalmente senza atipia citologica, con attività mitotica assente o minima.

Tumori epiteliali benigni transizionali


Trattasi di un tumore costituito da piccoli nidi ovali e irregolari di
epitelio transizionale/uroteliale in uno stroma fibromatoso denso.
Possono essere associati a neoplasie mucinose, di norma ad un
cistadenoma.
L’eziologia di questi tumori non è ben compresa in quanto alcuni
possono derivare dai resti di Walthard, dunque nidi di epitelio di
transizione metaplastico nel tessuto paratubarico.
Macroscopicamente si presentano come solidi di colore bianco-
grigiastro o giallo.

446
Tumori borderline

I tumori borderline sono solitamente bilaterali e


possono crescere all’interno di cisti ovariche (crescita
endocistica; immagine a lato a sinistra) o sulla
superficie ovarica, creando escrescenze papillari
(crescita esocistica; immagine a lato a destra).
Si tratta di tumori con comportamento biologico
indolente e solo una piccola parte di essi, se non
trattata, va incontro a trasformazione maligna.
Presentano caratteristiche istologiche e citologiche intermedie tra quelle dei tumori benigni e quelle dei
tumori maligni: il loro epitelio viene definito atipico poiché non presenta caratteristiche benigne, ma non
arriva mai ad una atipia severa come quella dei carcinomi.
Per definizione non sono infiltranti, quindi vengono trattati con escissione chirurgica, non con
chemioterapia.

Tumori borderline sierosi


È l’istotipo più frequente tra i tumori borderline e rappresenta
una neoplasia epiteliale sierosa non invasiva di basso grado.
L’età media di insorgenza è 50 anni, ma possono interessare
anche pazienti più giovani.
sono costituiti da papille arborescenti con ramificazioni
gerarchiche e ricoperte da un epitelio costituito da cellule che
ricordano le cellule della salpinge. Possono essere presenti ciglia
o snouts. L’attività proliferativa è presente, ma molto bassa: le
mitosi sono rare e i nucleoli piccoli.
Le cellule epiteliali possono essere colonnari, poligonali o rotonde con citoplasma eosinofilo da moderato ad
abbondante. Lo stroma è fibroso ed edematoso. Per definizione non è infiltrante, ma a volte può essere
presente invasione stromale < 5 mm: tumore borderline microinvasivo. Comuni sono le mutazioni di KRAS e
BRAF.
Una peculiarità di questo tumore è quella di andare incontro ad escoriazione: singole cellule si distaccano
dal tumore e cadono nel peritoneo, se il tumore presenta crescita esofitica sulla parete dell’ovaio. Il
peritoneo può quindi presentare impianti di cellule derivanti dal tumore borderline (che non sono
metastasi) che presentano proliferazione papillare e aspetto macroscopico a punta di spillo.
Altra peculiarità dei tumori borderline è quella di poter interessare i linfonodi, senza metastatizzare: ciò è
dovuto alla presenza di inclusi epiteliali all’interno del linfonodo, che danno origine al tumore.
Nel 4-7% delle donne si ha la progressione a carcinoma, solitamente di basso grado.

447
Tumori borderline endometroidi
La componente epiteliale è in grado di simulare le ghiandole
dell’endometrio in fase proliferativa.
Sono costituiti da cisti e una componente solida e spesso
presentano dimensioni considerevoli, circa 9cm.
Possono presentare una crescita intracistico-papillare, ma
solitamente si sviluppano nel contesto di un adenofibroma, in
cui la componente ghiandolare risulta atipica con ghiandole
affollate e simile alla iperplasia endometroide atipica; è
comune la metaplasia squamosa.

Tumori borderline mucinosi


Sono neoplasie mucinose non invasive con differenziazione gastro-
intestinale e sono il secondo istotipo più frequente tra i tumori
borderline. La dimensione media del tumore è di circa 20cm, con
alcuni casi fino a 50cm. I tumori sono quasi sempre unilaterali.
Hanno una superficie esterna liscia e sono multiloculari con pareti
lisce e contenuto mucinoso-mucoide. Talvolta sono presenti aree
solide (noduli murali). L’epitelio può assomigliare all’epitelio
gastrico-pilorico o può contenere cellule del calice e, più
raramente, cellule di Paneth. Di norma è presente una atipia
nucleare di basso grado con attività mitotica prevalentemente
presente entro le cripte, mentre risulta meno prominente lungo la
superficie luminale

Tumori epiteliali maligni

Si tratta di un gruppo di neoplasie con differente morfologia, biologia e comportamento clinico.


Solitamente sono bilaterali e presentano aspetto solido-cistico; si hanno aspetti di invasione stromale e
comportamento biologico aggressivo.
Si distinguono 5 istotipi principali:
- Carcinoma sieroso di alto grado (70%)
- Carcinoma endometroide (10%)
- Carcinoma a cellule chiare (10%), che non presenta il corrispettivo benigno
- Carcinoma mucinoso (3%)
- Carcinoma sieroso di basso grado (< 5%)
Queste sono entità diverse per:
- Fattori di rischio e precursori
- Pattern di crescita e diffusione
- Alterazioni genetico-molecolari
- Risposta alla terapia
- Prognosi

448
Carcinoma sieroso di alto grado
A differenza degli altri carcinomi, il carcinoma sieroso è correlato a mutazioni di BRCA1/BRCA2 e p53.
I geni BRCA1 e BRCA2 sono coinvolti nel processo di ricombinazione omologa, quindi nella riparazione dei
danni alla doppia elica di DNA, e una loro mutazione comporta un aumentato rischio di sviluppare
carcinoma ovarico e carcinoma mammario; le mutazioni possono essere sia somatiche che germinali e a
diverse mutazioni corrisponde un diverso rischio associato. È importante andare ad indagare ed identificare
queste mutazioni, dal momento che i pazienti che le presentano possono essere trattati con farmaci
specifici, i PARP-inibitori, che hanno rivoluzionato la prognosi.
Si tratta di un carcinoma di origine tubo-ovarico-peritoneale: nell’80% dei casi origina dalla tuba, raggiunge
l’ovaio e da qui di diffonde al peritoneo; solo nel 10% dei casi è limitato all’ovaio.
Non deriva né dal carcinoma sieroso di basso grado, né da tumori borderline: nasce come carcinoma
intraepiteliale e poi diviene infiltrante.
Dal punto di vista morfologico il carcinoma sieroso di alto grado è eterogeno e si distinguono:
- CS di alto grado classico → morfologia papillare o micro-
papillare, associazione con STIC (serous tubal intraepithelial
carcinoma) e pattern di metastasi infiltrativo.
Istologicamente presenta:
o Nuclei grandi e marcatamente atipici, talvolta cellule
multi-nucleate
o Elevata attività mitotica (> 12 mitosi/10 HPF) e
mitosi atipiche
o Architettura solida, papillare, labirintica, ghiandolare
o cribriforme
o Necrosi
- CS di alto grado variante SET (Solid pseudoEndometroid
Transition-like) → crescita solida e morfologia pseudo-
ghiandolare o transizionale con pattern metastatico di tipo
espansivo. Ha crescita più rapida.
È spesso associato a mutazioni di BRCA e infiltrato linfocitario
intra-ghiandolare; risponde meglio alla terapia farmacologica
e chirurgica.
Istologicamente presenta:
o Pattern pseudo-endometroide con struttura solida e
conformazione in micro-lumi
o Presenza di linfociti intra-epiteliali e stromali
Peculiarità del CS di alto grado, sia classico che SET, è l’iperespressione di p53, presente nel 99% dei casi.
Nell’80% dei casi il CS di alto grado non origina dall’ovaio, ma dalla salpinge, in particolare dalla fimbria
distale (si è arrivati a questa scoperta analizzando le salpingi di pazienti BRCA-mutate sottoposte ad
annissiectomia profilattiva in seguito a carcinoma mammario). L’ipotesi patogenetica più accreditata vede
queste neoplasie originare dalla fimbria ovarica e andare incontro ad un processo sequenziale:
- Mutazione di p53 con formazione di carcinoma intraepiteliale limitato all’epitelio tubarico, STIC
- Spostamento delle cellule neoplastiche dalla salpinge all’ovaio: gli impianti a livello ovarico
incontrano fattori di crescita favorevoli e danno vita a carcinoma ovarico (così chiamato per la
localizzazione, non per l’origine)
- Impianto delle cellule neoplastiche a livello di peritoneo e origine del carcinoma infiltrante.
A questo livello è tipica la localizzazione omentale dal momento che gli adipociti generano fattori di
crescita favorevoli per le cellule neoplastiche, che facilitano anche lo sviluppo di alterazioni
genetiche alla base della resistenza ai farmaci. Quando le cellule neoplastiche infarciscono l’omento
si parla di “omental cake”, condizione che porta ad ascite. La diffusione intracavitaria nell’omento
può portare anche al coinvolgimento del diaframma, con conseguente versamento pleurico e
difficoltà respiratoria.
La terapia chirurgica del CS di alto grado prevede quindi l’asportazione di tutte le strutture interessate.

449
Sono stati scoperti almeno 4 sottotipi molecolari per il carcinoma sieroso ad alto grado, con aspetti
prognostici differenti addirittura nel contesto dello stesso sottotipo. Si distinguono dunque:
- Immunoreattivo: T-cell chemokine ligands CXCL11, CXCL10, CXCR3
- Proliferativo: alta espressione di fattori di trascrizione come HMGA2 e SOX11, alta espressione di
marker proliferativi come MCM2 e PCNA, bassa espressione di MUC1 e MUC16
- Differenziato: alta espressione di MUC1 e MUC15 e di SLPI
- Mesenchimale: alta espressione dei geni HOX e marker di componenti stromali
Il sottotipo che sembrerebbe correlare con migliore prognosi è rappresentato dall’immunoreattivo associato
a varianti patogenetiche di BRCA ed elevato TILs (Intraepithelial tumor-infiltrating lymphocytes).
Il sottotipo mesenchimale risulta correlato a prognosi peggiore e a debulking non ottimale (residuo post-
chirurgico).

Carcinoma sieroso di basso grado


Il carcinoma sieroso di basso grado e quello di alto grado sono due malattie differenti.
Il CS di basso grado rappresenta nel 60-80% dei casi l’evoluzione di un tumore borderline, non è correlato
ad alterazioni di TP53 o BRCA, ma a mutazioni di K-RAS e B-RAF. Essendo l’evoluzione di un tumore
borderline è piuttosto raro, dal momento che la paziente viene operata prima che esso si sviluppi.
L’età media di insorgenza è intorno ai 40 anni.
Essendo a basso indice proliferativo risulta resistente alla chemioterapia e la
prognosi dipende dallo stadio e dalla possibilità di eseguire un’asportazione
chirurgica completa. I carcinomi associati a mutazione di BRAF presentano
prognosi migliore dal momento che si possono usare farmaci specifici. Possono
esserci, più raramente, mutazioni di HER2, mutualmente esclusive con le altre.
Macroscopicamente si presenta con proliferazioni papillari infiltranti.
Microscopicamente presenta una crescita in nidi, ghiandole o papille; i nuclei
presentano un’atipia lieve o moderata, sono presenti figure mitotiche e la
necrosi è rara. Possono essere presenti calcificazioni psammomatose, ovvero
calcificazioni concentriche risultato di un aspetto induttivo necrotico delle
proliferazioni papillari.
La frequente positività immunoistochimica al marcatore PAX8 indica la genesi di tipo mulleriano, risultando
inoltre positivi per CK7, ER e WT1.
Dal punto di vista diagnostico in presenza di una tumefazione riscontrata tramite ecografia si ha il sospetto
di una lesione sierosa non benigna se è aumentato il marker CA125, ma esso non permette di distinguere tra
lesione borderline e lesione maligna, pertanto è necessario procedere con biopsia.

Carcinoma mucinoso
Ricorda un carcinoma del colon, ma localizzato a livello ovarico.
L’eziologia di questo istotipo non è nota; il fattore prognostico più importante è rappresentato dalla
stadiazione FIGO. Si associa spesso a tumori mucinosi benigni o borderline.

450
Dal punto di vista molecolare risulta frequente la mutazione di KRAS, così come nei carcinomi mucinosi del
distretto gastro-intestinale, e in alcuni casi si ha l’amplificazione di HER2 (queste due mutazioni sono
mutualmente esclusive). L’assenza di queste mutazioni è un fattore prognostico negativo, così come la
presenza della mutazione di p53.
Macroscopicamente si presentano come tumori monolaterali di grandi dimensioni con lesioni multicistiche e
solide. Microscopicamente presentano crescita solida e papillare, con perdita dell’architettura ghiandolare e
necrosi; le ghiandole presenti risultano soprattutto di tipo intestinale.
L’invasione stromale può essere:
- Infiltrativa, con penetrazione disordinata da parte di ghiandole, nidi di cellule o singole cellule, che
evocano una risposte desmoplastica
- Espansiva, con disposizione complessa di ghiandole, cisti o papille con stroma minimo

Il grading del carcinoma mucinoso prevede la distinzione di tre gradi:


1. G1: nessuna area solida
2. G2: fino al 50% di focolai solidi
3. G3: oltre il 50% di focolai solidi
Anche l’atipia nucleare tende ad aumentare, in relazione al grado.
Nel contesto dei tumori mucinosi è importante la diagnosi differenziale tra tumore primitivo e metastasi:

451
Carcinoma endometroide
Il carcinoma endometroide e il carcinoma a cellule chiare sono
carcinomi ovarici associati ad endometriosi, sono quindi da intendersi
come carcinomi dell’endometrio insorti in cisti endometriosiche,
presenti a livello ovarico, ma potenzialmente anche a livello extra-
ovarico.
Il carcinoma endometroide ovarico è identico al carcinoma
endometroide endometriale, tanto che in alcuni casi le due neoplasie
sono sincrone, ovvero presenti contemporaneamente. Si tratta
dell’istotipo a prognosi migliore.

Carcinoma a cellule chiare


È di alto grado e spesso chemioresistente; nel
10% dei casi si associa a sindrome di Lynch,
mentre non presenta associazione con le
mutazioni di BRCA1 e BRCA2, per cui non vi
sono farmaci inibitori specifici.
Dal punto di vista microscopico vi è una
architettura tubulo-cistica, papillare e solida.
I tubuli e le cisti contengono dense secrezioni
eosinofile “targetoidi”, mentre le papille sono
piccole, regolari e spesso ializzate.

Stadiazione FIGO dei tumori ovarici

TUMORI A CELLULE GERMINALI – Dispensa (Robbins)

I tumori a cellule germinali costituiscono il 15-20% dei tumori


ovarici e sono distinti in:
- Benigni, rappresentati da cisti dermoidi
- Maligni, come il teratoma, il disgerminoma, il tumore
del sacco vitellino, ecc.
Questi tumori sono molto simili ai tumori germinali del
testicolo e le forme maligne sono osservate soprattutto in età
pediatrica.
452
Teratomi

I teratomi sono divisi in tra categorie: maturi (benigni), immaturi (maligni) e monodermici/altamente
specializzati.

Teratoma cistico maturo


Questi tumori sono detti anche cisti dermoidi dal momento che sono rivestiti da strutture simil-cutanee.
Sono tipici delle giovani donne in età riproduttiva; possono essere diagnosticati in maniera accidentale o
essere associati a sindromi paraneoplastiche clinicamente importanti, come l’encefalite limbica
infiammatoria.
Le analisi genetiche mostrano che la maggior parte dei teratomi deriva da un oocita dopo la prima divisione
meiotica e solo una minoranza si forma prima della prima divisione.
Sono tipicamente costituisti da cisti uniloculari contenenti peli e metariale sebaceo; è comune il riscontro
di aree calcifiche e strutture dentali.
Microscopicamente la parete cistica è composta da epitelio
squamoso stratificato con ghiandole sebacee ed altri annessi
cutanei; nella maggior parte dei casi si identificano altri tessuti
derivanti dai foglietti germinativi, come cartilagine, osso,
tessuto nervoso, ecc. Nell’immagine a lato si vede la cute nel
margine destro e tessuto nervoso al margine sinistro del
vetrino.
Le cisti dermoidi sono talvolta incorporate nella parete di un
cistoadenoma mucinoso; l’1% circa della cisti dermoidi va
incontro a trasformazione maligna.

Teratomi immaturi
La componente tissutale ricorda il tessuto embrionale e fetale immaturo. Si riscontrano in giovani donne e
adolescenti in età prepuberale. Possono essere presenti capelli, materiale sebaceo, cartilagine, osso e
calcificazioni, insieme ad aree di necrosi e di emorragia. All’esame microscopico si rilevano quantità variabili
di neuroepitelio immaturo, cartilagine, osso, muscolo e altri elementi. Un rischio importante per la
successiva diffusione extraovarica è rappresentato dal grado istologico del tumore (I, II e III), che si basa
sulla percentuale di tessuto neuroepiteliale immaturo.

Disgerminoma

È la controparte ovarica del seminoma del testicolo e si sviluppa tipicamente tra il secondo e il terzo
decennio di vita, in alcuni casi in associazione a disgenesia gonadica. La maggior parte di questi tumori non
ha funzionalità endocrina, ma alcuni producono elevati livelli di gonadotropina corionica o LDH.
Sono solitamente unilaterali e presentano dimensioni variabili, potenzialmente anche abnormi.
Come il seminoma, il disgerminoma è composto da grandi cellule
vescicolari con citoplasma chiaro, margini cellulari ben definiti e
nuclei regolari in posizione centrale. Le cellule tumorali crescono in
trabecole o cordoni separati da uno scarso stroma fibroso,
infiltrato da linfociti maturi e contenente occasionali granulomi. Il
grado di atipia istologica è variabile e solo un terzo sono aggressivi;
queste neoplasie rispondono bene alla chemioterapia e il tasso di
sopravvivenza complessiva è dell’80%.

Tumori del sacco vitellino

Detto anche tumore del seno embrionario, si ritiene derivi da cellule germinali maligne in corso di
differenziazione lungo la linea extraembrionale del sacco vitellino.

453
Analogamente al sacco vitellino normale, le cellule del tumore
elaborano α-fetoproteina. Il suo aspetto istologico caratteristico
è costituito da una struttura simile al glomerulo composta da un
vaso sanguigno centrale avvolto da cellule tumorali mantenute
all’interno di uno spazio anch’esso rivestito da cellule tumorali
(corpo di Schiller-Duval).

Coriocarcinoma

Più comunemente di origine placentare, il coriocarcinoma, come


il tumore del sacco vitellino, è un esempio di differenziazione
extraembrionaria di cellule germinali maligne. La maggior parte dei coriocarcinomi coesiste con altri tumori
a cellule germinali e il coriocarcinoma puro è estremamente raro. I coriocarcinomi ovarici sono aggressivi e
al momento della diagnosi hanno generalmente già metastatizzato per via ematica al polmone, al fegato,
all’osso e ad altri siti. Come tutti i coriocarcinomi, producono alti livelli di gonadotropine corioniche, che
possono essere utili per porre la diagnosi o per rilevare le recidive.
I coriocarcinomi ovarici sono spesso refrattari alla chemioterapia e fatali.

TUMORI STROMALI E DEI CORDONI SESSUALI – Dispensa (Robbins)

Queste neoplasie ovariche derivano dallo stroma ovarico, che a sua volta è derivato dai cordoni sessuali
della gonade embrionale. Il mesenchima gonadico indifferenziato è in grado di produrre specifici tipi
cellulari sia nelle gonadi maschili (Sertoli e Leydig) sia in quelle femminili (granulosa e teca), e nell’ovaio
possono essere identificate neoplasie che assomigliano a tutti questi tipi di cellule.

Tumori a cellule della granulosa

Sono composti da cellule che somigliano alle cellule della granulosa di un follicolo ovarico in sviluppo. Si
dividono grossolanamente in tumori a cellule della granulosa adulti e giovanili, in base all’età della paziente,
ma anche a reperti morfologici. Sono in grado di produrre grandi quantità di estrogeni e indurre un precoce
sviluppo sessuale, anche se nella maggior parte dei casi sono riscontrati in donne in menopausa.
Nelle donne adulte sono associati a patologia proliferativa mammaria, iperplasia endometriale e
carcinoma endometriale. Occasionalmente questi tumori possono produrre androgeni e avere effetti
mascolinizzanti.
Si tratta di tumori ad andamento lento e nel 5-25% dei casi
maligni. Sono associati a mutazioni di FOXL2, soprattutto le
forme che colpiscono le donne adulte, e ad alti livelli sierici di
inibina, prodotta dalle cellule della granulosa stesse.
Sono solitamente unilaterali e hanno dimensioni variabili; le
cellule sono piccole, cuboidi o poligonali, e possono crescere
in cordoni, lamine o tralci. In alcuni casi si hanno strutture
simil-ghiandolari riempite di materiale eosinofili che
ricordano i follicoli immaturi (corpi di Call-Exner).

Fibromi, tecomi e fibrotecomi

Sono tumori che insorgono nello stroma ovarico composti sia da fibroblasti (fibromi) sia da cellule più
rigonfie, fusiformi, contenenti gocce lipidiche (tecomi); molti tumori contengono una mescolanza di tali
cellule e sono denominati fibrotecomi. I fibromi risultano inattivi dal punto di vista ormonale, mentre i
tecomi possono produrre steroidi. Nella maggior parte dei casi sono tumori benigni; i fibromi con
potenziale maligno sono detti fibrosarcomi.

454
Le manifestazioni cliniche tipiche includono ascite e sindrome di Meigs (tumore ovarico, idrotorace e
ascite).

Tumori a cellule di Sertoli – Leydig

Questi tumori sono spesso funzionanti e comunemente determinano mascolinizzazione o


defemminizzazione, anche se alcuni possono determinare effetti estrogenici. Le cellule tumorali riflettono,
in una certa misura, le cellule testicolari di Sertoli o Leydig ai vari stadi di sviluppo. Si presentano in donne
di tutte le età, sebbene il picco di incidenza sia nel II e III decennio. In oltre la metà dei casi le cellule
tumorali hanno mutazioni di DICER1, un gene che codifica per un’endonucleasi essenziale per la corretta
elaborazione dei microRNA.
Tali neoplasie possono bloccare il normale sviluppo sessuale femminile nelle bambine e causare
defemminizzazione nelle donne, rappresentata da atrofia mammaria, amenorrea, sterilità e perdita dei
capelli. La sindrome può progredire fino a un’evidente virilizzazione (irsutismo) associata a distribuzione dei
peli di tipo maschile, ipertrofia del clitoride e variazioni del timbro vocale.
I tumori ben differenziati presentano tubuli composti da cellule
di Sertoli o cellule di Leydig dispersi nello stroma. Le forme
intermedie mostrano soltanto gruppi di tubuli immaturi e ampie
cellule di Leydig eosinofile. I tumori scarsamente differenziati
hanno un aspetto sarcomatoso con disposizione disordinata dei
cordoni di cellule epiteliali. Le cellule di Leydig possono essere
assenti. Possono essere presenti in qualche caso elementi
eterologhi, come ghiandole mucinose, osso e cartilagine.

Altri tumori stromali dei cordoni sessuali

Sono tumori e spesso producenti ormoni sessuali:


- Tumori ilari → tumori costituiti da cellule di Leydig disposte intorno ai vasi ilari; sono associati alla
produzione di testosterone e quindi a segni di mascolinizzazione. Sono quasi sempre benigni e il
trattamento è chirurgico
- Luteoma della gravidanza → molto simile al corpo luteo della gravidanza, può indurre virilizzazione
sia nelle donne gravide che nelle neonate
- Gonadoblastoma → rara neoplasia composta da cellule germinali e da derivati delle cellule
stromali e dei cordoni sessuali, somiglianti a cellule immature di Sertoli e della granulosa. Tale
tumore compare in soggetti con sviluppo sessuale anormale e nelle gonadi di natura indeterminata.

Da dispensa: la D’Errico specifica che all’esame è più probabile che venga chiesta la classificazione generale
dei tumori ovari piuttosto che una neoplasia specifica.

455
VULVA – Dispensa

LESIONI ESOFITICHE BENIGNE

Le lesioni vulvari benigne a crescita rilevata (esofitica) o simil-verrucoide possono essere causate da
un’infezione o essere disturbi reattivi a eziologia ignota.

Condilomi

I condilomi sono associati ai ceppi 6 e 11 di HPV e possono presentarsi come:


- Piccole papule bianche nella regione genitale e perineale
- Masse vegetanti, dette condilomi acuminati
Se sintomatici determinano prurito, fastidio e micro-sanguinamenti, ma vi sono anche forme sub-cliniche
non evidenziabili dai pazienti.
Istologicamente si ha la proliferazione di cellule epiteliali con ampio citoplasma e nucleo a pop-corn, i
coilociti. Nelle forme piane (flat) i condilomi
si allungano sull’epitelio e hanno uno
spessore in genere doppio rispetto all’epitelio
normale. Le forme acuminate hanno una
crescita arborescente e formano delle
digitazioni (papille) che contengono
all’interno un core di stroma; le papille sono
ricoperte da un epitelio normomaturante con
un’importante cheratinizzazione e/o un
epitelio con diverse alterazioni citopatiche
come: binucleosi, discheratosi, nucleo morto
e coilocitosi.

LESIONI NEOPLASTICHE SQUAMOSE

Neoplasia intraepiteliale vulvare e carcinoma vulvare

Il carcinoma della vulva è una neoplasia maligna rara che rappresenta il 3% di tutti i tumori genitali
femminili; interessa soprattutto donne con più di 60 anni. Il tipo istologico più frequente è il carcinoma a
cellule squamose. Dal punto di vista eziologico, patogenetico ed istologico i carcinomi vulvari a cellule
squamose sono divisi in due gruppi:
- Carcinomi basaloidi e verrucosi, correlati all’infezione da HPV-16
- Carcinomi squamocellulari cheratinizzanti, non correlati ad HPV; sono più frequenti e colpiscono
donne più anziane

I carcinomi basaloidi e verrucosi originano dalla neoplasia intraepiteliale vulvare classica, VIN classica, che
interessa soprattutto le donne in età fertile e presenta i medesimi fattori di rischio delle lesioni
intraepiteliali della cervice uterina, come partener sessuali multipli. La VIN può regredire spontaneamente
o evolvere in carcinoma vulvare basaloide e verrucoso, che presenta un picco di incidenza tra i 50 e i 60
anni.
Il carcinoma a cellule squamose cheratinizzante insorge soprattutto nelle donne con lichen scleroatrofico o
iperplasia a cellule squamose di lunga durata e non è correlato all’HPV. L’età di picco della patologia è fra i
70 e gli 80 anni. Origina da una lesione precancerosa definita neoplasia intraepiteliale vulvare
differenziata (VIN differenziata) o VIN simplex. I carcinomi invasivi associati al lichen scleroatrofico,
all’iperplasia a cellule squamose e alla VIN differenziata possono svilupparsi in modo insidioso e possono
essere erroneamente scambiati, per lunghi periodi, per dermatite o leucoplachia. Una volta che si sviluppa
un cancro invasivo, il rischio di diffusione metastatica è legato alle dimensioni del tumore, alla profondità di

456
invasione e al coinvolgimento dei vasi linfatici. La diffusione iniziale interessa i linfonodi inguinali, pelvici,
iliaci e periaortici, successivamente interessa polmoni, fegato e altri organi interni.

La VIN classica si presenta come una distinta lesione biancastra (ipercheratosica) o come una lesione
pigmentata, lievemente rilevata. Microscopicamente è caratterizzata da ispessimento dell’epidermide,
atipia nucleare, aumento delle mitosi e mancata maturazione cellulare.
All’esame istologico il carcinoma basaloide è caratterizzato da nidi e cordoni di piccole cellule fittamente
stipate, immature e reminiscenti degli elementi dello strato basale dell’epitelio normale. Il tumore può
avere focolai di necrosi centrale. Per contro, il carcinoma verrucoso è caratterizzato da un’architettura
papillare esofitica e da atipia coilocitica prominente.
La VIN differenziata è caratterizzata da marcata atipia dello strato basale dell’epitelio squamoso e da una
maturazione e differenziazione epiteliale apparentemente normali negli strati epiteliali più superficiali. I
carcinomi squamocellulari cheratinizzanti invasivi che insorgono su VIN differenziata sono costituiti da nidi
e lingule di epitelio squamoso maligno con perle di cheratina centrali prominenti.

LESIONI NEOPLASTICHE GHIANDOLARI

La vulva presenta ghiandole sudoripare apocrine modificate, come la mammella, e può quindi essere
interessata da idroadenoma papillare e malattia di Paget, che presentano anche la controparte mammaria.

Idroadenoma papillare

Si presenta come un nodulo ben circoscritto, in genere localizzato in corrispondenza delle grandi labbra o
delle pieghe interlabiali, e può essere confuso clinicamente con un carcinoma a causa della sua tendenza a
ulcerarsi. Il suo aspetto istologico è identico a quello del papilloma intraduttale della mammella, con
proiezioni papillari rivestite da due strati cellulari: uno strato superficiale di cellule secretorie colonnari
disposte a coprire uno strato più profondo di cellule mioepiteliali appiattite.

Malattia di Paget extra-mammaria

Si presenta come un’area pruriginosa, di colore rosso, crostosa, a carta geografica, che compare di solito a
livello delle grandi labbra. Tipicamente la malattia di Paget vulvare non è associata a una neoplasia e resta
limitata all’epidermide di rivestimento vulvare. Il trattamento prevede un’ampia escissione locale; le
cellule di Paget si diffondono lateralmente all’interno dell’epidermide ed è possibile che un’escissione
chirurgica incompleta comporti recidiva tumorale. Le cellule di Paget sono più grandi dei cheratinociti
circostanti e si riscontrano singolarmente o in piccoli gruppi all’interno dell’epidermide; hanno un
citoplasma pallido finemente granulare, contenente mucopolisaccaridi che si colorano con l’acido
periodico di Schiff, l’Alcian blu o il mucicarminio. Inoltre, esprimono la citocheratina 7. Le cellule di Paget
mostrano una differenziazione in senso apocrino, eccrino e cheratinocitico e derivano presumibilmente da
cellule multipotenti presenti all’interno dei dotti ghiandolari della cute vulvare.
457
VAGINA – Dispensa

NEOPLASIE PRECANCEROSE E MALIGNE DELLA VAGINA

La maggior parte dei tumori della vagina si presenta in donne in età riproduttiva e include tumori stromali
(polipi stromali), leiomiomi ed emangiomi. Il tumore maligno più comune della vagina è il carcinoma
metastatico di origine cervicale, seguito dal carcinoma squamocellulare primitivo della vagina. In età
pediatrica si può riscontrare una neoplasia rara e peculiare, il rabdomiosarcoma embrionale.

Neoplasia intraepiteliale e carcinoma squamocellulare invasivo della vagina

Praticamente tutti i carcinomi primitivi della vagina sono carcinomi squamocellulari HPV-associati, ma si
tratta di neoplasie estremamente rare (0,6 casi per 100.000 donne/anno). Il principale fattore di rischio è
un pregresso carcinoma della cervice o della vulva. Il carcinoma squamocellulare della vagina si sviluppa a
partire da una lesione precancerosa, la neoplasia intraepiteliale vaginale. Le lesioni nei due terzi inferiori
della vagina metastatizzano ai linfonodi inguinali, mentre quelle a carico della parte superiore della vagina
tendono a diffondersi ai linfonodi iliaci regionali.

Rabdomiosarcoma embrionale

Definito anche sarcoma botrioide, questo raro tumore vaginale composto da rabdomioblasti embrionali
maligni interessa con maggiore frequenza neonate e bambine di età inferiore ai 5 anni. Tale neoplasia
tende ad accrescersi in forma di masse polipoidi, arrotondate e voluminose che hanno l’aspetto e la
consistenza di grappoli (da qui la denominazione botrioide, ovvero simile a grappoli d’uva).
Le cellule tumorali sono piccole e hanno nuclei ovalari, con piccole protrusioni del citoplasma a partire da
un’estremità, così da rassomigliare a una racchetta da tennis. Solo raramente si possono evidenziare
striature, indicative di differenziazione muscolare, all’interno del citoplasma.
Al di sotto dell’epitelio vaginale le cellule tumorali sono ammassate nel cosiddetto strato cambiale;
tuttavia, nelle regioni profonde esse si dispongono all’interno di uno stroma lasso fibromixoide che appare
edematoso e che può contenere numerose cellule infiammatorie. Tali lesioni, che possono essere
erroneamente interpretate come polipi infiammatori benigni, tendono a estendersi localmente e causano
la morte per coinvolgimento della cavità peritoneale oppure per ostruzione del tratto urinario. L’intervento
chirurgico conservativo associato alla chemioterapia offre le migliori speranze, soprattutto nei casi
diagnosticati abbastanza precocemente.

458
MALATTIE DEL SISTEMA ENDOCRINO
Riassunto di uno sfaso di Tallini sulla vita di Gian Battista Morgagni: Morgagni (1682-1771) è stato un
medico, anatomista e patologo italiano, considerato il fondatore dell’anatomia patologica. Si laureò in
medicina a Bologna e fu professore presso l’università di Padova per quasi 60 anni.
Nella sua serie di libri “Adversaria anatomica” fornisce una precisa documentazione dei dettagli anatomici
del corpo umano.
Nel libro “De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis”, pubblicato nel 1961, vengono riportate
700 autopsie in 5 volumi, ognuno dei quali è focalizzato su una precisa regione del corpo: il primo tomo
riguarda la testa, il secondo il torace, il terzo l’addome, il quarto si occupa di malattie di natura generale e
malattie che richiedono un trattamento chirurgico e il quinto un supplemento.
Le 700 autopsie sono raccolte in 70 lettere anatomo-cliniche e ciascuna lettera è organizzata nel seguente
modo:
- Descrizione della malattia con segni e sintomi ad essa associati
- Riscontro autoptico (va tenuto presente che in medicina classica il termine “autopsia” significa
“ispezionare con i propri occhi”, non fa strettamente riferimento ai cadaveri)
- Interpretazione del riscontro, ovvero la diagnosi
- Cenni sulla prognosi
- Possibile terapia
Lo scopo di questa organizzazione era creare un manuale che il medico potesse consultare quando si
trovava di fronte al paziente (paziente = colui che patisce).
In realtà, l'importanza dell'osservazione anatomica e dell'approccio meccanicistico alla medicina, era già
stata intuita da Leonardo: egli fu il primo non solo ad effettuare, ma anche a ritrarre, i suoi reperti autoptici.
Tuttavia, nessuno prima di Morgagni aveva provato a esaminare sistematicamente e a descrivere
l’anatomia degli organi e dei tessuti malati. Morgagni è stato il primo a capire e a dimostrare l’assoluta
necessità di porre le basi di diagnosi, prognosi e trattamento sulla conoscenza esatta delle condizioni
anatomiche, che sono misurabili. Questo è il concetto anatomico. Con Morgagni nasce quello che
intendiamo oggi con la parola malattia: la malattia è causata da un'alterazione misurabile dell'organo,
associata a segni e sintomi, e questi portano alla diagnosi. La diagnosi permette di investigare le cause e i
loro meccanismi, cioè l'eziologia e la patogenesi, che determinano l'alterazione organica.
L’espressione “concetto anatomico di Morgagni” fu poi coniata secoli dopo da Virchow.
Attualmente il lavoro dell’anatomopatologo consiste essenzialmente nell’analizzare i tessuti per giungere ad
una diagnosi. La diagnosi è il fattore prognostico principale, infatti, senza diagnosi non è possibile fare una
prognosi. La prognosi dipende poi dallo stadio, ovvero l’estensione della malattia, e dal grado, ovvero
dall’aggressività biologica intrinseca della malattia. Il grado può essere valutato sulla base delle
caratteristiche architetturali del tessuto, ovvero quanto il tessuto neoplasico è simile o meno al tessuto
tumorale, e sulla base delle caratteristiche citologiche (N.B: il grado non è la differenziazione, ma la
differenziazione serve per valutare il grado della malattia; il grado è l’aggressività biologica).
Con Virchow si ha un ulteriore passo in avanti: egli trasferisce i concetti che Morgagni aveva applicato
all’analisi macroscopica/autoptica alla analisi microscopica/istologica.
Successivamente le tecniche diagnostiche si sono ulteriormente ampliate (immunoistochimica, microscopio
elettronico, sequenziamento genico, ecc.).

Il sistema endocrino, insieme al sistema nervoso, consente ai vari organi e tessuti di scambiare
informazioni in modo da reagire a stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Il sistema endocrino è
complementare al sistema nervoso e filogeneticamente si è evoluto successivamente.
Il sistema endocrino esordisce un effetto generalizzato, coinvolgendo più organi e apparati, e duraturo nel
tempo, ad eccezione della trasmissione paracrina, in cui i fattori simil-ormonali hanno un’azione limitata al
microambiente circostante. Il sistema neuro-endocrino prevede invece che siano i neuroni a rilasciare
sostanze ad azione ormonale. Caratteristica importante delle patologie del sistema endocrino è che le
alterazioni morfologiche e funzionali non sono limitate solo alla ghiandola endocrina colpita, ma
interessano anche gli organi e i tessuti bersaglio della ghiandola stessa.
459
ADENOIPOFISI

L’ipofisi, come tutte le ghiandole endocrine, è altamente vascolarizzata e ciò è dovuto a due motivi
principali: la sintesi degli ormoni avviene a ciclo continuo, risultando piuttosto dispendiosa, pertanto
richiede un notevole apporto sanguigno, e vi deve essere un facile accesso al circolo ematico per rilasciare
in circolo gli ormoni.
Proprio a causa di questa ricca vascolarizzazione le ghiandole endocrine sono spesso oggetti di metastasi
neoplastiche, che risultano sintomatiche solo in una minoranza dei casi.
L’ipofisi è controllata dall’ipotalamo, grazie alla rete portale ipofisaria: i neuroni ipotalamici rilasciano
releasing hormones che influenzano l’azione delle cellule della adenoipofisi; pertanto, patologie
ipotalamiche possono influenzare l’azione dell’ipofisi e causare ipogonadismo, amenorrea, pubertà
precoce, obesità, ecc.

L’unità organizzativa del parenchima ipofisario è il nido di cellule, non l’acino (la differenza è che nell’acino
si ha uno spazio vuoto centrale). Nel parenchima ipofisario si trovano:
- Cellule blu, quindi cellule basofile, che producono ormoni glicoproteici: ACTH, LH, FSH, TSH
- Cellule rosa, acidofile, che producono prolattina e GH
- Cellule cromofobe, poco colorate, cellule di riserva non ancora deputate alla produzione di uno
specifico tipo ormonale
Questa classificazione è importante dal momento che le cellule delle neoplasie ipofisarie riproducono le
caratteristiche della cellula di origine.
Intorno a queste cellule si ha poi una struttura reticolinica, ovvero un reticolo di fibre collagene
evidenziabile con colorazioni istochimiche (e non immunoistochimiche), come la colorazione con Sali
d’argento. Nota storica: le colorazioni istochimiche (colorazioni su tessuto che sfruttano sostanze capaci di
individuare particolari strutture all’interno o intorno alla cellula) con metalli pesanti hanno fruttato il premio
Nobel a Golgi.

La tipizzazione della produzione ormonale ipofisaria viene invece


effettuata tramite immunoistochimica, basata su anticorpi marcati
diretti contro le diverse molecole di interesse. La positività alla
colorazione immunoistochimica è messa in evidenza dalla colorazione
marrone. Il pattern immunoistochimico tipico di tutte le ghiandole
endocrine, compresa l’ipofisi, è un pattern granulare, dal momento che
gli ormoni sono contenuti in granuli.
Un concetto importante che vale per tutte le patologie endocrine è che
alla fine le diverse patologie portano a 2 macrogruppi di malattie:
malattie con segni di iperfunzione e malattie con segni di ipofunzione.

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IPERPITUITARISMO

L’iperpituitarismo è dovuto all’iperfunzione dell’ipofisi; le cause più frequenti sono gli adenomi ipofisari,
ma alla base possono esservi anche lesioni ipotalamiche e secrezioni ectopiche di ormoni ipofisari da
parte di tumori extra-ipofisari (sindromi paraneoplastiche).

Adenomi e carcinomi ipofisari

Il picco di incidenza di queste neoplasie si ha tra i 20 e i 50 anni, ma possono insorgere anche in età
avanzata. Rappresentano il 10% delle neoplasie intracraniche e sono ancora più frequenti nelle autopsie,
ciò significa che molti di essi sono clinicamente silente e non vengono diagnosticati.
In meno nel 5% dei casi gli adenomi ipofisari insorgono in un quadro di MEN1, sindrome caratterizzata da
neoplasie ipofisarie, pancreatiche e paratiroidee (NB per l’esame).
I carcinomi ipofisari sono estremamente rari, al punto che l’unica prova diagnostica di essi è la presenza di
metastasi a distanza, infatti, attualmente non si hanno tecniche istologiche, immunoistochimiche,
ultrastrutturali, molecolari, ecc. che permettano di definire quali siano i tumori ipofisari con potenziale
metastatico. La diagnosi di carcinoma ipofisario si basa quindi su un criterio clinico, non esistono criteri
istologici assoluti indicativi di comportamento maligno di un adenoma ipofisario.
Per quanto riguarda le ghiandole endocrine in generale, la progressione adenoma – adenoma con displasia
di alto grado – adenocarcinoma in situ – adenocarcinoma
invasivo non è ben applicabile dal momento che a livello di
queste ghiandole il confine tra iperplasia, iperplasia
adenomatosa, adenoma e carcinoma non è così netto come
nelle neoplasie che originano dai tessuti di rivestimento.
Va tenuto presente che, vista la posizione anatomica, gli
adenomi, pur essendo benigni, sono associati ad importanti
morbidità e mortalità: hanno una crescita costante ed
espandendosi comprimono e danneggiano i tessuti circostanti,
come il chiasma ottico, con conseguente sintomatologia
associata.
Nell’immagine a lato si ha la TC di un adenoma ipofisario,
indicato dalla freccia.

Gli adenomi ipofisari sono classificati sulla base di: istologia, immunoistochimica, aspetto ultrastrutturale
mediante microscopia elettronica a trasmissione (i granuli hanno dimensioni variabili a seconda del tipo di
ormone che vi è presente all’interno) e alterazioni biochimiche in circolo.

Dal punto di vista clinico gli adenomi ipofisari vengono classificati in adenomi sintomatici e adenomi
asintomatici; generalmente quelli sintomatici sono macro-adenomi e quelli asintomatici micro-adenomi,
ma questa distinzione non è sempre vera.
In base alle dimensioni si ha quindi la distinzione in micro-adenomi, < 1cm, e macro-adenomi, > 1cm.
In 1/3 dei casi circa gli adenomi raggiungono dimensioni considerevoli e invadono le strutture adiacenti,
quindi la dura, la sella turcica, ecc. e sono detti adenomi invasivi; potenzialmente gli adenomi possono
determinare anche una compressione del tessuto cerebrale.

La sintomatologia degli adenomi ipofisari è legata:


- Effetti ormonali, presenti negli adenomi secernenti
- Effetto massa: espandendosi comprimo il parenchima ipofisario sano adiacente, quindi portano ad
ipopituitarismo, comprimono il chiasma ottico, con conseguenti sintomi visivi, invadono i seni
cavernosi, determinando paralisi dei nervi oculomotori, e nei casi più gravi possono determinare
ipertensione endocranica ed invasione dell’ipotalamo, con alterazioni della termoregolazione,
iperfagia e sindromi ormonali vari. La lesione di massa si ha anche negli adenomi non-secernenti.

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Istologicamente gli adenomi ipofisari presentano cellule poligonali con poche atipie che formano nidi,
trabecole, cordoni, papille o aree solide. L’aspetto istologico è quindi piuttosto simile al tessuto ipofisario
sano, ma si ha una importante differenza: nel tessuto neoplastico si ha monomorfismo cellulare, ovvero
è presente un solo tipo cellulare. Considerando che le neoplasie sono solitamente di origine monoclonale,
questa è una caratteristica comune a molti tumori. Le caratteristiche tintoriali degli adenomi ipofisari
riprendono quelle della cellula di origine, quindi è possibile distinguere adenomi eosinofili e adenomi
basofili.
Inoltre, viene meno la trama reticolinica che normalmente separa i nidi cellulari, dal momento che viene
danneggiata dalla proliferazione cellulare.

Le cellule risultano quindi monomorfe, con abbondante citoplasma granulare, scarse atipie e rare mitosi.
Il citoplasma è abbondante e ricco di granuli che contengono il secreto neuroendocrino.
Il nucleo è tondeggiante, il nucleolo ben evidente e la cromatina ha aspetto a sale e pepe (il “sale” è
dovuto all’eucromatina finemente dispersa, mentre il “pepe” è dovuto a frammenti di eterocromatina).
L’aspetto a sale e pepe della cromatina è tipico di tumori endocrini, neuroendocrini e con differenziazione
neuroendocrina.
Inoltre, viene meno la trama reticolinica che normalmente separa i nidi cellulari, dal momento che viene
danneggiata dalla proliferazione cellulare.

Ormai è stata sostituita dall’analisi immunoistochimica, ma la prima analisi degli adenomi ipofisari è stata
effettuata dal punto di vista ultrastrutturale, quindi al microscopio elettronico. I granuli contenenti gli
ormoni ipofisari sono tutti elettrondensi, ma hanno dimensioni diverse a seconda dell’ormone contenuto,
in particolare in orgine decrescente di grandezza si trovano: PRL, GH, ACTH, TSH, ormoni gonadotropi.
Negli adenomi non secernenti però i granuli intracellulari sono molto scarsi o del tutto assenti; in questo
caso si possono avere:
- Adenomi nulli: non producono ormoni
- Adenomi oncocitici: cellule in cui il citoplasma è completamente sostituito da mitocondri
Le cellule oncocitiche rappresentano un fenomeno di metaplasai sub-cellulare: le cellule
acquisiscono alterazioni che rendono inefficiente il processo della fosforilazione ossidativa,
pertanto si ha un accumulo compensatorio si mitocondri, che arrivano a riempire il citoplasma.
Questa metaplasia può riguardare diversi tipi cellulari, ma avviene soprattutto a livello di sistema
neuroendocrino. Si possono quindi avere adenomi ipofisari oncocitici non secernenti.

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Tramite l’analisi ultrastrutturale si è notato che alcuni adenomi possono essere a secrezione mista.
In alcuni casi la medesima cellula neoplastica contiene due diversi tipi di granuli; l’associazione tipica in
questo caso è PRL e GH, in cui predomina la sintomatologia da iperprolattinemia.
In altri casi si hanno cellule neoplastiche diverse che producono ormoni diversi; in questo caso se si ha la
contemporanea produzione di PRL e GH la manifestazione clinica principale è l’acromegalia.

Gli adenomi ipofisari vengono quindi classificati in base all’ormone prodotto, alle caratteristiche dei granuli
(indagine ormai soppiantata dall’immunoistochimica) e alle caratteristiche istologiche.
Recentemente è stata introdotta una classificazione basata sui fattori di trascrizione che programmano la
produzione ormonale, ma la classificazione classica si basa direttamente sull’ormone prodotto.

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In ordine di frequenza nella popolazione si ritrovano:
- Adenomi che producono prolattina
- Adenomi che producono GH
- Adenomi a cellule gonadotrope
- Adenomi a cellule corticotrope
- Adenomi che producono TSH
Inoltre, si è visto che la prevalenza dei diversi tipi di adenoma varia in base alla sede di riscontro, clinica o
autoptica, e all’aggressività con cui essi vengono ricercati.

Prolattinoma

Gli adenomi lattotropi che secernono prolattina rappresentano il tipo più frequente di adenoma ipofisario
iperfunzionante e costituiscono circa il 30% di tutti gli adenomi diagnosticati clinicamente.
A livello microscopico la maggior parte dei prolattinomi è costituita da cellule eosinofile, ma si possono
avere anche cellule cromofobe (prolattinomi a granuli sparsi); i prolattinomi fortemente acidofili
(prolattinomi a granuli densi) sono più rari.
Nelle donne in età riproduttiva il prolattinoma è più spesso sintomatico, determinando infertilità,
amenorrea e galattorrea, e viene quindi diagnosticato prima; risulta in realtà più frequente negli uomini,
nei quali, a causa dei sintomi sfumati come impotenza e ridotta libido, viene spesso diagnosticano quando
ha raggiunto dimensioni considerevoli e sopraggiungono i sintomi da effetto massa.
Normalmente l’ipotalamo ha azione stimolatoria sulla produzione ormonale ipofisaria, ma nel caso della
prolattina l’ipotalamo ne inibisce la produzione grazie al rilascio di dopamina; nel momento in cui una
lesione ipofisaria o della sella turcica raggiunge dimensioni tali da comprimere il peduncolo ipofisario, viene
meno la comunicazione ipotalamo-ipofisi e si ha ipopituitarismo con aumento relativo della prolattina in
circolo (si parla di iperprolattinemia da effetto peduncolo).
I prolattinomi sono spesso ben differenziati, quindi in grado di rispondere al feedback negativo esercitato
dalla dopamina, e possono essere trattati con bromocriptina, agonista della dopamina, che ne induce la
riduzione delle dimensioni.
Una causa fisiologica di iperprolattinemia è la gravidanza; i livelli di prolattina aumentano anche in seguito
a stimolazione del capezzolo, come ad esempio durante l’allattamento. L’iperprolattinemia può dipendere
anche dalla iperplasia delle cellule lattotrope, a sua volta causata da: danno ai neuroni dopaminergici
dell’ipotalamo, danno al peduncolo ipofisario, azione di farmaci che bloccano i recettori dopaminergici delle
cellule lattotrope. Anche l’ipotiroidismo può portare ad iperprolattinemia.

Adenoma a cellule somatotrope

Gli adenomi somatotropi secernono GH, ormone della crescita, e


sono il secondo tipo più comune di adenoma ipofisario funzionante.
Sono costituiti da cellule eosinofile o cromofobe.
Dal momento che le manifestazioni cliniche associate all’eccesso di
GH possono essere molto sfumate, si tratta solitamente di macro-
adenomi, che possono raggiungere anche dimensioni considerevoli.
Gli adenomi somatotropi sono rari nei bambini e negli adolescenti,
ma quando insorgono in queste popolazioni causano gigantismo;
negli adulti invece causano acromegalia (caratteristiche riassunte
nell’immagine a lato).
La persistente ipersecrezione di GH stimola la produzione epatica di
IGF-1, fattore insulino-simile 1, responsabile delle manifestazioni
cliniche. La diagnosi di iperproduzione ipofisaria di GH si basa sulla
dimostrazione di elevati livelli sierici di GH e IGF1.
Gli adenomi somatotropi possono essere trattati chirurgicamente o
con farmaci, come gli analoghi della somatostatina, che inibisce la

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secrezione ipofisaria di GH, o antagonisti dei recettori del GH, che impediscono il legame dell’ormone con gli
organi bersaglio, come il fegato.

Adenomi a cellule gonadotrope

Rappresentano circa il 10% dei tumori ipofisari e sono costituiti da cellule basofile.
Dal momento che non presentano una evidente sintomatologia associata vengono spesso diagnosticati
quando hanno raggiunto dimensioni importanti.
Gli adenomi secernenti LH e FSH sono spesso di difficile identificazione poiché la secrezione risulta inefficace
e variabile e perché i secreti non provano una sintomatologia clinica evidente. Si riscontrano in genere in
uomini e donne di mezza età quando raggiungono dimensioni tali da causare sintomi neurologici. È possibile
riscontrare anche sintomi correlati ad una ridotta secrezione di LH, come calo della libido, calo della forza
fisica e amenorrea; gli adenomi a cellule gonadotrope possono quindi paradossalmente essere associati a
ipofunzione gonadica secondaria.

Adenomi a cellule corticotrope

Rappresentano il 10% degli adenomi ipofisari e sono spesso basofili


(a granuli densi), ma possono occasionalmente essere cromofobi. Si
tratta degli unici adenomi PAS+, ovvero positivi ad una colorazione
che evidenzia in rosa-fucsia le strutture con componente glucidica,
in questo caso i carboidrati della POMC, precursore dell’ACTH.
Dal momento che alterazioni, anche minime, dei livelli di ACTH
causano una sintomatologia da ipercortisolismo a tipo Cushing, alla
diagnosi si presentano spesso come micro-adenomi.
Gli adenomi corticotropi portano a malattia di Cushing, ovvero a
ipercortisolismo da iperproduzione ipofisaria di ACTH (da
distinguere dalla sindrome di Cushing, che consiste in una sindrome
clinica caratterizzata da ipercortisolismo, che può anche essere
indipendente dall’aumento di ACTH).
Nonostante la diagnosi avvenga precocemente, spesso questi
adenomi, viste le ridotte dimensioni, sono difficili da operare.
In passato i pazienti con sindrome di Cushing venivano trattati con
surrenectomia bilaterale, ma così facendo veniva a mancare
l’effetto inibitorio dei corticosteroidi surrenalici a livello ipofisario e si sviluppava la sindrome di Nelson,
ovvero si sviluppava un aggressivo adenoma ipofisario ACTH-secernente associato ad iper-pigmentazione
cutanea, a causa della stimolazione dei melanociti da parte dei precursori dell’ACTH.

Adenoma a cellule tireotrope

Rappresenta l’1% degli adenomi funzionanti ed è principalmente costituito da cellule basofile, anche se
talvolta presenta cellule cromofobe. La diagnosi è piuttosto semplice dal momento che determina iper-
tiroidismo, quindi aumentati livelli di T3 e T4, associato ad aumentati livelli di TSH (le patologie a carico
della tiroide che determinano ipertiroidismo comportano invece una riduzione del TSH).

Adenomi non funzionanti

Si tratta di un gruppo eterogeno di tumori ipofisari che costituisce il 20-30% degli adenomi ipofisari.
La loro linea cellulare può essere determinata tramite colorazione immunoistochimica per gli ormoni o
dimostrazione biochimica della presenza dei fattori di trascrizione specifici per tipi cellulari. Molti di questi
adenomi sono costituiti da cellule neoplastiche programmate per la produzione di ormoni gonadotropi, la
cui secrezione viene però arrestata.

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Si distinguono due tipi di adenomi non funzionanti:
- Adenomi null → non producono ormoni e sono privi di immunoreattività; le cellule sono vuote o
oncocitiche
- Adenomi silenti → le cellule producono l’ormone, ma esso non viene secreto o viene secreto in
quantità talmente basse da non causare alcuna sintomatologia
Gli adenomi non secernenti vengono quindi diagnosticati quando manifestano sintomatologia da effetto
massa, quindi quando sono di grandi dimensioni. Gli adenomi presentano infatti una crescita lenta, ma
progressiva e arrivano a comprimere le strutture adiacenti; gli adenomi non secernenti vengono quindi
diagnosticati in pazienti di età avanzata.

Adenomi atipici

La distinzione tra adenoma, benigno, e carcinoma, maligno, dell’ipofisi non è possibile con assoluta
certezza, ma vi sono delle caratteristiche citologiche atipiche che vengono usate per classificare un
sottogruppi di adenomi ipofisari, detti adenomi atipici, che hanno, indipendentemente dall’ormone
prodotto, una maggior propensione ad un comportamento aggressivo (metastasi, invasione, recidive).
Gli adenomi atipici sono caratterizzati da:
- Attività mitotica evidente, aree di necrosi e atipie
citologiche
I nuclei sono ingranditi, vescicolosi, e i nuclei evidenti.
- Indice di proliferazione Ki67/MIB1 > 3%
Ki67 è un antigene espresso dalle cellule in fase non
resting, quindi in qualsiasi fase del ciclo cellulare che non
sia G0, mentre MIB1 è l’anticorpo monoclonale usato per
evidenziare Ki67, quindi la percentuale di cellule che
rispondono a questo anticorpo sono le cellule in
proliferazione.
- Accumulo nucleare di p53
Queste caratteristiche sono rare negli adenomi non invasivi,
mentre sono comuni negli adenomi atipici, negli adenomi invasivi, ovvero quelli estesi oltre la sella turcica,
e nei carcinomi adenoipofisari.
La presenza di queste caratteristiche non permette di diagnosticare un carcinoma, infatti, la diagnosi di
carcinoma adenoipofisario può essere posta solo in presenza di metastasi.

Carcinoma adenoipofisario

Il carcinoma adenoipofisario è raro e rappresenta meno dell’1% dei tumori ipofisari. La condizione
essenziale per la diagnosi di carcinoma ipofisario è la presenza di metastasi craniospinali o sistemiche,
infatti, le caratteristiche istologiche non permettono di predire il comportamento clinico della lesione:
caratteristiche come necrosi, atipie citologiche, pleomorfismo, elevato indice mitotico, sono presenti anche
in adenomi ipofisari atipici che non metastatizzano.
La maggior parte dei carcinomi ipofisari è secernente e produce PRL o
ACTH.

IPOPITUITARISMO

Con il termine ipopituitarismo si intende una condizione patologia


caratterizzata da una ridotta secrezione di ormoni ipofisari, derivante
da malattia a carico di ipotalamo e ipofisi. L’ipofunzione dell’ipofisi
anteriore si verifica dopo la perdita o l’assenza di circa il 75% del
parenchima; la sintomatologia associata è dovuta al deficit di funzione
tiroidea, gonadica e surrenalica.

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Le principali cause di ipopituitarismo sono:
- Adenomi ipofisari non secernenti
- Traumi cranici
- Necrosi ischemica: tutte le ghiandole endocrine sono molto sensibili a eventi ipotensivi.
Un esempio ne è la sindrome di Sheehan, ovvero una condizione di necrosi ischemica post-partum
dell’adenoipofisi in una donna che è andata incontro a grave ipotensione. Durante la gravidanza
l’adenoipofisi aumenta di dimensioni, fino a raggiungere quasi il doppio delle dimensioni originali,
ma questa fisiologica espansione non è accompagnata da un corrispondente aumento dell’apporto
ematico alla ghiandola e ciò comporta una ipossia relativa; ulteriori riduzioni dell’apporto ematico,
ad esempio a causa di emorragie peripartum, possono facilmente causare un infarto del lobo
anteriore dell’ipofisi, irrorata solo dal sistema venoso portale. L’ipofisi posteriore è meno soggetta
ad eventi ischemici dal momento che è irrorata da rami arteriosi.
- Cause iatrogene, come radioterapia o rimozione chirurgica transnasale di un adenoma
- Problematiche ipotalamiche
- Empy sella syndrome: radiograficamente la sella turcica si presenta ingrandita e l’ipofisi risulta
appiattita e schiacciata verso la base della sella, probabilmente a causa di un difetto del diaframma
della sella che consente la trasmissione della pressione del liquido cefalorachidiano nella sella, con
conseguente atrofia della ghiandola. La sindrome della sella vuota può essere dovuta anche a
ablazione chirurgica della ghiandola e radioterapia.

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NEUROIPOFISI

La neuroipofisi è il lobo posteriore dell’ipofisi, controllato da fibre


non mielinate che originano dall’ipotalamo. A livello ipotalamico
vengono prodotte vasopressina e ossitocina, che vengono stoccate
nella neuroipofisi e rilasciate in circolo (secrezione
neuroendocrina). Danni a carico della neuroipofisi possono portare
a diabete insipido, inappropriata secrezione di ADH e mancata
capacità di indurre il parto e di produrre latte materno, se è
coinvolta l’ossitocina.
Le principali cause di danni alla neuroipofisi sono craniofaringioma,
istocitosi a cellule di Langerhans, traumi, lesioni idiopatiche e
lesioni iatrogene.
Il diabete insipido è causato da un deficit di ADH ed è caratterizzato
da minzione eccessiva dovuta all’incapacità del rene di riassorbire
l’acqua dal filtrato glomerulare. Il diabete insipido da deficit di ADH
è detto centrale, per distinguerlo dalla forma nefrogenica, dovuta
ad una mancata risposta dei tubuli renali all’ADH circolante.
L’eccessiva perdita di acqua libera con le urine determina un
aumento della concentrazione sierica di sodio e dell’osmolalità, con
conseguente sensazione di sete e polidipsia; si può giungere ad una grave disidratazione.

Craniofaringioma

È un tumore benigno multicistico che insorge dai residui della tasca di Rathke ed invade e comprime le
strutture adiacenti. La tasca di Rathke è una estroflessione del palato primitivo da cui derivano varie
strutture, tra cui ipofisi e denti, che però non va incontro a regressione totale e può quindi andare incontro
a trasformazione neoplastica con crescita organoide, riproducendo strutture simili ad abbozzi dentari.
Il craniofaringioma può colpire l’osso della sella turcica in qualsiasi punto, ma porta più facilmente da
danneggiamento della neuroipofisi, dal momento che essa ha un contatto con l’osso maggiore rispetto alla
adenoipofisi; può originare anche dal connettivo peri-ostale.
Il craniofaringioma, dal momento che deriva da residui embrionali, è definibile come un tumore
disembriogenetico; presenta delle microcisti tumorali ripiene di materiale degenerato oleoso, viscoso e
brunastro.
Esistono due varianti istologiche:
- Craniofaringioma adamantinomatoso, più comune nei bambini, composto da nidi e cordoni di
epitelio squamoso immersi in un reticolo di aspetto spugnoso, che appare più marcato negli strati
interni. A livello periferico si ha epitelio squamoso a palizzata, con presenta di cheratina lamellare
compatta (cheratina bagnata). Di comune riscontro sono calcificazioni, cisti, fibrosi e
infiammazione.

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- Craniofaringioma papillare, più comune negli adulti, costituito da lamine solide e papille rivestite
da epitelio squamoso ben differenziato. Questi tumori sono privi di cheratina, calcificazioni e cisti.
Le cellule squamose non sono disposte a palizzata e non producono il tipico reticolo spugnoso.

Istiocitosi a cellule di Langerhans

Neoplasia del sistema ematolinfoide: le cellule APC divengono neoplastiche e sviluppano lesioni
soprattutto a livello cranico, anche se possono potenzialmente interessare qualsiasi distretto; lesioni a
livello sfenoidale danneggiano la neuroipofisi.

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TIROIDE

La tiroide è una ghiandola endocrina normalmente localizzata inferiormente ed anteriormente alla


laringe; nell’adulto pesa circa 20 grammi. La morfogenesi è relativamente complessa e può quindi andare
incontro ad alterazioni e portare ad una errata formazione della ghiandola stessa. Il processo di formazione
della tiroide è caratterizzato da fenomeni di migrazione cellulare ed errori di questi meccanismi possono
portare alla formazione dei nidi di tessuto tiroideo ectopici lungo il percorso seguito dai precursori
embrionali dell’organo.
La porzione centrale della tiroide, di derivazione endodermica, infatti, inizia a formarsi alla fine della quarta
settimana, invaginandosi nel forame cieco, e attraversa i tessuti del collo, lasciando al suo passaggio un
transitorio canalino, il dotto tireoglosso, che progressivamente di oblitera. Una porzione di tale struttura
permane a volte, nel 20-30% dei casi, nella tiroide matura, come lobo piramidale; i due lobi laterali
originano da cellule provenienti dalle quinte tasche bronchiali.
La tiroide è costituita da due lobi laterali connessi da un istmo ed è suddivisa in lobuli da sottili setti fibrosi.
I lobuli sono costituiti da 20-40 follicoli distribuiti regolarmente e rivestiti da epitelio cubico o cilindrico
basso e ripieni di sostanza colloide, PAS+, costituita da tireoglobulina.
Il TSH, rilasciato dalla ipofisi, induce l’aumento di volume della tiroide e la produzione degli ormoni tiroidei,
T3 e T4, che vengono rilasciati in circolo e legano proteine plasmatiche, come la globulina legante la
tiroxina, TBG, e la transtiretina. A livello periferico il T4 viene deiodato e convertito in T3, che presenta
affinità per i recettori nucleari degli ormoni tiroidei nettamente maggiore.
L'ormone tiroideo è responsabile di diversi effetti cellulari, quali l'incremento del catabolismo dei carboidrati
e dei lipidi e la stimolazione della sintesi proteica in un’ampia varietà di cellule. Il risultato globale di questi
processi consiste in un aumento del metabolismo basale. Una delle più importanti funzioni dell’ormone
tiroideo riguarda il suo ruolo chiave nello sviluppo cerebrale durante il periodo fetale e neonatale.
La funzione tiroidea può essere inibita da diverse sostanze, dette gozzigeni, dal momento che inibiscono la
sintesi di T3 e T4 e determinano quindi un aumento del TSH e delle dimensioni della ghiandola.
I follicoli tiroidei presentano anche cellule para-follicolari, dette cellule C, che producono calcitonina,
ormone che favorisce la deposizione di calcio a livello scheletrico ed inibisce gli osteoclasti.

ANOMALIE CONGENITE DELLA TIROIDE

Le anomalie congenite della tiroide sono:


- Tiroide linguale → si ha la mancata discesa della porzione centrale della tiroide nel collo durante
l’ontogenesi, a causa dello sviluppo deficitario del dotto tireoglosso, e l’intera ghiandola risulta
localizzata alla base della lingua. È la porzione interna della ghiandola che induce la migrazione
delle cellule che costituiscono i lobi laterali, grazie a diversi fattori di trascrizione e differenziazione,
tra cui anche TTF1, che è anche marcatore dell’epitelio bronchiale e degli adenocarcinomi del
polmone
- Tessuto ectopico tiroideo → si ha una migrazione parziale delle cellule tiroidee e alcune di esse si
localizzano in sede ectopica, formando nidi cellulari a livello di collo, mediastino o pericardio
- Cisti del dotto tireoglosso → patologia frequente dovuta alla mancata involuzione del dotto
tireoglosso: il dotto tireoglosso unisce la lingua alla tiroide durante la sua discesa e se non
regredisce completamente può portare alla formazione di abbozzi, soprattutto lungo la linea
mediana, che possono proliferare e formare cisti tireoglosse o fistole in comunicazione con
l’esterno

ALTERAZIONI DELLA FUNZIONE TIROIDEA

Oltre alla fisiologica condizione di eutiroidismo, in cui i livelli di TSH e ormoni tiroidei risultano nella norma,
si possono avere anche condizioni patologiche in cui l’attività tiroidea risulta alterata: ipotiroidismo e
ipertiroidismo.

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Ipertiroidismo

L’ipertiroidismo è una condizione clinica caratterizzata da iperfunzione tiroidea e alti livelli di T3 e T4 in


circolo. L’ipertiroidismo va distinto dalla tireotossicosi, in cui si ha un eccesso di ormoni tiroidei in circolo
non necessariamente associato all’iperfunzione della ghiandola; infatti, la tireotossicosi può essere una
condizione secondaria ad ipertiroidismo, ma può anche essere dovuta a tiroidite o danneggiamento delle
cellule follicolari tiroidee, condizioni che determinano il rilascio passivo di ormoni tiroidei, in assenza di una
iperfunzione ghiandolare.
Si parla di ipertiroidismo primario quando le cause di questa condizione patologica interessano
direttamente la ghiandola, come la malattia di Graves-Basedow, il gozzo tossico multinodulare e l’adenoma
tiroideo follicolare iperfunzionante. In caso di ipertiroidismo primitivo o primario i livelli di T3 e T4 risultano
aumentati, mentre i livelli di TSH sono bassi, a causa del feedback negativo esercitato dagli ormoni tiroidei.
L’ipertiroidismo secondario è invece dovuto a cause esterne alla ghiandola, come disturbi della produzione
di TRH o TSH e assunzione di eccessive quantità di ormone tiroideo; in caso di ipertiroidismo secondario i
livelli di TSH possono essere aumentati o nella norma, nonostante gli elevati livelli di T3 e T4.

I soggetti affetti da ipertiroidismo presentano ipermetabolismo e iperattività del sistema nervoso; la facies
tipica dei soggetti ipertiroidei è caratterizzata da sguardo fisso e ampliamento della rima palpebrale, a
causa della contrazione del muscolo elevatore della palpebra superiore. Altra caratteristica tipica è
l’ipercinesia cardiaca, sempre dovuta alla notevole attività del sistema nervoso simpatico.
In merito allo stato di ipermetabolismo si ha:
- Aumento del metabolismo basale con conseguente incremento del
calore corporeo prodotto.
L’organismo per disperdere il calore in eccesso risponde con un
aumento del flusso ematico e con vasodilatazione periferica, motivo
per cui la cute appare soffice, calda e arrossata e spesso i pazienti
mostrano intolleranza al caldo e aumento della sudorazione.
- Calo ponderale, nonostante l’appetito aumenti
- Aumento del riassorbimento osseo, con conseguente osteoporosi e
aumentato rischio di fratture
- Atrofia del tessuto muscolare scheletrico con degenerazione
grassosa e infiltrato linfocitario; si può avere debolezza a carico della
muscolatura prossimale (miopatia tiroidea)
- Modesto ingrossamento epatico a causa di steatosi
L’iperattività del sistema nervoso, soprattutto della branca simpatica, determina:
- Ipercinesia cardiaca, quindi aumentata contrattilità e aumentata gittata cardiaca, tachicardia,
palpitazioni e cardiomegalia; nei pazienti anziani possono insorgere aritmie, soprattutto
fibrillazione atriale, e può insorgere insufficienza cardiaca congestizia. Si hanno anche alterazioni
istologiche del miocardio: focolai di infiltrazione linfocitaria ed eosinofila, lieve fibrosi interstiziale,
degenerazione adiposa e aumento di numero e dimensioni dei mitocondri.
- Tremori, instabilità emotiva, ansia, insonnia e incapacità di concentrazione
- Ipermotilità del sistema gastroenterico e diarrea
- Fissità dello sguardo e retrazione palpebrale, ma si parla di oftalmopatia tiroidea solo nella malattia
di Graves-Basedow, caratterizzata da un marcato esoftalmo
Nei casi gravi si può avere una crisi tireotossica, caratterizzata da febbre e tachicardia importanti, che
rappresenta un’emergenza medica, dal momento che predispone ad aritmie fatali.
Con l’espressione ipertiroidismo apatico si intende invece una condizione di ipertiroidismo che insorge in
pazienti anziani, nei quali la sintomatologia legata all’eccesso ormonale è sfumata.

La diagnosi di ipertiroidismo si avvale innanzitutto della valutazione del TSH, che risulta uno strumento di
screening importante, dal momento che esso può risultare ridotto anche in forme di ipertiroidismo
subclinico. La diagnosi viene poi confermata dalla valutazione del T4, che risulta aumentato. Nei casi di

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ipertiroidismo secondario i livelli di TSH sono normali o aumentati; vi sono anche delle forme in cui aumenta
il T3 libero, non il T4.
I farmaci più usati nella terapia dell’ipertiroidismo sono: beta-bloccanti, per controllare i sintomi legati
all’aumentato tono adrenergico, tionamidi, che inibiscono la sintesi ormonale, soluzioni iodate, che
bloccano il rilascio di ormoni, e agenti in grado di inibire la conversione periferica di T4 in T3. Può essere
utile l’impiego di iodio radioattivo, che viene assorbito dalla ghiandola e ne determina la perdita di
funzionalità.

Ipotiroidismo

Questa condizione è caratterizzata da bassi livelli di T3 e T4, che si associa, nelle forme primitive o
primarie, ad un aumento del TSH, poiché viene meno il feedback ormonale negativo. L’eccessiva
produzione di TSH induce una marcata iperplasia diffusa della ghiandola, spesso multinodulare.
Le cause di ipotiroidismo sono diverse:
- Deficit della sintesi degli ormoni, che si accompagna ad un aumento del TSH e alla formazione di
gozzo tiroideo compensatorio. Le cause possono essere diverse: alimentari, difetti genetici, ecc.
- Perdita di parenchima tiroideo, in seguito a diversi fenomeni patologici, come la tiroidite di
Hashimoto, o ad operazioni chirurgiche o terapie con iodio radioattivo
- Ridotta produzione di TSH o TRH: ipotiroidismo secondario
Vi sono anche forme idiopatiche, da considerare primitive.
Le cause di ipotiroidismo nel dettaglio sono:
- Ipotiroidismo primario
o Idiopatico
o Congenito
▪ Difetti genetici di sviluppo ghiandolare (agenesia e ipoplasia tiroidea)
▪ Difetti della biosintesi degli ormoni, che possono riguardare qualsiasi momento
della sintesi ormonale
▪ Deficit di iodio
o Perdita di parenchima
▪ Ablazione con iodio radioattivo
▪ Terapia radiante della regione cervicale
▪ Resezione chirurgica
▪ Tiroidi, soprattutto autoimmuni
o Farmaci
- Forme secondarie
o Insufficienza ipofisaria
o Insufficienza ipotalamica
Tra le forme primitive rientra anche l’ipotiroidismo congenito, definito anche cretinismo dal momento che
si associa a ritardi cognitivi. L’ipotiroidismo congenito può essere:
- Endemico, dovuto alla carenza di iodio nella dieta; la carenza di iodio si ripercuote sulla madre, che
risulta ipotiroidea, e sul feto, dal momento che durante lo sviluppo fetale gli ormoni tiroidei
derivano esclusivamente dalla madre, grazie al passaggio attraverso la placenta.
- Familiare, causato da difetti ereditari a carico della biosintesi degli ormoni; si tratta di forme
disormogenetiche familiari che si palesano quando l’individuo cessa di fare affidamento sugli
ormoni materni
- Sporadico, dovuto a mutazioni ex novo, non ereditarie, relative al processo di formazione della
ghiandola (agenesia o disgenesia tiroidea) o alla biosintesi di ormoni (difetto disormogenetico)
Gli ormoni tiroidei risultano fondamentali nello sviluppo di diversi apparati, incluso il SNC, pertanto
l’ipotiroidismo congenito può portare a deficit mentali più o meno gravi.
Clinicamente l’ipotirodismo congenito si manifesta con:
- Bassa statura ed alterato sviluppo scheletrico
- Alterato sviluppo del SNC e ritardo mentale

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- Tratti facciali grossolani
- Macroglossia
- Addome largo ed ernia ombelicale
- Letargia, iporeattività ed ipotermia
Se non trattata questa condizione porta quindi a nanismo e ritardo mentale; la terapia risulta efficace nel
trattamento del nanismo, mentre per quanto riguarda il ritardo mentale i risultati sono variabili e
ovviamente dipendono dalla diagnosi precoce e dalla tempestività della terapia.

L’ipotiroidismo presenta un profilo clinico opposto all’ipertiroidismo:


ridotto metabolismo basale e ipoattività del sistema nervoso. La
riduzione del catabolismo comporta un accumulo di proteoglicani a livello
di interstizio, i quali richiamano acqua e determinano mixedema sia a
livello cutaneo che connettivale (detto anche malattia di Gull, termine con
cui spesso ci si riferisce all’intero quadro di ipotiroidismo). Il mixedema a
livello di strato connettivale della lingua determina macroglossia. Tale
fenomeno avviene anche a livello di volte, dove determina una facies
tipica, con aspetto edematoso e palpebre gonfie; l’edema interessa anche
mani, piedi e mucosa della laringe, determinando una voce più grave.
La riduzione del metabolismo basale determina una minor produzione di
calore e conseguente vasocostrizione periferica: la pelle appare fredda, i capillari sono fragili, con
ecchimosi frequenti, e la cicatrizzazione delle ferite è ritardata. La ridotta produzione di calore determina
anche ridotta sudorazione, alimentata anche da una minor stimolazione del simpatico che si riflette sulle
secrezioni sebacee; nel complesso si ha una aumentata secchezza e una aumentata fragilità della cute e
dei capelli. La ridotta stimolazione simpatica determina anche ipocinesia cardiaca.
Si ha un progressivo rallentamento delle attività psicofisiche: affaticamento, apatia, torpore mentale,
rallentamento del linguaggio e delle funzioni intellettive. La riduzione del tono simpatico determina anche
costipazione. L’ipotiroidismo facilita anche l’aumento ponderale e promuove un profilo aterogenico
(aumento dei livelli di colesterolo e LDL).

La diagnosi di iporitoidismo si basa in primo luogo sui livelli sierici di TSH, che risultano aumentati nelle
forme primarie, ma non in quelle secondarie; in entrambe le forme i livelli di T4 sono ridotti.

GOZZO

Il termine gozzo, dal latino guttur, indica un ingrandimento, ben visibile, della ghiandola tiroidea; il gozzo,
tranne che nel caso dell’adenoma tossico, non è dovuto a cause neoplastiche e dal punto di vista
anatomopatologico si preferisce parlare di iperplasia su base metabolica o funzionale, specificandone la
natura non neoplastica. Il termine gozzo è quindi aspecifico e poco valido dal punto di vista anatomo-
patologico.
A seconda della diffusione nella popolazione il gozzo può essere definito:
- Endemico, se presente in più del 10% della popolazione stessa. Il gozzo endemico corrisponde al
gozzo ipotiroideo da deficit di iodio nella dieta. Lo iodio è un anione, non particolarmente diffuso
in natura, captato dalle cellule follicolari tiroidee grazie al trasportatore NIS, simporto sodio-iodio, e
usato per la sintesi degli ormoni tiroidei. In assenza di iodio la produzione ormonale è deficitaria, il
TSH è elevato e la tiroide risulta ingrandita, infatti, il TSH oltre a stimolare la produzione ormonale
induce anche ipertrofia della ghiandola.
- Sporadico, dovuto a tutte le cause non endemiche; tre le forme di gozzo ipofunzionante ve ne sono
alcune a carattere familiare.

L’iperplasia tiroidea può essere sia diffusa che multi-nodulare e si ritiene che queste due conformazioni
possano essere consequenziali: negli stadi iniziali la ghiandola si ingrandisce in maniera diffusa, uniforme,
con ipertrofia e iperplasia delle cellule follicolari, ma successivamente perde l’uniformità anatomica e

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diviene multinodulare, con alcune aree che vanno incontro a involuzione colloidea, ovvero si ha accumulo
di colloide associato a ipofunzione delle cellule follicolari, e altre che risultano iperfunzionanti e presentano
esigua colloide (appena prodotta viene usata per sintetizzare gli ormoni). È possibile apprezzare anche aree
di emorragia, fibrosi, calcificazione e degenerazione cistica.

Tutte le forme di gozzo sono caratterizzate da un aumento delle dimensioni della ghiandola, ma in base alla
funzionalità tiroidea è possibile distinguere:
- Gozzo iperfunzionante
- Gozzo ipofunzionante (ad esempio il gozzo endemico)
- Gozzo eufunzionante
I gozzi associati ad ipertiroidismo sono tossici, mentre quelli associati a ipotiroidismo e eutiroidismo no. Nel
tempo sono però possibili trasformazioni funzionali: gozzi inizialmente non tossici possono diventarlo; ad
esempio, il gozzo tossico multinodulare può svilupparsi a partire da gozzo ipotiroideo o eutiroideo.
Indipendentemente dalla tossicità, tutte le forme di gozzo tendono a dare manifestazioni cliniche
associate alla compressione esercitata dalla ghiandola sulle strutture limitrofe:
- Disfagia per compressione esofagea
- Stridor per compressione della trachea
- Disturbi della fonazione per compressione del nervo laringeo ricorrente
In alcuni casi è necessario un intervento chirurgico per risolvere la sintomatologia.

Gozzo eutiroideo

È la forma più frequente in Italia e la patogenesi non è del tutto chiara: si ritiene che le cellule follicolari dei
pazienti affetti non siano tutte ugualmente responsive al TSH e pertanto si abbiano zone che proliferano
intensamente e producono ormoni e altre zone meno responsive. A causa di questo fenomeno si ha una
sorta di selezione cellulare e le cellule maggiormente responsive proliferano, mentre quelle meno
responsive vanno in quiescenza. Questo determina un aumento delle dimensioni della ghiandola, a causa
delle zone in attiva proliferazione, ma senza un aumento degli ormoni tiroidei, a causa delle presenza
delle zone iporesponsive.

Gozzo ipotiroideo

L’inadeguata sintesi di ormoni tiroidei comporta un aumento compensatorio del TSH, che a sua volta
determina iperplasia e ipertrofia del parenchima tiroideo, nel vano tentativo di implementare la
produzione ormonale. Il TSH non riesce però a normalizzare la produzione ormonale e determina un
ingrandimento progressivo della tiroide, fino alla formazione del gozzo.
Il gozzo ipotiroideo è quindi associato a ipotiroidismo da deficit della sintesi ormonale e può essere
definito:
- Endemico, dovuto a dieta povera di sodio; questa forma interessa paesi lontani dal mare, come
africa centrale, Himalaya, ecc. ed è stata arginata con l’introduzione del sale iodato
- Sporadico: si sviluppa in condizioni di normale apporto di iodio dal momento che sono altre le
cause di compromissione della sintesi ormonale; possibili cause sono farmaci o vegetali che
interferiscono con la biosintesi di T3 e T4
- Familiare, forma rara dovuta a difetti ereditari della sintesi degli ormoni tiroidei o dei recettori
periferici degli ormoni stessi. Se risultano alterati i recettori ormonali si ha un aumento del TSH,
nonostante i livelli ormonali siano nella norma

Gozzo ipertiroideo

L’eziologia del gozzo ipertiroideo è ben definita, infatti, esso si manifesta in forme particolari di
ipertiroidismo: malattia di Graves-Basedow, gozzo tossico multinodulare e adenoma follicolare
iperfunzionante, detto anche adenoma tossico di Plummer.

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Malattia di Graves-Basedow

Colpisce lo 0,4% della popolazione, soprattutto il sesso femminile, e rappresenta la causa di ipertiroidismo
più frequente nei pazienti con meno di 40 anni. Alla base di questa malattia autoimmune vi sono sia fattori
ambientali che fattori genetici, come dimostra l’elevata concordanza tra gemelli monozigoti.
Tale patologia è dovuta ad una compromissione dei meccanismi di tolleranza immunitaria, che porta alla
formazione di auto-anticorpi contro le cellule follicolari:
- Anticorpi anti-TSHr, che stimolano il
recettore del TSH in maniera più
prolungata (16 ore) rispetto a quanto
fa il TSH stesso (2 ore). Questi anticorpi
stimolano quindi le cellule follicolari e
determinano la formazione del gozzo.
Questi anticorpi sono sostanzialmente
analoghi al TSH e sono detti LATS
- Anticorpi anti-tireoglobulina
- Anticorpi anti-microsomi
- Anticorpi anti-ormoni tiroidei T3 e T4
La rottura della tolleranza periferica non è però
sufficiente a spiegare lo sviluppo della malattia.
Una prima ipotesi vede, oltre al
malfunzionamento dei T-soppressori, la
presenza di T-helper in grado di riconoscere il
recettore del TSH e una volta attivati indurre la
formazione di auto-anticorpi contro di esso.
Un’altra ipotesi vede invece alla base la
presenza di anticorpi diretti contro il TSH
stesso, formatesi in seguito alla rottura della
tolleranza periferica. Questi anticorpi
presentano un dominio FAB complementare al
TSH e quindi paragonabile al TSH-recettore: se
vengono riconosciuti dai linfociti questi anticorpi possono portare alla formazione di altri anticorpi, diretti
contro loro dominio FAB (anticorpi anti-idiotipo). I primi anticorpi formatesi sono diretti contro il TSH,
quindi analoghi al recettore del TSH, mentre i secondi sono complementari ai primi, quindi analoghi al TSH
stesso (anticorpi LATS).
La formazione degli autoanticorpi è favorita anche da meccanismi di mimetismo molecolare: Yersinia
Enterocolitica presenta antigeni i cui epitopi possono essere simili ad antigeni self tiroidei e si possono
avere fenomeni di cross-reattività degli anticorpi.

Clinicamente si manifesta con un complesso sindromico caratterizzato da gozzo diffuso, ipertiroidismo e


tireotossicosi, più o meno grave a seconda dei casi. Si hanno quindi sintomi tipici di queste condizioni,
come ipertono simpatico, fissità dello sguardo e innalzamento della palpebra superiore. Tipici della malattia
di Graves-Basedow sono anche il mixedema pretibiale e l’oftalmopatia infiltrativa con esoftalmo, causati
dall’accumulo di auto-anticorpi, non dall’aumento degli ormoni tiroidei.
L’oftalmopatia infiltrativa è causata dall’accumulo di tessuto connettivo edematoso nel tessuto
retrooculare e si traduce in una anomala protrusione del lobo oculare (esoftalmo, proptosi).
L’autoimmunità ha un ruolo importante nella patogenesi dell’oftalmopatia:
- In sede retro-orbitaria si ha un cospicuo infiltrato infiammatorio, probabilmente perché linfociti e
cellule infiammatorie riconoscono antigeni simili a quelli tiroidei
- L’infiammazione determina essudazione, edema e tumefazione dei muscolo extra-oculari
- Il processo infiammatorio determina l’accumulo di componenti della matrice, come
glicosamminoglicani, e l’aumento del numero di adipociti. Secondo alcuni recenti studi ciò è dovuto

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al fatto che i fibroblasti pre-adipocitari a livello orbitale esprimono i recettori del TSH e divengono
quindi bersaglio della risposta autoimmune: viene stimolata la proliferazione dei fibroblasti e il loro
differenziamento in senso adipocitario
Il mixedema pretibiale può in realtà colpire altre sedi corporee, come le mani, ed è detto anche dermopatia
tiroidea o acropatia tiroidea; in ogni caso si tratta di lesioni cutanee dovuto all’accumulo di acido ialuronico
(colorabile in blu nei preparati istologici) e proteoglicani nelle aree profonde del derma, con conseguente
richiamo di acqua.
Infine, dal momento che l’ingrossamento della tiroide può essere accompagnato da un aumento del flusso
ematico a livello ghiandolare, talvolta è possibile apprezzare un soffio vascolare a questo livello.

Macroscopicamente si ha un ingrandimento simmetrico dei lobi tiroidei, il parenchima è di aspetto


carnoso e consistenza soffice e non sono rilevabili noduli, se non estremamente piccoli, dal momento che il
processo patologico interessa la ghiandola nella sua interezza.
Microscopicamente è possibile apprezzare l’iperplasia e
l’ipertrofia diffuse delle cellule follicolari.
L’ipertrofia fa sì che le cellule follicolari appaiano più alte del
dovuto, mentre l’eccessiva proliferazione ne determina
l’affollamento lungo la periferia dei follicoli e la formazione di
pieghe, dette micropapille (infoldings), che aggettano nel lume
follicolare dislocando la colloide e talvolta obliterando i follicoli
stessi. Le micro-papille che si vengono a formare non sempre
presentano un asse fibrovascolare.
Dal momento che le cellule follicolari sono iperfunzionanti
producono e riassorbono tireoglobulina così rapidamente che la
colloide non fa in tempo ad addensarsi e appare chiara. Inoltre, il
marcato riassorbimento, le conferisce, all’interfaccia con le cellule follicolari, un aspetto smerlato o “moth
eaten”, oltre a far sì che risulti carente o addirittura assente.
La riduzione/assenza della colloide e la presenza di pieghe che
protrudono all’interno dei follicoli fanno sì che, se normalmente essi
risultano sferici, nella malattia di Graves tendano ad assumere un
aspetto sacciforme, irregolare.
Come conseguenza del processo immunitario, a livello interstiziale si
hanno infiltrati di linfociti T, linfociti B e plasmacellule; talvolta si
hanno anche centri germinativi.
A causa dell’iperfunzionalità alla scintigrafia la ghiandola capta lo
iodio in modo notevole e diffuso.
La malattia di Graves Basedow a livello laboratoriale è caratterizzata da elevati livelli di T3 e T4 liberi con
diminuzione dei livelli di TSH, inibito dal feedback negativo. La diagnosi può poi essere confermata dalla
scintigrafia. Il trattamento della malattia di Graves Basedow si basa sulla somministrazione di 𝛽 bloccanti e
su misure finalizzate a diminuire la sintesi ormonale, come la somministrazione di tionamidi (ad es.
propiltiouracile), la radioablazione con Iodio radioattivo o l’asportazione chirurgica della ghiandola.

Gozzo tossico multinodulare

Si manifesta tipicamente in pazienti con più di 50 anni affetti da gozzo ipotiroideo o eutiroideo che nel
tempo tende ad evolvere in gozzo multinodulare; si ha una lieve prevalenza nel sesso maschile.
Inizialmente la ghiandola è abbastanza omogenea, ma col passare del tempo si formano aree di iperplasia,
in cui la colloide è poco concentrata, e aree di involuzione colloidea, che presentano follicoli di notevoli
dimensioni e risultano chiari alla scintigrafia.
Per quanto riguarda la patogenesi si ritiene che la diversa responsività dei tireociti al TSH (gozzo
eutiorideo) e/o il succedersi di episodi di stimolazione da TSH (gozzo ipotiroideo) possano dar vita, a

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lungo andare, a noduli iperplastici che divengono funzionalmente
autonomi, ovvero indipendenti dal TSH.
I noduli funzionalmente autonomi sopprimono l’attività delle regioni
circostanti dipendenti dal TSH e ne favoriscono l’involuzione,
aumentando l’eterogeneità funzionale della ghiandola. Si formano quindi
zone di ipercaptazione, zone di normocaptazione e zone di
ipocaptazione, ma nel complesso si ha una condizione di ipertiroidismo.
Nel caso di gozzo ipotiroideo da deficit di iodio la carenza di iodio
determina sia un aumento del rilascio del TSH sia una maggiore
responsività delle cellule tiroidee al TSH stesso ed entrambe queste
condizioni favoriscono la comparsa di gozzo multinodulare.
I noduli iperfunzionanti si comportano come strutture neoplastiche, con cui condividono l’indipendenza
dal TSH, e nel 20-30% dei casi presentano alterazioni simili ad elementi cancerosi; il confine tra gozzo
multinodulare e forme neoplastiche è quindi alquanto labile.

Alla disomogeneità funzionale si accompagna quella morfologica, sia


macroscopica che microscopica.
Macroscopicamente la tiroide risulta multilobulata, asimmetrica ed
ingrandita. Sulla sezione di taglio presenta noduli irregolari con diversa
quantità di colloide: alcuni noduli sono scuri e presentano molta colloide,
visto che le cellule follicolari sono ipofunzionanti, mentre altri,
corrispondenti ai noduli iperfunzionanti, sono più chiari e carnosi.
Si ha anche una distorsione della vascolarizzazione e del tessuto
connettivo, pertanto sono presenti fenomeni di degenerazione, come
episodi emorragici, episodi infatuali seguiti da fibrosi, degenerazione
cistica, calcificazione e ossificazione.
Dal punto di vista istologico, anche a basso ingrandimento, è possibile
osservare l’alternarsi di aree ipo- e iper- funzionanti, ma queste
alterazioni sono rilevabili anche in gozzi eutiroidei o ipotiroidei non ancora
evoluti in gozzo multinodulare. La vera differenza nel gozzo multinodulare
risiede nei livelli di TSH e ormoni tiroidei circolanti, visto il quadro di
ipertiroidismo, e nel fatto che i noduli iperfunzionanti sono indipendenti dal TSH.

Adenoma follicolare iperfunzionante o adenoma tossico o adenoma di Plummer

In questo caso il gozzo ipertiroideo è dovuto alla formazione di una neoplasia benigna, anche se di norma
non si parla di gozzo in presenza di fenomeni neoplastici.
L’adenoma di Plummer consiste in una tumefazione derivante dall’epitelio
follicolare, tipicamente isolata e capsulata, costituita da follicoli addensati tra
loro. Queste lesiono sono particolarmente attive nel rilascio di ormoni tiroidei,
pertanto causano un quadro di ipertiroidismo. La neoplasia è indipendente dal
TSH, pertanto in breve tempo si ha un aumento degli ormoni tiroidei e un calo del
TSH, per feedback negativo; per questo motivo il resto della ghiandola risulta
escluso dal punto di vista funzionale e risulta ipocaptante alla scintigrafia.

Nelle immagini in basso si osservano: gozzo tossico multinodulare, adenoma tossico e malattia di Graves

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TIROIDITI

Le tiroiditi, o infiammazioni delle tiroide, comprendono un gruppo eterogeneo di affezioni a varia eziologia
accumunate dalla presenza di un grado variabile di flogosi tiroideo.
Tra le tiroiditi si distinguono forme infettive, acute o croniche, forme autoimmuni e forme idiopatiche.
Le forme infettive tendono solitamente a dare una sintomatologia dolorosa in sede cervicale, dolorabilità
della ghiandola, febbre con brividi e altri segni di infezione, ma non alterano in modo considerevole la
funzione tiroidea. Inoltre, a parte la possibilità di piccole retrazioni cicatriziali, non presentano reliquati.
Altre tiroiditi sono invece in grado di determinare la perdita di parenchima ghiandolare e conseguente
ipotiroidismo; quelle più rilevanti sono la tiroide di Hashimoto, la tiroidite granulomatosa di De Quervain e
la tiroidite di Riedel.
Anche la malattia di Graves-Basedow presenta una infiammazione ghiandolare conseguente alla risposta
autoimmune, ma essa non risulta l’elemento principale della patologia.

Tiroide di Hashimoto

La tiroide di Hashimoto rappresenta la causa più comune di ipotiroidismo nelle zone del mondo con
sufficiente apporto di iodio. Tale patologia fu descritta per la prima volta dal giapponese Hakaru Hashimoto
nel 1912, a Berlino.
Si tratta di una patologia autoimmune in cui in seguito alla rottura della tolleranza periferica gli antigeni
self della tiroide vengono riconosciuti come estranei. Si formano quindi linfociti T diretti contro le cellule
tiroidee e auto-anticorpi; la maggior parte degli auto-anticorpi sono anti-microsomiali, ma vi sono anche
anticorpi diretti contro il recettore del TSH che hanno effetto bloccante, a differenza di quanto avviene
nella malattia di Graves.
L’inibizione del recettore del TSH e la graduale perdita di parenchima ghiandolare determinano la
progressiva riduzione di attività della ghiandola.
I meccanismi immunologici alla base della degenerazione delle cellule epiteliali tiroidee sono diversi:
- Morte cellulare mediata dei linfociti citotossici CD8+
- Morte cellulare citochino-mediata, conseguente all’eccessiva attivazione dei TH1
- Citotossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente
Si ha quindi la progressiva sostituzione del parenchima ghiandolare con tessuto connettivale fibroso.
L’ipotiroidismo si sviluppa in maniera graduale e in alcuni casi può essere preceduto da tireotossicosi,
dovuta al rilascio passivo di ormoni in seguito alla distruzione dei follicoli tiroidei.
Nella fase di tireotossicosi i livelli di T3 e T4 sono aumentati, il TSH è ridotto e la captazione di iodio
radioattivo è minore, dal momento che la ghiandola inizia a perdere la propria funzione; quando la fase di
tireotossicosi cessa sopraggiunge l’ipotiroidismo e si ha una progressiva riduzione dei livelli di T3 e T4,
accompagna da un progressivo aumento del TSH.
Anche in questo caso la risposta autoimmune presenta alla base una predisposizione genetica: nei pazienti
affetti sono molto comuni gli aplotipi HLA-B8, HLA-DR5 e HLA-DR3; quest’ultimo è associato ad una
prognosi infausta, con l’insorgenza di una grave atrofia tiroidea. I pazienti affetti da tiroide di Hashimoto
presentano spesso anche altre malattie autoimmuni e si ha una concordanza del 40% tra gemelli
monozigoti.

Macroscopicamente la malattia è caratterizzata da un ingrandimento


simmetrico della ghiandola, che inizia già nelle prime fasi ed è da attribuire
all’infiltrato immunologico. La ghiandola presenta inoltre un colorito
biancastro-lardaceo a causa della presenza di globuli bianchi e aree fibrotiche.
Patognomico di questa condizione è l’aspetto pesudo-nodulare, apprezzabile
anche ecograficamente (in questa fase spesso avviene la diagnosi).

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Microscopicamente si hanno quattro caratteristiche importanti da ricordare:
- Presenza di infiltrato infiammatorio cronico di natura linfo-
plasmacellulare con centri germinativi
- Distruzione del parenchima con atrofia dei follicoli: i follicoli
appaiono atrofici e spesso rivestiti da cellule epiteliali con
abbondante citoplasma eosinofilo e granulare, dette cellule di
Hurthle.
- Fibrosi, con formazione di tessuto cicatriziale, che risulta via via
più marcata con il passare del tempo
- Metaplasia oncocitica delle cellule follicolari, con notevole
accumulo di mitocondri, dovuta al danno infiammatorio

Tiroidite di Riedel

Si tratta di una forma rara di tiroidite fibrosante che


colpisce soprattutto le donne di mezza età. In questo caso
il processo infiammatorio è estremamente blando e
prevale la fibrosi, che risulta estremamente marcata e si
estende anche ai tessuti circostanti del collo. La regione
del collo diviene sclerotica e compatta si parla di iron
collar.
L’eziologia di questa malattia è ignota, ma la patogenesi
del processo fibrotico è legata alla produzione idiopatica
di IgG4 che si depositano a livello periferico e inducono
processi fibrotici cronici. La deposizione di tessuto
connettivo ha un caratteristico aspetto storiforme; il
tessuto connettivo appare inizialmente giovane e successivamente si fa sempre più denso e ialino. Si ha
anche un infiltrato infiammatorio, caratterizzato da linfociti a plasmacellule, ma non si hanno centri
germinativi.
Questa malattia è spesso associata anche a fenomeni fibrotici di altri distretti, come il retroperitoneo,
l’orbita e il mediastino.

Tiroidite subacuta di De Quervain o tiroidite granulomatosa

È una forma abbastanza rara che interessa soprattutto le


donne tra i 20 e i 50 anni e decorre in modo sub-acuto e
autolimitante. Si ritiene che l’eziologia possa essere di
natura virale, infatti, in molti casi si manifesta in seguito ad
una infezione virale delle vie aeree superiori.
L’infezione virale, probabilmente, determina un danno
puntiforme a livello follicolare permettendo lo stravaso
della colloide, che viene riconosciuta come corpo estraneo
e innesca una reazione infiammatoria basata su neutrofili,
responsabili di micro-ascessi, linfociti e plasmacellule.
Le cellule infiammatorie non sono però in grado di digerire
la colloide stravasata e si accumulano; nelle fasi tardive vengono reclutati anche elementi istiocitari che
vanno a formare le cellule giganti: si ha quindi una reazione di tipo giganto-cellulare. Dal momento che
nel tempo le cellule giganti sono in grado di degradare la colloide la risposta immunitaria si estingue ed
esita nella completa restitutio ad integrum o nella formazione di piccole chiazze di fibrosi.
Clinicamente questa malattia si manifesta con febbre, dolore al collo e ghiandola aumentata di volume.
In un primo momento, in seguito al danno follicolare, si ha un ipertiroidismo transitorio, seguito poi da
una fase ipotiroidea.

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In alcuni casi il processo infiammatorio è focale e determina delle lesioni interpretabili come noduli
neoplastici, anche perché possono risultare positive all’analisi citologica, dal momento che l’infiammazione
determina alterazioni cellulari. In questo caso è quindi possibile che si esegua una errata asportazione
dell’organo. Tale discorso vale per tutte le tiroidi con andamento focale, anche nella tiroidite di Riedel, in
cui l’analisi citologica non è possibile per via dell’elevata fibrosi e non si può correre il rischio che il nodulo
sia effettivamente neoplastico, pertanto si procede con asportazione.

NEOPLASIE DELLA TIROIDE

Per tumore tiroideo si intende una neoplasia nodulare generalmente singola, anche se in alcuni casi può
manifestarsi nel contesto di una patologia iperplastica multinodulare.
Le neoplasie tiroidee si dividono in benigne e maligne; le neoplasie maligne sono molto rare e sono causa di
decesso solo nello 0,5% dei casi, ma rappresentano le più comuni neoplasie maligne del sistema endocrino.
Il nodulo solitario della tiroide è una tumefazione localizzata e palpabile, nel contesto di una ghiandola
apparentemente normale; l’incidenza di noduli tiroidei è maggiore nelle donne, nelle aree con endemia
gozzigena e aumenta con l’avanzare dell’età. Fortunatamente la maggior parte dei noduli tiroidei è
rappresentata da lesioni non neoplastiche o neoplasie benigne.
Diversi criteri clinici forniscono indizi sulla natura di un nodulo tiroideo:
- I noduli solitari hanno maggior probabilità di essere neoplastici rispetto ai noduli multipli
- I noduli nei pazienti giovani hanno maggior probabilità di essere neoplastici rispetti ai noduli nei
pazienti anziani
- I noduli sono più probabilmente neoplastici nel sesso maschile rispetto a quello femminile
- La radioterapia nella regione del collo è associata ad un maggior incidenza di neoplasie maligne
tiroidee
- I noduli funzionali che captano iodio radioattivo alla scintigrafia, detti noduli caldi, sono più
verosimilmente benigni che maligni

Classificazione delle neoplasie tiroidee

Neoplasie primitive
- Neoplasie epiteliali
o Cellule follicolari
▪ Benigne: adenoma follicolare
▪ Maligne ben differenziate: carcinoma follicolare, carcinoma papillifero
▪ Maligne scarsamente differenziate: carcinoma insulare, PDC NOS (Poorly
Differentiated Carcinoma Not Otherwise Specified)
▪ Maligne indifferenziate: carcinoma anaplastico
o Cellule parafollicolari (sono per definizione maligne)
▪ Carcinoma midollare
- Neoplasie mesenchimali
o Linfoma
o Sarcoma: leiomiosarcoma, angiosarcoma, tumore fibroso solitario

Neoplasie secondarie
- Metastasi da melanoma, carcinoma, ecc.

Essendo la tiroide un organo prevalentemente epiteliale le neoplasie mesenchimali sono piuttosto rare.
Le neoplasie secondarie derivano soprattutto dal rene.

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Adenoma follicolare

Gli adenomi della tiroide sono solitamente tumefazioni solitarie localizzate derivanti dall’epitelio
follicolare, pertanto sono detti adenomi follicolari. In generale gli adenomi follicolari non sono precursori
dei carcinomi follicolari, ma la presenza di alterazioni genetiche condivise supporta l’ipotesi che un
sottogruppo dei carcinomi follicolari derivi da adenomi preesistenti.
Adenomi di grandi dimensioni possono dare segni locali, come difficoltà di deglutizione.
Nella maggior parte dei casi gli adenomi follicolari sono non funzionanti, ma alcuni producono ormoni
tiroidei in maniera indipendente dal TSH e inducono tireotossicosi clinicamente evidente.
Gli adenomi non funzionanti appaiono quindi come noduli freddi alla scintigrafia, dal momento che non
captano iodio radioattivo, mentre gli adenomi tossici, funzionanti, appaiono come noduli caldi; va tenuto
presente che la malignità è rara nei noduli caldi, mentre il 10% dei casi dei noduli freddi risulta maligno.
Noduli sospetti di malignità vengono analizzati con ecografia e biopsia con ago sottile. I sospetti adenomi
tiroidei devono essere asportati chirurgicamente per escludere che si tratti di una neoplasia maligna: vista
la necessità di valutare l’integrità della capsula diagnosi di adenoma può essere confermata solo dopo
attento esame istologico del campione asportato chirurgicamente.

Meno del 20% degli adenomi non funzionanti presenta alterazioni geniche, come mutazioni di RAS o PIK3CA
o il gene di fusione PAX8-PPARG, comuni anche ai carcinomi follicolari.
Negli adenomi tossici si hanno mutazioni somatiche a carico della via di segnalazione del recettore del TSH
che inducono le cellule follicolari a secernere ormoni indipendentemente dalla stimolazione del TSH; queste
mutazioni sono invece rari nei carcinomi follicolari, pertanto gli adenomi tossici e il gozzo multinodulare non
sembrano essere precursori di neoplasie maligne.

Tipicamente l’adenoma follicolare ha una forma sferica, è incapsulato e ben demarcato dal parenchima
tiroideo circostante; il diametro medio è di 3 cm, ma le dimensioni sono molto variabili. Il colore va dal
grigio-bianco al rosso scuro, a seconda della cellularità e del contenuto di colloide.
Le superfici di taglio possono presentare aree emorragiche, indicative di un pregresso esame citologico con
agoaspirato, e modificazioni regressive, come necrosi, ischemia e fenomeni cistici.
Microscopicamente si apprezza la capsula fibrosa ben definita,
che appare eosinofila, che circonda il nodulo di cellule tumorali
proliferanti, che appaiono basofile. Le cellule costituenti
l’adenoma formano follicoli uniformi contenenti colloide e
presentano un rapporto nucleo/citoplasma relativamente
elevato. Occasionalmente le cellule neoplastiche acquisiscono un
citoplasma granulare chiaramente eosinofilo (modificazione
ossifila o a cellule di Hurtle). La presenza di una intensa attività
mitotica, di aree di necrosi o elevata cellularità impone l’attenta
analisi della capsula, per escludere che si tratti di un carcinoma
follicolare.

La proliferazione delle cellule follicolari all’interno dell’adenoma può


seguire diversi pattern di crescita, con la tendenza a riprodurre aspetti
ontogenetici dell’organo (immagine a lato):
- Pattern solido (embrionale), che ripropone la crescita
dell’abbozzo embrionale tiroideo
- Pattern trabecolare (embrionale)
- Pattern microfollicolare (fetale), che ricorda l’aspetto dei follicoli
tiroidei nell’organo che si sta avviando al completamento
dell’ontogenesi

481
- Pattern normofollicolare (semplice) o macrofollicolare (colloide), in cui le cellule neoplastiche
producono follicoli uniformi di aspetto normale, talvolta più grandi nel normale
Questi pattern proliferativi sono solitamente compresenti nella medesima neoplasia, infatti, è raro trovare
un adenoma con un solo pattern di crescita. Questi pattern di crescita non hanno significato in termini di
benignità/malignità, ma aiutano la diagnosi di adenoma follicolare e vengono riprodotti anche all’esame
citologico con agoaspirato.
All’interno dell’adenoma follicolare si possono riscontrare aree di iperplasia follicolare, che entrano in
diagnosi differenziale con il carcinoma papillare.
Una variante funzionante dell’adenoma tiroideo è l’adenoma follicolare iperfunzionante, o adenoma di
Plummer, nel quale i follicoli presentano un aspetto attivato con colloide chiara, tipica del tessuto
iperfunzionante.

L’esame citologico tramite FNA mostra elevata


cellularità, scarsità di colloide, nuclei affastellati ma
uniformi e strutture micro-follicolari e trabecolari.
All’esame ultrastrutturale la cellula dell’adenoma
follicolare mostra un reticolo endoplasmatico
rugoso abbondante, ma meno mitocondri rispetto
alle cellule sane (appare comunque molto ben
differenziata); sono osservabili anche numerosi
capillari separati da membrana basale, a
testimoniare che si tratta di una neoplasia ben
vascolarizzata.

Nel contesto del gozzo multinodulare la distinzione tra un adenoma e un nodulo iperplastico non è
immediata e per aiutarsi si fa riferimento a tre criteri:
- L’adenoma follicolare è tipicamente un nodulo singolo
- L’adenoma follicolare possiede una capsula fibrosa ben
definita, mentre i noduli del gozzo multinodulare sono
circondati da un po’ di tessuto fibroso, ma non
presentano una vera e propria capsula
- All’interno dell’adenoma follicolare tutte le cellule sono
uguali tra loro, visto che la proliferazione è clonale,
mentre nel nodulo iperplastico vi sono varie popolazioni
cellulari, follicoli di dimensioni variabili, aree di
involuzione colloide e fenomeni regressivi
(nell’immagine a lato si vede un nodulo iperplastico)
Le strutture di Sanderson Polster sono esempi di “ghiandola dentro la ghiandola” ovvero si ha un follicolo
all’intero di un altro follicolo e sono indicativi di iperplasia; va tenuto presente che la presenza di “ghiandola
nella ghiandola” è tipicamente associata a neoplasie maligne.

CARCINOMI TIROIDEI

I carcinomi tiroidei sono relativamente rari e rappresentato circa l’1,5% di tutte le neoplasie maligne.
Nei carcinomi che insorgono in età adulta si ha una prevalenza nel sesso femminile, mentre i casi si
presentano nei bambini e negli anziani sono ugualmente distribuiti nei due sessi.
Nella stragrande maggioranza dei casi i carcinomi tiroidei derivano dall’epitelio , tranne il carcinoma
midollare, e sono ben differenziati. I principali sottotipi sono:
- Carcinoma papillare (85% dei casi)
- Carcinoma follicolare (5-15%)
- Carcinoma anaplastico (<5%)
- Carcinoma midollare (5%)

482
Le alterazioni genetiche delle neoplasie maligne derivate da cellule follicolari sono concentrate lungo due vie
oncogene: la via delle protein-chinasi mitogeno-attivate, MAP, e la via della fosfoinositolo-3-chinasi, PI3K.
Nei carcinomi tiroidei queste viene presentano mutazioni con acquisizione di funzione, pertanto sono
costitutivamente attive e determinano una eccessiva proliferazione cellulare e una maggior sopravvivenza
cellulare.
Nella patogenesi dei carcinomi tiroidei hanno un ruolo anche fattori ambientali, in particolare, il principale
fattore di rischio è l’esposizione a radiazioni ionizzanti, soprattutto nei primi due decenni di vita; anche la
carenza di iodio alimentare è associata ad una maggior frequenza dei carcinomi follicolari.

Carcinoma follicolare

Rappresenta il corrispettivo maligno dell’adenoma follicolare; si tratta di un carcinoma ben differenziato


originante dall’epitelio follicolare e caratterizzato da un’architettura esclusivamente follicolare.
Tende ad interessare soprattutto il sesso femminile e presenta un picco di incidenza tra i 40 e i 60 anni; è più
frequente nelle aree in cui si ha carenza alimentare di iodio.
Clinicamente si presenta come un nodulo non dolente a lento accrescimento; solitamente si tratta di noduli
freddi alla scintigrafia, anche se alcune forme ben differenziate possono essere iperfunzionanti e apparire
calde alla scintigrafia.
Il carcinoma follicolare presenta una scarsa tendenza ad invadere i vasi linfatici, quindi i linfonodi regionali
sono solitamente indenni, mentre l’invasione vascolare ematogena è più frequente e può portare a
metastasi a ossa, polmoni, fegato, ecc.
La prognosi dipende essenzialmente dall’estensione dell’invasione al momento della presentazione
clinica. I carcinomi follicolare ampliamente invasivi sviluppano spesso metastasi e nel 50% dei casi risultano
fatali entro 10 anni, mentre il carcinoma follicolare scarsamente invasivo presenta una sopravvivenza a 10
anni superiore al 90%.
Il trattamento prevede solitamente tiroidectomia totale e somministrazione di iodio radioattivo, in modo
da andare a distruggere anche le metastasi (le cellule metastatiche sono in grado di captare selettivamente
l’isotopo radioattivo). Inoltre, dal momento che residui neoplastici possono rispondere alla stimolazione del
TSH, dopo l’intervento viene somministrato ormone tiroideo, in modo da sopprimere la produzione
endogena di TSH. Per valutare le recidive si monitorano i livelli sierici di tireoglobulina.
Il 30-50% dei carcinomi follicolari presenta mutazioni nella via di PI3K/ATK, come mutazioni con
acquisizione di funzione di RAS e PIK3CA, amplificazioni di PIK3CA e perdita di funzione di PTEN. È stata
descritta anche una traslocazione specifica che crea un gene di fusione costituito da porzioni di PAX8, un
gene omeobox importante nello sviluppo tiroideo, e il Peroxisome Proliferator-Activated Receptor (PPARG),
un recettore ormonale nucleare implicato nella differenziazione terminale delle cellule.

Si distinguono due forme:


- Carcinoma follicolare minimamente invasivo, in cui vanno ricercate le aree di invasione della
capsula
- Carcinoma follicolare estesamente invasivo, che cresce sostituendo tutta la tiroide e dando vita ad
un pattern multinodulare, tanto che entra in diagnosi differenziale con il gozzo multinodulare; in
questo caso non vanno ricercate le aree di invasione capsulare, ma la capsula stessa.
Attualmente le forme estesamente invasive sono rare e rappresentano meno del 5% dei casi di
carcinoma follicolare.
Lo screening ecografico e citologico ha permesso di stabilire che sono più
frequenti le forme minimamente invasive, capsulate e
microscopicamente identici ad adenomi follicolari. Queste forme sono
solitamente singole, circondate da capsula fibrosa e caratterizzata da
proliferazione clonale di cellule.
Per distinguere un carcinoma follicolare minimamente invasivo e un
adenoma follicolare è necessario analizzare una sessione istologica e
ricercare le aree di penetrazione completa della capsula tumorale (della

483
capsula tumorale, non delle capsula tiroidea!). Le aree di penetrazione capsulare appaiono come erniazioni
a forma di fungo delle cellule neoplastiche verso l’esterno del nodulo.
Il secondo criterio differenziativo da valutare è l’invasione vascolare, ovvero la presenza di cellule
neoplastiche all’interno dei vasi della capsula tumorale o all’interno dei vasi esterni al nodulo neoplastico;
questo criterio è molto importante poiché ha anche valore prognostico. Il criterio di invasione vascolare
non è applicabile ai gettoni neoplastici presenti all’interno dei vasi intratumorali, dal momento che per
definizione si tratta di neoplasie altamente vascolarizzate.
L’invasione vascolare può essere minima, se interessa 1-3 vasi, o estesa, se interessa più di 4 vasi.
Nei casi dubbi si ricorre all’immunoistochimica sfruttando marcatori
endoteliali, ad esempio il fattore VIII, che evidenziano le cellule neoplastiche
che determinano tromboemboli all’interno dei vasi.
Il carcinoma follicolare presenta quindi un alto potere metastatizzante per via
ematica, anche se di piccole dimensioni; trattandosi di un tumore ben
differenziato le metastasi non sono rapide e spesso vengono diagnosticate a
distanza di anni dalla rimozione del nodulo tiroideo.
L’angioinvasione, oltre ad essere un criterio diagnostico, è anche un criterio
prognostico:
- Se l’invasione vascolare è minima la mortalità a 10 anni è del 5%
- Se l’invasione vascolare è estesa la mortalità a 10 anni è del 43%
L’invasione vascolare influenza la prognosi molto di più dell’infiltrazione capsulare.

Istologicamente il carcinoma follicolare ha aspetto identico all’adenoma follicolare con pattern di crescita
solitamente micro-follicolare, ma si possono avere anche pattern solido, trabecolare e normo-follicolare.
Alterazioni e atipie citologiche e attività mitotica sono più frequenti, ma non sono esclusive del carcinoma.
L’esame istologico, per quanto importante, non permette di fare diagnosi differenziale tra adenoma e
carcinoma follicolare, a meno che non sia eseguito a livello di interfaccia da tessuto neoplastico e tessuto
sano circostante, infatti, per escludere l’invasione capsulare e vascolare è necessario un ampio
campionamento istologico. Anche l’aspetto ultrastrutturale è identico a quello dell’adenoma follicolare.
In alcuni casi, la differenziazione follicolare può essere meno evidente, e possono esservi nidi o lamine di
cellule prive di colloide. Qualunque sia l’architettura, i nuclei non mostrano le caratteristiche tipiche del
carcinoma papillare e mancano i corpi psammomatosi.

Carcinoma oncocitico o carcinoma a cellule di Hurtle

Una variante relativamente comune del carcinoma follicolare è il carcinoma oncocitico, o carcinoma
ossifilo o a cellule di Hurtle, costituita per almeno il 75% da cellule neoplastiche ossifile.
Macroscopicamente il tumore appare brunastro con aree emorragiche e, nonostante sia ben circoscritto,
sono evidenti le aree di penetrazione capsulare.
Microscopicamente il carcinoma ossifilo si caratterizza per la presenza
di cellule grandi con citoplasma abbondante, granulare e eosinofilo,
a causa dell’abbondanza di mitocondri; queste cellule presentano
pleiomorfismo nucleare e nucleoli prominenti. Anche in questo caso
la diagnosi si basa sulla presenza di aree di infiltrazione capsulare e
aree di angio-invasione.
A livello ultrastrutturale si evidenziano moltissimi mitocondri
intracitoplasmatici, con una riduzione del numero di creste e la
presenza di corpi elettrondensi intramatrice.
Il carcinoma follicolare oncocitico ha una prognosi peggiore della
controparte non-oncocitica poiché, avendo dei difetti nel sistema di
respirazione cellulare, è energicamente meno competente; pertanto,
cattura meno iodio, rispondendo meno alla terapia con radioiodio.

484
Carcinoma papillare o papillifero

Il carcinoma papillifero è la forma più comune di cancro alla tiroide e presenta un picco di incidenza tra i 25
e i 50 anni. Negli ultimi 30 anni l’incidenza di questo sottotipo è aumentata dal momento che sono state
riconosciute varianti follicolari erroneamente diagnosticate in passato.
Nella maggior parte dei casi si presenta come un nodulo tiroideo asintomatico, ma in alcuni casi la prima
manifestazione può essere una tumefazione in un linfonodo cervicale. Disfonia, disfagia, tosse e dispnea
sono presenti solo in uno stadio avanzato; in una minoranza dei casi si possono avere anche metastasi
ematogene al momento della diagnosi. I carcinomi papillari si presentano come noduli freddi alla
scintigrafia. La prognosi di queste neoplasie è eccellente, con un tasso di sopravvivenza a 10 anni > 95%;
pare che il coinvolgimento linfonodale locale non influenzi in maniera significativa la prognosi.
L’incidenza di queste neoplasie sta aumentando anche grazie allo screening, che permette di riconoscere
anche carcinomi papillari di 5-6 mm che rimangono di fatto latenti per tutta la vita; alcuni sostengono che
l’introduzione di sale iodato, che protegge dal carcinoma follicolare, non solo non protegga dal carcinoma
papillare, ma ne sia addirittura una concausa.
Caratteristica di quasi tutti i carcinomi papillari è l’attivazione della via delle MAP-chinasi, che può avvenire
in seguito a riarrangiamenti di RET o NTRK1 e mutazioni
puntiformi di BRAF.

Il carcinoma papillare, nella forma classica, presenta


strutture follicolari, comuni a tutte le neoplasie originanti
dalle cellule follicolari, ma si caratterizza per la prevalente
formazione di papille.
Macroscopicamente può presentarsi come una massa
circoscritta ma priva di capsula, può mostrare una
permeazione diffusa della ghiandola o può essere molto
esteso e presentare papille visibili ad occhio nudo.

Microscopicamente si apprezzano papille con asse fibrovascolare denso rivestito da uno o più strati di
cellule epiteliali cuboidi solitamente ben differenziate, ma in una
minoranza dei casi anaplastiche, e cellule infiammatorie.
La diagnosi di carcinoma papillare non si basa però sulle papille,
ma sulle caratteristiche alterazioni della morfologia nucleare,
tipicamente associate alla presenza di papille (ma non sempre):
- Nucleo ingrandito allungato
- Chiarificazione della cromatina
- Pieghe della membrana nucleare
- Inclusi o pseudo-cisti nucleari, che
appaiono come strutture circolari o
bollose nel nucleo
Nei nuclei delle cellule follicolari del
carcinoma papillare si ha l’instabilità
delle membrana, con conseguente
invaginazioni del citoplasma
all’interno del nucleo; se si ha la
perdita di integrità della membrana
le invaginazioni divengono vere e
proprie formazioni circolari nel
nucleo, detti inclusi.
Possono essere presenti anche vacuoli di
riassorbimento e la colloide assume un
aspetto smerlato “scalloped edges”.

485
I nuclei delle cellule sono sovrapposti a causa della proliferazione
cellulare e determinano un aspetto a canestro di uova; inoltre, in
virtù della cromatina finemente dispersa i nuclei appaiono
otticamente vuoti e sono detti a vetro smerigliato o a occhi di
Orphan Annie.
Le papille riscontrabili nel morbo di Graves sono invece formate da
cellule ipertrofiche prive di alterazioni nucleari.

Altra caratteristica istologica del carcinoma papillare è la presenza


di corpi psammomatosi, ovvero strutture calcifiche a lamelle
concentriche, presenti anche in altre forme di tumore,
tipicamente tumori a crescita papillare. I corpi psammomatosi hanno significato diagnostico e si formano a
partire da apoptosi/necrosi di singole cellule che poi diventano il nidus per la
successiva deposizione concentrica di calcio.
Le particolari alterazioni della morfologia nucleare garantiscono una grande
efficacia del FNA nella diagnosi.
Il carcinoma papillare metastatizza prima per via linfatica e successivamente per
via ematica, soprattutto a polmone e cervello.
Questa malattia viene spesso individuata nell’ambito di studi autoptici (neoplasia
occulta).

Alla microscopia elettronica a trasmissione è possibile osservare cellule alte e cuboidali, il citoplasma con
mitocondri e qualche lisosoma, villi e colloide.
All’esame agoaspirativo preoperatorio (dx) si riscontra tessuto papillifero con aspetto sinciziale, bordi lisci,
nuclei grandi a palizzata, con condensazione della cromatina alla periferia e micronucleoli. Sono presenti
anche indentazioni nucleari, i "crooves".

Il carcinoma papillare insorge in una serie di varianti istologiche:


- Microcarcinoma
- Variante incapsulata
- Variante follicolare
- Variante a crescita solida/trabecolare
- Variante a sclerosi diffusa
- Variante a cellule alte
- Variante a cellule colonnari

Microcarcinoma
Nella nuova classificazione WHO non rappresenta più un tumore a sé stante,
ma viene definito in base alle dimensioni: si definisce microcarcinoma un
tumore di dimensioni ≤ 1 cm, del quale va poi definito il sottotipo.
Attualmente queste neoplasie sono molto frequenti grazie all’efficacia dello
screening, basato su ecografia e esame citologico pre-operatorio. Spesso
questi tumori sono neoplasie occulte o silenti.
Una neoplasia occulta è una neoplasia nascosta la cui manifestazione
primaria è la presenza di metastasi, mentre una neoplasia silente è una
neoplasia riscontrata in maniera incidentale.
Il microcarcinoma è quindi un piccolo tumore, in genere sottocapsulare, che presenta abbondante area di
sclerosi.

Variante capsulata
Il carcinoma papillare pur avendo una crescita circoscritta non è propriamente provvisto di riferimento
capsulare, ad eccezione della variante capsulata, che presenta una capsula fibrosa intorno.

486
Variante follicolare
Questa variante si caratterizza come papillare per la
caratteristica morfologia dei nuclei delle cellule neoplastiche,
ma esse crescono formando quasi esclusivamente follicoli. Per
distinguere la variante follicolare del carcinoma papillare dal
carcinoma follicolare o dall’adenoma follicolare è necessario far
riferimento alle alterazioni morfologiche nucleari
caratteristiche del carcinoma papillare, che sono invece assenti
nelle altre due forme neoplastiche.
Esistono poi varianti con morfologia macro-follicolare in cui i
follicoli sono molto grandi e sono presenti aree di involuzione
colloidea: queste varianti possono simulare un nodulo da
iperplasia multinodulare.

Variante a sclerosi diffusa


È una variante aggressiva, ma dal momento che interessa
soprattutto pazienti giovani la prognosi è abbastanza favorevole,
anche perché la neoplasia risponde bene al trattamento con
radioiodio.
È caratterizzata dal fatto che non si ha una massa ben definita, ma
la diffusa permeazione degli spazi linfatici, sottoforma di piccole
papille. Si hanno anche corpi psammomatosi.
L’intasamento dei vasi linfatici da parte delle cellule neoplastiche è
associato a stravaso di linfociti e ciò simula, sia ecograficamente che
istologicamente a basso ingrandimento, una tiroidite cronica
linfocitaria.

Variante a cellule alte


Le cellule sono alte, con altezza che è il doppio/triplo della base, e
presentano un citoplasma ricco di mitocondri. Le papille in questo
caso sono altamente convolute e si infilano le une nelle altre,
dando vita ad un pattern di crescita detto “iperpapillare”. La
prognosi è sfavorevole dal momento che tale neoplasia non
risponde bene al radioiodio.

Variante a cellule colonnari


Le cellule neoplastiche presentano le classiche alterazioni
morfologiche nucleari del carcinoma papillare e vanno a formare un
epitelio pseudo-stratificato; si ritiene che questa forma sia
maggiormente aggressiva.

Carcinoma scarsamente differenizato della tiroide

È un tumore che origina dalle celllule follicolari ma presenta un aspetto istologico poco differenizato: le
papille sono assenti e i follicoli poco definiti. È un tumore aggressivo e si presenta come neoplasia invasiva
in modo esteso.
La variante classica di questo carcinoma è definita insulare dal momento che presenta aree a crescita
solida, le quali istologicamente si presentano come delle isole: tali isole si vengono a formare per la
retrazione artefattuale dello stroma e sono formate da cellule poco differenizate.

487
Tramite metodiche immunoistochimiche è però possibile dimostrare che tali cellule poco differenziate
producono, seppur in quantità ridotta, tireoglobulina.
I nuclei delle cellule si presentano molto piccoli e piuttosto uniformi, essendo le cellule poco differenziate;
l’attività mitotica è ben evidente.
Alcuni carcinomi scarsamente differenziati presentano necrosi comedonica (necrosi caratterizzata dal fatto
che se si va a spremere la superficie di taglio della neoplasie, da essa fuoriesce un vermicello di materiale
biancastro, simile ad un comedone, ovvero un punto nero).
I carcinomi scarsamente differenziati possono originare da carcinomi ben differenziati, ma capirne l’origine
non è molto importante: l’aspetto più importante è identificare i carcinomi scarsamente differenziati,
infatti, essi rispondono poco alla terapia con radioiodio e pertanto hanno prognosi sfavorevole (ancora
peggiore è la prognosi dei carcinomi indifferenziati). L’aspetto più importante non è quindi definire il tipo
tumorale, ad esempio follicolare o papillare, ma definire il grado di differenziamento della neoplasia,
poiché è l’aspetto che maggiormente influenza la prognosi.

Carcinoma anaplastico della tiroide

Il carcinoma anaplastico è un tumore completamente indifferenziato, altamente aggressivo e a rapida


crescita, che si porta a sostituire il parenchima tiroideo, infiltrandolo diffusamente; talvolta è talmente
aggressivo da portare ad ulcerazioni cutanee. La morte del paziente in questo caso non sopraggiunge per
le metastasi, ma per lo strangolamento dovuto all’aggressività locale della neoplasia.

Le cellule tumorali sono del tutto indifferenziate e


talvolta è difficile definire l’origine dalle cellule follicolari
tiroidee. Esistono diversi sottotipi istologici, importanti
per la diagnosi differenziale che si basa sul loro aspetto
istologico, non tanto per la prognosi: tumori a cellule
giganti, tumori a cellule fusate, tumori a pattern misto e
tumori simil-epiteliali di tipo squamoide. I tumori
squamoidi entrano in diagnosi differenziale con i
carcinomi squamosi della laringe che infiltrano ab
estrinseco la tiroide.

L’esame citologico mostra cellule indifferenziate, spesso binucleate o


multinucleate, con attività mitotica.
Altra caratteristica è la presenza di infiltrato di granulociti neutrofili, linfociti e
talvolta istiociti e plasmacellule; è stato dimostrato che sono le cellule
neoplastiche stesse a produrre citochine in grado di richiamare le cellule
infiammatorie.

488
A livello ultrastrutturale si osservano cellule del tutto indifferenziate
e sono caratteristiche le adesioni intercellulari di tipo desmosomi,
elemento che suggerisce la perdita di orientamento e polarità
cellulare.
L’indagine immunoistochimica che sfrutta tireoglobulina: il
carcinoma scarsamente differenziato prosenza ancora residui di
tireoglobulina sparsi, mentre nel carcinoma indifferenziato la
tireoglobulina è del tutto assente e i residui eventualmente
evidenziati rappresentano i residui dei follicoli, non la capacità
secretoria delle cellule neoplastiche.
In alcuni casi per risalire all’origine follicolare del carcinoma anaplastico è necessario ricercare l’espressione
di TTF1 e PAX8, fattori di trascrizione tipici delle cellule follicolari tiroidee.

Carcinoma midollare

I carcinomi midollari della tiroide originano dalle cellule C o cellule parafollicolari, deputate alla
produzione di calcitonina. I tumori midollari della tiroide sono tumori neuroendocrini descritti nel 1958 e il
nome deriva dalla classificazione dei tumori risalente a quel periodo: i tumori venivano classificati in tumori
cirrosi, ovvero i carcinomi duri, infiltranti e fibrosi, e in tumori molli, detti midollari per la somiglianza della
loro consistenza a quella del midollo osseo. Il tumore midollare della tiroide è stato istologicamente
definito prima che si scoprisse la sua produzione di calcitonina e la sua associazione con il feocromocitoma
(MEN2).
Tutte le proliferazioni neoplastiche derivanti da cellule parafollicolari sono maligne: non esiste l’adenoma
midollare della tiroide, solo il carcinoma midollare.
Il tumore si presenta con una massa infiltrante e la sopravvivenza a 5 anni è del 60-70%, simile a quella del
carcinoma scarsamente differenziato; la prognosi è quindi sfavorevole, anche nelle forme di basso stadio,
dal momento che la neoplasia per definizione non
risponde al trattamento con radioiodio e l’unica
terapia possibile è quella chirurgica, non sempre
eseguibile.

Istologicamente si presenta con un’area di crescita


solida con cellule dall’aspetto morfologico variegato:
cellule tonde, poligonali, fusate, plasmocitoidi; il
citoplasma delle cellule è eosinofilo e granulare, dal
momento che la neoplasia rappresenta un tumore
neuroendocrino. La cromatina ha aspetto a sale e
pepe.

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Possibile domanda d’esame: Quali sono i tumori neuroendocrini?
➔ Adenoma ipofisario, carcinoma midollare della tiroide, tumori delle paratiroidi, tumori
neuroendocrini del polmone (tra cui il carcinoma a piccole cellule), NET pancreatico, parangliomi e
feocromocitoma.

L’esame immunoistochimico è parzialmente positivo per la calcitonina, ma rileva


anche la presenza di cromogranina (tipica di tutti i tumori neuroendocrini) e la
spiccata espressione dell’antigene carcinoembrionario, CEA, espresso sia dalle
cellule C sia dalle neoplasie che da esse derivano.
In alcuni casi tali tumori si associano alla deposizione di sostanza amiloide, formatasi
a partire dai precursori della calcitonina prodotti dalle cellule neoplastiche; i depositi
amiloidi presentano le classiche caratteristiche di birifrangenza (nell’immagine a lato
i depositi sono indicati con frecce nere), ma raramente sono osservabili nei preparati
citologici.

Il tumore metastatizza sia per via ematica che per via linfatica, sia
localmente che in sede distale.
La presenza di metastasi può essere rilevata all’esame citologico con la
presenza di cellule atipiche binucleate o multinucleate.
L’indagine ultrastrutturale evidenzia un reticolo endoplasmatico ben
sviluppato e granuli elettrondensi in cui è stoccata la calcitonina
(caratteristiche comuni a tutte le neoplasie neuroendocrine).

Il carcinoma midollare della tiroide può presentarsi in forma sporadica e in forma familiare.
La forma familiare si riscontra in tre situazioni:
- Carcinoma midollare familiare isolato, in cui la predisposizione familiare riguarda solo il carcinoma
midollare della tiroide
- MEN2A
- MEN2B
L’alterazione della linea germinale responsabile della sindrome MEN2 è a carico dell’oncogene RET;
mentre molte sindromi familiari sono causate da mutazioni inattivanti oncosoppressori, la MEN2 è causata
da una mutazione attivante un oncogene. Generalmente sono più comuni le sindromi associata a
mutazione inattivante di un oncosoppressore dal momento che presentano un’ereditarietà recessiva,
infatti, una copia funzionante del gene può supplire alla mancanza dell’altro, mentre le mutazioni degli
oncogeni si manifestano con carattere dominante e spesso sono incompatibili con la vita intrauterina.
Nella MEN2A si hanno:
- Carcinoma midollare della tiroide, spesso multifocale ed associato ad iperplasia delle cellule C
- Feocromocitoma
- Iperplasia/adenoma delle paratiroidi
Nella MEN2B:
- Carcinoma midollare della tiroide, spesso multifocale ed associato ad iperplasia delle cellule C
- Feocromocitoma
- Neuromi e/o ganglioneuromi cutanei o mucosi
Prima dell’identificazione della mutazione del gene RET l’unico modo per distinguere i casi sporadici (circa il
5% dei casi) dai casi familiari di carcinoma midollare della tiroide era la valutazione del comportamento
delle cellule parafollicolari nella zona circostante la neoplasia. L’iperplasia può essere focale, diffusa o
nodulare: focale se solo una parte del follicolo presenta cellule parafollicolari, diffusa se tutto il follicoli è
circondato e nodulare se le cellule formano un nodulo.
Pazienti che presentano particolari mutazioni germinali del gene RET vengono sottoposti a tiroidectomia
profilattica e spesso in questi pazienti si riscontrano dei microcarcinomi midollari.

Esistono anche forme di carcinomi misti follicolari-midollari ma sono estremamente rari.

490
Linfomi della tiroide

Spesso sono linfomi non-Hodgkin, quasi tutti a cellule B, con lesioni linfoepiteliali; ad esempio si può avere
un linfoma diffuso a grandi cellule.
Il linfoma di Hdgking primitivo della tiroide è rarissimo, ma è stato documentato.
Un fattore di rischio nello sviluppo di queste neoplasie è la tiroide di Hashimoto.

Sarcomi della tiroide

Sono più comuni in presenza di gozzo endemico, quindi nelle aree con carenza alimentare di iodio.
Sono difficili da differenziare dal carcinoma anaplastico a cellule giganti o fusate.
Sono tumori molto aggressivi caratterizzati spesso da cellule di aspetto simil-epiteliale, positive ai marcatori
caratteristici delle cellule epiteliali. Il sarcoma più frequente a questo livello è l’angiosarcoma.

Tumori secondari della tiroide

Essendo altamente vascolarizzata la tiroide è spesso sede secondaria di depositi metastatici da altri tumori.
Quelli che più frequentemente metastatizzano a livello tiroideo sono i tumori del rene, della mammella e i
melanomi. La presenza di metastasi tiroidee di carcinoma renale fa si che in alcuni casi il carcinoma renale
si manifesti come carcinoma occulto con nodulo tiroideo.
Per definire se un tumore è di origine tiroidea si analizzano, tramite immunoistochimica, i marcatori tiroidei
TTF1, fattore di trascrizione tipico delle cellule follicolari e parafollicolari della tiroide, ma espresso anche
dalle cellule dell’adenocarcinoma polmonare, e PAX8, espresso solo dalle cellule tiroidee.

491
PARATIROIDI

Le paratiroidi sono ghiandole endocrine che producono paratormone. Embriologicamente derivano dalla
III e IV tasca branchiale, così come il timo, tanto che è possibile ritrovare al loro interno residui timici.
Queste ghiandole sono state l’ultimo organo del corpo umano ad essere stato scoperto, nel 1880.
In genere sono 4, ma possono variare da 1 a 12, hanno piccole dimensioni e pesano complessivamente 130
mg nelle donne e 110 mg negli uomini; una ghiandola viene considerata ingrandita quando supera i 30
mg.
Le quattro ghiandole paratiroidi sono costituite da
- cellule principali → alla colorazione con ematossilina eosina, le cellule principali sono rosa chiaro o
rosa scuro, a seconda del loro contenuto in glicogeno (maggiore è il contenuto di glicogeno più
chiaro sarà il citoplasma). Hanno una forma poligonale, un diametro di 12-20 𝜇m e nuclei uniformi
centrali e rotondi. Inoltre, esse contengono granuli secretori di ormone paratiroideo (PTH).
- cellule ossifile e ossifile transizionali → osservabili in tutte le paratiroidi normali, sia solitarie sia in
piccoli aggregati. Sono leggermente più grandi delle cellule principali, presentano un citoplasma
eosinofilo e sono fortemente stipate di mitocondri. Granuli di glicogeno sono presenti anche in
queste cellule, mentre i granuli secretori sono scarsi o assenti.
Nelle ghiandole è presente anche una certa quantità di tessuto adiposo stromale.
Dal punto di vista funzionale le paratiroidi non sono controllate dall’ipofisi, ma direttamente dai livelli
ematici di calcio, infatti, la produzione di PTH è stimolata da bassi livelli ematici di Ca 2+. Il PTH:
- attiva gli osteoclasti, inducendo il rilascio di calcio dall’osso
- aumento l’assorbimento intestinale di calcio
- aumento il riassorbimento di calcio a livello renale
- aumenta l’escrezione urinaria di fosfati

IPERPARATIROIDISMO

L’iperparatiroidismo primario può essere sporadico o familiare, associato a MEN1, MEN2 o


iperparatiroidismo familiare isolato. Le cause sono:
- adenoma (80%), in cui si ha una sola ghiandola ingrandita
- iperplasia (15-20%), condizione in cui due o più ghiandole sono ingrandite
- carcinoma (< 1%)
L’iperparatiroidismo secondario è causato da condizioni che determinano ipocalcemia cronica, quindi iper-
reattività compensatoria delle ghiandole paratiroidi. Le cause possono essere: insufficienza renale,
insufficiente apporto alimentare di calcio, deficit di vitamina D.
L’iperparatiroidismo può presentarsi anche nel quadro di una sindrome paraneoplastica per secrezione
ectopica di PTH.
L’iperparatiroidismo può essere asintomatico o associato a:
- malattia ossea e dolore osseo
- nefrolitiasi
- costipazione, nausea, ulcera peptica, pancreatite e calcolosi biliare
- depressione, letargia e convulsioni
- affaticamento e debolezza neuromuscolare
- calcificazione delle valvole cardiache

Iperplasia e adenoma

Le condizioni di iperplasia e adenoma sono distinguibili solo in base


al numero di ghiandole ingrandite: un singolo nodulo in caso di
adenoma, noduli multipli in caso di iperplasia.
Istologicamente le condizioni si presentano in modo analogo, con una
zona ben definita di ipercellularità che comprime il tessuto sano

492
circostante. Le cellule sono ben differenziate, uniformi tra loro, poligonali; il nucleo è piccolo e presenta
cromatina a sale e pepe. Le mitosi sono rare.
La lesione si distingue dal tessuto sano perché presenta scarso tessuto interstiziale e scarsa infiltrazione.

Istologicamente gli adenomi paratiroidei sono spesso composti in modo predominante da cellule principali,
poligonali, abbastanza uniformi con nuclei piccoli e centrali . Nella maggior parte dei casi sono presenti
alcuni nidi di cellule più grandi ossifile; raramente, un intero adenoma può essere costituito da questo tipo
cellulare (adenomi ossifili). In questo caso può risultare simile al tumore a cellule di Hürthle nella tiroide. Ai
margini dell'adenoma, spesso è visibile un orlo di tessuto paratiroideo non neoplastico, compresso, in
genere separato da una capsula fibrosa.
L'iperplasia primitiva può comparire sporadicamente o come componente di una sindrome MEN. Sebbene
classicamente siano interessate tutte e quattro le ghiandole, vi è spesso una asimmetria con evidente
risparmio di una o due ghiandole, il che complica la distinzione tra iperplasia e adenoma.
Microscopicamente, l'aspetto che si osserva più comunemente è quello dell'iperplasia delle cellule principali,
che può interessare le ghiandole in modo diffuso o multinodulare. Più raramente, la componente cellulare è
costituita da numerose cellule chiare ("iperplasia a cellule chiare"). In molti casi si osservano isolotti di
cellule ossifile e sottili tralci fibrosi possono avvolgere i noduli. Come negli adenomi, il tessuto adiposo tra i
focolai di iperplasia è poco rappresentato. L’iperplasia è principalmente associata a iperparatiroidismo
secondario.

Carcinoma

I carcinomi delle paratiroidi sono rari e di solito si tratta di istotipi ben differenziati.
Il sospetto di carcinoma insorge quando l’area patologica presenta numerose mitosi e un aspetto
trabecolare con tralci ben evidenti di tessuto fibroso disposti in modo irregolare.
Il carcinoma si caratterizza, rispetto all’adenoma e all’iperplasia, per l’invasività: invade le strutture
adiacenti, il tessuto sano, la capsula e i vasi sanguigni
Le cellule in genere sono uniformi e somigliano alle cellule paratiroidee normali. Sono disposte in trabecole o
noduli con una capsula fibrosa densa che avvolge la neoplasia. È opinione comune che una diagnosi di
carcinoma basata su dettagli citologici sia inaffidabile, e che gli unici criteri affidabili di malignità siano
l'invasione dei tessuti circostanti e la presenza di metastasi. Recidive locali si verificano in un terzo dei casi, e
in un altro terzo si manifestano disseminazioni a distanza.

IPOPARATIROIDISMO

Le cause di ipoparatiroidismo possono essere diverse:


- iatrogene: ipoparatiroidismo secondario all’asportazione delle paratiroidi in seguito a chirurgia
delle tiroide o delle paratiroidi
- idiopatico: gruppo eterogeneo di patologie, alcune autoimmuni, caratterizzate da deficit di PTH
- pseudoipoparatiroidismo: dovuto alla non responsività degli organi periferici al PTH a causa
dell’alterazione della via di signaling intracellulare; spesso si associa alla mancata responsività a
glucagone, TSH, FSH e LH
- ipoparatirodismo autoimmune: sindrome autoimmune poliendocrina di tipo 1 dovuta a mutazione
del gene AIRE, caratterizzata da candidiasi mucocutanea, ipoparatiroidismo e insufficienza
surrenalica
- ipoparatiroidismo autosomico dominante: mutazioni con acquisizione di funzione del gene del
recettore di sensibilità al calcio, CASR, che inibisce la secrezione di PTH
- ipoparatiroidismo familiare isolato: dovuto a mutazioni del peptide precursore del PTH (dominanti)
o a mutazioni del fattore di trascrizione GCM2 (recessive) essenziale per lo sviluppo delle ghiandole
- assenza congenita delle paratiroidi
Le manifestazioni cliniche includono tetania, ansia, depressione, allucinazioni, psicosi, calcificazioni dei
gangli della base, manifestazioni simil-parkinsoniane, calcificazioni del cristallino, allungamento del QT, ecc.

493
SURRENE

Il surrene è costituito da due parti completamente separate tra loro: la corticale, che costituisce il 90% del
peso della ghiandola e origina dalle cellule mesenchimali del celoma embrionario, e la midollare, che
rappresenta il 10% del peso e origina dalle cellule neuroectodermiche delle creste neurali; di fatto le cellule
della midollare sono neuroni post-gangliari che rilasciano neurotrasmettitori.
La corteccia surrenale è suddivisa in tre zone:
- zona glomerulosa, deputata alla secrezione di aldosterone, mineralcorticoide, sotto il controllo del
sistema renina-angiotensina-aldosterone
- zona fascicolata, che rappresenta il 75% della corteccia e produce, insieme alla zona reticolare,
glucocorticoidi, soprattutto cortisolo, sotto il controllo dell’ACTH e androgeni corticosurrenali
- zona reticolare
L’iperfunzione corticosurrenalica si manifesta quindi con:
- ipercortisolismo (sindrome/malattia di Cushing)
- iperaldosteronismo
- sindromi androgenitali

IPERCORTISOLISMO

In primo luogo è importante distinguere tra malattia di Cushing e sindrome di Cushing, infatti, la malattia di
Cushing è dovuta a una iperproduzione di ACTH (malattia primitiva di ipotalamo e/o ipofisi), mentre la
sindrome di Cushing può essere:
- ACTH-dipendente, causata da tumori neuroendocrini
- ACTH-indipendente, causata soprattutto da adenomi corticali, ma anche da iperplasie
surrenaliche o carcinomi corticali; si possono avere anche cause iatrogene, come una eccessiva
somministrazione di corticosteroidi. In questo caso le ghiandole surrenaliche presentano atrofia
della zona fascicolata e della zona reticolare, a causa della soppressione della secrezione di ATCH
ipofisario indotta dal feedback negativo dovuto al cortisolo in eccesso
La diagnosi della sindrome di Cushing viene fatta con i seguenti esami di laboratorio: (1) il cortisolo libero
urinario delle 24 ore, che è aumentato, e (2) la perdita del normale ritmo circadiano della secrezione di
cortisolo. I livelli sierici di ACTH e la misurazione della secrezione urinaria degli steroidi dopo la
somministrazione di desametasone (test di soppressione del desametasone) permettono di determinare la
causa della sindrome di Cushing.

Adenoma corticale

Macroscopicamente si presenta come un nodulo


circoscritto di colorito giallastro.
Istologicamente risulta composto da cellule simili a
quelle della corteccia surrenalica sana e ha
aspetto spongiforme, infatti, le cellule sono ricche
di lipidi (colesterolo, precursori del colesterolo e
ormoni lipidici), che vengono persi durante i
processi di fissazione e lasciano spazi chiari
otticamente vuoti.
I nuclei sono piccoli, ma è possibile riscontrare un
certo grado di pleomorfismo anche in queste lesioni benigne (atipia endocrina); il citoplasma può essere
eosinofilo o vacuolato, a seconda del contenuto lipidico. L’attività mitotica è generalmente poco rilevante.
Gli adenomi corticali possono portare a sindrome di Cushing ACTH-indipendente, ma nella maggior parte
dei casi non sono secernenti e vengono scoperti casualmente (incidentalomi surrenalici). Gli adenomi
funzionanti si associano ad atrofia della corticale adiacente, quelli non funzionanti no.

494
Carcinoma corticale

Tumore molto raro, ma molto aggressivo che può


colpire tutte le fasce d’età, compresa quella pediatrica e
può essere associato a sindromi eredo-familiari, come
la sindrome di Li-Fraumeni, la sindrome di Beckwith-
Wiedemann e il complesso di Carney.
I carcinomi surrenalici sono spesso secernenti, ma gli
ormoni prodotti risultano immaturi e possono portare
sia a ipercorticosurrenalismo sia ad iperandrogenismo.
Macroscopicamente presentano grandi dimensioni e
crescita invasiva; sono frequenti le aree necrotiche e le
aree emorragiche. Istologicamente si hanno cellule
grandi e poco differenziate, con pleomorfismo e atipie
cellulari, inoltre, sono frequenti le mitosi.
Questi tumori tendono ad invadere la vena surrenalica, la vena cava e i vasi linfatici; la mediana di
sopravvivenza è di circa 2 anni.
In alcuni casi si possono avere cellule scarsamente differenziate e in questo caso è difficile discernere tra
tumore primitivo del surrene e metastasi; statisticamente sono più frequenti le metastasi.

Altre lesioni delle ghiandole surrenali sono rappresentate da: cisti surrenaliche, talvolta derivanti da
degenerazione cistica di neoplasie, e mielolipomi surrenalici, lesioni benigne costituite da tessuto adiposo e
cellule emopoietiche. Solitamente queste lesioni sono diagnosticate come incidentalomi surrenalici.

IPERALDOSTERONISMO

Si manifesta prevalentemente con ipertensione e ipopotassiemia e può essere sia primitivo che
secondario. L’ipokaliemia è causata dalla perdita renale di potassio e può provocare varie manifestazioni
neuromuscolari, tra cui l'astenia, le parestesie, i disturbi visivi e occasionalmente una franca tetania.
L’iperaldosteronismo primitivo è indipendente dal sistema renina-angiotensina e prende il nome di
sindrome di Conn; le cause sono:
- Adenoma secernente aldosterone (80%) → neoplasia di piccole dimensioni con cellule ben
differenziate di fatto non distinguibile da un adenoma secernente cortisolo, se non per le
manifestazioni cliniche. Negli adenomi aldosterone-secernenti si possono avere inclusioni
citoplasmatiche eosinofile laminate, dette corpi spironolattonici, che si presentano dopo il
trattamento con spironolattone, farmaco anti-ipertensivo.
- Iperplasia bilaterale primitiva della zona glomerulare (20%) → forma idiopatica caratterizzata
iperplasia nodulare bilaterale dei surreni, focale o diffusa, con cellule simili a quelle della zona
glomerulare
- Iperaldosteronismo glucocorticoideo-sensibile → rara causa di iperaldosteronismo primitivo
familiare dovuto alla formazione di un gene chimerico derivante dalla fusione del gene della 11β-
idrossilasi e il gene della sintasi dell’aldosterone: questa condizione porta ad un eccessiva
produzione di cortisolo e aldosterone, ma anche alla produzione di steroidi ibridi. In questo caso la
secrezione di aldosterone è sotto il controllo dell’ACTH, quindi è sopprimibile con la
somministrazione esogena di desametasone.
Nell’aldosteronismo primitivo non si ha soppressione della produzione di ACTH e pertanto non si ha atrofia
della fascicolata e della reticolare, caratteristica invece della sindrome di Cushing ACTH-indipendente.
L’iperaldosteronismo secondario è causato invece da condizioni che determinano una attivazione del
sistema renina-angiotensina-aldosterone, come:
- Scompenso cardiaco
- Cirrosi
- Sindrome nefrosica

495
- Stenosi dell’arteria renale
- Gravidanza
La diagnosi di iperaldosteronismo primitivo è confermata in presenza di elevati livelli plasmatici di
aldosterone rispetto all'attività reninica plasmatica; se questo test risulta positivo, è necessario effettuare
per conferma un test di soppressione dell'aldosterone. Gli adenomi vengono asportati, mentre l’iperplasia
viene trattata con farmaci anti-aldosteronici. Nelle forme secondarie si tratta la causa alla base.

SINDROMI ANDROGENITALI

Clinicamente si manifestano con virilizzazione e sono dovuti a:


- Carcinoma corticale secernente
- Iperplasia corticosurrenalica congenita → gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate da deficit
enzimatici ereditari a carico di enzimi coinvolti nella biosintesi del colesterolo, ad esempio il deficit
della 21-idrossilasi: la steroidogenesi è quindi canalizzata verso le altre vie, con un aumentata
produzione di androgeni. Inoltre, il deficit di colesterolo determina una aumentata secrezione di
ACTH e l’iperplasia surrenalica. La corteccia surrenalica al taglio appare ispessita, nodulare e
marrone, a causa della deplezione di lipidi.
Sono state descritte tre forme: androgenitalismo con perdita di Sali (detto anche classico),
androgenitalismo virilizzante semplice e androgenitalismo non classico.

INSUFFICIENZA CORTICOSURRENALICA

Si manifesta quando più del 90% del parenchima surrenalico è distrutto e può essere sia primitiva che
secondaria.
L’insufficienza surrenalica primitiva è dovuta ad alterazioni intrinseche del surrene e può essere acuta
(molto rara) o cronica. L’insufficienza surrenalica secondaria è dovuta a cause ipotalamiche o ipofisarie.
L’insufficienza surrenalica acuta può essere dovuta a:
- Cause iatrogene, come l’improvvisa interruzione di una terapia steroidea di lunga durata
- Condizioni di stress in pazienti con insufficienza cronica
- Emorragia surrenalica massiva, ad esempio in caso di CID o trattamento con anticoagulanti.
Il surrene, come tutte le ghiandole endocrine è altamente vascolarizzato, quindi molto sensibile alle
condizioni di shock.
- Setticemia, che causa CID e necrosi
- Sindrome di Waterhouse-Friedrichsen, caratterizzata da una grave infezione con setticemia
complicata da CID ed emorragia surrenalica massiva.
L’insufficienza cronica, detta morbo di Addison, può essere dovuta a:
- Adrenalite autoimmune (causa più frequente)
- TBC
- Metastasi al surrene, che derivano soprattutto da carcinomi del polmone e della mammella (questa
causa in realtà il rara, infatti, dal momento che affinchè si manifesti il morbo di Addison è
necessario che venga distrutto il 90% del parenchima spesso il paziente muore prima per cause
determinate dal tumore primitivo)
- Amiloidosi, sarcoidosi, emocromatosi
- Infezioni fungine
Nei pazienti con sindrome surrenalica primitiva si ha l’iperpigmentazione della cute a causa degli elevati
livelli di POMC, precursore di ACTH e dell’ormone stimolante i melanociti, MSH, prodotto dall’ipofisi;
l’iperpigmentazione cutanea non è invece presente nell’insufficienza surrenalica causata da alterazioni
ipotalamiche o ipofisarie. Nell’insufficienza surrenalica secondaria le ghiandole surrenali appaiono ridotte,
anche marcatamente, di volume e causa della mancata stimolazione dell’ACTH.

496
Surrenalite autoimmune

Istologicamente si caratterizza per l’aggressione destruente del parenchima ghiandolare da parte di


linfociti: si ha un infiltrato flogistico cronico con fibrosi e residui di parenchima corticale, mentre la
midollare è intatta. Sono stati individuati anticorpi diretti contro enzimi chiave della steroidogenesi, come
21-idrossilasi e 17-idrossilasi, ed è stata ipotizzata l’associazione con gli aplotipi HLA-B8 e HLA-DR3; alcuni
casi si verificano nel quadro delle sindromi poliendocrine autoimmuni, APS.

MIDOLLARE DEL SURRENE

La midollare del surrene è costituita da cellule neuroendocrine derivanti dalla cresta neurale, dette cellule
cromaffini, che rappresentano la principale fonte di adrenalina e noradrenalina dell’organismo.
Le cellule cromaffini hanno peculiari proprietà tintoriali: contengono numerosi granuli di catecolamine e si
colorano in bruno/nero dopo fissazione in bicromato di potassio. Oltre alle cellule cromaffini vi sono cellule
di sostegno, dette cellule sustentacolari.
Le cellule neuroendocrine simili alle cellule cromaffini sono ampiamente distribuite in un sistema
extrasurrenalico, che, insieme alla midollare del surrene, costituisce il sistema paragangliare.
Una peculiarità delle cellule cromaffini è che sono cellule
neuroendocrine che non hanno origine epiteliale, pertanto non
producono cheratina e non è possibile marcarle sfruttandola.
Per quanto riguarda la genesi cellulare e tumorale lo schema è:

Feocromocitoma e paraganglioma sono lo stesso tipo di


tumore, cambia solo la sede. Questi tumori sono associati alla
produzione di catecolamine e loro metaboliti, identificabili nelle
urine.

Feocromocitoma/paraganglioma

Colpiscono soprattutto le donne, possono insorgere a qualsiasi età, inclusa l’infanzia, ma sono rari dopo i 60
anni. I sintomi sono dovuti ad ipersecrezione di catecolamine: ipertensione, ipotensione ortostatica,
aumento del metabolismo basale, angina ed IMA senza aterosclerosi coronaria (cardiomiopatia da
catecolamine), ecc.
Per la diagnosi è possibile individuare nelle urine l’acido vanillimandelico, VMA, metabolita
catecoleminico.I tumori paragangliari della regione testa collo possono produrre altre sostanze, anche
parasimpatiche.
I paragangliomi possono insorgere in tutte le regioni del corpo che presentano gruppi di cellule cromaffini:
regione testa-collo, mediastino posteriore, vescica, chemocettori (glomo giugulare e corpo carotideo),
organo di Zuckerkandl (paragangli retroperitoneali). Queste neoplasie hanno più probabilità dei
feocromocitomi di essere maligni e dare metastasi.

Sia nel feocromocitoma che nel paraganglioma non si hanno evidenze istologiche o immunoistochimiche
che consentono di definire con chiarezza se si è di fronte ad una neoplasia benigna o maligna.
Per definire il potenziale maligno e la probabilità di metastatizzazione del feocromocitoma si
considerano:
- Presenza di metastasi, tipicamente a livello di linfonodi, fegato, polmone e ossa
- PASS score, Pheochromocytoma of the Adrenal gland Scaled Score, che valuta pleiomorfismo,
necrosi, mitosi, ecc.
- GAPP score, Grading system for Adrenal Pheochromocytoma and Paraganglioma
- Ki67/MIB > 2-3%
Per quanto riguarda i paragangliomi invece, dal momento che i paragangli sono molto diffusi e solitamente
i paragangliomi sono ben differenziati, quindi difficilmente distinguibili, il criterio definitivo di malignità è la

497
presenza del tessuto neoplastico in una sede dove normalmente non si riscontra tessuto parangangliare,
come ad esempio linfonodi o polmoni.

Macroscopicamente si presentano con superficie di taglio


brunastra, aree emorragiche, zone cistiche e zone
fibrotiche.
A livello istologico si osservano aggregati di cellule
cromaffini neoplastiche (“zellballen”), di forma
poligonale o fusata, con citoplasma abbondante e
granulare e cromatina a sale e pepe; tali cellule sono
circondate da cellule sostentacolari, ovvero cellule di
Schwann modificate che garantiscono supporto alle cellule
cromaffini.
L'immunoreattività per i marcatori neuroendocrini
(cromogranina e sinaptofisina) è presente nelle cellule principali, mentre le cellule periferiche di sostegno
presentano una positività perla S-100, una proteina legante il calcio espressa principalmente dalle cellule
mesenchimali.
Il feocromocitoma è detto anche “tumore del 10%”:
- Il 10% è bilaterale, soprattutto nel contesto di sindromi ereditarie
- Il 10% è familiare (in realtà si è visto che la percentuale delle forme familiari è del 25%)
- Il 10% è in sede extra-surrenalica (corrispondono ai paragangliomi)
- Il 10% insorge nei bambini
- Il 10% dà vita a metastasi

Neuroblastoma

Origina dalla trasformazione neoplastica di neuroni post-gangliari periferici.


In 1/3 dei casi interessa la midollare del surrene, in 1/3 dei casi il mediastino posteriore e nel restante
terzo dei casi altre sedi intraddominali.
Ha un picco di incidenza intorno ai 3 anni ed è una delle neoplasie maligne più comuni e fatali nei bambini.
Mutazioni germinali del gene della chinasi del linfoma anaplastico (Anaplastic Lymphoma Kinase, ALK) sono
state recentemente identificate come la causa principale di predisposizione familiare al neuroblastoma.
Produce catecolamine, anche se in quantità ridotta rispetto al feocromocitoma, quindi è possibile
riscontrare VMA nelle urine. Clinicamente si manifesta con massa addominale, febbre e calo ponderale nei
bambini piccoli, mentre nei bambini più grandi il quadro può essere sfumato e le prime manifestazioni
possono essere legate alle metastasi.
È molto aggressivo e metastatizza sia per via linfatica che per via ematica, interessando soprattutto
fegato, polmone e ossa; in alcuni casi le metastasi sono il primo segno di malattia.
La prognosi è generalmente buona, ma peggiora con l’aumentare dello stadio della malattia e con
l’avanzare dell’età del bambino.
Le dimensioni della neoplasia sono variabili e in alcuni casi la lesione rimane silente, per poi andare incontro
a regressione spontanea e lasciare un focolaio
fibrotico calcifico. Alcuni neuroblastomi sono ben
delimitati da una pseudo-capsula fibrosa, mentre
altri sono infiltranti.

Macroscopicamente si presentano come masse


multi-lobulate e friabili con aree di necrosi, aree
emorragiche, zone cistiche e calcificazioni.
Istologicamente, è costituito da cellule che
riproducono il tubo neurale (da cui originano i

498
neuroni post-gangliari) e vanno a costituire delle formazioni che prendono il nome di rosette di Homer-
Wright.
Esse sono tipiche del neuroblastoma e si riconoscono perché non hanno un lume centrale; diversamente,
le rosette di Flexner-Wintersteiner possiedono un lume centrale (tipiche del retinoblastoma e del
medulloblastoma) e le pseudorosette perivascolari (tipiche del SNC e nell’ependimoma) hanno al loro
centro dei vasi sanguigni.
Altre utili caratteristiche comprendono le reazioni immunoistochimiche positive per l’enolasi neurone-
specifica e per l’antigene del neuroblastoma (NB84A) e la dimostrazione ultrastrutturale di piccoli granuli
secretori, circondati da membrana e contenenti catecolamine; queste ultime contengono un’area centrale
densa caratteristica, circondata da un alone periferico (granuli densi interni).
Nel 30% dei casi di neuroblastoma si ha l’amplificazione con pattern disperso dell’oncogene N-Myc, dove N
sta proprio per neuroblastoma; questa alterazione molecolare ha valore prognostico negativo.

Stadiazione:
- Stadio 1: tumore localizzato asportato in modo completo, con o senza residui al microscopio;
linfonodi non aderenti ipsilaterali negativi (linfonodi aderenti al tumore primitivo possono essere
positivi).
- Stadio 2A: tumore localizzato asportato in modo incompleto; linfonodi non aderenti ipsilaterali
negativi all’esame istologico.
- Stadio 2B: tumore localizzato asportato in modo completo o incompleto; linfonodi non aderenti
ipsilaterali positivi; linfonodi controlaterali aumentati di volume negativi all’esame istologico.
- Stadio 3: tumore monolaterale non resecabile infiltrante, che supera la linea mediana con o senza
coinvolgimento linfonodale regionale; o tumore monolaterale localizzato con coinvolgimento
linfonodale controlaterale.
- Stadio 4: qualsiasi tumore primitivo con disseminazione a linfonodi distanti, ossa, midollo osseo,
fegato, cute e/o e altri organi (eccetto i casi descritti nello stadio 4S).
- Stadio 4S (“S” = speciale): tumore primitivo localizzato (come per gli stadi 1, 2A o 2B) con
disseminazione limitata a cute, fegato e/o midollo osseo; lo stadio 4S è limitato ai bambini con età
<1 anno.
Sfortunatamente, la maggior parte (60-80 %) dei bambini esordisce in stadio 3 o 4, e solo il 20-40% si
presenta in stadio 1, 2A, 2B o 4S del neuroblastoma. Il sistema di stadiazione è di primaria importanza per
determinare la prognosi, insieme alla presenza o assenza dell’amplificazione di Myc: la presenza di questa
amplificazione fa classificare il tumore come ad alto rischio indipendentemente dallo stadio e dall’età del
paziente. Un altro criterio prognostico è la iperdiploidia, che, nei bambini con meno di 2 anni, risulta
favorevole (in età più avanzata perde il suo significato prognostico).
Approcci terapeutici promettenti sono i retinoidi, in grado di indurre la differenziazione del neuroblastoma,
e inibitori selettivi di ALK.

Ganglioneuroma

Si può considerare la variante differenziata del


neuroblastoma. Origina dai neuroni post-gangliari
maturi, soprattutto a livello di midollare del surrene o del
mediastino posteriore.
È una neoplasia benigna che interessa soprattutto i
bambini, di età più avanzata rispetto al neuroblastoma, e
gli adolescenti.
Istologicamente si ha un abbondante tessuto di cellule
allungate frammiste a cellule gangliari mature, sostenute
da cellule di Schwann e stroma lasso.
La maturazione dei neuroblasti in cellule gangliari è di
solito accompagnata dalla comparsa di cellule di

499
Schwann. Infatti, la presenza del cosiddetto stroma schwanniano, composto da fascicoli organizzati di
processi neuritici, cellule di Schwann mature e fibroblasti, costituisce il prerequisito istologico perché
vengano denominati ganglioneuroblastoma e ganglioneuroma.
Ganglioneuromi cutanei e mucosi sono comuni nella sindrome MEN2B.

SINDROMI MEN – Dispensa (Robbins)

Le sindromi MEN sono un gruppo di malattie ereditarie caratterizzate da lesioni proliferative, quindi
adenomi, iperplasie e carcinomi, di numerose ghiandole endocrine.
I tumori neuroendocrini che insorgono nel contesto delle sindromi MEN presentano caratteristiche che li
differenziano dai corrispettivi sporadici:
- Insorgono in pazienti più giovani
- Coinvolgono più ghiandole endocrine in maniera sincrona o metacrona
- Sono spesso multifocali, all’interno dello stesso organo
- Sono spesso preceduti da una fase asintomatica di iperplasia endocrina
- Sono generalmente più aggressivi e soggetti a recidive

MEN1

La MEN1 o sindrome di Wermer ha una prevalenza di 2 casi su 100.000 abitanti e si caratterizza per il
coinvolgimento di (regola delle 3P):
- Paratiroidi: iperparatiroidismo primitivo da iperplasia o adenoma
- Pancreas: tumori neuroendocrini del pancreas, spesso funzionanti (principale causa di mortalità nei
pazienti affetti)
- Ghiandola pituitaria: la lesione più frequente è rappresentata dai prolattinomi
Oltre a queste tre sedi possono essere coinvolti anche altri organi, come la tiroide e le ghiandole surrenali.
Questa sindrome è causata da mutazione germinale dell’oncosoppressore MEN1, codificante per la
menina, regolatore della trascrizione genica.
La sintomatologia dipende dagli ormoni prodotti dalle neoplasie e include ipoglicemia, ulcere peptiche,
nefrolitiasi e sintomi da iperprolattinemia.

MEN2

La MEN2A, detta anche sindrome di Sipple, è caratterizzata da feocromocitoma, carcinoma midollare della
tiroide e iperplasia delle paratiroidi. Il carcinoma midollare della tiroide è presente in quasi il 100% dei
pazienti. Esso è generalmente multifocale ed è in pratica quasi sempre associato a focolai di iperplasia di
cellule C nella tiroide adiacente. Il carcinoma midollare può secernere calcitonina e altri ormoni attivi e
risulta in genere clinicamente aggressivo.
Questa sindrome è dovuta a mutazioni germinali con acquisizione di funzione dell’oncogene RET.
La diagnosi precoce è importante poiché permette di intervenire con paratiroidectomia profilattica.

La MEN2B è caratterizzata da feocromocitoma, carcinoma midollare della tiroide e ganglioneuromi della


cute, della mucosa orale, degli occhi, delle vie respiratorie e del tratto gastroenterico; è tipico anche
l’abitus marfanoide, con aumento di lunghezza dello scheletro assiale e iperlasstà legamentosa.
È dovuta a mutazione puntiforme con sostituzione amminoacidica del gene RET: tale mutazione porta
all’attivazione costituita della proteina.

Il carcinoma midollare familiare della tiroide è una variante della MEN2A, nella quale è presente una forte
predisposizione al carcinoma midollare della tiroide ma non alle altre manifestazioni cliniche della MEN2A o
della MEN2B. La forma familiare del carcinoma midollare si sviluppa in età più adulta rispetto a quella che si
associa alla MEN2 e mostra un’evoluzione più indolente.

500
MALATTIE DELLA CUTE
La cute è divisa in epidermide e derma.
L’epidermide è un epitelio stratificato ed è importante conoscerne i diversi strati, in modo da poter
valutare profondità ed estensione delle neoplasie che la interessano, essendo questi importanti fattori
prognostici.
Gli strati dell’epidermide sono:
- Strato corneo, costituito da cellule completamente
differenziate e prive di nucleo
- Strato lucido, costituito da cellule traslucide
- Strato granuloso
- Strato spinoso o Malpighiano, caratterizzato da spine
formate dalle giunzioni desmosomiali
- Strato basale, da cui originano più frequentemente le
displasie, infatti, è costituito da cellule meno differenziate
con un elevato tasso proliferativo
Il derma si divide in derma papillare, più superficiale, e derma reticolare, più profondo.
A livello del derma si riconoscono:
- Giunzione dermo-epidermica, che rappresenta il punto di contatto tra epidermide e derma
papillare. Questa giunzione è un punto fondamentale, infatti, la definizione di neoplasia in situ si
basa proprio sul fatto che sono presenti cellule neoplastiche solo sopra tale giunzione.
- Zona di passaggio tra derma papillare e derma reticolare, area in cui si trovano le strutture
capillari; anche questa zona è critica, infatti, una volta che le neoplasie la raggiungono possono
facilmente dar vita a metastasi

Le cellule principali costituenti l’epidermide sono i cheratinociti, il


cui nome deriva dal fatto che presentano la citocheratina,
costituente del loro citoscheletro.
Le citocheratine sono proteine a diverso peso molecolare, che
risulta tanto più elevato quanto più la cellula è differenziata: i
tumori che esprimono citocheratine ad alto peso molecolare sono
tumori ben differenziati.
Le citocheratine costituiscono delle fibrille, dette tonofibrille, che si
inseriscono tra i desmosomi; anche le tonofibrille sono presenti in
relazione al differenziamento cellulare, pertanto sono via via più
rappresentate man mano che si procede verso lo strato corneo. Le
tonofibrille garantiscono rigidità alla cellula e su di esse si deposita
una sostanza lipoproteica contenuta nei granuli cheratoialini
presenti nelle cellule dello strato granuloso: questa sostanza va a
costituire una sorta di collante idrofobico che consente alle
tonofibrille di compattarsi tra loro.
Le cellule dello strano corneo perdono il nucleo e vanno a costituire
uno strato idrorepellente di protezione. Questo fisiologico
meccanismo differenziativo è detto meccanismo ortocheratosico.
Nel momento in cui si ha un differenziamento anomalo, ad esempio in caso di neoplasia, in cui le cellule
proliferano in maniera accelerata e non vanno incontro ad un adeguato differenziamento, quindi
presentano nuclei anche nello strato superiore dell’epidermide, si parla di meccanismo paracheratosico.

Oltre ai cheratinociti nell’epidermide sono presenti anche altri tipi cellulari, che hanno diverse funzioni e
rendono la cute un tessuto complesso, non un semplice rivestimento.
I melanociti e le cellule di Langerhans hanno una origine embriologica comune dalle creste neurali.

501
I melanociti si trovano nello strato basale, disposti 1 ogni 5 cheratinociti, e sono adesi alla membrana
basale, ma grazie alla produzione di prolungamenti citoplasmatici hanno capacità di movimento.
In seguito all’esposizione al sole i melanociti producono prolungamenti citoplasmatici contenti
melanosomi, ovvero organelli in cui si trova la melanina; questi prolungamenti si insinuano tra li strati
superiori e rilasciano i melanosomi, che vengono fagocitati dai cheratinociti.
Questo processo richiede raggi UV.I tumori pigmentati sono dovuti o alla presenza di lipofuscine, che
sembrano il pigmento melaninico, o derivano da una captazione secondaria di melatonina.

Le cellule di Langerhans fanno parte del sistema dendritico e immunitario: sono i primi elementi cellulari a
venire in contatto con un antigene. Sono localizzate nello strato spinoso, ma dal momento che non
contraggono strette relazioni con gli elementi cellulari adiacenti possono, grazie a movimenti ameboidi,
spostarsi dall’epidermide al derma e venire in contatto con i melanociti circolanti, cui presentano
l’antigene. Esprimono specifici recettori di superficie, CD1A, e possono dar vita a neoplasie, le istiocitosi X.

Le cellule di Merkel si trovano nello strato basale, a livello della giunzione dermo-epidermica, e inviano
prolungamenti ai cheratinociti. Queste cellule appartengono al sistema neuroendocrino, infatti,
presentano granuli contenenti neurotrasmettitori e prendono contatto con fibre nervose; anche questi
elementi cellulari possono dar vita a tumori, i merkelomi, molto aggressivi.

Cheratinociti e melanociti sono molto sensibili a fattori oncogeni, in particolare ai raggi UV: l’azione dei
raggi UV è particolarmente forte sulle cellule dello strato basale, che sono in continua proliferazione e
quindi sensibili a mutazioni che inducono la trasformazione neoplastica. Le cellule tumorali esprimono le
metalloproteasi, enzimi che permettono loro di digerire la membrana basale e invadere il derma, ma anche
di invadere i capillari e metastatizzare.
I tumori cutanei sono più frequenti: nei pazienti anziani, negli immunodepressi o nel paziente sottoposto a
chemio e radio terapia, in cui il sistema immunitario è meno efficace. In generale, circa una persona su
quattro nel corso della vita va incontro ad un tumore cutaneo, inoltre, si tratta di neoplasie che per lo più
sono istologicamente maligne, ma non lo sono biologicamente.

Generalità sui tumori cutanei

I tumori cutanei maligni più frequenti sono epiteliomi/carcinomi e melanomi; esistono anche diversi tumori
benigni, derivanti soprattutto dai cheratinociti.
Gli agenti eziologici responsabili delle neoplasie cutanee sono:
- Raggi UV
- Agenti chimico-fisici, come piombo, benzene, formalina
- Ereditarietà e fattori genetici predisponenti
- Virus oncogeni, in particolare HPV
L’incidenza delle neoplasie cutanee è elevata, tanto che 1 persona su 4 va introno ad un tumore cutaneo
nel corso della vita; l’età di insorgenza è variabile.

La diagnosi differenziale è complessa perché molte neoformazioni cutanee benigne assomigliano a


neoplasie; la diagnosi differenziale di una lesione cutanea deve considerare:
- Nevo epidermico
- Cheratosi seborroica, proliferazione non neoplastica degli strati più superficiali dello strato corneo
- Cheratoacantoma, lesione neoplastica benigna in cui si ha proliferazione dello strato spinoso e
aumento dello strato corneo
- Carcinoma a cellule squamose
- Neoplasie scarsamente differenziate, che possono essere metastasi, fibromi, fibrosarcomi,
schwannomi, melanomi
La diagnosi è complicata anche dal fatto che talvolta i tumori si presentano a livello di mucose non visibili e
la prima manifestazione è data dalle metastasi.

502
LESIONI BENIGNE

Acantoma a cellule chiare

L’acantoma è una formazione benigna, poco frequente,


caratterizzata da:
- Proliferazione e aumento di spessore dello strato
spinoso (il termine acantoma indica proprio
l’aumento di spessore dello strato spinoso e dello
strato corneo)
- Cellule squamose con citoplasma chiaro: il
citoplasma è ricco di glicogeno, che viene
solubilizzato durante l’allestimento del preparato,
quindi non si colora
- Erosione superficiale
È localizzato soprattutto a livello degli arti inferiori ed interessa soprattutto adulti e anziani.
Istologicamente si osserva l’allungamento delle papille dermiche, dovuto all’ispessimento dello strato
corneo e dello strato spinoso.

Cheratoacantoma

Il cheratoacantoma è una neoplasia benigna caratterizzata da una lesione


proliferativa a rapida crescita con aspetto a cratere: presenta una zona di
avvallamento centrale circondata da una rima rilevata e ispessita. Il diametro
è mediamente di 1-2,5 cm, ma esistono anche forme giganti che arrivano a 20
cm.
Solitamente si tratta di una lesione singola, ma nei pazienti immunodepressi
o sottoposti a chemioterapia può essere multipla. Insorge tipicamente sul
viso o sul dorso delle mani e presenta una prevalenza maggiore nel sesso
maschile (rapporto M:F di 3:1).
È una neoplasia esofitica, ma può crescere anche verso l’interno dell’epidermide.
Nell’avvallamento centrale si trovano squame ortocheratosiche dovute a ipercheratosi, mentre la zona
periferica rilevata è costituita da epitelio iperplastico senza displasia. La lamina centrale di cellule cornee
tende a desquamarsi verso l’esterno fino ad andare incontro a guarigione spontanea. La guarigione
spontanea è proprio la caratteristica che differenzia il cheratoacantoma dal carcinoma; in alcuni casi,
soprattutto quando la lesione cresce rapidamente e non si ha la sicurezza che sia benigna, si procede
chirurgicamente.

Istologicamente si osservano:
- Cellule epiteliali voluminose, squamose e ricche di glicogeno nella zona centrale
- Cellule ad aspetto basaloide ben differenziate nella zona periferica
La cheratogenesi si realizza senza passare dallo strato granuloso: lo strato granuloso è assente.
Può essere presente atipia cellulare a causa della proliferazione, detta atipia reattiva, ma non si ha
displasia (presente invece nella cheratosi attinica). Si possono formare micro-ascessi.
Nella fase involutiva lo strato ipercheratosico inizia a staccarsi e rimane un epitelio normale, ma privo di
papille dermiche.
Nella lesione guarita si
osserva la
trasformazione
fibrosa del derma.

503
La prognosi del cheratoacantoma è buona: si ha una rapida crescita seguita da involuzione spontanea.
Il cheratoacantoma entra in diagnosi differenziale con:
- Carcinoma squamoso
o Conserva lo strato granulare, assente nel cheratoacantoma
o Si ha un meccanismo paracheratosico, ovvero rimangono i nuclei nello strato superificiale
o Presenta caratteristiche invasive, mentre il cheratoacantoma rimane confinato
nell’epidermide
o Presenta una lenta crescita e può presentare aree di necrosi centrale, dal momento che
non si ha una adeguata neo-angiogenesi. La presenza di aree necrotiche ed emorragiche è
sempre indicativa di malignità.
- Cheratosi attinica
o È una condizione pre-cancerosa che presenta displasia e crescita rapida
o La forma proliferativa presenta dotti di ghiandole eccrine proliferanti, che danno l’idea di
essere invasivi, ma per definizione questa è una lesione non invasiva

Cheratosi seborroica – Dispensa (Robbins)

È un tumore epiteliale benigno che si manifesta soprattutto


nel tronco e in individui adulti-anziani.
La patogenesi vede coinvolte alterazioni di FGFR3 e in alcuni
casi le cheratosi seborroiche possono comparire nel quadro di
una sindrome paraneoplastica, soprattutto in caso di tumori
del tratto gastroenterico, in seguito alla stimolazione del TGF-
α.
Si presenta come placca tondeggiante piatta dal diametro
variabile; la pigmentazione è uniforme, marrone scura o
bruna, e la superficie esterna è lisca o granulosa. Grazie ad
una lente di ingrandimento si possono osservare piccoli orifizi
tondeggianti pieni di cheratina, caratteristica utile per la
diagnosi differenziale con il melanoma.
Istologicamente si hanno lesioni ben demarcate dall’epitelio sano circostante e costituite da strati di
piccole cellule basaloidi con variabile pigmentazione melaninica; in superficie sono presenti ipercheratosi e
cisti o pseudo-cisti cornee. Le cisti cornee sono piccole cisti piene di cheratina, mentre le pseudo-cisti
cornee sono invaginazioni di cheratina nella massa tumorale principale.

Verruche – Dispensa (Robbins)

La verruca è un disturbo squamo proliferativo cutaneo indotta dal papilloma virus umano, in particolare
dai ceppi 6 e 11. Si tratta di formazioni benigne costituite da un nucleo di tessuto vascolarizzato rivestito
da vari strati di tessuto epiteliale. Il virus penetra nell'epidermide e la infetta, determinandone
un'eccessiva velocità di replicazione.
L'aspetto della verruca varia a seconda della sede corporea colpita e del ceppo virale che l'ha provocata:
- Verruche comuni → si presentano spesso sulle mani sono grandi 0,1-1 cm hanno lo stesso colore
della pelle e una superficie rugosa.
- Verruche plantari → compaiono sulla pianta del piede e normalmente interrompono il tracciato di
linee e rilievi presenti sulla cute che costituiscono l'impronta del piede; tendono a essere più
morbide, piatte, ricoperte da callosità e dolorose a causa della pressione esercitata durante la
deambulazione
- Verruca plana o piatta → compare invece sul viso o sul dorso delle mani è in genere più piccola
della verruca volgare, è piatta e rossa
- Condiloma acuminato o verruca venerea

504
L’aspetto istologico è tipico e vede una iperplasia villosa o
papillomatosa dell’epidermide che assume un aspetto ondulato.
A maggiore ingrandimento le cellule degli strati superficiali
presentano coilocitosi ossia una vacuolizzazione citoplasmatica
che rende chiaro lo spazio intorno ai nuclei, nel citoplasma
possono essere presenti aggregati eosinofili segno di attività
virale. Il virus può essere evidenziato alla microscopia
elettronica all’interno del nucleo oppure con una
immunoistochimica.
Il trattamento non è solitamente necessario, visto che le
verruche tendono a regredire spontaneamente.
Se necessario intervenire le opzioni terapeutiche includono: asportazione chirurgica, crioterapia, preparati
cheratolitici, iniezioni di interferone intralesionali e laser.

LESIONI PRE-MALIGNE

Cheratosi attinica

Lesione pre-maligna che tradizionalmente viene considerata un carcinoma squamocellulare di basso grado,
1° o 2° grado a seconda del numero di strati di epidermide coinvolti. Non tutte le cheratosi progrediscono
verso la malignità. Queste lesione è indotta da una prolungata e cronica esposizione ai raggi solari ed è
caratterizzata da:
- Proliferazione aberrante
- Anomalie di formazione dello strato corneo (paracheratosi)
- Displasia variabile dello strato basale (la displasia parte sempre dallo strato basale, dal momento
che sono le cellule più sensibili al danno, e occupa poi l’interno spessore dell’epitelio, diventando
carcinoma in situ)
Oltre all’esposizione solare, altri fattori eziologici sono radiazioni ionizzanti, idrocarburi e arsenicati.
La pelle chiara rappresenta un fattore predisponente, dal momento che è più suscettibile al danno da raggi
UV, poiché presenta pochi melanociti.
Queste neoplasie interessano soprattutto adulti e anziani e si presentano come lesioni eritematose < 1cm
(entrano in diagnosi differenziale con i carcinomi basaloidi e la dermatite infiammatoria); la lesione
presenta desquamazione e aspetto a carta vetrata. In alcuni casi la lesione è pigmentata (diagnosi
differenziale con lentigo e lentigo-melanoma).
A livello istologico si trovano:
- Displasia dello strato basale: nuclei polimorfi, spesso allungati, ipercromici con cromatina dispersa
in zolle; si ha una alterazione della maturazione, con paracheratosi e nuclei presenti anche nelle
cellule cheratinizzate.
La displasia può associarsi ad acantolisi, ovvero alla lisi della componente cellulare dello strato
spinoso, con formazione di strutture vescicolari che possono confluire l’una nell’altra e dare un
aspetto simil-ghiandolare alla lesione (si possono avere foci di vescicolazione).
La displasia dello strato basale può associarsi anche a telangiectasia, ovvero sfiancamento del lume
delle strutture vascolari
- Ponti intercellulari presenti: sono ben evidenti i desmosomi, a differenza di quanto avviene nel
carcinoma basaloide, che assume un aspetto sinciziale
- Due possibili varianti:
o Variante atrofica, con un assottigliamento generale dell’epidermide
o Variante iperplastica o cheratosi attinica proliferativa, caratterizzata dalla proliferazione
delle cellule delle ghiandole eccrine. In questo caso si formano papille allungate e
iperplastiche, con noduli di cellule neoplastiche.
- Infiltrato infiammatorio reattivo: quando presente si parla di cheratosi attinica lichenoide
- Pigmento melanico

505
- Elastosi: i raggi solari danneggiano anche le fibre elastiche del derma sottostante, che vanno
incontro a degenerazione, detta elastosi solare. Le fibre elastiche, soprattutto nel derma
superficiale, appaiono come una massa amorfa
La cheratosi attinica può associarsi a carcinoma spinocellulare.
La cheratosi attinica ha una prognosi generalmente indolente, senza aggressività locale; le lesioni sono
solitamente proliferative, con formazione di cordoni endofitici di cellule atipiche nello strato basale.
Non è nota la percentuale di casi che evolvono verso il carcinoma spinocellulare (la cheratosi attinica non è
una lesione precursore del carcinoma basocellulare, che non presenta lesioni precancerose).

Malattia di Bowen – Dispensa

La malattia di Bowen è un carcinoma squamocellulare superficiale in situ.


A livello istologico si riscontrano acantosi, paracheratosi e displasia estesa all'intero spessore
dell'epidermide, alterazioni della differenziazione con prematura cheratinizzazione dei cheratinociti e
perdita della loro polarità. I singoli cheratinociti presentano pleomorfismo di grado variabile e grandi
nuclei ipercromici. Si possono riscontrare frequenti figure mitotiche. La giunzione dermo-epidermica è
intatta, si tratta pertanto di un carcinoma in situ. Il derma presenta un infiltrato infiammatorio denso.
Nelle lesioni genitali con significativa presenza di HPV si può riscontrare coilocitosi.
La clinica è quella di una singola chiazza o placca eritematosa, di piccole dimensioni, persistente,
desquamante (soprattutto ai margini), talvolta crostosa, di forma solitamente lenticolare e dai margini
ben definiti. Le lesioni meno frequentemente possono essere multiple. L'ulcerazione è spesso segno di
evoluzione in carcinoma spinocellulare. La lesione tende ad accrescersi e a distanza di anni può evolvere nel
3-5% dei casi in carcinoma spinocellulare ma in alcuni casi si risolve spontaneamente. La prognosi è
eccellente se non vi è degenerazione in carcinoma spinocellulare.

506
NON-MELANOCYTUC SKIN CANCER – NMSC

I più comuni tra gli NMSC sono il carcinoma basocellulare, BCC (Basal cell carcinoma), e il carcinoma
squamocellulare o spinocellulare, SCC (Squamous cell carcinoma), con un’incidenza di 1 su 4 pazienti
immunocompetenti, con una prevalenza nel sesso maschile. In particolare, il BCC è responsabile dell’80%
dei NMSC nei pazienti con meno di 40 anni, sebbene l’età media alla diagnosi sia 60 anni.

Carcinoma spinocellulare – SCC

È caratterizzato da proliferazione di cellule epidermiche con caratteristiche di elementi suprabasilari,


quindi di cellule dello strato spinoso, già piuttosto differenziate in senso squamoso.
Insorge soprattutto a livello di testa, tronco e genitali e si presenta come una lesione in situ, che può
progredire a carcinoma invasivo, se non trattata. La lesione si presenta come placca eritematosa, talvolta
ipercheratosica (diagnosi differenziale con dermatiti infiammatorie). Può presentarsi anche a livello di
mucose, soprattutto a livello della mucosa orale, ove si presenta con placche biancastre ed ispessite
(leucoplachia).
Il tumore in situ può evolvere ad una forma invasiva, ma un carcinoma invasivo non è necessariamente
preceduto da una forma in situ. Se la lesione si presenta direttamente come carcinoma invasivo si ha una
placca indurita o un nodulo con squame ipercheratosiche, che può andare incontro ad ulcerazione
superficiale; talvolta può essere presente un cratere superficiale e in tal caso è necessaria la diagnosi
differenziale con cheratoacantoma.

In questo caso ai fattori di rischio generali per le lesioni cutanee si aggiungono le ulcere croniche e le
cicatrici da ustioni, dal momento che rappresentano aree in cui si ha una certa attività proliferativa.
Anche il tabacco, soprattutto il tabacco da pipa o da masticare, rappresenta un fattore di rischio, in
particolare per le lesioni a livello di mucosa orale.
A questi fattori ambientali si uniscono malattie ereditarie, come lo Xeroderma pigmentoso, caratterizzato
da un deficit dei meccanismi di riparazione del genoma, che facilita quindi i danno radiazioni ultraviolette.
Anche l’HPV, soprattutto il ceppo 36, rappresenta un fattore di rischio.
Per quanto riguarda i raggi ultravioletti bisogna considerare che:
- Gli UVB generano fotoprodotti mutageni del DNA, come i dimeri di ciclodipirimidina o mutazioni di
geni oncosoppressori, come p53
- Gli UVA presentano un effetto indiretto che porta alla formazione di radicali liberi citotossici e
mutageni, favorendo quindi gli effetti degli UVB
Inoltre, le radiazioni ultraviolette oltre ad un danno diretto sul genoma, hanno anche azione
immunosoppressiva sulla cute, per cui favoriscono le infezioni virali, come la slatentizzazione dell’infezione
da Herpes Simplex virus.

A livello istologico il carcinoma spinocellulare è caratterizzato da:


- Proliferazione di cheratinociti atipici a tutti i livelli
dell’epidermide: i nuclei di queste cellule sono grandi ed
ipercromici e presentano un contorno angolato; l’attività
mitotica è ben evidente.
- Ispessimento dello strato corneo e paracheratosi
- Strato granuloso diminuito o assente (diagnosi
differenziale con cheratoacantoma)
- Neoangiogenesi e infiltrato infiammatorio
Si distinguono una forma in situ, limitata al di sopra della
membrana basale, e una forma invasiva, che può derivare direttamente da una cheratosi attinica
proliferativa.
Possibili varianti sono:

507
- Variante a cellule fusate → cellule allungate con aspetto simil-mesenchimale, con perdita delle
normale morfologia delle cellule epiteliali
- Variante acantolitica → pattern pseudo-ghiandolare con foci di vescicolazione
Sono visibili anche perle cornee, che rappresentano il tentativo
delle cellule neoplastiche di differenziarsi in cellule cornee: sono
elementi patognomici che consentono di confermare la diagnosi.
La presenza di perle cornee permette di descrivere il tumore come
differenziato.
In alcuni casi il carcinoma squamocellulare risulta
moderatamente differenziato o anaplastico, completamente
indifferenziato; in questo caso le cellule perdono le proprie
caratteristiche differenziative e la diagnosi differenziale risulta
particolarmente difficoltosa. Per distinguere un carcinoma
scarsamente differenziato si ricorre all’immunoistochimica,
usando come marcatori le citocheratine.
Il carcinoma spinocellulare può dare invasione linfatica o
vascolare, con la formazione di trombi neoplastici.
Si tratta però di una neoplasia che metastatizza raramente, nel
2-3% dei casi; la percentuale sale nel caso di carcinoma
spinocellulare della mucosa labiale inferiore (11%) dal momento
che l’epitelio è più sottile e la neoplasia raggiunge più facilmente
le strutture vascolari.

La diagnosi differenziale del carcinoma spinocellulare comprende:


- Cheratoancantoma
- Melanoma, dal momento che il carcinoma spinocellulare potrebbe essere pigmentato
- Linfoma a grandi cellule, nel caso di forme particolarmente sdifferenziate, che mimano un linfoma
cutaneo

Carcinoma basocellulare – BCC

Il carcinoma basocellulare non presenta lesione pre-cancerose e può trovarsi in alcune patologie
sindromiche, come la sindrome di Gorlin (sindrome del nevo a cellule basali). È associato ai medesimi
fattori di rischio del carcinoma spinocellulare e un ruolo importante è giocato, come in tutti i NMSC,
dall’esposizione cronica ai raggi ultravioletti (caratteristica che li differenzia dal melanoma, associato
invece ad una esposizione acuta e violenta ai raggi UV).
Il carcinoma basocellulare è un tumore maligno ben differenziato, quindi associato a bassa mortalità, ma
al tempo stesso è una neoplasia ad alta frequenza, quindi ad alta morbilità. Interessa soprattutto soggetti
anziani e nel 30-60% si presenta in pazienti con storia familiare positiva per BCC.
Questa neoplasia colpisce soprattutto i fototipi chiari, in particolare soggetti lentigginosi con capelli e occhi
chiari.

Si tratta di una neoplasia epidermica a crescita indolente che deriva dalla proliferazione dei cheratinociti
basali, in particolare dalle cellule che costituiscono gli annessi cutanei, quindi leggermente più
indifferenziate. Si presenta come una papula grigiastra, traslucida, ben circoscritta e non cheratosica
(derivando dai cheratinociti basali è priva di squame). Sulla superficie della lesione vi sono vasi
telangectasici, ovvero dilatati, che possono ulcerarsi: si parla di ulcere rodens, piccole lesioni che non si
rimarginano e si ripresentano in continuo, senza una guarigione definitiva.
Caratteristiche del BCC sono anche la tendenza ad invadere i tessuti sottostanti, tanto che può esercitare
un’azione corrosiva sull’osso del distretto interessato, e il neurotropismo, soprattutto quando si sviluppo a
livello di volto. Raramente sono presenti metastasi linfonodali.

508
Essendo una lesione superficiale che spesso interessa distretti ben evidenti, il carcinoma basocellulare
viene presto notato dal paziente, che si reca dal medico, quindi la diagnosi è solitamente precoce e il
trattamento risolutivo.

Esistono diverse varianti di carcinoma basocellulare:


- Nodulo-ulcerativa
- Sclerodermiforme o fibrosante, associata a desmoplasia del tessuto connettivale
- Supericiale
- Multifocale
- Eritematosa (diagnosi differenziale con carcinoma spinocellulare, dermatite infiammatorie e prime
fasi del melanoma a crescita radiale)
- Pigmentata (diagnosi differenziale con il melanoma)

L’origine del carcinoma basocellulare


è da riferirsi alle cellule pluripotenti
immature dell’epidermide
interfollicolare e a cellule componenti
il rivestimento esterno del pelo.
Dal punto di vista molecolare si ha
l’attivazione del Sonic-Hedgehog
pathway, SHh, in diversi
compartimenti dell’epidermide, con
conseguente modificazione
dell’espressione del pattern delle
citocheratine a livello di follicolo
pilifero. Questi elementi permettono
di caratterizzate il BCC come
neoplasia maligna derivante dalle
cellule germinali follicolari, i
tricoblasti.
Nella sindrome di Gorlin si ha la perdita di funzione del recettore PTCH di SHh; questa è una sindrome
autosomica dominante caratterizzata da anomalie multiple di sviluppo e predisposizione all’insorgenza di
neoplasie, in particolare il carcinoma basocellulare, il medulloblastoma, il rabdomiosarcoma embrionale e il
miningioma.
In condizioni fisiologiche PTCH forma un complesso recettoriale con SMO, inattivandolo in assenza del
ligando, ovvero in assenza di SHh. In caso di mutazione, PTCH perde il suo effetto inibitorio su SMO, il
quale recluta il fattore GLI-1 e induce l’espressione di diversi oncogeni, coinvolti nello sviluppo di diverse
neoplasie.
Nel carcinoma basocellulare possono essere implicate anche altre mutazioni, che alterano la medesima via
di segnalazione, tra cui mutazioni di SMO (10-20% dei casi di BCC sporadico).
Le mutazioni di p53, presenti in più del 50% dei pazienti, sembrano correlate alla progressione della
malattia, piuttosto che alla sua genesi.

Dal punto di vista istologico il carcinoma basocellulare è costituito


da strutture a cordone o da noduli di cellule basaloidi, posti entro
il derma superficiale e profondo.
Le cellule neoplastiche presentano margini indistinti e nuclei
polimorfi con nucleoli poco evidenti. Si ha quindi un aspetto quasi
sinciziale, in cui è difficile individuare i singoli elementi neoplastici.
Altro aspetto caratteristico della neoplasia è la disposizione a
palizzata delle cellule neoplastiche peri-nodulari (immagine a lato).

509
Si riconoscono tre sottotipi: superficiale, nodulare (il più simile al
melanoma) e infiltrativo; questa distinzione è importante dal punto di
vista prognostico, infatti, il sottotipo nodulare e infiltrativo sono più
aggressivi del sottotipo superficiale.
Spesso si ha l’associazione con cheratosi attinica e elastosi solare, a
causa della cronica esposizione a raggi UV. Nell’immagine a lato si
osservare la neoplasia con pattern nodulare e l’elastosi.

È stato visto che i fibroblasti stromali intorno alla neoplasia esprimono


pattern genici analoghi a quelli dei fibroblasti dello stroma neoplastico:
ciò significa che i fibroblasti stromali nei margini chirurgici liberi da neoplasia, esibiscono un fenotipo
promuovente la cancerogenesi. Questo fenomeno spiega diverse caratteristiche del BCC, tra cui lo spiccato
neurotropismo.
Il BCC si associa a desmoplasia, ovvero ad un aumento della quota di connettivo, e il rimodellamento della
matrice stromale della neoplasia è associato ad una aumentata espressione delle chemochine coinvolte
nella progressione del tumore e nell’immunosoppressione (CXCL12, CCL17).
Nelle lesioni nodulari le cellule crescono in basso profondamente nel derma come cordoni o isole di cellule
più o meno basofile con nuclei ipercromatici immersi in una matrice mucinosa e spesso circondate da molti
fibroblasti e linfociti le cellule alla periferia delle isole neoplastiche tendono a disporsi radialmente a
palizzata.

La terapia si basa su inibitori del pathway di SHh, che oltre a sopprimere la progressione della neoplasia
promuovono la risposta immunitaria anti-tumorale. In genere la chirurgica è di tipo conservativo.
La prognosi è generalmente buona, infatti, si tratta di lesioni che tendono alla recidiva locale, ma solo
raramente sono estensive. L’invasione peri-neurale è un fattore prognostico sfavorevole.

Diagnosi differenziale tra SCC e BCC

Entrambe le neoplasie derivano da cheratinociti: il SCC dai cheratinociti dello strato spinoso, il BCC da
cheratinociti dello strato basale, meno differenziati e praticamente privi di citocheratina.
Nel BCC, rispetto allo spinocellulare:
- I nucleoli non sono prominenti
- Le singole cellule sono molto rare nello stroma
- L’attività mitotica è più bassa
- Le cellule perinodulari presentano organizzazione a palizzata
- La proliferazione stromale interessa sia la neoplasia che i tessuti sani adiacenti
Vi sono alcuni casi in cui il BCC si presenta come basalioma cheratinizzato e la diagnosi differenziale con il
carcinoma spinocellulare è molto complessa.

510
TUMORI E LESIONI DEI MELANOCITI: NEVI

I nevi, o nei, sono generalmente delle iperproliferazioni benigne di cheratinociti, nel caso del nevo dermico,
o melanociti, nel caso del nevo melanocitico.
Dal punto di vista eziologico i nevi possono essere distinti in congeniti e acquisiti.

I nevi dermici sono distinti in: verrucoso, sebaceo e seborroico.


Il nevo sebaceo è una lesione amartomatosa costituita da ghiandole sebacee, ghiandole apocrine
eterotropiche e follicoli piliferi anomali e presentano acantosi e papillomatosi epiteliale, ovvero un
aumento di spessore dello strato spinoso e dello strato corneo e grandi papille dermiche.

I nevi melanocitici sono delle neoplasie benigne della cute, clinicamente rilevanti dal momento che
possono evolvere in melanoma. Il meccanismo eziopatogenetico è multifattoriale e prevede la
combinazione tra fattori genetici predisponenti e fattori ambientali, soprattutto l’esposizione ai raggi UV.
Oltre a rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo nel melanoma, i nevi entrano in diagnosi
differenziale con il melanoma stesso.

All’interno dei melanociti si trova il melanosoma, organello deputato alla sintesi e all’accumulo di melanina,
che presenta diversi gradi maturativi:
- Inizialmente si configura come un organello
ovalare, di diametro < 1µm, dotato di una struttura
a lamelle parallele e perpendicolari che
costituiscono lo scaffold sul quale si distribuisce poi
il pigmento melaninico. A questo stadio si parla di
pre-melanosoma.
- Successivamente si assiste alla progressiva
deposizione di melanina, che arriva a nascondere
completamente lo scaffold sottostante
Nel nevo i melanosomi sono tutti normali, mentre nel
melanoma compaiono melanosomi a diversi gradi di maturazione con granuli di melanina atipici.

Ad orientare la diagnosi differenziale tra nevo melanocitico e melanoma concorrono diversi fattori: storia
clinica, morfologia macroscopica e caratteristiche istologiche.
In alcuni casi questi fattori non permettono di giungere ad una diagnosi differenziale certa, pertanto sono
sempre più importanti i mezzi volti ad indagare il profilo genetico delle lesioni. L’analisi del profilo genetico
permette di classificare la lesione, comprendere i processi di sviluppo e il comportamento biologico.

Nevi congeniti

Solitamente i nevi non sono presenti alla nascita, ma si formano nel soggetto giovane, per poi scomparire
con l’avanzare dell’età; infatti, inizialmente i nevi sono superficiali, poi si approfondano nel derma fino ad
essere completamente riassorbiti.
Se presenti alla nascita i nevi melanocitici sono definiti congeniti e vengono classificati in base alle
dimensioni:
- Small, SCMN, se < 1,5 cm
- Medium, MCMN
o Medium tipo 1: 1,5 – 10 cm
o Medium tipo 2: 10 – 20 cm
- Large, LCMN
o Large tipo 1: 20 – 30 cm
o Large tipo 2: 30 – 40 cm
- Gigant, GCMN

511
o Gigant tipo 1: 40 – 60 cm
o Gigant tipo 2: > 60 cm
Maggiori sono le dimensioni, maggiore è il rischio di trasformazione in melanoma; particolarmente
pericolosa è la variante gigante pelosa.
Il rischio di sviluppare un melanoma, oltre che dalle dimensioni del nevo, dipende anche dalla sede
anatomica interessata (più rischiose le forme assiali) e dal numero totale di lesioni.
La mappatura dei nevi è importante proprio per valutare queste caratteristiche.
I nevi congeniti sono quindi da considerare potenzialmente maligni e vanno attentamente monitorati dopo
i 25-30 anni; tuttavia, sono lesioni rare, che interessano circa l’1% dei bambini.
La classificazione dei nevi può essere basata anche su criteri morfologici, come la nodularità e la presenza di
lesioni satelliti.

Macroscopicamente i nevi melanocitici congeniti si presentano come placche con bordi irregolari,
tendenzialmente marroni.
All’esame dermatoscopico si osserva un accumulo di materiale melaninico nella lesione.
Istologicamente si osservano cordoni di melanociti a livello di epidermide e derma.
Istologicamente i nevi melanocitici congeniti possono essere:
- Profondi, sia dermici che sottocutanei, quindi oltre il derma reticolare, spesso associati a strutture
annessiali cutanee
- Composti, con una componente dermica e una giunzionale
- Nel 30% dei casi presentano atipia nucleare (ma non si sa se questa sia effettivamente associata
allo sviluppo di melanoma)

I nevi congeniti, come tutti i nevi, possono essere classificati in base alla localizzazione:
- Nevi giunzionali, localizzati a livello di giunzione dermo-epidermica
- Nevi profondi o dermici, localizzati nel derma
- Nevi composti, caratterizzati da una componente giunzionale e una dermica
I nevi a rischio di trasformazione in melanoma maligno sono i nevi che interessano la giunzione dermo-
epidermica, sede dei melanociti, quindi i nevi giunzionali e i nevi composti.

Nevo blu

Il nevo blu, così chiamato per la colorazione intensa e scura, è


un nevo dermico che deve la sua colorazione proprio alla
localizzazione profonda nel derma: il colore bluastro è dovuto
all’effetto Tyndall che subisce la luce quando viene riflessa
dalla melanina presente nelle cellule neviche localizzate
profondamente.
Il nevo blu si presenta tipicamente come lesione solitaria localizzata a livello di cuoio capelluto, collo, dorso
delle mani o dei piedi, sacro e palato duro ed è tipica dell’infanzia e della adolescenza.
Si distinguono alcune varianti:
- Variante comune
- Variante cellulare, che è quella a maggior rischio di trasformazione maligna dal momento che le
cellule possono presentare atipie
- Variante sclerosante o desmoplastica
- Variante epitelioide, in cui il melanocita perde la sua tipica forma dendritica
L’unica variante che presenta tendenza, seppur raramente, alla trasformazione neoplastica è la variante
cellulare.

Nella maggior parte dei casi si tratta di nevi dermici, ma in rari casi si può avere un nevo composto.
Nel nevo blu i melanociti hanno un aspetto dendritico fusato con nucleo ipercromico e allungato; si ha un
implemento dello stroma e fibrosi nella zona circostante il nevo.

512
Associati al nevo possono esserci dei melanofagi,
ovvero macrofagi che fagocitano il pigmento
rilasciato dalle cellule del nevo.
Istologicamente si osserva un nodulo profondo,
solitamente privo di legami con l’epidermide
superficiale, e fibrosi ad esso associata.

Dal punto di vista genetico il nevo blu presenta


mutazioni attivanti l’esone 5, codone Q209L.
I geni coinvolti sono GNAQ e GNA11, codificanti
per proteine G associate a recettori, coinvolti nel
pathway della MAP-chinasi: questo pathway
risulta costantemente attivato e promuove lo
sviluppo del melanocita.
Queste stesse mutazioni si riscontrano nel
melanoma uveale, variante del malanoma a
prognosi migliore, ma non per questo il nevo blu
sembra essere associato ad un maggior rischio di melanoma.

Nevo di Spitz

È frequente nei bambini di 2-3 anni e nei giovani adulti, con meno di
20 anni.
Si presenta come una papula singola rossa/rosata rivelata, con un
diametro < 1 cm; sono possibili varianti piatte e polipoidi. In seguito
a traumi importanti si possono avere lesioni multiple.

Istologicamente l’epidermide risulta iperplastica con grandi


melanociti epitelioidi e fusati disposti in cordoni o fasci
verticali; le cellule singole sono rare. Si ha un infiltrato
infiammatorio simmetrico e perivascolare.
Le cellule sono monomorfe per taglia e forma, ma tendono
ad essere più piccole negli strati profondi, come se le cellule
approfondendosi andassero incontro a deiscenza. Possono
essere presenti mitosi nelle porzioni superficiali della lesione
(se le mitosi sono atipiche e in profondità si tratta di un
melanoma).
Il nevo di Spitz è solitamente giunzionale, quindi a rischio di
trasformazione melanomatosa.

Il nevo di spitz non mostra aberrazioni cromosomiche specifiche, infatti, solo nel 12% dei casi si ha
acquisizione del braccio corto del cromosoma 11. Nel 67% dei casi si hanno mutazioni dell’oncogene HRAS,
che però non influenzano la prognosi.

Nevi melanociti acquisiti – AMN

I nevi melanocitici acquisiti (AMN) rappresentano il gruppo più ampio, sono molto frequenti e si presentano
in sedi differenti. Le dimensioni sono in genere <6mm. Anche i nevi acquisiti vengono distinti in giunzionali,
profondi e composti.
Il meccanismo di nevogenesi è dinamico per cui si ha la continua comparsa e scomparsa dei nevi. Fino alla
quinta decade di vita prevale il processo di formazione di nuove entità, successivamente prevale la
scomparsa dei nei.

513
I nevi acquisiti sono di dimensioni circoscritte,
omogeni, solitamente piatti, con bordi regolari e
simmetrici: la perdita di queste caratteristiche deve far
pensare alla presenza di un nevo displastico o di un
melanoma.

In questo caso si ha la mutazione di BRAF, che ha


frequenza diversa nei differenti sottogruppi di AMN:
- 76% dei nevi acquisiti composti
- 69% dei nevi acquisiti intradermici
- 36% dei nevi acquisiti giunzionali
Essendo meno rappresentata nelle forme giunzionali, la
mutazione di BRAF di fatto non è un segno negativo.
Altra mutazione possibile è a carico del codone 61 del
gene NRAS, presente sul cromosoma 1: RAS attiva
BRAF che a sua volta agisce sul pathway delle MAP-
chinasi, inducendo quindi proliferazione e crescita del melanocita.
Mutazioni di BRAF e NRAS sono state identificate anche nei melanomi.

Nevo intradermico

Essendo profondo il nevo intradermico può sporgere sulla


superficie. Cresce lentamente, ha un diametro < 1cm, è
pigmentato e spesso associato a peli.
Dal punto di vista istopatologico si risconoscono cluster di cellule
neviche associati a strutture pilifere e ghiandole dermiche. Le
cellule hanno aspetto epitelioide e solitamente sono
rotondeggianti, ma possono essere anche fusate o allungate o
multinucleate. Questa variabilità morfologica non è segno di
malignità, anche perché non si hanno mitosi.
Una caratteristica importante è
l’associazione con fibrosi
connettivale, la quale separa la
proliferazione nevica dall’epidermide
circostante.
514
Nevo giunzionale

È meno regolare, sia dal punto di vista morfologico che come pigmentazione. Si localizza a livello di cute di
rivestimento, ma anche a livello di mucosa orale, palato duro e gengive.
È localizzato a livello di giunzione dermo-epidermica e non è associato a reazione fibrosa circostante.
Sono quelli a maggior rischio di trasformazione melanomatosa, pertanto è molto importante valutare la
presenza di displasia. Se la proliferazione non è più limitata all’epidermide, ma si estende al derma si ha una
trasformazione in senso melanoma maligno.

Nevo composto

Presentano due componenti, quella dermica e quella giunzionale,


che possono essere connesse tra loro.
È il tipo più comune e può localizzarsi a livello di tutta la cute, ma
anche a livello di mucosa orale, palato duro e gengiva. Dal
momento che presenta una componente giunzionale si ha la
possibilità di trasformazione maligna.

Nevo displastico

I nevi possono andare incontro a trasformazione melanomatosa,


passando per la condizione di nevo displastico. I melanociti, infatti,
soprattutto in relazione all’esposizione a raggi UV, possono
acquisire caratteristiche di atipia. Quando le atipie interessano
tutto lo spessore dell’epitelio, non più solo la giunzione dermo-
epidermica, si parla di melanoma in situ.
Il melanoma presenta infatti una prima fase di crescita, detta
crescita orizzontale, che avviene in maniera parallela alla superficie cutanea, e una fase di crescita radiale,
in cui il invade il derma profondo.
I criteri di diagnosi delle displasie sono racchiusi nell’acronimo ABCDE:
- Asimmetria
- Bordi con margini irregolari
- Colore non omogeneo, variabile: è possibile avere aree
apigmentate.
I nevi apigmentati possono erroneamente essere diagnosticati
come nevi costituiti da cheratinociti, ma in realtà sono nevi in
cui la lesione viene riassorbita: la lesione induce una reazione
infiammatoria e i melanofagi degradano il pigmento melaninico
- Dimensioni > 6 mm
- Estensione/elevazione: lesioni profonde del derma
determinano un nevo rilevato

515
Si ha quindi una proliferazione melanocitaria disordinata: il disordine architetturale è dovuto al fatto che
viene meno il controllo della crescita dato dal rapporto cellula-cellula.
Le cellule hanno forme e dimensioni variabili, anche i cordoni cellulari sono variabili e si ha crescita
lentigginosa dei melanociti al di sopra delle papille dermiche. Il nucleo è ipercromico e irregolare e il
nucleolo è prominente.
Si ha una reazione flogistica associata, che induce un quadro di flogosi stromale.

Dal punto di vista genetico si ha, nel 66% dei casi, la mutazione V600E di BRAF, con conseguente
attivazione del signaling delle MAP-chinasi.
La presenza di un solo nevo displastico raddoppia il rischio di melanoma, mentre la presenza di 10 o più
nevi displastici implica un rischio di melanoma 15 volte maggiore.

516
MELANOMA

Il melanoma è un tumore aggressivo derivante dai melanociti presenti nello strato basale dell’epidermide
e costituisce la neoplasia cutanea letale più frequente nella maggior parte delle popolazioni occidentali.
In Italia si ha una incidenza di 13 casi su 100.000 abitanti all’anno ed è in aumento.
L’età di insorgenza è prevalentemente quella adulta, ma si possono avere casi anche in età pediatrica,
soprattutto associati a fattori di rischio congeniti come lo Xeroderma Pigmentosum, il nevo a costume da
bagno, ovvero un nevo gigante congenito, e la sindrome del nevo displastico familiare.
I melanomi possono anche originare de novo a partire da:
- Nevi melanocitici acquisiti che possono trasformarsi in nevi displastici, soprattutto se sono
giunzionali o composti
- Nevi blu variante cellulare
- Nevi congeniti di grandi dimensioni e pelosi
I melanomi sono istologicamente e biologicamente maligni e sono associati ad una prognosi infausta.
L’unico modo per migliorare la prognosi è la diagnosi precoce, che permette di eseguire un intervento
chirurgico risolutivo.

Eziologia e fattori di rischio

Sia i carcinomi che i melanomi presentano come fattore di rischio l’esposizione solare, ma mentre i
carcinomi sono associati ad esposizione cronica e prolungata, i melanomi si associano ad esposizione
breve, intesa e multipla ai raggi UV, seguita da un arrossamento post-esposizione. I fototipi chiari sono
maggiormente interessati e risulta importante anche la presenza del vento, infatti, se c’è vento non ci si
rende conto dell’esposizione solare e le bruciature sono più frequenti.
I melanomi possono interessare anche le mucose, non esposte ai raggi UV: melanoma rettale, melanoma
della congiuntiva, melanoma della coroide, melanoma delle meningi. In questi casi l’insorgenza della
neoplasia non è dovuta all’esposizione ai raggi UV, ma al sommarsi di mutazioni genetiche che portano alla
proliferazione neoplastica; in questi casi la diagnosi precoce è difficoltosa, essendo la zona interessata non
visibile, e spesso la diagnosi avviene tardivamente, grazie alle manifestazioni associate alle metastasi.

Vie di metastatizzazione

La metastatizzazione avviene inizialmente per via linfatica, poi per via ematica.
Via la tendenza alla metastatizzazione per via linfatica in sede operatoria si procede anche al prelievo del
linfonodo sentinella; occasionalmente può succede che la metastatizzazione avvenga prima per via ematica
e successivamente per via linfatica, pertanto il linfonodo sentinella può essere negativo nonostante la
metastatizzazione sia già avvenuta.
Il linfonodo sentinella viene prelevato se:
- Il melanoma ha uno spessore ≥ 1 mm
- Nei melanomi ulcerati di qualsiasi spessore
- In presenza di almeno 1 mitosi su mm2
- I margini di resezione sono positivi alla presenza neoplastica
- Si ha invasione linfovascolare

Diagnosi differenziale

La diagnosi differenziale non è semplice, salvo nei casi più classici; vanno considerati:
- Nevi blu, nevi di Spitz, nevi giunzionali
- Efelide giovanile
- Carcinoma squamocellulare o basocellulare pigmentato

517
Presentazione macroscopica

Il melanoma si presenta come papula o nodulo di


diametro > 5-6 mm.
I criteri di diagnosi si basano sulla regola dell’ABCDE:
- Asimmetria → lesione asimmetrica, con una
porzione più espansa dell’altra
- Bordi → lesione con margini irregolari, che
denotano la crescita non omogenea delle
cellule neoplastiche (i nevi acquisiti
presentano invece contorno regolare e
definito)
- Colori → pigmentazione irregolare; si
possono avere aree scure e aree
ipopigmentate. Le aree apigmentate sono
dovute al fatto che la lesione induce una
risposta infiammatoria che determina
l’involuzione temporanea della lesione
stessa, ma dopo un certo lasso di tempo il
melanoma si ripresenta, spesso in una fase più avanzata.
- Dimensioni → un nevo > 5 mm è preoccupante e indicativo di proliferazione
- Elevazione o rilevatezza → risulta preoccupante quando il nevo in origine è piatto, dal momento
che indica può indicare un melanoma in fase di crescita aggressiva

Fasi di crescita del melanoma

Il melanoma presenta due fasi di crescita: una prima fase di crescita radiale e una seconda fase di crescita
verticale. Tutte le varianti di melanoma presentano queste due fasi di crescita, ad eccezione della variante
nodulare, che presenta solo la fase di crescita verticale.

Fase di crescita radiale o orizzontale

In questa fase il melanoma è in situ o microinvasivo.


Il melanoma in situ è localizzato al di sopra delle membrana
basale, mentre nel melanoma microinvasivo si ha una lesione
superficiale in cui le cellule neoplastiche creano degli aggregati
che riempiono le papille dermiche, crescendo in maniera
superficiale.
La fase di crescita radiale è lenta ed indolente, ma porta alla
formazione di foci di microinvasione nel derma papillare.
In fase radiale il melanoma viene anche detto:
- Melanosi pre-cancerosa, dal momento che si hanno
tante lentiggini di cellule neoplastiche
- Iperplasia atipica melanocitica, quando si trova nella
zona giunzionale con cellule che hanno già atipie
manifeste
Nella fase radiale i melanociti sono in genere singoli o riuniti
in piccoli gruppi e sono localizzati nell’epidermide, fino allo
strato corneo. In questa fase si può assistere ad una
regressione immunologica e clinica, mediata dalla reazione
infiammatoria, che però è poi accompagnata dall’evoluzione
in fase verticale.

518
Il melanoma in fase radiale può essere eliminato chirurgicamente.
In fase radiale, dal punto di vista istologico, i melanociti mantengono caratteristiche citologiche molto simili
alla controparte normale, pertanto la diagnosi è difficoltosa. La diagnosi differenziale in questo caso è con il
nevo displastico, in cui le atipie sono molto rare, a differenza del melanoma in fase radiale, che presenta:
- Atipia di tutte le cellule
- Polimorfismo nucleare
- Ipercromatismo
- Mitosi (in 1/3 dei casi; nel nevo displastico le mitosi non sono presenti)
- Ispessimento dell’epidermide, a causa della prolfierazione cellulare e dell’infiltrato infiammatorio
band-like diffuso (nel nevo displastico l’infiltrato infiammatorio è presente a chiazza, patchy)
- Aree di regressione con ispessimento fibroso del derma sub-epidermico (nel nevo displastico non
si ha regressione)

Fase di crescita verticale

Il melanoma diviene aggressivo ed inizia ad invadere il


derma sottostante, facendo apparire la lesione rilevata
rispetto al derma sottostante. L’invasione del derma
porta le cellule in contatto con il plesso capillare e le
strutture vascolari, quindi conferisce al tumore la
capacità di metastatizzare.
In questa fase si viene a formare un nodulo, che può
essere pigmentato o apigmentato e nelle fasi avanzate
può ulcerare e sanguinare.
Il melanoma può dare metastasi cutanee, dette
satellitosi, quindi può essere circondato da altre lesioni
melanomatose, ma può metastatizzare anche a livello di
linfonodi e SNC, anche all’esordio della lesione.
Nella fase di crescita verticale il melanoma distrugge i
tessuti adiacenti, presenta necrosi centrale e va
incontro a ulcerazione.
Dal punto di vista istologico le cellule si sdifferenziano e
divengono epitelioidi, fusate, stellate, assomigliando
sempre di più a cellule di tumori mesenchimali.
Le atipie sono importanti e di alto grado, i nuclei sono
polimorfi e presentano un contorno irregolare,
convoluto, fino a presentare pseudo-cisti nucleari
(sembra che vi siano invaginazioni del citoplasma a
livello nucleare). Le mitosi sono molto frequenti.

Diagnosi immunofenotipica

All’analisi istologica si accompagna una valutazione immunofenotipica, che permette di eseguire la diagnosi
differenziale con altre lesioni cutanee.

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I marcatori antigenici usati sono:
- S100 → proteina nucleare aspecifica che indica l’origine dalla cresta neurale, quindi comune a tutte
le neoplasie neuroendocrine
- Vimentina → è usato per distinguere il melanoma, che risulta positivo, da altre neoplasie epiteliale,
in cui essa è negativa; il problema è che la vimentina è positiva anche nei sarcomi
- HMB45 e MART1 → marcatori specifici per il melanoma; la positività può essere dubbia in caso di
lesione apigmentata

Entità clinico-patologiche

Le entità clinico-patologiche del melanoma sono:


- Lentigo maligna-melanoma
- Melanoma maligno a crescita superficiale, la forma più comune, in cui si ha una crescita radiale e
una crescita verticale
- Melanoma maligno acrale-lentigginoso, con crescita radiale e verticale
- Melanoma nodulare, che si differenzia dagli altri poiché non presenta le due fasi di crescita

Lentigo maligna-melanoma

È una lesione pigmentata che si sviluppa nella cute danneggiata cronicamente da raggi UV, soprattutto
nei pazienti anziani (60-70 anni) e sul viso, in particolare su tempie e fronte. È una lesione tipica di soggetti
esposti cronicamente al sole per motivi lavorativi, come i pescatori.
Si presenta come una macula piatta, a margini irregolari, gradualmente più estesa e variamente
pigmentata, con aree di depigmentazione che corrispondono ad aree di regressione.
Si tratta di una lesione che si sviluppa lentamente, ha una progressione cronica prima di diventare una
lesione aggressiva (quindi prima di passare da lentigo maligna a lentigo maligna melanoma); questa lenta
progressione è anche spiegata dal fatto che le cellule mantengono un certo grado di differenziazione, tanto
che somigliano ai normali melanociti, nonostante le caratteristiche di atipie.

Dal punto di vista istopatologico, infatti, nella lentigo maligna si hanno melanociti dendritici, atipici e
talvolta fusati, che si organizzano a palizzata circondando gli annessi cutanei; l’epitelio soprastante è
atrofico e si associa a elastosi solare, ovvero la degenerazione della componente elastica per i danni da
raggi UV.
Quando la lesione diventa lentigo maligna-melanoma i melanociti perdono la forma dendritica, divengono
fusati, e la lesione diviene invasiva; la lentigo maligna melanoma può essere unifocale o caratterizzata da
diversi foci di infiltrazione.

Nell’immagine a lato si osserva una lentigo-maligna con


epidermide atrofica (con questo ingrandimento non si
vedono, ma sono presenti melanociti atipici), la lesione
è limitata soprattutto all’epidermide, ma è osservabile
anche un minimo focus di infiltrazione. È apprezzabile
anche l’elastosi, caratterizzata da lamelle elastiche
disorganizzate che vanno a formare una massa
omogenea.
Bisogna stare attenti a non confondere le atipie cellulari
con degli artefatti dovuti alla fissazione del campione.
A volte possono comparire elementi cellulari svuotati e
con nuclei ipercromici, ma solo per inadeguata fissazione
del frammento.

520
Nella lentigo maligna melanoma, invasiva, si osservano atipie cellulari, cellule con forme diverse e mitosi
atipiche: dal momento che aumenta il grado di proliferazione, le mitosi che si formano in maniera continua
e possono assumere morfologia atipica.

Melanoma a crescita superficiale

È la variante più comune, colpisce in ugual misura maschi e femmine, ma nei maschi insorge tipicamente
sul dorso e nelle femmine tipicamente sugli arti inferiori.
Si presenta come una macula o una placca piatta e desquamata, con tendenza ad assumere un aspetto
nodulare, quando la crescita si fa verticale; presenta una forma irregolare e una pigmentazione variabile.
Vi sono varianti amelanotiche o ipopigmentate con aree eritematose, pertanto si ha la diagnosi
differenziale con dermatiti, ma anche con carcinoma spinocellulare, che può essere pigmentato, e nevi
displastici, se la lesione non è francamente aggressiva.

Istologicamente presenta una proliferazione asimmetrica, melanociti atipici non dendritici, singoli o
disposti in nidi che interessano tutto lo spessore dell’epidermide. Si hanno cellule epitelioidi con
citoplasma abbondante, nucleo pleomorfo, vescicoloso e con nucleolo prominente e diverse mitosi.
La crescita orizzontale interessa prima l’epidermide, poi il derma, andando a riempire gli spazi tra le papille
e si ha acantosi o l’appiattimento della rete epidermica delle creste, con scomparsa delle papille. Si hanno
quindi alterazioni dell’epidermide nel suo insieme.

Nell’immagine a sinistra si vede una crescita superficiale, ma anche verso l’interno dell’epidermide, e nidi
che crescono tra le papille dermiche. Questo è un melanoma abbastanza superficiale.
L’immagine a destra mostra invece un melanoma più aggressivo con pleomorfismo cellulare e nucleare
accentuato, cellule di dimensioni variabili e mitosi. In quello di destra il melanoma ha già invaso il derma
papillare e si notano
cellule di varia forma,
da ovalare a
epitelioidi, poligonali,
ma anche fusate.
Troviamo inoltre molte
mitosi, nucleoli molto
evidenti e i nuclei
ipercromici ad indicare
indicando un alto
metabolismo cellulare.

521
Melanoma maligno acrale-lentigginoso

Come suggerisce il nome si tratta di una lesione con localizzazione prevalente alle estremità ed è
caratterizzato da una iperplasia dell’epidermide, con una vera e propria accentuazione delle papille
dermiche, che allungano e si approfondano. Il derma assume un aspetto specifico e anche qui si ha
acantosi, ovvero l’ispessimento dello strato spinoso.
Si hanno melanociti atipici dendritici o epitelioidi,
giganti, disposti nella regione basale
dell’epidermide e proliferano formando nidi a livello
di giunzione derma-epidermide.
Quando si passa alla crescita verticale le cellule
assumono un aspetto fusato di tipo mesenchimale:
quando l’infiltrazione è profonda la diagnosi
differenziale è con i sarcomi. Spesso si ha
desmoplasia, ovvero sclerosi intorno alla massa
tumorale.
Nell’immagine è possibile apprezzare l’ispessimento
dell’epidermide, l’acantosi, l’allungamento delle
papille dermiche e la presenza di cellule neoplastiche
si nell’epidermide che a livello giunzionale.

Melanoma nodulare

È la forma più aggressiva, rappresenta il 3-4% dei casi ed è caratterizzato dal fatto di non presentare una
fase di crescita radiale. Si distingue dagli altri tipi di melanomi in fase di crescita verticale poiché in questo
caso non sono presenti cellule neoplastiche nell’epidermide. La prognosi è infausta dal momento che
cresce in profondità, nel derma, dove vi sono strutture vascolari, e la metastatizzazione è molto più rapida.
Colpisce soprattutto i maschi, con un rapporto M:F di 2:1, soprattutto di 50-60 anni. Interessa
prevalentemente tronco e arti e si presenta come un massa nodulare o polipoide, spesso ulcerata, talvolta
amelanotico ed entra in diagnosi differenziale con neoplasie vascolari e neoplasie di origine mesenchimale.

A livello istologico non si riscontrano melanociti atipici all’interno dell’epidermide, ma vi è una cellularità
estremamente variabile, che correla con l’aggressività di questa lesione (più una neoplasia è aggressiva, più
le componenti cellulari risultano sdifferenziate, dal momento che viene perso ogni controllo sulle funzioni
cellulari e permane solo l’attività proliferante). L’aspetto morfologico è quindi molto variabile e possono
essere presenti cellule epitelioidi, fusate, ovalari simil-mesenchimali; talvolta la presenza di cellule giganti
fa pensare ad un osteosarcoma.
Si ha quindi la diagnosi differenziale anche con forme maestatiche cutanee provenienti da altri tumori,
come sarcomi o linfomi.

Vista la somiglianza istologica con altre neoplasie maligne, a fini diagnostici risulta fondamentale
l’immunoistochimica: i melanomi sono tumori che esprimono spesso EBN1 (non sento bene il nome del
marcatore e sulla dispensa ne cita altri due), tanto che vengono trattati con inibitori del check-point
cellulari.

In alcuni casi la diagnosi è particolarmente difficile, soprattutto nelle forme che sono poco pigmentate o
addirittura completamente apigmentate, perché a quel punto non è facile distinguere tra un melanoma e
un sarcoma di altro tipo: le neoplasie si assomigliano tra loro, non c’è nessun carattere distintivo e,
soprattutto se è scarsamente differenziato e poco pigmentato, anche i marcatori HBM45 e MART-1 possono
essere poco presenti (poco positivi) o addirittura negativi. In questi casi si deve ricorrere alla valutazione con
microscopio elettronico alla ricerca dei melanosomi perché per quanto sia indifferenziata la cellula può
presentare qualche melanosoma (non tanti) ed è importante questa ricerca: se si trovano i melanosomi,

522
dato che i melanociti sono le uniche cellule che possono sintetizzare melanina, non ci sono più dubbi
diagnostici.

Nell’immagine a lato si osserva un melanoma


nodulare, con epidermide in sezione tangenziale,
ma priva di cellule neoplastiche al suo interno;
sono invece presenti nidi di cellule neoplastiche nel
derma profondo.
Gli elementi neoplastici assumono un’architettura
storiforme, abbastanza tipica dei sarcomi

Nelle immagini in basso è possibile osservare i


nuclei di forma variabile con nucleoli ipercromici,
che denotano l’importante attività metabolica.
Il numero delle mitosi è importante e alcune di
esse sono atipiche, cosa che sottolinea
l’importante proliferazione.

Melanoma in sedi differenti

Il melanoma è preferenzialmente cutaneo, ma può presentarsi anche in altre sedi:


- Orbita
- Cavità nasale, condizione in cui la diagnosi differenziale è complessa perché può esserci un
carcinoma, un neuroblastoma, un meningioma, ecc.
- Cavità orale
- Vulva, vagina, uretra, ano, retto
- Più raramente anche a livello di meningi, esofago, stomaco, mammella, bronchi, surrene
Si tratta quindi di una neoplasia complessa, per la quale ancora non esistono terapie specifiche, pertanto è
fondamentale la diagnosi precoce, che risulta però difficoltosa quando il melanoma insorge in queste sedi
atipiche.

Stadiazione e prognosi

I fattori prognostici sono:


- Diagnosi istologica, che permette di capire la fase di crescita della lesione e la variante di
melanoma
- Spessore, quinti quanto è profonda la lesione (classificazione di Breslow)
- Livello di invasione (classificazione di Clarke)
523
- Presenza di mitosi, che dà indicazioni importanti circa la capacità e la velocità replicativa di quel
tumore
- Presenza o assenza di regressione e infiltrato infiammatorio; un infiltrato infiammatorio
importante è un segno positivo perché c’è reattività dell’organismo nei confronti della lesione
- Apoptosi: la presenza di apoptosi è un dato importante perché in tal caso il tumore ha ancora attivi
i meccanismi che inducono l’apoptosi p53 mediata ed è capace di autolimitare la propria crescita ed
evoluzione
- Espressione di EGF, importante per le terapie mirate con farmaci biologici
- Ulcerazione della cute sovrastante
- Sesso
- Localizzazione a tronco o estremità
Dato che la maggior parte dei melanomi metastatizza inizialmente ai linfonodi regionali, ulteriori
informazioni prognostiche possono essere ottenute eseguendo una biopsia del linfonodo sentinella; come
nel cancro della mammella, questa procedura implica l’identificazione, la rimozione e l’attento esame del
linfonodo (o dei linfonodi) che costituisce (o costituiscono) il sito iniziale di drenaggio dei vasi linfatici
intratumorali. Il coinvolgimento microscopico di un linfonodo sentinella, anche da parte di un piccolo
numero di cellule di melanoma (micrometastasi), conferisce una prognosi peggiore. Il grado di
coinvolgimento e il numero totale di linfonodi coinvolti correla bene con la sopravvivenza.

Livelli di invasione – Classificazione di Clarke

L’epidermide e il derma vengono divisi in livelli (livello epiteliale, livello della giunzione dermo-epidermica,
livello del derma papillare, livello dell’interfaccia derma papillare-derma reticolare, livello derma reticolare e
livello del derma profondo) e a seconda del raggiungimento, nella sua crescita verticale, di uno si questi
livelli il patologo dà indicazioni sulla velocità di crescita.

Questa classificazione identifica 5 livelli:


- Livello 1 → melanoma maligno in situ
- Livello 2 → coinvolto il derma papillare con presenza di cellule singole, senza noduli di cellule
neoplastiche
- Livello 3 → le cellule neoplastiche sono presenti nell’interfaccia tra il derma papillare e il derma
reticolare, zona in cui è presente una rete di strutture capillari. Questo livello rappresenta quindi un
importante cut-off: la neoplasia a questo livello può invadere i capillare e metastatizzare.
- Livello 4 → coinvolgimento importante del derma reticolare
- Livello 5 → coinvolgimento del tessuto adiposo sottocutaneo
I livelli di Clarke correlano con la sopravvivenza a 10 anni: nel passaggio dal livello 2 al livello 3 la
sopravvivenza cala notevolmente, passando dal 93% al 71%.

Volume della neoplasia – Classificazione di Breslow

Più preciso è il sistema basato sull’espansione volumetrica, che fornisce una misura precisa in termini di
invasione millimetrica, valutata dal patologo al microscopio ottico grazie a lente micrometrica.
Partenendo dallo strato granuloso dell’epidermide si misura il livello di profondità raggiunto dalla
neoplasia.
524
La classificazione di Breslow è un fattore prognostico fondamentale nel melanoma in fase di crescita
verticale e indentifica 4 livelli:
- Livello 1
o 1A → invasione inferiore a 1 mm; sopravvivenza a 7 anni pari al 95% (corrisponde al livello
2 di Clarke)
o 1B → invasione compresa tra 1 e 1,69 mm; sopravvivenza a 7 anni del 61%
- Livello 2 → il rischio è moderato, l’invasione è compresa tra 1,69 e 3,99 mm; la sopravvivenza a 7
anni cala notevolmente e risulta pari al 61%
- Livello 3 → neoplasia ad alto rischio con invasione che supera i 4 mm; sopravvivenza a 7 anni del
32%

Stadiazione clinica del melanoma cutaneo secondo lo


spessore di Breslow
Mette in relazione il sistema TNM con la classificazione di
Breslow: il parametro T è fornito dallo spessore secondo
Breslow.

Si vede che dal livello 3 è possibile avere metastasi


linfonodali e al livello 4 anche metastasi a distanza.

La maggior parte dei melanomi sono sporadici ed insorgono in seguito a danno indotto dai raggi UV, ma il
10-15% è associato a mutazioni ereditarie con tratto dominante; molte di queste mutazioni interessano i
meccanismi regolatori del ciclo cellulare e le telomerasi:
- Mutazioni con perdita di funzione di CDKN2A, quindi mutazioni di p16, p14, p15, e di conseguenza
incremento della proliferazione dei melanociti
- Mutazioni dei pathway di RAS e PI3K che aumentano proliferazione e sopravvivenza cellulare
- Mutazioni di TERT, con conseguente attivazione delle telomerasi e resistenza alla senescenza

525
MALATTIE NEOPLASTICHE DELL’OSSO
I tumori dell’osso insorgono nel sistema scheletrico e sono classificati secondo criteri istogenetici, ovvero in
base al tessuto da cui originano o somigliano maggiormente. Alcuni tumori però non corrispondono a
nessun tessuto normale, pur presentando caratteristiche clinico-patologiche e biomolecolari ben definite.
La maggior parte dei tumori dell’osso è benigna, ma la reale incidenza dei tumori benigni è difficile da
definire, dal momento che solitamente si presentano come masserelle di tessuto osseo che vengono spesso
lasciate in sede. I tumori maligni dell’osso, ovvero i sarcomi, sono invece piuttosto rari, ma associati ad
elevata mortalità; i sarcomi più rilevanti sono l’osteosarcoma, il condrosarcoma e il sarcoma di Ewing.

L’eziologia dei tumori ossei è ignota, ma sono note associazioni con:


- Malattia di Paget dell’osso, che comporta un continuo rimaneggiamento idiopatico del tessuto
osseo, con formazioni di lesioni osteo-addensanti predisponenti allo sviluppo di osteosarcomi
- Terapia radiante
- Infarti ossei
- Osteomielite cronica
- Protesi metalliche, soprattutto quelle di vecchia generazione
La maggior parte dei tumori ossei è sporadica, ma in alcuni casi essi fanno parte di sindromi ereditarie
come:
- Sindrome di Li-Fraumeni, dovuta a mutazione di p53 e associata allo sviluppo di osteosarcoma
- Retinoblastoma ereditario, dovuto a mutazione di RB e associati a osteosarcoma
- Sindrome di Ollier, caratterizzata da encondromi multipli
- Sindrome di Maffucci, caratterizzata da encondromi multipli e emangiomi dei tessuti molli

Le alterazioni citogenetiche dei tumori ossei non sono ben riproducibili, tranne che nel caso del sarcoma di
Ewing, che può interessare anche i tessuti molli ed è caratterizzato dalla traslocazione tra il cromosoma 11
e il cromosoma 22.

I tumori ossei possono quindi essere


classificati in base all’istologia e alla
malignità/benignità.
In ordine di frequenza, considerando solo i
tumori primitivi dell’osso, vi sono: tumori
ematolinfoidi (40%), in particolare il mieloma
multiplo e i linfomi, tumori condrogenici
(22%), ovvero tumori che hanno l’aspetto del
tessuto cartilagineo, tumori osteogenici (19%)
e tumori ad istogenesi non ben definita (10%).

In generale, l’incidenza dei sarcomi dell’osso


ha una distribuzione bimodale, con un picco
durante l’adolescenza e uno dopo i 50 anni.

Potenzialmente le neoplasie ossee possono


insorgere in qualsiasi osso del corpo, ma ogni
tumore ha una sede, e un’età, preferenziale:
- Osteosarcoma → interessa soprattutto le metafisi delle ossa lunghe, ginocchio e scapola ed insorge
tipicamente negli adolescenti
- Condrosarcomi → insorge tipicamente nello scheletro assiale, quindi sterno, coste, scapole e
bacino, e in pazienti anziani
- Sarcoma di Ewing → interessa le diafisi delle ossa lunghe di soggetti giovani
- Condroblastoma e tumore a cellule giganti → epifisi delle ossa lunghe
526
Clinica e diagnosi

I tumori delle ossa hanno una presentazione solitamente subdola e spesso rappresentano reperti
incidentali. Una manifestazione tipica è la frattura patologica, che però è più frequente in caso di tumore
benigno; i tumori maligni, crescendo rapidamente, sono maggiormente associati a tumefazione e dolore.
Altra manifestazione tipica è la limitazione al movimento; in alcuni casi la tumefazione può essere
associata ad ulcerazione.
Si possono anche avere sintomi sistemici, come febbre e
perdita di peso, soprattutto negli stadi avanzati.
La diagnosi si basa sulla radiografia, che permette di
distinguere tra tumori benigni e maligni; se necessario si
esegue anche una TC. Se si identifica un tumore maligno si
procede con RM, per valutare la stadiazione, e biopsia.

Stadiazione e grado

Stazione e grado sono due misure complementari e


indipendenti, importanti per la scelta della terapia.
Nel sistema di stadiazione dell’osso il parametro T dipende dalle dimensioni del tumore, ma considerando il
grado, indipendentemente dalle dimensioni, se il tumore è di basso grado lo stadio è 1, se il tumore è di alto
grado lo stadio è 2. Il grado in questo caso è quindi un importante fattore prognostico che viene inserito
all’interno della stadiazione.

OSTEOSARCOMA

L’osteosarcoma è un tumore maligno in cui le cellule neoplastiche producono matrice osteoide o osso
mineralizzato; rappresenta il 20% di tutti i tumori maligni primitivi dell’osso. Può interessare qualsiasi fascia
d’età, ma presenta due picchi di incidenza: il 75% dei casi si verifica in pazienti con meno di 20 anni, mentre i
restanti casi si verificano in pazienti adulti-anziani, spesso affetti da patologie predisponenti, come la
malattia di Paget, ecc. Nei pazienti giovani insorge soprattutto a livello di metafisi delle ossa lunghe,
mentre nei pazienti più anziani può insorgere anche a livello di pelvi e cranio.
L’osteosarcoma presenta aspetti radiografici caratteristici:
- Osteosarcoma blastico tipo “sunburst” → questi tumori depongono matrice ossea, che diviene poi
calcifica; vengono deposte spigole di matrice disposte perpendicolarmente all’asse maggiore
dell’osso e questo conferisce alla lesione l’aspetto a sole nascente.
In questi tumori si osserva anche il triangolo di Codman, ovvero un’ombra triangolare dovuta allo
scollamento del periostio.
- Osteosarcoma blastico/litico tipo “cumulus cloud” → oltre a produrla, distrugge anche la matrice

527
Nell’immagine a lato si osserva un osteosarcoma del femore distale con
prominente formazione ossea che coinvolge anche i tessuti molli; il periostio è
sollevato e si dispone a guscio triangolare.

Patogenesi

Circa il 70% degli osteosarcomi presenta mutazioni acquisiste a carico di:


- RB, regolatore negativo del ciclo cellulare
- TP53
- INK4a, gene codificante per p16 e p14, oncosopressori che se mutati
risultano inattivi
- MDM2 e CDK4, inibitori di p53 e RB che risultano sovra-espressi

Morfologia

Le cellule neoplastiche sono cellule atipiche con nuclei ingranditi, ipercromici ed irregolari e depongono
direttamente matrice osteoide. La matrice ossea è costituita da collagene disposto in modo tale da
consentire la deposizione di cristalli di calcio e fosfato, con conseguente mineralizzazione.
Gli osteosarcomi sono tumori voluminosi, d’aspetto granuloso, di colorito grigio-biancastro e spesso
contengono aree di emorragia e degenerazione cistica. I tumori spesso distruggono la corticale ossea con
estensione ai tessuti molli circostanti. Si estendono diffusamente al canale midollare, infiltrandolo e
sostituendo il midollo emopoietico. Raramente raggiungono l’epifisi o invadono l’articolazione. Se
l’articolazione viene infiltrata, il tumore si sviluppa al suo interno seguendo le strutture tendino-
legamentose o attraverso le inserzioni della capsula articolare.
Si possono avere diversi livelli di deposizione della matrice e di differenziazione:
- Osteosarcoma osteoblastico → la deposizione di abbondante matrice ossea, in parte anche
mineralizzata, è osservabile anche macroscopicamente; molti di questi tumori hanno una crescita
angiocentrica (immagine a sinistra), ovvero intorno ai vasi, o crescono tra le trabecole di osso
normali (immagine a destra)

- Osteosarcoma condroblastico → si ha la deposizione di matrice ossea, ma le cellule neoplastiche


vanno incontro a differenziazione formando tessuto cartilagineo; sono presenti calcificazioni
condroidi ad anello

528
- Osteosarcoma fibroblastico → la produzione di matrice osteoide è limitata e la maggior parte delle
cellule neoplastiche è rappresentata da cellule mesenchimali ad aspetto fibroblastico

- Altre varianti, meno frequenti, sono l’osteosarcoma a cellule chiare e l’osteosarcoma epitelioide,
che può simulare un carcinoma metastatico

Trattamento e prognosi

Si tratta di neoplasie di difficile gestione clinica e chirurgica; vengono trattate con cicli di chemioterapia
neoadiuvante e rimozione chirurgica. Dopo la chirurgia il tessuto osseo rimosso viene sezionato,
decalcificato e viene allestito il preparato istologico, che non solo permette di confermare la diagnosi
inziale, ma permette anche di osservare il numero di cellule neoplastiche residue e quindi valutare la
prognosi. Queste neoplasie aggressive si diffondono per via ematogena, fino ai polmoni. Al momento della
diagnosi, circa il 10-20% degli individui affetti presenta metastasi polmonari documentate; tra i pazienti
in cui la neoplasia è letale, il 90% ha metastasi ai polmoni, alle ossa, all’encefalo o altrove. Sfortunatamente
la prognosi per i pazienti con metastasi, recidive o osteosarcoma secondario è ancora sfavorevole (tasso di
sopravvivenza ≤20% a 5 anni).

OSTEOCONDROMA

Noto anche come esostosi, l’osteocondroma è un tumore benigno ricoperto da un cappuccio cartilagineo
e ancorato allo scheletro sottostante mediante un peduncolo osseo. Solitamente si localizza a livello delle
metafisi delle ossa lunghe.
E’ il più comune tumore osseo benigno e nell’85% dei casi si presenta come lesione solitaria, mentre nel 15%
dei casi si presenta nel contesto della sindrome delle esostosi multiple ereditarie, malattia ereditaria
autosomica dominante. Tipicamente gli osteocondromi singoli insorgono negli adolescenti e nei giovani
adulti, mentre le lesioni multiple sono tipiche dell’infanzia. Si ha una prevalenza nel sesso maschile.
Sono tumori a lenta crescita che possono determinare una sintomatologia dolorosa, ma nella maggior parte
dei casi la diagnosi è incidentale.
I tumori sintomatici sono trattati con escissione chirurgica.
Raramente, soprattutto in caso di esostosi multiple, si ha la trasformazione in condrosarcomi.

Gli osteocondromi possono essere sessili o peduncolati, di dimensioni variabili da 1 a 20 cm. Il cappuccio è
composto da cartilagine ialina benigna, di spessore variabile ed è coperto esternamente da pericondrio. La
cartilagine ha l’aspetto di una cartilagine di coniugazione disorganizzata e va incontro a ossificazione
529
encondrale, con l’osso neoformato che
costituisce la parte interna della testa e del
peduncolo. La corticale del peduncolo si fonde
con la corticale dell’osso colpito, in modo che la
cavità midollare dell’osteocondroma e dell’osso
da cui origina siano in continuità.

CONDROSARCOMA

I condrosarcomi sono tumori maligni che


producono cartilagine. Possono essere classificati in primari o secondari, a seconda che originino de novo
o in seguito a trasformazione maligna di lesioni benigne pre-esistenti, tipicamente osteocondromi.
Dal punto di vista anatomo-patologico sono classificati in:
- Condrosarcoma convenzionale (produce cartilagine ialina)
o Centrale, se insorge nel midollo
o Periferico, se insorge nella corticale
o Periostale
- Varianti
o Condrosarcoma dedifferenziato
o Condrosarcoma mesenchimale
o Condrosarcoma a cellule chiare
o Condrosarcoma mixoide
L’incidenza del condrosarcoma aumenta con l’aumentare dell’età e la maggior parte delle lesioni origina a
livello assiale, quindi a livello di coste, sterno e pelvi, e se sono coinvolte le ossa lunghe la lesione si
localizza tipicamente in sede prossimale. Nell’1% dei casi insorge a livello periferico, interessando le ossa
lunghe di mani e piedi; non interessa praticamente mani vertebre e cranio.
La variante a cellule chiare è unica in quanto origina nelle epifisi delle ossa lunghe.
Alle indagini radiologiche, la matrice calcifica assume un aspetto flocculante. Un tumore di basso grado a
crescita lenta provoca l’ispessimento reattivo della regione corticale, mentre un tumore di alto grado, più
aggressivo, distrugge la corticale e forma una massa di consistenza molle.

I condrosarcomi che originano da osteocondromi sindromici multipli presentano mutazioni nei geni EXT;
I condrosarcomi sporadici e quelli correlati a condromatosi possono presentare mutazioni nei geni IDH1 e
IDH2. Nei tumori sporadici è anche comune il silenziamento del gene oncosoppressore CDKN2A per effetto
della metilazione del DNA.

Morfologia

Si distinguono tre gradi:


- Grado 1 → i condrosarcomi di basso grado hanno un aspetto pressoché identico alla cartilagine
normale e risultano citologicamente identifici ad un encondroma (ovvero un nodulo di tessuto
cartilagineo ben differenziato presente all’interno del tessuto scheletrico).
- Grado 2 → presentano atipie di grado intermedio e spesso hanno matrice stromale mixoide
- Grado 3 → le cellule presentano pleomorfismo, atipie e mitosi

530
Il condrosarcoma periostale si
presenta come una massa neoplastica
di tessuto cartilagineo che insorge nel
periostio e si estrinseca all’esterno.

Il condrosarcoma dedifferenziato è un
condrosarcoma di basso grado con una
componente sarcomatosa di alto
grado, che non produce cartilagine: si
hanno aree neoplastiche più
differenziate, associate a produzione di
cartilagine, e aree dedifferenziate di
alto grado (immagini in basso). Questi
tumori sono associati a prognosi
infausta.

Il condrosarcoma a cellule chiare è costituito da condrociti atipici di grandi dimensioni, con citoplasma
abbondante e chiaro, frammisti a numerose cellule giganti di tipo osteoclastico e formazione di osso
reattivo intralesionale, che spesso può determinare problematiche di diagnostica differenziale con un
osteosarcoma. Il condrosarcoma mesenchimale è composto da isole di cartilagine ialina ben differenziata,
circondate da numerosi nidi di piccole cellule rotonde che possono simulare un sarcoma di Ewing.

Clinica e terapia

I condrosarcomi in genere si presentano come tumefazioni dolorose a crescita progressiva. Vi è una


correlazione diretta fra il grado e il comportamento biologico del tumore. Fortunatamente, la maggior parte
dei condrosarcomi convenzionali è rappresentata da tumori di grado 1 con un tasso di sopravvivenza a 5
anni dell’80-90% (contro il 43% dei tumori di grado 3). I condrosarcomi di grado 1 raramente
metastatizzano, mentre il 70% dei tumori di grado 3 diffondono per via ematogena, in particolare ai
polmoni. I condrosarcomi convenzionali vengono trattati con un’ampia escissione chirurgica, mentre le
varianti mesenchimale e dedifferenziata, avendo un comportamento clinico più aggressivo, vengono
sottoposti, oltre che a escissione chirurgica, a trattamento chemioterapico.

SARCOMA DI EWING

Insorge nelle diafisi delle ossa lunghe, soprattutto nei bambini, e deve il suo nome al patologo che per
primo lo identificò, distinguendolo dall’osteomielite.
Le indagini radiologiche rivelano un tumore destruente, osteolitico, a margini infiltrativi, che si estende ai
tessuti molli circostanti. La caratteristica reazione periostale determina la deposizione di strati di osso
reattivo, con aspetto a buccia di cipolla. La presentazione è dunque analoga a quella di un’osteomielite
purulenta (oggi non più particolarmente frequente).

531
Il sarcoma di Ewing rappresenta il tipico tumore indifferenziato a cellule blu (precedentemente confuse
con linfociti). In passato erano distinte due neoplasie: il sarcoma di Ewing propriamente detto, privo di
pseudo-rosette, e il tumore primitivo neuroectodermico, con pseudo-rosette. Attualmente queste due
neoplasie sono riunite sotto il nome di Sarcoma di Ewing, dal momento che sono entrambe caratterizzate
dall’espressione della molecola di membrana CD99 e dalla traslocazione t(11;22) che genera una proteina
chimerica che presenta all’estremità N-terminale il gene EWS, potente attivatore della trascrizione
(codificato dal cromosoma 22), e all’estremità C-terminale una regione legante fattori di trascrizione,
rappresentata in genere dal gene FLI1 (cromosoma 11).
Il meccanismo patogenetico, quindi, è dato dalla fusione genica con produzione di una chimera che da un
lato produce un attivatore non specifico della trascrizione genica (in questo caso EWS) e dall’altro un fattore
di trascrizione capace di legare il DNA e di modulare in maniera patogenica la trascrizione.

Il sarcoma di Ewing insorge nella cavità midollare e in seguito, solitamente, invade la regione corticale, il
periostio e i tessuti molli. Il tessuto neoplastico è di consistenza molle, di colore bruno-biancastro e contiene
frequentemente aree di emorragia e necrosi. È composto da nidi di piccole cellule rotonde, di aspetto
uniforme, che sono leggermente più grandi e più coese dei linfociti. Queste cellule hanno scarso
citoplasma, che può apparire chiaro in quanto ricco di glicogeno (piccole cellule blu) e consentono diagnosi
differenziale con l’osteomielite purulenta, dove la popolazione cellulare predominante è rappresentata dai
granulociti neutrofili.
La presenza di rosette di Homer-Wright (cellule raggruppate circolarmente con un nucleo centrale fibrillare)
indica un alto grado di differenziamento neurale. Sebbene il tumore contenga setti fibrosi, lo stroma è in
genere poco rappresentato. La necrosi a carta geografica può essere ben evidente e vi sono relativamente
poche mitosi rispetto all’elevata cellularità del tumore.

Si tratta di tumori maligni aggressivi che vengono trattati con chemioterapia neoadiuvante, seguita da
escissione chirurgica, con o senza radioterapia. Con l’introduzione di un’efficace chemioterapia sono stati
raggiunti un tasso di sopravvivenza a 5 anni del 75%, e una guarigione a lungo termine nel 50% dei casi.

532
NEOPLASIE DEI TESSUTI MOLLI
I tumori dei tessuti molli sono neoplasie mesenchimali ad insorgenza nei tessuti extra-ossei non epiteliali,
escludendo organi viscerali, meningi e sistema linforeticolare.
La classificazione dei tumori molli è fatta in base a criteri istogenetici e anche in questo caso vi sono
neoplasie che non corrispondono a nessun tessuto normale, ma vengono classificate come entità specifiche
poiché presentano caratteristiche clinico-patologiche riproducibili.
Classificazione dei tumori dei tessuti molli:

La maggior parte di questi tumori è benigna (rapporto benigni/maligni di 100:1) e il più frequente e il
lipoma; proprio in virtù della benignità spesso questi tumori non vengono diagnosticati e rimossi, pertanto
stabilirne l’incidenza è difficile. I tumori maligni, ovvero i sarcomi, sono invece molto aggressivi e sono
responsabili del 2% dei decessi per tumore; i sarcomi dei tessuti molli rappresentano circa l’1% delle
neoplasie maligne.

L’eziologia di questi tumori è poco definita, ma probabilmente essi derivano da cellule mesenchimali
pluripotenti che acquisiscono mutazioni somatiche a carico di oncogeni o oncosoppressori.
Sono anche conosciuti alcuni fattori di rischio:
- Pregressa esposizione a radiazioni ionizzanti
- Sindromi oncogeniche familiari, come la sindrome di Li-Fraumeni, la sindrome di Gardner, la
neurofibromatosi e la MPNST, ovvero il tumore maligno delle guaine nervose periferiche
- Esposizione a sostanze chimiche, come clorofenoli e fenossierbicidi
- Virus, in particolare HHV8 è associato al sarcoma di Kaposi
- Situazioni flogistiche croniche, ustioni, traumi
Si hanno specifiche alterazioni citogenetiche associate a questi tumori, in particolare anomalie
cromosomiche e prodotti di fusione genica:

è importante ricordare che spesso si ha una


fusione tra un attivatore indiscriminato delle
trascrizione e un fattore di trascrizione.

533
Questi tumori insorgono tipicamente ove si ha abbondanza di tessuti molli, ad esempio negli arti inferiori
(40%), nel tronco e nel retro-peritoneo (30%), negli arti superiori (20%) e nel distretto testa-collo (10%).
L’incidenza aumenta con l’età, ma nel 15% dei casi la neoplasia insorge in età pediatrica; la prevalenza è
leggermente maggiore nel sesso maschile.
Anche in questo caso le neoplasie hanno età e sede di insorgenza preferenziali:
- Rabdomiosarcoma embrionario → bambini
- Sarcoma sinoviale → articolazioni di giovani adulti
- Liposarcoma → anziani

Prognosi

La prognosi di queste neoplasie dipende dall’accurata classificazione istologica, quindi dalla diagnosi, dal
grading e dallo staging.
La classificazione istologica consente la diagnosi e prevede:
- Classificazione descrittiva → descrizione delle cellule del sarcoma, che possono essere fusate,
piccole e rotonde o epitelioidi
- Classificazione istologica → si basa su microscopia elettronica ed immunoistochimica e permette di
identificare i marcatori specifici
- Profilo molecolare → ottenuto tramite PCR, FISH, MicroArray, ecc.

Il grading dei sarcomi dei tessuti molli prevede 3 gradi ed è estremamente


importante per la definizione della prognosi, tanto che viene inserito nei
criteri per definire la stadiazione.
Il grading si basa su:
- Differenziazione
o Score pari a 1 se il sarcoma è molto simile al tessuto
normale
o Score pari a 2 se la differenziazione è definibile tramite
istologia
o Score pari a 3 nel caso di neoplasie indifferenziate
- Pleomorfismo
- Cellularità
- Mitosi (score da 1 a 3)
- Necrosi (score da 1 a 3)
La sopravvivenza è ovviamente peggiore all’aumentare del grado.
La stadiazione si basa invece sul sistema TMN:

Se si considera il grado si vede che il tumore di basso grado,


qualsiasi siano le dimensioni, è allo stadio 1.
Se il tumore è di alto grado, ma piccolo o superficiale di qualsiasi
dimensione, è di stadio 2.
Se il tumore è di alto grado, grande o profondo è di stadio 3.
Se sono presenti metastasi si è allo stadio 4.

534
LIPOMA

Il lipoma è un tumore benigno a differenziazione lipomatosa, estremamente frequente, e


macroscopicamente si presenta come una massa di tessuto adiposo giallastro, indistinguibile da tessuto
adiposo maturo. Anche le cellule tumorali sono indistinguibili dagli adipociti normali, ma presentano
alterazioni citogenetiche.
Le sedi di insorgenza sono svariate, ad esempio può insorgere a livello sottocutaneo, a livello
intramuscolare o a livello degli organi viscerali.

LIPOSARCOMA

Il liposarcoma è il corrispettivo maligno del lipoma e se ne distinguono tre sottotipi: ben differenziato,
mixoide e pleomorfo.

Liposarcoma ben differenziato

Il lipoma è un tumore maligno a differenziazione lipomatosa


e il sottotipo differenziato è quello più comune e meno
pericoloso; insorge negli adulti (assente nei bambini)
soprattutto a livello di coscia, estremità e retroperitoneo.
Macroscopicamente si presenta in modo analogo al tessuto
adiposo maturo, ma dal punto di vista istologico presenta
adipociti atipici, con uno o più nuclei ipercromici o con
nuclei ipercromici nel tessuto stromale che circonda gli
adipociti neoplastici. Si riconoscono anche lipoblasti,
caratterizzati da vacuoli di trigliceridi.
Dal punto di vista citogenetico il liposarcoma differenziato è
caratterizzato dalla presenza di cromosomi ad anello: questi
cromosomi sono dovuti alla amplificazione disordinata di materiale cromatinico e in
gran parte derivano dal braccio lungo del cromosoma 12. Il cromosoma ad anello si
forma a causa di una doppia rottura che determina la fusione delle estremità
rimaste del cromosoma, mentre le parti terminali vanno perdute.
Il liposarcoma ben differenziato e il tumore lipomatoso atipico sono essenzialmente
la stessa cosa, ma il nome cambia in base alla sede di insorgenza:
- Le lesioni superficiali sono facili da rimuovere chirurgicamente, pertanto non sono gravi e sono
dette lipomi atipici; queste lesioni presentano una bassa tendenza alle recidive e una bassa
tendenza alla de-differenziazione (esistono forme de-differenziate del liposarcoma ben
differenziato)
- Le lesioni profonde hanno una prognosi più sfavorevole dal momento che sono difficili da
rimuovere completamente e spesso presentano recidive, pertanto sono detti liposarcomi ben
differenziati; queste lesioni in alcuni casi tendono a de-differenziare.

I liposarcomi ben differenziati che vanno incontro a de-


differenziazione presentano aree ben differenziate e aree de-
differenziate con aspetto di un sarcoma a cellule fusate. Tra
queste due porzioni può esserci una linea di demarcazione
relativamente ben definita o le cellule sarcomatose possono
essere inframmezzate a quelle ben differenziate.
Alcuni tumori de-differenziati possono andare incontro a ri-
differenziazione divergente in senso muscolare liscio o
muscolare scheletrico.

535
Liposarcoma mixoide o a cellule rotonde

È il secondo tipo di liposarcoma per frequenza e insorge soprattutto in pazienti di 30-40 anni; la sede
tipicamente interessata sono le estremità, come le cosce. Molti di questi tumori si presentano in maniera
multicentrica e verosimilmente ciò è dovuto a metastatizzazione precoce.
Questo tipo di liposarcoma è causato dalla traslocazione tra il cromosoma 12 e il cromosoma 16.
Il liposarcoma mixoide riproduce il tessuto adiposo fetale e forma de-differenziata prende il nome di
liposarcoma a cellule rotonde.
Il liposarcoma mixoide è riccamente vascolarizzato e presenta lipoblasti a vari gradi di differenziazione,
che riproducono l’aspetto del tessuto adiposo fetale, o cellule fusate con stroma mixoide, mentre sono
assenti gli adipociti maturi.
Quando il tumore va incontro a progressiva de-differenziazione la componente cellulare aumenta e le
cellule assumono l’aspetto di piccole cellule blu (liposarcoma a cellule rotonde).

Liposarcoma pleomorfo

È un tumore profondo e raro, tipico dei pazienti anziani (50-70 anni).


È composto da lipoblasti pleomorfi, atipici e poco differenziati; non
presenta alterazioni citogenetiche particolari, ma spesso il cariotipo è
complesso. Sono i liposarcomi a prognosi peggiore.

LEIOMIOSARCOMA

I leiomiosarcomi rappresentano il 10-20% dei sarcomi dei tessuti molli e interessano maggiormente le
donne; solitamente insorgono a livello di arti e retroperitoneo (forma particolarmente letale se interessa i
grandi vasi).
È un tumore a crescita espansiva che
istologicamente è caratterizzato da tessuto
neoplastico che riproduce il tessuto
muscolare liscio, infatti, si hanno fascicoli di
cellule neoplastiche allungate.
Spesso si ha crescita perivascolare.
Il microscopio elettronico mostra filamenti
di actina con densità focali, che riproducono
il tessuto muscolare liscio. Solitamente è un tumore ben differenziato.
Il cariotipo è complesso, senza una particolare associazione con riarrangiamenti genici ben definiti.

RABDOMIOSARCOMI

Il rabdomiosarcoma è tipico dei bambini e in base all’età interessata si classifica in:

536
- Rabdomiosarcoma dei bambini/giovani adulti → rabdomiosarcoma embrionale (60%) e
rabdomiosarcoma alveolare (20%)
- Rabdomiosarcoma degli adulti → rabdomiosarcoma pleomorfo (20%)

Rabdomiosarcoma embrionale

Insorge tipicamente in bambini di 5-10 anni ed interessa soprattutto distretto testa-collo, retroperitoneo,
dotti biliari, colecisti e tratto genito-urinario. Questi tumori sono quindi costituiti da tessuto muscolare
scheletrico, ma insorgono in sedi anomale, dove tale tessuto è poco rappresentato, come gli organi cavi e la
zona paratesticolare.
Il denominatore comune dei rabdomiosarcomi è la presenza dei rabdomioblasti, ovvero cellule che in
sezione istologica mostrano la produzione di filamenti di actina e miosina.
La presenza di rabdiomioblasti in un tumore a piccole
cellule blu permette di fare diagnosi di
rabdomiosarcoma embrionale; va tenuto presente che il
rabdomiosarcoma embrionale può essere anche a
cellule fusate, oltre che a piccole cellule blu, e ciò rende
difficoltoso il riconoscimento dei rabdomioblasti.
La diagnosi è facilitata dall’immunoistochimica, che
permette di evidenziare fattori di trascrizione come la
miogenina e la desmina.
Alla microscopia elettronica, si vede che la componente
rabdomioblastica contiene le bande Z, miofibrille tipiche
della muscolatura scheletrica.

Un sottotipo del rabdomiosarcoma embrionale è il


rabdomiosarcoma botrioide dalla parola greca “botrus”
che vuol dire grappolo d’uva, infatti questo tumore
cresce a grappoli in organi cavi come appunto la vescica
o la colecisti. Il rabdomiosarcoma botroide quindi non è
un vero e proprio sottotipo, ma rappresenta una
peculiare conformazione macroscopica che il tumore
può acquisire.
Le cellule tumorali all’interno sono meglio differenziate, all’esterno
invece ci sono le piccole cellule neoplastiche blu. La mucosa non viene
ulcerata e distrutta ma viene spinta in alto, tra il tumore e la mucosa si
interpone una zona di ipercellularità sottomucosa denominata strato
cambiale (o del cambio): il risultato è la formazione di queste
masserelle che macroscopicamente ricordano dei chicchi d’uva.

Rabdomiosarcoma alveolare

È tipico dell’età pediatrica e dei giovani adulti (10-25 anni) e viene


considerata la variante aggressiva del rabdomiosarcoma embrionale, già di per se piuttosto aggressivo.
Questa neoplasia ha una diagnosi peggiore, dal momento che non risponde bene ai chemioterapici.
La denominazione di questa neoplasia deriva dall’istologia tipica, infatti, si ha una crescita solida con
sfaldamento centrale delle cellule: le cellule adese alla trama fibrovascolare periferica permangono,
mentre le cellule all’interno dell’area solida vanno incontro a sfaldamento e il tumore acquisisce un aspetto
alveolare. Esiste anche una variante solida, che non presenta alveoli. Esistono forme miste tra un
rabdomiosarcoma alveolare a crescita solida e un rabdomiosarcoma embrionale.

537
Anche in questo caso sono presenti rabdomioblasti
positivi alla miogenina.
Il rabiomiosarcoma alveolare è associato a due tipi
di traslocazioni che coinvolgono il gene FHKR e due
imporanti fattori di trascrizione:
- PAX3, più frequente e associato a prognosi
peggiore
- PAX7, meno frequente e associato a
prognosi migliore
Oltre che dal punto di vista prognostico questi
fattori sono importanti anche per la diagnosi.

Rabdomiosarcoma pleomorfo

È una neoplasia tipica dei pazienti adulti-anziani ed è un tumore carnoso che insorge nei tessuti molli, non
nelle grandi masse muscolari scheletriche. È costituito da grandi cellule pleomorfe, atipiche e
indifferenziate. Per definire la neoplasia come rabdomiosarcoma pleomorfo vanno indagate:
- Presenza istologica di cross-striature
- Positività immunoistochimica a specifici fattori, come la miogenina
- Tracce di differenziazione in senso muscolare scheletrico tramite microscopia elettronica

Sarcoma sinoviale

Tumore tipico di pazienti giovani-adulti ed è così chiamato perché insorge vicino alle articolazioni e ha
aspetti che ricordano la sinovia, ma non è provato che derivi dal tessuto sinoviale. Ha una consistenza
soffice e crescita centripeta, andando a comprimere ed infiltrare i tessuti circostanti.
Si tratta di una neoplasia bifenotipica, quindi può essere:
- Monofasico → cellule fusate con aspetto sarcomatoso, scarso citoplasma e cromatina densa; le
cellule si dispongono a formare fasci corti e compatti e sono comuni le calcificazioni. Più raramente
si hanno cellule rotonde.
- Bifasico → cellule fusate sarcomatose e cellule epiteliali, che in alcuni casi formano veri e propri
spazi ghiandolari con strutture papillari; la componente ghiandolare è positiva alle citocheratine
Dal punto di vista citogenetico è caratterizzato dalla traslocazione tra il cromosoma X e il cromosoma 18,
dove è presente il gene SS18, che si fonde con SSX1 o SSX2.

538
MALATTIE NON NEOPLASTICHE DEL MUSCOLO SCHELETRICO E DEL SISTEMA
NERVOSO PERIFERICO
Le malattie neuromuscolari sono delle condizioni patologiche caratterizzate da sintomi e segni attribuibili
ad alterazioni biochimiche, elettrofisiologiche o anatomo-patologiche dei costituenti l’unità motoria. Esse
possono essere primitive, se la lesione parte dal muscolo, o secondarie, se la causa origina nel sistema
nervoso, a livello di motoneurone inferiore o della placca neuromuscolare.
A livello di muscolo scheletrico si hanno due distinti tipi di fibre muscolari:
- Fibre di tipo 1 → dette anche fibre rosse o lente, sono coinvolte nel mantenimento della postura,
hanno una grande quantità di mioglobina e hanno un metabolismo di tipo aerobio ossidativo
- Fibre di tipo 2 → dette fibre veloci o bianche, hanno un metabolismo anaerobio e sono importanti
per le contrazioni rapide
La distinzione tra questi due tipi di fibre è molto importante dal punto di vista della diagnostica muscolare.
La determinazione dei due tipi di fibra è un meccanismo ancora poco conosciuto, che dipende dalle
terminazioni nervose che provengono dai neuroni delle corna anteriori del midollo spinale: a seconda di
quale nervo vi arriva, quindi del segnale che essa riceve, la fibra sarà di tipo 1 o di tipo 2.
Ogni muscolo, ad eccezione del deltoide, contiene entrambi i tipi di fibre e il rapporto fibre di tipo 2/fibre
di tipo 1 è di 2:1. Questo particolare è importante: le biopsie non vanno eseguite a livello del deltoide, a
meno che la lesione non sia ivi localizzata, poiché il rapporto tra i due tipi di fibre è un parametro
importante per definire il tipo di patologia.

Le miopatie sono classificabili in:


- Miogene, ad origine primitivamente dal muscolo
- Neurogene, che interessano secondariamente il muscolo
o Sindromi miasteniche
o Atrofie degenerative
Le miopatie sono patologie di difficile diagnosi e nel percorso diagnostico intervengono diversi specialisti
oltre all’anatomopatologo, come il neurologo, il fisiopatologo della respirazione, il genetista, ecc.
Una caratteristica comune a molti disturbi è l’atrofia muscolare, che può essere secondaria a perdita di
innervazione, inattività, cachessia, età avanzata e miopatie primarie; se l’atrofia è severa si ha perdita di
massa muscolare.

Alterazioni miopatiche

Necrosi
Si ha la degenerazione della fibra muscolare con aspetto ghost fibre, caratterizzata da vacuolizzazione,
eosinofilia, infiltrazione macrofagica, ecc. (tutte le caratteristiche viste per la necrosi cardiaca).

Rigenerazione
Il muscolo presenta cellule staminali unipotenziali, ovvero cellule staminali che possono differenziarsi solo
in senso muscolare. Dal momento che la malattia distrofica è causata da una mutazione genetica ed arriva
ad esaurire il pool di cellule satelliti, ovvero le cellule staminali unipotenti, il potenziale rigenerativo del
paziente distrofico è limitato. Il pool di cellule staminali è definito alla nascita e col tempo il numero va
calando, tanto che i pazienti anziani presentano spesso sarcopenia.
La rigenerazione è a sua volta divisa in:
- Continua → il nucleo di cellule muscolari normalmente presenti alla periferia della fibra si reca
verso il cento e si attiva (migrazione dei nuclei)
- Discontinua → attivazione delle cellule satelliti, che normalmente sono quiescenti; le cellule
satelliti evolvono da mioblasti a miotubi, che poi di associano tra loro

539
Infiammazione
Ogni degenerazione necrotica induce infiammazione, che quindi è presente in quasi tutte le malattie
distrofiche, ma essa gioca un ruolo importante nelle miopatie infiammatorie

Fibrosi endomisiale e sostituzione fibro-adiposa


La perdita di massa muscolare, seguita da una minima rigenerazione, implica la sostituzione della massa
perduta con tessuto fibroso e adiposo; il tessuto fibro-adiposo viene sintetizzato da cellule mesenchimali,
che possono differenziarsi sia in fibroblasti che in adipociti. Questo fenomeno è riscontrabile nella distrofia
muscolare di Duchenne, nella quale si ha una pseudo-ipertrofia muscolare dei muscoli delle gambe, a causa
della progressiva sostituzione del tessuto muscolare con tessuto fibro-adiposo.

Modificazioni architetturali
Si hanno modificazioni interne dell’organizzazione della fibra muscolare: è possibile evidenziare specifici
enzimi che contraddistinguono ognuna delle due tipologie di fibre e se l’attività enzimatica non risulta
uniforme si possono visualizzare dei pattern particolari, ad esempio la fibra può risultare lobulated, mothe-
eaten o whorled.

Alterazioni neurogene

Le miopatie neurogene sono classificabili in atrofie degenerative o sindromi miasteniche e si possono


presentare in forma acuta o cronica. Sono caratterizzate da denervazione e reinnervazione.

Denervazione
Il danno neurogeno può essere a livello di corna posteriori del midollo spinale o a livello di assone del nervo
periferico e induce atrofia muscolare, quindi un rimpicciolimento della fibra muscolare con migrazione del
nucleolo, piccolo e picnotico, in posizione centrale e riduzione del diametro. L’atrofia può manifestarsi
anche quando il muscolo non riceve una stimolazione nervosa sufficiente, ad esempio in caso di prolungata
immobilizzazione di un arto.
L’atrofia può essere:
- Disseminata, cioè interessare singole cellule sparse
- A gruppi
- A target, in sui le fibre presentano una zona centrale chiara,
un’area densa e un’are normale
Nell’immagine a lato si vede un preparato di un paziente con sclerosi
laterale amiotrofica in cui si ha l’atrofia di fibre muscolari, che
presentano un diametro ridotto rispetto al normale.

Reinnervazione
Si possono avere forme acute e forme progressive di
reinnervazione.
Nelle forme acute il nervo può andare incontro a
rigenerazione, anche se con tempi lunghi.
Nelle forme croniche la reinnervazione avviene tramite
gemmazione, sprouting, di rami collaterali da neuroni
integri adiacenti a quelli danneggiati, che vanno quindi ad
innervare le fibre coinvolte nel danno.
Se questi neuroni integri innervano fibre di un certo tipo (ad
esempio 1) e si trovano a reinnervare fibre che in origine
erano dell’altro tipo (per esempio di tipo 2), le fibre che
sono andate incontro a reinnervazione variano il loro tipo
istochimico (in questo caso passano da tipo 2 a tipo 1).

540
Quando una fibra viene reinnervata può quindi entrare a far parte di un’unità motoria diversa e in questo
modo si possono formare gruppi di fibre adiacenti tutte dello stesso tipo: questo fenomeno è detto fiber-
type grouping ed è indicativo di avvenuti processi di reinnervazione in seguito a denervazione, infatti,
tipicamente il tessuto muscolare presenta una sorta di immagine a scacchiera, una volta colorato con
colorazione ad enzimi ossidativi.
Se questo fenomeno avviene su larga scala si può avere un inversione del rapporto a favore delle fibre di
tipo 1, che divengono predominanti rispetto alle fibre di tipo 2.

Diagnosi

La diagnosi è complessa e parte in primo luogo dalla valutazione clinica.


L’anamnesi deve indagare:
- Familiarità, visto che molte sono patologie ereditarie
- Farmaci assunti (ad esempio si può avere la miopatia da statine)
- Coesistenza di malattie sistemiche, come LES, artrite reumatoide e sclerodermia
- Valutazione della fatica muscolare, intolleranza all’esercizio fisico e deficit di forza
- Variazione della massa muscolare: ipotrofia, atrofia, pseudo-ipertrofia
- Mialgie
- Contratture muscolari, ovvero persistenti contrazioni muscolari attive, elettricamente silenti, che
durano più a lungo dei crampi; in genere compaiono dopo l’esercizio fisico e sono tipiche delle
miopatie da deficit enzimatici della via glicolitica
- Crampi muscolari, ovvero contrazioni muscolari involontarie, dolorose, improvvise, di breve durata
e apprezzabili alla palpazione; l’EMG mostra scariche di attività di unità motoria ad alta frequenza,
simili alla contrazione volontaria massimale

Alla valutazione clinica vanno associate le indagini di laboratorio:


- Valutazione della CPK, indicativa di danno muscolare, sia al muscolo scheletrico che al muscolo
cardiaco
- LDH, indicativa di squilibrio del metabolismo del glicogeno
- Aldolasi, segno di infiammazione
- Dosaggio dell’acido lattico, sia in condizioni di ischemia che di metabolismo aerobico

Vanno eseguite anche le indagini elettromiografiche, che forniscono informazioni sulla natura del danno
(miopatico o neurogeno) in base all’ampiezza delle onde rilevate, che rispecchia il reclutamento delle unità
motorie in seguito allo stimolo elettrico effettuato sul muscolo. Si valuta anche la velocità di conduzione.

Il gold standard diagnostico in diverse patologie muscolari è la biopsia muscolare, sempre accompagnata
da indagini molecolari. Nella biopsia muscolare il campione prelevato non viene incluso in paraffina, ma
viene congelato e sottoposto a colorazioni istologiche specifiche e reazioni immunoistochimiche e
istoenzimatiche. Infatti, alla colorazione con ematossilina-eosina i due tipi di fibre appaiono uguali, ma è
possibile differenziarli tramite reazioni istoenzimatiche che sfruttano substrati specifici di uno dei due tipi di
fibre; ad esempio, per identificare le fibre di tipo 1, che hanno metabolismo ossidativo, si può usare un
substrato dell’enzima mitocondriale citocromo ossidasi.
Si possono sfruttare anche metodiche di immunoistochimica con anticorpi specifici per determinate
proteine strutturali che risultano carenti in determinate patologie muscolari miogene; ad esempio l’assenza
della distrofina è indicativa delle distrofia muscolare di Duchenne.

541
Nell’immagine a lato si ha un campione in ematossilina-eosina in cui si
osservano fibre di calibro variabile: si tratta dunque di una patologia
miogena in cui è avvenuta degenerazione seguita da rigenerazione, infatti,
durante la rigenerazione i mioblasti formano i miotubi, che si associano a
formare una fibra di calibro normale, ma ciò avviene in maniera graduale
quindi nella sezione di muscolo si hanno fibre di calibro diverso.

La colorazione tricromica di Gomori


evidenzia la fibrosi e le cellule presentano un aspetto vorticoide, whorled;
in questo caso si tratta di disferlinopatia: la disferlina è una proteina
presente sulla membrana cellulare fondamentale per riparare i piccoli
danno successivi ad attività muscolare. La mancanza di questa proteina
impedisce la riparazione delle microfratture e porta a degenerazione della
fibra, seguita da un meccanismo rigenerativo insufficiente e fibrosi.

Nell’immagine a lato è riportata invece una fibra che assume la colorazione


“a bersaglio”, detta fibra target, per via della ridistribuzione dei mitocondri
e delle miofibrille al suo interno; la fibra target è tipica delle forme
neurogene ed è circondata da piccole fibre completamente atrofiche.

La citocromo ossidasi, COX, è un enzima tipico dei mitocondri e viene


quindi usato per evidenziarne la presenza, pertanto la negatività per questa
reazione indica una malattia mitocondriale; nell’immagine si ha una fibra
blu negativa per la citocromo ossidasi. Per poter parlare di patologia mitocondriale nei bambini è
sufficiente una sola fibra negativa, mentre negli adulti è necessaria una certa percentuale di fibre negative.

Nell’immagine in basso a sinistra si ha un quadro detto mothe-eaten con aree non colorate che indicano
l’avvenuta redistribuzione delle strutture cellulari.
Nell’immagine in basso al centro si vede una fibra ad anello, comune nelle distrofie.
Nell’immagine in basso a destra si ha un quadro a “scacchiera”, in cui si ha la distinzione tra le fibre di tipo 1
e le fibre di tipo 2; quando si è di fronte a questo quadro è importante valutare:
- Se l’atrofia coinvolge entrambi i tipi di fibre
- Se si ha una variabilità dei diametri, indice di rigenerazione
- Il rapporto tra i due tipi di fibre

542
L’ultimo step diagnostico è sempre l’indagine genetico-molecolare che va a ricercare qual è la mutazione
responsabile della patologia. Questo passaggio è molto complesso perché un gene può dare differenti
quadri clinici e un unico quadro clinico può essere dato dalla mutazione di diversi geni.

Classificazione clinico-genetico-molecolare

Le malattie muscolari possono essere suddivise in:


- Ereditarie e/o congenite
o Distrofie muscolari
o Miopatie congenite
o Canalopatie e miotonie
o Miopatie metaboliche
o Miopatie mitocondriali
- Acquisiste
o Miopatie infiammatorie
o Miopatia associata a malattia sistemica (dermatomiosite)
o Miopatie tossiche (miopatia da statine)

DISTROFIE MUSCOLARI

Sono geneticamente determinate; l’organizzazione proteica del citoscheletro a livello della membrana
cellulare è molto complessa e le diverse proteine sono codificate da numeri geni, le cui mutazioni causano
svariate forme di distrofia muscolare.

La classificazione suddivide le distrofie da un punto di vista clinico e di trasmissione genetica:


- Distrofie legate al cromosoma X
o Distrofia di Duchenne (distrofinopatia)
o Distrofia di Baker (distrofinopatia)
o Distrofia di Emery-Dreyfuss (alterazione della emerina)
- Distrofie muscolari autosomiche recessive (spesso a decorso severo)
o Distrofie muscolari congenite come la miopatia central core
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o Distrofie muscolari dei cingoli di tipo 2A-2L
- Distrofie muscolari autosomiche dominanti (ad andamento meno severo)
o Distrofie muscolari dei cingoli di tipo 1A-1F
o Distrofie muscolari FSH
o Sindrome di Emery-Dreyfuss
o Distrofia muscolare distale (Welander)
o Distrofia oculo-faringea

Distrofia muscolare di Duchenne

È causata dalla mutazione del gene che codifica per la proteina distrofina e rientra nelle distrofie muscolari
legate al cromosoma X. L’incidenza è 1/3500 maschi nati vivi.
La distrofina fa da ponte tra la membrana cellulare e la componente contrattile: la distrofina permette, in
seguito alla contrazione della fibra, la contrazione della membrana; in assenza di distrofina la membrana
cellulare va incontro a contrazione irregolare e rottura. La rottura della membrana cellulare comporta
l’attivazione dei meccanismi lisosomiali, la necrosi e inefficaci meccanismi di rigenerazione.
Le distrofie muscolari di Duchenne e Becker sono causate da mutazioni che determinano la loss-of function
del gene della distrofina sul cromosoma X. L’estremità amino-terminale della distrofina lega i filamenti di
actina nel citoplasma delle miofibre, mentre quella carbossi-terminale lega il β-distroglicano, una delle
proteine transmembrana del DGC. Nel fare questo, si ritiene che la distrofina fornisca stabilità meccanica
alla miofibra e alla sua membrana cellulare durante la contrazione muscolare. Difetti nel complesso
possono condurre a piccole lesioni della membrana che permettono l’entrata del calcio, scatenando
eventi che causano la degenerazione della miofibra. Oltre alla funzione meccanica, la distrofina può avere
un ruolo nelle vie di trasduzione del segnale, ad esempio nella sintesi dell’ossido nitrico.
La distrofia muscolare di Duchenne è tipicamente associata con delezioni o mutazioni frameshift che
determinano la totale assenza della distrofina. Diversamente, le mutazioni nella distrofia muscolare di
Becker permettono tipicamente la sintesi di versioni tronche della distrofina, che presumibilmente
conservano parte dell’attività.

Clinicamente al distrofia di Duchenne si presenta con difficoltà a deambulare, cadute frequenti, andatura
anserina e perdita precoce della deambulazione, intorno ai 10-12 anni. Si ha pseudo-ipertrofia dei
polpacci.
Associato al deficit muscolare vi è un costante interessamento cardiaco: disturbi della conduzione, fibrosi
del ventricolo sinistro, insufficienza cardiaca; inoltre, vi è un deficit intellettivo (la ditrofina è infatti
espressa anche nel cuore e nel SNC)
Il 75% dei pazienti muore prima dei 20 anni, soprattutto per insufficienza respiratoria, infezione
polmonare o arresto cardiaco.

Al microscopio ottico il tessuto muscolare risulta sostituito da tessuto fibroso, ben evidenziabili alla
colorazione tricromica, e si ha infiltrato infiammatorio.
Il quadro anatomo-patologico include:
- Fibre ialine
- Necrosi
- Miofagocitosi da parte dei macrofagi
- Minimi segni di rigenerazione, dati dalla comparsa di fibre di calibro
minore che si accrescono; le fibre in accrescimento, essendo ricche
di RNA messaggero, risultano basofile.
- Fibre ipertrofiche che cercano di supplire alla delezione delle fibre
muscolari
Dal punto di vista immunoistochimico si ha la completa negatività alla colorazione per la distrofina,
mentre nella distrofia di Becker si ha una positività rimanente, infatti, la distrofina è ridotta ma presente e
ciò giustifica il decorso clinico più lento di questa forma.

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Distrofia di Becker

È sempre dovuta alla mutazione del gene codificante per la distrofina, ma in questo caso si hanno
mutazioni che comportano la presenza di una forma anomala della proteina, a minor peso molecolare,
non la sua completa assenza. Ha un’insorgenza più tardiva e un decorso clinico più lento e progressivo,
tanto che i pazienti sopravvivono fino alla quarta decade di vita.
I cambiamenti nelle distrofie muscolari di Duchenne e Becker sono simili, ma differiscono per il grado.
Entrambe sono contraddistinte da danno muscolare cronico superiore alla capacità di riparazione. Con il
progredire della malattia, il tessuto muscolare è sostituito da collagene e cellule adipose (sostituzione
adiposa o infiltrazione adiposa). Le miofibre rimanenti, a questo stadio, mostrano una significativa varietà
di dimensioni, da fibre piccole atrofiche a grandi fibre ipertrofiche.

Distrofia muscolare di Emery-Dreifuss – Dispensa

La forma associata al cromosoma X (EMD1) e quella autosomica (EMD2) sono causate da mutazioni nei geni
che codificano per l’emerina e la lamina A/C, rispettivamente, due proteine che sono entrambe localizzate
sulla faccia interna della membrana nucleare. Si ipotizza che queste proteine contribuiscano a mantenere la
forma e la stabilità meccanica del nucleo durante la contrazione muscolare.
Clinicamente è contraddistinta da una triade che consiste in debolezza omero-peroneale, cardiomiopatia
associata a difetti di conduzione e contratture precoci del tendine di Achille, della colonna vertebrale e
del gomito.

Distrofia fascio-scapolo-omerale – Dispensa

La distrofia facio-scapolo-omerale è associata ad una caratteristica distribuzione dell’interessamento


muscolare e a debolezza prominente dei muscoli facciali e dei muscoli del cingolo scapolare.
La patogenesi è complessa e non del tutto chiara, ma si è visto che la malattia implica la sovraespressione
del gene DUX4, fattore di trascrizione localizzato sul cromosoma 4.

Distrofia muscolare dei cingoli – Dispensa

Le distrofie muscolari dei cingoli sono un gruppo eterogeneo che include almeno 6 malattie a trasmissione
autosomica dominante e 15 a trasmissione autosomica recessiva. La loro incidenza complessiva è di 1
individuo affetto ogni 25.000-50.000 individui. Come suggerito dal nome, tutte le forme sono
caratterizzate da debolezza muscolare che coinvolge preferenzialmente i gruppi muscolari prossimali. Sia
l’età all’esordio sia la severità sono altamente variabili.
I geni implicati sono diversi:
- Geni che codificano per componenti strutturali del complesso distrofina-glicoproteine
- Geni che codificano per enzimi responsabili della glicosilazione dell’α-destroglicano
- Geni che codificano per proteine associate ai dischi Z
- Geni che codificano per proteine coinvolte nel traffico vescicolare e nella segnalazione cellulare
- Geni che codificano per la proteasi calpaina 3 e la lamina A/C

545
CANALOPATIE E MIOTONIE

Distrofia miotonica di Steinert – Dispensa

La distrofia miotonica è una malattia multisistemica a trasmissione autosomica dominante associata a


debolezza del muscolo scheletrico, cataratta, endocrinopatia e cardiomiopatia. Colpisce circa 1 individuo
ogni 10.000. La miotonia, una contrazione involontaria e sostenuta dei muscoli, è una caratteristica chiave
della malattia; alcuni pazienti si presentano con miotonia congenita.
La malattia è causata da espansioni di triplette CTG (cromosoma 19q13.2) ripetute nella regione non
codificante al terminale 3’ del gene della protein-chinasi della distrofia miotonica (DMPK), ma non è noto
come questa aberrazione comporti il fenotipo malato. È stato ipotizzato che questa mutazione implichi un
deficit di canale del cloro, CLC1, e quindi miotonia, infatti, il CLC1 è fondamentale per il normale
rilassamento muscolare.
Clinicamente la malattia si presenta con: debolezza muscolare, fenomeno miotonico, ipotrofia dei muscoli
mimici facciali, disturbi di conduzione cardiaca, cataratta, diabete, calvizie frontale.

Malattia dei canali ionici (canalopatie) – Dispensa

Le canalopatie sono un gruppo di malattie ereditarie causate da mutazioni che alterano la funzione di
proteine che costituiscono canali ionici. La maggior parte delle canalopatie è costituita da malattie
autosomiche dominanti con penetranza variabile.
Miopatie dei canali ionici diverse possono causare una diminuzione o un incremento dell’eccitabilità,
producendo ipotonia o ipertonia. Disturbi associati con l’ipotonia possono essere ulteriormente suddivisi in
gruppi a seconda che i pazienti sintomatici presentino livelli elevati, diminuiti o normali di potassio sierico:
paralisi periodica iperkaliemica, ipokaliemica o normokaliemica. Possono essere mutati canali del potassio,
canali del calcio, canali del sodio e il recettore della rianodina, RYR1

MALATTIE DEL METABOLISMO DEI LIPIDI O DEL GLICOGENO - Dispensa

Molti errori innati che interessano il metabolismo dei lipidi o del glicogeno alterano il muscolo scheletrico.
In alcuni, i pazienti diventano sintomatici solo con l’esercizio fisico o il digiuno, che possono produrre severi
crampi muscolari e dolore, o anche necrosi muscolari estesa (rabdomiolisi). Altri disturbi di questo tipo
danno luogo a danno muscolare lentamente progressivo, senza manifestazioni episodiche.
Esempi ne sono:
- Deficit di carnitina palmitoiltransferasi II, che inficia il trasporto degli acidi grassi liberi nel
mitocondri e comporta danni episodici
- Deficit di miofosforilasi, malattia da accumulo di glicogeno che comporta danno muscolare
episodico con l’esercizio fisico
- Deficit di maltasi acida, che comporta un deficit di conversione del glicogeno in glucosio

MIOPATIE MITOCONDRIALI – Dispensa

Sono tantissime e caratterizzate da fibre negative per la citocromo ossidasi, enzima tipico dei mitocondri. I
mitocondri difetti si moltiplicano autonomamente, nel tentativo di supplire alla loro mancanza di
funzionalità e si accumulano alla periferia delle cellule muscolari.
Le malattie mitocondriali sono malattie sistemiche che interessano anche il muscolo scheletrico.
Il coinvolgimento muscolare si può manifestare con debolezza, incremento dei livelli di creatin-chinasi e
rabdomiolisi. Sebbene la distribuzione anatomica della debolezza muscolare sia variabile, l’interessamento
dei muscoli extraoculari è comune e può essere un indizio per la diagnosi; questi muscoli sono
particolarmente colpiti dalle malattie mitocondriali dal momento che hanno un incredibile richiesta di ATP.
Il cambiamento patologico più comune nel muscolo scheletrico è rappresentato da aggregati anomali di
mitocondri che sono visibili preferenzialmente nell’area sotto il sarcolemma delle miofibre affette e

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producono un aspetto indicato come “fibre rosse sfilacciate”. In microscopia elettronica sono visibili
mitocondri di morfologia anomala.

A causa della complessità della genetica mitocondriale, le relazioni genotipo/fenotipo nei disturbi
mitocondriali non sono immediate. Per esempio, una singola mutazione puntiforme nel gene mitocondriale
del tRNA per la leucina può produrre oftalmoplegia esterna progressiva cronica in un paziente e un
fenotipo molto più severo, l’encefalomiopatia mitocondriale con acidosi lattica ed episodi stroke-like, in un
altro.
La forma più comune di miopatia mitocondriale è la CPEO (oftalmoplegia esterna progressiva), una
patologia a trasmissione autosomica dominante e materna caratterizzata da ptosi asimmetrica,
oftalmoplegia esterna progressiva, disfagia, disartria e deficit di forza degli arti. I sintomi più evidenti sono
quelli oculari, in quanto il deficit mitocondriale impatta soprattutto i muscoli oculari, che essendo in
continuo movimento necessitano di molta energia.
La sindrome di Kearns-Sayre è un grave malattia ad insorgenza sporadica caratterizzata da:
- CPEO con ptosi palebrale bilaterale
- Retinopatia pigmentata
- Insorgenza prima dei 20 anni
- Sono comuni anche atassia cerebellare, deterioramento mentale, sordità e aritmie
L’encefalopatia mitocondriale con acidosi lattica ed episodi tipo stroke è definita dalla presenza di:
- Episodi stroke-like
- Acidosi lattica
- Fibre ragged-red alla biopsia muscolare
Altri segni di coinvolgimento del SNC comprendono il deterioramento mentale, la cefalea ricorrente con
vomito “cerebrale”, epilessia focale o generalizzata e sordità neurosensoriale. La malattia è trasmessa per
via materna.
La mioclono epilessia con fibre ragged-red è caratterizzata dall’associazione di mioclono, epilessia,
debolezza e ipotrofia muscolare, incoordinazione motoria (atassia) e, talvolta, deterioramento mentale.

ATROFIA MUSCOLARE SPINALE

L’atrofia muscolare spinale è un disturbo neuropatico in cui la perdita di motoneuroni conduce a


debolezza muscolare e atrofia. È una malattia autosomica recessiva con un’incidenza di 1 affetto ogni 6000
nascite ed è causata da mutazioni loss of function nel gene SMN1 (Survival of Motor Neuron-1). La funzione
del gene non è ben nota, ma il deficit di SMN1 ha un effetto drammatico sulla sopravvivenza dei
motoneuroni e talvolta può condurre a perdita dei motoneuroni in utero. La denervazione risultante del
muscolo scheletrico può determinare cambiamenti morfologici caratteristici sotto forma di ampie aree di
miofibre gravemente atrofiche frammiste a miofibre sparse di dimensione normale o ipertrofiche, isolate o
in piccoli gruppi. Queste fibre normali o ipertrofiche sono quelle che conservano l’innervazione dai
rimanenti motoneuroni.

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MIOPATIA INFIAMMATORIA – Dispensa

Le miopatie infiammatorie possono essere trattate tramite immunosoppressori o steroidi, che nella
maggior parte dei casi portano a guarigione, ma esistono forme refrattarie meno sensibili alle terapie.
Vi sono forme overlapping di interesse dermatologico dal momento che si tratta di patologie infiammatorie
del muscolo associate a patologie sistemiche, come la dermatomiosite, le polimiosite e le forme
necrotizzanti immunomediate.

Dermatomiosite

La dermatomiosite è una malattia autoimmune sistemica che si presenta con debolezza dei muscoli
prossimali e alterazioni cutanee. Il danno muscolare è dovuto al danno ai piccoli vasi sanguigni, si tratta
quindi di una forma di atrofia ischemica. La biopsia di muscolo e cute può mostrare deposizione del
complesso di membrana del complemento di attacco (C5b-9) all’interno del letto capillare in entrambi i
tessuti. Nelle analisi sierologiche sono spesso rilevati diversi autoanticorpi, e linfociti B e plasmacellule sono
parte dell’infiltrato infiammatorio che si osserva nei muscoli.
Gli autoanticorpi presenti sono:
- Anti-Mi2, ovvero diretti contro una elicasi coinvolta nel rimodellamento dei nucleosomi
- Anti-Jo1, diretto contro un enzima coinvolto nella sintesi del tRNA
- Anticorpi diretti contro diversi regolatori della trascrizione
Le biopsie muscolari dei pazienti affetti mostrano infiltrati di cellule infiammatorie mononucleate che
tendono a essere maggiormente pronunciati nel tessuto connettivo perimisiale e attorno ai vasi sanguigni.
Talvolta si osserva uno schema distintivo nel quale l’atrofia muscolare è accentuata ai margini dei fascicoli,
chiamata atrofia perifascicolare. Si possono osservare anche necrosi e rigenerazione segmentale delle
fibre. L’analisi immunoistochimica può evidenziare un infiltrato ricco di cellule T CD4+ e la deposizione di
C5b-9 nei vasi capillari. Studi di microscopia elettronica possono evidenziare inclusioni tubuloreticolari
nelle cellule endoteliali, una caratteristica di diversi disturbi infiammatori associati a risposta a interferone.
Clinicamente la debolezza muscolare interessa inizialmente i muscoli prossimali, ma successivamente si
estende; si hanno diverse eruzioni cutanee associate. Nel 10% dei soggetti si osserva anche malattia
polmonare interstiziale ed è comune anche l’interessamento cardiaco.
Si riconoscono una forma giovanile e una adulta. L’età media all’esordio nella dermatomiosite giovanile è 7
anni, mentre la forma adulta tende a presentarsi tra i 40 e 60 anni; nella forma adulta la dermatomiosite
può presentarsi anche nel quadro di una sindrome paraneoplastica.

Polimiosite

La polimiosite è una miopatia infiammatoria che insorge in età adulta; si presenta con mialgia e debolezza
come la dermatomiosite, ma manca delle sue caratteristiche cutanee distintive e pertanto in qualche
misura è diagnosticata per esclusione. Come nella dermatomiosite, i pazienti tipicamente sviluppano
interessamento simmetrico dei muscoli prossimali e possono esservi un coinvolgimento infiammatorio di
cuore e polmoni e anche autoanticorpi simili.
Sono presenti infiltrati di cellule infiammatorie mononucleate, ma diversamente dalla dermatomiosite
questi hanno localizzazione endomisiale.

Miosite da corpi inclusi

La miosite da corpi inclusi è una malattia dell’età avanzata che tipicamente si osserva in pazienti di età
superiore ai 50 anni ed è la miopatia infiammatoria più comune nei pazienti di età superiore ai 65 anni. La
maggioranza degli individui affetti si presenta con debolezza muscolare lentamente progressiva che tende a
essere più severa nei quadricipiti e nei muscoli delle estremità distali superiori.
Le caratteristiche morfologiche includono:
- Infiltrati a macchia di linfociti T CD8+, spesso endosomiali

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- Aumentata espressione di antigeni MCH I nel sarcolemma
- Invasione focale di miofibre di aspetto normale da parte di cellule infiammatorie
- Fibre in degenerazione e rigenerazione
- Inclusioni citoplasmatiche anomale: vacuoli bordati da un orletto
- Inclusioni tubulofilamentose visibili al microscopio elettronico
- Inclusioni contenenti beta-amiloide, TDP-43 e ubiquitina (tipici delle malattie neurodegenerative)
- Fibrosi endomisiale
Se la miosite da corpi inclusi sia effettivamente una malattia infiammatoria o un processo degenerativo con
cambiamenti infiammatori secondari rimane una domanda irrisolta.

MIOPATIE TOSSICHE – Dispensa

Possono essere causate da farmaci, droghe o squilibri ormonali.


I principali farmaci responsabili di miopatie tossiche sono le statine; anche clorochina e idrossiclorochina
possono causare danni muscolari, in particolare interferiscono con il metabolismo lisosomiale e
determinano miopatia da accumulo. In corso di terapia intensiva con corticosteroidi si può osservare la
miopatia da deficit di miosina: può esserci una degradazione selettiva dei filamenti sarcomerici spessi di
miosina.
La disfunzione tiroidea può portare a diversi tipi di miopatia, come la miopatia tireotossica; l’ipotiroidismo
può portare a atrofia delle fibre muscolari, aumento dei numero di nuclei localizzati in maniera anomala,
aggregati di glicogeno e deposizione di mucopolisaccaridi nel connettivo.

MIOPATIE EREDITARIE E/O CONGENITE – Dispensa

NEUROPATIE – Dispensa

I due principali componenti dei nervi periferici sono gli assoni e le guaine mieliniche, costituite dalle cellule
si Schwann. Danni a queste due componenti possono dare luogo a neuropatia periferica.
I nervi periferici hanno funzione motoria e funzione somatosensitiva.
La funzione motoria è svolta dalla unità motoria, costituita da:
- Motoneurone inferiore, localizzato nelle corna anteriori del midollo spinale o nel tronco encefalico
- L’assone del motoneurone inferiore, diretto al muscolo bersaglio all’interno di un nervo
- Giunzione neuromuscolare
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- Fibre muscolari innervate
La funzione somatosensitiva dipende da:
- Terminazioni nervose distali che possono contenere strutture specializzate a raccogliere specifici
stimoli sensitivi
- Assone diretto ai gangli spinali, come parte di un nervo
- Segmento assonale prossimale che forma sinapsi con neuroni nel midollo spinale o nel tronco
encefalico
Le specifiche sensazioni (dolore, temperatura, tatto) e i segnali motori sono trasmessi separatamente da
assoni che possono essere distinti in base al diametro. Lo spessore della guaina mielinica e la velocità di
conduzione sono proporzionali al calibro dell’assone. Le fibre sottili non mielinizzate mediano funzioni
autonomiche, la sensazione termica e il dolore e hanno velocità di conduzione basse, mentre gli assoni di
grosso diametro con guaina mielinica spessa trasmettono i segnali tattili lievi e quelli motori e hanno
velocità di conduzione elevate. Negli assoni mielinizzati le cellule si Schwann si avvolgono intorno all’assone
formando la guaina mielinica, ma sono presenti dei tratti non mielinizzati, i nodi di Ranvier, uniformemente
distribuiti per tutta la lunghezza dell’assone.
Gli assoni sono tenuti insieme in fasci da tre principali componenti connettivali: l’epinervio, che circonda
l’intero nervo; il perinervio, una guaina costituita da più strati concentrici di tessuto connettivo che unisce
sottogruppi di assoni in fascicoli; e l’endonervio, che avvolge le singole fibre nervose.

Neuropatie assonali

In questo caso il danno riguarda gli assoni. Le porzioni degli assoni a valle del danno risultano disconnesse
dal neurone centrale e vanno incontro a degenerazione, detta degenerazione walleriana: nell’arco di 24
ore gli assoni distali iniziano a frammentarsi e le guaine mieliniche si disintegrano in strutture sferiche,
dette ovoidi mielinici; i macrofagi vengono richiamati a rimuovere i residui di assoni e mielina. I danni
assonali determinano degenerazione delle miofibre denervate.
La rigenerazione incomincia al sito di recisione con la formazione di un cono di crescita e l’emissione di
nuove ramificazioni che crescono dal tronco dell’assone prossimale; le cellule di Schwann e le membrane
basali loro associate guidano la crescita degli assoni, che si estendono di circa 1 mm al giorno verso il loro
bersaglio distale. Le cellule di Schwann creano nuovi manicotti mielinici intorno agli assoni in rigenerazione,
ma questi tendono ad essere meno spessi e più corti degli originali.
Se gli assoni in crescita non riescono a trovare il loro bersaglio si può formare uno pseudo-tumore, detto
neuroma traumatico o da amputazione: si ha la formazione di un nodulo dolente costituito da una
proliferazione casuale, non neoplastica, con andamento a spirale dei processi assonali e delle cellule di
Schwann.

Neuropatie demielinizzanti

Nelle neuropatie demielinizzanti i bersagli primari sono le cellule di Schwann e la guaine mieliniche, che
degenerano secondo uno schema apparentemente casuale dando vita ad un danno discontinuo. In risposta
a questo danno, le cellule di Schwann o i loro precursori proliferano e iniziano la riparazione formando
nuovi manicotti mielinici, che anche in questo caso tendono a essere più sottili e più corti di quelli originali.
Il tratto elettrofisiologico distintivo di questi disturbi è una diminuita velocità di conduzione nervosa, che
riflette la perdita di mielina.

Neuronopatie

Hanno origine dalla distruzione di neuroni, con degenerazione secondaria dei processi assonali. Infezioni,
come l’herpes zoster e sostanze tossiche come i composti del platino sono esempi di insulti che possono
condurre a neuronopatie. Poiché il danno è a livello del corpo cellulare dei neuroni, la disfunzione del nervo
periferico ha eguale probabilità di interessare parti del corpo prossimali e distali (diversamente dalle
assonopatie, che interessano preferenzialmente le estremità distali).

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Distribuzione anatomica delle neuropatie periferiche

Le neuropatie possono essere distinte in base alla distribuzione anatomica:


- Mononeuropatie, che interessano un singolo nervo e danno luogo ad un deficit circoscritto
- Polineuropatie, caratterizzate dall’interessamento di diversi nervi, solitamente simmetrico
- Mononeurite multipla, in cui si ha il danneggiamento di più nervi in maniera casuale
- Poliradicoloneuropatie, che interessano sia le radici nervose che i nervi periferici

Sindrome di Guillain-Barrè

La sindrome di Guillain-Barré è una neuropatia periferica demielinizzante che può condurre a paralisi
respiratoria potenzialmente mortale. L’incidenza annuale complessiva è di circa 1 caso su 100.000
persone. La malattia è caratterizzata clinicamente da debolezza che interessa dapprima gli arti distali e poi
progredisce rapidamente andando a colpire la muscolatura prossimale; istologicamente sono presenti
infiammazione e demielinizzazione nelle radici dei nervi spinali e nei nervi periferici (radicoloneuropatia).
Si ritiene che alla base della patologia vi sia un attacco autoimmune, probabilmente preceduto da una
infezione virale o una vaccinazione.
La caratteristica istopatologica principale è il processo infiammatorio a carico del nervo, che si manifesta
come un’infiltrazione perivenulare ed endoneurale di linfociti, macrofagi e alcune plasmacellule. La
demielinizzazione segmentale dei nervi periferici rappresenta la lesione più evidente, ma può essere
osservato anche danno assonale, in particolare quando la malattia è grave.
Il quadro clinico è dominato da paralisi ascendente e areflessia. La velocità di conduzione del nervo è
rallentata, a causa della distruzione multifocale dei segmenti mielinici in molti assoni.
Plasmaferesi e immunoglobuline per via endovenosa sembrano essere di beneficio, apparentemente
perché, rispettivamente, rimuovono gli anticorpi patogenetici e sopprimono la funzione immunitaria.

Poliradicoloneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica

Questa è la più comune neuropatia periferica infiammatoria cronica acquisita, ed è caratterizzata da


polineuropatia simmetrica sensitivomotoria mista che persiste per 2 o più mesi; spesso la malattia evolve
nel corso degli anni, in genere con recidive e remissioni.
Si possono ottenere remissioni cliniche con terapie immunosoppressive, immunoglobuline endovena,
plasmaferesi e agenti biologici diretti contro le cellule T o B. Il decorso temporale e la risposta agli steroidi
distinguono la poliradicoloneuropatia infiammatoria demielinizzante cronica dalla sindrome di Guillain-
Barré.
Nel processo infiammatorio sono implicate sia le cellule T sia fattori umorali. Le molecole espresse alla
giunzione tra la cellula di Schwann e l’assone e in aree non compatte della mielina sembrano essere il
bersaglio della risposta immunitaria.
La biopsia del nervo surale evidenzia demielinizzazione recidivante e rimielinizzazione associata a
proliferazione delle cellule di Schwann. Quando eccessiva, questa proliferazione porta alla formazione dei
cosiddetti “bulbi di cipolla”.

Neuropatia associata a malattie autoimmuni sistemiche e vasculite

Malattie autoimmuni sistemiche, come l’artrite reumatoide, la sindrome di Sjögren, o il lupus eritematoso
sistemico (LES), possono essere associate a neuropatie periferiche che spesso prendono la forma di
polineuropatie sensitive o sensitivomotorie distali.
Circa un terzo dei pazienti con vasculite mostra interessamento dei nervi periferici e la neuropatia può
essere la caratteristica di presentazione. La vasculite è una infiammazione non infettiva dei vasi sanguigni
che può coinvolgere e danneggiare i nervi periferici.

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Neuropatie infettive

Lebbra
I nervi periferici sono colpiti sia nella lebbra lepromatosa che nella lebbra tubercoloide.
Nella lebbra lepromatosa, le cellule di Schwann sono invase da Mycobacterium leprae, che prolifera e infine
infetta altre cellule. Sono presenti aspetti di demielinizzazione segmentale e rimielinizzazione, associati a
perdita degli assoni; con il progredire dell’infezione si ha fibrosi dell’endonevrio. Gli individui affetti
sviluppano una polineuropatia simmetrica che è più severa nelle estremità distali relativamente fredde e
sul viso, poiché le basse temperature favoriscono la crescita dei micobatteri. Questa condizione porta a
perdita di sensibilità dolorifica e predispone allo sviluppo di ulcere.
La lebbra tubercoloide è caratterizzata da un’attiva risposta immunitaria di tipo cellulo-mediato contro M.
leprae, che in genere si manifesta con noduli di infiammazione granulomatosa localizzati nel derma.
L’infiammazione colpisce i nervi cutanei nelle vicinanze; assoni, cellule di Schwann e mielina vengono
distrutti e vi è fibrosi del perinervio e dell’endonervio.

Malattia di Lyme
Può portare a poliradicoloneuropatia e paralisi unilaterale o bilaterale del nervo facciale.

HIV/AIDS
Pazienti infettati dal virus dell’immunodeficienza umana sviluppano diversi quadri di neuropatia periferica
che sono poco compresi, ma sembrano essere tutti connessi in qualche modo all’alterata regolazione del
sistema immunitario.

Difterite
La difterite si riscontra prevalentemente nei Paesi in via di sviluppo. L’interessamento del nervo periferico è
causato dagli effetti dell’esotossina difterica. Essa produce una neuropatia periferica acuta associata con
marcata disfunzione dei muscoli bulbari e respiratori che può condurre a morte o a disabilità a lungo
termine.

Varicella-Zoster Virus
In seguito alla varicella, permane un’infezione latente nei neuroni dei gangli sensitivi. Se il virus è riattivato
può essere trasportato lungo i nervi sensitivi fino alla cute; qui infetta i cheratinociti, causando un’eruzione
vescicolare cutanea dolorosa con una distribuzione che segue i dermatomeri sensitivi. I gangli interessati
mostrano morte neuronale, con abbondanti infiltrati infiammatori costituiti da cellule mononucleate.
Possono essere presenti anche aree di necrosi associate a emorragia. I nervi periferici mostrano
degenerazione degli assoni che appartengono ai neuroni sensitivi morti. Si può inoltre osservare distruzione
focale dei grandi motoneuroni delle corna anteriori o dei nuclei motori dei nervi cranici.

Neuropatie metaboliche, ormonali, nutrizionali

Diabete
Il diabete è la causa più comune di neuropatia periferica. Il meccanismo della neuropatia diabetica è
complesso e non completamente chiarito; si ritiene che cambiamenti sia metabolici sia vascolari
contribuiscano al danno dei neuroni e delle cellule di Schwann. L’iperglicemia causa la glicosilazione non
enzimatica di proteine, lipidi e acidi nucleici; gli AGEs inducono infiammazione e si può avere danno d ROS.
Nei pazienti con neuropatia sensitivomotoria distale simmetrica il reperto anatomopatologico principale è
costituito dalla neuropatia assonale. Le biopsie dei nervi mostrano un ridotto numero di assoni e le
arteriole endoneurali mostrano ispessimento, ialinizzazione e intensa positività alla colorazione con acido
periodico di Schiff (PAS) a carico delle pareti.
La polineuropatia diabetica distale simmetrica tipicamente si presenta con sintomi sensitivi, quali
intorpidimento, perdita della sensibilità dolorifica, problemi di equilibrio e parestesia o disestesia; si

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possono avere sintomi anche a carico del sistema nervoso autonomo, come incompleto svuotamento della
vescica e disfunzioni sessuali. La neuropatia diabetica predispone a fratture patologiche e ulcere cutanee.

Neuropatia uremica
La maggior parte dei soggetti con insufficienza renale presenta una neuropatia periferica, tipicamente una
neuropatia simmetrica distale, che può essere asintomatica o associata a crampi muscolari, disestesie
distali e riduzione dei riflessi osteotendinei. In questi pazienti la degenerazione assonale costituisce l’evento
primario; occasionalmente vi è una demielinizzazione secondaria.

Disfunzione tiroidea
L’ipotiroidismo può portare a mononeuropatie da compressione, come la sindrome del Tunnel carpale, o
polineuropatia simmetrica distale.

Anche i deficit di vitamina B12, B1, B6, E e folato sono associati a neuropatia.
Le neuropatie periferiche possono insorgere dopo esposizione a sostanze chimiche industriali o
ambientali, a tossine biologiche o a farmaci. Importanti cause di danno tossico dei nervi periferici
includono l’alcol (indipendentemente dai deficit nutrizionali associati), i metalli pesanti e i solventi organici.
Tra i farmaci maggiormente associati a neuropatia vi sono gli agenti chemioterapici.
I nervi periferici sono frequentemente danneggiati da traumi o intrappolamenti

Neuropatie associate a neoplasia maligna

Le neuropatie associate a neoplasia possono essere dovute a:


- Infiltrazione diretta o compressione dei nervi periferici
- Deficit nutrizionali, infezioni, radiazioni
- Neuropatie paraneoplastiche, causate da anticorpi diretti contro le cellule tumorali che
riconoscono proteine espresse dai neuroni sani
- Neuropatie associate a gammopatie monoclonali, infatti, le cellule B neoplastiche possono
produrre anticorpi che danneggiano le cellule nervose

Neuropatie periferiche ereditarie

Le neuropatie periferiche ereditarie sono un gruppo di disturbi geneticamente eterogenei ma con


fenotipi clinici simili che si presentano spesso negli adulti. La complessità genetica delle neuropatie
ereditarie riflette senza dubbio i complicati meccanismi omeostatici che mantengono la normale
funzionalità dei nervi periferici; i geni implicati codificano per:
- Proteine associate alla mielina
- Fattori di crescita e recettori dei fattori di crescita
- Proteine che regolano la funzione mitocondriale
- Proteine coinvolte nel trasporto assonale e vescicolare
- Proteine HSP
- Proteine coinvolte nella struttura o nella funzione delle membrane cellulari

Neuropatie ereditarie sensitivomotorie – malattia di Charcot-Marie-Tooth


Queste sono di gran lunga le neuropatie periferiche più comuni, con una frequenza di 1 caso ogni 2500
individui; sono classificate in base alla modalità di trasmissione e al tipo di danno, assonale, demielinizzante
o misto. Le forme demielinizzanti sono associate a lesioni a bulbo di cipolla e talvolta possono essere
talmente gravi da causare l’ingrossamento palpabile del nervo.

Neuropatie sensitive ereditarei con o senza neuropatia autonomica


Questo è un gruppo eterogeneo di malattie contraddistinte da perdita di sensibilità e diversi disturbi
autonomici.

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La perdita della sensibilità al dolore e alla temperatura è il sintomo più comune e aumenta il rischio di
danno traumatico delle porzioni del corpo interessate. Sono tipicamente neuropatie assonali.

Neuropatia ereditaria con paralisi da pressione


Questa malattia è causata dalla delezione del gene PMP22 ed è contraddistinta da mononeuropatie
sensitivomotorie transitorie scatenate dalla compressione di singoli nervi nel sito soggetto a
intrappolamento (per esempio, il tunnel carpale o la testa fibulare). I sintomi connessi alla neuropatia, in
genere, si risolvono nel volgere di giorni o settimane, ma in alcuni pazienti la malattia infine progredisce in
una neuropatia cronica.

Polineuropatie amiloidi familiari


Sono malattie ereditarie caratterizzate da deposizione amiloide all’interno dei nervi periferici. Nella
maggior parte dei casi sono dovute a mutazioni della linea germinale nel gene che codifica per la
transtiretina, una proteina che normalmente è coinvolta nel trasporto dell’ormone tiroideo, che, quando
mutata, tende a depositarsi in diversi tessuti, inclusi i nervi periferici, sotto forma di fibrille amiloidi.

MALATTIE DELLA GIUNZIONE NEUROMUSCOLARE

La giunzione neuromuscolare è una complessa struttura specializzata situata all’interfaccia tra gli assoni dei
nervi motori e il muscolo scheletrico; la sua funzione è controllare la contrazione muscolare. Le giunzioni
neuromuscolari si trovano a metà della lunghezza delle miofibre.
Qualsiasi sia la causa, i disturbi che impediscono il funzionamento delle giunzioni neuromuscolari
tendono a presentarsi con debolezza senza dolore. Autoanticorpi che inibiscono le proteine della
giunzione neuromuscolare sono la causa più comune di alterazioni della trasmissione neuromuscolare,
come nel caso della miastenia (che significa debolezza) grave. Similmente, difetti ereditari in proteine
specializzate della giunzione neuromuscolare sono anch’essi associati a sindromi miasteniche. Disturbi
causati da tossine che alterano la trasmissione neuromuscolare si osservano raramente.

Miastenia grave

La miastenia grave è una malattia autoimmune che in genere è associata ad autoanticorpi diretti contro i
recettori dell’acetilcolina. Ha una prevalenza di 150 casi su 200 milioni e mostra una distribuzione
bimodale rispetto all’età. Il rapporto femmine:maschi nei giovani adulti è di 2:1, ma negli anziani la malattia
si riscontra prevalentemente nei maschi.
Circa l’85% dei pazienti ha autoanticorpi contro i recettori dell’acetilcolina postsinaptici, mentre i rimanenti
hanno anticorpi contro la proteina del sarcolemma chiamata recettore tirosin-chinasi muscolo-specifico.
Approcci terapeutici che diminuiscono i livelli di autoanticorpi sono associati a una riduzione dei sintomi.
I diversi autoanticorpi sembrano avere meccanismi di azione differenti. Si ritiene che anticorpi diretti
contro il recettore dell’acetilcolina conducano ad aggregazione e degradazione dei recettori, e a
danneggiamento della membrana postsinaptica attraverso fissazione del complemento. Di conseguenza, le
membrane postsinaptiche mostrano alterazioni nella morfologia e riduzione del numero di recettori per
l’acetilcolina, che limitano la capacità delle miofibre di rispondere al neurotrasmettitore. Gli autoanticorpi
diretti contro la tirosin-chinasi muscolo-specifica non fissano il complemento, ma sembrano interferire con
il trasporto e il raggruppamento dei recettori dell’acetilcolina all’interno del sarcolemma, con l’effetto
ultimo di diminuirne l’attività.
Esiste una forte associazione tra autoanticorpi patogenetici contro il recettore dell’acetilcolina e
anomalie timiche. Circa il 10% dei pazienti con miastenia grave ha un timoma, un tumore delle cellule
epiteliali del timo. Un ulteriore 30% dei pazienti (e in particolare quelli giovani) presenta iperplasia timica,..
Le anomalie timiche sono in genere assenti nei casi di miastenia grave che si verificano negli adulti di età
avanzata o che non sono associati con autoanticorpi contro il recettore dell’acetilcolina; in tali casi la
ragione dello sviluppo degli autoanticorpi non è nota.

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I pazienti con anticorpi contro il recettore dell’acetilcolina si presentano in genere con debolezza fluttuante
che peggiora con lo sforzo e spesso nel corso della giornata. Diplopia e ptosi dovute al coinvolgimento di
muscoli extraoculari sono comuni e distinguono la miastenia grave dalle miopatie, nelle quali il
coinvolgimento dei muscoli extraoculari è inusuale. Casi che presentano anticorpi contro la tirosin-chinasi
muscolo-specifica differiscono dai casi tipici poiché mostrano un maggiore interessamento focale dei
muscoli (muscoli del collo, delle spalle, facciali, respiratori e bulbari).
La diagnosi si basa sull’anamnesi, sui reperti fisici, sull’identificazione di autoanticorpi e su analisi
elettrofisiologiche, che rivelano una diminuzione della risposta muscolare in seguito a stimolazioni ripetute,
una caratteristica di questa malattia. Con le attuali terapie, la mortalità complessiva è scesa a meno del 5%.
Gli inibitori dell’acetilcolinesterasi, che aumentano la vita media dell’acetilcolina, rappresentano la prima
linea di trattamento. Altri trattamenti, come la plasmaferesi e i farmaci immunosoppressivi possono
controllare i sintomi diminuendo il titolo degli autoanticorpi.

Sindrome miastenica di Lambert-Eaton

È una malattia autoimmune causata da anticorpi che bloccano il rilascio di acetilcolina attraverso
l’inibizione del canale del calcio presinaptico. Diversamente dalla miastenia grave, nei pazienti affetti la
stimolazione rapida e ripetuta aumenta la risposta muscolare; la forza del muscolo aumenta dopo pochi
secondi di attività. I pazienti si presentano tipicamente con debolezza delle estremità. In circa la metà dei
casi, vi è una neoplasia maligna sottostante, spesso un carcinoma neuroendocrino del polmone. I sintomi
possono precedere la diagnosi di cancro. Si ritiene che lo stimolo per la produzione di autoanticorpi nei casi
paraneoplastici possa essere l’espressione dello stesso canale del calcio nelle cellule neoplastiche. I pazienti
non affetti da tumore spesso hanno altre malattie autoimmuni, come la vitiligine o la malattia tiroidea. La
terapia si basa su farmaci che aumentano il rilascio di acetilcolina tramite depolarizzazione delle membrane
sinaptiche e agenti immunosoppressivi.

Sindromi miasteniche congenite

Questo gruppo include malattie rare che nella maggioranza dei casi hanno modalità di trasmissione
ereditaria autosomica recessiva e sono contraddistinte da gradi diversi di debolezza muscolare. Le
mutazioni causali sono state identificate in geni che codificano per molteplici proteine diverse,
presinaptiche, sinaptiche o postsinaptiche. Le più comuni fra queste sono mutazioni che determinano la
loss-of-function nel gene che codifica per la subunità ε del recettore dell’acetilcolina. Un altro gruppo di
mutazioni interessa proteine importanti per il normale raggruppamento dei recettori dell’acetilcolina sulle
membrane postsinaptiche. Molti pazienti con sindromi miasteniche congenite si presentano nel periodo
perinatale con scarso tono muscolare, debolezza del muscolo oculare esterno e difficoltà respiratorie; altri
invece hanno forme più lievi della malattia e possono sfuggire all’attenzione del medico fino all’adolescenza
o all’età adulta. La presentazione clinica, la risposta a farmaci quali gli inibitori dell’acetilcolinesterasi e la
prognosi dipendono ampiamente dalla mutazione causale.

Disturbi causati da tossine

Il botulismo è causato dall’esposizione a una neurotossina prodotta dal batterio Gram-positivo anaerobio
Clostridium botulinum: la tossina botulinica agisce bloccando il rilascio di acetilcolina dai neuroni
presinaptici.
Curaro è il nome comune con cui vengono indicati rilassanti muscolari correlati tra loro che bloccano i
recettori dell’acetilcolina, determinando paralisi flaccida. Il curaro inizialmente fu scoperto e utilizzato
come veleno per le punte delle frecce dalle popolazioni indigene della foresta pluviale amazzonica. In
seguito, venne usato come rilassante muscolare in alcune forme di chirurgia, ma oggi è stato soppiantato
da altri farmaci correlati con meccanismo di azione simile.

555
MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE
La professoressa invita a ripassare l’anatomia del SNC ai fini dell’esame.
A livello di encefalo si riconoscono quattro lobi principali, lobo frontale, parietale, occipitale e temporale,
più l’insula. Ogni parte del SNC è deputata a determinate funzioni: anteriormente alla scissura di Rolando si
ha la corteccia motoria, posteriormente ad essa la corteccia somatosensitiva; altre due importanti aree
sono l’area di Broca, deputata alla formulazione della parola e del linguaggio, e l’area di Wernicke, a livello
parieto-temporale, deputata alla comprensione del linguaggio. Ogni lesione del SNC è quindi correlata ad
una specifica sintomatologia in base all’area interessata.
La formazione del cervello inizia a 23 settimane. Progressivamente si ha un aumento dei giri della corteccia,
accompagnato dalla migrazione dei neuroni a questo livello. Dalla 24esima settimana alla 38-40esima,
qualunque danno può compromettere sia la migrazione neuronale sia la formazione delle circonvoluzioni.
Un cervello a termine di 40 settimane pesa circa 400-500 g, a seconda anche del sesso e del peso corporeo.
In un adulto maschio il peso del cervello arriva a circa 1500 g; alcune patologie, come l’Alzheimer,
determinano una riduzione del peso del cervello, mentre altre, come l’edema cerebrale, ne determinano
un aumento.

NEURONE

Il neurone è l’unità funzionale di base del SNC ed è composto da un pirenoforo, che presenta il nucleo
centrale e la sostanza di Nissl sparsa nel citoplasma, il quale si dirama a formare i dendriti, responsabili
della trasmissione degli impulsi in entrata. Dal pirenoforo si sviluppa l’assone, ricoperto da mielina,
sostanza che permette di velocizzare la trasmissione dell’impulso, che passa da un nodo di Ranvier all’altro.
Ogni neurone è accompagnato da un astrocita, un oligodendrocita e microglia.

A livello di corteccia frontale, quindi a livello di neocortex, i


neuroni si dispongono a formare 6 strati.
Caratteristici sono i neuroni cerebellari del Purkinje, identificati
da Cajal grazie ad una colorazione istochimica basata sul ferro
che li faceva apparire neri. I neuroni del Purkinje presentano una
porzione dendritica estremamente ramificata e un unico assone.
556
Gli assoni trasportano l’informazione solitamente in maniera anterograda, ma è possibile avere anche un
trasporto retrogrado, dalla periferia alla corteccia. L’impulso viaggia a velocità differenti a seconda del tipo
di neurone: i neuroni con assoni più lunghi sono quelli che trasportano l’impulso più velocemente.
Nel sistema nervoso periferico si trovano fibre efferenti, che trasportano l’impulso dal SNC ai muscoli e agli
organi periferici, e fibre afferenti, che trasportano l’impulso dalla periferia al SNC trasportando
informazioni sensoriali, tattili, termiche e dolorifiche.

Reazioni patologiche dei neuroni

Le reazioni a carico degli assoni sono:


- Degenerazione walleriana → in seguito ad interruzione dell’assone o del nervo, con mantenimento
del tessuto connettivale, si hanno rigonfiamento dell’assone, distruzione della guaina mielinica,
fagocitosi e formazioni lipidiche globose; dopo alcuni giorni si osservano gemmazioni, che
rappresentano il tentativo di rigenerazione
- Degenerazione assonale → è dovuta ad alterazione metabolica e colpisce inizialmente le parti
distali della fibra, per poi progredire lentamente in senso prossimale
- Demielinizzazione segmentaria → per danno primitivo alle cellule di Schwann da alterazione
metabolica, processo infiammatorio o danno tossico si ha il progressivo rallentamento dell’impulso,
fino al blocco completo, quando la demielinizzazione interessa un tratto di fibra maggiore di tre
internodi. Si ha un susseguirsi di processi di demielinizzazione e rimielinizzazione che porta ad un
ispessimento della fibra per interposizione di fibroblasti e collagene: si ha la formazione di fibre a
bulbo di cipolla, talvolta palpabili sulla cute (polineuropatie ipertrofiche di Dejerine-Sottas,
amiloidotica e infiammatorie demielinizzanti croniche)

Se il neurone subisce un danno a livello assonale, il corpo cellulare va incontro a cromatolisi centrale: il
nucleo va in apoptosi e la cellula si gonfia; il nucleo risulta spostato in periferica, la cromatina diventa
zollata, la sostanza di Nissl si fa aderente alla membrana citoplasmatica e il neurone alla fine va in necrosi.
557
La cromatolisi neuronale si verifica ogni volta che l’assone subisce un danno, indipendentemente dal tipo di
danno.

Altra reazione patologica è il cosidetto neurone rosso: si


tratta di un neurone morto a causa di un danno legato alla
mancata perfusione seguita poi da riperfusione. Il neurone è
poco resistente all’ipossia, quindi subisce un danno, detto
morte cellulare rossa, che però è possibile osservare solo nel
momento in cui il tessuto viene riperfuso, anche se la
riperfusione avviene troppo tardi per porter rimediare al
danno.
I neuroni appaiono “strizzati” con nucleo picnotico, viola
intenso, e citoplasma opaco. Questo danno si riscontra spesso
in sede autoptica ed è importante dal punto di vista medico-
legale, dal momento che indica che ci è stato un tentativo di riperfusione.

Possono esserci anche accumuli intracitoplasmatici o intranucleari, indicativi di alcune patologie.


Con la colorazione con ematossilina-eosina si possono osservare elementi eosinofili all’interno del
citoplasma dei neuroni, che con colorazioni immuistochimiche appaiono nero/marroni: si tratta di accumuli
di proteine alterate, come la proteina Tau, tipica dell’Alzheimer.

Un alto accumulo intracitoplasmatico caratteristico è dato dai


Corpi di Lewy, riscontrabili nella malattia di Parkinson: si ha
l’accumulo di materiale proteico PAS+ che
all’immunoistochimica risulta essere α-sinucleina.
Anche nella malattia di Lafora, epilessia mioclonica
progressiva, si hanno accumuli PAS+ che appaiono come
inclusioni citoplasmatiche; queste sono riscontrabili anche nelle
ghiandole eccrine cutanee.
Un’altra inclusione citoplasmatica è rappresentata dai corpi
Negri nei neuroni del Purkinje, tipici della rabbia; questi corpi si
colorano con una colorazione specifica e permettono la
conferma diagnostica post-mortem.
Si possono riscontrare anche inclusioni nucleari, spesso di
origine virale.

558
L’encefalite erpetica è caratterizzata da nuclei molto grandi,
vescicolosi, otticamente chiari, con inclusioni eosinofile molto forti.

Quando un assone subisce un danno, oltre agli effetti sul corpo


cellulare, si hanno anche effetti locali.

Profilo temporale delle patologie del SNC

Dal punto di vista temporale, le lesioni del SNC si dividono in acute, subacute e croniche.
Le patologie acute sono fondamentalmente di natura vascolare, le patologie sub-acute sono tipicamente di
origine infettiva, mentre quelle croniche sono tipicamente degenerative (anche se talvolta esse possono
esordire in maniera acuta).
Le patologie neoplastiche possono essere ad esordio subacuto/cronico, quando sono di basso grado, o
esordio acuto/subacuto, con comparsa di sintomatologia da ipertensione endocranica, quando sono di alto
grado.

OLIGODENDROCITI

Gli oligodendrociti hanno il compito di produrre mielina; dal momento che un unico oligodendrocita può
mielinizzare più assoni, il danno a carico di un oligodendrocita si ripercorre su più neuroni.
Le malattie demielinizzanti, come ad esempio la sclerosi multipla, interessano proprio gli oligodendrociti.
Con il termine demielinizzazione si intende la perdita selettiva di mielina, con conservazione dell’assone.

559
Con il termine dismielinizzazione si intende invece la produzione di mielina alterata o deficitaria; le
patologie dismielinizzanti sono solitamente legate a mutazioni genetiche e compaiono in età pediatrica.
Le cellule di Schwann rappresentano il corrispettivo degli oligodendrociti nel SNP.
Il nervo ottico, essendo rivestito da oligodendrociti, rappresenta un prolungamento del SNC.

ASTROCITI

Gli astrociti, svolgendo funzioni di supporto, nutrizione e riparazione, sono molto importanti per garantire
la sopravvivenza e il corretto funzionamento dei neuroni. Inoltre, essi sono costituenti della barriera
emato-encefalica e permettono una corretta relazione tra BEE e neuroni.
Nel momento in cui il SNC subisce un danno, di qualsiasi natura, gli astrociti innescano una intensa
proliferazione nel tentativo di riparare il danno tissutale: si parla di astrogliosi reattiva; questa risposta
degli astrociti non permette comunque il ripristino funzionale
completo, visto che i neuroni non vanno incontro a
proliferazione.
Gli astrociti reattivi hanno un tipico aspetto stellariforme e
presentano numerose ramificazioni, tramite le quali instaurano
contatti reciproci per tentare di ricompattare il tessuto
danneggiato; è possibile identificare gli astrociti con l’analisi
immunoistochimica, ricercando la GFAP, ovvero la proteina
acida glio-fibrillare.

BARRIERA EMATO-ENCEFALICA

La BEE è una barriera altamente specializzata costituita da cellule endoteliali dotate di giunzioni cellulari
molto strette, prive di fenestrature, le tight junctions. Le cellule endoteliali, al di sotto della membrana
basale, sono strettamente associate agli astrociti, che contribuiscono a mantenere serrata la BEE.
La BEE ha il compito di proteggere il SN ed impedisce il passaggio di macromolecole > 500 Da e patogeni,
garantendo però il passaggio dei nutrienti. Proprio a causa dell’elevata selettività della barriera, numerosi
farmaci non arrivano al sistema nervoso e quindi non sono efficaci in questo distretto. Piccole molecole
liposolubili sono invece in grado di attraversare la barriera rapidamente, come i barbiturici.
Sono molteplici le cause che possono alterare la BEE:
- Ipertensione
- Iposviluppo della BEE neonatale, legato ad anomalie congenite o all’esposizione dell’embrione a
sostanze tossiche
- Iperosmolarità
- Infezioni sistemiche e infiammazione sistemica
- Radiazioni ionizzanti
A livello periferico è presente anche la barriera emato-nervosa, costituita da cellule vascolari che sono
attorno al nervo.

EPENDIMA

Le cellule ependimali rivestono i ventricoli e sono tipicamente cubiche o cilindriche, con nucleo alla base.
Presentano ciglia che permettono la circolazione del liquor cefalorachidiano prodotto dai plessi coroidei;
un danno a questo livello comporta quindi alterazioni del liquor.

MICROGLIA

I linfociti sono in grado di raggiungere l’encefalo solo quando vi è un danno alla BEE.
Per questo motivo rivestono un ruolo fondamentale le cellule della microglia: queste sono localizzate a
livello di SNC e sono in grado di trasformarsi in macrofagi specializzati che si occupano della protezione

560
immunitaria del sistema nervoso. In presenza di una lesione
neoplastica, tuttavia, la microglia potenzia la crescita tumorale, dal
momento che ha effetto pro-infiammatorio stimolante la
proliferazione vascolare.
Nelle infezioni virali il danno tipico è la formazione dei noduli
microgliari.

MENINGI

Al di sotto della scatola cranica vi è la dura madre, corrispondente alla pachimeninge, ovvero la meninge
più esterna; al di sotto della dura madre vi sono le leptomeningi, ovvero aracnoide e pia madre,
quest’ultima completamente adesa alla circonvoluzioni cerebrali. Le meningi sono presenti anche a livello
di midollo spinale. Queste membrane delimitato degli spazi:
- Spazio epidurale, sopra la dura madre
- Spazio subdurale, sotto la dura madre
- Spazio subaracnoideo, compreso tra aracnoide e pia madre; questo spazio è molto importante
poiché vi decorrono i vasi venosi ed arteriosi destinati alla corteccia cerebrale (questo spazio non è
virtuale, a differenza degli altri due)
Istologicamente si ha abbondante tessuto fibroso nel
quale si trovano le cellule meningoteliali, più visibili nelle
leptomeningi, soprattutto nell’aracnoide; si tratta di
cellule epitelioidi fusate, con nuclei regolari, che talvolta
formano degli aggregati, detti cap cells, nei quali si
possono trovare corpi psammomatosi, dati da
calcificazioni benigne. Dagli aggregati possono svilupparsi
meningiomi.

Malattia meningea infiammatoria

A seconda della sede dell’infiammazione si distinguono due tipi di meningite:


- Pachimeningite → coinvolgimento della dura
madre, tipicamente con pachimeningi
rinforzate ispessite; il rinforzo non è visibile a
livello di circonvoluzioni
- Leptomeningite → sono coinvolte le
leptomeningi e il rinforzo segue i solchi
La distinzione tra questi due tipi di lesioni è
importante poiché indirizza l’identificazione della
causa eziologica; infatti, il coinvolgimento della dura è solitamente dovuto a cause esterne, mentre il
coinvolgimento delle leptomeningi a cause provenienti dal parenchima cerebrale, come una diffusione
tumorale.

Approccio al paziente con sospetta


patologia neurologica:

561
MALATTIE CEREBROVASCOLARI

La malattia cerebrovascolare -ovvero il danno al cervello conseguente ad un’alterazione del flusso


sanguigno- riconosce un’eziologia ischemica o emorragica. Ictus (o stroke) è la denominazione clinica che si
applica a tutte queste condizioni, in particolare quando i sintomi iniziano in maniera acuta
Le malattie cerebrali associate a patologie vascolari sono la principale causa di morte nei paesi sviluppati,
dopo le cause cardiache e neoplastiche.

METABOLISMO CEREBRALE

Il SNC è caratterizzato da un elevato consumo di ossigeno, quindi necessita di un flusso sanguigno costante
e regolare; il cervello rappresenta il 2,5% del peso corporeo, ma consuma il 20% dell’ossigeno corporeo e
riceve il 15% della gittata cardiaca. Vi è una differenza nel consumo di ossigeno a livello cerebrale: la
sostanza grigia ha un consumo di ossigeno di 100 ml/100 g/minuto, a causa della presenza di tantissimi
neuroni, mentre la sostanza bianca ha un consumo di 25 ml/100 g/minuto.

Regolazione del flusso sanguigno cerebrale

Il SNC è dotato di un rigido e sofisticato sistema di regolazione del flusso sanguigno che consente di
mantenere il flusso cerebrale costante e pari a circa 50 ml/min per 100 g di tessuto, a fronte di variazioni
della pressione sanguina sistemica. Questo sistema di regolazione è efficace per valori pressori compresi
tra i 50 e i 150 mmHg; al di sopra o al di sotto di questo intervallo questo sistema di autoregolazione viene
meno: sotto i 50 mmHg si ha ischemia, mentre sopra i 150 mmHg si ha edema e rottura delle arterie
cerebrali.
Oltre all’autoregolazione pressoria si ha anche una autoregolazione metabolica, che punta a mantenere
stabili i livelli di PaO2 e PaCO2, efficace sempre tra i 50 e i 150 mmHg.
Nei pazienti che soffrono di ipertensione cronica il sistema di autoregolazione si modifica e l’intervallo
autoregolatorio si sposta verso destra.

Circolo di Willis

Il circolo di Willis è costituito da arterie cerebrali anteriori, arteria


comunicante anteriore, arterie cerebrali medie, carotide interna, arterie
cerebrali posteriori e arteria comunicante posteriore.
Il poligono di Willis è molto importante perché rappresenta il collegamento
tra il circolo cerebrale anteriore e il circolo cerebrale posteriore, quindi
permette al cervello di rimanere vascolarizzato in caso di occlusione di uno
dei due circoli.
A livello delle biforcazioni dei vasi del poligono di Willis sono comuni le
dilatazioni aneurismatiche.
Le tre arterie cerebrali principali hanno territori di irrorazioni definiti:
-Arteria cerebrale anteriore → lobo frontale e parietale e maggior parte del
corpo calloso

562
- Arteria cerebrale posteriore → zona occipitale
- Arteria cerebrale media → parte temporale
Tra un territorio di irrorazione e l’altro vi sono i cosidetti
territori di confine, dotati di una doppia circolazione;
queste aree di confine sono particolarmente sensibili a
danni ischemici, tanto che se si sospetta che il paziente sia
morto per riduzione del flusso sanguigno il materiale da
analizzare viene prelevato proprio a questo livello.

LESIONE ISCHEMICA

La gravità della lesione ischemica dipende da:


- Presenza di circoli collaterali
- Durata dell’ischemia
- Entità e velocità della diminuzione del flusso ematico
- Estensione del danno

Alterazioni microscopiche nella lesione ischemica

Entro un’ora dell’evento ischemico istologicamente non si rilevano


alterazioni; solo attraverso la microscopia elettronica è possibile
osservare mitocondri rigonfi e gonfiore degli astrociti.
Dopo 8-12 ore a livello istologico, se viene ripristinata la perfusione, si
osservano i cosidetti neuroni rossi ed inizia ad essere visibile il danno alla
BEE, con stravaso ematico. I neuroni rossi sono quindi la prima
alterazione dopo ischemia acuta visibile alla microscopia ottica.
Dopo 24 ore sono presenti i poliformonucleati, inizialmente a livello
perivascolare e successivamente nel tessuto ischemico; si innesca
quindi un processo infiammatorio. L’endotelio è attivato, i vasi sono
dilatati e pieni di globuli rossi.
Dopo 4-5 giorni si ha l’attivazione della microglia con funzione
macrofagica di pulizia. La presenza di depositi di emosiderina,
marroncini, all’interno dei macrofagi attivati è un segno indiretto di
avvenuto sanguinamento.
Dopo 7 giorni inizia la fase di proliferazione e riparazione, ad opera
degli astrociti: si ha gliosi e si sviluppa la cicatrice cerebrale. La cicatrice
cerebrale è caratterizzata da astrocitosi reattiva e neuroni mineralizzati,
ovvero neuroni rossi su cui si sono depositati minerali di calcio. Le aree
di astrocitosi reattiva possono talvolta simulare dei tumori e la presenza
delle calcificazioni sui neuroni rossi aiuta la diagnosi differenziale.

Il danno da ridotta perfusione più essere ipotizzato anche osservando


macroscopicamente la corteccia, infatti, nella zona ischemica non è più
possibile distinguere tra sostanza bianca e sostanza grigia.

563
L’encefalo può subire privazione di ossigeno per molteplici meccanismi:
- Ipossia → avviene in caso di bassa pO2, diminuzione della capacità di trasporto o inibizione
dell’utilizzo di ossigeno da parte dei tessuti. È quindi possibile avere uno stato ipossiemico o uno
stato istotossico: lo stato ipossiemico è dovuto ad una alterazione del trasporto di ossigeno,
mentre lo stato istotossico è dovuto ad un alterato utilizzo di ossigeno a livello tissutale
- Ischemia → transitoria o permanente, causata dall’interruzione al normale flusso circolatorio;
l’interruzione del flusso può essere causata da una riduzione della pressione di perfusione, come
nell’ipotensione, o dall’ostruzione di vasi di grande o piccolo calibro. L’interruzione del flusso
sanguigno può quindi essere globale, come nel caso dell’ipotensione, o focale, come nel caso di
una occlusione arteriosa.
In caso di ischemia nelle cellule cerebrali si verifica la deplezione di ATP e la perdita del potenziale di
membrana, essenziale per l’attività elettrica neuronale; a ciò si accompagna un aumento dei livelli di calcio
intracitoplasmatico con conseguente attivazione di cascate enzimatici e lesione cellulare.

ISCHEMIA CEREBRALE GLOBALE – ENCEFALOPATIA IPOSSICO ISCHEMICA DIFFUSA

L’ischemia cerebrale globale (o encefalopatia ipossico ischemica diffusa) si verifica quando c’è una riduzione
generalizzata della perfusione cerebrale, conseguenza potenziale di arresto cardiaco, shock e ipotensione
grave. La gravità della lesione ischemica globale è variabile da lieve (solo stati confusionali transitori,
nessun danno tissutale irreversibile) a grave (danni tissutali irreversibili fino alla morte cerebrale) a seconda
della durata dell’ipoperfusione e della velocità con cui si verifica il ripristino del flusso.
Esiste una gerarchia per quanto riguarda la suscettibilità al danno ipossico tra le cellule costitutive del SNC e
le varie aree. I neuroni sono maggiormente suscettibili delle cellule della sostanza bianca, nonostante
anch’esse siano particolarmente sensibili.
Le zone più sensibili nell’encefalo sono rappresentate da: cellule piramidali dell’ippocampo (specialmente
quelle presenti nell’area CA1, chiamata anche settore di Sommer), cellule di Purkinje nel cervelletto e
neuroni piramidali delle zone spartiacque della corteccia cerebrale.

Infarti spartiacque

Le zone di confine tra i territori di irrorazione delle tre principali arterie cerebrali sono dette zone
spartiacque e sono situate due anteriormente, tra il lobo frontale e il lobo parietale, e due posteriormente,
tra il lobo parietale e il lobo occipitale.
Queste zone, dal momento che ricevono un contributo duplice o triplice, quando
la pressione di perfusione è normale sono le aree encefaliche maggiormente
vascolarizzate, ma sono anche le prime a risentire di una riduzione
generalizzata della perfusione cerebrale. Proprio per questo motivo sono le
prime aree ad essere campionate in corso di esame autoptico se si sospetta una
ipoperfusione cerebrale globale.
Nell’immagine a lato si osserva un infarto emorragico bilaterale della zona di
confine tra arteria cerebrale anteriore e arteria cerebrale media.

Atrofia ippocampale – sclerosi temporale mesiale

Anche l’ippocampo è intrisecamente sensibile all’ipossia e rappresenta una sede sfruttata


dall’anatomopatologo per verificare l’ipoperfusione cerebrale globale.
La zona maggiormente sensibile all’ipossia è il settore di Sommer,
ovvero le cellule piramidali della zona CA1 del corno di Ammone;
in questa zona quindi l’atrofia risulta maggiormente evidente. La
sclerosi temporale mesiale presenta una forte associazione con
l’epilessia, in cui il primum movens può proprio essere una
ipoperfusione cerebrale globale al momento della nascita.

564
ISCHEMIA CEREBRALE FOCALE – INFARTO

L’infarto cerebrale rappresenta più dell’80% delle lesioni cerebrovascolari e ha una incidenza maggiore nel
sesso maschile e nella sesta-settima decade di vita.
L’ischemia focale è dovuta all’occlusione del lume arterioso e può essere provocata da:
- Lesione aterosclerotica: rappresenta la causa più frequente e solitamente si localizza a livello di
biforcazione della carotide comune.
- Trombosi: spesso si instaura su placche instabili ed interessa soprattutto la biforcazione carotidea,
l’origine della cerebrale media e l’estremità della basilare
- Embolia: può essere aterosclerotica, settica, adiposa post-frattura e da trombo parietale in caso di
valvulopatia; in questo caso il distretto maggiormente interessato è il territorio di irrorazione della
cerebrale media, diretta estensione della carotide interna
- Vasculiti: i processi infiammatori che coinvolgono i vasi possono portare ad occlusione luminale e
in questo caso ad essere interessati sono soprattutto i piccoli vasi a livello corticale o
subaracnoideo
- Sindromi genetiche
o CADASIL → arteriopatia cerebrale autosomica dominante legata a mutazione di NOTCH3
che causa infarti sottocorticali associati a leucoencefalopatia cerebrale; la microscopia
elettronica evidenzia depositi granulari osmiofili che si accumulano nelle cellule muscolari
lisce delle arterie (diagnosi differenziale con malattie da deposito di amiloide)
Le manifestazioni cliniche dell’infarto sono determinate dalla distribuzione anatomica della lesione, non
dalla causa sottostante; i sintomi si sviluppano precocemente, nell’arco di minuti, e possono continuare a
svilupparsi con il passare delle ore.

Classificazione

Gli infarti si classificano in base alla presenza o meno di emorragia:


- Infarto bianco, o ischemico: la zona ischemica appare più bianca e pallida della sostanza cerebrale
adiacente. In questo caso l’infarto è dovuto a occlusione completa del vaso senza successiva
riperfusione
- Infarto rosso, o emorragico: causato dalla rottura di una arteria; è frequentemente associato a
tromboembolia e può essere definito come danno da riperfusione post-ischemica, sia per
dissoluzione dell’embolo sia per circoli collaterali. Lo stravaso ematico può essere abbondante e
causare la formazione di un versamento emorragico subaracnoideo.
L’infarto acuto non sempre è facile da riconoscere dal punto di vista macroscopico e a tal proposito risulta
utile il confronto con l’emisfero controlaterale. Anche microscopicamente nella fase iniziale non si hanno
grandi sconvolgimenti, se non una rarefazione cellulare.

Effetto massa e shift della linea mediana

Dopo l’infarto, sia emorragico che ischemico, si verifica un effetto massa dovuto all’edema della zona
circostante l’area infartuata. L’effetto può essere tale da provocare lo spostamento della linea mediana.
565
Quando vi è un effetto massa importante si possono delineare
vari tipi di ernie cerebrali, classificabili in base alla struttura
attraverso cui il tessuto è erniato; le principali ernie cerebrali
sono:
- Ernia transtentoriale/nucale/uncus → il lobo
temporale viene schiacciato da una massa unilaterale
sopra e sotto il tentorio che supporta il lobo temporale
- Ernia subfalcina → il giro cingolato è spinto al di sotto
della falce cerebrale da una massa posta
superiormente nell’emisfero cerebrale
- Ernia tonsillare → si ha una massa sottotentoriale che
forza le tonsille cerebellari attraverso il foro occipitale
- Ernia centrale → entrambi i lobi temporali possono
erniare attraverso l’incisura del tentorio a causa di una
massa bilaterale o di un edema diffuso
- Ernia trantentoriale verso l’alto → una massa sottotentoriale comprime il tronco encefalico
deformandolo
L’erniazione sottotentoriale provoca lo
spostamento della massa cerebrale verso il
basso, con conseguente stiramento e rottura dei
vasi che si portano a vascolarizzazione
mesencefalo e tronco encefalico: si possono
avere le emorragia della linea mediana, o
emorragie di Duret, ed infarto mesencefalico,
potenzialmente fatale. Questo quadro costituisce
un’emergenza neurochirurgica.

Conseguenze dell’infarto

L’aspetto macroscopico dell’infarto ischemico si modifica nel tempo.


Durante le prime 6 ore dal danno irreversibile i cambiamenti sono difficili da osservare.
Dopo 48 ore il tessuto diviene pallido, molle e tumefatto e la giunzione corticomidollare si fa indistinta.
Dopo 2-10 giorni il parenchima diventa gelatinoso e friabile e il confine tra tessuto sano e area infartuata
diviene sempre più indistinto, man mano che l’edema si riduce nel tessuto vitale adiacente.
Dal decimo giorno fino a 3 settimane dopo il tessuto
va incontro a liquefazione, definendo la formazione
di dilatazioni cistiche a contenuto liquido che
continuano ad espandersi finché tutto il tessuto
necrotico non viene rimosso. Entro sei mesi
l’evoluzione cistica include la maggior parte dell’area
infartuata, risparmiando vasi meningei e un sottile
bordo subpiale, dove si ha tessuto mesenchimale e
strutture vascolari.

Microscopicamente le reazioni tissutali seguono la


sequenza:
1. Prime 12 ore: neuroni rossi ed edema vasogenico e citotossico; le cellule endoteliali e della glia,
principalmente gli astrociti, si rigonfiano e le fibre mieliniche iniziano a disintegrarsi
2. Fino a 48 ore: la migrazione dei neutrofili aumenta per poi scemare; nei giorni successivi i fagociti,
derivanti da monociti circolanti e cellule della glia attivate, diventano i principali tipi cellulari. I
macrofagi si riempiono dei prodotti del catabolismo mielinico e dei globuli rossi e possono persistere
nella sede della lesione per mesi/anni.

566
3. Man mano che il processo di liquefazione e la fagocitosi
procedono gli astrociti ai margini della lesione aumentano di
volume e di numero e sviluppano una rete di estensioni
citoplasmatiche
4. Dopo parecchi mesi la risposta astrocitica recede e lascia un
denso agglomerato reticolare di fibre gliali frammiste a
capillari neoformati e fibre connettivali perivascolari.

Il danno ischemico di qualunque porzione del fascio-cortico spinale


costituisce il corrispettivo istopatologico di un infarto focale della corteccia motoria da cui le fibre del fascio
originano.
Il fascio cortico-spinale origina infatti dalla corteccia motoria: gli assoni delle cellule piramidali discendono
attraverso la capsula interna, i peduncoli cerebrali, ponte, bulbo (piramidi bulbari) e arrivano a livello di
corna anteriori del midollo spinale.

Ricapitolando gli esiti degli infarti e l’organizzazione che assume la regione infartuata: Si assiste alla
formazione di una necrosi cortico-laminare con una degenerazione cistica della componente corticale, ma
che si può estendere anche alla sostanza bianca. Le cellule più sensibili all’ipossia sono le cellule CA1
dell’ippocampo; questo quadro è associato alle epilessie focali, che vengono operate in tempi lunghi. Un
altro segno di infarto di vecchia data è la perdita delle cellule del Purkinjie.

Malattia CADASIL

Arteriopatia autosomica dominante che pone come manifestazione anatomo-patologica la presenza di


alcuni infarti sottocorticali in associazione a leucoencefalopatia cerebrale; interessa soprattutto le arterie
cerebrali sottocorticali. La diagnosi è genetica e prevede la dimostrazione di mutazione del gene NOTCH3.
La microscopia elettronica mostra depositi granulari osmiofili che si accumulano nelle cellule muscolari lisce
delle arterie. I depositi contengono la proteina NOTCH3 mal ripiegata. Clinicamente si hanno ictus ricorrenti
e demenza.

MALATTIA CEREBROVASCOLARE IPERTENSIVA

Le malattie legate a patologia ipertensiva sono:


- Infarti lacunari → l’ipertensione ha ripercussioni sulle arterie perforanti profonde e sulle arteriole
che riforniscono i gangli basali, la sostanza bianca emisferica e il tronco cerebrale. I vasi
interessati sviluppano sclerosi arteriolare e possono occludersi; le alterazioni strutturali sono
analoghe a quelle dei vasi sistemici dei pazienti ipertesi.
Una conseguenza rilevante di queste lesioni arteriose del SNC è rappresentata dallo sviluppo di
piccoli infarti cavitati, singoli o multipli, che si formano soprattutto nello strato lacunare; questi
infarti raramente provocano emorragie intraventricolari. A livello microscopico si osservano cavità
circondate da gliosi: a seconda della localizzazione le lacune possono essere silenti o clinicamente
rilevanti.
- Dilatazione degli spazi perivascolari → si presenta a livello dei vasi a ponte che si trovano nello
spazio arcnoideo, spesso nelle persone anziane con atrofia cerebale ed encefalopatia globale
ipertensiva
- Encefalopatia ipertensiva → l’aumento della pressione intracranica porta alla formazione di un
edema, che può risultare rapidamente fatale
- Emorragie a fessura → rottura dei vasi penetranti e delle arteriole di piccolo calibro con
conseguenti piccole emorragie. Nel tempo queste emorragie si riassorbono lasciando cavità a
fessure circondate da tessuto di colore brunastro; microscopicamente si hanno distruzione focale
del tessuto, macrofagi carichi di pigmento e gliosi.

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EMORRAGIE INTRACRANICHE

A seconda della localizzazione del vaso che va incontro a rottura l’emorragia può essere epidurale,
subdurale, subaracnoidea o intraparenchimale.
Le emorragie intracraniche possono verificarsi in modo:
- Traumatico → emorragia epidurale, tra calotta cranica e dura madre, o subdurale, tra dura ed
aracnoide
- Spontaneo → emorragia subaracnoidea ed emorragia cerebrale, spesso manifestazioni di malattia
cerebrovascolare sottostante

Ematoma epidurale

Si forma tra la calotta cranica e la dura madre e consiste in un raccolta di sangue arterioso come
conseguenza della rottura delle arterie durali, principalmente della arteria meningea media.
La dura madre è fusa al periostio e pertanto l’ematoma epidurale ha un tempo di formazione
relativamente lungo, pertanto un paziente con trauma cranico può manifestare i sintomi solo dopo quale
ora. L’ematoma determina una pressione che può portare a shift della linea mediana, erniazione
subfalcinea, erniazione dell’uncus ed emorragia di Duret.

Ematoma subdurale

L’ematoma subdurale si localizza tra dura madre ed aracnoide. La dura madre è composta da due strati,
uno esterno, collageno, e uno interno, con un numero limitato di fibroblasti; quando si ha un emorragia
questi due strati si separano e si ha lo spazio subdurale.
L’ematoma subdurale è dovuto a rottura delle vene a ponte che decorrono dalla convessità degli emisferi
cerebrali attraverso lo spazio subarcnoideo e subdurale, per poi svuotarsi nel seno saggittale superiore.
La rottura delle vene a ponte avviene soprattutto nei pazienti anziani con atrofia cerebrale: la retrazione
del tessuto cerebrale determina lo stiramento dei vasi fino a provocarne la lacerazione, in seguito a traumi
di lieve entità.
Il sangue si riversa quindi sopra il parenchima e si possono avere lo spostamento della linea mediana,
erniazione cerebrale, emorragia di Duret; una complicanza è l’ematoma subdurale cronico: essendo di
natura venosa l’ematoma si forma gradualmente e il sangue fuoriuscito, se quantitativamente ridotto, può
andare incontro a coagulazione e riassorbimento; nell’arco di 2 settimane si forma una neomembrana
rigida connettivale tra la dura e il parenchima cerebrale che accoglie il sangue gelatinoso.

Emorragia subaracnoidea

È un evento spontaneo che interessa soprattutto i giovani e rappresenta una emergenza.


Può essere causata da:
- Rottura di aneurisma
- Trauma
- Malformazione atero-venosa, MAV
- Altre cause

Emorragia subaracnoidea da rottura di aneurisma


La rottura di un aneurisma è la causa più frequente di emorragia subaracnoidea; generalmente la rottura
avviene quando l’aneurisma raggiunge un diametro di 4-7 mm e il rischio di rottura aumenta all’aumentare
del diametro. Fumo e alcol aumentano il rischio di formazione e rottura dell’aneurisma.
Gli aneurismi si formano soprattutto a livello di biforcazione dei vasi, in particolare a livello dell’arteria
cerebrale media, dell’arteria cerebrale posteriore e dell’arteria basilare.
Il tipo più frequente a livello cerebrale è l’aneurisma sacciforme o a bacca, così chiamato per la forma e il
colore scuro, dovuto al sangue trombizzato all’interno.

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Istologicamente nella parete dell’aneurisma si ha
un’interruzione della tonaca media; la parete risulta
quindi costituita solo dall’endotelio e dall’avventizia e
pertanto risulta molto fragile.
Tramite colorazioni specifiche è possibile evidenziare le
differenze tra la parete normale e la parete
dell’aneurisma: la colorazione tricromica evidenzia come il
sacco aneurismatico sia privo di collagene, mentre la
colorazione specifica per le fibre elastiche permette di
evidenziare come il sacco aneurismatico ne sia privo.
La zona di passaggio tra la parte del vaso normale e la regione aneurismatica è detta collo ed è proprio qui
che l’aneurisma va incontro a rottura, infatti, esso rappresenta il punto più delicato e maggiormente
soggetto al flusso turbolento del sangue.
Le cause di aneurisma sono moltissime:
- Rene policistico
- Neurofibromatosi
- Sindrome di Marfan
- Sindrome di Ehlers-Danlos
- Traumi
- Infezioni micotiche (aspergillus)
- Aterosclerosi (l’aneurisma ateroscerotico interessa soprattutto la basilare ed è fusiforme)
Clinicamente la rottura dell’aneurisma si presenta con mal di testa grave, rigidità nucale, perdita di
coscienza e vomito a getto, per
l’aumento della pressione
endocranica.
Nelle immagini a lato si osserva
l’esito di una emorragia da rottura
di aneurisma dell’arteria basilare,
indicato con il numero 3 (il numero
1 indica le carotidi interne, il
numero 2 un pezzo di chiasma
ottico).

Emorragia subaracnoidea da malformazione vascolare

Tra le malformazioni vascolari si hanno: malformazioni atero-venose, angiomi arteriosi, angiomi venosi e
talangectasie capillari.
Le malformazioni atero-venose, MAV, consistono in un aggregato si vasi arteriosi e venosi ad alta
pressione che creano uno shunt tra loro con parenchima cerebrale interposto; in caso di rottura esce
sangue arterioso. Si tratta di alterazioni solitamente congenite che si manifestano intorno ai 20 anni.
Essendo il flusso all’interno dei vasi ad alta pressione raramente sono presenti trombi nei MAV. I MAV
presentano un’arteria afferente da cui generano i vasi che prendono parte allo shunt e in caso di
sanguinamento del MAV dovrà essere clippata proprio questa arteria.
I vasi arteriosi e i vasi venosi del MAV possono essere distinti osservando lo spessore e la costituzione delle
pareti, in modo particolare la componente di fibre elastiche

Un angioma cavernoso consiste invece in un aggregato si vasi a bassa pressione senza parenchima
cerebrale interposto; si forma spesso nel lobo temporale e può dare microsanguinamenti
paucisintomatici, pertanto nel parenchima circostante si trovano depositi di emosiderina, macrofagi e
gliosi reattiva con caratteristica conformazione ad anello. Essendo queste lesioni a bassa pressione vanno
spesso incontro a trombizzazione; istologicamente le pareti dei vasi sono sottili ed elastiche.
Gli angiomi cavernosi sono una delle cause più frequenti di epilessia.

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Emorragia del parenchima cerebrale

L’emorragia lobare rappresenta il 30% di tutte le emorragie e solitamente coinvolge un singolo lobo.
L’emorragia parenchimale può essere anche profonda ed interessare i nuclei della base, il cervelletto e il
ponte. Complessivamente le emorragie parenchimali sono causate da:
- Ipertensione cronica (50% dei casi)
- Angiopatia amiloidea cerebrale (12% dei casi)
- Anticoagulanti
- Neoplasie
- Droghe
- Aneurismi e MAV
Per gli aneurismi e i MAV valgono le stesse considerazioni
fatte prima.
Nell’immagine a lato si ha un’emorragia su base ipertensiva
dei nuclei della base, poi estesasi a livello intraventricolare.
Una possibile causa di questa emorragia è rappresentata
dagli infarti lacunari.
L’emorragia può risolversi, se il paziente sopravvive
all’evento acuto, e rimane un’atrofia cistica con conseguente demenza su base vascolare.
Nell’angiopatia amiloidea cerebrale solo solitamente interessati i vasi
corticali o leptomeningei e si accumulo di sostanza amiloide nelle pareti
vascolari; i depositi di sostanza amiloide possono essere evidenziati con
la colorazione Rosso Congo e la diagnosi viene poi confermata tramite
immunoistochimica.

Le emorragie acute, indipendentemente dall’eziologia, si caratterizzano


per lo stravaso di sangue con conseguente compressione del
parenchima adiacente. Le vecchie emorragie mostrano un’area di
distruzione cavitaria cerebrale con un bordo di colore marrone pallido.
Le lesioni precoci sono costituite da un nucleo centrale di sangue coagulato, circondato da un anello di
tessuto cerebrale che mostra alterazioni gliali e neuronali anossiche, nonché edema. Alla fine, l’edema si
risolve, compaiono macrofagi carichi di emosiderina e di lipidi e proliferazione di astrociti reattivi alla
periferia della lesione. Gli eventi cellulari seguono lo stesso andamento visto nell’infarto cerebrale.

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INFEZIONI MENINGO-ENCEFALICHE

Le malattie infettive del SNC possono essere


distinte in base a:
- Agente patogeno: batteri, virus,
protozoi, funghi, prioni
- Sede di coinvolgimento dell’infezione:
ossa, spazio epidurale, spazio
subdurale, meningi, parenchima
- Tipo di processo infiammatorio:
osteite, arterite, ascesso, empiema,
meningite, encefalite

I microorganismi penetrano nel sistema nervoso attraverso quattro vie principali:


- Ematogena: è la via più frequente; spesso i patogeni derivano da endocarditi batteriche
- Inoculazione diretta, come conseguenza di traumi o interventi chirurgici
- Estensione locale, da infezione dei seni nasali, dell’orecchio interno o dei denti dell’arcata
superiore
- Neurotropica: estensione retrograda dai nervi periferici con risalita dell’agente patogeno fino al
cervello; questa via è sfruttata soprattutto da virus. Esempi ne sono l’encefalite erpetica e
l’encefalite provocata dal virus della rabbia

Le principali malattie infettive del SNC sono quindi:


- Meningiti, batteriche, asettiche/virali e tubercolari
- Ascessi cerebrali, principalmente di origine batterica, ma anche di origine fungina
- Encefaliti

MENINGITE BATTERICA ACUTA

La meningite è l’infiammazione acuta delle leptomeningi e quella batterica è la forma più frequente.
Ovviamente è più frequente nei paesi in cui non sono disponibili i vaccini contro i patogeni principali, che
sono:
- Streptococco pneumoniae
- Streptococco di tipo B
- Neisseria Meningitidis
- Haemophilus influenzae
- Listeria Monocytogenes
L’agente eziologico varia però in base all’età della popolazione considerata:
- Bambini e neonati → E. Coli, Streptococco B, Listeria Monocytogenes, meningococco B
- Adolescenti e giovani adulti → meningococco e listeria
- Anziani → listeria e streptococco pneumoniae; infatti, contro lo pneumococco è consigliato il
vaccino nei soggetti anziani

Manifestazioni cliniche

Tipicamente il paziente con meningite batterica acuta presenta:


- Fotofobia
- Febbre alta, non sempre presente in bambini e anziani
- Letargia, uno dei pochi sintomi frequenti in bambini e anziani, che spesso non presentano i classici
sintomi da meningite, come febbre e rigidità nucale
- Rigidità nucale
- Mal di testa

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- Segno di Brudzinski: piegando il collo del paziente egli piegherà le gambe, portandole di scatto al
petto, per attenuare il dolore; infatti, questa manovra provoca stiramento delle meningi, che risulta
doloroso se esse sono coinvolte in un processo infettivo
- Segno di Kernig: sollevando il ginocchio e piegandolo contro il torace il paziente sente dolore, a
causa dello stiramento meningeo

Esame del liquor

Quando si sospetta una meningite si può acquisire l’esame del liquor, prima macroscopico poi
microscopico. Normalmente il liquor è limpido, la componente proteica è bassa, il glucosio è circa metà del
glucosio sierico e la componente cellulare è scarsa, rappresentata da pochi linfociti.
Quando le meningi sono interessate da un processo patologico le caratteristiche del liquor cambiano, in
particolare in caso di meningite batterica:
- Il liquor diventa torbido, purulento
- Il glucosio si abbassa, < 40 mg/dl, poiché viene consumato dai batteri presenti
- Aumentano i globuli bianchi, > 1000 cellule/mm3, e si ha una spiccata neutrofilia
- Aumentano i livelli di proteine, > 50-500 mg/dl
- La pressione del liquor aumenta e quindi durante la
rachicentesi esso fuoriesce rapidamente (pressione
di apertura elevata)
Sul liquor possono essere eseguiti esami microscopici a
fresco o esami colturali; nella maggior parte dei casi si
riscontrano Gram+. Si possono eseguire esami microbiologici
specifici e si punta ad identificare l’agente eziologico.

Morfologia

Macroscopicamente la meningite batterica acuta


provoca lo sviluppo di una opacità meningea,
dovuta allo sviluppo e all’accumulo di essudato
purulento ricco di granulociti e batteri. Si ha anche
la congestione dei vasi sanguigni. L’essudato
patologico è visibile già entro 48 ore dall’infezione.
La localizzazione del danno varia a seconda
dell’agente patogeno.
Istologicamente le meningi risultano ben separate
dal parenchima: lo spazio subaracnoideo,
normalmente virtuale, diviene reale, ispessito, e
ricco di granulociti e neutrofili. Il parenchima
cerebrale può essere risparmiato o coinvolto dall’infezione, quindi si può avere una meningite con associata
o meno encefalite.

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Complicanze e sequele a lungo termine

- L’infezione può estendersi al parenchima cerebrale con cerebrite o encefalite


- Insorgenza di vasculiti secondarie all’infiltrazione granulocitarie intravascolare, con conseguente
occlusione e microinfarti
- Trombosi venosa delle vene poste nello spazio subaracnoideo, sia per l’infiltrazione neutrofila che
per la componente batterica
- Occlusione vascolare ed emorragia subaracnoidea ed intracranica
- Effetto neurotossico delle citochine pro-infiammatorie
o Alterazioni della BEE
o Alterazioni della pressione intracerebrale
o Danneggiamento dei neuroni
- Aracnoide fibrosa, sequela che si manifesta dopo al guarigione da meningite: Le meningi
presentano un residuo fibroso, inoltre vi è un disturbo a carico dei villi aracnoidi con blocco delle
cisterne basali e conseguente idrocefalo

MENINGITE ASETTICA (O VIRALE)

Condizione caratterizzata dall’assenza di microorganismi in coltura batterica in un paziente con


manifestazioni di meningite, tra le quali irritazione meningea, fotofobia, rigidità nucale, mal di testa,
febbre, alterazioni dello stato di coscienza. Si tratta di una forma solitamente benigna e di breve durata,
autolimitante, che viene trattata solo dal punto di vista sintomatico.
Solitamente si ha un’eziologia virale, nell’80% dei casi da enterovirus, ma è possibile che la causa sia
batterica, autoimmune o da rickettsia; vi sono anche forme di meningite asettica da radioterapia. Lo
spettro dei patogeni varia a seconda della stagione e dell’area geografica; l’incidenza è maggiore tra la fine
dell’estate e l’autunno.
Nella meningite asettica vi è una pleiocitosi linfocitatia, un moderato aumento del contenuto proteico del
liquor e livelli di glucosio nel liquor nella norma. Nonostante l’utilizzo di indagini molecolari, il patogeno
responsabile viene identificato solo in una minoranza dei casi.

MENINGITE TUBERCOLARE

La TBC a livello di SNC può essere espressione di una malattia attiva altrove nell’organismo o
manifestazione isolata secondaria alla diffusione da una lesione silente localizzata in altra sede.
La meningite tubercolare rappresenta la causa più comune di meningite nei paesi in via di sviluppo,
mentre nei paesi sviluppati è tipica solo di pazienti immunodepressi, alcolisti e indigenti. La mortalità è
del 20%.
Si tratta di una reazione granulomatosa giganto-cellulare necrotizzante che si localizza prevalentemente
alla base del cervello; spesso è associata a neuropatie craniche.
Clinicamente si manifesta con cefalea, malessere, confusione mentale e vomito.
L’esame del liquor evidenzia pleicotosi caratterizzata da cellule mononucleate e una minima componente
di neutrofili, aumento delle proteine e livelli di glucosio normali o lievemente ridotti.
Il sospetto di meningite tubercolare implica la necessità di eseguire anche un RX-torace visto che si tratta
solitamente di un coinvolgimento secondario derivante da una infezione polmonare primaria e raramente
l’infezione è limitata al cervello. La negatività al test cutaneo non esclude la diagnosi di meningite
tubercolare dal momento che il paziente potrebbe non essere immunoreattivo.

Macroscopicamente il parenchima cerebrale colpito dall’infezione ha un colore biancastro e consistenza


caseosa; la reazione granulomatosa occlude i solchi rendendo difficile il riconoscimento delle
circonvoluzioni cerebrali.

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Microscopicamente sono visibili grossi granulomi con aree di necrosi caseosa e cellule giganti del
Langherans; all’interno delle aree di necrosi si hanno infiltrati infiammatori misti contenenti linfociti,
plasmacellule e macrofagi.
Per evidenziare i microorganismi si usano colorazioni particolari che sfruttano l’acol-acido resistenza dei
micobatteri: grazie a queste colorazioni è possibile apprezzare i bacilli evidenziati in rosso, su sfondo
azzurro.

MENINGITE FUNGINA

La meningite fungina da Criptococco dà una reazione granulomatosa e anche in questo caso la superficie
cerebrale risulta opaca e biancastra. I criptococchi vengono evidenziati con l’inchiostro d’India.
Anche l’infezione da blastomicosi può mimare la meningite tubercolare; la meningite da blastomicosi si
verifica però soprattutto a livello cerebellare e l’infiltrato granulomatoso si differenzia da quello
tubercolare perché:
- Non è necrotizzante
- Le cellule giganti non hanno i nuclei
perfettamente periferici come le cellule di
Langerhans
- L’infiltrato infiammatorio è soprattutto
linfocitario
- A forte ingrandimento si possono
apprezzare le formazioni rotondeggianti
della blastomicosi all’interno delle cellule giganti stesse
L’aspergillosi si caratterizza per la presenza di noduli, che potrebbero simulare degli ascessi, ma risultano
fibrosi; tali noduli presentano una componente granulomatosa, quindi macrofagica, un vallo linfocitario alla
periferia e all’interno si trova l’area di necrosi
eosinofila, leggermente polverosa. A forte
ingrandimento, con colorazione PAS che
colora il glicogeno presente entro le ife e le
spore fungine, si mettono in evidenza delle
formazioni bastoncellari eosinofile che sono
appunto le ife. Con colorazione Grocott
(sfondo verde, ife e spore nere) si possono
riconoscere le ife dell’Aspergillo, perché si
biforcano con angolo acuto (a differenza
delle pseudoife della Candida che invece si
biforcano a 45°).

ASCESSO CEREBRALE

L’ascesso cerebrale è una lesione focale con necrosi del parenchima cerebrale associata ad infiammazione
di solito causata da infezione batterica.
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Segni e sintomi possono essere simili a quelli causati da una massa neoplastica,
come convulsioni e segni da aumento della pressione intracranica, ad esempio
mal di testa e papilledema. È quindi importante la diagnosi differenziale con
lesioni neoplastiche.
Alla TC si ha un mass-like enhancing con edema, ovvero una massa con anello
periferico di iperintensità si segnale, osservabile anche in lesioni neoplastiche
gliali di alto grado, come il glioblastoma. Successivamente si può procedere con
RM, che permette di completare la diagnosi differenziale:
- In caso di ascesso cerebrale si nota una riduzione della perfusione, che
risulta invece conservata o aumentata in caso di neoplasia
- In caso di ascesso cerebrale l’edema è assente, mentre è presente in caso di neoplasia
Altri fattori confondenti la diagnosi differenziale sono la necrosi, presente sia in caso di ascesso che in caso
di lesione neoplastica, e l’ispessimento della parete.
Solitamente i pazienti con ascesso cerebrale hanno lesioni multiple, quindi è importante la diagnosi
differenziale tra ascesso multiplo e metastasi multiple.

Le vie di accesso degli agenti infettivi sono:


- Via ematogena, infatti, cause frequenti di ascesso cerebrale sono malattie polmonari suppurative,
come le bronchiectasie, soprattutto nei soggetti fumatori, endocardite, cardiomiopatia congenita
con shunt destro-sinistro e la presenza di ascessi di altre sedi
- Inoculazione diretta per traumi o procedure chirurgiche
- Estensione locale, in caso di otite media, mastoidite, sinusite frontale, infezioni dentarie
- Via neurotropica
Sono solitamente coinvolti patogeni aerobi, come stafilococchi, streptococchi e gram-negativi, ma si
possono avere anche patogeni anaerobi e talvolta l’eziologia è multipla.

Evoluzione e morfologia

Si ha una fase acuta iniziale in cui si ha una infiammazione locale, quindi una encefalite o cerebrite acuta,
con richiamo di cellule infiammatorie e formazione di una parete fibrosa che circoscrive l’area
infiammatoria. Si ha necrosi centrale, accumulo di polimorfonucleati e sviluppo di gliosi reattiva alla
periferia dell’ascesso.
Successivamente si ha una fase subacuta e cronica, con organizzazione dell’ascesso e formazione della
cavità centrale.
Istologicamente, partendo dalla periferia dell’ascesso, si osservano:
- Gliosi reattiva periferica, conseguenza
dell’attivazione gliale
- Attivazione vascolare e tessuto di
granulazione che forma la parete fibrosa
dell’ascesso
- Porzione purulenta, costituita da
polimorfonucleati, linfociti e batteri
- Porzione necrotica centrale
Quando l’ascesso è molto ben circoscritto è possibile
osservare, tra il parenchima sano e la zona di necrosi,
una capsula fibrosa, formata da fibroblasti che impediscono la diffusione dei patogeni.

Le infezioni batteriche o raramente quelle micotiche delle ossa del cranio o dei seni paranasali possono
anche diffondersi allo spazio subdurale e causare un empiema subdurale. Mentre l’aracnoide e lo spazio
subaracnoideo sottostanti normalmente non sono interessati, un empiema subdurale esteso può produrre
un effetto massa o una tromboflebite delle vene a ponte che attraversano lo spazio subdurale, causando
occlusione venosa e infarto cerebrale.

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L’ascesso extradurale, comunemente associato all’osteomielite, origina spesso da un focolaio di infezione
adiacente, come una sinusite, o in seguito a una manovra chirurgica.

ENCEFALITE ERPETICA

Si tratta di una encefalite necrotizzante acuta, generalmente dovuta a Herpes Virus di tipo 1 e 2.
L’herpes virus di tipo 2 è più frequente nelle infezioni neonatali o che coinvolgono i pazienti
immunocompromessi. La via di ingresso è nella maggior parte dei casi neurale/olfattiva.
La sintomatologia è simile a quella da meningite, con mal di testa, confusione e febbre; la diagnosi
differenziale con la meningite si basa sulla assenza di rigidità nucale in caso di encefalite, dal momento che
non si ha coinvolgimento meningeo.
La diagnosi si basa sull’esecuzione della PCR sul liquor cefalorachidiano, in modo da identificare il DNA
virale; si può eseguire anche una indagine immunoistochimica con anticorpi anti-HSV.
La terapia si basa Acyclovir e altri antivirali, che hanno permesso di ridurre la mortalità al 20%.

L’encefalite erpetica ha una evoluzione ingravescente, coinvolgendo prima le regioni inferiori e mediali dei
lobi temporali e le circonvoluzioni orbitarie dei lobi frontali. Si tratta di una infezione necrotizzante e spesso
è presente emorragia. Solitamente sono presenti infiltrati infiammatori perivascolari e possono essere
riscontrare inclusioni virali intranucleari (Cowdry tipo A), sia nei neuroni che nella glia.
Quando il paziente sopravvive ad encefalite erpetica si osservano aggregati di cellule gliali intorno ai focolai
di necrosi, detti noduli microgliali. Suggestiva è la neurofagia, ovvero la necrosi di singoli neuroni con
fagocitosi dei tessuti degenerati.

RABBIA

La rabbia è una patologia virale fatale, se non prevenuta


tramite vaccino; il vaccino può essere usato anche nel
momento dell’esposizione dal momento che il tempo di
incubazione del virus è molto lungo, pari a 30-90 giorni.
La fonte principale di infezione è rappresentata da cani,
volpi, pipistrelli, moffette e procioni, che trasmettono il
virus tramite il morso, infatti, il virus in questi animali si
annida a livello di ghiandole salivari.
Una volta inoculato il virus si migra attraverso le radici
nervose prima al midollo spinale e poi al SNC; da qui
raggiunge poi le ghiandole salivari dell’individuo.
Macroscopicamente l’encefalo colpito da rabbia
presenta intenso edema e congestione vasale.
Microscopicamente si osservano una diffusa
rigenerazione neuronale e una reazione infiammatoria,
localizzata soprattutto a livello di tronco encefalico,
gangli della base e midollo spinale.
Patognomici sono i corpi di
Negri, ovvero inclusioni
eosinofile intracitoplasmatiche con forma rotondeggiante od ovalare,
riscontrabili soprattutto delle cellule piramidali dell’ippocampo e nelle cellule del
Purkinje del cervelletto, sedi solitamente risparmiate dall’infiammazione.

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NEUROSIFILIDE – Dispensa

La neurosifilide è la manifestazione dello stadio terziario della sifilide e colpisce solo il 10% circa dei
pazienti con infezione non trattata. Le principali forme di coinvolgimento del SNC sono la neurosifilide
meningovascolare, la neurosifilide paretica e la tabe dorsale.
La neurosifilide meningovascolare è una meningite cronica che interessa la base del cervello e, in maniera
più variabile, le convessità cerebrali e le leptomeningi midollari. Inoltre, può comparire un'endoarterite
obliterante concomitante (arterite di Heubner) accompagnata da una caratteristica reazione infiammatoria
perivascolare ricca di plasmacellule e linfociti. Nelle meningi si possono anche manifestare le gomme
cerebrali (lesioni ricche di plasmacellule con effetto massa), che possono estendersi all'interno del
parenchima cerebrale.
La neurosifilide paretica è causata dall'invasione del cervello da parte di Treponema Pallidum e si
manifesta clinicamente come una perdita insidiosa e progressiva delle funzioni mentali e fisiche, con
alterazioni dell'umore e demenza grave. Le lesioni sono caratterizzate da perdita neuronale, proliferazione
della microglia (cellule a bastoncello), gliosi e depositi di ferro; questi ultimi sono dimostrabili con la
colorazione al blu di Prussia. Le spirochete possono a volte essere osservate nelle sezioni di tessuto.
La tabe dorsale è il risultato del danno agli assoni sensoriali nelle radici dorsali. Ciò causa un alterato senso
della posizione articolare e conseguente atassia, perdita della sensibilità dolorifica a cui conseguono lesioni
cutanee e articolari, altri disturbi sensitivi, in particolare i caratteristici "dolori fulminanti", e l'assenza dei
riflessi tendinei profondi.

NEUROBORELLIOSI – MALATTIA DI LYME – Dispensa

La malattia di Lyme è causata dalla spirocheta Borrelia Burgdorferi, che è trasmessa da varie specie di
zecche Ixodes. Il coinvolgimento del sistema nervoso viene indicato con il termine di neuroborrelliosi. I
sintomi neurologici sono estremamente variabili e comprendono meningite asettica, paralisi del nervo
facciale, encefalopatia e polineuropatie. I rari casi che giungono all’autopsia hanno mostrato una
proliferazione focale di cellule microgliali nel cervello, nonché la presenza diffusa di microorganismi negli
spazi extracellulari.

ENCEFALITE VIRALE TRASMESSA DA ARTROPODI – Dispensa

Gli arbovirus rappresentano una importante causa di encefaliti epidemiche; nell’emisfero occidentale i virus
più importanti sono il West Nile, i virus equini dell’Est e dell’Ovest, il virus di St. Louis e di La Crosse, mentre
nelle altre parti del mondo i patogeni sono i virus giapponesi, i virus veicolati da zecche, ecc.
Clinicamente, i pazienti sviluppano deficit neurologici generalizzati, come crisi epilettiche, confusione,
delirium, stupor o coma, nonché segni focali, come asimmetria dei riflessi osteotendinei e paralisi dei nervi
oculomotori; il liquor è solitamente limpido, con pressione lievemente aumentata, un livello aumentato di
proteine e un livello di glucosio nella norma.
Tipicamente si ha una meningoencefalite caratterizzata dall’accumulo in sede perivascolare di linfociti, e
talvolta neutrofili, con focolai multipli di necrosi; si hanno neurofagia e noduli microgliali. In alcuni casi si
hanno anche vasculiti necrotizzanti.

POLIOMIELITE – Dispensa

L’infezione del SNC si manifesta inizialmente con irritazione meningea e un quadro liquorale in linea con la
meningite asettica. La malattia può rimanere confinata o progredire, con interessamento del midollo
spinale. Quando la malattia colpisce il midollo spinale con perdita di motoneuroni, essa causa una paralisi
flaccida associata ad atrofia muscolare e a iporeflessia nelle corrispondenti regioni del corpo, che
costituiscono il reliquato neurologico permanente della poliomielite.
I casi acuti mostrano manicotti perivascolari di cellule mononucleate e neuronofagia dei motoneuroni
delle corna anteriori del midollo spinale. La reazione infiammatoria è abitualmente limitata alle corna

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anteriori, ma può estendersi fino alle corna posteriori e il danno occasionalmente è abbastanza grave da
provocare cavitazioni. L’esame autoptico in pazienti sopravvissuti a lungo termine alla poliomielite
sintomatica mostra perdita neuronale e gliosi lungo tutto il tratto di corna anteriori spinali affette, alcuni
focolai residui di infiammazione, atrofia delle radici spinali anteriori (motorie) e atrofia muscolare
neurogena con denervazione.

VIRUS DELL’IMMUNODEFICIENZA UMANA – Dispensa

Nel periodo precedente alla disponibilità di un’efficace terapia antiretrovirale, disturbi neuropatologici
venivano dimostrati all’esame autoptico in circa l’80-90% dei casi di AIDS. Queste alterazioni derivavano
dagli effetti diretti del virus sul sistema nervoso, dalle infezioni opportunistiche e dai linfomi primitivi del
SNC, soprattutto linfomi B EBV-positivi.
Nell’arco di 1-2 settimane dalla sieroconversione, nel 10% circa dei pazienti si verifica una meningite
asettica da HIV: si hanno lieve meningite linfocitaria, infiammazione perivascolare e alcune aree
demielinizzate. Con il progredire della fase cronica si sviluppa frequentemente encefalite.
La “sindrome infiammatoria da immunoricostituzione” (IRIS) è stata identificata in pazienti affetti da AIDS
dopo un trattamento efficace; la sindrome è riconosciuta come deterioramento parossistico dopo l’avvio
della terapia e consiste in un’intensa risposta infiammatoria “ricostituita” durante la terapia antiretrovirale.
Nel SNC, l’IRIS causa l’esacerbazione parossistica di sintomi dovuti a infezioni opportunistiche.
L’encefalite da HIV è una reazione infiammatoria cronica accompagnata da noduli microgliali, ampiamente
distribuiti, spesso contenenti cellule giganti multinucleate; queste lesioni sono accompagnate da focolai di
necrosi tissutale e gliosi reattiva.

LEUCOENCEFALOPATIA MULTIFOCALE PROGRESSIVA – Dispensa

La leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) è un’encefalite causata dal poliomavirus JC; dato che
il virus infetta principalmente gli oligodendrociti, la demielinizzazione è il suo principale effetto patologico.
È rara ed è l’unica patologia demielinizzante della quale è conosciuto l’agente eziologico, ovvero il JC virus,
che è un poliomavirus di tipo ubiquitario.
La malattia insorge quasi invariabilmente in individui immunodepressi: si ritiene che la PML derivi dalla
riattivazione dell’infezione in un quadro di immunosoppressione.
Clinicamente, i soggetti affetti sviluppano una sintomatologia neurologica focale (disartria, debolezza degli
arti, disturbi visici, atassia, disturbi della personalità) e inesorabilmente progressiva, mentre le indagini di
neuroimaging mostrano lesioni estese, spesso multifocali, nella sostanza bianca degli emisferi cerebrali o
cerebellari. La clinica può progredire in maniera veloce (pochi mesi, senza sosta) e può portare anche a uno
stato di demenza del paziente fino alla sua morte. Si tratta di una malattia molto aggressiva, che si cura
ripristinando l’immunità.
Microscopicamente, le singole lesioni mostrano una zona di demielinizzazione, generalmente localizzata in
sede sottocorticale, al centro della quale sono presenti macrofagi ricchi di lipidi e un ridotto numero di
assoni. In particolare, ai margini della lesione si trovano nuclei oligodendrogliali fortemente ingranditi,
contenenti inclusioni virali anfofile, di aspetto vitreo; vi possono essere anche linfociti e astrociti.

PANENCEFALITE SCLEROSANTE SUBACUTA – Dispensa

Rara sindrome clinica progressiva caratterizzata da declino cognitivo, spasticità degli arti e crisi convulsive.
Colpisce bambini e giovani adulti, a distanza di mesi o anni da un’iniziale infezione morbillosa insorta in età
infantile. Questa malattia ha origine da un’infezione persistente, in modo latente, del SNC da parte di un
virus del morbillo modificato. È caratterizzata da gliosi diffusa e degenerazione mielinica, inclusioni virali, in
gran parte presenti all’interno dei nuclei degli oligodendrociti e dei neuroni, infiammazione di vario grado
della sostanza bianca e grigia e grovigli neurofibrillari.

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EDEMA CEREBRALE – Dispensa

L’edema cerebrale, o meglio l’edema del parenchima cerebrale, è il risultato di un aumento di perdita di
liquidi dai vasi sanguigni cerebrali o di un danno a varie cellule del SNC.
L’edema cerebrale comporta un aumento della pressione intracranica e se distinguono diversi tipi:
- Edema vasogenico, spesso associato ad alterazioni della BEE dovute a infiammazioni, contusioni,
traumi o infarti. Si tratta quindi di un aumento del fluido extracellulare provocato dalla perdita di
integrità della BEE e dall’aumento della permeabilità vascolare; la scarsità di vasi linfatici rende
difficile il riassorbimento dei liquidi in eccesso.
- Edema citotossico, da attribuire ad un aumento di permeabilità della membrana neuronale,
endoteliale o gliale, tipicamente associato a danno ischemico o ad un disturbo metabolico
- Edema interstiziale, che si presenta per aumento della quantità di liquido cefalorachidiano, a causa
di danno ependimale o sub-ependimale e dilatazione ventricolare.
L’edema interstiziale è anche detto idrocefalo e consiste quindi nell’accumulo progressivo di liquor
nel sistema ventricolare; solitamente l’idrocefalo si verifica come conseguenza di un ostacolo al
flusso e al riassorbimento di liquor, raramente è dovuto ad una iperproduzione di liquor che
accompagna tumori dei plessi coroidei.
Quando l’idrocefalo si sviluppa durante l’infanzia, prima della chiusura delle suture craniche, si
osserva un ingrossamento del cranio, dimostrato da un aumento della circonferenza cranica.
Se l’idrocefalo si sviluppa dopo tale chiusura, al contrario, esso si associa a espansione ventricolare
e ad aumento della pressione intracranica, senza alterazioni della circonferenza cranica.
Se il sistema ventricolare è ostruito e non comunica con lo spazio subaracnoideo, come accade in
presenza di una massa nel terzo ventricolo, si parla di idrocefalo non comunicante o ostruttivo.
Al contrario, nell’idrocefalo comunicante il sistema ventricolare è in comunicazione con lo spazio
subaracnoideo, e si osserva un ingrossamento dell’intero sistema ventricolare.
Il termine idrocefalo ex vacuo si riferisce a un incremento compensatorio del volume ventricolare
secondario a una perdita del parenchima encefalico.

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TUMORI CEREBRALI

I tumori del SNC si suddividono in tumori primitivi e tumori secondari, metastatici; questi ultimi sono più
frequenti.

NEOPLASIE METASTATICHE

I tumori secondari del SNC possono originare da qualsiasi neoplasia in qualsiasi organo, ma solitamente
derivano da carcinomi, melanomi e sarcomi; i siti primitivi di origine più comuni sono polmone (nel sesso
maschile) e mammella (nel sesso femminile). Le metastasi possono coinvolgere sia il parenchima cerebrale
che le meningi, sia cerebrali che spinali, e le localizzazioni sono spesso multiple. La diffusione al SNC
avviene solitamente per via ematogena.
Per risalire all’origine della lesione si può ricorrere all’immunoistochimica, ad esempio, gli adenocarcinomi
polmonari sono TTF-1+ e CK7+.

Nelle immagini in basso si osserva la presentazione di un melanoma metastatico, che si localizza


tipicamente al confine tra corteccia e sostanza bianca, ma anche a livello di nucleo caudato e putamen.
Istologicamente il melanoma si presenta come una lesione epitelioide o fusocellulare, spesso emorragica,
vista la tendenza della neoplasia ad invadere i vasi circostanti.

NEOPLASIE PRIMITIVE

Le neoplasie primitive del cervello possono essere definite in base a:


- Sede
o Intracranica
▪ Sopratentoriale → frontale, temporale, parietale, occipitale, ecc.
▪ Infratentoriale → cervelletto, tronco encefalico, angolo cerebello-pontino, forame
magno
o Spinale
o Extradurale
- Tipo di cellula
o Neuroni
o Glia (90% dei tumori primitivi) → astrociti, oligodendrociti, cellule ependimali
o Microglia
- Comportamento biologico
o Tumori benigni (a seconda della localizzazione possono essere fatali)
o Tumori maligni

Le ultime classificazioni dell’OMS risalgono al 2016 e al 2021. La classificazione del 2016 presenta diverse
differenze da quelle precedenti, infatti, oltre alla diagnosi istologica, immunoistochimica e da imaging,
prede in considerazione anche al diagnosi molecolare.
Nella classificazione del 2021 si ha anche una integrazione di dati clinici, radiologici, morfologici,
immunoistochimici, genetici ed epigenetici; inoltre, la classificazione del glioma diffuso di tipo adulto è
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stata notevolmente semplificata e da 19 sottotipi si è passati a 3. I gliomi diffusi di tipo adulto e di tipo
pediatrico sono stati distinti ed è stata presa in considerazione una ulteriore fascia d’età, quella che va dai
15 ai 39 anni.

Le neoplasie primitive sono suddivisibili per fascia d’età:


- Tumori di tipo adulto (più frequenti in pazienti con più di 39 anni)
o Intraparenchimali/intrassiali
▪ Glioblastoma IDH-wildtype
▪ Astrocitoma IDH-mutato
▪ Oligodendrioma IDH-mutato e codeleto 1p/19q
Questi tumori sono di natura gliale e hanno un comportamento diffusamente infiltrante,
infatti, all’imaging si presentano con sostanza bianca che infiltra la corteccia.
Secondo le alterazioni molecolari presenti i gliomi possono essere classificati in tumori IDH-
wildtype e tumori IDH-mutati. All’interno della categoria dei tumori IDH-mutati una
alterazione chiave è la codelezione 1p/19q.
o Extra-assiali
▪ Meningioma
- Tumori di tipo pediatrico
o Intraperenchimali/intrassiali
▪ Derivazione gliale
• Astrocitoma pilocitico
• Ependimoma (frequentemente in fossa cranica posteriore)
Questi tumori sono generalmente circoscritti, non invasivi.
▪ Derivazione embrionale
• Medulloblastoma (frequentemente in fossa cranica posteriore)
Sono tumori di alto grado.
Ciascuna di queste lesioni ha caratteristiche morfologiche, immunoistochimiche e molecolari precise.
Questa classificazione non è da intendersi in senso stretto, infatti è una generalizzazione statistica, quindi i
bambini, ad esempio, non sono soggetti solo ai tumori di tipo pediatrico.
Esiste poi la fascia AYA, adolescent young adults, che comprende soggetti tra i 15 e i 39 anni, nella quale si
ha l’intersezione delle due classi tumorali.

La diagnosi dei tumori è stratificata:


- Diagnosi integrata, che include tutti gli aspetti della diagnosi dei tessuti
- Diagnosi istologica
- Grado WHO, istologico
- Informazioni molecolari
La diagnosi definitiva è quindi data dalla integrazione tra la diagnosi morfologica e la diagnosi molecolare.

Marcatori molecolari

Le mutazioni geniche sono importanti sia dal punto di vista della trasformazione neoplastica sia dal punto di
vista della progressione della malattia.
Molto importanti sono i geni IDH1 e IDH2, che fanno parte della famiglia della Isocitrato Deidrogenasi e
sono coinvolti nel processo di maturazione cerebrale a livello frontale e temporale. Queste alterazioni
rappresentano alterazioni driver, quindi alterazioni precoci, coinvolte nella genesi dei gliomi.
La mutazione di IDH si associa ad una iperproduzione di idrossiglutaraldeide, che conferisce al paziente il
cosiddetto fenotipo ipermetilato: questo fenotipo conferisce una maggior responsività alla terapia e una
miglior sopravvivenza rispetto al genotipo IDH-wildtype.
Anche la codelezione 1p/19q, ovvero la contemporanea delezione del braccio corto del cromosoma 1 e del
braccio lungo del cromosoma 19, ha impatto prognostico positivo e identifica l’olidendroglioma. Nella
valutazione della codelezione 1p/19q risulta più preciso il microarray rispetto alla FISH.

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Altre mutazioni degne di nota riguardano l’allungamento dei telomeri, in particolare a carico del gene TERT
e del gene ATRX.
Il gene TERT presenta solitamente mutazioni a carico del promotore che lo attivano e comportano quindi
una perenne attivazione delle telomerasi; l’associazione della mutazione di TERT con la mutazione di IDH e
la codelezione 1p/19q è un fattore prognostico positivo.
La mutazione di ARTX comporta l’inattivazione della proteina codificata dal gene e l’attivazione delle via
telomerasica alternativa; queste mutazione rappresenta un fattore prognostico negativo.
Per quanto riguarda gli olidendrogliomi la prognosi migliore si ha nel caso dei quadrupli positivi:
mutazione di IDH, codelezione 1p/19q, mutazione di TERT e assenza di mutazione di ARTX.

Gliomi diffusi

Il termine diffuso si usa per distinguere queste lesioni dalle lesioni gliali circoscritte. Queste neoplasie
originano dalla sostanza bianca, per poi estendersi e infiltrare la corteccia.
Istologicamente si osservano:
- Atipia nucleare
- Cellularità variabile: lesione ipocellulata, lesione mediamente cellulata o lesione ipercellulata
- Mitosi
- Possibile infiltrazione vascolare, solitamente nelle lesioni di alto grado
- Possibile necrosi

Il grado di queste lesioni va da 2 a 4:


- Gli astrocitomi IDH-mutati possono essere di grado 2, 3 o 4
- Gli oligodendriomi IDH-mutati 1p/19q codeleti sono di grado 2 o 3
Il grado istologico è correlato alla sopravvivenza solo nelle lesioni IDH-mutate.

L’individuazione della mutazione di IDH, ovvero della isocitrato deidrogenasi, diviene quindi fondamentale.
Nel 95% dei casi si ha mutazione a livello del gene IDH1, individuabile tramite un anticorpi specifico; se il
test specifico con anticorpi è negativo è necessario comunque procedere con sequenziamento genico,
poiché in una minoranza dei casi può esservi mutazione di IDH2.
La mutazione di IDH conduce ad una disregolazione del profilo di espressione genica ed epigenetica, a
causa di un aumentato tasso di metilazione del DNA. La mutazione di IDH comporta quindi una miglior
risposta alla terapia e una migliore sopravvivenza.
Anche la codelezione 1p/19q correla con una migliore sopravvivenza; la presenza di tale codelezione può
essere osservata con FISH o Chromosomal Microarray.
La presenza della mutazione di IDH e la presenza della codelezione 1p/19q sono fattori prognostici positivi,
in particolare i pazienti con entrambe le mutazioni hanno una sopravvivenza più lunga rispetto ai pazienti
con solo una delle due alterazioni o nessuna alterazione.

I gliomi, il gruppo più comune di tumori


cerebrali primitivi, comprendono gli
astrocitomi, gli oligodendrogliomi e gli
ependimomi. Questi tipi di tumore
presentano caratteristiche istologiche
tipiche. Non si ritiene più che questi tumori
derivino dalle corrispettive cellule mature
specifiche (astrociti, oligodendrociti e cellule
ependimali), ma piuttosto che abbiano
origine da una cellula progenitrice che si
differenzia preferibilmente lungo una delle
linee cellulari.

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GLIOBLASTOMA/ASTROCITOMA IDH-WILDTYPE WHO GRADO 4

Un tempo il glioblastoma IDH-wildtype era erroneamente definito glioblastoma multiforme, dal momento
che si presentava con molteplici manifestazioni morfologiche.
Attualmente quando si parla di glioblastoma wildetype si indica una neoplasia morfologicamente di alto
grado o una neoplasia con caratteristiche morfologiche di basso grado che molecolarmente si comporta
come una neoplasia di alto grado. La sopravvivenza è tra i 3 ai 18 mesi.
Si tratta di un glioma diffuso dell’adulto, IDH1 e IDH2 negativo, sia a livello molecolare che
immunoistochimico. È il tumore astrocitario più frequente negli adulti e rappresenta il 90% dei
glioblastomi; insorge mediamente intorno ai 62 anni, ma può colpire qualsiasi fascia d’età, inclusa quella
pediatrica.
Solitamente origina de novo, senza una storia di precedente tumore di grado inferiore. Ha una rapida
evoluzione e diviene sintomatico in 2-3 mesi; si localizza soprattutto a livello di lobo temporale e frontale.

Le caratteristiche morfologiche includono:


- Atipia nucleare
- Pleiomorfismo cellulare
- Attività mitotica elevata (ki67 > 5%)
- Pattern di crescita diffuso/infiltrante
- Poliferazione microvascolare e/o necrosi a palizzata

Per quanto riguarda le alterazioni molecolari non si hanno mutazioni di IDH1 e IDH2, con effetto
prognostico negativo, ma si possono avere mutazioni di TERT (70%), amplificazioni di EGFR (35%),
mutazioni di TP53 (30%) e mutazioni di PTEN (25%).
L’analisi molecolare è fondamentale per comprende la reale aggressività del tumore, in particolare, oltre a
mutazioni di TERT e amplificazione di EGFR, si possono avere perdita cromosomica, generalmente perdita
del cromosoma 10, e aggiunta cromosomica, generalmente del cromosoma 7. Spesso l’acquisizione del
cromosoma 7 e la perdita del cromosoma 10 sono accoppiate.

All’imaging si presenta come una lesione ad anello: si ha un incremento


dell’assunzione di mezzo di contrasto nella periferia della lesione e edema
ipoecogeno all’interno.
Macroscopicamente la neoplasia risulta rossa in quanto riccamente
vascolarizzata.
Nel 3% dei casi si ha una manifestazione multifocale che entra in diagnosi
differenziale con metastasi e ascessi.
Nelle fasi inziali la neoplasia si presenta all’imaging come una lesione
gliale di basso grado e successivamente evolve in una forma morfologicamente di alto grado, ma è bene
sottolineare che tale tumore è fin dal principio molecolarmente di alto grado, aggressivo.

Istologicamente nel glioblastoma wildtype


sono visibili:
- Cellule mitoticamente attive
- Proliferazione microvascolare con
vada ad endotelio alto
- Aree necrotiche con cellule
neoplastiche circostanti disposte a
palizzata

Dal punto di vista immunoistochimico il


glioblastoma wildtype esprime marcatori gliali, come:
- Proteina GFAP, ovvero la proteina fibrillare acida della glia, che è un marcatore citoplasmatico

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- Olig2, marcatore nucleare indicativo di differenziamento in senso gliale
Inoltre, IDH1 non è mutato e nemmeno ATRX generalmente è mutato.

Il glioma astrocitario diffuso wildtype presenta quindi: proliferazione microvascolare, necrosi, mutazione
del promotore di TERT, amplificazione del gene EGFR e modifiche del numero di copie cromosomiche.
Le prime due caratteristiche, quindi necrosi e proliferazione microvascolare, possono essere assenti,
suggerendo un basso grado tumorale, mentre le altre caratteristiche sono presenti fin dall’esordio,
evidenziando la reale malignità del glioma.
È molto importante tenere a mente che il glioblastoma IDH-wildtype può manifestarsi come un tumore ad
alto grado morfologico o come un tumore a basso grado morfologico, ma è sempre maligno dal punto di
vista molecolare.
Il trattamento prevede chemioterapia e radioterapia concomitanti.

ASTROCITOMI IDH-MUTATI

Sono i secondi gliomi per frequenza e colpiscono soprattutto i giovani adulti, tra i 20 e i 39 anni.
Si localizzano soprattutto in sede sopratentoriale, in particolare nel lobo temporale e frontale.
In base alle alterazioni molecolari vengono classificati in astrocitoma IDH-mutato di grado 2, astrocitoma
IDH-mutato di grado 3 e astrocitoma IDH-mutato di grado 4, quest’ultimo rappresenta il vecchio
glioblastoma IDH-mutato di grado 4 che nella nuova classificazione non esiste più.
Sono tumori generalmente fatali in poco tempo: le neoplasie di grado 3 vengono trattate con chirurgia e
successivamente radio- e chemio-terapia, mentre le neoplasie di grado 4 vengono trattate con radioterapia
e chemioterapia contemporanee.
Dal punto di vista molecolare queste neoplasie presentano mutazione di IDH, nel 95% dei casi risulta
mutato IDH1, mentre la mutazione di IDH2 è nettamente più rara; inoltre, presentano perdita di ATRX,
iperespressione di p53, mentre la codelezione 1p/19q è assente.

Astrocitoma IDH-mutato di grado 2

Il cut-off tra grado 2 e grado 3 è ancora oggi piuttosto dibattuto; convenzionalmente l’OMS definisce un
astrocitoma IDH-mutato di grado 2 in caso di:
- Assenza o scarsissima presenza di mitosi (ma non è indicato un cut-off numerico)
- Assenza di necrosi e proliferazione vascolare
- Assenza di presa di contrasto alla risonanza
Sia il grado 2 che il grado 3 tendono a progredire verso un grado superiore nel tempo.

La lesione gliale infiltra la corteccia, sia


macroscopicamente che microscopicamente;
se si usa una colorazione che colora in blu la
mielina e in rosa la corteccia si vede che la
neoplasia determina un’area sottocorticale
demielinizzata, quindi rosa (immagine a lato).

Microscopicamente l’astrocitoma IDH-mutato


di grado 2 si caratterizza per:
- Bassa cellularità, ma le cellule risultano comunque più
numerose rispetto al tessuto sano
- Atipia nucleare moderata, non spiccata
- Mitosi assenti o rare
- Basso indice proliferativo (ki67 < 4%)
- Vasi sottili
- Assenza di necrosi

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Va tenuto presente che l’indice di proliferazione e il numero di mitosi danno informazioni diverse: il
numero di mitosi permette di comprendere quanto il tumore stia proliferando in quel momento, mentre la
valutazione del ki67 permette di capire quante cellule siano nel ciclo cellulare, ma non permette di definire
se esse sono andate incontro a divisione cellulare in precedenza, siano in divisione al momento della
valutazione o si divideranno a breve. Se il numero di mitosi è elevato il tumore è molto aggressivo e
prolifera velocemente già nel momento dell’osservazione, mentre se è elevato il ki67 il tumore ha
potenzialità proliferativa elevata. Dal punto di vista terapeutico un elevato indice mitotico o un elevato ki67
indicano un tumore che risponde meglio alla chemioterapia, rispetto ad un tumore fermo dal punto di vista
del ciclo cellulare.

Vi è una variante particolare, la variante gemistocitica, costituita da cellule con il citoplasma pieno di
proteine acide gliofibrillari; in passato questa variante era considerata più aggressiva.

Dal punto di vista immunoistochimico gli astrocitomi IDH-mutati di basso grado presentano:
- Sostanza fibrillare, tipica delle neoplasie gliali (utile nelle diagnosi differenziali)
- Mutazione di IDH1 R132H
- Mutazione di ATRX, che risulta quindi assente (le cellule positive sono rappresentate dalle cellule
dei vasi)
- Mutazione ed iperespressione di p53

Astrocitoma IDH-mutato di grado 3

Microscopicamente si caratterizza per:


- Cellularità elevata
- Atipia nucleare più evidente, con nuclei ingranditi e vescicolosi
- Frequenti mitosi
- Ki67 > 5% quindi elevato
- Alcuni spot di proliferazione vascolare: si ha un aumento dei vasi che captano il mezzo di
contrasto, ma non sono veri e propri vasi proliferanti
Dal punto di vista immunoistochimico il profilo è identico a quello del grado 2: mutazione IDH R132H, ATRX
mutato, iperespressione di p53.
Sia l’astrocitoma IDH-mutato di grado 2 che quello di grado 3 tendono a progredire verso forme di grado
superiore. La sopravvivenza è di 3-5 anni per il grado 3 e di 10 anni per il grado 2, ovviamente, il dato è
influenzato da età, condizioni generali del paziente e terapia.

Astrocitoma IDH-mutato di grado 4

È una neoplasia infiltrante di alto grado, piuttosto rara; radiologicamente si caratterizza per una maggior
presa del mdc e per dimensioni maggiori rispetto alle lesioni di grado inferiore.
Questo glioma è detto secondario, dal momento che si sviluppa tipicamente da lesioni di grado 2 e 3.

Dal punto di vista istologico le caratteristiche sono:


- Moderata cellularità
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- Atipia nucleare, con nuclei
grandi e nucleoli evidenti
- Mitosi
- Necrosi focale
- Proliferazione
microvascolare: le cellule
endoteliali rigonfie e
glomeruloidi, attive
mitoticamente
Il profilo immunoistochimico è:
- Mutazione di IDH1 o IDH2
- ATRX solitamente assente,
ma talvolta può essere
presente
- P53 iperespressa
- Ki67 < 5%

L’astrocitoma IDH-mutato di grado 4 è caratterizzato dalla delezione in omozigosi di CDKN2A/B, quindi


delle cicline 2A e 2B. Se un astrocitoma IDH-mutato è morfologicamente di grado 2 o 3, ma presenta
delezione in omozigosi di CDKN2A/B viene classificato come grado 4. I pazienti con questa alterazione
vengono trattati con chemioterapia e radioterapia concomitanti nel tentativo di allungare la sopravvivenza.

Differenze tra astrocitoma di grado 4 wildtype e astrocitoma di grado 4 IDH-mutato (frequente domanda
d’esame)

Metilazione del promotore di MGMT (O6-methylguanine-DNA methyltransferase)

La metilazione del promotore di MGMT è un importante fattore prognostico, soprattutto nel glioblastoma
IDH-wildtype, in quanto rappresenta un marker predittivo della risposta della neoplasia alla terapia con
agenti alchilanti, come il temozolomide, TMZ.

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L’MGMT è un enzima che ripara i danni al genoma causati da agenti alchilanti: il silenziamento di MGMT,
dovuto alla metilazione del promotore, è associato ad una maggiore sopravvivenza nei pazienti trattati
con TMZ e concomitante radioterapia.
I pazienti sono definiti good-responders se presentano almeno il 20% dei promotori MGMT metilati,
altrimenti sono poor-responders e la terapia risulta inefficace. Bisogna tenere presente che la metilazione
nel tempo si perde, pertanto tutti tendono a diventare poor-responders, con conseguente riduzione della
sopravvivenza.
La sopravvivenza dei pazienti che presentano la metilazione è di 18-36 mesi, mentre la sopravvivenza di
coloro che non presentano la metilazione è di 12-18 mesi.

Gliomatosis cerebri

È una sindrome clinica più che una entità istologica: si tratta di un glioma diffuso con coinvolgimento
parenchimale di almeno tre lobi cerebrali. In questo caso spesso il glioma è istologicamente di basso grado
con IDH-wildtype; purtroppo non è possibile eseguire resezione chirurgica. Si tratta di un modello di
crescita, non di una specifica entità, e la diagnosi è solitamente radiologica e la biopsia viene eseguita nella
regione a maggior assorbimento di contrasto, in modo da essere sicuri di valutare la zona maggiormente
aggressiva.

OLIGODENDROGLIOMA IDH-MUTATO E CODELETO 1P/19Q

L’oligodendroglioma IDH-mutato e codeleto 1p/19q è un glioma diffuso infiltrante con mutazione di IDH1
o IDH2 che presenta la codelezione 1p/19q. Solitamente questi tumori interessano gli adulti e si
localizzano soprattutto a livello di lobo frontale.
La neoplasia è costituita da cellule che somigliano morfologicamente agli oligodendrociti, con nuclei
rotondi uniformi e citoplasma chiaro, che forma un alone chiaro perinucleare.
Di questa neoplasia si distinguono due gradi:
- Grado 2 WHO → bassa attività mitotica, assenza di necrosi, assenza di proliferazione
microvascolare
- Grado 3 WHO → attività mitotica elevata (più di 6 mitosi su 10 campi ad alto ingrandimento),
proliferazione microvascolare e/o necrosi
Questi tumori alla TC si caratterizzano per la presenza di lesioni
microcistiche calcifiche; solitamente queste lesioni non prendono il
contrasto, quindi sono di grado 2.

Dal punto di vista istologico la neoplasia si caratterizza per:


- Cellule simili agli oligodendrociti
- Satellitosi oligodendrogliale perineuronale e perivascolare
- Aggregazione subpiale, con cellule olidendrogliali che si
accumulano sotto la pia madre
- Microcalcificazioni
- Stroma fibrillare

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L’oligodendroglioma IDH-mutato e codeleto 1p/19q di grado 3 si presenta spesso come una lesione con
microcalficazioni e microscopicamente presenta numerose mitosi, proliferazione vascolare, mutazione di
IDH, codelezione 1p/19q e ATRX conservato. La sopravvivenza mediana, con adeguata resezione,
radioterapia e chemioterapia, è di 14 anni.
L’oligodendroglioma IDH-mutato e codeleto 1p/19q di grado 2 ha una crescita lenta, ma spesso revidiva
localmente, in lesioni di grado maggiore; la sopravvivenza a 10 anni è del 60%.

ASTROCITOMA PILOCITICO

L’astrocitoma pilocitico, o CNS WHO


GRADO 1, è il prototipo dei gliomi di tipo
pediatrico, anche se può presentarsi a
qualsiasi età. Tendenzialmente è una
neoplasia circoscritta e si presenta come
una lesione cistica contenente un nodulo
murale, ma in alcuni casi può divenire
infiltrante. La lesione nodulare appare
captante, essendo ricca di vasi proliferanti.
Tipicamente insorge nella zona
sottotentoriale, in particolare nel
cervelletto; localizzazioni frequenti nei
bambini sono anche a livello ipotalamico e nel chiasma ottico. I pazienti con neurofibromatosi di tipo 1,
NF1, sviluppano la neoplasia lungo le vie ottiche.

Istologicamente l’astrocitoma pilocitico è


caratterizzato da un pattern di crescita
bifasico: cellule bipolari e fibre di Rosenthal,
alternate ad aree con stroma mixoide,
cellule multipolari, microcisti e corpi
granulari eosinofili; è presente il tipico
aspetto fibrillare e le cellule hanno un
aspetto piloide, con nuclei leggermente
allungati. Vi sono aree microcistiche più
chiare, mentre necrosi e mitosi sono assenti.
Caratteristici sono le fibre di Rosenthal,
eosinofile, e i corpi granulari eosinofili.

Dal punto di vista molecolare l’astrocitoma pilocitico è caratterizzato dall’alterazione delle vie delle MAPK:
- Astrocitoma pilocitico cerebellare/sottentoriale → gene di fusione BRAF-KIA; in questo caso
l’operazione chirurgica radicale garantisce una buona sopravvivenza, anche se la neoplasia può
recidivare
- Astrocitoma pilocitico sovratentoriale (ipotalamico) → mutazione del gene BRAF I600E; in questo
caso esiste una terapia target specifica che porta a regressione della neoplasia, mentre la resezione
chirurgica non è possibile

Si tratta quindi di una neoplasia gliale di basso grado e lenta crescita; la prognosi risulta favorevole,
soprattuto nei tumori che possono essere rimossi chirurgicamente, dove la sopravvivenza a 10 anni supera
il 95%, anche se sono possibili recidive.

EPENDIMOMA

È un glioma di tipo pediatrico circoscritto.

588
L’ependimoma è costituito da cellule piccole, monomorfe, uniformi immerse in uno stroma fibrillare a
formare rosette ependimali o pseudo-rosette perivascolari.
Si distinguono due gradi:
- Grado 2: forma classica di basso grado
- Grado 3: forma istologicamente anaplastica
In genere sono tumori della fossa cranica posteriore, in particolare del quarto ventricolo; raramente, e
soprattutto negli adulti, si localizzano a livello sopra-tentoriale. Nei pazienti affetti da neurofibromatosi di
tipo 2 si può localizzare a livello spinale, con prognosi infausta. L’ependimoma mixo-capillare si localizza a
livello di cauda equina o filum terminale.

Le cellule dell’ependimoma si comportano


similmente alle cellule ependimali e quando
proliferano formano una sorta di canale
ependimale.
Le cellule risultano GFAP+.

Gli ependimomi della fossa cranica posteriore si


dividono in:
- Gruppo A → tumori caratterizzati dalla perdita dell’istone pre-metilato e sono tutti di alto grado,
particolarmente aggressivi nei bambini con meno di 3 anni; colpiscono soprattutto i maschi.
Sono caratterizzati da:
o Alcune mitosi
o Positività per GFAP a livello dei processi fibrillari
o Negatività per Olig2
o Ki67 elevato
o Perdita dell’istone

- Gruppo B → non presentano mutazione, colpiscono i giovani adulti, intorno ai 15-20 anni, senza
differenze tra i due sessi. Sono caratterizzati da:
o Pseudorosette perivascolari
o Positività per GFAP
o Negatività per Olig2
o Istoni conservati

La prognosi è influenzata da:


- Età → prognosi peggiore nei bambini
con meno di 3 anni
- Chirurgia → prognosi migliore se
l’intervento è radicale
- Sede → prognosi peggiore se la neoplasia è localizzata in fossa cranica posteriore o nel IV
ventricolo

589
TUMORI EMBRIONALI – MEDULLOBLASTOMA

Tutti i tumori embrionali sono di grado 4; viene trattato solo il medulloblastoma, che è il tumore
embrionale più comune; in particolare, rappresenta il tumore maligno del SNC più comune durante
l’infanzia (incidenza di 1,8/milione).
Il medulloblastoma interessa soprattutto pazienti pediatrici, adolescenti e giovani adulti, con una
prevalenza nella fascia 0-9 anni e nel sesso maschile. Solitamente la neoplasia risponde bene alla terapia, a
meno che non vi sia una diffusione liquorale. Il medulloblastoma risponde quindi bene a chemio- e radio-
terapia, ma queste hanno conseguenze importanti sul paziente, che solitamente è pediatrico, e
comportano alterazioni cognitive importanti.
La sede di insorgenza è tipicamente rappresentata dal cervelletto, ma la
variante con la via di WNT attiva può insorgere nel diencefalo. All’imaging
appare come una lesione solido-cistica bianca, che cattura bene il mezzo di
contrasto (la parte cistica è minima, a differenza di quanto avviene
nell’astrocitoma pilocitico). Dal punto di vista radiologico è importante la
diagnosi differenziale con l’ependimoma dal momento che le due neoplasie
richiedono strategie terapeutiche diverse: nell’ependimoma è per forza
necessaria una chirurgia radicale, mentre nel medulloblastoma si può
intervenire con chirurgia non risolutiva seguita da chemio/radioterapia a
seconda del sottotipo istologico. Talvolta, si osserva la presa di contrasto anche
a livello di midollo spinale e ciò indica una diffusione neoplastica a questo
livello.
Istologicamente si distinguono infatti diverse forme di medulloblastoma, con diversa aggressività, pertanto
la diagnosi morfologica e molecolare è importante per la prognosi.

Classificazione istologica

Medulloblastoma classico (75%)


Si hanno cellule rotonde-ovali, abbastanza monomorfe, con nucleo
evidente che si dispongono intorno al neuropilo circostante,
formando le rosette di Homer-Wright o rosette neuroblastiche
(immagine a lato).
Vi sono anche varianti con crescita più diffusa delle cellule e rosette
neuroblastiche piccole e meno evidenti; talvolta, si ha un aspetto
più amorfo, con cellule grandi e atipiche.

Medulloblastoma a crescita nodulare (20%)


Si osservano noduli, simili a centri germinativi linfonodali, con una vasta popolazione cellulare alla periferia.
Quando i noduli sono prominenti arrivano a fondersi tra loro e si parla di medulloblastoma a noduli
prominenti. La forma medulloblastoma desmoplastico nodulare presenta uno stroma internodulare ricco di
fibrosi.

Medulloblastoma anaplastico/a grandi cellule (5%)


Le cellule risultano quasi interamente occupate dal nucleo; si tratta dell’istotipo più aggressivo.

Classificazione molecolare

Si hanno quattro tipi principali di medulloblastoma dal punto di vista molecolare:


- WNT-attivati
È il sottogruppo a prognosi migliore, ma anche il più raro. Si tratta di neoplasie che si presentano in
bambini di 7-12 anni o nei giovani adulti, mai negli infanti, con uguale incidenza nei due sessi.
Morfologicamente sono solitamente tumori della forma “medulloblastoma classico”.

590
L’attivazione del WNT è associata alla β-catenina e ciò è importante poiché per la diagnosi di
questo sottogruppo non è necessario il sequenziamento molecolare, ma si può sfruttare
l’immunoistochimica con anticorpo diretto contro la β-catenina: in condizioni fisiologiche si ha una
colorazione citoplasmatica, mentre quando è attivata la via di WNT si ha colorazione nucleare.
- SHH-attivati, ulteriormente classificati in p53-mutati e p53-non mutati.
Il sottogruppo con la via di Sonic HedgeHog attivata è solitamente p53-mutato negli infanti e p53-
non mutato nei giovani adulti. Ciò è importante perché la mutazione di p53 è spesso una mutazione
germinale, non somatica, associata alla sindrome di Li Fraumeni.
Morfologicamente questi tumori sono solitamente classici o nodulari, raramente anaplastici.
Questo sottogruppo raramente dà metastasi e la prognosi varia in base all’età: i bambini
rispondono molto bene alla chemioterapia, i giovani adulti meno.
- Gruppo 3
Interessa soprattutto infanti e bambini, in particolare maschi. Morfologicamente sono solitamente
medulloblastomi classici, più raramente anaplastici. Spesso metastatizzano (metastasi già al
momento della diagnosi) e sono le forme con prognosi peggiore. Spesso presentano amplificazione
di MYC.
- Gruppo 4
Colpisce infanti e giovani adulti, soprattutto maschi. Solitamente si tratta di medulloblastomi con
morfologia classica e spesso danno metastasi; la prognosi è intermedia.
Possono presentare amplificazione di MYCN e CDK6.

Immunoistochimica

Il medulloblastoma è un tumore GFAP-negativo, o comunque con GFAP poco espresso, ma fortemente


positivo alla sinaptofisina, marker d’eccellenza per questo tumore embrionale con aspetto
neuroendocrino.
Esistono quattro marcatori istochimici molto importanti in questa neoplasia, GAB1, YAP, β-catenina e p53,
dal momento che essi rappresentano i corrispettivi dei vari sottogruppi molecolari.
Se la colorazione per la β-catenina presenta un pattern nucleare si ha medulloblastoma con WNT attivato.
La positività a YAP e GAB1 è invece suggestiva di medulloblastoma SHH attivato; nelle forme SHH-attivate
si procede anche con analisi immunoistochimica per valutare la mutazione di p53 e l’amplificazione di
MYCN.
La negatività a β-catenina, GAB1 e YAP indirizza verso un medulloblastoma del gruppo 3, che può avere
amplificazione di MYC.
La colorazione per il reticolo permette di evidenziare la fibrosi internodulare nel medulloblastoma
desmoplastico nodulare.

591
Prognosi

La sopravvivenza dipende dal rischio del paziente:


- Rischio standard → paziente con più di 3 anni, senza metastasi e con malattia residua minima o
assente. La sopravvivenza a 5 anni in questo caso è del 70%.
- Rischio alto → bambino con meno di 3 anni, resezione chirurgica subtotale e/o metastasi. In
questo caso la sopravvivenza a 5 anni è del 40%.

MENINGIOMI

I meningiomi sono tumori prevalentemente benigni degli adulti e sono spesso di grado 1. Rappresentano il
35,5% di tutti i tumori intracranici.
Originano dalle cellule meningoteliali dell’aracnoide, pertanto morfologicamente sono simili alle cellule
meningee, e risultano spesso adesi alla dura madre.
Si tratta quindi di masse intracraniche ed extra-assiali che colpiscono la popolazione adulta, con un picco di
incidenza tra i 50 e i 60 anni e una moderata prevalenza nel sesso femminile.

592
Possono coinvolgere qualsiasi punto delle meningi; risultano particolarmente difficili da rimuovere, e quindi
maggiormente associati a recidive, quelli localizzati alla base del cranio.
Macroscopicamente si presentano come masse adese alla dura madre, spesso con calcificazioni all’interno;
la sintomatologia deriva dalla compressione delle circonvoluzioni cerebrali. L’infiltrazione cerebrale è rara e
indicativa di meningioma di grado superiore.
Al meningioma spesso si associa una iperostosi reattiva, che non aumenta il grado del meningioma spesso
e che se possibile viene resecata.

Classificazione

Si distinguono tre gradi di meningioma:


- Grado 1 – meningioma classico
Il meningioma meningoteliale è caratterizzato dalla presenza di cellule monomorfe, con citoplasma
che si fonde tra l’una e l’altra; i nuclei sono uguali a quelli del carcinoma papillifero della tiroide con
aspetto chiaro e cromatina dispersa. Solitamente non ci sono mitosi né necrosi.
Possono anche esservi delle varianti:
o Fibrosa, con cellule allungate e abbondante collagene tra esse
o Psammomatosa, con numerosi corpi psammomatosi
o Transizionale, con caratteristiche sinciziali e fibroblastiche
o Angiomatosa, ricca di vasi (diagnosi differenziale con lesioni vascolari)
o Microcistica (diagnosi differenziale con lesioni gliali di basso grado)
o Secretoria, con lumi pseudo-secretivi (diagnosi differenziali con metastasi)
o Linfoplastica, ricca di linfociti e plasmacelule

- Grado 2 – meningioma atipico


La transizione da meningioma classico a meningioma atipico è definita da:
o Aumento dell’attività mitotica (≥ 4 mitosi per 10 campi ad alta potenza)
o Oppure invasione parenchimale cerebrale
o Oppure tre o più delle seguenti caratteristiche
▪ Aumento della cellularità
▪ Piccole cellule con elevato rapporto nucleo/citoplasma
▪ Nucleoli prominenti
▪ Crescita pattern-loss e sheet-like
▪ Necrosi, spontanea o geografica
- Grado 3 – Meningioma anaplastico
Tumore altamente aggressivo con aspetto di sarcoma di alto grado, ma con alcune evidenze
istologiche di derivazione meningoteliale. Si definisce meningioma anaplastico se:
o ≥ 20 mitosi per 10 campi ad alto ingrandimento
o e/o citologia maligna

593
MALATTIE DELLA SOSTANZA BIANCA

La guaina mielinica è prodotta dagli oligodendrociti e rappresenta il rivestimento degli assoni e delle fibre
nervose; essa consente una miglior trasmissione degli impulsi nervosi ed è costituita da almeno 10
sostanze chimiche differenti. Le glicoproteine associate alla mielina sono la glicoproteina basica della
mielina, MBP, proteolipide, PLP, glicoproteine associate alle mielina, MAG, e la glicoproteina
oligodendrocita mielinica, MOG.
Le malattie della sostanza bianca sono:
- Malattie demielinizzanti → malattie acquisite caratterizzate dalla distruzione della mielina
normalmente formata; in questo gruppo rientrano sclerosi multipla, neuromielite ottica,
leucoencefalopatia multifocale progressiva.
- Malattie dismielinizzanti (leucodistrofia) → forme congenite in cui si ha una anomala produzione
di mielina.
Le leucodistrofie sono delle patologie dismielinizzanti caratterizzate da un difetto genetico o
congenito che coinvolge geni deputati alla produzione, ricambio o conservazione della mielina;
trattasi solitamente di mutazioni puntiformi del gene o comunque alterazioni genetiche specifiche.
Essendo malattie genetiche si manifestano nei neonati o nei bambini con perdita progressiva del
tono muscolare, riduzione dei movimenti, disartria, riduzione della capacità masticatoria, ritardo
dello sviluppo mentale, ecc.
Esistono diversi tipi di leucodistrofie, ognuno dei quali ha il suo quadro clinico specifico.
Non è disponibile una terapia curativa, ma solo trattamenti sintomatici e di supporto; in alcuni casi
si esegue un trapianto di midollo osseo.
La malattia di Krabbe è una leucodistrofia autosomica recessiva causata dal deficit dell’enzima
galattocerebroside-β-galattosidasi (galattosilceramidasi) necessario per il catabolismo del
galattocerebroside in ceramide e galattosio. In conseguenza della compromissione del catabolismo
del galattocerebroside nel cervello, una via catabolica alternativa converte il galattocerebroside in
galattosilsfingosina, che risulta citotossica quando presente a livelli elevati.
La leucodistrofia metacromatica è una patologia autosomica recessiva che deriva da un deficit
dell’enzima lisosomiale arilsulfatasi A. Tale deficit enzimatico conduce, quindi, ad accumulo dei
solfatidi, soprattutto di cerebroside solfato. Questi solfatidi possiedono una gamma di azioni
biologiche che possono contribuire a ledere la sostanza bianca.
Questi sono solo due esempi di leucodistrofia, ne esistono diversi tipi.

SCLEROSI MULTIPLA

La sclerosi multipla è una malattia autoimmune caratterizzata dalla presenza di autoanticorpi diretti
contro le proteine della guaina mielinica, in particolare MOG e MAG; questa malattia si caratterizza per la
presenza di episodi distinti di deficit neurologici, separati nel tempo, dovuti a lesioni focali della sostanza
bianca. L’attacco autoimmune interessa solo la guina mielinica, la fibra rimane intatta.
La sclerosi multipla è la più comune malattia demielinizzante e ha una prevalenza di 1/1000 individui; è più
diffusa in Nord America, Nord Europa e Russia e l’età d’esordio è 30-35 anni, ma la fascia d’età più colpita è
quella dai 45 ai 64 anni.
Tra i fattori di rischio rientrano fattori genetici, in particolare l’aplotipo HLA-DR2, e fattori ambientali, come
le infezioni virali. Si tratta infatti di una patologia autoimmune diretta contro le componenti della mielina, in
cui sono coinvolti i linfociti Th1 e Th17, che rilasciano citochine e reclutano leucociti, in particolare linfociti e
macrofagi, responsabili poi dell’azione lesiva. I livelli di IgG nel liquor sono aumentati e
all’immunoelettroforesi si possono osservare bande oligoclonali di IgG.
Si distinguono due forme rare:
- Forma acuta, detta malattia di Marburg, che si manifesta con una lesione a placca molto grando
formante massa a livello cerebrale
- Forma concentrica, detta malattia di Balo

594
Morfologia

A fresco le lesioni hanno una consistenza più solida rispetto alla sostanza bianca circostante (sclerosi) e
appaiono come placche di forma irregolare, ma ben circoscritte, di aspetto vitreo e grigiastro.
In ambito radiologico la diagnosi differenziale è con l’ascesso, quando si ha una placca unica, e con le
metastasi o il linfoma, in caso di placche multiple.
Le colorazioni maggiormente usate per identificare le placche sono:
- LFB/PAS: colorazione tipica della mielina, colora in blu le aree in cui la mielina è intatta, mentre le
aree in cui la mielina è assente appaiono bianche (LFB sta per luxol fast blue)
- Bielschowsky: colorazione che mette in evidenza nuclei, fibre e assoni; dal momento che l’attacco
autoimmune è diretto contro la guaina mielinica gli assoni sono integri

La placca può essere:

- Attiva → il calibro degli assoni è mantenuto,


sono presenti linfociti, microglia attivata con
funzione fagocitica (macrofagi) e astrociti rettivi.
All’interno dei macrofagi è possibile apprezzare,
con la colorazione LFB, dei punti azzurri all’intero
del citoplasma dei macrofagi, che rappresentano
la mielina fagocitata. I macrofagi possono essere
evidenziati con la colorazione KP1 ed essi sono
maggiormente presenti nell’area demielinizzata.

- Inattiva → gli assoni sono assottigliati ma integri, la microglia è


inattiva, i linfociti sono pochi
Nella placca attiva quindi si ha ipercellularità, mentre nella placca
inattiva si ha ipocellularità.
Si possono avere anche “placche ombra” in cui il confine tra sostanza
bianca normale e patologica non è così netto.

Clinica e diagnosi

Clinicamente la sclerosi multipla può presentare una progressione variabile:


- Andamento ondulante, con remissione e recidive
- Forma secondariamente progressiva: si ah una prima manifestazione, una remissione e un
successivo declino neurologico progressivo
- Forma primariamente progressiva: prima manifestazione che progressivamente peggiora nel
tempo
- Sindrome clinicamente isolata: episodio isolato, con sintomatologia variabile in base all’area
colpita
La localizzazione della placche può essere:
595
- Sopratentoriale → sostanza bianca sottocorticale periventricolare, nervi ottici e corpo calloso
- Infratentoriale → tronco encefalico e cervelletto
- Midollo spinale → tratti di sostanza bianca

La diagnosi si basa su:


- RM di encefalo e midollo spinale
- Esame del liquor
o Livelli di proteine moderatamente
aumentati
o Moderata pleiocitosi (1/3 dei casi)
o Aumento di IgG e l’elettroforesi
mostra bande oligoclonali di IgG
(indicative della presenza di cloni di
linfociti B attivati autoreattivi nel SNC)
- Potenziali evocati visivi, che permettono di studiare la risposta del SN agli stimoli visivi

La terapia cerca di ridurre la progressione della malattia, quindi di inattivare la placca; si basa su cortisonici,
che spengono l’infiammazione, o plasmaferesi, che ripulisce il sangue dagli autoanticorpi.
Attualmente sono commercializzati anche altri farmaci, ad esempio anticorpi monoclonali, ma essi hanno
un importante effetto avverso, la leucoencefalopatia multifocale progressiva, pertanto il loro utilizzo è
limitato.

Demielinizzazione tumefattiva acuta – tipo di Marburg

È una variante rara, ma estremamente severa, della sclerosi multipla.


Alla RM si presenta come una lesione singola con shift della linea mediana e presa di contrasto laterale,
pertanto va in diagnosi differenziale con un glioma. Per la diagnosi è necessaria craniotomia con biopsia e
l’esame istologico evidenzia una placca attiva con mitosi reattive, macrofagi, astrociti e assoni conservati.
La prognosi è pessima, infatti, questa forma porta a morte nel giro di 1-2 anni.

Sclerosi concentrica di Balò

Anche questa è una rara variante di sclerosi multipla; è caratterizzata da lesioni concentriche della
sostanza bianca “ a bulbo di cipolla” e istologicamente si osservano aree concentriche conservate
frammiste ad aree concentriche demielinizzate.

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Neuromielite ottica – NMO

Variante di sclerosi multipla caratterizzata da


contemporanea neurite ottica e demielinizzazione
del midollo spinale. L’incidenza è maggiore nel sesso
femminile.
La patologia colpisce entrambi i nervi ottici, causando
cecità; istologicamente è caratterizzata da lesioni più
distruttive rispetto a quelle della sclerosi multipla
classica, infatti, all’interno della placca sono presenti
aree di necrosi. Oltre alla aree di necrosi si
riscontrano macrofagi, linfociti e granulociti eosinofili; questi ultimi sono esclusivi di questa patologia.
Gli anticorpi maggiormente riscontrati nel siero sono quelli contro l’acquaporina 4.
La terapia punta a ridurre gli autoanticorpi e si basa su plasmaferesi e anticorpi monoclonali anti-CD20.

Leucoencefalite multifocale progressiva – PML

Si tratta di una infiammazione del parenchima cerebrale causata da poliomavirus JC.


L’infezione primaria è asintomatica, ma nei pazienti immunodepressi l’infezione può slatentizzare e dare
leucoencefalite multifocale progressiva. L’immunodepressione può essere causata dal trattamento
corticosteroideo cui sono sottoposti i soggetti con sclerosi multipla.
Il virus JC infetta soprattutto gli oligodendrociti portandoli alla morte e causando demielinizzazione.
La sintomatologia è neurologica focale e progressiva.
Istologicamente si hanno:
- Macrofagi con citoplasma schiumoso
- Assoni dei neuroni intatti
- Cellule atipiche, ovvero gli oligodendrociti contenti il virus al loro interno; queste cellule possono
essere evidenziate anche grazie ad anticorpi marcati diretti contro le proteine del virus
- Cellule multinucleate, ovvero astrociti reattivi all’infezione virale
Per la diagnosi si ricorre anche all’ibridazione in situ che permette di evidenziare il virus all’interno degli
olidogendrociti.

ENCEFALOMIELITE ACUTA DISSEMINATA – Dispensa

È una malattia demielinizzante, monofasica e diffusa, che si presenta in seguito sia a un’infezione virale
sia, raramente, a vaccinazioni virali. I sintomi si manifestano classicamente una settimana o due dopo
l’infezione antecedente e comprendono cefalea, letargia e coma, piuttosto che segni focali come nella SM.
Il decorso clinico è rapido (fulminante) e fino al 20% degli individui colpiti muore, mentre gli altri pazienti
vanno incontro a guarigione completa.

597
All’esame microscopico, la perdita di mielina con relativo risparmio degli assoni è riscontrabile in tutta la
sostanza bianca; è presente un infiltrato infiammatorio che negli stadi precoci della malattia è
caratterizzato da neutrofili, mentre successivamente predomina un infiltrato mononucleato. La distruzione
della mielina è associata ad accumulo di macrofagi carichi di lipidi.

LEUCOENCEFALITE ACUTA EMORRAGICA – Dispensa

Nota anche come leucoencefalite acuta emorragica di Weston Hurst, è una sindrome di demielinizzazione
fulminante del SNC, che colpisce caratteristicamente i giovani adulti e i bambini. È quasi sempre preceduta
da un episodio infettivo delle vie respiratorie superiori; è fatale in molti pazienti e nella maggior parte dei
sopravvissuti sono presenti deficit significativi.
L’encefalomielite acuta necrotizzante emorragica ha un quadro istologico simile a quello
dell’encefalomielite acuta disseminata, compresa una distribuzione perivenulare della demielinizzazione in
tutto il SNC; tuttavia, il danno è più severo e include una distruzione dei piccoli vasi ematici, necrosi diffusa
della sostanza bianca e grigia con emorragia acuta, deposizione di fibrina e abbondanti neutrofili.

MIELINOLISI PONTINA CENTRALE – Dispensa

La mielinolisi pontina centrale è un disturbo acuto caratterizzato da perdita di mielina che interessa le
porzioni basali del ponte e parti del tetto pontino, tipicamente con una disposizione grossolanamente
simmetrica. Insorge frequentemente da 2 a 6 giorni dopo una rapida correzione dell’iponatremia, benché
possa anche associarsi ad altri severi disturbi elettrolitici o squilibri osmolari, e può anche essere nota come
sindrome da demielinizzazione osmotica. Sembra che rapidi aumenti dell’osmolalità danneggino gli
oligodendrociti tramite meccanismi non definiti. L’infiammazione è assente dalle lesioni e i neuroni e gli
assoni non vengono interessati. Sebbene possa interessare più aree del cervello, le regioni periventricolari e
subpiali sono risparmiate ed è estremamente raro che il processo si estenda al di sotto della giunzione
pontobulbare. La presentazione clinica delle lesioni pontine prevede tetraplegia a rapida evoluzione, che
può essere fatale o condurre a gravi deficit duraturi. È essenziale che l’iponatremia venga corretta
gradualmente e con attenzione al fine di prevenire tale tragica complicanza.

MALATTIA DI ALZHEIMER – dispensa

È una malattia neurodegenerativa e rappresenta la principale causa di demenza negli adulti-anziani, con
incidenza che aumenta all’aumentare dell’età. Si hanno sia forme sporadiche che forme familiari.
L’anomalia fondamentale nell’AD è la deposizione di due proteine (Aβ e tau) in regioni cerebrali
specifiche, probabilmente come risultato di una produzione eccessiva e di un difetto di rimozione.

Le due caratteristiche patologiche dell’AD sono le placche e gli ammassi. Le placche sono depositi di peptidi
Aβ aggregati nel neuropilo, mentre gli ammassi sono aggregati di microtubuli legati alla proteina tau, che si
sviluppano a livello intracellulare e persistono poi a livello extracellulare dopo la morte neuronale. Sia le
placche che gli ammassi contribuiscono alla disfunzione neuronale, ma numerose evidenze suggeriscono
che alla base dello sviluppo della malattia vi siano i depositi di peptidi Aβ.
I peptidi Aβ derivano dal clivaggio della proteina APP, proteina precursore dell’amiloide, proteina di
superfice cellulare: questa proteina può essere tagliata dalle α-secretasi (via non amiloidogenica) o dalle β-
secretasi, che portano alla formazione dei peptidi Aβ (via amiloidogenetica); nel processo di clivaggio
intervengono poi anche le γ-secretasi. Una volta generata, Aβ è altamente incline ad aggregarsi, dapprima
sotto forma di piccoli oligomeri e infine in grandi aggregati e fibrille. Vi possono essere mutazioni ereditarie
della proteina APP che inducono la formazione di peptidi Aβ amiloidogenetici.
Tau è una proteina microtubulo-associata presente negli assoni, in associazione al sistema microtubulare.
Con lo sviluppo degli ammassi in corso di AD, la proteina diventa iperfosforilata e perde la capacità di
legarsi ai microtubuli. Il meccanismo del danno da ammassi sui neuroni è ancora poco conosciuto, ma sono
state ipotizzate due possibili modalità. La prima ipotizza che gli aggregati di proteina tau provochino una

598
risposta allo stress e la seconda che vada perduta la funzione stabilizzatrice dei microtubuli propria della
proteina tau.
Gli aggregati di Aβ elicitano una risposta infiammatoria dalla microglia e dagli astrociti; tale risposta
probabilmente è di aiuto nella rimozione degli aggregati peptidici, ma può anche stimolare la secrezione di
mediatori che causano danno.
Vi sono anche fattori di rischio genetici coinvolti nella patogenesi dell’AD: il locus genetico sul cromosoma
19 che codifica per l’apolipoproteina E (ApoE) presenta una forte influenza nel rischio di sviluppare AD.
Esistono tre alleli (ε2, ε3 e ε4): la presenza dell’allele ε4 incrementa il rischio di AD e abbassa l’età di
insorgenza della malattia, al punto tale che gli individui con l’allele ε4 risultano iper-rappresentati nella
popolazione di pazienti con AD. Questa isoforma dell’ApoE, infatti, promuove la formazione e la
deposizione di Aβ, benché i meccanismi alla base siano ancora poco chiari.
Attualmente è possibile dimostrare la deposizione di Aβ nel cervello tramite metodi di neuroimaging che si
basano su composti capaci di legarsi all’amiloide marcati con 18F e tale approccio potrebbe identificare
anche pazienti ancora asintomatici.

La progressione dell’AD è lenta ma inarrestabile, con un decorso sintomatico che spesso supera 10 anni. I
sintomi iniziali sono i disturbi della memoria a breve termine e di altre funzioni mnesiche; con il
progredire della malattia, emergono altri sintomi, tra i quali disturbi del linguaggio, perdita delle abilità
matematiche e delle abilità motorie acquisite. Negli stadi finali della malattia di Alzheimer, i pazienti
possono presentare incontinenza, mutismo e incapacità di deambulare.

Macroscopicamente si ha un grado variabile di atrofia cerebrale, che interessa soprattutto e precocemente


il lobo temporale mediale, l’ippocampo, la corteccia entorinale e l’amigdala; l’atrofia corticale si associa ad
idrocefalo ex vacuo, ovvero a dilatazione delle cavità ventricolari.
Le principali alterazioni microscopiche dell’AD sono le placche senili (neuritiche) e gli ammassi
neurofibrillari. Si verifica una perdita neuronale progressiva e severa, con gliosi reattiva.
Le placche senili sono raccolte sferiche, focali, di processi neuronali dilatati, tortuosi, argentofili (assoni
distrofici), localizzati intorno a un nucleo centrale di amiloide, spesso circondato da un alone chiaro; alla
loro periferia sono presenti cellule microgliali e astrociti reattivi. Il nucleo centrale amiloide è costituito da
aggregati di Aβ e può essere evidenziato con colorazione Rosso Congo.
Gli ammassi neurofibrillari sono fasci di filamenti contenenti tau nel citoplasma dei neuroni che dislocano o
circondano il nucleo. Sono visibili come strutture fibrillari basofile alla colorazione con ematossilina eosina,
ma si colorano molto più intensamente con colorazioni argentiche (Bielschowsky) e con immunoistochimica
diretta contro tau. Gli ammassi non sono specifici della malattia di Alzheimer, visto che si possono
riscontrare anche in altre malattie.

SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA – SLA – Dispensa

La SLA è un disturbo progressivo che presenta perdita dei motoneuroni superiori nella corteccia cerebrale
e dei motoneuroni inferiori nel midollo spinale e nel tronco encefalico. La perdita di questi neuroni
provoca la denervazione dei muscoli, producendo debolezza che aumenta sempre più con il progredire
della malattia. Ha una incidenza di circa 2 casi ogni 100.000 abitanti e solitamente si manifesta nella 5°
decade di vita o più tardi. La SLA sporadica è più comune di quella familiare.
Sono state identificate circa due dozzine di loci genetici come cause familiari di SLA e quasi tutte
corrispondono a disturbi autosomici dominanti; una delle forme ereditarie di SLA scoperta per prima
presenta mutazioni nel gene che codifica per una superossido-dismutasi legante rame-zinco (SOD1)
presente sul cromosoma 21 (responsabile di circa il 20% dei casi familiari). Sembra che la proteina SOD1
mutata si ripieghi in maniera anomala e formi aggregati (che possono includere proteina normale) con
conseguente lesione cellulare attraverso una varietà di meccanismi, tra i quali l’inibizione della funzione
proteasomica e innesco dell’autofagia, effetti diretti sul trasporto assonale e sulla funzione mitocondriale o
sequestro di altre proteine all’interno degli aggregati. Si stanno sviluppando approcci terapeutici che
prevedono metodi di rimozione della proteina SOD1 non correttamente ripiegata.

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I sintomi precoci di SLA comprendono debolezza asimmetrica alle mani, che si manifesta con frequente
caduta di oggetti e difficoltà nell’esecuzione dei movimenti fini, crampi e spasticità alle braccia e alle
gambe. Con il progredire della malattia, il deficit di forza e di massa muscolare determina l’insorgenza di
contrazioni involontarie di singole unità motorie, denominate fascicolazioni. La malattia infine può
coinvolgere i muscoli respiratori, causando ricorrenti episodi di infezione polmonare.
Il termine atrofia muscolare progressiva si applica a quei rari casi in cui predomina il coinvolgimento del
motoneurone inferiore, mentre il termine sclerosi laterale primaria si riferisce a quei casi con
coinvolgimento prevalente dei motoneuroni superiori. In alcuni pazienti, la degenerazione dei nuclei motori
della parte inferiore del tronco encefalico si verifica precocemente e progredisce rapidamente, condizione
conosciuta come paralisi bulbare progressiva o SLA bulbare.

Le radici anteriori del midollo spinale risultano assottigliate, a causa della perdita di fibre neuromotorie
inferiori, e il giro motorio precentrale della corteccia può essere atrofico. Vi è una riduzione del numero
dei neuroni delle corna anteriori lungo tutto il midollo spinale, associata a gliosi reattiva. I neuroni
rimanenti spesso contengono inclusioni citoplasmatiche PAS-positive chiamate corpi di Bunina, che
sembrano essere i residui di vacuoli autofagici. La muscolatura scheletrica innervata dai motoneuroni
inferiori degenerati mostra atrofia neurogena.

ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI – Dispensa

I prioni sono forme anomale di una proteina cellulare in grado di causare disturbi neurodegenerativi a
progressione rapida che possono essere sporadici, familiari o trasmessi. Le encefalopatie spongiformi sono
un gruppo di patologie accumunate dalla presenza di forme alterate di una specifica proteina, detta
proteina prionica (PrP), da “alterazioni spongiformi” , causate da vacuoli intracellulari nei neuroni e nella
glia, e clinicamente da una demenza rapidamente progressiva.

La PrP è una proteina citoplasmatica di 30 kDa normalmente presente nei neuroni. La malattia insorge
quando questa proteina va incontro a modificazioni conformazionali, passando dalla sua isoforma normale
a α-elica (PrPc) a un’isoforma anomala a foglietto-β pieghettato, di solito denominata PrPsc (da scrapie). In
seguito a questa variazione della conformazione, la proteina acquisisce una resistenza alla digestione
proteasica. La PrPsc facilita poi analoghe trasformazioni di altre molecole di PrPc in molecole di PrPsc e
conferisce una natura trasmissibile alle malattie da prioni. Esistono anche casi noti di trasmissione
iatrogena, in particolare da trapianto corneale, impianto di elettrodi profondi nel cervello e
somministrazione di preparazioni contaminate di ormone della crescita umano di origine naturale (negli
anni ’70 inizio anni ’80 si conducevano trattamenti con estratti di ipofisi da cadaveri).

Malattia di Creutzfeldt-Jakob – CJD

Sebbene la CJD sia la più frequente malattia da prioni, si tratta di un disturbo raro. Esistono sia forme
sporadiche che forme familiari, dovute a mutazioni del gene codificante per la proteina PrP.
Esistono anche casi noti di trasmissione iatrogena, in particolare da trapianto corneale, impianto di
elettrodi profondi nel cervello e somministrazione di preparazioni contaminate di ormone della crescita
umano di origine naturale (negli anni ’70 inizio anni ’80 si conducevano trattamenti con estratti di ipofisi da
cadaveri).
Il quadro è contrassegnato da iniziali impercettibili modificazioni della memoria e del comportamento
seguiti da demenza rapidamente progressiva, spesso in associazione con marcati spasmi muscolari
involontari. La malattia è invariabilmente fatale e la sopravvivenza media è di soli 7 mesi dall’insorgenza
della sintomatologia.

La progressione della demenza nella CJD è di solito così rapida che vi è poca o nessuna atrofia
macroscopica dell’encefalo. Il reperto patognomonico è la trasformazione spongiforme della corteccia
cerebrale e spesso delle strutture profonde della sostanza grigia (caudato, putamen); ciò consiste in un

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processo multifocale che porta alla formazione irregolare di piccoli vacuoli microscopici, apparentemente
vuoti e di diversa grandezza all’interno del neuropilo. Nei casi più avanzati vi è grave perdita neuronale,
gliosi reattiva e talvolta la confluenza delle aree vacuolate in spazi simil-cistici. Vi è totale assenza di
infiammazione.
Le placche del kuru sono depositi extracellulari di proteina anomala aggregata; esse risultano positive al
rosso Congo e al PAS. In tutte le forme di malattia prionica, la colorazione immunoistochimica dimostra
nei tessuti la presenza della PrPsc resistente alla proteasi K.

Insonnia familiare fatale – IFF

Anche l’insonnia fatale familiare (IFF), chiamata così per i disturbi del sonno che caratterizzano i suoi stadi
iniziali, è causata da una mutazione specifica nel gene PRNP, codificante per la proteina PrP. Nel corso
della malattia, che tipicamente dura meno di 3 anni, i pazienti affetti sviluppano altri segni neurologici,
come atassia, disturbi autonomici, stupor e alla fine il coma. È stata descritta anche una forma della
malattia non ereditaria (insonnia fatale sporadica).
Diversamente delle altre malattie da prioni, l’IFF non dà luogo a una patologia di tipo spongiforme. Al
contrario, le alterazioni più evidenti sono la perdita neuronale e la gliosi reattiva nel nucleo ventrale
anteriore e dorsomediale del talamo; la perdita neuronale è evidente anche nel nucleo olivare inferiore. La
PrPsc resistente alla proteinasi K è dimostrabile mediante immunoistochimica o Western blot.

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TRAUMI

I traumi cerebrali si classificano in base al meccanismo: colpi ad alta velocità, colpi a bassa velocità e
traumi penetranti. Il trauma può interessare la parte epidurale, la parte subdurale o il parenchima.
Rientrano nei traumi cerebrali:
- Fratture craniche
- Lesioni parenchimali
o Concussione
o Lesione parenchimale diretta
o Danno assonale diffuso
- Lesioni vascolari

COMMOZIONE CEREBRALE (CONCUSSIONE CEREBRALE)

La concussione è una sindrome clinica caratterizzata da una immediata e transitoria alterazione delle
funzioni cerebrali e dello stato di coscienza; si possono avere amnesia, retrograda o anterograda, e stato
confusionale. Nella maggior parte dei casi non è associata a frattura cranica.

CONTUSIONE CEREBRALE

Le contusioni (e le lacerazioni) sono lesioni dell’encefalo causate dalla trasmissione dell’energia cinetica al
cervello. Una contusione è simile al comune livido causato da un trauma contusivo, mentre la lacerazione è
una lesione causata dalla penetrazione di un oggetto e dalla lacerazione del tessuto.
Un colpo sulla superficie dell’encefalo, trasmesso attraverso la teca cranica, porta a un’improvvisa
dislocazione dei tessuti, rottura dei vasi ematici con conseguente emorragia, danno tissutale ed edema.
La contusione si può avere in caso di lesioni da colpo e lesioni da contraccolpo; solitamente il contraccolpo
è più grave del colpo e la lesione da contraccolpo è sempre a 180° rispetto a quella da colpo. In
corrispondenza del colpo può esserci una frattura cranica. Le sedi più interessate sono i poli temporali e la
superficie orbitale frontale. Nelle aree interessate si hanno edema e stravaso di sangue. L’evidenza
morfologica del danno neuronale (picnosi nucleare, eosinofilia citoplasmatica, disintegrazione nucleare) si
manifesta circa 24 ore più tardi, benchè i deficit funzionali possano verificarsi molto più precocemente.

LESIONE ASSONALE DIFFUSA

Il danno assonale diffuso consiste in un esteso danno a carico degli assoni, causato da una accelerazione e
decelerazione del cranio; è tipico dei
neonati e nei bambini, nel caso in cui
vengano scossi con violenza. Quando
la scatola cranica viene scoccia gli
assoni dei neuroni possono andare
incontro a torsione, allungamento o
rottura.
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Nella sede del danno assonale si hanno proteine tipiche dell’infiammazione e si ha una sorta di amiloidosi
cerebrale, causata dal trauma. Si hanno inoltre micro- o macro-emorragie nella sostanza bianca e il danno
assonale può essere accompagnato da edema; all’edema si associa una aumento della pressione
intracranica con conseguente possibile erniazione cerebrale.

CERVELLO DA MORTE CEREBRALE

I cervelli che vanno incontro a morte cerebrale sono tipicamente edematosi e mollicci, dal momento che
vanno incontro ad autolisi; si tratta di cervelli di pazienti che presentano un encefalogramma piatto per 24
ore.

FERITE DA PROIETTILE

Proiettile ad alta velocità


Il proiettile attraversa il cervello, generando un foro di ingresso e un foro di
uscita, e causa frattura cranica, aumento della pressione endocranica e
immediata erniazione delle strutture che possono erniare, come l’uncus e le
tonsille cerebellari.

Proiettile e bassa velocità


Il proiettile permane nell’encefalo e oltre a erniazione si hanno anche danno
tissutale, edema ed emorragia.

LESIONI DEL MIDOLLO SPINALE

Le lesioni a livello di midollo spinale possono essere causate da: flessione,


iperestensione, compressione, rotazione, penetrazione e distrazione
(impiccagione).
In caso di contusione, dovuta ad esempio a frattura vertebrale, il midollo
appare deformato e si ha emorragia.
In caso di impiccagione la lesione midollare si localizza tipicamente tra la 1° e la 2° vertebra cervicale.

ENCEFALOPATIA TRAUMATICA CRONICA

Questa malattia è stata osservata per la prima volta nei pugili negli anni ’70, ma è stata riconosciuta anche
in altri sport, come il rugby. Si tratta di un disordine degenerativo associato a ripetuti traumi del cranio.
Nei pugili si riscontrava: riduzione della corteccia, idrocefalo, setto pellucido scavato e fenestrato,
depigmentazione della sostanza nera del cervelletto e fibrosi del cervelletto.
Istologicamente si hanno perdita neuronale, neurofilamenti e danno a livello corticotemporale.
Negli anni ’90 si è osservato anche un accumulo di proteina Tau negli astrociti e nei neuroni: gli sport che
comportano traumi ripetuti alla testa portano a demenza e malattia neurodegenerativa. La sintomatologia
è scarsa se le lesioni sono solo frontali, ma si aggrava se esse interessano più aree cerebrali.

Altre sequele dei traumi cerebrali sono: idrocefalo, epilessia, infezioni e malattie psichiatriche.
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