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ONCOLOGIA
Il cancro è una malattia genetica somatica → è dato dall’alterazione di uno o più geni che fisiologicamente
sono presenti nel genoma delle cellule. Tutte le neoplasie sono clonali, ovvero il tumore rappresenta la
progenie di una singola cellula originariamente trasformata in senso neoplastico e definita progenie clonale.
Raramente (5-10%) il cancro è ereditario e l’ereditarietà è intesa come trasmissione dai genitori ai figli di
almeno 1 mutazione conclamata.
Proto-oncogeni: sono geni/sequenze genomiche che fisiologicamente regolano la proliferazione cellulare; la
loro attivazione impropria li fa passare da proto-oncogeni a oncogeni (geni capaci di convertire le cellule sane
in cellule tumorali). Questi agiscono codificando fattori di crescita, recettori di fattori di crescita, trasduttori
o amplificatori di segnali mitogenici. Questo si trasforma in oncogene a seguito di alterazioni del gene
(iperespressione genica, traslocazioni/inversioni cromosomice, amplificazione genica o mutazione) che
comportano una delle due conseguenze:
• Modificazione dell’espressione del gene che ne determina una iperespressione o un’espressione
incontrollata in momenti inappropriati del ciclo cellulare
• Un cambiamento delle proprietà funzionali del prodotto genico
4 classi di oncogeni:
1. Fattori di crescita (ligandi): VEGF → ligandi per recettori a tirosin-chinasi
2. Recettori di membrana: HER2 → recettori a tirosin-chinasi
3. Proteine citoplasmatiche: ABL → tirosin-chinasi e/o serin-treonin-chinasi
4. Fattori di trascrizione: MYC
− Nel carcinoma ovarico abbiamo una iperespressione di VEGF (aumenta la velocità di trascrizione del
gene, solitamente per iperespressione del promotore) con saturazione dei recettori ed iper-
attivazione del segnale che viene. Tale mutazione viene rinvenuta tramite esame
immunoistochimico; trattamento possibile con anticorpi monoclonali anti-VEGF
− Il Chr. Ph è il classico esempio di traslocazione cromosomica t(9;22) con formazione di un prodotto
di fusione BCR-ABL con attività tirosin-chinasica costitutiva
− Altro meccanismo è l’inversione cromosomica, che può essere sia paracentrica (in un unico braccio)
che pericentrica (interessante la regione centromerica)
− Amplificazione genica: aumento del numero di copie di determinate sequenze di DNA che codificano
per specifici oncogeni. Esempi più noti sono l’amplificazione del gene N-myc nel neuroblastoma e del
gene ERBB2 (HER2-neu) nel carcinoma della mammella.
− Mutazione genica: alterazione della sequenza genica. A questo meccanismo solitamente fanno capo
l’attivazione dei geni della famiglia Ras → la mutazione di Ras avviene nel 45% dei pz con
adenocarcinoma del colon-retto metastatico.
Geni oncosoppressori: normalmente inibiscono la proliferazione cellulare e sono, quindi, in grado di bloccare
la trasformazione neoplastica delle cellule. L’impropria disattivazione di entrambe le copie di
oncosoppressore contribuisce a favorire la trasformazione neoplastica delle cellule sane. L’effetto biologico
degli oncosoppressori è dominante rispetto a quello degli oncogeni è quindi è necessario perdere entrambe
le copie di un oncosoppressore per sviluppare il cancro.
Un classico esempio del two-hit model e dell’inattivazione degli oncosoppressori è il retinoblastoma. I geni
oncosoppressori possono essere inattivati da monosomie o delezioni parziali che possono provocare un
alterato dosaggio genico e/o la perdita di eterozigosi per frammenti cromosomici più o meno estesi. Il
retinoblastoma è un tumore maligno della retina, più frequentemente familiare e più raramente sporadico.
Nei casi di retinoblastoma familiare i soggetti affetti presentano un allele del gene RB congenitamente
inattivato da una delezione o da un’alterazione citogeneticamente non evidenziabile; l’inattivazione del
secondo allele è invece acquisita e si verifica in una (o poche) cellule durante lo sviluppo della retina,
portando all’insorgenza del tumore nell’infanzia. In questo caso il tumore può essere bilaterale e multifocale;
mentre nelle forme sporadiche sarà unifocale e unilaterale.
Nei casi di retinoblastoma sporadico l’inattivazione dei due alleli richiede più tempo, perché occorre che
ambedue gli alleli vadano incontro a mutazione somatiche.
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GIULIA BARONE
L’attivazione impropria dei proto-oncogeni in oncogeni costituisce per le cellule tumorali un guadagno di
funzione; l’inattivazione inappropriata degli oncosoppressori costituisce per le cellule tumorali una perdita
di funzione. Uno squilibrio nell’omeostasi tra geni che favoriscono la proliferazione cellulare (oncogeni) e geni
che bloccano la proliferazione cellulare (oncosoppressori) è alla base della cancerogenesi.
I farmaci chemioterapici uccidono le cellule altamente proliferanti → ma questi non sono in grado di curare
tutti i pazienti → ipotesi del dente di leone.
Le cellule staminali sono cell prevalentemente quiescenti e sono l’unica popolazione cellulare in grado di dare
una divisione asimmetrica: ovvero da una cellula madre ne derivano una cellula figlia staminale e una
differenziata in cellula progenitrice. Le cell staminali crescono in sferoidi, cioè non crescono adese alla plastica
ma solo in macroaggregati di decine-centinaia-migliaia di cell isolate, dette sfeoridi. Sono molto resistenti
all’apoptosi e a sua volta molto resistenti ai chemioterapici. Hanno un genoma estremamente plastico.
L’ipotesi del dente di leone ipotizza, infatti, il fatto che le alterazioni genetiche a carico dei proto-oncogeni e
degli onco-soppressori non si verificano in cellule differenziate ma in cellule staminali → la chemioterapia
uccide le cellule attivamente proliferanti ma non le cellule staminali tumorali.
Cellule staminali tumorali sono stati isolati in:
− Comparto emopoietico: LMA, LMC, LLA
− Neurosfere: glioblastoma multiforme
− Tireosfere: carcinoma della tiroide
− Pneumosfere: NSCLC
− Mammosfere: carcinoma mammario
− Colonsfere: carcinoma del colon
→ il cancro è una malattia fortemente
eterogenea. L’evoluzione clonale del cancro ha
inizio a partire da una cellula staminale sana nella
quale possono iniziare a manifestarsi una o più
alterazioni genetiche, potendo diventare una
cellula tumorale → questa cellula prende il nome
di “cellula fondatrice”. È fondamentale ridurre al
minimo il periodo di tempo che intercorre tra
l’insorgenza dei sintomi e la conferma
diagnostica, questo periodo è infatti fortemente
correlato con la progressione dei cloni più
aggressivi (che nel frattempo continueranno a
moltiplicarsi o nella peggiore delle ipotesi
potrebbero portare a dei cloni in grado di dare luogo a metastasi). Quando ci troviamo di fronte ad una
malattia metastatica vi sono centinaia o addirittura migliaia di cloni (un numero talmente elevato da non
consentire alla terapia l’eliminazione completa); per questo motivo possiamo curare ma non guarire la
malattia oncologica metastatica: si andranno a selezionare dei cloni più o meno resistenti che col tempo
causeranno la perdita della sensibilità al trattamento e la progressione della malattia. → in qualunque
ecosistema non prevale la specie più forte, ma quella più adatta all’ecosistema in cui si viene a trovare.
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GIULIA BARONE
La cancerogenesi è un processo multifasico → la cellula neoplastica rappresenta il risultato finale di una serie
di danni genetici che si realizzano in tempi successivi: per passare dal fenotipo normale a quello neoplastico
è necessario che almeno 5-10 diverse mutazioni si accumulino nel tempo nella stessa cellula → ogni
mutazione conferisce alla cellula mutata un vantaggio di crescita rispetto alle cellule che la circondano.
La cancerogenesi presenta due modelli: stocastico e gerarchico (non in contrapposizione tra loro)
CST: cell staminale
tumorale
CTD: cell terminalmente
differenziata
La vasculogenesi è la genesi di una intera rete vascolare ed è un processo che si verifica fisiologicamente solo
durante la vita embrionaria. Per angiogenesi si intende la genesi di singoli vasi ematici o linfatici. Le cell
neoplastiche sono in grado di dare luogo all’angiogenesi → se ciò non fosse possibile nessuna neoplasia
potrebbe crescere oltre il centimetro. Infatti, nessuna cellula riesce a sopravvivere senza un adeguato
apporto di ossigeno e di sostanze nutritizie e se incapace di eliminare le molecole tossiche prodotte dal suo
metabolismo. L’ossigeno diffonde dai capillari fino ad una distanza di 150-200 μm, per cui le cellule che si
trovano oltre questa distanza critica muoiono = un tumore per diventare clinicamente rilevante richiede
neoangiogenesi. L’angiogenesi è un processo complesso orchestrato da una serie di attivatori (fattori
proangiogenici), quali VEGF, FGF, EGF, PDGF, e di inibitori (fattori antiangiogenici) come trombospondina1,
angiostatina ed endostatina → i relativi livelli di attivatori e inibitori controllano lo status delle cellule
endoteliali che, a seconda della prevalenza degli uni o degli altri, saranno in uno stato di quiescenza o di
angiogenesi attiva. L’espressione dei geni proangiogenici è aumentata da stimoli quali l’ipossia, conseguente
ad aumentata massa cellulare, ma anche dall’attivazione di determinati oncogeni o mutazioni di
oncosoppressori. Questo switch angiogenico demarca nettamente due fasi nella crescita tumorale → nella
prima fase (fase avascolare) le lesioni neoplastiche sono piccole (1-2 mm di diametro), occulte e sono in un
certo senso quiescenti (dormant tumors) perché al loro interno si instaura un equilibrio tra proliferazione ed
apoptosi; l’entrata nella fase vascolare rappresenta un prerequisito per la progressione tumorale. La
neoangiogensi tumorale è profondamente diversa dall’angiogenesi fisiologica → i vasi neoplastici sono
irregolari, tortuosi, dilatati e non sono organizzati in maniera precisa in venule, arteriole e capillari, ma
condividono in misura varia e sostanzialmente caotica aspetti di tutti e tre i tipi di vasi. Il flusso ematico al
loro interno è irregolare e la permeabilità dei vasi è aumentata.
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GIULIA BARONE
Le metastasi (meta – al di là; stasis – risiedere) sono una disseminazione spontanea di cellule neoplastiche
che, distaccatesi dalla sede del tumore primitivo, raggiungono con varie modalità uno o più siti distanti da
quello di origine e lo colonizzano. Virtualmente tutte le neoplasie maligne sono in grado di metastatizzare
in organi e tessuti periferici; il 30% dei pz affetti da neoplasie maligne ha una o più metastasi al momento
della diagnosi e queste sono responsabili di più del 90% dei decessi in pz affetti da neoplasie maligne (la
morte del restante 10% è data da complicanze locali). La cellula trasformata si moltiplica fino a costituire una
popolazione cellulare con una determinata massa critica (tumore primitivo), il cui raggiungimento dipende
dalle caratteristiche cinetiche di crescita delle cellule neoplastiche sia delle condizioni microambientali.
La diffusione metastatica avviene per contiguità, per via linfatica, canalicolare (es tumore del rene che
diffonde tramite l’uretere alla vescica), ematica o celomatica (tipico esempio di questa diffusione è il tumore
dell’ovaio). Le metastasi hanno spesso una localizzazione d’organo preferenziale, per es. k. mammella e
prostata metastatizzano principalmente alle ossa, mentre il fegato è la localizzazione principale del k. colon.
In generale, oltre ai linfonodi loco-regionali, gli organi maggiormente colpiti dalle metastasi sono fegato,
ossa e polmone.
➢ Metastasi linfonodali: l’invasione dei vasi linfatici peritumorali e talvolta una neolinfoangiogenesi
tumorale, portano a metastasi ai linfonodi loco-regionali. Il primo linfonodo o gruppo di linfonodi
raggiunto dalle cellule metastatiche che provengono da un tumore primitivo è definito linfonodo
sentinella (introduzione della tecnica della biopsia del linfonodo sentinella, applicato soprattutto nel
k. mammario e nel melanoma)
➢ Metastasi epatiche: il fegato ha una particolare vulnerabilità all’invasione metastatica per diverse
ragioni, quali dimensioni, alto livello di flusso ematico, doppia perfusione tramite a. epatica e circolo
portale, ruolo di filtrazione delle cell del Kupffer. I tumori che più frequentemente metastatizzano al
fegato sono tratto gastrointestinale, polmone, mammella e melanoma. Sono MTS asintomatiche e
vengono solitamente scoperte nel corso della stadiazione del tumore primitivo.
➢ Metastasi ossee: sono presenti nel 70% dei pz con tumore mammario e tumore prostatico avanzati
e in una percentuale compresa di 15-30% dei pz con tumore polmonare, colon-retto, tiroide e rene.
Le ossa più frequentemente coinvolte sono le vertebre, femore prossimale, pelvi, coste, sterno,
omero prossimale e il cranio. Sono generalmente sintomatiche, manifestandosi con dolore da
frattura patologica o schiacciamento vertebrale o ancora sintomi neurologici da compressione
delle radici nervose o del midollo spinale o talvolta con sintomi da ipercalcemia, e rappresentano
uno degli aspetti più difficili della gestione clinica del pz neoplastico. Le metastasi ossee possono
presentarsi come lesioni osteolitiche, osteoaddensanti (osteoblastiche) o miste.
− Nelle lesioni osteolitiche la distruzione dell’osso è la conseguenza della produzione da parte
del tumore (o da parte del microambiente tumorale stimolato dalla presenza delle cell
tumorali) di sostanze che inducono il riassorbimento osseo (prostaglandine, parathyroid
hormone-related peptide) o di citochine che inducono la formazione e l’attivazione di
osteoclasti (IL-1, TNF, RANK-L)
− Le lesioni osteoaddensanti si verificano quando il tumore produce citochine che attivano gli
osteoblasti, quali endotelina-1 nel k. mammario, PSA e u-PSA nel k. prostatico
Il tumore primitivo è eterogeneo, infatti a causa dell’instabilità genetica è costituito da multipli subcloni che
hanno proprietà biologiche diverse, incluso un differente potenziale invasivo e metastatico. Il processo
metastatico si articola in tappe successive:
1. La cell tumorale si lega alla membrana basale epiteliale e inizia il processo di invasività locale, con
approfondimento delle cell neoplastiche nello stroma sottostante.
2. A livello del contatto cell/matrice si ha la dissoluzione proteolitica della matrice stessa dovuta al
rilascio locale di enzimi da parte della cell neoplastica (metalloproteasi u-PA receptor); la cell si stacca
dal tumore primitivo e progredisce spazialmente nel tessuto sottostante attraverso il poro createsi
(extravasazione)
3. La cellula si lega alla membrana basa subendoteliale e dopo proteolisi del punto di contatto penetra
all’interno del lume del vaso (intravasazione)
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4. La cell neoplastica può arrestarsi a breve distanza, immediatamente a valle della pentrazione, oppure
proseguire a distanza, sopravvivendo in circolo e creare le premesse per la formazione di una colonia
neoplastica secondaria (metastasi) che implica arresto in un nuovo organo, extravasazione nei
tessuti circostanti, proliferazione e neoangiogenesi. La formazione delle metastasi dipende anche
dal numero di cell che arrivano a un certo organo, la compatibilità tra cell neoplastica e organo e
quindi la capacità dell’organo colonizzato di produrre fattori che favoriscono o sopprimono la crescita
di quel particolare tipo di neoplasia. È importante sottolineare come le cell neoplastiche derivate
dallo stesso tumore primitivo, ma metastatizzate in organi differenti e dunque esposte a
microambienti differenti, abbiano anche una risposta differente alla chemioterapia, legata alla
produzione locale di citochine e molecole solubili che possono modificare la risposta.
Le metastasi possono verificarsi anche dopo anni che il tumore è stato trattato con apparente successo →
fenomeno della tumour dormancy, cioè a una specie di letargo in cui la cell neoplastica disseminata in organi
a distanza può entrare. Questa è caratterizzata dalla presenza di micrometastasi che non riescono per lungo
tempo a sviluppare una neoangiogenosi o dalla presenza di cell isolate che non sono in ciclo cellulare e
persistono nella fase di resting del ciclo per lungo tempo → proprio perché non in ciclo queste cell sono
particolarmente resistenti alla terapia citostatica che colpisce selettivamente le cell attivamente impegnate
nel ciclo cellulare. La capacità di crescita in un organo a distanza è regolata da numerosissimi meccanismi che
implicano complesse interrelazioni tumore/ospite → di conseguenza le gittate potenzialmente metastatiche
che derivano dal tumore primitivo sono probabilmente molto più numerose delle metastasi che giungono
a compimento.
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Si definisce prevenzione terziaria, invece, tutte quelle iniziative tese a prevenire lo sviluppo di complicanze
in soggetti con malattie neoplastiche in atto, con attuazione di misure mediche, sociali e psicologiche per
ridurre danni causati dalle malattie neoplastiche e migliorare la qualità di vita. Questa si può esplicare con
visite di follow-up oncologico, esami di laboratorio e diagnostica per immagini, terapie di riabilitazione,
servizio di assistenza psico-oncologica.
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In alcune neoplasie sono necessari anche alcuni parametri aggiuntivi, come nel k. mammario, dove
fondamentale per la stadiazione conoscere anche lo stato dei recettori E-R (indici di differenziamento della
neoplasia predittivi della risposta alla terapia ormonale) e recettore HER2 (espresso nel 20-25% e predittivo
per la risposta a trastuzumab); ma anche stato di Ki-67, invasione angio-linfatica e l’età della paziente.
I criteri RECIST (Responsive Evaluation Criteria In Solid Tumors) sono dei criteri di risposta alla terapia.
Nascono nel 2000 e inizialmente si basavano esclusivamente sulle dimensioni anatomiche della massa
neoplastica → vengono misurate le lesioni target. Per essere lesioni target:
− Deve essere una lesione misurabile: le lesioni sono misurabili quando hanno una dimensione > 10
mm in una immagine TC o RM o quando > 20 mm in RX; sono non misurabili le lesioni ossee, cistiche,
leptomeningee e le masse addominali di natura incerta.
− Facilmente misurabile e controllabile nel tempo: non devono avere dimensioni eccessive o
particolarmente irregolari perché queste più frequentemente presenteranno aree di necrosi che ne
potrebbero alterare la forma
Nei criteri RECIST 1.1 le lesioni target sono massimo 5, con massimo 2 per ogni organo.
Esami inappropriati a misurare le lesioni target sono: ecografia (non riproducibile e operatore dipendente),
scintigrafia ossea total body (non faccio misurazioni anatomiche), misurazione di marcatori tumorali. RX, TC
E RM sono esami appropriati perché permettono una valutazione unidimensionale, chiara e riproducibile.
La misurazione della lesione target viene effettuata tenendo conto dell’asse maggiore del nodulo, se il
nodulo è singolo; se è presente come noduli multipli la massa tumorale complessiva assume il valore della
somma degli assi maggiori di ogni singolo nodo.
Per valutare la risposta al trattamento vengono considerati anche i noduli linfonodali, che vengono misurati
in base al loro asse minore: viene considerato lesione target quando l’asse minore è maggiore o uguale a 15
mm; se tra 10-15 mm non è lesione target; se inferiore a 10 non è patologica.
La PET può essere utilizzata come dato integrato alle indagini TC o RM per valutare la comparsa di nuove
lesioni. I pz vengono quindi divisi in 4 categorie di risposta:
SD: riduzione lesioni < 30%
o aumento < 20%
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In realtà i criteri RECIST così descritti non si usano più, ma sono ancora in uso i CRITERI mRECIST, ottenuti da
una revisione dei criteri RECIST, dove non si misura il diametro maggiore di tutta la neoplasia, ma il diametro
maggiore della porzione vitale della neoplasia.
Queste le 4 categorie di risposta in
base ai criteri mRECIST.
In alcuni tipi di tumori la valutazione delle dimensioni della neoplasia non è strettamente correlabile alla
regressione o progressione del tumore; questo vale soprattutto per i GIST, tumori che dopo il trattamento
vanno facilmente incontro ad emorragia, necrosi o degenerazione mixoide, ossia tutti processi che fanno
aumentare il volume della neoplasia. Per ovviare a questo tipo di problematica sono stati creati i criteri Choi.
Secondo questi criteri la risposta al trattamento viene effettuata valutando sia la dimensione del tumore che
la sua densità media in HU (valutata durante la fase portale della TC con mdc). Si integra con una valutazione
PET.
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GIULIA BARONE
TERAPIE ONCOLOGICHE
La chirurgia oncologica viene effettuata a scopo preventivo per rimuovere lesioni pre-cancerose ad alto
rischio di degenerazione maligna (CIN – conizzazione o FAP – colectomia) o può essere utilizzata a scopo
terapeutico per rimuovere una lesione neoplastica primitiva (NSCLC – lobectomia) o lesione/i
metastatica/che (k. colon – lobectomia epatica dx). La chirurgia oncologica è appropriata se:
• Oncologicamente radicale: rimozione totalità malattia macroscopica
• Necessaria per la palliazione: complicanze mettono in pericolo sopravvivenza
Molto importanza lo ha la casistica → quantità = qualità (almeno 50 interventi per operatore, più di 150
interventi per struttura).
La chemioterapia può essere adiuvante = impiegata in seguito ad altre terapie (chirurgica e/o radioterapica)
allo scopo di distruggere le cell tumorali residue, quasi sempre non rilevabili, che rimangono nell’organismo
dopo l’intervento chirurgico o radioterapico, particolarmente quando ci sono rischi di recidive indicate da
positività linfonodali o da altre procedure analitiche. I 6 cardini della chemio adiuvante sono:
1. Deve essere disponibile una terapia efficace
2. Tumore primitivo deve essere rimosso
3. Iniziare entro 8 settimane dall’intervento → la CT serve ad eradicare una possibile malattia micro-
metastatica circolante nei vasi ematici o linfatici generatesi prima dell’intervento; se non viene
iniziata entro 8 sett. è probabile che perda la sua efficacia.
4. Somministrare massime dosi tollerate
5. Terapia di durata limitata (cicli)
6. Terapia intermittente (limitare immunosoppresione)
Oppure può essere neoadiuvante = quando la terapia viene somministrata prima della terapia chirurgica o
radioterapica allo scopo di ridurre la massa tumorale o il numero di masse tumorali o per prevenire la
disseminazione metastatica; presenta come obiettivo principale ridurre il rischio di recidiva e facilitare
rimozione tumore primitivo. Si parlerà di chemioterapia citoriduttiva quando il suo scopo primario + quello
di ridurre la massa tumorale (in caso di tumori non operabili) per consentirne l’asportazione chirurgica.
→La chemioterapia neoadiuvante viene svolta (e proposta) per scelta condivisa di medico e paziente in forme
di neoplasia che sono tecnicamente operabili, ma nelle quali si ritiene opportuno, per motivi di sopravvivenza
o per rendere meno demolitiva la chirurgia – che è da subito fattibile – iniziare il percorso terapeutico con la
chemioterapia. La chemioterapia primaria citoriduttiva non è una scelta condivisa ma un obbligo: ci troviamo
davanti a un paziente che non è tecnicamente passibile di un intervento chirurgico radicale.
1. AGENTI ALCHILANTI
Sono composti reattivi che possono interagire non solo con molecole del DNA, ma anche con l’RNA e con le
proteine provocando alterazioni funzionali delle stesse macromolecole. Questi eventi possono arrestare la
divisione cellulare e/o provocare aberrazioni cromosomiali → alchilazione diretta/indiretta delle basi del
DNA (rottura doppia elica del DNA).
• Ciclofosfamide (mostarde azotate), Dacarbazina, Temozolamide (triazeni)
Vengono somministrati per via ev o per os.
Presentano tossicità ematologica (leucopenia, neutropenia e trombocitopenia), gastro-enterica (nausea e
vomito) e urinaria (la ciclofosfamide porta a frequenti cistiti emorragiche a seguito dell’escrezione di
metaboliti attivi, come acroleina, per questo è importante un’adeguata idratazione del pz con 4-5 L/die e/o
la somministrazione contemporanea di tioli, come N-acetilcisteina o MESNA, che inattivano i metaboliti attivi,
riducendo entità e frequenza di questa complicanza)
Vengono utilizzati per k. mammario, sarcomi e neoplasie del SNC.
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3. ANTIMETABOLITI
Classe di farmaci analoghi strutturali di composti biologici fondamentali per la sintesi e per la duplicazione
del materiale genetico e quindi indispensabili per la replicazione cellulare. Questo porta un blocco del ciclo
cellulare e dei complessi enzimatici.
• 5-fluorouracile, Capecitabina, Gemcitabina (analoghi pirimidinici), Pemetrexed
Somminstrazione ev o per os
Tossicità ematologica (effetto mielosoppressivo), cardiaca, cutanea (con il 5-fluorouracile può comparire una
sindrome neurocutanea caratterizzata da dolore a mani e piedi e per questo chiamata eritrodisestesia palmo-
plantare o sindrome mani-piedi)
Usati per k. colon-retto, k. polmone (pemetrexed per mesotelioma e NSCLC), k. pancreas
5. ANTIBIOTICI ANTI-TUMORALI
Le antracicline agiscono con diversi meccanismi:
1. l’intercalazione nel DNA tramite un legame ad alta affinità che determina una perturbazione
tridimensionale dei due filamenti
2. inibizione dell’attività enzimatica della topoisomerasi II
• Adriamicina, Mitoxantrone, Mitomicina C (questo è un agente alchilante che forma legami crociati
con il DNA, inibendone la sintesi)
Somministrazione ev
Tossicità ematologica, cardiaca (le antracicline hanno spiccata tossicità cardiaca: scompenso cardiaco da
miocardiopatia dialatativa o aritmie o sindrome acuta pericardite-miocardite) e cutanea.
Si usano per k. mammario, k. prostatico o k. anale
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DOSAGGIO CHEMIOTERAPICI
Non esiste un dosaggio unico, ma questo dipende dalla superficie corporea del pz → individuo 175 cm x75
kg ha una superficie corporea di 1,9 mq.
Es: epirubicina 100 mg/mq = 190 mg totali
Se la superficie corporea del pz supera i 2 (come può accadere nel caso di pz molto alti o obesi) solitamente
si arrotonda sempre a 2, non superando tale valore → questo perché dosi troppo elevate potrebbero portare
ad eccessivi effetti collaterali e non ci sono evidenze scientifiche che ne supportano l’impiego. Tuttavia, alcuni
studi sembrano evidenziare che in questi pz la chemioterapia abbia un’efficacia minore, alcuni sostengono
sia per una dose non appropriata alla superficie corporea, altri pensano sia dovuto ai cambiamenti metabolici
che si osservano nei pz obesi.
Il carboplatino è l’unico farmaco la cui dose non viene
calcolata come mg/sc o mg/kg, ma viene calcolato con
l’AUC, ovvero area sotto la curva → questo perché il
carboplatino viene escreto esclusivamente per via
renale e il calcolo dell’AUC ci permette al pz di dare la
dose ottimale, che deve essere superiore alla
concentrazione minima efficace (MCE) e inferiore alla
concentrazione massima tollerata (MCT)
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TERAPIE ORMONALI
Furono le prime terapie a bersaglio molecolare; molto importanti se la neoplasia è ormone-dipendente:
• K mammario: SERMS o inibitori aromatasi
• K. prostata: antiandrogeni
Gli inibitori della aromatasi bloccano la sintesi degli estrogeni inibendo l’enzima aromatasi, presente oltre
che nelle cell della granulosa anche in molti altri tessuti, come grasso sottocutaneo, fegato, muscolo, cervello,
ghiandola mammaria normale e tumorale.
La maggior parte degli estrogeni presenti in circolo nelle donne in post-menopausa sono sintetizzati
principalmente dall’aromatasi del grasso sottocutaneo, correlando con l’indice di massa corporea.
➢ Inibitori non-steroidei aromatasi: anastrozolo, letrozolo
➢ Inibitori steroidei aromatasi: exemestano
Vengono utilizzati in k. mammario postmenopausa o talvolta in premenopausa → se ad esempio la donna ha
una predisposizione genetica o acquisita alla trombosi ho controindicazione al tamoxifene, e utilizzerò gli
inibitori dell’aromatasi + agonista LH-RH per bloccare l’asse.
I due effetti collaterali sono ipercolesterolemia e riduzione della densità minerale ossea con rischio di
osteoporosi (per contrastare questi effetti possono associarsi ai bisfosfonati)
Gli antiandrogeni hanno indicazione nella terapia ormonale del k. prostatico → solitamente si usano agonisti
LH-RH associato per il primo mese a un antiandrogeno che è la Bicalutamide, per evitare il fenomeno del
flare-up. Altri antiandrogeni utilizzati sono enzalutamide e l’abiratorone acetato, che non è un
antiandrogeno vero e proprio ma un inibitore della steroidogenesi (inibitore CYP17A).
Effetti collaterali sono: astenia, vampate di calore, cefalea, riduzione della libido, diarrea, ipertensione ed
edemi declivi.
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I recettori HER (human epidermal growth-factor receptor) si dividono in quattro classi, ognuna delle quali
riconosce ligandi diversi:
• HER1 (EGFR): ligandi EGF, TGF
• HER2
• HER3
• HER4
Come tutti i recettori chinasici, anche questi presentano un dominio extra-cellulare,
dominio trans-membrana e un dominio intra-cellulare catalitico (tirosin-chinasico). I
recettori attivati dal legame con il ligando si organizzano a formare degli omodimeri o
eterodimeri (HER1/HER2) responsabili della trasduzione intracellulare di segnali pro-
proliferativi, pro-angiogenetici o favorenti la migrazione cellulare.
Un esempio di anticorpo monoclonale è il trastuzumab → si lega alla regione IV del dominio
extracelulare di HER2, riducendo la formazione e l’emivita degli omodimeri HER2/HER2, che
sono quelli che si formano in presenza di un’amplificazione genica del corrispettivo gene
nel k. mammario. Inibisce in questo modo la trasduzione del segnale HER2-dipendente.
Funge anche da mediatore ADCC (antibody – dependent cell citotoxicity), ovvero favorisce
il riconoscimento delle cell bipositive da parte dei globuli bianchi, favorendone in questo
modo la distruzione.
Altro anticorpo monoclonale è il pertuzumab, che lega la regione II di HER2 inibendo la formazione di omo
ed eterodimeri, inibendo così la trasduzione del segnale HER-2 dipendente. Anche questo funge da
mediatore della citotossicità anticorpo-dipendente.
Il Gefitinib, invece, è un inibitore reversibile delle tirosin-chinasi e inibisce l’attività catalitica di EGFR,
inibendo la trasduzione del segnale EGFR-dipendente.
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GIULIA BARONE
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GIULIA BARONE
IMMUNOTERAPIA
Il sistema immunitario può essere rafforzato o stimolato
per attaccare un tumore.
Le cell tumorali solitamente sviluppano delle proprietà in
grado di permetterne l’evasione dal sistema immunitario.
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GIULIA BARONE
EMERGENZE IN ONCOLOGIA
1. Aumento della pressione endocranica e sindrome convulsiva
La pressione endocranica è data da 3 componenti: parenchima, liquor e sangue.
Un adulto normale ha una pressione
endocranica pari a 10-15 mmHg, si parla di
ipertensione quando > 20 mmHg e di
ipertensione severa quando > 40 mmHg.
Un aumento della pressione può essere dato
da tumori primitivi SNC, metastasi cerebrali,
ascessi o ematomi subdurali o dalla presenza
di una sindrome della vena cava. Le masse
sotto-tentoriali sono quelle più gravi e con
maggiore rischio di mortalità per la
comparsa di ernie cerebellari o cerebello-
mesencefaliche. Segni e sintomi di ipertensione endocranica sono:
• Cefalea
• Papilledema
• Vomito a getto (tipico neurologico) non preceduto da nausea
• Sindrome convulsiva
Questi pazienti hanno bisogno di cure immediate che consistono in:
− Intubazione ed iperventilazione per abbassare la CO2
− Agenti osmotici (mannitolo) + steroidi
2. Compressione midollare
Restringimento del canale vertebrale con compressione delle radici nervose e/o del midollo spinale.
➢ Rachide cervicale: 15%
➢ Rachide dorsale: 60%
➢ Rachide lombo-sacrale: 25%
Può verificarsi a seguito di k. polmone, k.
mammella, k. prostata o neoplasie urogenitali
che possono dare metastasi ossee.
La compressione midollare può essere extra-
midollare, e quindi extradurali o intradurali,
oppure può essere intramidollare ed
intradurale.
Si manifesta tipicamente con:
• Algie dorsali (talvolta evocate)
irresponsive ad analgesici
• Deficit sensoriali e motori
• Disturbi sfinteriali con ritenzione
urinaria
Il trattamento immediato richiede analgesici e
steroidi, seguita ovviamente da una
valutazione specialistica per rimuovere la
massa (neurochirurga o radio-terapica)
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GIULIA BARONE
3. Ipercalcemia
Incremento dei valori di calcio sierico > 14 mg/dl (meglio definita sopra i 10.4 mg/dl)
Si verifica a seguito di k. polmone, k. mammella, neoplasia SNC e k. rene (anche mieloma multiplo)
Il 99% del calcio corporeo è contenuto nell’osso. Il 40% del calcio ematico totale è legato alle proteine
plasmatiche, soprattutto all’albumina; il restante 60% comprende la quota ionizzante e quella chelata con
il fosfato e il citrato. Il legame con l’albumina è influenzato dal pH plasmatico: la quota di calcio legata
all’albumina diminuisce in presenza di riduzioni del pH plasmatico.
Fondamentale è la correzione dei valori di calcemia per i valori di albuminemia
Calcemia corretta = Ca++ (mg/dl) + 0.8 x (albumina normale – albumina sierica)
Si manifesta con:
• Sonnolenza, confusione mentale, letargia fino al coma
• Vomito, nausea, anoressia, stipsi e ileo paralitico, pancreatite
• Disidratazione per aumentata calciuria
Il trattamento si basa sull’idratazione, bisfosfonati (aicdo zoledronico) e steroidi (solo se la terapia con
idratazione e bisfosfonati non sortisce effetto).
4. Ostruzione vie urinarie
Ostruzione prossimale o distale delle vie urinarie, che può essere data da neoplasie retroperitoneali
(liposarcoma, leiomiosarcoma) o delle vie urinarie.
Si manifesta con algie al fianco destro o sinistro, con anuria alternata a poliuria e incremento delle sostanze
azotate e creatininemia.
Nel caso di ostruzione prossimale si effettua una nefrostomia percutanea o apposizione di stent ureterali;
se l’ostruzione è distale si effettua un cateterismo vescicale.
5. Sindrome della vena cava
Ostruzione parziale o totale del flusso di ritorno da capo, collo e/o arti superiori con conseguente
congestione venosa. L’ostruzione può essere:
• Al di sopra della giunzione con la vena
azygos → in questo caso si manifesta con
congestione del circolo venoso di collo e arti
superiori, con conseguente edema di collo,
faccia e braccia (edema a mantellina);
congestione delle mucose (soprattutto visibile
al cavo orale) e comparsa di circoli venosi
superficiali a livello toracico
• Al di sotto (distalmente) alla giunzione con
la vena azygos → sintomi più severi; circoli
collaterali superficiali molto evidenti sia sulla
faccia anteriore che posteriore del torace e
dell’addome, con flusso retrogrado verso la vena
cava inferiore.
Questa sintomatologia può essere data da un k.
polmonare (spesso SCLC), linfoma NH.
La terapia consiste nella riduzione della massa, con radioterapia o chemioterapia o entrambe, a seconda
di quale sia la massa responsabile. In presenza di un rischio di trombosi è indispensabile il posizionamento
di uno stent venoso.
6. Tamponamento cardiaco
Accumulo (acuto o cronico) di liquido (> 200 ml) contenente cellule neoplastiche nel pericardio.
Si verifica in caso di k. mammario, k. polmone, linfomi o melanomi.
Si manifesta con:
• Ansia, dolore retrosternale e dispnea
• Tosse occasionale e nausea
Il trattamento prevede una pericardiocentesi con instillazione locale di chemioterapici; associato a terapia
della neoplasia primitiva.
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GIULIA BARONE
NEOPLASIE POLMONARI
Tra le neoplasie che colpiscono l’uomo, il tumore del polmone occupa il primo posto per mortalità.
L’incidenza aumenta con l’età, insorgendo generalmente tra le sesta e l’ottava decade.
Il fumo di sigaretta è il principale fattore di rischio per lo sviluppo del tumore polmonare, essendo
responsabile del 90% dei casi nell’uomo e dell’80% dei casi nella donna → il fumo passivo aumenta il rischio
di circa il 20-50%, a seconda delle casistiche, i fumatori hanno un rischio 14 volte maggiore di superiore un
k polmonare rispetto ai non fumatori di pari età, mentre i forti fumatori (> 30 pacchetti-anno) hanno un
rischio circa 20 volte maggiore rispetto ai non fumatori di parti: il rischio fumo-correlato è direttamente
proporzionale al numero di sigarette fumate e alla durata in anni dell’esposizione e può essere quantificato
con una misura definita pack-years data dal numero di sigarette fumate al giorno (diviso 20) per il numero
di anni di fumo. Fino ad un paio di anni fa si riteneva che dopo 10-15 anni di astensione dal fumo di
sigaretta il rischio di sviluppare un tumore polmonare diventasse sovrapponibile a quello della popolazione
normale; recenti dati invece sembrerebbero smentire ciò, per cui il rischio potrebbe rimanere comunque
incrementato nei fumatori e soprattutto nei forti fumatori, anche a distanza di 20 anni dalla cessazione del
fumo. Altri fattori di rischio sono l’esposizione a radiazioni ionizzanti, a inquinanti ambientali ed
esposizione professionali a polveri, come arsenico e asbesto.
Uno studio su più di 53.000 soggetti ad alto rischio (> 30 pacchetti-anno) ha portato all’approvazione, negli
USA, di una metodica di screening per il carcinoma polmonare → nello studio si sono messi a confronto la
capacità di diagnosticare tumori polmonari in stadio precoce degli esami TC e RX, con la messa in evidenza
di una netta migliore capacità della TC rispetto all’RX (Stadio I: 158 vs 70) → ne segue l’approvazione di
uno screening TC solo in pz ad alto rischio (> 30 pacchetti-anno)
Dal punto di vista istologico più del 95% dei carcinomi polmonari è riconducibile a quattro istotipi principali,
raggruppabili in 2 macro-gruppi → NSCL (80%): tumore polmonare non a piccole cellule, che comprende
adenocarcinoma, carcinoma squamoso e carcinoma a grandi cellule, i quali prendono origine da cellule
epiteliali dell’albero bronchiale; SLCL 20%: tumore polmonare a piccole cellule o microcitoma, che origina
da cellule neuroendocrine disposte lungo l’albero bronchiale e comprende la variante classica e i carcinoidi.
• Adenocarcinoma: forma più frequente (60%), localizzazione periferica, presenta come principale
marcatore sierico il CEA che è presente nel 75% dei tumori ed è utilizzato per la valutazione della
risposta alla terapia e per il monitoraggio di eventuali recidive. Prognosi spesso infausta per
diagnosi tardiva. Forma lepidica prognosi migliore, con sopravvivenza dell’85% a 5 anni dopo
intervento chirurgico radicale.
• Carcinoma squamoso: secondo istotipo in ordine di frequenza (30%), nei 2/3 dei casi a
localizzazione centrale → sintomi principali sono tosse stizzosa, associata talvolta ad emoftoe.
Rispetto ad altri istotipi ha una crescita più lenta e tende a metastatizzare più tardivamente
• Carcinoma a grandi cellule: raro (10%), è un tumore scarsamente differenziato o anaplastico,
caratterizzato da aggressività biologica con spiccata tendenza a metastatizzare precocemente sia
per via linfatica che per via ematica. Sopravvivenza inferiore ad adenocarcinoma e k. squamoso.
• Carcinoma a piccole cellule o microcitoma: tumore epiteliale maligno costituito da cell che
esprimono nella maggior parte marcatori neuroendocrini; è più frequente nei M e nei forti
fumatori con un rischio di 100 volte maggiore in quelli con pack-years > 30. Nell’80-95% è a
localizzazione centrale. La clinica è caratterizzata dalla rapida insorgenza di segni e sintomi
correlati alla crescita intratoracica, alla diffusione metastatica e alle sindromi paraneoplastiche
che si associano frequentemente (iponatriemia, s. di Cushing, s. miastenica di Lambert-Eaton) →
si caratterizza per
aggressività
biologica e diffusione
metastatica precoce.
Marker: enolasi
neurono-specifica.
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GIULIA BARONE
Il tumore polmonare origina dall’epitelio bronchiale nel 90% dei casi → carcinoma broncogeno.
In base alla localizzazione si divide in:
➢ Centrale: si localizza nel “terzo centrale” del polmone ed è in stretto rapporto con i bronchi
principali, lobari o segmentari. Sottotipo più frequente squamoso e microcitoma. La
sintomatologia delle forme centrali è solitamente precoce, caratterizzata da tosse, emoftoe,
emottisi e dispnea per atelettasia delle aree polmonari a valle della neoplasia → l’atelettasia può
evolvere in processi broncopneumotici recidivanti.
➢ Periferico: si colloca nei due terzi esterni del polmone. Sottotipo più frequente adenocarcinoma.
La sintomatologia è spesso tardiva, caratterizzata da dolore toracico localizzato per
interessamento infiltrativo della pleura parietale, o riferibile a un processo broncopneumotico
per ascessualizzazione del tumore.
Classificazione patologica:
Comprende la valutazione di parametri aggiuntivi che integrano le informazioni morfologiche del patologo
→ molteplici alterazioni molecolari sono importanti per eventuali implicazioni diagnostico-terapeutiche.
• K-RAS: 20-30% carcinoma non squamoso
• EGFR: 10-15% carcinoma non squamoso
• ALK: 5% carcinoma non squamoso
• ROS1: <2% carcinoma non squamoso
QUADRO CLINICO:
L’80% dei pz con tumore polmonare presenta sintomi al momento della diagnosi; solo gli stadi precoci,
associati anche ad una prognosi migliore, sono più frequentemente asintomatici.
Il quadro clinico di presentazione è estremamente variabile, i segni e sintomi possono dipendere da:
▪ Invasione strutture contigue (disfagia e disfonia da infiltrazione n. ricorrente)
▪ Diffusione linfatica locoregionale
▪ Diffusione metastatica a distanza
▪ Sindromi paraneoplastiche (SIADH e Cushing)
Tosse e dispnea sono i sintomi più frequenti, seguiti da dolore toracico, calo ponderale, anoressia e
astenia.
➢ Se localizzazione centrale prevalgono tosse, emoftoe, dispnea e febbre, soprattutto in presenza di
complicanze broncopneumotiche
➢ In caso di localizzazione periferica il pz ha tipicamente sintomi come tosse irritativa, dispnea,
dolore toracico persistente, profondo o costrittivo da infiltrazione pleurica; talora si può avere la
comparsa di un versamento pleurico o talora febbre da ascessualizzazione del tumore
Negli stadi più avanzati possono comparire dita a bacchetta di tamburo e unghie a vetrino d’orologio.
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GIULIA BARONE
Algoritmo diagnostico:
1. TC TORACE: vediamo il nodulo polmonare
2. BIOPSIA: conferma che è un k. polmonare
3. PET: ricerca MTS a distanza e linfonodali
4. TC ENCEFALO: le MTS encefaliche non vengono visualizzate alla
PET
La chemioterapia viene effettuata come adiuvante nello stadio II e come citoriduttiva nello stadio IIB-IIIC,
si compone di un composto di coordinazione del platino (cisplatino o carboplatino) associato a
pemetrexed, tassani, gemcitabina o vinorelbina. La chemio è critica per la gestione dei pz con stadio IV.
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GIULIA BARONE
Nel caso di carcinoma non squamoso (adenocarcinoma o carcinoma a grandi cellule) in stadio IIIB-C/IV si
misura la presenza di alterazioni molecolari sulle cellule neoplastiche, cosa che determina la possibilità di
utilizzare dei farmaci a bersagli molecolari specifici:
➢ Mutazioni EGFR → osimertinib (inibitore reversibile EGFR 3° generazione), erlotinib, gefitinib
(inibitori reversibili EGFR 1° generazione) si legano al recettore mutato e ne bloccano l’azione
➢ Inversione ALK → alectinib, crizotinib
➢ Traslocazioni e amplificazioni che interessano ROS-MET → crizotinib
Se non presenta una di queste mutazioni, si ricerca l’espressione di PDL1:
− Se questo è espresso in più del 50% della massa neoplastica → pembrolizumab senza chemio
− Se non ci sono né le alterazioni sopra citate né l’espressione di PDL1 > 50% → combinazione
chemioterapia + pembrolizumab
Nel caso di carcinoma squamoso stadio IIIB-C/IV si misura in prima battuta il PDL1:
− Se è espresso > 50% → pembrolizumab
− Se non c’è alta espressione → chemioterapia
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GIULIA BARONE
SCLC: STADIAZIONE
• Malattia Limitata (30-40%): neoplasia limitata ad un solo polmone con possibile interessamento
linfonodale omolaterale → sopravvivenza a 2 anni < 30%
• Malattia estesa (60-70%): neoplasia estesa ad entrambi i polmoni o con metastasi a distanza →
sopravvivenza a 2 anni < 10%
In caso di malattia limitata, un approccio multimodale includente la chirurgia può essere presa in
considerazione solo in casi selezionali in stadio limitato (T1-T2N0); in tutti gli altri casi è indicato un
trattamento chemio-radioterapico a dosi radicali → trattamento di prima scelta; se il pz risponde può essere
indicata a seguito una irradiazione profilattica dell’encefalo (PCI).
Nei casi di malattia estesa è indicato un trattamento chemioterapico di prima linea con cisplatino, etoposide
e atezolizumab. Se in risposta con chemio, considerare PCI. (nei pz con malattia estesa la radioterapia può
essere presa in considerazione in pz con un buon performance status)
Il tumore spesso risponde bene a chemio e radio, ma recidiva frequentemente (dopo 3-4 mesi)
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GIULIA BARONE
NEOPLASIE COLON-RETTO
I carcinomi del colon sono neoplasie originate prevalentemente da cellule epiteliali che rivestono il colon; i
carcinomi del retto sono neoplasie originate prevalentemente da cellule epiteliali che rivestono il retto.
La distinzione tra queste due forme è critica nel caso di un pz che deve fare un trattamento adiuvante, mentre
diventa irrilevante se il pz è metastatico o se c’è una recidiva a distanza di tempo.
EPIDEMIOLOGIA:
Secondo tumore maligno per incidenza e mortalità in Italia. Nel 2019 si è registrato una prevalenza di 49.000
e una mortalità di 19.971. Raro prima dei 40 anni, più frequente dopo i 60 anni, con un picco intorno ai 70-
80 anni; colpisce in egual misura entrambi i sessi → ad oggi però sembra sempre più frequente il riscontro
anche in soggetti giovani, sotto i 40 anni d’età.
Negli ultimi anni si è osservato un aumento dell’incidenza, ma associato ad una riduzione della mortalità
grazie alla diagnosi precoce e ai miglioramenti terapeutici → ad oggi l’età non è più un fattore d’esclusione
per l’intervento chirurgico.
Nel 75% dei casi si localizza a carico del colon sn ed è così distribuito:
− 5% a livello della flessura sn del colon
− 5% a livello del colon discendente
− 65% a carico del sigma-retto
Nel 20% si localizza a carico del colon ascendente e nel restante 5% a carico del colon trasverso.
Fattori di rischio:
70-80% dei casi sono sporadici → nella sua patogenesi hanno un ruolo decisamente maggiore l’influenza dei
fattori ambientali: dieta ricca di grassi, obesità, fumo e alcol, mancata attività fisica e malattie predisponenti
(colelitiasi e diabete)
▪ Dieta povera di fibre e ricca di grassi → le fibre, promuovendo un più rapido svuotamento intestinale
e legando le sostanze potenzialmente cancerogene, ridurrebbero la durata del contatto tra queste e
la mucosa; sperimentalmente si è osservato che un più elevato consumo di grassi indurrebbe,
attraverso l’aumento della secrezione degli acidi biliari, una più intensa proliferazione cellulare della
mucosa colica
10-30% è familiare (= si presenta con frequenza di 2-3 volte maggiore rispetto a quella della popolazione
generale) → fattori ambientali predisponenti, mutazioni di singoli geni (APC, MSH2, MLH1, PMS1-2) ed
eredità poligenica hanno un’uguale importanza patogenetica
1-5% è associato a HNPCC e FAP → le mutazioni di singoli geni hanno un ruolo maggiore nella carcinogenesi
▪ Poliposi familiare: malattia autosomica dominante in cui ≥ 100 polipi adenomatosi tappezzano il
colon e il retto; causata dalla mutazione del gene APC (oncosoppressore), la cui proteina agisce nella
via di segnalazione di WNT (fattore di crescita) e sulla regolazione della β-catenina.
▪ I polipi non sono presenti alla nascita ma compaiono nell’adolescenza e spesso superano il numero
di mille → svilupperanno il cancro prima dei 40 anni → il trattamento consiste in una
proctocolectomia profilattica laparoscopica [altri casi in cui si opta per chirurgia profilattica è il BRCA1
nella mammella, ed il K midollare della tiroide familiare]. I pazienti possono sviluppare anche diverse
manifestazioni extracoliche: sindrome di Garden se associata a lipomi, osteomi, fibromi, tumori
desmoidi del mesentere e della parete addominale; sindrome di Turcot se associata a tumori
cerebrali (medulloblastomi e glioblastomi).
▪ Sindrome di Peutz-Jeghers: rara sindrome AD associata alla mutazione di STK11 caratterizzata dalla
presenza di multipli polipi amartomatosi che possono interessare tutto il tratto grastrointestinale,
ma prevalentemente colon e retto, e iperpigmentazione della cute e mucosa del cavo orale
▪ HNPCC o sindrome di Lynch: mutazione dei geni di mismatch repair che porta ad un aumentato
rischio di CCR, oltre che di altre neoplasie come mammella, ovaio, stomaco, pelle, tratto urinario,
SNC, piccolo intestino e fegato (Lynch II)
→ con sindromi genetiche lo screening (sangue occulto nelle feci) viene anticipato ai 20 anni con cadenza
annuale, da integrare in caso con uno studio genetico della famiglia.
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GIULIA BARONE
▪ MICI: la degenerazione neoplastica della RCU avviene nel 7-9% dei casi, soprattutto se la malattia è
precoce, grave, estesa e di lunga durata. Il lasso di tempo prima che insorga un tumore
dall’insorgenza della MICI è di circa 10 anni → va anticipato l’intervallo di screening.
Anche il morbo di Chron può predisporre alla neoplasia quando a localizzazione colica.
▪ Irradiazione pelvi
▪ Pregresse patologie neoplastiche: pregresso carcinoma o adenoma del colon-retto o neoplasie
primitive di ovaio, mammella ed endometrio
Altro fattore di rischio è ovviamente la presenza di polipi tubulari o tubulo-villosi di diametro > 2 cm → i
polipi adenomatosi sono lesioni precancerose. Possono essere:
• Tubulari
• Villosi: solitamente più grossi
• Tubulo-villosi
Il fenomeno degenerativo in senso maligno è di più comune
riscontro negli adenomi villosi e in quelli tubulo-villosi e
nelle lesioni multiple e di maggiori dimensioni → il rischio
di malignità di un polipo adenomatoso dipende da
dimensioni, tipo istologico e grado della displasia: adenoma
tubulare di diametro di 1.5 cm ha un rischio di malignità del
2% vs un rischio del 35% degli adenomi villosi di 3 cm.
Lo screening per il carcinoma colon-retto è consigliato a tutti i soggetti di età maggiore di 50 anni:
➢ Sangue occulto delle feci ogni 2 anni → se il test è positivo deve essere indagato
➢ Retto-sigmoidoscopia ogni 5 anni
➢ Pan-colonscopia ogni 10 anni
Soggetti con familiarità, polipectomia e FAP devono essere monitorati più frequentemente.
La sintomatologia varia a seconda dell’estensione e della sede occupata dalla neoplasia, condizione da
attribuire, da un lato, alle differenti peculiarità morfologiche della neoplasia nelle diverse localizzazioni e,
dall’altro, alle caratteristiche anatomiche e funzionali del settore interessato.
→ COLON DESTRO: calibro maggiore e feci liquide = diagnosi tardiva con stillicidio ematico. Le lesioni
sono tipicamente vegetanti, spesso di grosse dimensioni e talora ulcerate e facilmente sanguinanti.
➢ Anemia secondaria alla cronica e costante perdita ematica dalla superficie neoplastica, con rara
evidenza macroscopica del sangue nelle feci (< 20%) in quanto esso, mescolandosi con il
contenuto intestinale non risulta obiettivabile (sangue occulto)
➢ Dolore di tipo gravativo subcontinuo, localizzato nei quadranti addominali di destra
➢ Astenia riconducibile all’anemizzazione
➢ Massa palpabile che è indice di malattia avanzate
➢ Anoressia e dimagrimento, espressioni generiche di un tumore per troppo tempo rimasto
sconosciuto
I sintomi sono spesso vaghi e aspecifici, tali da essere facilmente trascurati sia dal pz che dal medico
→ COLON SINISTRO: calibro ristretto e feci più formate = diagnosi precoce con quadro subocclusivo. I
tumori sono spesso di tipo anulare infiltrante.
➢ Modificazione dell’alvo caratterizzate da stipsi o diarrea, spesso dall’alternanza dei due (alvo
alterno). Il materiale evacuato è più o meno abbondante ed è misto a muco e sangue
➢ Presenza di sangue nelle feci talora anche in quantità abbondanti (rettorragia)
➢ Dolore addominale spesso intermittente di intensità variabile e localizzato ai quadranti sn,
correlabile alle contrazioni vivaci del colon a monte di una stenosi volte a far procedere il
materiale gassoso e fecale
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GIULIA BARONE
→ RETTO: dimensioni cospicue, specie nella porzione ampollare che costituisce la maggior parte del
viscere e funge da serbatoio per le feci solide. Neoplasie prevalentemente vegetanti ed ulcerate,
facilmente sanguinanti.
➢ Sovrampollare: sintomatologia sovrapponibile a colon sn
➢ Ampollari:
- Tenesmo: spiacevole sensazione, persistente, di incompleto svuotamento rettale, con
senso di peso e di corpo estraneo, talora con dolore gravativo
- Rettorragia: emissione di sangue rosso vivo anche in grande quantità, durante e dopo la
defecazione o indipendentemente da essa, concomita solitamente anche mucorrea
➢ Sottoampollari: rapida evoluzione verso la stenosi
- Dolore perianale e perineale, che si accentua durante defecazione
- Evacuazione di feci nastriformi, mista a sangue e muco
- Tenesmo imponente
NB: diagnosi differenziale con le emorroidi sanguinanti che possono tuttavia coesistere con il carcinoma →
il riscontro di sangue nelle feci o la vera e propria rettorragia non va mai sottovalutata.
DIAGNOSI:
• Esplorazione digito-anorettale: tumefazione di consistenza dura, superficie irregolare, limiti
indistinti. (30-40% è localizzato al retto)
• Pancolonscopia: esame gold standard, si associa a biopsia dell’eventuale lesione riscontrata
• Clisma opaco: più spesso come esame complementare alla colonscopia, talvolta come alternativa.
Il segno di maggiore rilievo è un difetto di riempimento:
− Difetto marginale = lesione vegetante
− Difetto circonferenziale = forme stenosanti → aspetto “a torsolo di mela”
• Ecografia e TC addome: per documentare eventuali MTS, spesso epatiche
• RX e TC toracica: in sospetto di MTS polmonari (v. emorroidarie inferiori drenano in cava inf.)
• Ecografia endorettale: elevata specificità e sensibilità nel determinare l’estensione della malattia.
Nel caso di carcinoma del colon si può fare solo una RX torace, nel caso del k. del retto è necessario fare
una TC torace, per la maggiore probabilità di MTS polmonari.
• nel contesto della parete rettale, del mesoretto, degli organi e strutture limitrofe (prostata,
vescica, vescichette seminali, vagina, utero, canale anale) e dei linfonodi mesorettali
• RM: fondamentale per valutare infiltrazione del mesoretto e invasione linfonodale
• CEA e CA 19.9: marker tumorali utili nel follow-up postoperatorio → il CEA ha un ruolo importante
per valutare la gravità della malattia, nel monitoraggio della risposta alla chemioterapia o per
verificare la ripresa della malattia. Valori di riferimento normali sono 0-2,5/3 ng/ml (fumatori
valori più elevati)
Anche in questo caso è fondamentale indagare sulla biologia molecolare del carcinoma:
• K-RAS: mutato nel 45%
• N-RAS: mutato in < 10%
• B-RAF: mutato nel 10%
Queste mutazioni sono mutualmente esclusive e si verificano nel 55-60% dei pz.
30
GIULIA BARONE
La distinzione tra i tumori del colon destro e del colon sinistro non è solo anatomica, ma ha delle
ripercussioni biologiche e prognostiche.
La maggior parte dei pz con k. colon dx è anziana e una cospicua parte di queste neoplasie sono mucinose,
con prognosi peggiore per la scarsa risposta alla chemioterapia; inoltre sono molto più frequenti le
mutazioni di BRAF e l’instabilità microsatellitare (i microsatelliti sono delle sequenze di ripetizione del DNA,
importanti perché la loro elevata mutazione può portare alla formazione di neoantigeni). Le neoplasie del
colon sx sono invece più frequenti nei pz giovani e hanno prognosi migliore, proprio in ragione delle
differenti caratteristiche biologiche: le mutazioni di KRAS e NRAS sono più frequenti.
STADIAZIONE
STADIO I: T1-2N0M0
sopravvivenza a 5 anni del 74%
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GIULIA BARONE
TRATTAMENTO:
1. CARCINOMA DEL COLON
La chirurgia rappresenta la principale opzione terapeutica con intento curativo delle neoplasie del colon e
dovrebbe essere eseguita nel minor tempo possibile dalla diagnosi. L’intervento deve rispettare i criteri di
radicalità oncologica:
− Il tumore deve essere rimosso integro con una sezione di almeno 2 cm dai margini macroscopici
prossimale e distale del tumore; il peduncolo vascolare deve essere legato alla sua origine
− Deve essere eseguita la dissezione linfonodale regionale fino all’origine del peduncolo vascolare
primario (deve comprendere almeno 12 linfonodi)
− La radicalità deve essere confermata sia dall’assenza di residui evidenti macroscopicamente, sia
dal successivo esame istologico che evidenzia margini liberi da neoplasia
L’intervento chirurgico è indicato in stadio I, II, III → emicolectomia dx o emicolectomia sx o resezione del
colon trasverso o resezione colica segmentaria.
La chemioterapia adiuvante invece:
- Non deve essere presa in considerazione nello stadio I
- Ai pazienti in stadio II con fattori prognostici sfavorevoli (occlusione, perforazione, T4, G3-4,
inadeguato numero di linfonodi esaminati, invasione vascolare e/o linfatica e/o perineurale) è
corretto proporre una terapia adiuvante con fluoripirimidine +/- oxaliplatino
- Tutti i pazienti con stadio III sono candidati a terapia adiuvante
La chemioterapia viene effettuata con lo schema FOLFOX (5-fluorouracile + acido folinico + oxaliplatino) o
XELOX (capecitabina + oxaliplatino) o solo 5-fluorouracile + acido folinico o solo capecitabina per 6 mesi.
Per i pazienti con malattia locoregionale avanzata (T3 o più, N1 o più) è indicata la terapia neo-adiuvante,
che nel carcinoma del colon prevede esclusivamente la chemioterapia (non si usa la RT) con schema
FOLFOX o XELOX per 3 mesi.
I pazienti in IV stadio non hanno indicazione all’intervento chirurgico, ma solo alla chemioterapia con
l’ausilio di farmaci biologici.
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GIULIA BARONE
Nonostante l’assenza delle suddette mutazioni, il k. del colon dx è poco responsivo alla terapia anti-EGFR,
questo perché le vie di trasduzione dei segnali proliferativi che utilizzano le cellule neoplastiche del colon
dx sono molto meno dipendenti dall’EGFR rispetto a quanto accade nel colon sx → nel colon dx
metastatico, anche se KRAS, NRAS e BRAF sono negativi si utilizza il bevacizumab.
Nel caso di stadio II-III (T3-T4 o N+) si ha indicazione ad una chemioradioterapia neoadiuvante con
5-fluorouracile a basse dosi o capecitabina (suo precursore orale), e solo in un secondo momento la
terapia chirurgica → nel k. del retto la RT neoadiuvante (a fasci esterni) è fondamentale perché permette
di ridurre il rischio di recidiva e aumenta la sopravvivenza.
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GIULIA BARONE
Il carcinoma mammario è la neoplasia più frequentemente diagnosticata nelle donne, in cui si stima che un
tumore maligno ogni tre (30%) è un tumore mammario. In Italia l’incidenza è di 30.000 nuovi casi/anno →
circa una donna su 10 nel corso della propria vita sviluppa un tumore della mammella. Colpisce con più
frequenza le donne nel periodo perimenopausale con due grandi picchi di incidenza tra i 45-50 anni e tra i
60-65 anni, anche se possono essere colpite tutte le fasce d’età.
Nonostante l’incidenza elevata, la mortalità, ad oggi, è bassa con un tasso di sopravvivenza a 5 anni dell’85%
in Italia.
FATTORI DI RISCHIO:
• Sesso → primo fattore di rischio
• Il rischio aumenta con l’aumentare dell’età → questa correlazione potrebbe essere legata al
continuo e progressivo stimolo proliferativo endocrino che subisce l’epitelio mammario nel corso
degli anni, unito al progressivo danneggiamento del DNA e all’accumularsi di alterazioni epigenetiche
con alterazione dell’equilibrio di espressione tra oncogeni e geni soppressori.
• Familiarità → soprattutto k. Mammario in parenti di 1° grado
• Fattori genetici → mutazione di BRCA1 e BRCA2 (1/4 delle forme ereditarie), sindrome di Cowden
(mutazione PTEN), sindrome di Li-Fraumeni (mutazione p53).
Le forme ereditarie sono caratterizzate da insorgenza in età giovanile e frequente bilateralità e multifocalità
• Pregressa neoplasia maligna di mammella, ovaio o endometrio
• Fattori riproduttivi → lunga durata del periodo fertile, con menarca precoce e menopausa tardiva,
che comporta una più lunga esposizione dell’epitelio ghiandolare agli stimoli proliferativi degli
estrogeni ovarici; nulliparità, mancato allattamento al seno o prima gravidanza dopo i 30 aa
• Fattori ormonali → incremento del rischio in donne che assumono una terapia ormonale sostitutiva
in menopausa (disturbi in menopausa sono vampate di calore, secchezza vaginale, irritabilità, perdita
di libido, rischio cardiovascolare, distribuzione differente dell’adipe, osteoporosi, capelli fragili e
depressione) o che assumono contraccettivi orali
• Fattori dietetici e metabolici → l’elevato consumo di alcol e di grassi animali, il basso consumo di
fibre vegetali sembrerebbero essere associati ad un aumentato rischio; così come l’obesità,
probabilmente legato all’eccesso di tessuto adiposo che in postmenopausa rappresenta la principale
fonte di sintesi di estrogeni circolanti.
• Pregressa radioterapia a livello toracico, specialmente se prima dei 30 anni
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GIULIA BARONE
Oltre alla neoplasia maligna abbiamo a livello mammario anche delle neoplasie benigne:
1. FIBROADENOMA
Tumore benigno della mammella più frequente (il 35% delle donne in Italia ha almeno un fibroadenoma)
→ picco a 20-30 anni.
È un tumore misto, presentando infatti una duplice componente: una epiteliale e una stromale; insorge
più frequentemente nel quadrante supero-esterno e nel 15% può essere bilaterale e multiplo.
Può essere considerato un processo iperplastico che coinvolge l’unità dutto-lobulare e il tessuto connettivo
circostante → la sua crescita sembra essere legata alla risposta eccessiva della componente stromale agli
stimoli ormonali, in particolare estrogeni (motivo per cui è raro riscontrare un fibroadenoma di nuova
insorgenza in una donna in menopausa). Questo sembra essere più frequente nelle donne con ciclo
irregolare, per i più alti e irregolari picchi ormonali.
Si presenta clinicamente come un nodulo di consistenza fibrosa, a superficie liscia, mobile sui piani
superficiali e profondi e a margini ben definiti → segno clinico tipico è il “segno del topolino” in cui si
apprezza la mobilità della lesione rispetto al parenchima ghiandolare circostante (= tumore capsulato e
mobile che tende a scappare/scivolare dalle dita quando lo si palpa).
→ la crescita è possibile, anche se lenta, e può essere più rapida durante la gravidanza o l’allattamento:
quando > 4 cm si parla di fibroadenoma gigante.
Dal punto di vista diagnostico, il fibroadenoma viene visualizzato all’ecografia come un’area ipoecogena e
di aspetto ovalare → il riscontro di una lesione a margini ben circoscritti in una paziente giovane deve far
pensare ad un fibroadenoma nel 95% dei casi. La diagnosi viene confermata dall’effettuazione di un’ago-
biopsia (più precisa) o di un’ago-aspirato.
La terapia chirurgica è indicata nel caso in cui il fibroadenoma abbia una dimensione > 2 cm oppure
quando sia stata documentata ecograficamente una rapida crescita del nodulo nel tempo → l’intervento
può essere eseguito anche in anestesia locale e consiste nell’enucleoresezione del nodulo.
Il fibroadenoma non evolve in k. mammario ma può essere un elemento confondente che nasconde o
rende poco o per niente visibile un’altra lesione maligna
e infiltrante alla mammografia.
Il rischio di recidiva dopo asportazione è del 50%.
Per quanto riguarda le neoplasie maligne distinguiamo dal punto di vista istologico:
➢ Carcinomi in situ: non superano la membrana basale
➢ Carcinomi infiltranti: infiltrano la membrana basale
A loro volta distinti in:
➢ Carcinoma lobulare: caratterizzate da una mutazione della E-caderina → le cellule perdono
coesione e tendono a distaccarsi tra loro; quando infiltrano, lo fanno singolarmente e si
dispongono spesso a filiera.
➢ Carcinoma duttale: le cellule tendono a stare organizzate tra di loro, formando delle strutture
simil-ghiandolari (a nidi, a trabecole). È il più frequente.
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GIULIA BARONE
1. CARCINOMA IN SITU
Si sviluppa all’interno dei dotti mammari e non supera la membrana basale dei dotti → non dà metastasi;
se si riscontra positività di un linfonodo sentinella in presenza di una diagnosi di carcinoma in situ è quasi
sicuramente presente un’infiltrazione che non è stata riconosciuta e individuata alla biopsia.
Anche questo, così come il carcinoma invasivo, può essere distinto in:
- Carcinoma duttale: tende ad essere localizzato.
- Carcinoma lobulare: secondo l’ultima edizione del WHO 2019, con questo termine si fa riferimento
all’intero spettro delle lesioni epiteliali atipiche originate dall’unità lobulare del dotto terminale e
caratterizzate da una proliferazione monomorfa di cellule non coese. Ha una maggiore tendenza
alla multifocalità e alla bilateralità. Secondo la versione AJCC 2018 questo non viene più stadiato
come pTis perché viene considerato, più che un precursore di una neoplasia infiltrante, un
marcatore di rischio, trovandosi associati fino all’87% dei casi ad un carcinoma invasivo.
I carcinomi in situ vanno gradati in base alle atipie nucleari, alla presenza di necrosi tumorale:
• G1: di basso grado → generalmente correla con l’espressione di recettori estrogenici
• G2: di grado intermedio;
• G3: di alto grado → possono presentare necrosi comedonica e sono più frequentemente HER2 +
Queste neoplasie spesso non hanno un corrispettivo macroscopico → possono però essere individuati, in
una buona percentuale dei casi, con l’effettuazione di una mammografia che mette in evidenza la presenza
di microcalcificazioni. Questo è valido soprattutto per i carcinomi duttali in situ, che presentano nell’80-
85% dei casi microcalcificazioni; differente la situazione del carcinoma lobulare in situ che presenta
microcalcificazioni solo nel 15-20% e viene più frequentemente diagnosticato come reperto accidentale.
Se le calcificazioni sono sospette si effettua l’agobiopsia → solitamente effettuata eco-guidata, nel caso di
lesioni non identificabili agli ultrasuoni (focolai di microcalcificazioni, piccole distorsioni architetturali,
asimmetrie del parenchima) il prelievo bioptico viene eseguito sotto guida mammografica.
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GIULIA BARONE
2. CARCINOMA INFILTRANTE
La forma di neoplasia maligna della mammella più frequente è rappresentata dal carcinoma duttale
infiltrante non altrimenti specificato, che costituisce circa il 75% dei carcinomi. Si presenta in genere come
lesione unica di dimensioni variabili, di consistenza aumentata rispetto al parenchima mammario circostante,
a margini sfumati, a superficie irregolare, con tendenza alla retrazione dei tessuti circostanti → l’invasione
del tessuto stromale da parte delle cellule neoplastiche stimola la produzione di tessuto fibroso e sclerotico,
processo che prende il nome di “reazione desmoplastica”.
Il carcinoma lobulare spesso è multifocale e/o multicentrico e si presenta frequentemente in forma
bilaterale, con lesioni che possono essere sincrone o metacrone → alto rischio di recidive in mammella non
operata; frequente quadro di “mammella controlaterale difficile” caratterizzata da displasia di difficile
interpretazione, che possono predisporre alla neoplasia.
Istologicamente è rappresentato da cell atipiche che si dispongono in “fila indiana” all’interno del parenchima
ghiandolare sano → la reazione desmoplastica è meno rappresentata.
→ Ne consegue che mentre il carcinoma duttale è facilmente riconoscibile alla mammografia come una
massa iperdensa con aspetto “finger-like”, il carcinoma lobulare può essere di più difficile individuazione e
può presentarsi con una semplice distorsione dell’architettura ghiandolare, senza formare massa → motivo
per cui ad oggi l’indagine mammografica viene sempre più spesso accoppiata all’esame ecografico, con cui
si può studiare meglio l’alterazione del parenchima mammario.
CLINICA
Negli stadi iniziali il carcinoma della mammella è asintomatico e la
presenza di un nodulo o di un'area di consolidamento
parenchimale è la prima manifestazione nell'80% dei casi. Segni
tardivi sono rappresentati dalla retrazione della cute con ulcerazione
ed edema cutaneo (aspetto a buccia d'arancia → dovuto in parte
alle retrazioni causate dell’infiltrazione neoplastica e in parte
all’edema linfatico dovuto dalla presenza di trombi che occludono i
vasi linfatici) o dalla retrazione del capezzolo → questi aspetti
indicano l’adesione da parte del tumore a strutture anatomiche
sovrastanti (cute, derma e sottocute) o profonde (muscoli e parete
toracica). Casi avanzati si possono presentare, ancora, con il classico
quadro del carcinoma infiammatorio: la mammella appare
complessivamente edematosa, aumentata di volume e consistenza
e ricoperta di cute iperemica e ipertermica; si associa a mastodinia
e spesso alla presenza di linfoadenopatie ascellari palpabili.
Malattia di Paget: carcinoma duttale che interessa i dotti maggiori, in genere un dotto galattoforo, e che si
diffonde da questa sede alla cute del capezzolo. Dal punto di vista clinico il primo segno è tipicamente una
lesione cutanea del capezzolo, che è per lo più un’erosione o eventualmente un’ulcerazione. L’esame
citologico del secreto che proviene da tale lesone o l’esame istologico di un’area eczematosa consente la
diagnosi.
Le 12 possibili manifestazioni di un
carcinoma alla mammella:
1. Indurimento
2. Indentazione
3. Erosione cutanea
4. Arrossamento
5. Secrezione dal capezzolo
6. Fossette mammarie
7. Lesione che protrude
8. Vene evidenti in prossimità
9. Retrazione del capezzolo
10. Comparsa di asimmetria
11. Cute a buccia d’arancia
12. Nodulo invisibile
DIAGNOSI:
− Esame clinico senologico con ispezione e palpazione della ghiandola e del cavo ascellare.
− Mammografia: esame principe di primo livello → maggiore attendibilità in soggetti con mammella a
prevalente contenuto adiposo (donne anziane), che permetterà di vedere la neoplasia come una
lesione iperintensa; perde di affidabilità in caso di mammelle dense a prevalente contenuto
ghiandolare
− Ecografia: esame di integrazione → tecnica molto più sensibile per lo studio della mammella di
giovani donne → il tumore viene visualizzato come una zona ipoecogena a margini irregolari, spesso
raggiati e in un contesto di disorganizzazione strutturale del parenchima
− RM: da utilizzare in caso di mammelle difficili da studiare con mammografia o ecografia → indicata
per la stadiazione locoregionale della patologia neoplastica, per il follow-up delle lesioni in corso di
chemioterapia adiuvante, in donne ad alto rischio genetico e CUP syndrome (definita come un
tumore confermato istologicamente e clinicamente per cui alla diagnosi è possibile identificare solo
le metastasi, ma non il tumore primario).
− Biopsia stereotassica (mammotome): effettuato sempre con ago tranciante (l’ago sottile è solo
citologico e non ci dà informazioni adeguate) si prelevano 3-4 cilindri in maniera eco-guidata.
− Marker tumorali: CEA, CA 15.3
Data l’elevata frequenza del tumore sono ad oggi attivi dei programmi di screening che permettono una
diagnosi precoce con conseguente maggiore sopravvivenza delle pazienti. In Italia i programmi di screening
prevedono l’esecuzione di una mammografia ogni 2 anni nelle donne tra i 50 e i 69 anni (in alcune regioni
fino ai 74 anni; e in alcune la pratica di screening è stata estesa anche tra 45-49 anni).
Nelle donne ad alto rischio per importante storia familiare di carcinoma mammario o perché portatrici di
mutazione dei geni BRCA1 e/o BRCA2 i controlli strumentali vengono iniziati intorno ai 25 anni o 10 anni
prima dell’età di insorgenza del tumore nel familiare più giovane. La RM con mdc con cadenza annuale di
screening trova indicazione nelle donne ad alto rischio definite come segue:
• Mutazione BRCA1 o BRCA2 (ecografia e mammografia non apportano un contributo maggiore in
termini di detection, anche sei il prof. è convinto si facciano alternate a cadenza semestrale)
• Lifetime risk 20-25% secondo i comuni modelli di predizione del rischio
• Sindrome di Li-Fraumeni, Cowden o Bannayan-Riley-Ruvalcaba
• Pregressa radioterapia toracica tra i 10 e i 30 anni
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GIULIA BARONE
STADIAZIONE:
Viene effettuata una stadiazione secondo il sistema TNM e una stadiazione molecolare.
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GIULIA BARONE
Dal punto di vista prognostico e terapeutico assume particolare importanza la classificazione molecolare:
La variabile espressione di questi tre fattori individua, quindi, quattro categorie fondamentali:
▪ Luminale A: recettori ormonali positivi (estro-progestinici), HER2 negativo e bassa attività
proliferativa. Hanno la prognosi migliore.
▪ Luminale B/HER2 negativi: recettori ormonali positivi, HER2 negativo ed alta attività proliferativa
▪ Luminale B/HER2 positivi: recettori ormonali positivi, HER2 sovraespresso (score 3+), qualsiasi valore
di attività proliferativa (vengono anche definiti tripli positivi)
▪ HER2 positivi: HER2 sovraespresso e recettori ormonali entrambi negativi
▪ Triplo negativi: assenza di espressione dei recettori ormonali e negatività di HER2. Hanno prognosi
peggiore.
Per individuare questi profili molecolare si utilizzano dei “marcatori surrogati” ovvero la ricerca dei
recettori EP e HER2 ci permette di ottenere una stima approssimativa dell’aggressività del tumore e del
profilo molecolare di appartenenza (probabilità di sbagliare ¼)
➢ I recettori EP sono indici di differenziamento della neoplasia, predittivi di risposta ormonale
➢ L’amplificazione di HER2 è predittivo di risposta al trastuzumab
➢ Ki-67 è indice di proliferazione
periareolare → viene successivamente effettuata una scintigrafia con gamma camera per identificare il
linfonodo sentinella e marcare sulla cute della regione ascellare la proiezione del linfonodo sentinella,
aiutando il chirurgo nella scelta della sede dell’incisione cutanea → incisa la cute la ricerca del linfonodo
sentinella marcato con radiofarmaco si esegue con l’ausilio di una gamma camera dedicata (sonda
Neoprobe). La biopsia del linfonodo sentinella rappresenta lo standard per le pazienti con carcinoma
mammario stadio clinico I-II e linfonodi clinicamente negativi o con linfonodi clinicamente sospetti ma con
successivo agoaspirato negativo. Non ha indicazione in caso di carcinoma infiammatorio o linfonodi ascellari
positivi ad ecografia ed esame citoistologico.
TRATTAMENTO:
Nei pazienti con carcinoma invasivo stadio I-II la chirurgia conservativa, rappresentata dalla
quadrantectomia (asportazione di un ampio settore della ghiandola mammaria con cute sovrastante lesione
e fascia m. grande pettorale) o tumorectomia (intervento meno invasivo con completa rimozione della
lesione e di parte del parenchima sano circostanti per avere margini istologicamente indenni di almeno 1-2
cm) associata alla radioterapia della mammella (whole breast irradiation) rappresenta il trattamento di
prima scelta. La mastectomia trova applicazione quando l’approccio conservativo non è indicato o non è
tecnicamente possibile (tumori multicentrici, malattia localmente avanzata e pz che non possono essere
sottoposte a RT: collagenopatie in fase attiva, primi mesi di gravidanza, pregresso trattamento
radioterapico). → la scelta del tipo di intervento a livello mammario dipende dalla localizzazione e dal
rapporto tumore/dimensioni mammella, dalle caratteristiche mammografiche, dalla preferenza della
paziente e dalla presenza o meno di controindicazioni alla RT.
La mastectomia classica secondo Halsted ad oggi è sempre meno utilizzata → consisteva nell’asportazione
della ghiandola con ampia parte di cute sovrastante comprendente il complesso areola-capezzolo, m. grande
e piccolo pettorale e linfonodi ascellari I, II, III livello. Trova indicazione solo in caso di infiltrazione muscolare
da parte della neoplasia. Più utilizzata quella secondo Madden con conservazione di entrambi i m. pettorali,
anche se ad oggi si tende sempre di più verso delle “mastectomie conservative” e trattamenti oncoplastici
→ asportare la lesione neoplastica e ricostruire la mammella operata, bilanciando il divario delle due
mammelle con una mastoplastica riduttiva e/o mastopessi controlaterale atta a minimizzare le eventuali
differenze. La ricostruzione può essere immediata o differita, o durante la stessa seduta operatoria
demolitiva, oppure effettuata in un secondo momento. Dopo intervento di mastectomia la ricostruzione
mammaria immediata è auspicabile in quanto migliora la qualità della vita delle donne, non è associata a un
aumento delle recidive loco-regionali e non interferisce con la diagnosi eventuale di queste ultime → la
mastectomia skin sparing o skin-nipple sparing, consistente nella asportazione mammaria associata a
preservazione della cute o del complesso areola capezzolo (definite anche adenectomie), sono considerate
appropriate quando la ricostruzione immediata è presa in considerazione e presenta evidenti vantaggi
estetici e psicologici. Indicazione al mantenimento del capezzolo è una distanza ≥ 2 cm dal focolaio di
origine della neoplasia.
La dissezione ascellare (con asportazione di almeno 10 linfonodi per la valutazione patologica accurata
dell’ascella) è indicata:
- In presenza di linfonodi ascellari clinicamente patologici e confermati da studio cito-microistologico
pre-operatorio
- Linfonodo sentinella positivo con macrometastasi
- Mancato reperimento del linfonodo sentinella
- Tumori T4 e carcinoma infiammatorio
L’irradiazione dei linfonodi regionali trova applicazione nelle pazienti con tumori T3-T4 e per ogni stadio di
T con 4 o più linfonodi ascellari positivi, applicazione che si sta estendendo anche alle pazienti con stadio T1-
T2 con 1-3 linfonodi positivi in presenza di parametri biologici sfavorevoli (G3, elevati livelli di Ki63, bassi
livelli di ER e/o PgR)
Dopo chirurgia conservativa, l’irradiazione dei linfonodi regionali (in aggiunta alla mammella) viene
generalmente sempre impiegata nei casi con 4 o più linfonodi ascellari positivi e può essere considerata in
casi con 1-3 linfonodi ascellari positivi in rapporto ai fattori di rischio.
→ la linfoadenectomia comporta nel 5-10% spiacevoli complicanze: linfedema, dolore, parestesie, linfoceli e
impotenza funzionale dell’arto superiore. Il linfedema è un disturbo cronico dovuto alla stasi linfatica dell’arto
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superiore che si presenta con edema più o meno evidente. Può comparire anche a seguito di RT.
GIULIA BARONE
Le neoplasie localmente avanzate rappresentano un gruppo eterogeno di tumori che comprende lo stadio
T3-T4, indipendentemente dai linfonodi, sia lo stadio N2-N3, indipendentemente dallo stadio T, condizioni
tutte ad alto rischio di ripresa di malattia → trattamento radiante, dopo mastectomia, sulla parete toracica
e sulle stazioni linfonodali regionali perché impatta positivamente sul controllo loco-regionale a distanza
migliorando la sopravvivenza globale e libera da malattia.
Dopo mastecotmia la RT della parete toracica trova indicazione in presenza di tumori primitivi con
dimensioni > 5 cm (T3), per tumori che infiltrano la cute e/o muscolo pettorale e/o parete toracica, e nel caso
di interessamento metastatico di 4 o più linfonodi ascellari.
(RT entro le 8-20 settimane dall’intervento, dopo guarigione ferita chirurgica.)
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Il ruolo del trattamento sistemico adiuvante dopo il trattamento chirurgico è ampiamente consolidato, in
funzione significativa del rischio di recidiva e di morte ottenuta con la polichemioterapia, con la terapia
endocrina o biologica (trastuzumab). Per quanto riguarda la chemioterapia possiamo avere diversi regimi,
quelli a maggiore efficacia prevedono l’utilizzo di antracicline (epirubicina, adriamicina) e tassani (paclitaxel
o docetaxel) in associazione o in sequenza; possono essere utilizzati regimi con solo antracicline e regimi di
1° generazione con classico schema CMF (ciclofosfamide, metotrexate e 5-fluorouracile) che è sicuramente
meno tossico ma anche meno efficace.
• Luminal A: tumori basso grado, buona prognosi ed elevata sensibilità a terapia endocrina → terapia
cardine è la terapia endocrina adiuvante con tamoxifene in premenopausa per 5 anni o inibitori
dell’aromatasi (anastrozolo/letrozolo) in postmenopausa (se non tolleranti usare tamoxifene)
• Luminal B HER2 - : fenotipo più aggressivo → polichemioterapia + terapia endocrina
L’aggiunta della soppressione ovarica (LHRH-agonisti) al tamoxifene dovrebbe essere valutata in base al
rischio di ripresa di malattia della singola paziente, rischio valutato in base alle caratteristiche della pz (età)
e del tumore (T, N, grado istologico, livelli di positività dei recettori ormonali, Ki-67) → l’aggiunta della
soppressione ovarica deve essere presa in considerazione nel caso di un alto rischio di ripresa.
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Malattia metastatica
Nei tumori con recettori ormonali positivi HER2 negativi la terapia endocrina in associazione ad un CDK4/6
inibitore è la prima opzione di trattamento → inibitori aromatasi/fulvestran + inibitori CDK4/6
(palbociclib, abemaciclib, ribociclib)
Nei tumori HER2 positivi il trattamento con combinazioni di chemioterapia (monochemioterapia) ed
agenti HER2-antagonisti (doppio blocco) è assodato come trattamento di prima scelta → trastuzumab +
pertuzumab (lega dominio II di HER2 invece che IV) + taxano (docetaxel).
Il Lapatinib è un inibitore reversibile delle tirosinkinasi associato all’attività catalitica di HER2, per cui
inibisce il segnale di quest’ultimo → è approvato in associazione alla capecitabina nelle pazienti con k.
mammario avanzato o metastatico HER2-positivo in progressione dopo un trattamento che include
antracicline e taxani ed una terapia con trastuzumab per malattia metastatica.
Il bevacizumab (anti-VEGF) è approvato in associazione con paclitaxel nel trattamento di prima linea del
carcinoma mammario metastatico HER2-negativo e non ha indicazioni in associazione a qualsiasi altro
chemioterapico oppure in monoterapia.
Nel caso di carcinoma triplo negativo con mutazione BRCA1/2 localmente avanzato o metastatico hanno
indicazioni i PARP inibitori (olaparib o talazoparib).
Nel caso di espressione di PDL1 è indicato l’utilizzo di atezolizumab → in tumori triplo-negativi localmente
avanzati non resecabile o metastatici in associazione a paclitaxel.
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CARCINOMA PROSTATICO
La prostata è un organo di piccole dimensioni a castagna, distinta in tre zone: periuretrale, centrale e
periferica. Quest’ultima è la sede su cui più spesso insorge l’adenocarcinoma (70% dei casi)
Il carcinoma prostatico è una neoplasia caratterizzata da uno sviluppo lento e un’incidenza altissima,
rappresentando infatti il tumore più frequente nel sesso maschile. Ad oggi viene quasi sempre
diagnosticata in fase precoce → 8 pz su 10 hanno malattia organo-confinata, a rischio basso o intermedio.
Il recente aumento degli adenocarcinomi preclinici diagnosticati ha causato un enorme aumento della
spesa senza una significativa riduzione della mortalità → si cerca di evitare gli screening di massa.
Nella maggior parte dei casi è asintomatico, una sintomatologia aspecifica può comparire in presenza di
una malattia localmente o sistematicamente avanzata:
➢ sintomatologia urinaria ostruttiva → attesa preminzionale; mitto ipovalido e prolungato; mitto
intermittente; sgocciolamento terminale; sensazione di incompleto svuotamento
➢ sintomi di natura irritativa → pollachiuria; nicturia; stranguria; urgenza minzionale
➢ ematuria → infiltrazione del trigono vescicale
➢ emospermia → invasione dei dotti eiaculatori e vescichette seminali
➢ dolore locoregionale → infiltrazione strutture circostanti
➢ dolore osseo → le ossa sono la prima sede di MTS
➢ linfedema arti inferiori → infiltrazioni linfonodi inguinali
Fattori di rischio Fattori protettivi
− Età − Riduzione assunzione grassi
− Razza (nera maggior rischio) − Maggiore consumo soia e
− Presenza di androgeni biologicamente attivi nel sangue derivati
circolante e nel tessuto prostatico − Vitamina E
− Fattori genetici (25% dei pazienti presentano storia − Tea verde
familiare di tumore della prostata)
− Stile di vita – dieta
TC e RM sono molto utili per la stadiazione del tumore → la TC permette di valutare l’eventuale interessamento
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linfonodale loco-regionale; mentre la RM è la metodica di scelta per definire l’estensione locale del tumore.
GIULIA BARONE
Fattori prognostici
1. PSA
2. Età → quando insorge in età più precoce (es. 50 anni), pur avendo un PSA iniziale basso e un
Gleason, raramente, uguale o maggiore di 6, è una neoplasia ad alto rischio.
3. Stadio → Gleason score: score
anatomopatologico su biopsia, ottenuto
mediante la somma del punteggio dei due pattern
anatomo patologici maggiormente rappresentati.
Il patologo assegnerà prima il Gleason del tessuto
tumorale più esteso e poi quello della zona
tumorale ad estensione inferiore. Se per esempio
il tessuto tumorale con estensione predominante
ha un Gleason di 3 e l’area tumorale secondaria ha
un Gleason di 4 il punteggio finale del tumore (o
“Gleason score”) sarà 3 + 4 = 7. Permette di
ipotizzare la stadiazione (T2 o T3) prima
dell’intervento chirurgico. Le microinvasioni oltre
la capsula indicano la presenza di un T3 ma non
sono visibili all’imaging; per questo è necessario
valutare i margini dopo resezione per confermare un T2. La somma del punteggio attribuito alle
componenti più rappresentate è un numero da 2 a 10. Un punteggio inferiore a 6 è raro nei tumori
periferici, 6 indica verosimilmente un T2, 7 o più un T3.
In base a questi fattori prognostici è possibile delineare delle categorie di rischio → ovvero il rischio che
neoplasia dia positività linfonodale, coinvolgimento delle vescichette seminali o metastasi a distanza.
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Linfonodi:
Catene iliache, sia interneBARONE
GIULIA che esterne
Otturatori (ossia linfonodi iliaci esterni basali)
Cranialmente fino ai linfonodi iliaci comuni.
TNM
T1 Tumore clinicamente non apprezzabile, non MALATTIA LOCOREGIONALE (N0)
palpabile né visibile con le immagini. Resezione chirurgica (o radioterapia) poi
(diagnosticato microscopicamente a seguito di follow up con PSA
TURP/adenomectomia o su biopsia per PSA alto)
T2 Tumore limitato alla prostata. (interessa la
metà o meno di un lobo; più della metà di un lobo;
entrambi i lobi)
T3 Tumore che si estende al di fuori della MALATTIA LOCALMENTE AVANZATA (N0)
prostata: estensione extracapsulare mono o Chirurgia + radioterapia adiuvante
bilaterale (3a) o vescichette seminali (3b).
T4 Invade oltre alle vescichette seminali: collo MALATTIA AVANZATA (T4 o N1 o M1)
della vescica, sfintere esterno, retto, muscoli
elevatori e/o parete pelvica.
TRATTAMENTO:
➢ Sorveglianza attiva → sono candidabili i pazienti con età < 80 anni e a rischio basso o molto basso
(GS<6, PSAtot <10 ng/ml, T1-2a); questo tipo di strategia si propone non di evitare il trattamento
attivo, ma di effettuarlo se e quando si renda necessario. Sono, quindi, fondamentali i controlli
periodici, effettuati con PSA sistematici e re-biopsie sistematiche, per rilevare immediatamente un
eventuale progressione di malattia. Fine ultimo di personalizzare la strategia in accordo con il
comportamento biologico del cancro.
→ Diversi studi hanno messo in evidenza come tale strategia, eseguita secondo criteri definiti da protocolli
condivisi, nei pz affetti da tumore prostatico localizzato a rischio molto basso-basso, sia in grado di
garantire risultati sovrapponibili a quelli ottenibili con un trattamento immediato con prostatectomia
radicale o radioterapia in termini di mortalità e mortalità cancro-specifica con un miglior profilo di
tollerabilità.
Da ciò si evince come questo tipo di approccio sia totalmente diverso da quello adottato nella vigile attesa
(watchful waiting) → è indicata in pz >70 anni, con aspettativa di vita <10 anni, con qualsiasi tipo di T,
ogni PSA e Gl. <7, con lo scopo di evitare il trattamento radicale e i suoi effetti collaterali. Non si associa
ad un monitoraggio periodico e il trattamento, qualora la malattia peggiorasse tanto da richiederlo,
sarebbe palliativo.
➢ Prostatectomia radicale → rimozione chirurgica della prostata, delle ampolle deferenziali e delle
vescicole seminali, comprensiva del tessuto circostante, sufficiente per ottenere margini chirurgici
negativi. L’obiettivo è l’eradicazione della patologia e la preservazione della continenza e della
funzionalità erettile, elementi che comunque sono subordinati al fine oncologico. È indicata nei
casi di malattia locoregionale, ovvero nei casi di rischio molto basso, basso e intermedio (T1-T2);
può essere effettuata anche in pazienti con malattia a rischio alto e molto alto in pazienti
selezionati, con una speranza di vita adeguata, fortemente motivati ad affrontare anche un
percorso complementare, come RT ed ormonoterapia. In tutti questi pazienti non deve esserci
coinvolgimento linfonodale clinicamente rilevabile, perché questo indicherebbe una malattia già
metastatica e non esistono prove di vantaggio della prostatectomia radicale in questi casi.
La linfoadenectomia pelvica estesa non è necessaria nei pz a rischio basso o molto basso perché l’incidenza
di linfonodi positivi non supera il 5%; nel caso di rischio intermedio la linfoadenectomia dovrebbe essere
effettuata qualora il rischio di N+ sia maggiore del 5%; è sempre indicata nel caso di pz a rischio alto o
molto alto.
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➢ Radioterapia → tecnica a fini di radicalità. Quella più utilizzata è a fasci esterni, seppur alcuni
pazienti selezionati possano usufruire anche della RT sterotassica o della brachiterapia. La RT
presenta un trattamento radicale alternativo alla chirurgia in caso di tumori T1-T2. Vantaggi della
RT sono: evita i rischi anestesiologici, riduce il rischio di incontinenza e può preservare per un certo
periodo la funzione erettile.
Negli stadi T3-T4 N0/1 M0 la RT in associazione alla terapia ormonale rappresenta il trattamento locale
di scelta.
L’irradiazione della loggia prostatica a scopo adiuvante può essere presa in considerazione nei pz con
stadio patologico pT3 o con margini positivi in quanto, oltre a prolungare il tempo a progressione
biochimica e clinica, può prolungare, se pur moderatamente, la sopravvivenza globale.
➢ Ormonoterapia
→ Castrazione farmacologica:
▪ LHRH agonisti (goserelina, buserelina, triptorelina) + antagonisti recettoriali
(enzalutamide, bicalutamide, flutamide) per evitare flare-phenomenon
▪ LHRH antagonisti (degarelix)
Monoterapia con antiandrogeni: migliore qualità di vita (anche se può causare ginecomastia, mastalgia).
Indicata in malattia poco aggressiva, pazienti che preferiscono evitare la castrazione.
NB. Modalità di trattamento di privazione dell’androgeno può essere intermittente: questo ritarda
l’insorgenza dell ’androgeno-indipendenza, ma è attuabile solo in caso di malattia non avanzata.
→ Terapia ormonale di seconda linea: tumore ormone-refrattario, ma non ormone-indipendente
Abiraterone acetato (inibitore CYP-17), o altri inibitori della steroidogenesi
→ Inibitori della 5alfa-reduttasi (finasteride): bloccano conversione testosterone in DHT
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