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Con il termine tumore si indica una popolazione cellulare di nuova formazione, che spesso origina
da una sola cellula somatica dell’organismo colpita da una serie sequenziale di alterazioni
genomiche: quest’ultime possono a loro volta essere semplici mutazioni strutturali o alterazioni
epigenetiche ereditabili e consistenti in modificazioni dell’espressione genica e delle funzioni
genomiche causate da fenomeni di metilazione dei promotori, di metilazione, fosforilazione o
acetilazione degli istoni, o da inibizione della traduzione operata dai microRNA.
Tutti i citotipi dell’organismo possono andare incontro alla trasformazione neoplastica quando,
dopo aver accumulato un certo numero di mutazioni, subiscono anche uno stimolo proliferativo;
per questo motivo esistono tantissimi tipi diversi di tumori. Inoltre, quasi tutti i tumori sono di
origine monoclonale, perché costituiti da una popolazione cellulare che rappresenta la progenie di
una sola cellula trasformata che ha preso il sopravvento moltiplicativo sulle altre.
Inoltre, il termine tumore, che letteralmente significa tumefazione, deriva dall’aspetto
macroscopico della maggior parte dei tumori, osservabile come una massa tumefatta sulla regione
anatomica di insorgenza. Il termine neoplasia, invece, che dal greco si traduce come “nuova
formazione”, è sinonimo, ma prende in considerazione più che l’aspetto della massa, il contenuto
cellulare della stessa, costituito da cellule di nuova formazione. Infine il termine cancro, dal latino
“cancer”, ovvero “granchio”, proviene dall’osservazione che nei tumori maligni le cellule
neoplastiche periferiche nel contesto della massa tumorale, formano propaggini che avvinghiano
le cellule normali vicine e le distruggono, come del resto fa il crostaceo con le sue chele nei
confronti della preda.
Per comprendere le cellule tumorali dobbiamo però considerare la crescita in vitro delle cellule
non tumorali. Esperimenti in vitro con le cellule non tumorogeniche ci insegnano infatti che le
cellule normali hanno le seguenti caratteristiche di crescita:
1. Dipendenza dall’ancoraggio: hanno bisogno di una superficie solida per crescere e proliferare
2. Dipendenza dal siero: il siero è necessario per la loro crescita in vitro
3. Densità di saturazione (inibizione da contatto): il contatto cellula-cellula ne sospende la crescita
Quindi, quando una cellula risulta alterata in uno di questi aspetti, essa viene definita tumorale
per:
1. Indipendenza dall’ancoraggio: cresce e prolifera indipendentemente dalla superficie solida
2. Indipendenza dal siero: il siero e i nutrienti possono anche mancare in quanto la cellula tumorale
prolifera autonomamente e autosufficientemente
3. Assenza di saturazione: il contatto cellula-cellula non ne sospende la crescita quindi è soppressa
l’inibizione da contatto
LA STORIA NATURALE DEI TUMORI
EZIOLOGIA E PATOGENESI
Le cause di tumore, come già anticipato, sono quasi tutte dovute alle mutazioni di quei geni che
controllano la proliferazione e la morte cellulare programmata. Inoltre, esse possono essere
distinte in esogene ed endogene:
⮚ Quelle esogene o ambientali sono legate all’esposizione dell’organismo ad agenti chimici,
fisici o biologici (come nel caso dei virus oncogeni) responsabili di mutazioni
⮚ Quelle endogene, cioè insite nell’organismo, sono rappresentate da agenti mutageni,
mutazioni ereditarie, e mutazioni casuali dovute ad errori nella duplicazione del DNA
Per quanto riguarda l’EREDITARIETÀ dei tumori, sappiamo che quelli che insorgono negli individui
che hanno ereditato dai genitori una mutazione a carico di uno dei geni coinvolti nella
cancerogenesi sono definiti tumori a substrato ereditario, e non tumori ereditari, perché ciò che
viene trasmesso dai genitori alla prole non è il tumore come tale ma una alterazione del genoma
che rappresenta come già detto il principale fattore predisponente. I tumori a substrato ereditario
provocano l’1-5% di tutte le neoplasie.
Il rischio di comparsa del tumore ereditario è in alcuni casi specifico e in altri sistemico:
⮚ RISCHIO EREDITARIO SPECIFICO: il portatore della mutazione ereditaria di geni specifici per il
tumore (oncogeni e oncosoppressori) risulta predisposto all’insorgenza di uno o più tumori
di ben definita origine istogenetica a carico di un determinato organo, come nel caso del
retinoblastoma, del tumore di Wilms o del carcinoma mammario. Tra i principali esempi di
tumore ereditario da rischio specifico si ricordano infatti:
1. Iniziazione 🡪 una/più mutazioni che trasformano una cellula somatica in una cellula
neoplastica latente, ovvero tumorale ma priva di autonomia replicativa;
2. Promozione 🡪 danni genomici e stimoli proliferativi interferiscono con la cellula iniziata che
inizia così a proliferare, formando una progenie di cellule portatrici delle sue stesse
alterazioni genomiche, causando il tumore vero e proprio;
3. Progressione 🡪 ulteriori mutazioni conferiscono invasività e metastatizzazione ad alcune
cellule della massa neoplastica;
Di conseguenza, la cancerogenesi può essere riassunta nella fase di immortalizzazione e in quella
di trasformazione. Come sappiamo, nelle cellule normali ciascuna divisione mitotica comporta la
perdita di un centinaio di telomeri (sequenze nucleotidiche non codificanti presenti in gran numero
nelle estremità terminali dei cromosomi ed indispensabili perché si attui la mitosi) che, per di più,
non possono essere ricostituiti a causa della mancata o scarsa espressione dell’enzima telomerasi:
questo fatto implica che le cellule normali perdano la capacità di replicarsi ulteriormente, andando
incontro al fenomeno della senescenza replicativa per esaurimento telomerico. Al contrario, nelle
cellule tumorali, i meccanismi epigenetici stimolano la trascrizione del gene che codifica per
l’enzima telomerasi, inducendo l’acquisto della capacità di continuare indefinitamente l’attività
mitotica: è così che le cellule neoplastiche vengono definite immortali, perché in grado di
riprodursi indefinitivamente.
Bisogna però tenere presente che l’immortalizzazione rappresenta più genericamente un metodo
utilizzato per ottenere una linea cellulare perenne, che non è quindi e necessariamente un
derivato tumorale, ma più semplicemente il prodotto di una penetrazione oncogenica: perciò le
cellule venute in contatto con l’oncogene risultano incapaci di determinare la trasformazione
neoplastica se inoculate in animali sensibili.
Inoltre, quando parliamo di tumore è importante ricordare il concetto di fragilità genomica ad esso
associata, e che si evidenzia quando le mutazioni genetiche non colpiscono solamente i geni che
codificano per le proteine preposte alla replicazione del DNA, ma anche quelli per gli enzimi rivolti
alla riparazione dei danni subiti da questa macromolecola.
- Per quanto riguarda il metabolismo dei carboidrati, le cellule tumorali esibiscono elevati
livelli di glicolisi aerobia con conseguente produzione di acido lattico; la maggior parte
di questo, però, non viene trattenuto dalle cellule tumorali, ma viene immesso nel
circolo sanguigno attraverso il quale raggiunge il fegato, che lo trasforma in glicogeno, il
quale, dopo essere stato trasformato in glucosio, rientra nel circolo sanguigno. A ciò si
aggiunge che l’elevata utilizzazione di glucosio da parte delle cellule tumorali stimola la
gluconeogenesi epatica da fonti non carboidratiche, cioè di grassi e proteine, il che
determina depauperamento delle riserve lipidiche e proteiche e perdita di peso.
- Anche il metabolismo dei lipidi va incontro a disordini, per riduzione della lipogenesi, ed
aumento della lipolisi.
- Nel metabolismo proteico osserviamo un rapido e progressivo consumo delle proteine
dei muscoli scheletrici, causato dalla produzione da parte delle cellule tumorali di fattori
inducenti la proteolisi, con conseguente riduzione della massa muscolare.
Inoltre, squilibri del metabolismo idrominerale o ipoalbuminemia con formazione di edemi ed
anemia possono ulteriormente compromettere lo stato generale del paziente che potrà presentare
una immunodeficienza che provoca ridotta resistenza alle infezioni, tanto che spesso l’esito letale è
determinato da infezioni a carico soprattutto dell’apparato respiratorio ed urinario.
Ricapitolando…
Nel corso delle ricerche sperimentali sulla cancerogenesi chimica, è stato dimostrato che i
cancerogeni chimici sono caratterizzati dalla cosiddetta dose soglia, cioè dalla quantità minima di
ognuno di essi che, somministrata agli animali da esperimento, determina la comparsa di un
tumore. Questo evento, però, non si manifesta se la somministrazione del cancerogeno è
effettuata in dose subliminale, cioè inferiore alla soglia, perciò l’animale produce cellule
neoplastiche che permangono per tempo in uno stato di quiescenza replicativa: le “cellule
neoplastiche dormienti” scaturiranno in un tumore solamente dopo che verrà introdotta la
quantità residua di cancerogeno necessaria per il raggiungimento della dose soglia.
La cancerogenesi è quindi un processo multifasico che si svolge in più tappe, in ognuna delle quali
la cellula subisce un danno genomico e per cui il tumore si rende manifesto quando la cellula
bersagliata da tali danni ha accumulato nel suo DNA almeno 5 o 6 mutazioni.
È stato inoltre dimostrato che nei tumori maligni è costantemente presente, oltre alle cellule
staminali adulte, una relativamente piccola aliquota di cellule staminali tumorali, cioè di cellule
che condividono con le cellule staminali adulte la capacità all’autorinnovamento e la potenzialità
differenziativa.
Attualmente l’opinione diffusa tra gli oncologi è che le cellule staminali adulte sono quelle che in
seguito ad accumulo di mutazioni o di altri danni genomici causati da vari agenti oncogeni,
diventano cellule staminali tumorali, le quali costituiscono nel tumore l’aliquota minoritaria di
cellule responsabili del suo ulteriore accrescimento.
ONCOGENI
Anche se dalle ricerche sulla cancerogenesi eseguite fino agli anni ’60 nel Novecento trapelava
esclusivamente il fatto per cui la trasformazione neoplastica fosse provocata dalla produzione di
una serie di danni al DNA per opera di agenti cancerogeni, si scoprì ben presto l’esistenza di
specifici geni correlati alle neoplasie studiando il genoma di alcuni retrovirus oncogeni: essi
vennero definiti oncogeni virali (v-onc) in quanto si ritenne che, nel caso dell’infezione da parte di
un virus portatore di un oncogene, la trasformazione neoplastica della cellula infettata conseguisse
al trasferimento di questo nel genoma cellulare. Qualche tempo dopo la scoperta del v-onc, venne
dimostrato che pure nel DNA cellulare non virale sono presenti sequenze genomiche simili ai
v-onc, e che vennero indicate col termine di oncogeni cellulari (c-onc). Inoltre si sa che i prodotti
codificati dagli oncogeni sono generalmente indicati con la lettera p (protein) seguita da un
numero indicante il peso molecolare in kilodalton (es. p52, p21…).
Dai risultati delle ricerche si definisce che:
1. Gli oncogeni cellulari c-onc prendono origine con vari meccanismi dai protooncogeni, che
nelle cellule normali stimolano la proliferazione
2. La trasformazione dei protooncogeni in oncogeni rappresenta un evento cruciale della
trasformazione neoplastica, provocata da eventi mutazionali quali inserzione,
amplificazione e traslocazione
Infatti, un protooncogene può essere alterato in un oncogene tramite 3 modificazioni diverse:
Inserzione 🡪 quando un retrovirus (che ricordiamo produrre nell’host il suo DNA complementare
per l’enzima trascrittasi inversa) si inserisce sul protooncogene cellulare controllandolo,
inducendone una espressione aberrante e quindi convertendolo in oncogene. Esempi sono il
MMTC (murine mammary tumor virus) che si inserisce sui geni INT1 e INT2 comportando il tumore
della mammella nei topi, e l’ALV (avian leukosis virus) che si inserisce su protooncogene myc
attivando oncogene c-myc.
Amplificazione 🡪 quando si manifesta una elevata espressione proteica per l’oncogene attivato,
che stimola conseguentemente la proliferazione cellulare e causa la progressione di molti tumori
verso una crescita più rapida e una maggiore malignità. Esempi sono l’amplificazione del gene
n-myc per il neuroblastoma associata ad un suo aumento di malignità, e l’amplificazione del gene
c-erb2 che codifica per un recettore proteina-tirosina chinasi e provoca una progressione dei
carcinomi della mammella e dell’ovaio.
Traslocazione 🡪 quando si osserva un errato scambio di parti di cromosomi non omologhi durante
la fase di riarrangiamento, con conseguente produzione di cromosomi oncogeneticamente attivi.
Come esempio di queste traslocazioni si considerano:
- Linfoma di Burkitt: il protooncogene c-myc, mappato nel braccio lungo del cromosoma
8, viene traslocato rispettivamente su 3 cromosomi (2, 14, 22) specifici per la codifica
delle catene per le immunoglobuline. In particolare, l’oncogene c-myc passa dal
cromosoma 8 al 14 per essere iperespresso nelle cellule che producono le catene
pesanti delle Ig, cioè nei linfociti B del sistema immunitario. Il gene c-myc codifica un
fattore di trascrizione che attiva i geni coinvolti nella promozione della divisione
cellulare; di conseguenza, l’iperspressione di c-myc nelle cellule che contengono la
fusione catena H – c-myc determina la trasformazione tumorale.
- Leucemia mieloide cronica: dipende per il 90-95% dei casi dal cromosoma
PHILADEPHIA (scoperto nella città omonima), ovvero il prodotto di una reciproca
traslocazione tra cromosoma 9 e 22, per cui un frammento di cromosoma 9 che
contiene oncogene c-ABL è traslocato sul 22 e fuso col gene BCR (break point cluster
region); il gene ibrido di fusione è responsabile della produzione dell’oncoproteina
BCR-ABL TIROSINA CHINASI con attività tirosina-chinasica incontrollata che sconvolge la
proliferazione cellulare e riduce l’apoptosi, inducendo i leucociti a divenire cancerosi.
Per riassumere, gli oncogeni sono geni che codificano per quelle proteine che controllano
positivamente i processi di crescita cellulare e che si comportano da geni dominanti, in quanto è
sufficiente la mutazione attivante (gain of function) di un solo allele perché la proteina mutata da
essi codificata esplichi eccessivamente la sua funzione e concorra alla genesi di una neoplasia.
Gli oncogeni sono poi classificati in base alla funzione dei loro prodotti. La classificazione più
comune li suddivide in 4 classi, partendo dalle proteine che agiscono a livello della superficie della
cellula per procedere con quelle localizzate nel citoplasma e quindi nel nucleo.
1. Fattori di crescita 🡪 agiscono extracellularmente apportando segnali proliferativi o
differenziativi alle cellule che esprimono specifici recettori di membrana per esse. Si
ricordano l’oncogene sis per la proteina p28, gli oncogeni INT1 e INT2, HST e FGF5
4. Fattori di trascrizione 🡪 proteine nucleari che una volta attivate da altre proteine, si legano
ad una specifica regione promoter del DNA regolando la trascrizione genica. Si ricordano il
c-myc, il c-myb e il c-ErbA
CURIOSITÀ: il primo oncogene scoperto fu il c-src per opera di M. Bishop e H. Varmus. Era il 1970
quando si osservò dapprima nel retrovirus dei polli, e poi fu dimostrato solamente 6 anni più tardi
che questo oncogene era anche un protooncogene difettoso dell’uomo.
ONCOSOPPRESSORI
Sono i geni che codificano per proteine che regolano negativamente i processi di crescita cellulare.
Le loro mutazioni sono inattivanti (loss of function) e generalmente recessive (ai fini della perdita
della loro funzione è necessario che tutte e due le copie alleliche dello stesso gene risultino
inattivate). Inoltre sono detti guardiani del genoma perché capaci di preservare la stabilità genica
attraverso la prevenzione ed inibizione degli eventi stimolanti e l’arresto del ciclo cellulare in caso
di danno al DNA della cellula.
⮚ La prima indicazione a riguardo dell’esistenza degli oncosoppressori si deve al ricercatore di
Oxford Henry Harris che nel 1969 osservò assieme al collega Klein che gli ibridi cellulari,
risultanti dalla fusione di cellule normali con cellule tumorali, non manifestavano neoplasia,
e da tale risultato dedusse che alcune alterazioni del genoma responsabili dell’acquisizione
del fenotipo neoplastico, potevano essere compensate dall’immissione negli ibridi di
cromosomi normali e sani.
Questo rivelò che a dominare nell’esperimento erano stati gli alleli della cellula normale,
perché portatrici di geni in grado di controllare la crescita cellulare ma assenti nelle cellule
neoplastiche, dimostrando che in queste ultime si verificava la perdita di parti di alcuni
cromosomi e conseguentemente dei geni responsabili per il controllo e la regolazione della
proliferazione cellulare.
⮚ Un altro studio sugli oncosoppressori fu quello proposto da A. Knudson con l’ipotesi dei
due colpi del 1971 sviluppata in base ad una analisi statistica svolta sui pazienti con forme
ereditarie e non del retinoblastoma. In poche parole egli osservò che l’insorgenza di questa
forma neoplastica derivava da due eventi genetici indipendenti, ipotizzando che fossero
sufficienti mutazioni a carico di un singolo gene che però avrebbe dovuto essere alterato
per entrambi i suoi alleli. Ricordando che l’oncosoppressore è un gene recessivo, è facile
ricondurre quest’ultimo alla ipotesi formulata da Knudson per esprimere l’insorgenza del
tumore come prodotto di due successive mutazioni per un singolo gene, ed in questo caso
proprio l’oncosoppressore (per il retinoblastoma è l’RB1 scoperto da Robert Wienberg: in
realtà è un oncosoppressore generico perché capace di regolare negativamente il ciclo
cellulare anche per altre forme tumorali).
BRCA 1 e BRCA2
Per ciclo cellulare si intende l’insieme dei fenomeni sequenziali che consentono la proliferazione
cellulare; esso risulta costituito da 4 fasi, la G1, S, G2 ed M.
- La G1 è caratterizzata dalla dipendenza dalla disponibilità dei fattori di crescita, che
trasmettono alla cellula segnali inducenti la trascrizione di molti geni che codificano per
proteine indispensabili all’avanzamento in questa fase del ciclo e per la transizione da
questa fase alla successiva.
- Nella fase S la cellula procede alla replicazione del proprio genoma sotto il controllo di
molecole sintetizzate nella fase precedente. Il numero dei cromosomi si raddoppia,
passando da 23 coppie di cromosomi (assetto diploide = 2n) a 46 coppie (assetto
tetraploide = 4n).
- Nella G2 la cellula si prepara ad effettuare la divisione mitotica.
- Nella fase M la cellula segrega i cromosomi in modo che ogni cellula figlia abbia un
assetto diploide e quindi compie la citodieresi, cioè la divisione cellulare.
⮚ Inoltre, sono stati indentificati meccanismi che controllano se il percorso attraverso le fasi
del ciclo cellulare si sia svolto regolarmente. Essi sono definiti checkpoints, cioè posti di
dogana dove avviene il controllo dei viaggiatori che debbono attraversare una frontiera in
modo da poter giudicare se essi siano idonei o meno al transito; questi meccanismi di
controllo, esercitati da una serie di proteine, possono consentire alla cellula la transizione
da una fase alla successiva, come arrestarla nei punti di restrizione R interposti tra le fasi
G1, G2 ed M (per cui R1, R2 ed R3), dove in determinate circostanze si verifica l’arresto del
ciclo. Ciò avviene sia se si sono rivelati errori in una delle tappe correlate al processo
moltiplicativo, sia se vi è stata deficienza di fattori necessari per la transizione nella fase
successiva. Le due cellule neonate entrano così in fase G1 ed iniziano l’attività metabolica
che gli consente di accrescersi. Giunte al punto di restrizione R1 ognuna di esse potrà
permanere nella fase G0 in assenza dei fattori di crescita, o superare il punto di arresto e
giungere alla fase M in presenza dei segnali provenienti dai fattori di crescita richiesti.
Nelle cellule tumorali le mutazioni inattivanti del gene RB1 determinano quindi la mancata
codificazione della proteina RB1 o la codificazione di una proteina RB1 inattiva, cioè incapace di
legare il fattore di trascrizione E2F che conseguentemente stimola la progressione della cellula
attraverso le fasi del ciclo cellulare, cioè la proliferazione.
Virtualmente tutte le cellule neoplastiche presentano perciò una deregolazione del punto di
controllo interposto tra la fase G1 e la S dovuta alla mutazione di uno dei quattro geni che regolano
la fosforilazione di pRB, ovvero RB, CDK4, p16 e ciclina D.
⮚ Un altro importante meccanismo di avanzamento riguarda il superamento del punto di
restrizione R1: l’arresto in questione è innescato sempre dalla p53 che impedisce così che il
danno genomico venga trasmesso alla progenie, in quanto durante l’arresto del ciclo
entrano in azione i meccanismi di riparazione del DNA per stimolazione dell’inibitore p21
(che inibisce CAK e arresta la cellula in fase G1) e GADD45 (specifico per riparazione), o di
apoptosi nel caso in cui la riparazione stessa non sia sufficiente.
Nelle cellule tumorali le mutazioni del gene P53 determinano la mancata codificazione della
proteina p53 o la codificazione di una proteina inattiva, cioè incapace di determinare
l’arresto al punto di restrizione R1; ciò fa sì che la riparazione non avvenga e quindi la
cellula passi dalla G1 alla S tramandando i danni genici alla progenie cellulare. Infine si
ricorda che il P53 è inattivo in circa il 50% dei tumori umani e le sue mutazioni si
riscontrano principalmente nella regione coinvolta nel legame col DNA e che prende il
nome di DNA BLINDING DOMAIN.
CARCINOGENESI VIRALE
VIRUS A DNA
Le cellule che rispondono ad una infezione da virus oncogeno a DNA possono essere permissive e
non permissive: le prime, dopo l’infezione, provvedono alla trascrizione e conseguente
replicazione dei geni presenti nel DNA virale, mentre le seconde non replicano il virus infettante
ma subiscono la trasformazione neoplastica.
HPV
Rappresenta un tipo di virus molto variegato, dato che ne esistono 70 tipi diversi: il tipo 1, 2, 4 e 7
sono associati solitamente al papilloma squamoso benigno (verruche), mentre il 16 e il 18 al
carcinoma a cellule squamose della cervice e della regione anogenitale. Dalla statistica risulta che
ogni anno circa 10.000 donne negli USA si ammalano di cancro alla cervice e 3.700 sono quelle che
muoiono e che non hanno mai eseguito un PAP TEST regolarmente. Tra gli altri tipi non
comunemente associati al tumore vi sono il 31, 33, 35, e 51.
Di base, l’HPV è un virus molto piccolo e circolare, contenente 8 ORFs (sequenze geniche di
trascrizione che a differenza delle altre sono open, cioè non includono dei codoni di stop) trascritte
come mRNA polcistronico (polcistronico perché codifica più di una proteina, ovvero le early e le
late) con due promotori maggiori P97 e P72 che promuovono distintamente la trascrizione dei
geni. In ogni ORF è quindi presente una regione early (E1-8) costituita dai geni responsabili della
replicazione, trascrizione plasmidica e trasformazione, e una regione late che codifica per le
proteine strutturali del capside maggiore (L1) e minore (L2).
Dal punto di vista eziologico l’HPV identifica un piccolo virus a DNA della famiglia dei
Papovaviridiae di cui oltre 30 tipi infettano l’area genitale e di essi circa 15 sono definiti ad alto
rischio oncogeno; altri, invece, danno origine a lesioni benigne come i condilomi. La capacità di
progressione oncogena di questo virus è attribuita all’espressione e alla capacità di due proteine
virali E6 ed E7 di interferire con i processi di controllo del ciclo cellulare: in particolare, queste
proteine, agiscono come fattori transattivanti che regolano la trasformazione cellulare e
favoriscono la trasformazione neoplastica nella cellula ospite. La funzione più nota di E6 dei virus
HPV oncogeni è quella di legare la proteina codificata dal gene oncosoppressore P53 e indurne la
degradazione con conseguente riarrangiamento cromosomico e blocco del processo apoptotico
(prodotto finale è il carcinoma). E7 lega invece la proteina retinoblastoma (pRb), proteina
soppressoria della crescita cellulare, interferisce con la regolazione del ciclo cellulare
promuovendo la trasformazione e reprime la trascrizione dei geni coinvolti nell’apoptosi.
Per quanto riguarda la modalità di trasmissione solitamente si considera quella sessuale (95% dei
casi) e quindi genitale-genitale, manuale-genitale ed orale-genitale; l’infezione nelle virgo è
ovviamente più rara e può essere conseguenza di rapporti non penetrativi, anche se il condom non
riduce totalmente il rischio di trasmissione. Quella verticale da madre infetta a prole è ancora
meno frequente e difficile da rilevare a causa del periodo di latenza tra esposizione e
manifestazione clinica.
Come anticipato, i tipi 6, 11, 16 e 18 provocano la maggior parte delle patologie aggressive da
papillomavirus umano a livello genitale, ma che possono essere prevenute tramite apposito PAP
TEST raccomandato una volta ogni 3 anni a tutte le donne nella fascia d’età 25-64 anni. Ad oggi,
sono attivi numerosi programmi di screening pubblici, che tuttavia non coprono l’intero territorio
nazionale: si può assumere che fino ad ora circa il 60-70% delle donne nella fascia d’età target si
sono sempre sottoposte ad un PAP ogni 3 anni, e di cui il 20-25% tramite programmi pubblici e il
40-45% privatamente. Soltanto un 20% non l’ha mai preso in considerazione.
Rispetto alla strategia vaccinale adottata si fa riferimento a quella che interviene nella fase
preadolescenziale (9-12 anni) in considerazione dell’assenza pressoché totale di occasioni di
trasmissione sessuale del contagio: in poche parole parliamo di una vaccinazione attiva e gratuita
per tutte le ragazze dodicenni tramite GARDASIL 0,5 ml (vaccino quadrivalente per tipo 6, 11, 16,
18 nelle dosi rispettive di 20 mcg, 40 mcg, 40 mcg, 20 mcg). La sua efficacia è stata valutata
mediante 4 studi placebo-controllo randomizzati, in doppio cieco (somministratore e paziente non
hanno consapevolezza dell’infezione) e per complessive 20.541 donne tra i 16 e i 26 anni con un
follow-up di 2-4 anni.
EBV
Il virus di Epstein-Barr è un herpes-virus molto grande, delle dimensioni di 172 kb (indica la
lunghezza della doppia elica di DNA), e per il quale il 95% della popolazione è sieropositiva: in molti
soggetti il virus non genera alcun danno, in altri sviluppa la mononucleosi infettiva e, in un numero
ancora più ristretto, contribuisce alla genesi di alcuni tumori maligni. Ci troviamo dunque di fronte
ad una sorta di “paradosso apparente”: il rischio di sviluppare forme tumorali a partire da una
infezione da EBV dipende dall’integrità del sistema immunitario dell’ospite e dell’espressione delle
proteine virali. Chiaramente, i malati di AIDS, i trapiantati e tutti i pazienti con una grave
compromissione del sistema immunitario, sono più sensibili alle infezioni da EBV, e quindi più a
rischio di sviluppare forme tumorali. Inoltre, esso rappresenta il principale agente causativo di
mononucleosi infettiva (malattia del bacio) per cui la probabilità di contrarre una mononucleosi da
EBV è alta se la persona non ne è mai stata infettata fino all’età adolescenziale: in breve, se la
sieroconversione all’EBV avviene presto nella vita (come lo è di solito), la potenziale mononucleosi
è sempre asintomatica.
Per il resto si ricorda che esso fu scoperto per la prima volta nel 1964 da Epstein Barr in alcuni
espianti di linfoma di Burkitt, e che è anche l’unico virus in grado di immortalizzare i linfociti B in
vitro (questa sua capacità potrebbe essere alla base della sua oncogenicità).
Infatti nel 1958 ci fu la prima descrizione del linfoma di Burkitt, mentre nel 1964 furono isolate
delle linee cellulari particolari a partire dalle biopsie di questo. Nel 1968 si scoprì che l’EBV era
l’agente eziologico della mononucleosi infettiva e l’anno dopo che è anche in grado di
immortalizzare le cellule B in vitro. Tra l’altro l’EBV viene spesso associato al linfoma di Burkitt in
Africa centrale – 60%, al carcinoma naso-faringeo in Cina – 100%, al linfoma nei soggetti
immunosoppressi – 100%, e alla malattia di Hodgkin – 40-50%. A tutte queste patologie si
aggiungono il disordine linfoproliferativo per il gene X consistente in una mutazione genica che
colpisce principalmente i maschi (difetto cromosomiale per il gene X mutato non consente un
controllo della linfoproliferazione e quindi morte), i linfomi per effusioni primarie e di rivestimento
(tipo pleura), il linfoma diffuso alle cellule B grandi (40-50%), il carcinoma gastrico e il linfoma
delle cellule T.
⮚ A questo proposito, il linfoma di Burkitt merita un capitolo a parte, per cui diciamo che se
ne contano circa 6.000 casi all’anno in tutto il mondo. Esso si presenta in due forme, la
sporadica e l’endemica:
Sporadica 🡪 si verifica al di fuori dell’Africa ed è molto rara dato che solamente il 20%
risulta positiva all’EBV
Endemica 🡪 colpisce i bambini dell’Africa sub-sahariana ed è molto frequente dato che
quasi il 100% degli affetti risultano positivi all’EBV. In particolare, il fatto che in Africa si
conti una maggiore positività all’EBV è da attribuirsi alla traslocazione alla base dello
sviluppo del Burkitt per i cromosomi 8-14 e l’oncogene c-myc. Infatti l’EBV di suo non è la
causa scatenante di questo linfoma.
PEYTON ROUS
È stato un medico virologo statunitense che ottenne il premio Nobel per la medicina nel 1966. Nel
1909 scoprì che nei polli il sarcoma poteva essere indotto non solo trapiantando delle cellule
tumorali, ma anche con l'iniezione di un agente submicroscopico estratto dalle stesse cellule
tumorali. Questa scoperta diede origine alla teoria dell'origine virale dei tumori e portò alla
scoperta del primo virus in grado di innescare un tumore animale, ovvero il ROUS SARCOMA
(1911).
IL LINFOMA HODGKIN E NON HODGKIN
Il linfoma è un tumore maligno del sistema linfatico, ovvero di quelle cellule e di quei tessuti che si
occupano della difesa dell’organismo dagli agenti esterni e dalle malattie. Il sistema linfatico è
composto da vasi che trasportano la linfa, da cellule immunitarie e da “stazioni” (i linfonodi) che
appaiono ingrossate quando nel corpo umano è in corso un’infezione.
I linfomi si suddividono in due grandi categorie: i linfomi di Hodgkin e i linfomi non Hodgkin:
questi ultimi colpiscono in genere la popolazione adulta e anziana, e a differenziarli dai linfomi di
Hodgkin è l’assenza della cellula di Reed-Sternberg, un tipo di linfocita B molto grande
caratterizzato da due nuclei che permette di differenziare una cellula sana da una malata.
Dal momento che i linfonodi si trovano in tutto il corpo, la malattia può manifestarsi a qualsiasi
livello dell’organismo. I linfonodi più spesso colpiti dal linfoma di Hodgkin sono quelli del collo,
ascellari, mediastinici, inguinali e addominali. In alcuni casi, però, la malattia può riguardare anche
degli organi, come il midollo osseo, il fegato, i polmoni e le ossa. Il primo sintomo della malattia è
quasi sempre un rigonfiamento asintomatico di un linfonodo superficiale del collo, dell’inguine o
dell’ascella. È comunque doveroso precisare che non per forza l’ingrossamento dei linfonodi è la
“spia” della presenza di un linfoma.
o Per quanto riguarda l’HL, sappiamo che esso rappresenta il 14% dei linfomi maligni, lo 0,5%
di tutti i tipi di neoplasie maligne, e che conta circa 8000 casi e 1500 morti all’anno negli
USA. Inoltre, esso colpisce maggiormente gli uomini che le donne, ed in particolare i
bianchi sugli africani e gli asiatici, mentre non presenta dei chiari fattori di rischio, se non il
fatto di essere implicato nell’EBV e l’HIV.
o Il NHL, invece, individua il più comune tipo di malignità ematologica e conta circa 60.000
casi all’anno. È la 6° principale causa di cancro e rivela una incidenza in rialzo a partire dal
1973, prima in Minnesota, poi in Wisconsin, e probabilmente correlata all’utilizzo di erbicidi
ed insetticidi da parte degli stati che basavano la propria economia sulle fattorie. Altri
fattori di rischio sono l’immunodeficienza da AIDS o trapianto, problemi autoimmuni come
il Sjogrens e la celiachia, e le infezioni da pylori, HHV-8 ed EBV. Tra l’altro, esso riguarda
maggiormente gli uomini e coinvolge per un 70% le cellule B, e per un 30% le cellule T.
Relativamente alla sua nomenclatura e stadiazione, citiamo il sistema di ANN ARBOR per cui si
individuano 4 stati diversi:
1. Coinvolgimento di un solo linfonodo o di una sola stazione linfatica (uno o più linfonodi
contigui)
2. Coinvolgimento di 2 o più linfonodi sopra e sotto il diaframma e limitato interessamento del
tessuto linfatico
3. Coinvolgimento di entrambi i lati del diaframma, milza e tessuto linfatico locale
4. Coinvolgimento di più linfonodi e di più di un organo extralinfatico
Il sistema di ANN ARBOR definisce anche due lettere, la A e la B: con B si intende la presenza di
sintomi sistemici quali sudore notturno abbondante, febbre persistente sopra i 38°, perdita
inspiegata del peso per più del 10% negli ultimi 6 mesi, che in ogni caso indicano una prognosi
sfavorevole. Con la lettera A, invece, si indica la mancanza di questi sintomi, e a volte si
accompagna alla E che sta per malattie extranodali. Esiste anche un criterio per valutare il volume
e che si basa su di una massa nodale pari a 10 cm, e una massa mediastinica maggiore di 1/3 del
diametro del torace.
Ovviamente, la terapia da approcciare dipenderà dallo stadio, dai fattori prognostici, e dal livello di
co-morbità, perciò:
Per riassumere…il linfoma di Hodgkin o non Hodgkin che sia, rappresenta un tumore altamente
disseminato, capace di coinvolgere i linfonodi, ed in particolare quelli della regione cervicale o
ascellare. Può anche provocare epatosplenomegalia ed essere extranodale, come nel caso del
linfoma intestinale (dolore addominale, anemia, disfagia), CNS (mal di testa, compressione della
corda spinale) o pancytopenia, una forma patologica e riduttiva delle cellule del sangue. Inoltre,
non possiamo attribuirli a singole cause dato che al loro sviluppo partecipano seppure
limitatamente le traslocazioni cromosomiali in 14 e 18, le infezioni virali da EBV, HHV-8 e HIV o
pylori batterico, e l’immunodeficienza congenita o acquisita per AIDS o trapianti.
IMMUNOTERAPIA DEL CANCRO
È il 1909 quando Paul Ehrlich (“horror autotoxicus”) osserva che l’incidenza del cancro poteva
essere aumentata disattivando il sistema immunitario: solamente 50 anni dopo L. Thomas e F.
Burnet elaborarono la sua ipotesi, affermando che le cellule T avrebbero potuto partecipare e
contribuire alla protezione dal tumore; fu così coniato il termine di immunosorveglianza per
descrivere il concetto di perenne allerta in cui riversa il sistema immunitario contro le cellule
tumorali.
Il sistema immunitario svolge infatti un ruolo vitale nel regolare la crescita dei tumori: alcuni tipi di
risposte infiammatorie possono promuovere la crescita del tumore, mentre una risposta
immunitaria adattativa specifica nei suoi confronti può potenzialmente eliminare il tumore stesso.
Le neoplasie maligne hanno la capacità di eludere il sistema immunitario, proliferare e
metastatizzare. L’obiettivo dell’immunoterapia è quindi quello di sfruttare la specificità e la
memoria a lungo termine della risposta immunitaria adattativa, per ottenere una regressione
tumorale duratura e una possibile cura.
Nel tempo sono stati studiati diversi approcci all’immunoterapia e questi includono la
somministrazione di citochine esogene o di vaccini terapeutici per aumentare la frequenza delle
cellule T tumore-specifiche, il trasferimento adottivo di cellule effettrici tumore-specifiche e, più
recentemente, l’applicazione di una varietà di inibitori dei checkpoint immunitari e agonisti della
costimolazione dei recettori per superare i meccanismi immunosoppressivi indotti dal tumore:
quindi tra i vari antigeni tumorali si considerano le proteine self normali, che non inducono alcuna
risposta nella cellula T, le proteine self mutate che non contribuiscono ugualmente alla
tumorigenesi, oncogeni od oncosoppressori mutati che si ancorano sulla cellula T tramite innesco
delle CD8+, proteine aberranti over-espresse per lo stesso meccanismo, e virus oncogenici come il
papilloma (E6 – P53, E7 – RB).
In breve i tumori devono sviluppare la capacità di eludere il sistema immunitario per proliferare e
metastatizzare, quindi, ad esempio, riducendo o eliminando le TAP coinvolte nella processazione e
presentazione dell’antigene per l’MHC I, il tumore avanza e sfugge all’immunosorveglianza: la
teoria della sorveglianza immunitaria suggerisce che il sistema immunitario è proattivamente in
grado di eliminare le cellule anormali e prevenire la formazione del cancro nel corpo.
L’immunosorveglianza fa così riferimento ad una serie di principi:
o Il sistema immunitario riconosce e agisce contro le cellule del cancro
o La risposta immunitaria contro i tumori è dominata dai meccanismi di regolazione e
tolleranza (l’evasione dalla risposta immune è una delle caratteristiche della cellula
tumorale)
o Alcune risposte immunitarie promuovono il tumore
Per quanto riguarda la risposta delle cellule T al tumore, sappiamo che queste raggiungono la
neoplasia e ne uccidono le cellule neoplastiche; a questo punto intervengono le cellule dendritiche
per MHC II, che espongono l’antigene tumorale che a sua volta rientra nel linfonodo per
promuovere la proliferazione di altre cellule T. Perciò nella cross-presentazione dell’antigene
tumorale, inizialmente il TCR della cellula ingloba il MHC II, mentre solo successivamente, per il 2°
segnale, la molecola costimolatoria acceleratrice/inibitrice (tipo CD80, CD86, B71, B72…) si
incastra all’interno della tasca corrispondente della cellula tumorale: se questo 2° incastro non
funziona, si innesca il meccanismo dell’anergia clonale e il linfocita T riduce l’espressione delle
costimolatorie su APC per quel dato antigene; così facendo le cellule T saranno destinate
all’apoptosi e il cancro progredirà. Si ricorda, inoltre, che l’espressione aberrante degli MHC II
avviene solamente nelle cellule B delle isole di Langerhans nel pancreas, provocando il diabete
mellito autoimmune.
STORIA DELL’IMMUNOTERAPIA
TIPI DI IMMUNOTERAPIE
Numerose vie inibitorie del sistema immunitario sono utilizzate per mantenere l’auto-tolleranza e
l’omeostasi: le molecole coinvolte in tali vie sono definite collettivamente checkpoint immunitari.
Il ruolo primario dei checkpoint immunitari è proteggere i tessuti dai danni derivanti dalla risposta
del sistema immunitario ai patogeni, e mantenere la tolleranza agli auto-antigeni (cioè prevenire
l’autoimmunità). Questo è principalmente ottenuto regolando la funzione di attivazione o quella
effettrice delle cellule T.
Un numero crescente di prove dimostra che un meccanismo primario attraverso il quale i tumori
sfuggono al sistema immunitario è l’ingaggio di checkpoint immunitari: ciò ha stimolato lo
sviluppo di molti nuovi agenti capaci di modularli o, viceversa, in grado di modulare recettori
co-stimolatori della risposta immunitaria.
Il primo recettore checkpoint che è stato studiato e testato con successo come bersaglio di una
immunoterapia è CTLA-4: esso è espresso su cellule T attivate e la sua funzione primaria è quella di
down-regolare l’attivazione dei linfociti T contrastando il segnale co-stimolatorio erogato da CD28.
Sia CTLA-4 che CD28 condividono gli stessi ligandi, CD80 (noto anche come B7-1) e CD86 (noto
anche come B7-2); tuttavia, CTLA-4 ha un’affinità più elevata per questi ligandi e pertanto supera
CD28 per il legame con il ligando, attenuando e limitando così la risposta delle cellule T, e
provocando consequenzialmente un incremento della produzione di PD-L1 nel tumore. Di
conseguenza, il blocco di CTLA-4 promuove il rigetto del tumore, in quanto essa (CTLA-4) limita le
risposte immunitarie, come dimostrato anche dall’esperimento dei topi 🡪 dopo essere stati iniettati
con una mistura anticorpale di ipilimumab in grado di bloccare CTLA-4 e andando ancor prima ad
interferire e disturbare l’associazione tra la stessa e CD80/CD86, il linfocita non è più inibito, quindi
aggredisce le cellule tumorali ed evidenzia un effetto di regressione neoplastica.
Perciò le molecole costimolatorie (CD28, OX40, GITR, CD137, CD27, HVEM) e le coinibitorie
(CTLA-4, PD1, TIM3, BTLA, TIGIT, LAG-3) si trovano contemporaneamente nella cellula T, che andrà
ad attaccare la cellula tumorale. Per fuggire dalla risposta immunitaria la cellula tumorale, invece,
deve presentare più molecole inibitorie mentre la cellula T meno molecole costimolatorie.
MIR34a