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PATOLOGIA 03-10-12 prof.

Avvedimento

PROCESSO INFIAMMATORIO
Necrosi e apoptosi

Fondamentalmente, il programma di patologia generale è diviso in due grosse componenti. Uno è l’eziologia,
che studia le cause della malattia, e l'altro è la patogenesi, ovvero il meccanismo attraverso il quale si
determinano i sintomi. Nella patogenesi ci sono solo tre modi per generare sintomi, e di fronte ad una
malattia bisogna comprendere con quale di questi si ha a che fare. Questi tre percorsi patogenetici sono:
infiammazione, degenerazione, proliferazione; non c'è nessuna malattia umana che sfugga a questi tre
meccanismi di patogenesi.
Con qualsiasi malattia si avrà a che fare, oltre a sapere l’eziologia e la patogenesi, bisogna conoscere la
patologia molecolare, e saper andare dalla molecola (passando per la cellula e il tessuto) all'organo, o
viceversa. È importante capire come si fa a vedere se una cellula sta male, quando un tessuto muore oppure
sta vivendo, oppure sta vivendo male. Bisogna inoltre sapere anche perché ciò accade: ovvero qual è la
patologia molecolare. Di fronte a un fenotipo complesso, come quello di una malattia, dobbiamo individuare
due cose: la causa e il meccanismo attraverso il quale si generano i segni, rispettivamente eziologia e
patogenesi.
Eziologia ! il termine indica gli avvenimenti, i motivi e le variabili causali di ogni singola malattia o
patologia; può essere di tipo genetico o di tipo ambientale. Non c’è un terzo tipo di eziologia. Per cui la
prima domanda che ci si deve porre quando si ha a che fare con una determinata malattia è il tipo di
eziologia; ad esempio una malattia può essere ambientale, oppure può avere sia una causa ambientale sia una
genetica.
Patogenesi ! studio dei modi e dei processi fisiopatologici attraverso cui avvengono le alterazioni dello
stato fisiologico che portano allo stabilirsi e allo svilupparsi di una malattia. Schematizzando, l’origine dei
sintomi può essere ricondotta a questi tre meccanismi:
" proliferazione
" degenerazione
" infiammazione.
Questi tre processi sono tre grossi percorsi che coprono tutto lo scibile della patologia del nostro corpo e
delle nostre cellule. Non bisogna però dimenticare che ci sono numerosi casi in cui però una malattia ha
un’eziologia mista, e una patogenesi anch’essa mista, ad esempio dovuta a proliferazione e infiammazione;
per esempio un paziente può avere un piccolo tumore che genera un'infiammazione cutanea. Una malattia la
cui causa è genetica e la cui patogenesi è dovuta a una degenerazione, è per esempio una mutazione in
qualche gene che porta all'Alzheimer; se invece una persona fa un incidente in auto, l'eziologia è ambientale,
e inoltre avrà avuto ad esempio una frattura di un osso, per cui la cellula deve proliferare per riformarlo e ci
sarà infiammazione. Questo schema è estremamente semplificato però tutte le malattie obbediscono a questi
criteri; si tratta di una semplificazione della realtà, però se non si comincia a distinguere il quadro complesso
e il quadro semplice non si inizierà mai a capire cosa sta succedendo nel paziente. Si deve cercare quando si
è di fronte a un fenotipo complesso, come quello di una malattia, di analizzarlo utilizzando almeno per
cominciare questo schema.
Nelle malattie in cui c’è un gene alterato, questo gene può causare danno. Si pone quindi la domanda del
perché quel determinato gene non viene eliminato dal pool dei geni dell’uomo; in pratica ogni malattia che
noi vediamo adesso, se non è stata selezionata dall’evoluzione, aumenta o diminuisce la fitness (successo
riproduttivo di un individuo o di un certo genotipo). Per cui, da un punto di vista dell’evoluzione, la domanda
da porsi è come mai la malattia si è conservata e non è stata eliminata dalla pulizia dell'evoluzione.
Per agente patogeno, anche se a volte si pensa che ci si riferisca solo ai microrganismi, in realtà si intende
ogni cosa che genera la malattia, indipendentemente che si tratti ad esempio di un virus o un gene.
Per quanto riguarda i sintomi, bisogna chiedersi quali sono i sintomi diretti causati dalla lesione, e quali sono
i sintomi indiretti, e inoltre se i sintomi siano degli adattamenti o delle reazioni.
Ciascuna malattia può essere classificata in modo diverso. Però, dato che possiamo avere diverse
classificazioni ma la malattia è sempre una sola, se si hanno difficoltà ad usare questi vari schemi, bisogna
prenderne uno di riferimento ma essere consistenti quando lo si usa.
Fondamentale è comprendere quando una cellula o un tessuto non sta bene. Voi siete abituati a cominciare
dalla molecola e poi a poco a poco ad arrivare fino al danno macroscopico, anche se credo che sia più utile
cominciare da una malattia, da un fenotipo visibile, per poi risalire al danno molecolare.
Innanzitutto, per capire se una cellula è sofferente, la si osserva. Per vedere una cellula noi dobbiamo
colorarla; in una delle colorazioni più semplici, la colorazione con ematossilina e eosina, per colorare il
nucleo si usa l’ematossilina che lega gli acidi (basofili), e quindi il DNA e le RNA, mentre per il citoplasma
si usa l’eosina che è acidofila e che colora perciò le proteine del citoplasma. Dunque l’ematossilina colora in
blu violetto i componenti cellulari carichi negativamente, come acidi nucleici, proteine di membrana e
membrane cellulari, elastina; questi componenti sono detti basofili e si trovano prevalentemente a livello del
nucleo, che assume pertanto il colore blu. L’eosina colora invece in rosso rosato i componenti carichi
positivamente, come molte proteine cellulari, le proteine mitocondriali, le fibre collagene; questi componenti
sono detti eosinofili o acidofili e determinano una colorazione rosata di tutte le rimanenti zone cellulari, il
citoplasma e le sostanze extracellulari. La cosa importante è che nel citoplasma sono presenti anche delle
formazioni scure, che sono i ribosomi e gli RNA (sotto forma di strie bluastre).
In qualsiasi tessuto che si ha di fronte per distinguere una cellula si deve individuare il nucleo, scuro, è la
zona chiara che è il citoplasma.
Una cellula che sta male è pallida, in quanto accumula acqua al suo interno. La causa principale della
sofferenza o della morte cellulare è una disfunzione della respirazione (come accade in fondo anche per
l’intero essere umano); la cellula ha infatti bisogno di respirare, e ci sono situazioni in cui l’apporto di
ossigeno è compromesso; ad esempio l’occlusione di un vaso induce ipossia. La causa principale della morte
di una cellula è proprio la riduzione dell'ossigeno. In ogni disfunzione mitocondriale respiratoria si assiste
alla diminuzione di ATP; questa diminuzione di ATP non fa attivare alcuni enzimi ma soprattutto non fa
funzionare le pompe che si ridistribuiscono gli ioni, come la pompa sodio-potassio di membrana, che è infatti
ATP-dipendente. Quello che succede di fatto è che prima si gonfia il mitocondrio per l'abbassamento del
gradiente della membrana mitocondriale, e poi la la cellula diventa più grande e pallida.

Necrosi ! la necrosi è la morte cellulare che corrisponde a precipitazione di proteine nella cellula, che si
colorano più densamente a causa della variazione di pH. Quindi le proteine precipitano perché il pH è
cambiato. Il pH varia a causa della disfunzione mitocondriale, e si ha acidosi; l’acidosi a sua volta fa
precipitare alcune proteine che portano via il colore.
Il danno cellulare che porta a morte può essere irreversibile o reversibile; questo è fondamentale perché
conoscendo i meccanismi possiamo agire su di essi, e riportare la cellula in salute quando è possibile.
Naturalmente ci sono cellule in cui questo è possibile e cellule in cui invece la situazione è diventata
irrecuperabile. Finché le lesioni sono sulla membrana e non intervengono sui mitocondri le cellule sono
riparabili, gestibili; ma nel momento in cui le lesioni colpiscono il DNA e delle determinate proteine, le
lesioni diventano spesso irreversibili. Per cui osservando una lesione coronarica al cuore è possibile dire qual
è il destino di questo paziente, se morirà, morirà il cuore, e qual è l'estensione della lesione.
Ad esempio, se un soggetto ha mangiato funghi velenosi (amanita falloide), e osserviamo il fegato, su questo
fegato si può ancora intervenire; ciò lo si deduce dal fatto che la colorazione istologica ci indica che sia il
DNA che le proteine sono inalterati. Quando invece il nucleo si rompe non c’è più niente da fare; una delle
alterazioni morfologiche del nucleo è la picnosi, perché si riduce di dimensioni e si ipercolora, e poi ce ne
sono anche altre, come la carioressi.

Innanzitutto quando parliamo di morte di una cellula dobbiamo considerare il fatto che ne esistono due tipi:
la necrosi l’ apoptosi. La differenza fondamentale è che la necrosi porta infiammazione; infatti nella necrosi
la cellula scoppia all’esterno, mentre nel apoptosi la cellula implode all'interno. In un cuore in cui abbiamo
un'isola coronarica con un infarto, c’è una situazione di necrosi acuta e quindi morte cellulare, però esistono
sia delle cellule in apoptosi e delle cellule in necrosi. Nelle cellule in necrosi si osserva una una forte
alterazione nucleare, mentre la cellula in apoptosi diventa piccola e scompare senza lasciare tracce, ma
soprattutto non genera infiammazione; l’infiammazione è una reazione che avviene gradualmente, e che
richiama altre cellule nel luogo in cui è avvenuto il danno. Però la causa delle malattie spesse volte è la
necrosi, perché genera infiammazione, e come tale è simile a una patologia neoplastica. L'apoptosi capita
quando le cellule sono in una fase in cui la lesione non è irreversibile e non è imponente. Per cui lo stimolo
che ha prodotto la necrosi (mancanza di ossigeno) produce necrosi al centro e apoptosi alla periferia.
In caso di apoptosi, si notano i corpi apoptotici: sono dei piccoli corpi contenenti sia nucleo che citoplasma.
La differenza tra le cellule apoptotiche e le cellule che stanno morendo di necrosi è che in queste ultime tutto
citoplasma si ipercolora; la cellula in apoptosi inoltre si riduce di dimensioni.
Se osserviamo un rene che ha subito un danno, in una situazione ad esempio di necrosi tubolare acuta,
possiamo individuare le cellule con i nuclei; si nota però che alcuni nuclei hanno perso la loro
organizzazione, e che le cellule si sono ingrossate. Queste cellule stanno morendo, abbiamo infatti una
necrosi del tubulo renale; la necrosi tubulare acuta può verificarsi quando ad esempio la pressione si abbassa
e il sangue non circola bene.
In realtà, negli ultimi dieci anni, la semplificazione in apoptosi necrosi della morte cellulare comincia a
scricchiolare un po’. Quando la cellula è sottoposta a stress per evitare che crei danni può avvenire
l’autofagia; le cellule ingeriscono a poco a poco tutte le proteine e gli organelli che non stanno bene; esso
funziona come un sistema di controllo di qualità sia degli organelli che delle cellule. Questo è importante
perché se questo processo è alterato può generare infiammazione. Quindi non bisogna dimenticare
l’autofagia come modo per controllare la morte cellulare.

La causa principale della morte cellulare e la mancanza di ossigeno; se si toglie l’ossigeno ad un organismo,
la prima cellula a morire è un neurone, dopo cinque minuti i miociti, dopo 24 ore l’osso. Il sistema nervoso e
così sensibile all'ossigeno, perché mentre il cuore può ridurre la sua attività e può andare in una fase di
riposo, il sistema nervoso deve essere sempre attivo e i neuroni devono funzionare sempre. Una cellula
nervosa consuma grandi quantità di ossigeno per mantenere i gradienti di membrana e condurre
correttamente l’impulso nervoso.
Bisogna distinguere un mitocondrio che sta male da uno sano; quando un mitocondrio sta male si gonfia e
perde le creste; dunque c’è questa modificazione morfologica, il mitocondrio si espande, è ciò è dovuto al
fatto che si alterano i gradienti. Il gradiente della membrana mitocondriale è fondamentale, in quanto
permette la fosforilazione ossidativa e la produzione di ATP perché mantiene segregati i protoni fuori, poi c'è
un poro (ATP-sintasi) che è attraversato da questo flusso di protoni che entra nella matrice mitocondriale, e
sfrutta questa energia per produrre ATP. Se i protoni entrano da un’altra parte rendono inutile il gradiente,
che non viene più sfruttato per produrre ATP.
In una cellula possiamo avere un mitocondrio che sta male, i ribosomi che si sono staccati dal REE, ma
parliamo ancora di danno reversibile perché il DNA è intatto; quando il DNA si danneggia e non può essere
più riparato attiva dei segnali che arrestano il ciclo cellulare e uccidono la cellula.
Una delle modificazioni morfologiche del nucleo è la carioressi, che avviene in seguito alla picnosi, e
consiste nella frammentazione del nucleo in varie parti. C’è poi anche la cariolisi, in cui non si vede neanche
più il nucleo (dissoluzione completa del DNA). Queste sono variazioni morfologiche caratteristiche della
morte irreversibile.

Riguardo la fosforilazione ossidativa, è importante conoscere l’ultima fase, quella in cui c’è un’elica che gira
al passaggio di protoni (l’ATP sintasi). Se c’è un altro poro nella membrana mitocondriale interna attraverso
cui possono passare i protoni, quest’elica non funziona bene e si forma poca ATP. La produzione di ATP
dipende anche da quanti protoni passano. Durante la fosforilazione ossidativa inoltre possono formarsi i
radicali liberi dell'ossigeno, specie altamente diffusibili (dato che l'ossigeno è un gas) e che presentano un
elettrone spaiato. Queste specie sono molto reattive. Durante la catena di trasporto degli elettroni il 90% di
essi viene caricato sul ossigeno in maniera corretta, mentre il restante 10% forma radicali liberi dell'ossigeno
(ROS); quindi noi produciamo radicali in grandi quantità. I principali radicali dell’ossigeno sono tre: O2·- ,
OH·, H2O2; quest’ultimo non è un vero e proprio radicale; un vero radicale infatti deve avere degli elettroni
spaiati. La loro vita è così breve che fondamentalmente sono rapidamente trasformati in H2O2 e poi in
composti inerti; se i ROS non vengono trasformati in H2O2 possono fare dei danni. I radicali, proprio perché
sono estremamente reattivi, colpiscono tutto quello che incontrano nella cellula, ovvero proteine lipidi
zuccheri. La cellula possiede diversi metodi per metabolizzare ed eliminare i ROS.
• Il sistema più comune è quello che utilizza enzimi deputati alla conversione delle specie reattive
dell'ossigeno in prodotti meno reattivi e tossici per la cellula. In particolare abbiamo la superossido
dismutasi (ne esistono almeno tre tipi) che agisce su O2.- tramite la reazione 2 O2.- + 2H+ ! H2O2 +
O2; la catalasi che opera sul perossido d'idrogeno tramite la reazione 2H2O2 ! 2H2O + O2; la
glutatione perossidasi, che agisce sia sul perossido d'idrogeno che sul radicale ossidrilico tramite le
reazioni H2O2 + 2GSH ! GSSG + 2H2O e 2OH + 2GSH ! GSSG + 2H2O. Il rapporto tra il
glutatione ridotto (GSH) e il glutatione ossidato (GSSG) viene analizzato per valutare la capacità
della cellula di eliminare i ROS ed è un indice del suo stato ossidativo.
• La cellula controlla il livello di metalli di transizione al suo interno, particolarmente quelli del ferro e
del rame. Il ferro è infatti sempre legato ad una proteina e tendenzialmente mantenuto allo stato
ferrico Fe3+. Nel sangue è legato alla trasferrina, la proteina con la maggiore affinità per il suo
substrato conosciuta, è immagazzinato nella ferritina, ma è anche utilizzato nel gruppo eme di molte
metalloproteine e ferrossidasi a diverso significato. Il rame è legato prevalentemente alla
ceruloplasmina e all'efestina.
• La cellula possiede antiossidanti deputati alla neutralizzazione di radicali liberi. Ne fanno parte il
glutatione, la vitamina A (retinolo, retinale, acido retinoico), la vitamina C (acido ascorbico) e la
vitamina E (tocoferolo).
Il sistema più importante è quello della SOD (superossido dismutasi), che è in grado di trasformare i radicali
in H2O2. La catalasi è in grado di produrre acqua a partire da acqua ossigenata. Quindi come vedete il
sistema è perfetto: ogni cosa dannosa viene trasformata in qualcosa non dannosa, cioè l’ossigeno molecolare;
la SOD e la catalasi ci garantiscono di vivere bene. Infatti tutte le mutazioni di questi enzimi, soprattutto il
SOD citosolico, possono recare gravi danni, fino alla morte. Questo è il sistema di eliminazione dei radicali
più importante. Mentre l’inattivazione del sistema SOD mitocondriale porta alla SLA; in questa patologia
muoiono i motoneuroni spinali.

Uno ione importante nell’omeostasi cellulare è il calcio, che è segregato in compartimenti intracellulari o
fuori la cellula; il calcio, come il ferro, è tossico in quantità eccessive nel citosol. Quindi deve essere ben
organizzato e separato nella cellula in compartimenti; quando si rompono le membrane, ad esempio grazie
all'azione dei radicali sui lipidi, i primi ioni ad entrare nella cellula sono calcio e sodio. Quando entra il
calcio succedono una serie di cose importanti perché ci sono degli enzimi che sono dipendenti da calcio e
devono essere attivati al momento giusto; per cui se non sono attivati quando ce n’è bisogno causano danno;
esempi di questi enzimi sono fosfolipasi, proteasi, endonucleasi, che in pratica degradano tutte le componenti
cellulari. Quindi uno dei danni più importanti per una cellula è la presenza incontrollata di calcio nel citosol.

Se nel cuore osserviamo delle macchie scure, ciò significa che c’è un’area di necrosi, dovuta ad esempio a
chiusura di una coronaria; osservando le cellule, possiamo dire quanto tempo è passato dalla chiusura della
coronaria. Osservando al microscopio, vediamo le fibre e i nuclei; la differenza tra parte sana e danneggiata è
evidente. Possiamo capire che siamo a minuti o ore dopo la chiusura di un'arteria coronaria, osservando ad
esempio a che stadio è la necrosi e se c’è già infiammazione o meno, se il danno è reversibile o irreversibile.
La morte delle fibre cardiache è dovuta ai meccanismi descritti in precedenza, quali produzione di radicali,
rottura delle membrane, fuoriuscita del calcio e alterazione del gradiente mitocondriale. Però le fibre sono
ancora intatte.
Se osserviamo un rene che ha subito un danno, vediamo che i tubuli sono dilatati, le cellule sono sofferenti.
Altre zone invece stanno bene, non vediamo le alterazioni che osserviamo nelle zone sofferenti. Possiamo
poi avere zone in cui c'è iperemia, cioè aumento del flusso di sangue in seguito ad una risposta ipossica. Noi
abbiamo dei geni (come HIF-1) che sono attivati dalla carenza di ossigeno; questi geni inducono dei segnali
che favoriscono la circolazione del sangue, stimolano l'angiogenesi, guidano una risposta di tipo reattiva
all'ipossia; il modo migliore per rispondere all’ipossia è infatti dilatare i vasi (vasodilatazione) e generare
nuovi vasi che circondino la lesione. Però nonostante questi sistemi, se il danno è esteso si viene a creare una
zona necrotica; oltre al danno necrotico, c’è anche apoptosi, e bisogna intervenire su quest’ultimo processo,
cercando di diminuirlo: infatti bisogna allargare la zona in cui c’è risposta all’ipossia ma non c'è ancora
necrosi. Possiamo usare inibitori del calcio, vasodilatazione, o altro ancora.

Morfologicamente possiamo distinguere i seguenti tipi distinti di necrosi:


• Necrosi coagulativa: si verifica di solito in un ambiente povero di ossigeno; la forma delle cellule e
l'architettura tissutale si conserva dopo la loro morte e può essere osservata con un microscopio
(come nell'infarto del miocardio: si osserva picnosi del nucleo, ipereosinofilia dei miociti, necrosi a
bande di contrazione, infiltrato neutrofilo iniziale e della milza e nei reni). Si parla di necrosi
coagulativa quando il tessuto si riconosce anche dopo molto tempo, perché ha una struttura
connettivale molto forte. Questo significa che vanno via le cellule ma l'impalcatura connettivale si
mantiene; l'impalcatura è costituita da fibre e non contiene cellule; questa impalcatura connettivale si
usa anche per costruire organi artificiali, uccidendo le cellule malate, conservando l'impalcatura, e
rimettendoci le cellule sane.
• Necrosi colliquativa o liquefattiva: avviene per digestione delle cellule morte. Il tessuto normale
lascia spazio ad una massa liquida viscosa, contenente un accumulo di leucociti ed enzimi con
formazione di pus (leucociti morti), come nella polmonite. Anche nel caso del cervello possiamo
avere necrosi liquefattiva, in quanto dopo qualche tempo non vediamo più niente perché il tessuto
morto viene completamente rimosso.
• Necrosi grassa (fat necrosisi) o steatonecrosi: è causata dall'azione degli enzimi lipasi sui tessuti
grassi (ad esempio nel pancreas nel caso di pancreatite acuta)
• Necrosi fibrinoide: è causata da danni vascolari immuno-mediati. Si distingue per i depositi di
materiale proteico simile alla fibrina sulle pareti delle arterie, che appaiono macchiate ed acidofile al
microscopio ottico.
• Necrosi asettica o osteonecrosi: è causata dalla scarsa circolazione sanguigna che può determinare la
‘morte’ della parte ossea colpita (ad esempio astragalo, testa del femore, ecc.).
• Necrosi caseosa: un misto di necrosi coagulativa e colliquativa; un esempio si ha nella tubercolosi.
• Necrosi gangrenosa: termine non specifico per pattern di necrosi, viene utilizzato in clinica per
indicare situazioni quali un arto non perfuso, corrisponde ad una necrosi coagulativa su più strati
tissutali. La causa diretta è un insufficiente apporto di sangue al tessuto, che spesso viene
rapidamente invaso da batteri (infiammazione batterica superimposta) dando ‘gangrena umida’.
• Necrosi suppurativa: costituita da cellule distrutte ed elementi infiammatori migrati nell'area
interessata. Viene a formarsi un pus ricco di detriti cellulari, acidi nucleici liberi e plasmaproteine.

Nel caso di infarto del rene talvolta il soggetto può non accorgersi di ciò, in quanto la funzione del rene
malato viene vicariata dall'altro rene la cui funzione non viene alterata. Ciò avviene nel caso di infarti
subacuti o cronici. Se la lesione è acuta si ha dolore e quindi si ricorre all’aiuto di un medico e si diagnostica
.
Possiamo avere anche una lesione da eccesso di farmaco: ad esempio l'aspirina se utilizzata in grandi
quantità può indurre necrosi; bisogna essere attenti perché alcuni farmaci sono tossici acutamente, altri in
maniera cronica. Un'altra causa può essere alterazione dei geni; un’altra causa delle malattie è l'alterazione
della dieta. Parecchie di queste malattie prima erano definite idiopatiche, una parola tuttora in uso per
indicare che la causa è sconosciuta.

PATOLOGIA 04-10-12 prof. Avvedimento

Infiammazione

Uno dei principali elementi con cui noi ci difendiamo dagli agenti estranei è l’infiammazione. Essa avviene
sempre in presenza di sangue; senza sangue, e senza cellule del sangue, non c’è infiammazione. Generalemte
un termine che finisce in –ite indica un’infiammazione: ad esempio, cistite significa infiammazione della
vescica, mentre artrite indica l’infiammazione dell’articolazione.
L’infiammazione è fondamentalmente la reazione aspecifica, generica, che si ha in seguito ad una lesione.
Per esempio, il caso più semplice è una lesione traumatica che noi possiamo vedere perché avviene sulla
pelle. Una delle cause di danno più frequenti è l’ipossia, che è dovuta alla mancanza di sangue da ischemia;
per cui anche una lesione da mancanza di ossigeno può generare infiammazione. La differenza tra apoptosi e
necrosi fondamentalmente è dovuta alla presenza di infiammazione (in necrosi) perché la cellula scoppia e
tutti i materiali contenuti in essa vanno a finire affianco inducendo il rilascio dei mediatori
dell’infiammazione, mentre l’apoptosi è una morte silente.
Innanzitutto, l’infiammazione deve essere un processo estremamente rapido, e deve avere un inizio rapido
(nell’ordine dei secondi). Un esempio è un pugno sul volto: la prima cosa che capita, naturalmente oltre al
dolore, è che la parte colpita si gonfia; ciò avviene dopo alcuni secondi, non dopo ore, perché se ciò non
avvenisse subito si correrebbe il rischio di avere una lesione permanente. Per cui l’infiammazione, come ogni
processo, ha un inizio, poi c’è una fase di amplificazione (come nella coagulazione) parossistica seguita da una
fase di terminazione.

L’infiammazione è un processo reattivo che coinvolge il sangue soprattutto quando è nella fase acuta. Un tipo
di infiammazione acuta è l’angioflogosi (flogo: infiammazione, diventare rosso, turgido dal greco). Diversa è
invece l’infiammazione cronica che si chiama anche istoflogosi; isto significa tessuto, infatti in questo caso
l’infiammazione tissutale è più importante della parte ematica, e le cellule coinvolte cambiano fra i due tipi.
Come comincia l’infiammazione? Facciamo l’esempio del pugno. Ogni stimolazione traumatica di tipo
ipossico attiva le terminazioni nervose. Per cui la prima fase, prima ancora dell’inizio vero e proprio, è la fase
in cui c’è un riflesso di tipo nervoso molto rapido (secondi). Se la pelle lesa subisce uno stimolo dolorifico,
questo stimolo viene comunicato alla terminazione nervosa. Se lo stimolo è così forte alla prima biforcazione
che trova, invece di proseguire verso il midollo, torna indietro e rimane sulla pelle; questo si chiama stimolo
antidromico, che non è un vero e proprio riflesso di tipo spinale (afferenza – neurone sensoriale - neurone
motorio - efferenza - risposta muscolare): si tratta di uno stimolo atipico, strano, illegittimo, non normale
perche non arriva dal midollo. È importnte perché di fatto quello che succede è che l’impulso è così forte che
le terminazioni afferente ed efferente vengono entrambe attivate. La stimolazione efferente che ritorna sulla
pelle rilascia dei mediatori neuropeptidi che sono sostanze P (un mediatore della sensazione dolorifica), o
sostanze che vasodilatano o sono sostanze infiammatorie.
Queste ultime sono importanti perché oggi si parla molto di più rispetto a dieci anni fa di infiammazione
neurogenica; ad esempio, se abbiamo un’infezione dentaria, possiamo avere anche mal di testa; ciò non perché
dal dente dente partono delle tossine o dei mediatori dell’infiammazione che vanno a finire nel cervello (in
quanto la barriera ematoencefalica non è attraversata da nessuna proteina, a meno che non sia attivamente
trasportata), ma perché le terminazioni nervose dal dente dopo un poco comunicano anche al midollo perché lo
stimolo passa. Dal midollo invece di prendere la via efferente, cioè di ritorno motoria, si sale sopra (verso il
cervello); per cui il SNC (midollo e cervello) si accorge che c’è uno stimolo doloroso non cosciente, e
comincia ad elaborare dei mediatori. Questi mediatori poi rappresentano dei segnali centrali all’ipotalamo in
risposta allo stimolo infiammatorio. Quando si parla di infiammazione neurogenica, non significa
infiammazione del cervello o del sistema nervoso, ma un’infiammazione avvertita per via nervosa (non
vascolare) dal SNC.
Questa fase iniziale dura 1-2 secondi al massimo. Abbiamo poi delle fasi succesive; c’è ad esempio
l’attivazione delle mast-cellule; queste cellule si trovano intorno ai vasi e che possono degranulare quando si
rompono. Se si riceve un trauma (in un incidente stradale, con una mazza da golf, ecc.) si rompe non solo
l’osso, i vasi, ma anche le cellule. Le cellule liberano delle sostanze che attivano poi la seconda fase.

I criteri per dire che si tratta di infiammazione e non di degenerazione e/o proliferazione sono gli stessi criteri
utilizzati dai vecchi medici medioevali che dicevano che l’infiammazione è caratterizzata da 5 sintomi :
1. Rossore
2. Rigonfiamento
3. Calore
4. Dolore
5. Perdita di funzione
Il medico medievale riconosceva questi segni perché li osservava sulla pelle. Gli stessi segni si hanno anche
negli organi interni (cuore polmone rene fegato) che in seguito a stato infiammatorio presentano queste cinque
caratteristiche.
Calore: è il risultato dell’aumento dell’afflusso sanguigno nella zona infiammata. Infatti c’è iperemia.
Rossore: è dovuto all’iperemia (che causa anche calore) e alla vasodilatazione. I vasi si dilatano, dunque
aumenta non solo la quantità di sangue ma c’è anche stasi ematica.
Rigonfiamento: la zona infiammata diventa gonfia; oltre alla vasodilatazione c’è infatti anche extravasazione
(fuoriuscita di liquidi dal letto vascolare all’interstizio).
Dunque i concetti che bisogna tenere presente sono vasodilatazione, stasi, e fuoriuscita di liquidi; questi
danno luogo all’edema, il rigonfiamento che succede all’infiammazione.
Dolore: è la prima cosa che si manifesta, fa parte del riflesso antidromico.

Ad esempio su una lesione cutanea vediamo tutti e 5 i sintomi che abbiamo analizzato. Ma anche se ad
esemopio osserviamo una frattura tramite i raggi infrarossi e osserviamo la temperatura locale, vediamo che
nel sito infiammatorio aumenta la temperatura a causa dell’iperemia, vasodilatazione e fuoriuscita di liquido.

In anatomia patologica, l’infiammazione può essere categorizzata in base al tipo di cellule che sono presenti;
l’anatomopatologo distingue un’infiammazione acuta da una cronica in base al tipo di cellule che ritrova nel
preparato.
Il leucocita polimorfonucleato (PMN) rappresenta il 60% dei globuli bianchi (5-8 mila) ed è la cellula
dell’infiammazione acuta; tale denominazione è dovuta alla forma del nucleo che è lobato (ciòè sembra
formato tanti nuclei attaccati). Si distingue dal macrofago che invece ha un grosso nucleo ed è una cellula
molto grossa, e caratterizza l’infiammazione cronica.
La principale differenza tra le due risposte riguarda il tempo: un mese (cronica), oppure un giorno, ore,
minuti (acuta). Se lo stimolo che ha causato l’infiammazione acuta non viene risolto, l’infiammazione acuta
si trasforma in subacuta per poi evolvere in cronica. La differenza temporale però non è l’unica differenza ,
cambia anche la qualità della reazione e dello stimolo che la provoca.

Circuito vascolare ! arteria – arteriole precapillari – capillari – venule postcapillari – venule – vene. La
maggioranza del sangue nei capillari non ci arriva mai; noi infatti abbiamo 5 litri di sangue e il letto
vascolare ha una capacità di 50 litri. Tanto è vero che a livello dell’arteriola ci sono degli sfinteri che fanno
in modo che il sangue non entri nei capillari, e quindi nel microcircolo, ma vada perlopiù in periferia. La
capacità di regolare il flusso ematico capillare è importante; ad esempio, in alcune situazioni imbarazzanti
arrosiamo in quanto si aprono gli sfinteri precapillari; è importante però che gli sfinteri si aprano solo sulla
faccia, e non in tutto il corpo, in quanto se così fosse il soggetto andrebbe incontro a shock (collasso per
carenza di sangue in distretti più centrali): infatti qualcuno in seguito a forte emozione può collassare. Quindi
è fondamentale sapere che il sangue non circola contemporaneamente il tutti i capillari.

Il circuito dell’infiammazione è autoamplificatorio: molto semplicemente, quando c’è uno stimolo (come un
urto) le cellule generano dei mediatori, che a loro volta attivano la produzione di questi o altri mediatori nelle
stesse cellule o in cellule differenti, per cui è un circuito con stimolazione parossistica. L’infiammazione
dunque è un circuito di tipo parossistico, però abbiamo anche dopo un po' di tempo la produzione di sostanze
che invece iniziano ad a fermare il circuito.

Abbiamo due tipi di malattie infiammatorie: malattie da difetto e malattie da eccesso. Per esempio l'artrite
reumatoide e l'artrosi sono esempi di malattie infiammatorie in cui l'infiammazione non viene spenta, e c'è un
eccesso di risposta infiammatoria. Quando si ha un danno, ad esempio giocando a calcio, e non si ha una
diagnosi precisa, il trauma genera una lesione e se la lesione non guarisce si ha la formazione di un
granuloma. Può essere risolto, può dare una lesione (ascesso) oppure può da dar luogo ad infiammazione
cronica. La pelle viene spessa presa come esempio di lesione perché è il tessuto più facilmente osservabile,
ma gli processi analoghi a quelli che accadono sulla pelle accadano anche negli organi interni.

Dunque le tre fasi dell’infiammazione sono: vasodilatazione, stasi, aumento della temperatura, e nel focolaio
infiammatorio si forma l'edema infiammatorio, che deve essere distinto da quello non infiammatorio;
l’edema infiammatorio darà essudato.
La causa per la quale il sangue resta nei vasi, soprattutto nei capillari che hanno una parete molto sottile (solo
cellule endoteliali) è data dal fatto che esiste una forza che attrae i liquidi, data dalla pressione oncotica, cioè
la pressione esercitata dalle proteine del sangue che richiama acqua. Le proteine richiamano acqua in quanto
sono solubili e vengono idratate; i lipidi, a differenza delle proteine solubili e dei glicidi, sono invece
idrofobi, e il loro accumulo nei fasi può determinare l’ostruzione. Le proteine hanno gruppi idrofobici, però
questi si pongono all'interno, mentre tutti i gruppi idrofilici all'esterno, in modo da generare delle proteine
che presentano una superficie idrofilica e dunque possono circolare agevolmente nel sangue. Le proteine
sono paragonabili a spugne; esse assorbono acqua per un volume 10 volte maggiore al loro volume in
assenza di acqua. Naturalmente se diminuiscono le proteine diminuisce la pressione oncotica.
Dunque la direzione della pressione oncotica, da fuori a dentro i vasi, si oppone ad un'altra pressione che è
esercitata dal cuore sui vasi, che è la pressione idrostatica. È fondamentale che queste due pressioni siano
equilibrate. Per esempio se il capillare avesse una pressione idrostatica elevata scoppierebbe, e l'acqua
uscirebbe dai vasi. Per cui nei capillari diminuisce la pressione idrostatica, aumenta la pressione oncotica, e
si stabilisce un equilibrio tra acqua che entra e acqua che esce; se questo rapporto oncotico- idrostatico viene
alterato da qualcosa, succede che abbiamo fuoriuscita di liquidi.
Possiamo distinguere se la fuoriuscita di liquidi è dovuta all'infiammazione o se per esempio è dovuta a una
variazione della pressione idrostatica; una persona che ha alterazioni nell'efficienza cardiaca avrà variazioni
della pressione idrostatica, così come una persona che ha problemi con le vene, avrà una problema di
pressione idrostatica. Quando la pressione venosa supera quella idrostatica, esce del liquido anche in questi
casi. Per esempio persone che hanno deficit cardiaci, accumulano liquidi che però non sono di natura
infiammatoria; questo accumulo di liquidi si chiama trasudato.
C’è differenza tra essudato e trasudato; l'essudato si forma perché c'è una modificazione attiva della parete
dei vasi piccoli, in particolare ci riferiamo alle venule postcapillari, che sono il bersaglio dell'infiammazione.
Invece quando si ha variazione della pressione idrostatica non c'è alterazione della parete, ma c'è alterazione
della pressione che fa uscire il liquido; dunque il trasudato non contiene né cellule né proteine, ma contiene
solo acqua e sali in quanto si tratta di un ultrafiltrato e la membrana è indenne, mentre nell'infiammazione
l'essudato contiene anche cellule e proteine perché la membrana si altera. Questa differenza è molto
importante, e serve per capire se ci troviamo di fronte ad una lesione infiammatoria o meno.
Ad esempio, nel caso di un alveolo polmonare, c'è differenza tra un polmone edematoso e un polmone che
presenta infiammazione: il secondo caso può essere dato da un polmone affetto da polmonite (alveolo pieno
di globuli bianchi); quando c'è infiammazione c'è essudato (cellule, proteine e sali). Quando c'è il trasudato
non ci sono cellule; un edema polmonare può invece avvenire perché il cuore si è fermato per un po' di
tempo, oppure la pressione è aumentata e il sangue non è potuto andare avanti nelle vene polmonari verso il
cuore, e ha ristagnato, uscendo negli alveoli. Quindi gli alveoli vengono inondati da ultrafiltrato, e quindi è
come se il paziente stesse annegando dall'interno. Ad un esame istologico, si notano le differenze tra questi
alveoli: edema polmonare ! trasudato, polmonite ! essudato.
La pleurite si può avere per un’infiammazione della pleura oppure per alterazioni del drenaggio delle liquido.
Per cui anche la pleurite può essere di tipo idrostatico, senza infiammazione, e quindi trasudato; oppure può
essere di tipo infiammatoria, essudato. Ciò si rileva prelevando del liquido dall’edema, e si vede se ci sono
cellule. Se ci sono cellule si tratta di essudato; se queste cellule sono i polimorfonucleati, parliamo di
infiammazione acuta (1-2 gg); se invece ci sono delle cellule con un nucleo normale e più grandi, cioè i
macrofagi, l'infiammazione è cronica.

Le proteine plasmatiche sono la sorgente principale della pressione oncotica. Può accadere che un soggetto
che ha una malattia renale presenta un sacco di edemi alle gambe, agli occhi, alla testa e alla faccia; così
come possiamo avere un soggetto con una malattia epatica che presenta trasudato ascitico (raccolta di liquido
nella cavità peritoneale). L’alterazione della funzione renale può infatti portare perdita di proteine nelle urine
(proteinuria); quindi abbiamo perdita di proteine e diminuzione della pressione oncotica, per cui un soggetto
che ha un problema renale inizia a sviluppare edemi. Così anche chi ha problemi al fegato, in quanto il fegato
produce numerose proteine plasmatiche, un primo luogo l’albumina: se si produce poca albumina si
sviluppano edemi, naturalmente a causa della gravità prima alle gambe e poi alle regioni superiori. Nel caso
invece di un'epatite o nel caso di una glomerulonefrite (infiammazioni rispettivamente del fegato e del rene)
non si vedono edemi nel corpo ma si vedono sugli organi interessati; questa è un'altra differenza importante,
in quanto generalmente nell'infiammazione l’edema è locale, mentre nel caso del trasudato l’edema è
generalizzato perché coinvolge tutto l'apparato cardiovascolare.

Nell’infiammazione c’è alterazione della permeabilità e vasodilatazione; queste sono le due caratteristiche
più importanti. L'alterazione della permeabilità coinvolge solo le venule postcapillari, e il perché risiede nella
struttura dei capillari.
Il 90% del sangue non circola attraverso questi capillari grazie all'azione degli sfinteri. Per motivi nervosi o
grazie all'azione di alcune sostanze, come i mediatori dell'infiammazione, oppure sostanze liberate dal
sistema nervoso afferente (come nel caso di un riflesso antidromico), questi sfinteri si possono dilatare e il
sangue è libero di entrare nella rete capillare a valle dello sfintere. Quando le cellule del sangue entrano in
questi capillari può succedere che le cellule più grandi (globuli bianchi), ma anche gli eritrociti abbiano
difficoltà ad attraversarli, e questa è un'altra ragione per cui preferiscono andare sui vasi grandi. L'unico
modo per entrare nei capillari per gli eritrociti è quello di rotolare.
Nei vasi più grandi, gli eritrociti formano dei rouleaux (aggregati di eritrociti), mentre le cellule bianche se
ne vanno ai lati. Qualche globulo bianco che entra nei vasi più piccoli cambia forma, e diventa più piccolo..
Quello che succede è che se c'è stasi, per esempio perché il ritorno venoso è impedito, a poco a poco il
sangue ritorna dalle venule e ai capillari. A questo punto i capillari iniziano a scoppiettare perché hanno la
parete molto sottile. La prima cosa che succede in ogni infiammazione è la liberazione di istamina, un’amina
vasoattiva preformata perché si accumula in granuli sia nei basofili che nelle mastcellule (che sono cellule
che si trovano attorno ai vasi). Qualsiasi lesione che rompe queste cellule o rompe il vaso, libera istamina.
L'istamina riconosce cinque tipi di recettori, ma uno in particolare il recettore H2 che si trova soprattutto
nelle venule postcapillari, per cui le venule sono le prime ad aprirsi. Esse si aprono poiché le cellule
endoteliali, che formano un pavimento, contraendosi determinano la formazione di aperture nell'endotelio
attraverso cui può uscire il liquido.
In un esperimento, possiamo osservare il letto capillare dell'occhio di un coniglio in cui è stato iniettato il
carbone; il carbone come qualsiasi sostanza estranea genere infiammazione. La venula postcapillare a parità
di stimolo è la prima porzione del letto vascolare che sente la presenza di istamina; questo significa che dalla
venula cominciano ad uscire liquidi. E se lo stimolo è forte si ha edema, rossore e cominciano ad uscire
anche le cellule; quindi la fuoriuscita delle cellule soprattutto dei globuli bianchi polimorfonucleati è la causa
che genera l’edema infiammatorio ovvero essudato.

L'endotelio si contrae e lascia lo spazio per il passaggio delle cellule; il globulo bianco può quindi entrare in
questo varco, diventando lungo e sottile, mentre una volta che ha attraversato l'endotelio ritorna circolare. Il
globulo bianco possiede dei granuli, i cosiddetti granuli azzurrofili che sono di due tipi: 1) i lisosomi che
contengono enzimi per digerire proteine lipidi e glicidi 2) i granuli azzurrofili che sono particolari poiché
contengono enzimi chiamati mieloperossidasi (uno delle prime armi che il globulo bianco utilizza per colpire
le sostanze che ha inglobato).

Quando si chiude una coronaria dall'osservazione morfologica noi possiamo capire quello che sta
succedendo. Naturalmente queste sono le cellule sane e queste sono le cellule che stanno morendo. Vedete
come ci sono mitocondri pallidi. Ma in questa foto non c'è ancora infiammazione perché non vediamo cellule
estranee a quelle del cuore, però vediamo sofferenza. In questi casi si può ancora intervenire (siamo entro le
10 ore dal danno e la prognosi di questa situazione è migliorata tantissimo negli ultimi vent'anni). Dopo 24h
invece guardate che differenza, le cellule che stavano male, bianche e pallide, non le vedete più ma vedete
questi puntini neri che sono tutti i leucociti polimorfonucleati. Dunque adesso c'è infiammazione e con essa
abbiamo l’edema, necrosi, attivazione dei mediatori, alterazione dei vasi. Col passare del tempo vedete che
ha poco a poco cominciano a farsi degli spazi tra le fibre cardiache occupati dagli leucociti (che cominciano
a fare gli spazzini in base alle proprietà che hanno). Dopo ancora altro tempo vedete che del cuore non c'è
quasi più niente, ci sono spazi completamente bianchi. Questa invece è la lesione dopo sei settimane in cui
vediamo fibrosi, morte delle cellule cardiache, ci sono fibre e questa infiammazione è detta istoflogosi
(cronica).
Questo è un glomerulo normale e questa è la glomerulo nefrite, nel primo caso i nuclei che si vedono sono
quelli delle cellule del messaggio, mentre nel secondo vetrino osserviamo che i capillari dei glomerulo sono
pieni di globuli bianchi.
Nell'infiammazione quando si presentano cellule molto più simili ai linfociti che ai polimorfonucleati si tratta
di un’infiammazione cronica e non acuta.

Fagocitosi di un batterio: in una persona normale questo avviene in un giorno 1 milione di volte. Se non ci
fosse questo movimento del leucocita noi avremo continuamente infezioni batteriche. Questa è un esempio di
immunità innata in cui non c'è infiammazione. La domanda è: ma il leucocita c’ha gli occhi? No. Ha gli
anticorpi? No. E allora come fa a sapere dov'è il batterio? Possiamo pensare che questo rilasci qualcosa, ma a
questo punto come fa la cellula a captare le sostanze rilasciate dal batterio? E soprattutto a muoversi poi in
quella direzione? Bene il leucocita ha un timone fondamentale per la direzione del movimento

Diapedesi: è importante conoscere le interazioni molecolari per le quali avviene questo fenomeno perché
tutte queste interazioni devono avvenire con la giusta affinità. L'elevata o eccessiva affinità di legame del
leucocita all'endotelio può essere causa di malattia. Anche l'aterosclerosi può cominciare così. I depositi di
lipidi sull'endotelio possono causare rottura e i leucociti possono confonderla con un infiammazione
migrando nel sito e liberando istamina che genera infiammazione (in un sito in cui non c'era) . Per cui
l'aterosclerosi è una malattia di tipo infiammatorio.

L’istamina è la prima sostanza che agisce, ma accanto ad essa agisce anche la serotonina (anch'essa
un’amina vasoattiva che si può trovare nelle cellule, non solo cromatiche). Ma c'è una differenza tra
serotonina ed istamina. Vi dico solo il quadro clinico e voi dovete pensarci su. La serotonina è prodotta dalle
cellule cromaffini, che possono proliferare e andare incontro alla proliferazione neoplastica. La cosa strana
che si osserva in questi pazienti affetti da proliferazione neoplastica di queste cellule producenti serotonina,
che comporta quindi un aumento dei livelli di serotonina circolanti, é la fibrosi del cuore destro. Questo
accade perché la serotonina induce aumento della permeabilità (vasodilatazione) nelle venule o nei vasi
piccoli. Poi contrae anche il muscolo liscio. Ma mentre per l’istamina l’effetto sull’endotelio è prevalente
rispetto a quello sul muscolo liscio, la serotonina ha più effetto su quest’ultimo che sull’endotelio. Tanto è
vero che se voi iniettate serotonina aumenta la pressione. Inoltre un’altra caratteristica della serotonina è che
attiva le cellule dell’infiammazione cronica, cioè, i fibroblasti che producono fibre collagene (fibrosi). Ma
perché ciò avviene solo nel cuore destro ? Perché la serotonina viene inibita da una perossidasi che si trova
nel polmone. Quindi nel passare da VDX – POLMONE –ASX la serotonina perde la sua funzione e non ha
effetto sul cuore sx.

PATOLOGIA 05-10-12 prof. Avvedimento

Cosa succede quando c'e' uno stimolo infiammatorio? Le cellule escono dai vasi e noi dobbiamo sapere quali
sono i tempi, quali sono le molecole importanti e i risultati da un punto di vista morfologico e anche fisico.
Istamina e serotonina sono le prime molecole che vengono secrete dai mastociti durante l'infiammazione.

Chemiotassi -> movimento della cellula verso uno stimolo (polimorfonucleato che segue un batterio).
Diapedesi -> atto del movimento che può essere mirato in una sola direzione o casuale.

I fattori chemiotattici sono le sostanze che in qualche modo attivano la cellula verso un polo. C'è un
gradiente che viene sentito e si attivano i recettori sulla superficie in alcuni punti sulla superficie cellulare,
che indirizzano la cellula su quale direzione seguire. Le cellule del nostro organismo sono in grado di
camminare, fermarsi e poi riprendere a camminare. Sia malattie e sia funzioni normali presentano lo stesso
meccanismo (ad esempio: cellula metastatica, accasamento o homing del linfocita).

Ci sono sostanze dette mediatori dell'infiammazione. Nel focolaio infiammatorio ci sono delle sostanze
chimiche che emettono dei segnali i quali vengono ricevuti dalle cellule che circolano (come i
polimorfonucleati), e queste cellule a loro volta rilasciano sostanze chimiche come istamina e serotonina. Per
cui alla fine la cellula endoteliale si contrae ed escono più cellule dal vaso.

Molecole di adesione
Sono di due tipi: selectine e integrine.
Le varie fasi della diapedesi sono dovute al cambio di attività di queste molecole sull'endotelio e sul globulo
bianco. Le selectine sono proteine che hanno una forte componente di interazione collosa poiché hanno una
parte glicidica e lo zolfo, e mediano un'adesione instabile. Il globulo bianco normalmente non tocca
l'endotelio oppure se lo tocca avviene un rimbalzo, e questo perché non c'è alcuna interazione. Nei vasi
succede che i globuli rossi si mettono al centro e i globuli bianchi si mettono in periferia. I leucociti non
possono aderire neanche transitoriamente perché possono creare problemi al normale flusso di sangue
(creando flusso vorticoso) e avviare il processo di coagulazione, che è l'inizio di una lesione intravasale. Ci
sono sostanze che evitano queste interazioni. Quando però c'è una modifica dell'endotelio dovuta al rilascio
di istamina e serotonia, l'endotelio si contrae ed espone delle molecole in superficie che sono viste dal
globulo bianco, il quale dal centro si trasferisce in periferia, e all’interazione iniziale più debole ne segue una
più stabile. Abbiamo infatti due fasi di adesione: adesione instabile mediata dalle selectine, e una seconda
fase di adesione stabile mediata dalle integrine.
Cosa presenta di diverso l’endotelio quando è attivato? l'istamina attiva l’esocitosi delle vescicole sulle cui
membrane ci sono le P-selectine; queste vescicole sono presenti nella cellula endoteliale già preformate
all'interno dei granuli di Weibel-Palade. Le selectine sono molecole di adesione cellula-cellula. Quando
l'endotelio si contrae i granuli di Weibel-Palade si fondono e compaiono in superficie. Così le selectine
possono interagire con le sialoproteine presenti sul leucocita.
Prima fase ! adesione instabile: trasferimento P-selectine sull'endotelio e l'interazione tra sial-lewis del
leucocita e le selectine. Questo significa che il leucocita non si stacca più come succede in assenza di
infiammazione, ma ha una adesione debole. A poco a poco nell'endotelio cambiano anche le proteine, poiché
si attivano processi di trascrizione e traduzione e dalle p-selectine si passa alle e-selectine. Le l-selectine
sono presenti nel linfocita e in una fase più stabile dell'interazione.
Seconda fare ! adesione stabile (Fase integrinica): compaiono sul globulo bianco le integrine e legano le
CAM presenti sull'endotelio. Queste mediano un'adesione stabile.
La p-selectina si lega al sialil-lewis presente sul globulo bianco, e dopo circa un ora vengono prodotte le e-
selectina e adesso l'adesione comincia a diventare leggermente più stabile. Le e-selectine, a differenza delle
p-selectine, non sono quindi preformate, ma vengono sintetizzate in seguito a stimoli infiammatori, e quindi
la comparsa delle e-selectine sulla membrana endoteliale è più tardiva rispetto a quella delle p-selectine.
Tutto questo avviene nelle venule post-capillari per cui parecchi globuli bianchi passando possono rimanere
intrappolati. La formazione del pus è dovuta all’accumulo di granulociti neutrofili e leucociti, richiamati
dalle molecole di adesione dell’endotelio.
I leucociti presentano le l-selectine, che riconoscono ligandi presenti sull’endotelio attivato, ma a differenza
delle p- e delle e-selectine, le l-selectine agiscono nella fase di adesione stabile.
Se la quantità di istamina e serotonina non si riduce il globulo bianco acquista più affinità e produce le
integrine mature.
La selectina ha un dominio che si ripete continuamente ed è quello dell'egf receptor, a cui è stato aggiunto
una lectina, una parte collosa che lega soprattutto gruppi sialici e solforati (come il condroitin solfato). Le
selectine e le integrine sono le molecole di adesione cellula-cellula e cellula-matrice. Il ligando delle
selectine sono proteine glicosilate che contengono fucosio, acido sialico e zuccheri modificati. Quindi in quel
contesto c'è una membrana basale.
Come succede l'adesione stabile con le integrine?
Le integrine sono di due tipi: alfa e beta. L'addentramento nell'endotelio del leucocita non avviene se non ci
sono le integrine. La presenza delle integrine è un fattore necessario ma non sufficiente per un'adesione
stabile; per assicurarla devono essere prima modificate. Se c'è una integrina matura significa che l'infezione
sta da più di 7 giorni.
Tutti i mediatori dell'infiammazione inducono la sintesi delle e-selectine e delle integrine. L'endotelio
presenta quindi varie molecole di adesione, che interagiscono con il leucocita. Un leucocita può diventare
molto piccolo, contrarsi ed extravasare. Le catene a e b hanno una specie di gancio e si legano alle proteine
cam. L'integrina senza gancio aderisce poco, e quando viene fosforilata mostra il gancio. Le cam non
servono per l'infiammazione, ma permettono l'interazione cellula-cellula, e interazioni fra l'endotelio e il
leucocita. L'attivazione acuta delle vescicole di Palade sono attivate acutamente dall'infiammazione e
formano i primi livelli di interazione; i secondi livelli sono dati dalle integrine e il terzo livello dalle
interazioni vcam-vcam.
Alcune molecole di adesione cellulare comportano attivazione delle g-proteins. Una di queste proteine g è
Rho, una proteina che può essere legata sia al gdp che al gtp. Quando è legata al gtp determina contrazione
dell'actinomiosina cellulare, che è connessa alla membrana attraverso le caderine, le quali sono legate alle
integrine che stanno fuori. Quindi automaticamente quando si contrae l'actinomiosina si contrae anche la
cellula. La cellula si deve contrarre solo da una parte perché in caso contrario non ci sarebbe movimento.
PKC è una chinasi importante che viene attivata da vari mediatori, soprattutto quelli lipidici. L'altro elemento
importante per l'attivazione della pkc è il calcio. Calcio e lipidi sono due componenti importanti per attivare
queste chinasi. Se il calcio non è disponibile non si riesce ad avere la maturazione delle integrine. Sia
l’aumento della concentrazione intracellulare di calcio che l’attivazione della pkc sono molto importanti per
l’attivazione del citoscheletro e per il movimento cellulare.
Quando si dice codice integrinico che significa? Poichè le integrine hanno due catene esse possono essere
modificate e possono interagire con altre proteine. Le integrine sono considerate l'occhio della cellula in
quanto il tipo di catene alfa e beta stabilisce con chi la cellula deve interagire. alfa1beta5 ad esempio
interagisce con la fibronectina, un'integrina alfa2beta4 con i proteoglicani, un'integrina alfa3beta6 con l'egf
receptor. Questo significa che se cambia la composizione della matrice questo è rilevato anche dalle cellule
circostanti. Questo è importante perché sta alla base del fenomeno importante della transizione epitelio
mesenchima o mesenchima epitelio. Una cellula, come un leucocita, può presentare nello stesso tempo
integrine di più tipo.
Il leucocita dopo l'attivazione e l'uscita ha sulla membrana dei recettori, e alcuni di questi recettori
riconoscono ciò che è rivestito dal complemento, da globulina e albumina. Il leucocita ha un'insita capacità
di fare fagocitosi. Sulla membrana c'è la NADPH-ossidasi. La NADPH ossidasi è un enzima appartenente
alla classe delle ossidoreduttasi, che catalizza la seguente reazione: NAD(P)H + H+ + O2 ⇄ NAD(P)+ +
H2O2.
L'enzima richiede FAD, eme e calcio. Quest'enzima prende elettroni dalla glucosio fosfato deidrogenasi e
toglie l'H+ al glucosio e lo passa ai cofattori, e si rigenera grazie a un enzima ossidasi che gli prende l'H+ e
glielo toglie. Questo enzima è importante per il gradiente di glucosio. Questo processo produce radicali e li
porta contro il batterio. Tutto questo processo si chiama esplosione respiratoria. La cellula normale che usa
molto glucosio produce molto nadph. La cellula utilizza questo per il glutatione che utilizza la h2o2 come
substrato per fare il gsh. Dunque il circuito della nadph-ossidasi genera glutatione. Nel leucocita questo
processo è disaccoppiato dal glutatione, e produce radicali che uccidono il batterio, ma uccide anche se
stesso.

PATOLOGIA 19-10-12 prof. Avvedimento

Fagocitosi
Le cellule bianche escono dal circuito sanguineo e vanno sul sito dove si è liberata l’istamina, o dove c’è un
mediatore di infiammazione; qui queste cellule camminano, sono attratte da molecole quali le chemochine,
riconoscono molecole di adesione presenti sull’endotelio (come le I-CAM, e tutte le altre strutture che fanno
aderire il leucocita al vaso), che mediano l’adesione del leucocita all’endotelio (evento che precede
l’extravasazione); una volta usciti dall’endotelio, il quale a livello delle venule post-capillari (la sede
bersaglio dell’istamina e dei mediatori di infiammazione) ha creato dei “buchi”, i leucociti ricercano delle
sostanze, cioè quegli elementi che hanno causato il nascere del focolaio infiammatorio e la liberazione di
istamina.

Fagocitosi ! la capacità di alcune cellule (soprattutto i polimorfonucleati e i macrofagi) di individuare


qualcosa, inglobarlo ed eventualmente ucciderlo (come avviene ad esempio nel caso della fagocitosi di
cellule batteriche). Il meccanismo della fagocitosi fa parte dell’immunità innata, cioè dell’immunità non
specifica: non ha delle strutture molecolari specifiche per il riconoscimento dell’antigene, come le
immunoglobuline o il T-Cell Receptor.
La fagocitosi avviene in tutte le persone, di qualsiasi età, a minuti o secondi dalla presenza di qualcosa che
viene percepito come estraneo, quale può essere anche una particella di carbone, un filo di sutura chirurgica.
Anche una sostanza inerte è in grado di essere vista da queste cellule.
Una proteina molto importante nella fagocitosi e nel movimento dei leucociti è Rac, una proteina G
monometrica, che è fondamentale anche per la migrazione (coinvolta anche nel fenomeno delle cellule
tumorali che danno metastasi).

Un macrofago o un leucocita polimorfonucleato, per attuare il proprio ruolo di fagocita, presenta diversi
recettori, come quelli per le opsonine.
Con il termine opsonina si indica una macromolecola che si fissa alla superficie di un microorganismo; le
opsonine sono riconosciute da recettori di membrana di macrofagi e neutrofili e ne aumentano l’efficacia di
fagocitare il microbo. Le opsonine comprendono anticorpi Ig (riconosciuto dagli Fc receptors), e frammenti
di proteine del complemento, riconosciuti da vari recettori per il complemento.
In generale, qualsiasi cosa che si ha nel sangue, e che è in grado di ricoprire delle superfici estranee, è
un’opsonina. Le opsonine sono molto abbondanti nel siero; comprendono il complemento, le
immunoglobuline, l’ albumina o altro; possono ricoprire superfici estranee, indipendentemente se si tratta di
una superficie batterica o di una particella di carbone; le opsonine sono riconosciute dai recettori che si
trovano sulla superficie dei globuli bianchi (recettore del complemento, scavenger receptor o FcR). Un ruolo
chiave come opsonine è svolto dalle IgG.
Le immunoglobuline hanno una componente Fc che lega il complemento ed i recettori per la porzione Fc, e
una componente che lega l’antigene (porzione Fab). Tutte le immunoglobuline di una particolare classe
hanno uguale porzione Fc, mentre la parte che lega l’antigene è estremamente diversificata.
Un recettore che riconosce l’Fc è di fatto un recettore che può vedere tutto quello che è ricoperto da
immunoglobuline. La superficie dei globuli bianchi presenta l’Fc receptor. Qualsiasi cosa lega
un’immunoglobulina può essere vista da questo recettore.
La membrana plasmatica è costituita da due strati di fosfolipidi: si viene pertanto a creare un centro
idrofobico e uno strato idrofilo superficialmente (sia all’interno che all’esterno della cellula). All’interno del
doppio strato fosfolipidico dei fagociti, sono inseriti i recettori per le opsonine. Quando il recettore lega il
proprio ligando tramite la porzione intracellulare, la porzione intracellulare trasduce il segnale, tramite il
reclutamento di adattatori molecolari, i quali a loro volta possono reclutare enzimi come chinasi, fosfolipasi,
etc.

Ossidasi fagocitica (NOx o PhOx)! è l’enzima più importante che il fagocita possiede per uccidere i batteri.
La NADPH ossidasi è un enzima importante che si trova in tutte le cellule; nel fagocita esso però è utilizzato
per delle funzioni particolari. I neuroni, il linfocita, le cellule della pelle, le cellule del fegato, ogni cellula ha
questo enzima, che quindi svolge un ruolo generale in tutte le cellule e uno particolare nei fagociti.
Innanzitutto la NADPH ossidasi è in grado di prendere un H- dall’NADPH, togliendolo quindi dal NADPH,
e generare così un radicale (e NADP+).
Il NADP+ è un coenzima per diversi enzimi (ad esempio l’alcol deidrogenasi, glucosio fosfato deidrogenasi,
etc.). Questi enzimi, per ogni reazione di ossidazione che effettuano, prendono un H- dal substrato e lo
trasferiscono al NADP+. Quindi l’H- viene riciclato dalla NADPH ossidasi (il NADP+ dell’ossidasi accetta l’
H- e diventa NADPH).
A sua volta l’H- (H+ + e- ) che è stato preso dall’NADPH può essere usato per formare un radicale, cioè un
atomo o una molecola con un elettrone spaiato. L’elettrone viene passato sull’ossigeno, elemento molto
abbondante nella cellula, e l’ossigeno si spaia e forma O2- . Questo ossigeno spaiato rappresenta il radicale
anione superossido. Questo radicale può danneggiare la cellula, per cui ci sono degli enzimi che lo prendono
e lo fissano (come la SOD, che forma H2O2 , cioè acqua ossigenata). L’acqua ossigenata è molto instabile, ed
è il primo elemento il globulo bianco utilizza contro il batteri, anche se questa generalmente non li uccide. In
questa prima fase del processo si genera il radicale superossido, che viene poi fissato ad H2O2.
La produzione di acqua ossigenata non è solo un processo dannoso, perché oltre ad essere utile nel killing dei
batteri, è importante perché anche permette alla glutatione reduttasi di generare glutatione ridotto (più
ossigeno gassoso) a partire dall’ H2O2 e dal glutatione ossidato.
Il prodotto dell’NADPH ossidasi è l’anione superossido. La reazione che invece porta due anioni superossido
più due idrogenioni a dare acqua ossigenata (2O°+ + 2H+ = H2O2), sebbene possa avvenire anche
spontaneamente, è catalizzata dalla SOD.
Pazienti che hanno mutazioni in questo enzima sviluppano poi delle malattie.

L’invaginazione della membrana attorno al batterio è il primo passo della fagocitosi. Le opsonine, legandosi
al recettore, lo attivano, e ciò modificazione della membrana, attivazione di enzimi (come le fosfolipasi),
quindi invaginazione della membrana e formazione di un fagosoma. Il microorganismo, che prima stava
nell’ambiente extracellulare, adesso si trova all’interno della cellula in un vacuolo fagocitico. La NADPH
ossidasi, che prima stava in membrana, è inclusa nel fagosoma, e comincia a produrre O2- e H2O2 contro il
batterio. Questo si chiama esplosione ossidativa o burst ossidativo ! produzione di specie reattive
dell’ossigeno da parte di macrofagi e polimorfonucleati. Però purtroppo di per sé questa reazione non è
sufficiente, perché ad esempio i batteri possono avere strumenti per contrastare H2O2.
La mieloperossidasi utilizza il perossido di idrogeno (ricavato dall’anione superossido prodotto dalla
NADPH ossidasi) e converte composti alogeni, generalmente non reattivi, in acidi ipoalogenati (come HOCl)
tossici per i batteri e più efficaci dei ROS.

La NADPH ossidasi è un enzima che sta nella membrana, ed è composto da diverse subunità. C’è una
subunità che si trova in membrana, che presenta un’unità che contiene il ferro (un citocromo), ed è quella che
fissa l’H+ (costituisce quindi la subunità catalitica dell’enzima). Poi ci sono sei subunità che si trovano
invece nel citoplasma.
Oltre alla produzione di ROS, questo enzima svolge anche la funzione di produrre all’interno delle vescicole
fagocitiche le condizioni adatte affinché gli enzimi proteolitici possano svolgere la propria attività.
Funzionando come una pompa elettronica, l’ossidasi genera un gradiente elettrochimico e un movimento di
ioni all’interno del vacuolo, acidificandone il contenuto e diminuendo l’osmolarità intravacuolare, condizioni
necessarie per l’attivazione dell’elastasi e della catepsina G.
Come viene attivato questo enzima normalmente? La subunità che sta in membrana è quella contenente il
citocromo, e nel citosol ci sono delle subunità che sono solubili. Quando c’è uno stimolo, dovuto
all’attivazione di un recettore (come lo scavenger receptor o Fc receptor) quello che succede è che queste
subunità solubili vengono modificate, tramite fosforilazione, e si agganciano alla subunità del citocromo,
formando un canale. A questo punto l’ossidasi è attiva. La NADPH ossidasi (NOx o PhOx) è quindi
costituita da una serie di elementi: una grossa subunità si trova nella membrana (quella che fa il lavoro di
ossidoriduzione, perché possiede il citocromo e il ferro) e le altre subunità che stanno nel citosol, che quando
sono attivate (cioè fosforilate da chinasi legate alla membrana), formano il canale e cominciano a pompare
fuori O2-. Naturalmente, se si è formato il fagosoma, cioè la vescicola endocitica, l’ O2- viene pompato
dentro il fagosoma, perché il canale si trova sulla membrana del fagosoma.
Malattia Granulomatosi Cronica ! dovuta a mutazioni di componenti dell’ossidasi fagocitica, e che
coinvolgono in particolare la subunità catalitica. Ogni volta che l’ossidasi non funziona, o non funziona a
livelli adeguati, si ha immunodeficienza. La fagocitosi è comunque presente, ma non si riesce ad uccidere i
batteri fagocitati in quanto non si formano i radicali.
La struttura della sibunità catalitica è estremamente conservata, ed è analoga a quella di tutta una famiglia di
enzimi che hanno la capacità di ridurre e ossidare le molecole.

Esiste un’altra NADPH ossidasi, diversa dalla ossidasi fagocitica, che si chiama Duox, ed è fatta da una sola
subunità compatta, che svolge tutte le funzioni dell’ossidasi.
L’ossidasi Duox è composta da una sola catena, che costituisce sia il canale di membrana e che contiene
anche un dominio perossidasico. Inoltre produce O2- ed anche H2O2 , oltre a scindere l’ H2O2. Questo enzima
è importante non tanto per un suo ruolo nella fagocitosi (come avviene invece per la NADPH ossidasi),
quanto perché si pone come barriere verso l’ambiente esterno. Infatti nell’intestino tutte le cellule hanno
all’apice questo enzima, che forma un canale e quando c’è un batterio questa ossidasi lo colpisce con H2O2 ,
ma non solo.
Essa produce anche prodotti generati da H2O2 , e questa è la seconda tappa del burst ossidativo. H2O2 infatti è
molto instabile, inoltre non è molto efficace nell’uccidere i batteri. Però l’ H2O2 può essere utilizzata per
produrre acido ipocloroso. Infatti l’H2O2 viene utilizzata per ossidare il cloro o il ferro che c’è nel leucocita,
e si forma l’ipoclorito, che è estremamente tossico per i batteri. A questo punto il leucocita uccide il batterio,
causandone la morte. La produzione di questi composti però è anche la causa per cui il leucocita
polimorfonucleato ha vita molto breve.
Questa NADPH ossidasi a due specificità (Duox) si trova nella membrana, forma un poro e ha un dominio
perossidasico che scinde H2O2 e attiva il ferro. Se il batterio supera questa barriera, negli enterociti ad
esempio esso non incontra nessun’altra difesa ossidativa. Ed è per questo motivo che se viene mutato questo
enzima nel topo, esso contrae sepsi da infezioni intestinali continue. Questo è importante, perché anche
nell’uomo ci possono essere delle mutazioni, e queste possono spiegare perché alcune infiammazioni
intestinali sono da un lato resistenti agli antibiotici ma dall’altro sono recidivanti e non hanno nessuna causa
apparente.
Questo enzima si trova anche nei linfociti, nei mitocondri e nelle cellule della tiroide. Le cellule della tiroide
infatti, sebbene normalmente non abbia contatti con agenti esterni, utilizzano questo enzima per ossidare lo
iodio. Per formare le molecole reagenti e per ossidare lo iodio il tireocita ha infatti bisogno di H2O2 , e
siccome H2O2 è pericolosa, la sua produzione deve essere focalizzata su un punto della cellula; parliamo
dunque di un’ossidazione polarizzata: avviene solo su un punto della cellula e non disturbare la restante
parte.
Nei linfociti questo enzima coadiuva nella formazione della sinapsi immunitaria.
Nei neuroni non se ne conosce ancora precisamente il ruolo, ma forse può essere usato in alcune sinapsi, e
aiutare nella fusione delle vescicole.
Lo stesso enzima serve quindi a diverse funzioni, e il suo ruolo dipende da dove è localizzato e da quello che
fa.
Nella Nox o Phox, la struttura funzionale e il ruolo chimico sono gli stessi, anche se la proteina è diversa.

Nei fagociti, la NADPH ossidasi induce indirettamente la formazione di H2O2. H2O2 non è però molto
efficace nel killing, c’è bisogno di qualcosa di più forte. Questo è fornito dai granuli azzurrofili dei leucociti,
che contengono la mieloperossidasi. La mieloperossidasi è un enzima che si trova nei lisosomi e che ha la
capacità di perossidare, utilizzando H2O2 come substrato, qualsiasi atomo che si trovi nelle vicinanze, per
esempio cloro, oppure il ferro.
Quando il fagosoma si fonde con i granuli azzurrofili, che non sono altro che dei lisosomi, si forma il
fagolisosoma. È importante sottolineare che il fagolisosoma non è una modificazione morfologica del
fagosoma, ma è dato dalla fusione del fagosoma con lisosoma: ci sono infatti dei batteri che hanno elaborato
strategie di difesa per evitare questa fusione. Un esempio è il micobatterio della tubercolosi, che ha una
membrana lipidica estremamente particolare; esso viene fagocitato, non è ucciso da H2O2 , però tramite la sua
caratteristica membrana lipidica non fa fondere il fagosoma con il lisosoma. Questa è la causa della
persistenza della malattia, perché il micobatterio non viene ucciso, è vivo anche se inglobato in un fagosoma,
e dopo molti anni può dare ancora malattia. Infatti la tubercolosi è una malattia infiammatoria cronica
estremamente difficile da debellare; ciò è dovuto appunto a questo particolare meccanismo difensivo
utilizzato dal batterio.
La reazione catalizzata dalla mieloperossidasi è una perossidazione. La mieloperossidasi prende un elettrone
da H2O2 e lo trasferisce sul ferro o sul cloro. Il cloro forma l’ipoclorito. L’ipoclorito è molto più stabile dei
ROS. Mentre H2O2 rapidamente si scinde e diventa H2O + O2, se si ossida il cloro, la forza redox
dell’ipoclorito è molto più forte ed esso è molto più stabile dell’ H2O2.
In queste condizioni naturalmente il batterio muore; ciò spiega anche perché il granulocita neutrofilo dura un
giorno e mezzo e non oltre. Il macrofago invece non ha mieloperossidasi, perché non ha i granuli azzurrofili
come li ha il polimorfonucleato, per cui di fatto fa fagocitosi e utilizza il lisosoma solo per gli enzimi litici in
esso contenuti (come le proteasi). La minore durata della vita di un polimorfonucleato rispetto a un
macrofago è proprio dovuta alla presenta della mieloperossidasi dei granuli azzurrofili.

C’è una differenza fondamentale tra l’NADPH ossidasi che si trova in tutte le cellule e l’NADPH ossidasi
che si trova nei fagociti.
La subunità citocromica che si chiama gp91 phox o nox è fondamentalmente la stessa, però quello che
succede è che in una cellula che non è un fagocita, quando si attivano alcuni recettori (come ad esempio un
recettore del PDGF attivato da anticorpi o dallo stesso PDGF), il recettore viene fosforilato. La fosforilazione
del recettore attiva una cascata di segnali, che coinvolge anche la NADPH ossidasi. Questa volta però la
NOx non produce radicali in grandi quantità per uccidere un batterio, ma produce radicali per attivare dei
segnali. Questi segnali sono segnali metabolici.
Normalmente questo ciclo del NADP+/NADPH è collegato al glutatione. H2O2 è usato dalla glutatione
perossidasi, per cui quello che è una sorta di ‘rifiuto’ nella reazione di NADPH ossidasi, diventa invece un
elemento essenziale per far procedere il ciclo GSH/GSSG, grazie agli enzimi glutatione perossidasi e
glutatione reduttasi. Se il sistema funziona, se funziona la G6PD (glucosio-6-fosfato deidrogenasi), coinvolta
nella via del pentosio fosfato (la quale rigenera in NADP+ in NADPH, quest’ultimo utilizzato per ridurre il
glutatione), dalla reazione dei radicali liberi con il glutatione ridotto eliminiamo il radicale e otteniamo
glutatione ossidato; dunque significa che la capacità riducente di una cellula aumenta (grazie ad una corposa
produzione di NADPH). Tutto ciò è ottenuto senza sconvolgere il metabolismo cellulare, e senza utilizzare
ATP, ma solo metaboliti del glucosio (si tratta di un processo anabolico). Quando la cellula deve costruire
DNA, il nucleo, le membrane, utilizza questo circuito.
Il glutatione può essere considerato un tampone redox. Deriva dal glutammato, dalla cisteina e dalla glicina.
Il gruppo γ-carbossilico del glutammato è attivato dall’ATP tramite una chinasi, e in questo modo lega la
cisteina. Anche la cisteina a sua volta deve essere attivata da una fosforilazione per poter poi condensare con
la glicina. Questo circuito che porta alla sintesi di glutatione è dunque estremamente dipendente dall’ATP,
perché l’ATP è usato dalla chinasi che fosforila il glutammato e la cisteina. L’affinità di questa chinasi
coinvolta nella generazione del glutatione è estremamente alta per l’ATP. Questo significa che se c’è una
piccola riduzione dell’ATP, per esempio dovuta ad una leggera ischemia o ipossia, questo sistema tende a
bloccarsi, e allora la NOx invece di funzionare connessa con queste altre proteine gira a vuoto, e si
disaccoppia dalla rigenerazione del glutatione in forma ridotta, formando dunque più radicali. La cellula
entra pertanto in una situazione di stress ossidativo.
La maggioranza delle malattie, sia autoimmuni sia infiammatorie, non quelle acute, può dipendere da
malfunzionamento di questo circuito, perché quando il circuito della NOx gira su se stesso senza
collegamento con quello del GSH, produce radicali. I radicali non sono più espulsi fuori, e si accumulano
dentro la cellula, causando danno cellulare.
La NADPH ossidasi può provocare danni in alcune patologie autoimmuni, tant’è che per alleviarle si è
pensato di interferire direttamente sull’attività di questo enzima.
La NADPH ossidasi viene utilizzata dal fagocita con azione litica (distruggere i batteri), mentre dalle altre
cellule viene utilizzata per altre funzioni. Però se l’ATP diminuisce, e la NADPH ossidasi si disaccoppia dal
glutatione, questo meccanismo diventa catastrofico, in quanto si producono ROS in quantità dannose per la
cellula.

Patologie da deficit dell’immunità

Sindrome di Chédiak-Higashi ! che è dovuta ad un’alterazione del gene LYST, un gene che serve alla
fagocitosi perché controlla la stabilità dei granuli azzurrofili. Una manifestazione della sindrome è
l’albinismo oculocutaneo.
Mutazioni del gene LYST causano ridotta capacità di fusione fra fagosomi e lisosomi nei neutrofili e nei
macrofagi, dunque non possiamo passare alla seconda fase della fagocitosi (che corrisponde alla formazione
del fagolisosoma), con conseguente ridotta resistenza alle infezioni.
Questa malattia oltre all’immunodeficienza, porta albinismo. Infatti i melanosomi non sono altro che
lisosomi specializzati, per cui il gene LYST mutato, oltre a non far formare bene i granuli azzurrofili, crea
problemi anche nella formazione dei melanosomi, per cui sia l’occhio sia la pelle possono essere
ipopigmentati.
Anche una deficienza di mieloperossidasi può dare immunodeficienza, come nella sindrome di Chédiak-
Higashi.
Il sintomo più frequente di queste malattie sono infezioni microbiche, perché l’immunità innata non
funziona.

Malattia Granulomatosa Cronica ! è causata da mutazione di geni di una subunità o di più subunità della
NADPH ossidasi.
Esistono diverse varianti, di cui due sono le due più importanti sono dovute a mutazioni delle subunità:
- p47 phox
- gp91 (phox-91)
Phox-91 è la subunità di membrana che contiene il citocromo,e il gene che la codifica si trova sul
cromosoma X (è dunque una forma X-linked).
Anche in questo caso ci sono infezioni che non vengono adeguatamente debellate dai fagociti.

Malattie da deficit di adesione leucocitaria:


- LAD-1 ! deficit dell’espressione dell’integrina β2, coinvolta nel processo di adesione stabile. È
dovuta a mutazioni a carico della catena β (CD18) dell’integrina.
- LAD-2 ! deficit di maturazione di ligandi per selectine. È dovuta a mancanza del trasportatore del
fucosio, necessario alla formazione del Sialil-Lewis-X, componete del ligando per le P- e E-selectine
. I soggetti affetti hanno anche altri disturbi (difetti nella formazione delle sinapsi, problemi di
sviluppo neurologico).

Sindrome di Wiskott-Aldrich ! è una patologia X-linked. È caratterizzata da eczema, trombocitopenia e


aumentata suscettibilità alle infezioni batteriche. Il gene mutato responsabile della sindrome codifica per la
proteina WASP, espressa esclusivamente da cellule di derivazione midollare. Essa interagisce con numerose
altre proteine, quali Grb-2, complessi proteici coinvolti nella polimerizzazione dell’actina, piccole proteine
G (come Rho).

PATOLOGIA 29-10-12 prof. Avvedimento parte 1

Mediatori dell'infiammazione
I mediatori dell’infiammazione e le cellule ad essi legati sono causa di molte malattie legate
all’infiammazione, che possono essere causate da un eccesso di mediatori o da eccessiva risposta cellulare.
I mediatori dell’infiammazione sono tutte quelle sostanze di diversa natura che in qualche modo attivano
l’infiammazione, ossia attivano cellule coinvolte nell’infiammazione e tutti i processi ad essa correlati
(diapedesi, chemiotassi, fagocitosi, vasodilatazione, ecc.). Se questi processi rimangono attivi per un tempo
troppo lungo essi determiniamo un eccesso di infiammazione.
Il numero dei mediatori va da 100 a 1000, e se ne scoprono sempre di nuovi di anno in anno, ed anche le
classificazioni quindi possono cambiare.

Classificazione ! possiamo classificare i mediatori in base a:


# Localizzazione
• rilasciati da cellule (come istamina, leucotrieni, prostaglandine).
• fattori che sono già presenti nel sangue e che si assemblano dopo che è stata attivata
l’infiammazione
# Modalità di produzione:
• preformati (es. istamina, serotonina)
• neosintetizzati
• presenti nel plasma e che si assemblano quando necessario
# Natura chimica (classificazione più appropriata):
• proteine - peptidi
• lipidi
• peptidoglicani - lipopolisaccaridi

Il NO non è specifico dell’infiammazione, anche se ha effetti vasodilatanti.

Questa classificazione riflette il fatto che i mediatori dell’infiammazione sono così molteplici, diversi e
variabili: ad esempio ogni volta che una cellula scoppia per necrosi, tutti i componenti della cellula sono
potenzialmente mediatori dell’infiammazione: tutte le proteine, tutti i lipidi, tutti gli enzimi lisosomiali sono
mediatori dell’infiammazione.
Questo è il caso dei ROS; i ROS sono mediatori dell’infiammazione? Si, sono importanti per
l’infiammazione ma sono prodotti normali.

Istamina
L’istamina è un amina vasoattiva fa parte dei mediatori che sono derivati dagli amminoacidi come la
serotonina. È preformata, cioè si trova in granuli che poi vengono esocitati quando occorre; può essere
prodotta dall’istidina mediante decarbossilazione.
Essa si trova sempre presente preformata nei mastociti. I mastociti si trovano attorno ai vasi (in forma anche
di periciti) oppure mobilizzati. Il rilascio di istamina attiva i propri recettori, che sono di ben 5 tipi: H1, H2,
H3, H4, H5.
È semplice accorgersi se c’è una rilascio di istamina, in quanto si avrà prurito, rossore, edema. Ci sono delle
malattie in cui il rilascio di istamina avviene indipendentemente dallo stimolo infiammatorio, per esempio
nelle Mastocitosi, perché in questo caso i mastociti sono ipersensibili, e ciò può generare rush cutanei,
rossore, edema.
Dal punto di vista farmacologico, vi sono parecchi farmaci che, come effetto desiderato o collaterale,
inducono degranulazione dei mastociti; ciò significa che in alcune situazioni bisogna usare degli
antistaminici che inibiscono l’attivazione dei recettori dell’istamina per bilanciare gli effetti collaterali di
questi farmaci.

L’istamina secreta dal mastocita agisce sulle cellule enterocromaffini, dove regola la secrezione di H+ e la
quantità di acido secreto.
L’istamina può essere anche rilasciata in seguito a stimolazione nervosa. L’istamina è infatti un composto
fisiologico che può per esempio essere utilizzato come mediatore nelle sinapsi, può partecipare nella
comunicazione dei neuroni, oppure nella produzione degli H+, per cui non può essere definito unicamente
come un mediatore dell’infiammazione.
La serotonina (5-HT) e l’istamina agiscono entrambi sulla cellula muscolare liscia del vaso, e sono entrambi
vasodilatatori in quanto se il vaso è piccolo determinano l’apertura dei pori e la fuoriuscita dei liquidi, per cui
si verifica l’edema. Se invece il vaso è grande, ciò non succede, anzi si può verificare un effetto di
vasocostrizione, e quando si costringe un vaso di grosso calibro si ha un aumento di pressione.
La serotonina però se attivata aumenta la pressione (in quanto solitamente ha un'azione contratturante sui
grandi vasi, sia arterie sia vene); l’istamina al contrario quando è attivata vasodilata e provoca l’edema,
anche se hanno lo stesso meccanismo d’azione. Ciò è dovuto al fatto che i recettori dell’istamina si trovano
nelle arteriole pre- e postcapillari, mentre quelli della serotonina si trovano sui grandi vasi.
Il rilascio di istamina determina vasodilatazione e aumento della permeabilità dei vasi.

Avendo l’istamina molteplici recettori presenti su numerosi tipi cellulari, essa può determinare diversi effetti:
• bronco costrizione
• peristalsi
• vasodilatazione
• rilascio di HCl

Uno dei quadri più seri di infiammazione sistemica dovuta alla liberazione di istamina è lo shock
anafilattico, perché l’istamina viene liberata in diversi settori dopo il contatto con l’antigene. Lo shock
anafilattico è una forma estrema di infiammazione sistemica perché l’istamina agisce contemporaneamente
in tutto il corpo determinando broncocostrizione, stimolazione della peristalsi, edema. L’edema provoca
perdita di liquidi e caduta della pressione, e quindi shock. Questo perché l’istamina agisce
contemporaneamente su tutti i suoi recettori.
A livello del SNC l’istamina interferisce con l’acetilcolina e con la noradrenalina. Inoltre somministrando un
antistaminico si induce sonno e sedazione.

Citochine
Le citochine sono molecole proteiche prodotte da vari tipi di cellule e secrete nel mezzo circostante di solito
in risposta ad uno stimolo, ed in grado di modificare il comportamento di altre cellule inducendo nuove
attività come crescita, differenziazione e morte. La loro azione di solito è locale, ma talvolta può manifestarsi
su tutto l'organismo. Le citochine possono quindi avere un effetto autocrino (modificando il comportamento
della stessa cellula che l'ha secreta), o paracrino (modificano il comportamento di cellule adiacenti). Alcune
citochine possono invece agire in modo endocrino, modificando cioè il comportamento di cellule molto
distanti da loro. Hanno una vita media di pochi minuti. Le citochine prodotte da cellule del sistema
immunitario sono dette linfochine o interleuchine

Le citochine sono i veri e propri mediatori dell’infiammazione; sono secreti da linfociti, monociti e altri tipi
cellulari. Le citochine sono sostanze proteiche o peptidiche di varia natura (ormoni proteici, interleuchine,
interferoni, ecc.). le citochine quindi sono proteine o piccole parti di esse, e ad esempio non esistono
citochine di natura lipidica.
I loro effetti sono pleiotropici: una stessa sostanza può agire su diversi tipi di cellule per dare differenti
risposte.

Dal punto di vista molecolare i recettori delle citochine utilizzano due importanti vie di trasduzione:
1. via di NF-kB ! è una via importante per la regolazione sia dell'immunità innata sia dei geni
antiapoptosi (stimolo della cellula a resistere)
2. via di JAK/STAT ! attraverso questa via viene mandato un messaggio al nucleo, e si ha l’attivazione
dei fattori di trascrizione per altre citochine.

Classificazione ! Ci sono diverse famiglie di citochine. Le più frequenti sono le interleuchine (IL), di cui ce
ne sono circa 32. Le interleuchine sono proteine secrete da cellule del sistema immunitario (linfociti, cellule
NK, fagociti, cellule dendritiche) e, in alcuni casi, anche da cellule endoteliali e cellule epiteliali, durante la
risposta immunitaria. Tutte le citochine hanno dei moduli in comune, e molte sono generate da uno stesso
gene attraverso splicing alternativo: hanno quasi tutte un’α-elica, cioè gli aminoacidi girano attorno e
formano una struttura flessibile nello spazio.

Distinguiamo varie famiglie di interleuchine:


# famiglia dell’ IL-2
# famiglia degli interferoni (IFN)
# famiglia dell’ IL-10

Quasi tutte le interleuchine attivano l’infiammazione, e attivano anche i fagociti e tutti i processi ad essi
connessi, come l’espressione e la sintesi di altre interleuchine, con un processo parossistico, amplificato.
Invece l’IL-10 è un’IL negativa, cioè inibisce la sintesi di altre citochine come IL-1, IL-2, IL-6 e spegne lo
stimolo infiammatorio. Quando inizia l’infiammazione c’è l’amplificazione di queste IL positive (1, 6, 12,
24), poi viene attivata l’IL-10 che blocca l'espressione delle citochine positive, inibendo l'attivazione della
via JAK/STAT. Se non c'è interleuchina 10 l'infiammazione continua e porta a morte perché non c'è più un
freno all'infiammazione. Anche alcuni interferoni (alfa , beta e gamma) hanno attività negativa.

Citochine pro-infiammatorie ! IL-1 , IL-6 e poi TNF-α sono le più conosciute ma anche le più importanti
perché se si inibiscono queste proteine l'infiammazione non va avanti; se invece c'è uno shock l'unico modo
per bloccare l'infiammazione è inibire queste citochine.
Citochine anti-infiammatorie ! IL-10 , IFN α e IFNβ, TGFβ
Il recettore del TNFα può avere effetto antiinfiammatorio (ma non si può considerare una citochina
antiinfiammatoria) nel caso in cui la parte extracellulare venga tagliata e rilasciata nel siero, e questa
porzione del recettore diventa un inibitore dell’infiammazione, perché lega TNFα nel siero e ne impedisce
l'azione.
C’è una classe di citochine dette chemochine, classificate in CC o CXC (C indica le cisteine, e ci viene
indicato se sono adiacenti nella molecola o meno). Le chemochine sono un grande gruppo di proteine a basso
peso molecolare della famiglia delle citochine caratterizzate da una buona omologia di struttura. La loro
funzione principale consiste nell'attivazione e nel reclutamento (chemiotassi) dei leucociti nei siti di flogosi,
anche se alcune di esse svolgono e vengono prodotte in assenza di infiammazione o infezione per regolare il
traffico dei leucociti nell'organismo.
Recettori !
Come le citochine hanno dei moduli comuni, così anche i recettori sono formati da domini di vari tipi:
• dominio Contactina (C) : somiglia a quello delle lectine, che entrano in gioco nell’adesione dei
leucociti.
• dominio Fibronectina (CR)
• altro dominio Fibronectina (F3)
• dominio immunoglobulinico (IG)
• dominio somigliante a fattori di crescita (TR)

Dal punto di vista evoluzionistico sono venuti fuori dei recettori molto particolari che hanno un insieme di
domini. Inoltre il numero di recettori durante l’evoluzione è aumentato e così anche la capacità di attivare
l'infiammazione da diversi segnali. Questi recettori sono bersaglio di farmaci in grado di inibire
l'infiammazione sistemica. Questi inibitori esistono possono essere usati in diversi quadri clinici (mieloma,
artrite reumatoide). In alcune malattie autoinfiammatorie croniche si usano dei farmaci che derivano dal
recettore o ligando inattivato, in modo che andando in circolo si inibisce una specifica sostanza non
permettendole più di svolgere il suo ruolo. Un esempio è il recettore del TNF, col quale si effettua un taglio e
si utilizza la porzione extracellulare come inibitore del TNF, oppure si può creare un anticorpo contro la
citochina o contro il recettore inibendone la loro attività. Questi farmaci si trovano in ospedale e possono
salvare la vita in caso di gravi infiammazioni o shock settico.

Le citochine funzionano tramite innesco di circuiti enzimatici di trasduzione. Ci sono due grandi vie
attraverso le quali funzionano le citochine:
• via NFkB
• via JAK/STAT
La via JAK/STAT è coinvolta nella risposta a molte citochine. La dimerizzazione di questi recettori avviene
in seguito al legame con la citochina, e di conseguenza il recettore attrae una tirosinchinasi citosolica (Jak)
che si associa e fosforila il dimero recettoriale. Jak appartiene a una famiglia di proteine, i cui diversi membri
possiedono specificità per diversi recettori di citochine. Tra i bersagli della fosforilazione di Jak c'è una
famiglia di fattori di trascrizione (Stat). Queste sono proteine SH2 che si legano a fosfotirosine sul complesso
recettore-Jak, e vengono esse stesse fosforilate. Una volta attivato, Stat migra al nucleo e attiva l'espressione
genica.
Quando c'è la citochina dunque essa lega il recettore, il quale si aggrega (dimerizza). Questo recettore
funziona un po’ come un classico recettore tirosino-chinasi, ma non presenta esso stesso attivita chinasica,
bensì recluta la chinasi citosolica JAK, che fosforila il recettore dimerizzato. La fosforilazione crea un punto
di aggancio per un gruppo di proteine che si chiamano STAT, le quali vengono legate, modificate e vanno
nel nucleo dove inducono la trascrizione di alcuni geni specifici. Questo è uno dei modi con cui funzionano
molte citochine.

Le citochine hanno un ruolo rilevante anche in oncologia.


Nella maggioranza dei casi vengono secrete specificamente, però sono presenti a livello sistemico (cioè
vanno nel sangue) e tutte le cellule hanno recettori per le citochine; infatti i loro effetti sono pleiotropici, e
non sono limitati a un singolo tessuto o tipo di cellula.
Le citochine possono attivare una classe di geni che sono i geni antiapoptotici; la logica evolutiva di ciò è
quella di preservare alcune cellule dalla morte cellulare durante l’infiammazione.
Oggi c'è un'evidenza provata tra infiammazioni croniche e tumori (ad esempio al colon, vescica, fegato,
polmone).
Fattore di Hageman (fattore XII)
Il fattore XII si trova al centro di tre vie: coagulazione, fibrinolisi (opposto della coagulazione) e
infiammazione.
Uno dei modi per attivare questo fattore è quando si rompe un vaso, e si espone il sangue e tutti i fattori in
esso presenti al collagene, alla fibronectina e tutto quello che c'è al di fuori dei vasi.
I fattori della coagulazione sono chiamati anche chininogeni, cioè che generano le chinine (le quali
controllano la coagulazione).
L'attivazione di questo fattore avviene su una superficie solida (viene fissato il fattore dal sangue) e da lì
viene poi attivata la cascata della coagulazione, che coinvolge anche la partecipazione delle piastrine che
chiudono la falla nel vaso. L'attivazione del fattore nel sangue, se avviene in modo eccessivo e a livello
sistemico, genera la cosiddetta coagulazione intravasale disseminata, che porta a morte in breve tempo.
Quando il fattore XII viene attivato porta alla coagulazione, e durante le infiammazioni si ha una
iperattivazione di questo fattore.
La coagulazione è attivata da una cascata di proteasi. L’esposizione di alcuni fattori della cascata coagulativa
a componenti della mebrana basale o della matrice extracellulare, come il collagene, attivano la cascata della
coagulazione. Quando c'è contatto sangue-collagene vuol dire infatti che c'è una ferita, o comunque una
lesione vasale.

Nella via intrinseca della coagulazione, il fatto che il fattore di Hageman (fattore XII) interagisce con
superfici cariche negativamente (collagene, membrana basale, eparina, pelle, ecc.), così come fa anche il
chininogeno ad alto peso molecolare (HMWK), che si posiziona vicino al fattore XII. Sulla superficie non
adesiva di HMWK sono legati il fattore XI e la precallicreina, che così vengono presentati al fattore XII.
Tutte queste quattro componenti formano lo SPAC (sistema plasmatico attivabile dal contatto ! fattore XII,
HMWK, precallicreina, fattore XI). Fino a questo momento tutte e quattro le componenti dello SPAC sono in
forma inattiva. Si ritiene che quando lo zimogeno FXII si lega al sottoendotelio avvenga la sua attivazione a
FXIIa a livello della zona di danno endoteliale con meccanismo ancora ignoto. Indipendentemente
dall’evento scatenante iniziale, il fattore XII è attivato dalla callicreina che si forma nella zona della lesione a
partire dalla precallicreina. La precallicreina viene attivata dal FXIIa a callicreina attiva, la quale a propria
volta è in grado di attivare altre molecole di FXII e così via, amplificando l’attivazione del sistema.
Il fattore XI funge da substrato del FXIIa, diventando FXIa. Il FXIa attiva il fattore IX, che prosegue così la
cascata coagulativa.

Si può attivare la cascata coagulativa anche con altre chinine, ad esempio:


• callicreina
• bradichinina
La callicreina è un enzima proteolitico di origine plasmatica e tessutale. Scinde il chininogeno in callidina, la
quale diventerà bradichinina. È presente in molte secrezioni ghiandolari: saliva, succo pancreatico, sudore,
lacrime. Può essere attivata dal fattore di Hageman, il quale determina l'attivazione dell'attivatore della
precallicreina (PK), questo a sua volta attiva la precallicreina per formare callicreina.
La bradichinina è un ormone peptidico prodotto localmente nei tessuti dell’organismo, molto spesso come
reazione in seguito a un trauma fisico. La bradichinina aumenta la permeabilità dei vasi, inoltre rilassa le
cellule muscolari dei vasi dando vasodilatazione in quel distretto. L’ormone svolge un ruolo importante nella
trasmissione del dolore. Un’eccessiva concentrazione di bradichinina è responsabile dei tipici sintomi
dell’infiammazione, quali gonfiore, arrossamento, calore e dolore. Questi sintomi vengono mediati attraverso
l’attivazione dei recettori B2 della bradichinina.
Il fattore di Hageman fissato attiva non solo il fattore XI (il quale a sua volta attiva il fattore IX, e così via
attivando tutti i fattori della coagulazione), ma anche la precallicreina, la quale è un enzima proteolitico sotto
forma zimogenica e, come tutti gli zimogeni, ha una porzione che se viene tagliata dà la proteasi attiva. Il
fattore induce il clivaggio della precallicreina, da cui otteniamo la callicreina. La callicreina attiva a sua volta
altre sostanze, come la bradichinina, che ha funzioni simili all'istamina (ma è una proteina), però è 10 volte
più potente dell'istamina, e dà prurito, molto dolore e assuefazione.

Il sistema della coagulazione però ad un certo punto deve fermarsi, e il coagulo deve essere eliminato.
Durante la coagulazione vengono attivate delle proteasi , è alcune di queste molto probabilmente attivano il
plasminogeno (che è una preproteasi) possa e allora si forma la plasmina. La plasmina a differenza del
fibrinogeno rompe la fibrina.
La coagulazione è sottoposta a un continuo controllo, perché quando c'è eccessiva attivazione di chinine il
sistema plasminogeno-plasmina contrasta la coagulazione.
Il processo di regolazione è semplice, paragonabile ad un gioco freno acceleratore: in un primo momento ci
si deve difendere dall'emorragia ! grazie al contatto del sangue con collagene o fibronectina, il fattore di
Hageman fissato su superficie solida attiva la cascata della coagulazione. Viene anche attivato il sistema
chinina-callicreina, o più semplicemente 'sistema delle chinine', che è un sistema poco caratterizzato di
proteine del sangue, che svolge un ruolo nell’infiammazione, nel controllo della pressione arteriosa, nella
coagulazione e nel dolore. I suoi importanti mediatori bradichinina e callidina sono dei vasodilatatori e
agiscono su molti tipi cellulari.
Quindi successivamente si attivano i fattori che determinano la retrazione del coagulo.
Questo meccanismo permette il bilancio tra coagulazione e trombolisi.
Molte delle malattie che conducono a morte sono causate da anomalie di questo sistema: per inibizione dei
fattori di coagulazione e il sangue non coagula più (sindromi emorragiche); può anche succedere che i fattori
procoagulanti siano troppo attivi (sindromi trombotiche).

PATOLOGIA 29-10-12 prof. Avvedimento parte 2

I processi stocastici sono tutti i processi non deterministici; la nostra vita dipende molto da questi processi.
Quando ci si trova di fronte a un crocevia, possono essere attivate varie vie, a seconda delle condizioni in cui
l’organismo si trova in un determinato momento, anche se paradossalmente il fattore che indirizza ad una via
o ad un'altra può essere lo stesso; infatti quello che cambia solo le condizioni di contorno.
Proprio perché si tratta di un processo stocastico, in alcune circostanze la presenza di una variabile (ad
esempio un’ infiammazione, una piccola ferita, la febbre, l’attivazione di alcuni mediatori) può dare un
output diverso da persona a persona, determinando o meno l’attivazione di un certo processo,.

Gli individui che si trovano allettati per molto tempo (soprattutto se anziani), possono presentare stasi del
flusso venoso e vengono trattati con eparina. L’eparina è una sostanza che inibisce la coagulazione, agendo
sull’ultima tappa della stessa. Questi soggetti sono trattati con questo anticoagulante perché quando il sangue
comincia a circolare poco, qualche volta si possono attivare delle proteasi (con un processo stocastico
casuale), e quando ciò accade, si può avere sia attivazione della coagulazione che della fibrinolisi, ma nella
maggioranza dei casi dà luogo a coagulazione, in quanto il sangue circola più lentamente e i globuli rossi
sono fermi e cominciano a legarsi tra loro. Ciò può causare, tramite un meccanismo di attivazione
parossistica, un’attivazione diffusa della coagulazione.
La coagulazione intravascolare disseminata (CID), o coagulazione vascolare disseminata, è una gravissima
patologia caratterizzata dalla presenza disseminata di numerosi trombi. I trombi rappresentano il prodotto
finale della coagulazione del sangue al quale contribuiscono i cosiddetti fattori della coagulazione. Nel caso
della CID, l’eccessiva formazione di trombi finisce col consumare questi fattori determinando una
Coagulopatia da consumo caratterizzata da una scarsa tendenza del sangue a coagulare, e quindi da
fenomeni emorragici. Peraltro la fibrinolisi (iperattiva per sciogliere i numerosi trombi) essa stessa può
andare incontro ad esaurimento funzionale, con aggravio della malattia che finisce con l'essere caratterizzata
da episodi emorragici coesistenti con fenomeni trombotici.
Per cui la coagulazione diffusa e la deplezione dei fattori della coagulazione sono due cose opposte, ma
possono derivare dallo stesso fenomeno, in quanto ciò che le genera è la stessa cosa.

All’interno della cascata proteolitica della coagulazione ci sono tutta una serie di componenti e recettori che
non si conoscevano prima.
La trombina, un enzima proteolitico, si genera dalla protrombina, la quale a sua volta è un enzima
proteolitico. La trombina è un enzima, appartenente alla classe delle idrolasi, che catalizza il taglio selettivo
dei legami Arg-Gly del fibrinogeno per formare la fibrina e rilasciare i fibrinopeptidi A e B. Questo enzima
favorisce la coagulazione del sangue. Appartiene alla categoria delle serino proteasi, cioè è in grado di
apportare un taglio alle catene proteiche. La trombina è necessaria per l'attivazione del fibrinogeno nel
processo di coagulazione del sangue. Inoltre interviene nel processo infiammatorio, perché interagisce con
dei recettori espressi dai monociti, trasducendo un segnale che stimola queste cellule a produrre chemochine
e molecole di adesione.
Ci sono dei recettori responsivi alla trombina, e quando essa si attiva può avere un ruolo anche al di fuori di
quello che svolge nel sangue, agendo ad esempio nell’interstizio, tra vaso infiammato e connettivo degli
epiteli (quindi intestino, polmone, eccetera). Questi recettori sono di recente scoperta.
Essi sono chiamati Recettori Attivati dalla Proteolisi (PAR) e sono molto importanti. Essi normalmente
possiedono un cappelletto che chiude il recettore. Grazie all’azione di proteasi (trombina o altri fattori della
coagulazione), il cappelletto può essere tagliato e il recettore è attivato, anche senza ligando. Il recettore può
essere assimilato ad una molla compressa: tagliato il cappelletto, la molla vibra e attiva l’aggregazione delle
piastrine, angiogenesi e infiammazione.
Infatti la trombina, oltre ad essere un enzima della coagulazione, può attivare direttamente il PAR. Ciò è
importante perché, indipendentemente dalla coagulazione, una proteasi coma la trombina può avere effetti su
angiogenesi, sulla vascolarizzazione e su altro ancora. I recettori PAR inoltre sono sensibili alla presenza di
AMP, ADP e ATP che si liberano a seguito della rottura di una cellula per necrosi.
Sono stati identificati quattro recettori attivati da proteasi (PAR) in molti tessuti. Tali recettori appartengono
alla superfamiglia dei recettori accoppiati a proteine G. Diverse proteasi, come la trombina sono in grado di
attivare tali recettori. Nel caso della trombina, l'attivazione avviene a seguito di un taglio proteolitico
(operato dalla trombina) di un dominio extracellulare N-terminale del recettore stesso. Dal legame della
trombina con suddetti recettori deriverebbero sia gli effetti della trombina sulla muscolatura liscia sia quelli
sulle piastrine.
Si ritiene, inoltre, che l'attivazione di tali recettori contribuisca oltre che all'emostasi e alla trombosi, anche
all'infiammazione e ad altri tipi di risposta al danno tissutale. Possibile anche un loro ruolo nell'angiogenesi.
L'inattivazione del recettore della trombina si verifica a seguito di un evento di fosforilazione, mentre il
recupero richiede nuovamente la sintesi del recettore.
Sembrerebbe che i recettori appartenenti alla famiglia PAR-2 abbiano un ruolo nel dolore correlato al
processo infiammatorio; essi trovano una localizzazione nei neuroni sensoriali e sono attivati da proteasi dei
mastociti.

Esistono piccoli peptidi detti neuropeptidi, che elicitano la sensazione del dolore in infiammazione. La più
importante è la sostanza P, che svolge un ruolo anche nell’attivare la degranulazione dei mastociti in
prossimità delle sinapsi, che rilasciano istamina, la quale a sua volta può funzionare da modulatore.

Ci sono altre molecole coinvolte non solo nell’infiammazione, ma anche nella trasmissione
dell’informazione. Una di queste è NO, ossido nitrico, che ha un potente effetto di vasodilatazione nei piccoli
vasi. È prodotta da un enzima chiamato NO sintasi (NOS). Esistono varie forme di NOS, sensibili a vari
stimoli; ad esempio una forma è attivato sia dal Ca++ che dal TNF. L’NO però, più che un mediatore
dell’infiammazione, può essere definito come un mediatore della vasodilatazione.
Alcuni pazienti affetti da problemi cardiocircolatori assumono nitroglicerina, ad esempio persone soffrono
di ipossia miocardica. La nitroglicerina non fa altro che aumentare la sintesi di NO, il quale aumenta la
vasodilatazione dei piccoli vasi, come le coronarie, consentendo un miglior apporto ematico al tessuto
cardiaco. La nitroglicerina è assunta con modalità sublinguale; essa va rapidamente in circolo, rilasciando
NO. Un ulteriore effetto è l’arrossamento cutaneo, in quanto anche i piccoli vasi della pelle sono sensibili ad
esso.

Mediatori lipidici
Il numero dei mediatori lipidici è molto elevato, anche più di quello dei mediatori proteici.
I fosfolipidi di membrana, i componenti più abbondanti della cellula, sono molto importanti, perché sono i
precursori dei mediatori lipidici dell’infiammazione. Differenti porzioni dei fosfolipidi possono generare
diversi mediatori dell’infiammazione.
Durante un grave danno cellulare, uno dei primi eventi che si verifica è la rottura delle membrane; la
membrana è fatta di lipidi, e questi lipidi sono degradati (in questo caso da lipasi) e ogni prodotto delle
reazioni delle lipasi è un potentissimo mediatore dell’infiammazione. Questo è un altro esempio di come
l’organismo si accorge del danno, della morte cellulare, in quanto il rilascio di proteine, lipidi, enzimi
lisosomiali, e prodotti di degradazione di proteasi e lipasi sono riconosciuti come dannosi.
I fosfolipidi hanno acidi grassi a lunga catena; essi sono formati da una lunga catena alifatica in cui abbiamo
solo C eh H, e che risulta fortemente idrofobica (soprattutto per l’assenza di O), e poi possiedono una
porzione polare, idrofila, che si connette al glicerolo (anch’esso una molecola idrosolubile, possedendo
gruppi -OH).
I fosfolipidi hanno dunque una testa polare, idrosolubile, che si pone all’esterno della membrana, e una
porzione idrofobica centrale (le catene alifatiche degli acidi grassi). La particolare struttura dei fosfolipidi
consente perciò di avere una relazione con l’acqua, perché possiedono la testa polare, e nello stesso tempo di
non essere permeabile a qualsiasi cosa. Per cui la cellula è isolata da un mondo acquoso per via dei
fosfolipidi; il glicerolo si pone in contatto con l’acqua (versante esterno e interno) e invece l’acido grasso
isola i due compartimenti.

Il glicerolo ha 3 atomi di carbonio, e ad ogni atomo di C è legato un acido grasso a lunga catena, di circa 20-
30 C, che formano legami idrofobici. Dunque c’è C1, C2 e C3.
La fosfolipasi A scinde il legame tra C2 e l’acido grasso ad esso legato, rilasciando acido arachidonico e
lisofosfolipidi, permettendo l'inizio della cascata dell'acido arachidonico. Questo enzima genera una grossa
fetta di mediatori lipidici importanti, tra cui le prostaglandine, e in generale gli eicosanoidi (leucotrieni e
prostanoidi).
La parte idrofilica dei fosfolipidi, oltre che dal glicerolo, può essere costituita anche da altri componenti con
gruppi alcolici (come l’inositolo nel fosfatidilinositolo, la serina nella fosfatidilserina e la colina nel caso
della fosfatidilcolina).
La fosfolipasi che taglia il legame tra C3 e il fosfato è la PLC, quella tra fosfato è alcool è la fosfolipasi D.
La PLA libera l’acido grasso. PLD libera o la colina o l’inositolo. PLC libera il fosfoinositolo o la
fosfocolina. Ognuna di questi fattori costituisce un forte attivatore dell’infiammazione.

PAF (Fattore Attivante le Piastrine) ! Il fattore attivante le piastrine (PAF, Platelet-Activating Factor) è un
mediatore chimico dell'infiammazione. Deriva dal plasmalogeno (un fosfolipide etere la cui testa polare è
rappresentata dalla colina) e che lega in posizione C1 del glicerolo una lunga catena idrocarburica mediante
legame etere. Il plasmalogeno viene utilizzato come substrato dalla fosfolipasi A2, che idrolizza il legame
estere tra il C2 del glicerolo e l'acido grasso. Si forma un composto intermedio che è il precursore del PAF, il
Liso-PAF, che lega in posizione 2 del glicerolo un ossidrile (-OH). Il Liso-PAF viene utilizzato come
substrato da un'acetiltransferasi che trasferisce un gruppo acetilico in posizione 2 formando il PAF. Il PAF
viene rilasciato dai basofili, dei globuli bianchi presenti nel sangue.
È un potente stimolatore dell'aggregazione piastrinica, stimola la secrezione di vasocostrittori (serotonina),
inoltre esercita una serie di effetti sul sistema cardiovascolare e sulla muscolatura liscia (contrazione della
muscolatura liscia gastrointestinale, uterina e polmonare). Il PAF ha effetto infiammatorio e vasoattivo su
diversi organi, provocando un collasso della pressione arteriosa che può risultare letale per l'individuo.
Il PAF quindi è dato da questo fosfolipide in cui manca un acido grasso in posizione 2, sostituito con il
gruppo acetilico. Il PAF attiva le piastrine e la coagulazione, e determina vasocostrizione, broncocostrizione,
chemiotassi, esplosione ossidativa.
I recettori del PAF sono recettori associati a proteine G (come i PAR), possiedono 7 domini transmembrana,
e attivano tutta una serie di meccanismi di trasduzione del segnale intracellulari. Questi recettori si trovano
sui leucociti, sull’endotelio, sulle cellule del muscolo liscio e su altre popolazioni cellulari.

Eicosanoidi
Il PAF è attivato da PLA; ogni volta che questo enzima agisce, soprattutto a livello dell’endotelio, si libera
questa sostanza. L’acido grassi liberato dalla PLA durante la sua azione è l’acido arachidonico. L’acido
arachidonico è un acido grasso con 20 C, estremamente importante. Dopo essere stato liberato dalla PLA,
esso subisce una serie di modificazioni. Le ciclossigenasi lo utilizzano per formare le prostaglandine; esse
sono i più potenti mediatori dell’infiammazione che si conoscano, perché oltre all’infiammazione
determinano anche la febbre (sono pertanto chiamati anche pirogeni endogeni).
L’AA viene pinzettato dalla ciclossigenasi, ciclizza e forma prostaglandine. Le prostaglandine si chiamano
così perché scoperte nella prostata, ma in realtà sono prodotte in molti altri tessuti. Ne esistono più di cento
tipi. Possiamo avere varie conformazioni spaziali delle molecole di prostaglandine; le cellule possiedono
recettori per diverse prostaglandine (ma non per tutte).
Ogni tappa della formazione delle prostaglandine può essere inibita. I FANS (farmaci antiinfiammatori non
steroidei) inibiscono la ciclossigenasi.
La fosfolipasi A è inibita dai corticosteroidi, il cui prototipo è il cortisone; i corticosteroidi sono degli ormoni
fatti dalla ghiandola surrenale che hanno la capacità di inibire l’attivazione delle cellule bianche. Essi
inibiscono l’IL-1, l’IL-6, la fosfolipasi sia direttamente che indirettamente.
L’AA viene perciò convertito da una ciclossigenasi in prostaglandine o trombossani, oppure da una
lipossigenasi in leucotrieni. In tutti e due i casi vi è la chiusura della molecola e la ciclizzazione; la differente
azione della ciclossigenasi e della lipossigenasi si ha nel differente punto di ciclizzazione.
I leucotrieni hanno l’ossigeno in una diversa posizione. I leucotrieni sono responsabili dell’asma, e di molte
malattie polmonari.
L’azione della ciclossigenasi è inibita da aspirina o altri farmaci non steroidei, i FANS, mentre gli steroidi
inibiscono la fosfolipasi.
Se si somministra l’aspirina e contemporaneamente le prostaglandine, la febbre vieni comunque. L’aspirina
inibisce la ciclossigenasi, male prostaglandine sono il prodotto della ciclossigenasi.
Anche dando degli steroidi e l’AA contemporaneamente viene la febbre, perché gli steroidi inibiscono la
fosfolipasi.
Se invece si danno steroidi e IL-1, la febbre non viene, perché l’IL-1 è a monte della fosfolipasi A.

Abbiano due ciclossigenasi: COX1 (costitutiva) e COX 2 (inducibile). L’aspirina inibisce entrambi. Si è
cercato di creare dei farmaci più specifici dell’aspirina che inibissero selettivamente COX 1 o COX 2. Alcuni
di questi però sono stati eliminati dal commercio perché provocavano infarto.
Per cui l’aspirina da questo punto di vista è ancora un farmaco estremamente innovativo, perché anche se
non ha selettività per COX 1 e 2, ha una caratteristica molto importante, cioè la capacità di modificare la
COX, tramite l’acetilazione dell’enzima.
La COX modificata invece di fare prostaglandine, fa un altro prodotto che è antiinfiammatorio, la Lipoxina;
l’enzima modificato è una lipossigenasi particolare, in quanto cambia la stereoisomeria e invece di mettere
l’ossigeno in posizione 10 (quella delle prostaglandine) lo mette nella posizione della lipossigenasi e crea un
composto che compete con le prostaglandine perché è antiinfiammatorio.

PATOLOGIA 30-10-12 prof. Avvedimento

Fattori derivati dai fosfolipidi


Un esempio di struttura di fosfolipide di membrana è quella dei fosfogliceridi (glicerofosfolipidi): glicerolo,
alcool con 3 atomi di carbonio, e ad ogni atomo di carbonio è legato qualcosa: al C2 e al C3 C è legato
l’acido grasso, mentre in posizione 1 possono essere legati diverse classi di composti. Ognuna delle
componenti del fosfolipide è un mediatore potente dell’infiammazione.
Il PAF deriva dal plasmalogeno (un fosfolipide etere la cui testa polare è rappresentata dalla colina), ed è
creato tramite l’azione della fosfolipasi A2 (che scinde il legame tra C2 e acido grasso) e l’aggiunta di un
gruppo acetilico in posizione 2. L’acido grasso liberato può essere utilizzato per generare numerosi prodotti,
ad esempio le prostaglandine e i prostanoidi, e in generale tutti gli eicosanoidi. Questi sono infatti derivato
dell’acido arachidonico (un acido grasso poliinsaturo a 20 atomi di carbonio). Il PAF a sua volta svolge
possiede numerose funzioni: oltre ad essere un fortissimo aggregante di piastrine, è anche un attivatore della
coagulazione perché fissa su di se tutti i fattori della coagulazione. Il catabolismo del PAF è controllato da
degli specifici enzimi, le PAF acetilidrolasi (PAF-AH).
Il diacilglicerolo (DAG) è invece un potentissimo attivatore della proteina chinasi C. Il DAG è un gliceride
costituito da 2 catene di acidi grassi legato ad una molecola di glicerolo tramite legame estere. Può essere un
lipide di membrana generato dalla scissione del fosfatidilinositolo 4,5-bifosfato (PIP2), un altro fosfolipide
localizzato all'interno della membrana cellulare, ad opera della Fosfolipasi C. Prende parte al meccanismo di
trasduzione del segnale dei GPCR associati a proteine Gq, richiamando PKC in prossimità della membrana
plasmatica e rendendola attiva in presenza di concentrazioni nanomolari di calcio. La PKC è un potentissimo
attivatore anche di NFkB.
L’IP3 (inositolo trisfosfato) è prodotto sempre dall'idrolisi per azione della fosfolipasi C sul PIP2. A
differenza del DAG, che rimane ancorato alla membrana, l’IP3 è un fattore solubile. L'IP3, una volta
prodotto, lega ed attiva il recettore dell'inositolo trifosfato, una grossa proteina canale che si trova sulla
superficie del reticolo endoplasmatico. Il suo legame con questa proteina permette la sua apertura ed il
rilascio di calcio che fluisce all'interno del citoplasma.

Ciclo dell’acido arachidonico


L’acido arachidonico è un acido a 20 atomi di carbonio. Esso e polinsaturo, e presenta 4 doppi legami.
Questo è importante, perché negli acidi grassi la presenza o l’assenza di doppi legami consente all’acido
grasso di essere più flessibile o meno. La composizione in acidi grassi della membrana ne determina la sua
rigidità: se è ricca di acidi grassi saturi, essa è più rigida, non sopporta gli sbalzi di temperatura ed è più
fragile, si rompe più facilmente; se invece è ricca di acidi grassi insaturi, proprio per la presenza dei doppi
legami di quest’ultima, la membrana è più fluida. Gli acidi grassi insaturi inoltre sono migliori per
l’organismo, in quanto generano membrane più fluide, e si accumulano più difficilmente nei vasi.

Enzimi coinvolti nella produzione di mediatori lipidici utilizzando l’acido arachidonico!


- Lipossigenasi
- Ciclossigenasi
Questi enzimi sono ossigenasi che piazzano l’ossigeno in punti specifici. Quando si inserisce l’ossigeno si
alterano i legami locali, sia doppi legami che i singoli legami, e la molecola si ripiega.
Ci sono dei farmaci che inibiscono diverse tappe del ciclo dell’acido arachidonico. Il principale meccanismo
antiinfiammatorio degli antiinfiammatori steroidei consiste nella sintesi di annessina-1 (lipocortina-1), la
quale agisce sopprimendo l’azione della PLA2 (e quindi il rilascio di AA), e inoltre inibisce vari altri eventi
infiammatori leucocitari. I FANS invece agiscono a valle della PLA2, e inibiscono l’azione della
ciclossigenasi. Al contrario, numerosi fattori come le citochine o le interleuchine possono invece attivare la
PLA2.
La lipossigenasi piazza l’ossigeno in una posizione diversa della ciclossigenasi. Essa è responsabile della
formazione dei leucotrieni e delle lipoxine.
I leucotrieni sono dei potenti attivatori dell’infiammazione. Sono molecole lipidiche che contribuiscono ai
processi infiammatori e ai meccanismi dell'immunità (in particolare nell'asma e nella bronchite). Essi
chimicamente appartengono alla classe di biomolecole dette eicosanoidi, essendo derivati dell'acido
arachidonico (eicosapentenoico) per azione dell'enzima 5-lipoossigenasi.
Le lipoxine sono invece formate dalla piastrine, le quali però non possono sintetizzarle da sole. Le piastrine
infatti dipendono dai neutrofili per la sintesi di LTA4 (un leucotriene), che è convertito in lipoxine dalla 12-
lipossigenasi piastrinica. Parliamo quindi di sintesi transcellulare. Le lipoxine possono fungere da antagonisti
dei leucotrieni e delle prostacicline.
Le ciclossigenasi sono invece coinvolte nella formazione dei prostanoidi (prostaglandine, prostacicline e
trombossani). Ci sono due tipi di ciclossigenasi, COX1 e COX2. Ci sono alcuni composti che inibiscono la
ciclossigenasi, come i FANS. Ci sono inoltre casi di malattie anche apparentemente non infiammatorie che
hanno questi enzimi attivati (tumore del colon, infarto del miocardio,ecc.).
Classicamente, COX-1 è indicata come ciclossigenasi costitutiva, mentre COX-2 è inducibile !
- COX-1 ! è espressa costitutivamente su molti tessuti, nei quali è considerabile molecola
housekeeper (un esempio sia la funzione di citoprotezione gastrica); la sua presenza può aumentare
fino a 2-4 volte in seguito a stimolazioni umorali.
- COX-2 ! inducibile: la sua espressione nelle cellule immunitarie e dell'infiammazione aumenta da
10 a 18 volte in seguito alla stimolazione da parte di fattori di crescita, promotori tumorali, citochine,
sostanze batteriche (l'endotossina lipopolisaccaridica dei gram-negativi è particolarmente potente) e
trombina (o fattore IIa della coagulazione).

Ogni sistema, dalle citochine ai vari mediatori, presenta sempre un sistema antagonista. Le prostacicline e le
lipoxine infatti hanno un’attività antagonista all’infiammazione. Questo è importante perché se queste
sostanze non esistessero noi non potremmo controllare più l’azione di questi mediatori.
Un antagonista può essere generato dalla stessa catena metabolica, facendo tutto uguale tranne qualche
piccolo passaggio. Si viene così a creare un inibitore competitivo, che compete con il normale ligando
riconosciuto dal recettore. Sia le citochine, sia prostaglandine, leucotrieni e trombossani, ognuno di questi
possiede un recettore proprio, e gli inibitori competitivi possono agire su questi stessi recettori impedendone
il legame con i loro ligandi.

L’aspirina (acido acetilsalicilico) determina inibizione della COX e l’acetilazione della serina dell’enzima in
posizione 6; ciò modifica il sito catalitico dell’enzima. L’aspirina infatti non solo inibisce l’enzima, ma ne
cambia le proprietà ossigenasiche. Infatti, quando la ciclossigenasi è acetilata nella posizione 6, essa non
forma più le prostaglandine, ma forma le lipoxine ! ATLS (Aspirine Triggered Lypoxins Synthesis).
Le lipoxine normalmente sono derivate dalla lipossigenasi, sempre a partire dall’acido arachidonico; in
particolare vengono coinvolte la 5-lipossigenasi 5 e la 12-lipossigenasi. Esse sono competitive rispetto alle
prostaglandine e ai leucotrieni, e inibiscono l’infiammazione.
Le lipoxine possono quindi essere ottenute in due modi: o per la via classica lipossigenasica, o per la via non
classica ciclossigenasica (ATLS).
La lipossigenasi, oltre alle lipoxine, forma anche i leucotrieni. Questi possono avere un ruolo nella
patogenesi di molte patologie broncopolmonari, in cui si ha produzione eccessiva di leucotrieni. Ad
esempio, nelle reazioni asmatiche, essi sostengono e amplificano localmente i fenomeni infiammatori.
Mentre le lipoxine sono gli antagonisti antinfiammatori della strada delle lipossigenasi, le prostacicline sono
antagonisti antinfiammatori della strada delle ciclossigenasi. In altri termini ogni pathway ha un proprio
antagonista: mentre quello delle lipossigenasi ha le lipoxine, quella delle ciclossigenasi ha le prostacicline.
Si potrebbe pensare che le lipoxine facciano parte anche del pathway della ciclossigenasi. In realtà però la
ciclossigenasi produce le lipoxine solo quando si usa l’aspirina, che è però un composto esogeno. Però senza
l’assunzione di questo farmaco, il sistema presente nell’organismo è fatto in modo che per quanto riguarda la
via delle lipossigenasi ci siano come molecole proinfiammatori i leucotrieni, mentre quelle antinfiammatorie
sono lipoxine; per quanto riguarda invece la via delle ciclossigenasi, abbiamo come fattori proinfiammatori
prostaglandine e trombossani, mentre come fattori antinfiammatori le prostacicline.
Esistono vari tipi di prostaglandine; esse agiscono inoltre come pirogeni endogeni.

Trombossani ! I trombossani sono composti chimici di natura lipidica, derivati dell'acido arachidonico nella
via delle ciclossigenasi; nella sua forma attiva, sono caratterizzati da un endoperossido nell’anello penta-
atomico tipico delle prostaglandine, modificato. Fanno parte degli eicosanoidi. Sono presenti nelle piastrine
ematiche. Hanno effetti vasocostrittori, favoriscono l'aggregazione delle piastrine, facilitano il
broncospasmo.
I trombossani sono specifici delle piastrine, e l’inibizione causata dall’aspirina della produzione di
trombossani è duratura, in quanto le piastrine non hanno nucleo. L’inibizione della ciclossigenasi da parte
dell’aspirina è infatti permanente, in quanto si tratta di una modifica covalente (acetilazione). Devono quindi
essere prodotti nuovi enzimi per rimpiazzare la funzione di quelli in precedenza modificati. Ciò però non può
avvenire nelle piastrine, in quanto mancano di nucleo e non sono capaci di sintetizzare nuovi enzimi; solo le
nuove piastrine presentano ciclossigenasi attive, che quindi possono produrre trombossani.

Le prostaglandine, oltre ad essere prodotte dai leucociti, sono prodotte anche dalle piastrine (la ciclossigenasi
delle piastrine produce in percentuale circa 20% trombossani e 80% prostaglandine). Le prostaglandine, oltre
a essere importanti nell’infiammazione, fungono anche da aggreganti delle piastrine (e quindi esplicano un
loro effetto anche sulla coagulazione). Inoltre, sulla mucosa gastrica esse hanno l’effetto di inibire la
secrezione di HCL. L’effetto biologico delle prostaglandine o dei trombossani dipende quindi dal tessuto o
dalla cellula su cui agiscono. Gli effetti macroscopici dei trombossani, quelli più evidenti, si vedono sulle
piastrine, perché il trombossano favorisce fortemente l’aggregazione delle piastrine. L’effetto più evidente
delle prostaglandine è quello di indurre la febbre e l’inibizione della secrezione acida dello stomaco.
Quando si somministra aspirina dunque, aumenta la secrezione gastrica e diminuisce l’aggregazione
piastrinica. La diminuzione dell’aggregabilità piastrinica è relativamente lunga, perché per tornare a produrre
i trombossani è necessario sostituire le piastrine. Questo è importante in quanto le terapie anticoagulanti
effettuate con l’aspirina hanno un tempo d’azione più lungo rispetto ad altri farmaci che inibiscono anch’essi
la ciclossigenasi (ma in modo reversibile). L’aumento della secrezione gastrica è spiegabile invece grazie
alla rimozione dell’effetto inibente delle prostaglandine sulla secrezione acida dello stomaco.

La presenza di un doppio legame in una posizione particolare negli acidi grassi può conferire attività
biologiche rilevanti.
Gli Omega-3 sono una categoria di acidi grassi essenziali (come gli Omega 6). Sono noti soprattutto per la
loro presenza nelle membrane cellulari e per il mantenimento della loro integrità. Il nome di questi composti
deriva dalla posizione del primo doppio legame, iniziando il conteggio dal carbonio terminale (Carbonio ω).
Contando dal carbonio ω, il primo doppio legame che si incontra occupa il terzo rango, da cui il termine
Omega-3.
Gli acidi grassi omega-6 sono una famiglia di acidi grassi polinsaturi di origine vegetale aventi un doppio
legame in posizione 6 contando dal fondo dell'acido grasso. Gli effetti biologici degli ω−6 sono ampiamente
mediati dalla loro interazione con gli acidi grassi omega 3, di cui sono antagonisti. L'acido linoleico (18:2),
l'omega 6 a catena più corta, è un acido grasso essenziale. L'acido arachidonico (20:4) è anch'esso un omega
6 particolarmente significativo ed è precursore delle prostaglandine e di altre molecole attive
fisiologicamente.
Per trasformare un acido da insaturo a saturo, tramite reazioni artificiali di idrogenazione (grassi idrogenati)
si può aggiungere l’idrogeno mancante. Il processo di idrogenazione dei grassi è molto usato nei beni di
consumo alimentare vegetali, in quanto un grasso saturo aumenta il periodo di conservazione del prodotto.
Gli oli vegetali vengono quindi "idrogenati" per rompere i doppi legami degli acidi grassi insaturi. Durante
questo processo avvengono trasformazioni stereochimiche e spostamenti di doppi legami che in natura non
esistono o sono molto raramente presenti. Il risultato è industrialmente soddisfacente, poiché si produce un
grasso vegetale a buon mercato. Dal punto di vista medico è invece discutibile: l'organismo umano non
dispone delle strutture enzimatiche necessarie a regolare la trasformazione metabolica di queste molecole.
Gli acidi grassi idrogenati sono rigidi e possono facilitare la rottura della membrana. Invece gli acidi grassi
insaturi come sono fondamentali perché rendono la membrana più fluida e meno soggetta a rottura. L'acido
arachidonico (20:4), un omega 6, è un acido grasso particolarmente significativo ed è precursore delle
prostaglandine e di altre molecole attive fisiologicamente.
In natura ci sono molti esempi di acidi grassi insaturi e polinsaturi, ma molti di questi non possono essere
fabbricati dal nostro organismo, perché anche se l’uomo possiede un enzima chiamato desaturasi (che
introduce e toglie i doppi legami), questo enzima è in grado di agire solo in alcune posizioni della molecola
di acido grasso. Quindi è necessario introdurre alcuni tipi di acidi grassi insaturi con la dieta, in quanto
l’uomo non è in grado di produrli ! acidi grassi essenziali (linoleato e α-linoleato).
Gli acidi grassi utilizzati per la formazione dei mediatori lipidici dell’infiammazione (prostaglandine,
trombossani e leucotrieni) hanno il doppio legame in posizione 6. L’AA è infatti un omega-6. Gli omega-6
tendono a formare quindi composti proinfiammatori. Gli acidi grassi omega-3 (di cui sono ricchi soprattutto i
pesci) sono competitivi con gli omega-6. La causa dell’effetto antiinfiammatorio degli omega-3 quindi è
dovuta semplicemente al fatto di essere con gli omega-6.
Da un punto di vista alimentare, e importante mantenere una giusta proporzione 6/3: se questo rapporto è
elevato, le malattie cardiovascolari sono più alte e più frequenti, mentre se questo rapporto è basso sono
meno frequenti. Il rapporto si può ridurre con una dieta arricchita di acidi grassi omega-3 può abbassare
questo rapporto.
Il rapporto 3/6 è indice anche della flessibilità delle membrane cellulari: se si hanno delle membrane
costituite con omega-3, esse sono più flessibili e meno rigide e si rompono di meno rispetto alle membrane
che hanno omega-6. E lo stesso capita con le lipoproteine: le lipoproteine che assorbono omega-3 sono più
flessibili e lineari di quelle che assorbono omega-6.

Mediatori glicidici
Il modo con il quale le cellule dell’immunità riconoscono sostanze estranee è attraverso i recettori. In
particolare, le cellule dell’immunità innata, pur non possedendo i recettori per l’antigene, possiedono dei
recettori che riconoscono delle particolari strutture molecolari comuni che sono presenti in modo
caratteristico nei batteri o nei virus. I recettori dell’immunità innata non riconoscono infatti l’antigene, ma un
pattern comune a più agenti infettivi. Una delle famiglie più importanti dei recettori dell’immunità innata
sono i Toll-like receptors (TLR), chiamati così perché omologhi al gene Toll della drosophila. I geni che
codificano per i TLR sono molto antichi dal punto di vista evolutivo, in quanto si trovano in animali
filogeneticamente lontani dall’uomo come il moscerino, e riconoscono strutture importanti per gli agenti
infettivi (PAMPs, pathogen associated molecular patterns). I PAMPs sono generalmente molecole
fondamentali per le funzioni dei patogeni, che quindi non possono essere eliminati tramite mutazioni (sono
evolutivamente conservati). Esempi di PAMPs sono elementi di superficie (LPS, lipoproteine, lipopeptidi,
lipoarabinomannani), proteine come la flagellino batterica, RNA a doppia elica virale, DNA batterico o
virale con isole CpG non metilate, e altri tipi di DNA e RNA. I TLR hanno anche ligandi endogeni.
In drosophila il patwhay di Toll è molto semplice, in quanto il recettore attiva la trascrizione di geni che
hanno attività antibatterica ! sintesi di polipeptidi (drosomicina, diptericina). Nell’uomo invece il processo
trasduzionale dei TLR attivati è molto più complesso: non si induce solo la sintesi di sostanze antibatteriche,
ma anche la trascrizione dei geni delle citochine, e altri geni ancora.
I TLR sono recettori capaci di riconoscere strutture dei patogeni contenenti zuccheri. I mediatori
dell’infiammazione glicidici, o che comunque presentano componenti zuccherine, sono quindi quelli prodotti
dai batteri, e il più importante è il lipopolisaccaride (LPS). L’LPS è il più potente induttore di shock settico
(indotto da infezione), ed una risposta infiammatoria attraverso i TLR. La struttura dell’LPS è fatta da
zuccheri e lipidi. Presenta tre parti: il lipide A, l’antigene del core e l’antigene O.
Ci sono vari tipi di TLR; nell’uomo sono stati individuati 13 geni che codificano per differenti TLR (ma uno
è inattivo). La struttura di base dei TLR è però comune; essi possiedono un segmento transmembrana, uno
intracellulare (trasduzione) e uno extracellulare (riconoscimento dei PAMPs). Quando sono attivati,
dimerizzano e danno inizio al processo trasduzionale.
TLR4 riconosce l’LPS, mentre TLR5 la flagellina. L’attività di TLR4 è particolarmente importante contro i
batteri Gram- (infatto i Gram+ non producono LPS).
I Gram- possono causare per esempio delle infezioni intestinali, per cui TLR4 è molto concentrato nelle
cellule dell’intestino. Se togliamo TLR4, si nota che infiammazione diffusa intestinale e si ha sepsi a causa
della semplice flora batterica dell’intestino. I TLR sono importanti perché rappresentano una prima barriera
contro le infezioni, anche di quelle dei batteri che si trovano nel nostro corpo .
Una percentuale della popolazione normale soffre continuamente di infezioni vescicali. Il trattamento con
antibiotici elimina l’infezione, ma questa dopo poco tempo ricompare; ciò non è dovuto ad alcuna
alterazione anatomica (non c’è quindi nessuna alterazione della vescica). Questi soggetti presentano invece
un polimorfismo di un particolare TLR, che è mutato nella porzione extracellulare (quella di
riconoscimento), e ciò inficia la sua capacità di riconoscere lo Pseudomonas Aeruginosa, che è un batterio
che può dare con una certa frequenza infezioni alla vescica. Quindi anche se lo Pseudomonas si moltiplica,
questo recettore non lo rileva e non può attivare la produzione di citochine. Quindi anche se si usano
antibiotici, le infezioni ricompaiono a causa del mancato o inefficace riconoscimento di una struttura dello
Pseudomonas.
I TLR fungono come primo campanello di allarme. In un’infezione, il TLR riconosce l’LPS del batterio,
oppure un’altra componete del patogeno, attiva i macrofagi e i polimorfonucleati, e questi cominciano la
produzione di citochine. Le citochine attivano la fosfolipasi, e tramite l’azione della fosfolipasi si ha il
rilascio di AA e la sintesi prostaglandine. Le prostaglandine tra gli altri effetti inducono anche la febbre.
Se il TLR non vede i patogeni, questi possono continuare a replicarsi, fino ad arrivare ad in punto tale da
dare setticemia, infiammazione sistemica e infine lo shock settico.
L’infiammazione generalizzata indotta da infezioni si chiama sepsi, e la sepsi può generare shock. La causa
dello shock può essere dovuta o al fatto che il batterio non viene visto bene (cioè ci sono alterazione dei
TLR) oppure perché la carica batterica è molto elevata, per esempio quello che succede dopo un intervento
in cui non c’è stata una cura della ferita o della lesione adeguata, e da lì il batterio si può infiltrare. Ciò è
particolarmente pericoloso negli immunodepressi, che più frequentemente possono incorrere in sepsi.
Lo shock settico può causare sindrome da insufficienza multiorgano (MODS). È caratterizzato da febbre,
infiammazione diffusa, insufficienza cardiaca, vasodilatazione diffusa e caduta della pressione arteriosa. Per
distinguere uno shock settico da uno non settico (ad esempio dovuto a cause traumatiche), si può rilevare se è
presente o meno l’LPS nel sangue. In caso di shock settico, bisogna intervenire tempestivamente per evitare
la morte del paziente.
Il Porphyromonas gingivalis è in grado di dare infezioni gengivali. Esso non è riconosciuto dai TLR, non
perché questi abbiamo una mutazione o un polimorfismo, ma in quanto il batterio ha elaborato delle strategie
per sfuggire all’immunità. In questo caso il batterio riesce a colonizzare l’ospite non perché c’è una
mutazione di un TLR, ma in quanto è in grado di impedire il riconoscimento da parte del TLR.
Il segnale degli LTR è trasmesso tramite un complesso apparato trasduzionale. Una mutazione di una delle
proteine coinvolte in questo processo ha un effetto simile alla mutazione del TLR, anche se di per sé
l’apparato recettoriale è integro.

Microbioma
Ogni giorno siamo in contatto con milioni di batteri diversi. L’uomo è colonizzato da una enorme
popolazione batterica. La pelle, le vie aeree superiori, la bocca, l’intestino sono tutti colonizzati da batteri. La
popolazione batterica più rilevante è quella dell’intestino, la quale costituisce la cosiddetta flora intestinale.
Questi batteri evolvono, cambiano da individuo a individuo e anche nell’ambito dello stesso individuo in
tempi diversi.
Se noi facciamo la sequenza di DNA di tutti i batteri che sono presenti in un essere umano, possiamo vedere
quanti ce se sono, se sono diversi da un individuo ad un altro, qual è la differenza fra una persona sana e una
malata, oppure se è presente una relazione tra malattia e presenza di determinati batteri.
Per microbioma si intende l'insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei
microrganismi di un ambiente definito. Un ambiente definito potrebbe essere un intero organismo (per
esempio, un essere umano ! microbioma umano) o parti di esso (per esempio, l'intestino o la cute).
Ogni parte del corpo ha una composizione batterica diversa; il dato comune è che questa componete batterica
evolve, e si possono sviluppare nuovi geni.
Ogni giorno nell’intestino questi batteri sono tenuti sotto controllo dai TLR, che impediscono al batterio di
entrare. I batteri che non sono aggressivi e non scatenano la risposta del sistema immunitario sopravvivono
nell’intestino come commensali.
La flora batterica intestinale è influenzata dalle abitudini alimentari di un soggetto. A sua volta, essa può
influenzare alcune caratteristiche dell’individuo. In esperimenti su topi, si è osservato che trasferendo la flora
intestinale da topi obesi a topi normali, questi ultimi hanno la tendenza ad ingrassare, anche se non
modificano in modo sostanziale il loro apporto calorico. In altri termini, gli effetti sul metabolismo e sulla
quantità di sostanze assorbite dei batteri intestinali è enorme, e ciò si rileva ad esempio nel metabolismo
energetico. È per questo che può capitare che, mentre si sta facendo una dieta dimagrante, essa perde di
efficacia se si assumono antibiotici.
Osservando degli individui diabetici o delle persone che hanno resistenza per l’insulina, e che quindi
assorbono con difficoltà il glucosio, essi presentano una flora batterica diversa da individui normali.
Quindi abbiamo dei batteri che evolvono con l’individuo, e ne determinano l’individualità di alcune
caratteristiche (alito, sudore, ecc.), che si adattano al nostro metabolismo e alla dieta. D’altro canto, oltre ai
batteri commensali, abbiamo anche i batteri francamente patogeni, oppure quelli opportunistici (che
normalmente sono commensali, ma in alcune situazioni possono diventare patogeni).

PATOLOGIA 31-10-12 prof. Avvedimento

Complemento

Sistema del complemento ! insieme agli anticorpi, è un elemento essenziale del sistema immunitario nei
meccanismi di difesa umorali contro gli agenti infettivi. Esso è costituito da una ventina di proteine circolanti
e di membrana, capaci di interagire reciprocamente e con le membrane cellulari. L'attivazione a cascata delle
sue proteine solubili, che convenzionalmente vengono chiamate componenti, è alla base di attività biologiche
varie come la lisi cellulare, batterica o virale; queste si introducono nelle membrane degli agenti patogeni
provocando su di esse pori che portano alla lisi. Durante l'attivazione del complemento si ha inoltre il
reclutamento di varie cellule immunocompetenti, quali cellule fagocitarie (monociti, macrofagi,
polinucleati), linfociti B e linfociti T. Si tratta dunque di un sistema di proteine solubili e di membrana che
interagiscono l’una con l’altra e con altre molecole del sistema immunitario per generare importanti effettori
della risposta immunitaria innata e specifica.

Gli anticorpi naturali provocano il rigetto iperacuto degli xenotrapianti, grazie anche al ruolo svolto
dall’attivazione del complemento. Il rigetto iperacuto agisce in modo molto rapido (mentre ci vuole circa una
settimana per la produzione di Ig specifiche durante una reazione primaria). Il rigetto iperacuto genera
necrosi massiva dell’organo.
Il complemento è simile, come meccanismo di azione, alla cascata della coagulazione, e interagisce con
questo processo, e anche con altri processi quali la fibrinolisi e l’infiammazione. Questo sistema viene
attivato con un meccanismo a cascata, in maniera rapida, amplificata e specifica. Come accade per la
coagulazione però, se viene attivato in modo erroneo si possono avere delle patologie.
I componenti della cascata del complemento sono presenti nel sangue in forma inattiva; essi sono delle
proteasi, o meglio delle esterasi. Tutti i fattori del complemento hanno sempre due domini: uno N-terminale,
che può essere tagliato dal dominio C-terminale di un fattore di un fattore del complemento. Il dominio C-
terminale di solito si indica con ‘b’, mentre il dominio N-terminale si indica con ‘a’. Il peptide rilasciato dal
taglio, il cosiddetto ‘cappelletto della proteasi’, è un potentissimo mediatore dell’infiammazione, e prende in
nome di anafilotossina. Per cui ogni proteina del complemento, ogni fattore C ha una componente che viene
tagliata all’ N-terminale che forma un peptide a che di solito è un’anafilotossina, cioè che va a stimolare
l’infiammazione, la diapedesi ecc., e un fattore b che è l’enzima vero e proprio.
Ci sono dei recettori (5 in tutto) che vedono e interagiscono con i fattori del complemento e delle proteine
regolatorie (in totale 9) che controllano il processo.
Le strade con cui può essere attivato il complemento sono tre: la via classica, la via alternativa e la via
lectinica. Una (la via classica, la prima ad essere scoperta) rileva i complessi antigeene-anticorpi (è una via
immunoglobulina dipendente). Un anticorpo è costituito da una componente che lega il complemento e una
componente che vede l’antigene. Tutti gli anticorpi hanno struttura simile con piccole differenze.
Le restanti due vie sono anticorpo indipendente e sono peculiari perché attivate da superfici. Qualsiasi
superficie che ha delle particolari caratteristiche, dalla particella di carbone al filo di sutura fino alla
superficie della cellula, ha la capacità di poter attivare il complemento. Ciò dipende da come è fatta la
superficie: per esempio esistono delle superfici che risultano più attivatrici di altre; ad esempio il globulo
rosso che ha una grande superficie carica negativamente che attrae strutture cariche positivamente. I globuli
rossi attraggono molto bene il complemento: infatti una delle conseguenze dell’attivazione del complemento
è la lisi delle emazie; esistono infatti delle malattie dette emolitiche legate ad alterazioni del complemento.
Anche le piastrine possono aggregare e attivare, oltre i fattori della coagulazione, anche il complemento
(infatti esistono delle trombocitopenie dovute all’attivazione del complemento). Un soggetto che presenta
porpora (per porpora si intende un insieme di malattie avente come caratteristica comune un quadro
emorragico a livello dei tessuti), l’emorragia e la trombolisi possono essere dovute a enorme attivazione del
complemento, che conduce alla lisi di piastrine. La diminuzione delle piastrine comporta a fenomeni
emorragici.
Nell’ambito dei fattori ‘C’ notiamo che vi sono alcuni più importanti degli altri. Tra questi spicca quello che
dà inizio alla via classica, C1. Poi esistono due nodi, due incroci principali che collegano le varie vie: C3 e
C5. Questi sono i fattori su cui avvengono la maggior parte delle reazioni. Tutte e tre (C1, C3 e C5) sono
delle proteasi la cui attivazione dà il via a una cascata, che termina nella formazione di un poro a livello delle
membrane o su qualsiasi superficie, il cosiddetto MAC (membrane attack complex) che mette in
collegamento il citoplasma con l’esterno della cellula.
La via classica è attivata da anticorpi, mentre le restanti due da superfici. Se si attiva il complemento processi
come fagocitosi, chemiotassi e altri avvengono in maniera amplificata; senza il complemento essi
avvengono lo stesso, ma meno efficacemente. Alcuni frammenti del complementi fungono infatti fa opsonine
(ad esempio C3b); un’opsonina è una molecola che ha la capacità di riconoscere superfici.

Via alternativa: è attivata da superfici del batterio, o da qualsiasi superficie che non presenta inibitori del
complemento. È dovuta al fatto che C3, grazie alla sua conformazione strutturale, tende spontaneamente ad
autoattivarsi: il C3 presente nel citoplasma è sottoposto a un lento, ma continuo processo di clivaggio, che
porta alla generazione spontanea di livelli basali di C3b ! tickover. Una piccola quantità di C3b può quindi
legarsi covalentemente alla superficie di tutti i tipi cellulari, compresi i microorganismi presenti
eventualmente in circolo. Se invece C3b rimane in fase fluida, è rapidamente inattivato.
C3b legato alla superficie invece espone un sito di legame per il fattore B, che si lega a C3b ed è clivato dal
fattore D in Ba e Bb. Il complesso C3bBb forma la C3 convertasi della via alternativa. La sua funzione è
quella di clivare massivamente C3, innescando un circuito di amplificazione, che genera sempre maggiori
quantità di C3b. Il complesso C3bBb inoltre, se lega un’ulteriore molecola di C3b, forma il complesso
C3bBbC3b, che è la C5 convertasi della via alternativa.
L’attivazione della via alternativa è un processo stocastico; il tickover di C3 avviene infatti normalmente, ma
non ha effetto sulle cellule dell’organismo perché è rapidamente controllato dal fatto che sulla membrana
delle cellule dell’organismo ci sono degli inibitori dell’attivazione del complemento. La properdina è invece
una molecola che attiva la via alternativa (stabilizzando il complesso C3bBb).
L’aggancio di C3b e di altri frammenti del complemento alla membrana è dovuto al fatto che queste sono
proteine collose. C3 contiene infatti un gruppo tioesterico estremamente reattivo, ma circondato (e quindi
reso inaccessibile) da un più largo dominio, definito dominio tioesterico. Quando C3 viene clivato, esso
subisce un imponente cambiamento conformazionale a livello del dominio tioesterico, che espongono,
rendendolo accessibile, il gruppo tioesterico reattivo. A livello molecolare dunque, il legame di C3b alla
membrana avviene attraverso la reazione di questo gruppo tioesterico con gruppi amminici o idrossilici
presenti nelle proteine o nei polisaccaridi della superficie cellulare, formando così legami covalenti amminici
o esterici.
Se C3b ancorato alla membrana lega il fattore H (o anche altri fattori inattivanti) il complesso C3bH diventa
praticamente inattivo sulle cellule dell’ospite; se invece C3b lega Bb, forma il complesso C3bBb che è
invece attivo sulle cellule microbiche. Questo è importante, perché è in questo modo che il complemento
distingue una superficie dell’organismo da una estranea: una superficie attivante (ad esempio quella
microbica) favorisce la formazione del complesso C3bBb, una superficie non attivante favorisce invece il
legame col fattore H. Il fattore H è una glicoproteina solubile che circola nel plasma, e lega C3b
impedendone il legame con Bb.
C3 quindi è capace di attivarsi da solo. Se non ci sono questi fattori, B e D, non succede niente, perché
rapidamente ci sono nel sangue e sulla membrana delle cellule umane dei fattori (come il fattore H) che
tendono a destabilizzare il complesso, rendendo pertanto inefficace l’attivazione di C3. Però in alcune
condizioni in cui ci sono delle proteasi già attive (ad esempio a causa di un’infezione), le proteasi
favoriscono la formazione il complesso che poi va a formare la convertasi.
In sintesi, bisogna sottolineare che il complemento si autoattiva. L’attivazione di C3 può essere spontanea,
dovuta al fatto che si autoproteolizza, però normalmente è inefficace perché in assenza di proteasi o di
mediatori dell’infiammazione questo sistema rapidamente viene inattivato da fattori solubili o di membrana,
che proteggono le cellule dell’organismo. Se invece c’è infiammazione e ci sono proteasi, questo sistema si
attiva, formando la convertasi. L’attivazione di C3 non avviene su tutte le cellule, ma avviene solo su
particolari superfici , dette attivanti, che tendono a stabilizzare il complesso. La superficie di un leucocita o
dell’endotelio, e in generale quella di tutte le cellule dell’ospite, ha degli inibitori del complemento associati,
e non permette la formazione del complesso. Il batterio non ha inibitori, e quindi il complesso si attiva.
Alcuni batteri però hanno elaborato delle strategie per proteggersi dal complemento. Quindi se ci sono delle
proteasi (come il fattore D) o mediatori dell’infiammazione, C3 diventa attivo, e va a dare inizio a una
cascata e il sistema parte. Ciò che distingue la superficie di una cellula ospite da quella di un batterio, è il
fatto che le cellule ospiti sulla loro superficie degli inibitori, che dissociano il complesso appena si forma.
La presenza di questi inibitori non consente dunque l’autoattivazione di C3 sulle cellule dell’ospite.
Ci sono diversi tipi di inibitori, tra cui, oltre al fattore H, anche la proteina che lega il fattore C4 (C4BP).
Alcuni batteri hanno imparato a proteggersi dal complemento, e lo fanno ad esempio inibendo le proteasi o
accumulando localmente proteine regolatrici prodotte dall’ospite. I Gram+ e alcuni funghi possono avere una
parete cellulare particolarmente spessa, che non consente l’accesso alla membrana dei fattori del
complemento. Inoltre anche un batterio che possiede una capsula polisaccaridica, grazie a questa barriera
non consente il contatto dei fattori del complemento con la membrana; infatti la capsula esterna non lega
C3b, ma quest’ultimo è capace di legarsi solo alla membrana. Lo streptococco e altri microorganismo
possono legare fattori inibitori alla loro superficie, in particolare il fattore H, altri invece producono essi
stessi delle proteine che inibiscono il complemento. Altri ancora si coprono di una superficie negativa (che
inibisce l’attivazione del complemento) sottraendo o producendo essi stessi acido sialico.
In sostanza, i componenti della via alternativa sono dunque: C3, proteasi e inibitori.

Via lectinica: è anch’essa attivata da superfici, e non anticorpi.


Alcune molecole, come le selectine, integrine, ecc., sono molecole molto collose, e sono alla base
dell’adesione.
I componenti della via lectinica sono la membrana cellulare del batterio (che presenta in superficie zuccheri
quale il mannosio). Poi ci sono delle proteine che legano il mannosio (MBL), e delle proteasi associate a
proteine che legano il mannosio (MASP1,2). I fattori coinvolti sono simili a quelli della via classica (ci sono
sia C2 che C4), ma manca C1.
La lectina che lega il mannosio, MBL, lega anche le proteasi MASP1 e 2. Anche in questa via i frammenti a
e b sono i prodotti del taglio proteolitico dei fattori del complemento, dove a ha funzione di anafilotossina e
b di proteasi. La causa dell’attivazione di questa via è dovuta al fatto che la MBL ha una struttura simile a
C1. Una sua caratteristica è la presenza di 6 domini, che possono essere paragonati a delle molle, che quando
questa lectina si attacca a una superficie contenente il mannosio incominciano a vibrare (in quanto presenta
regioni flessibili), e ciò causa l’attivazione delle proteasi associate.
Quindi la MBL vede il mannosio legandosi. Le proteasi MASP1 e 2 si legano alla MBL e si attivano. Il C4
viene tagliato formando C4b. Il C2 viene allo stesso modo tagliato in C2b. Questi frammenti formano il
complesso C2bC4b, che è la C3 convertasi della via lectinica (e anche della via classica), e questo inizia la
cascata. Inoltre il complesso C2bC4b, quando lega C3b, forma il complesso C4bC2bC3b, che funge da C5
convertasi.
La discriminazione fra cellule procariote e eucariote è dovuta alla differente composizione della membrana;
infatti i procarioti hanno alcuni zuccheri differenti. Anche nell’ambito degli stessi eucarioti ci sono delle
differenze per quanto riguarda gli zuccheri di membrana, a causa di un corredo enzimatico diverso. Ad
esempio, i maiali presentano la galattosiltransferasi che trasferisce il galattosio sulla superficie cellulare,
mentre gli uomini no, e ciò genera dei differenti zuccheri di membrana (ed è uno dei motivi per cui si ha il
rigetto negli xenotrapianti). Questo significa che se il sistema immunitario vede un galattosio su una
superficie cellulare o su altre strutture, esso percepisce che non si tratta di una cellula umana, ma che può
essere un batterio o un’altra specie. Inoltre non è solo importante la diversa qualità dei residui glucidici, ma
anche la diversa spaziatura tra i vari residui. Per cui il complemento riconosce molto bene i residui di
zuccheri non umani rispetto a quelli umani. In questo modo si previene l’autoreazione.
Via classica: è quella conosciuta da più tempo, infatti è la prima ad essere stata scoperta. Nella via classica il
complesso antigene-anticorpo attiva C1; C1 cliva C4 e C2 formando C4b e C2b, che si complessano (C4b2b)
formano la C3 convertasi della via classica. La C3 convertasi cliva C3 in C3a e C3b. Il complesso
C4bC2bC3b forma la C5 convertasi.
C4b presenta omologie strutturali con C3b: infatti possiede un gruppo tioesterico capace di legarsi alla
superficie antigenica.
L’attore principale di questa via è C1, che presenta un’attività protesica. C1 ha poi una parte che lega
l’immunoglobulina a livello della regione Fc; questo fattore è infatti attivato dai complessi antigene
anticorpo. I componenti della via sono, in ordine di attivazione: C1, C4, C2, C3 . Gli attivatori della via
classica sono: Immunocomplessi (IgM-Ag e IgG-Ag), CRP, SAP, membrane delle cellule apoptotiche.
Principalmente sono però gli anticorpi ad attivare la via classica.
Questo è importante perché ci sono alcune malattie in cui i soggetti affetti presentano molti anticorpi in
circolo, con la formazione di immunocomplessi; ciò può portare a infiammazione cronica di alcuni organi, ad
esempio il rene o il cuore. Per liberarsi degli immunocoplessi, un meccanismo è il complemento stesso, che
vede i complessi antigene-anticorpo. Se questi complessi non vengono eliminati o ‘chiarificati’ possono
comportare malattie da immunocomplessi, e i primi organi a essere colpiti sono il rene, il cuore e fegato.
La via classica inizia quando si forma il complesso C1 con anticorpi che a loro volta legano l’antigene. C1
ha una debole attività proteolitica ma aumenta quando viene attivato dal legame con le Ig.
In presenza di C3b la fagocitosi avviene meglio. Questo perché i macrofagi hanno recettori che riconoscono
il frammento del complemento che a sua volta è legato all’antigene, fagocitando il tutto.

Sequenza terminale comune: la formazione del MAC (via litica) è focalizzata su C9, che ha forma di un
bastoncino che viene impiantato a livello della membrana bersaglio in sequenza, portando la formazione di
un poro.
Ogni volta che si fa un buco in una membrana lipidica, questo è virtuale, perché appena si toglie il
componente responsabile del buco, esso è richiuso dall’addensarsi dei fosfolipidi. L’unico modo per creare
un poro stabile, e quindi di mettere in contatto l’ambiente extracellulare con quello interno, è quello di
formare una sorta di tubo, ed è proprio questa l’azione di C9.
Le C5 convertasi generata attraverso la via alternativa, quella lectinica o quella classica innescano
l’attivazione delle componenti terminali del sistema del complemento che portano alla formazione del MAC
(membrane attack complex), dotato di attività citolitica.
Le C5 convertasi clivano C5 in un frammento C5a (un’anafilotossina) e un frammento C5b, che si associa ad
altre proteine del complemento già legate alla superficie antigenica. C5b recluta poi altre componenti del
complemento, quali C6, C7 e C8. Il complesso C5b-8 recluta poi il fattore C9, una proteina plasmatica che
polimerizza formando il poro di membrana.

Malattie del complemento


Le cellule autologhe sono protette dall’inattivazione spontanea di C1 o da C3 dagli inibitori che sono insiti
nel sangue e nella membrana cellulare; se uno di questi manca, c’è la possibilità di sviluppare malattia. In
effetti le malattie del complemento possono essere sia da eccesso di attivazione, sia invece da deficit di
alcune componenti.
Oltre ad aumentare la suscettibilità ad alcuni tipi di batteri, difetti d complemento possono anche avere altre
conseguenze. La cascata del complemento attua crosstalk anche con la cascata della coagulazione;
l’attivazione del complemento mette insieme anche i fattori della coagulazione e può avviare
contemporaneamente l’attivazione delle piastrine ! l’eccessiva attivazione del complemento può essere
associata a formazione di coaguli intravasali, oppure all’inverso ad emorragia.

Angiodema ereditario (Edema angioneurotico ereditario) ! dovuto a mancanza di C1Inh, inibitore del
complesso C1. Non è una patologia grave, però il soggetto affetto presenta edemi spontanei, continui e
diffusi. In genere può essere scambiata per una malattia allergica oppure, dato che non cambia niente nel
sangue tranne che un lieve aumento di C1, come malattia neurodegenerativa. La diagnosi si effettua
osservando la mancanza di C1Inh e il livello di attivazione e la lisi su globuli rossi.
C1 si autoattiva perché l’organismo umano presenta una quantità elevata di immunoglobuline. Ciò comporta
infiammazione, formazione di essudato con formazione di edemi, soprattutto nei bambini, in cui le palpebre
si gonfiano in maniera rilevante.
La causa dell’angioedema ereditario (HAE) è un difetto genetico, che porta a una carenza di C1-INH. In tale
situazione, l’organismo produce questa proteina in quantità insufficiente (HAE di tipo 1) o non in grado di
funzionare (HAE di tipo 2). Il C1-INH è la principale proteina che regola l’attivazione dei mediatori della
permeabilità vascolare, inclusa la bradichinina. Il gene per il C1-INH (SERPING1) sembra essere altamente
suscettibile a mutazioni. Il gene ha carattere dominante, di conseguenza, una mutazione su uno dei due
cromosomi può essere causa di HAE. Come risultato del difetto genico, i soggetti affetti da HAE producono
una quantità insufficiente di C1-INH e/o un C1-INH non funzionale. Anche se il meccanismo esatto
mediante il quale il deficit da C1-INH causa l’angioedema non è stato ancora chiarito, in larga misura esso
deriva da una attivazione errata e non inibita del Sistema Chinina Callicreina (SCC). Senza un adeguato C1-
INH, l’attivazione non inibita del SCC durante un attacco di HAE porta ad un'eccessiva produzione di
chinine, soprattutto di bradichinina. La bradichinina è un potente, anche se non esclusivo, mediatore
terminale della permeabilità vascolare durante un attacco di HAE. Nel SCC, la precallicreina è convertita in
callicreina da parte del FXIIa sulla superficie di contatto o da parte del FXIIf a livello del plasma, il C1-INH
è il principale inibitore di FXIIa riducendo, quindi, l’attivazione di callicreina. Poiché la callicreina è
l’enzima che permette il rilascio della bradichinina dal chininogeno ad alto peso molecolare (HMWK),
l’inibizione da parte del C1-INH previene la formazione di bradichinina a valle. Per cui nel caso di una
carenza di C1-INH viene rilasciata una quantità di bradichinina sensibilmente maggiore di quella necessaria.

Porpora di Schönlein-Henoch ! è una vasculite da deposizione di immunocomplessi contenenti IgA. È


pertanto una reazione di ipersensibilità di tipo III. Questa infiammazione colpisce solitamente i piccoli vasi
sanguinei della cute, dell’intestino e dei reni.
Si tratta di una vasculite leucocitoclastica, una forma di vasculite dei piccoli vasi, caratterizzata da
frammentazione dei nuclei dei neutrofili. È dovuta al fatto che il complemento si attiva per riuscire a
eliminare gli immunocomplessi.
La sede in cui gli immunocomplessi circolanti nel sangue vengono normalmente eliminati è la milza o il
fegato. I globuli rossi presentano sulla loro superficie il recettore per il complemento CR1, con il quale
legano gli immunocomplessi che presentano C3b e li trasportano ai fagociti presenti in particolare nel fegato
e nella milza, per poi ritornare alla circolazione generale.
Nel caso di questa malattia, l’attivazione del complemento indotta dagli immunocomplessi trasportati dai
globuli rossi porta a lisi delle emazie e a segni di carattere emorragico.

Sindrome emolitico‐uremica → la HUS (dall'inglese Hemolytic-Uremic Syndrome) è una sindrome in cui, nel
90% dei casi, un'infezione da E. coli provoca tramite una tossina un danno endoteliale (principalmente a
livello del glomerulo) e un'attivazione piastrinica (con successivo consumo). In una minor parte dei casi
questi effetti possono essere provocati da alterazioni congenite del complemento, come la mancanza
dell'inibitore di C3b (iC3b) e pertanto si ha danno vascolare. E' pertanto caratterizzata dall'associazione di
manifestazioni patologiche a carico del sangue e dei reni, quali l'anemia emolitica, la trombocitopenia (anche
detta piastrinopenia) e l'insufficienza renale acuta.

Ci sono una serie di malattie, caratterizzate da scarsità di piastrine, cioè trombocitopenia, che insorgono in
persone che non hanno problemi a livello del midollo osseo, con i megacariociti che sono normali. Alcune
trombocitopenie sono dovute ad alterazione del complemento, oppure all’autoimmunità.
La porpora trombocitopenica idiopatica (PTI) o morbo di Werlhof, è una malattia autoimmunitaria
acquisita, ad eziologia ignota, a patogenesi immune, caratterizzata da piastrinopenia dovuta a distruzione
periferica delle piastrine. È conosciuta anche come porpora trombocitopenica autoimmune (PTA). La
piastrinopenia è legata alla attività di immunogobuline che si comportano come auto-anticorpi; si fissano
specificamente alla membrana piastrinica riconoscendone antigeni di membrana. I macrofagi poi possedendo
i recettori per il frammento Fc delle immunoglobuline catturano, fagocitano e digeriscono le piastrine
circolanti ricoperte dagli autoanticorpi. Ciò porta alla piastrinopenia per una loro aumentata distruzione.

Il complemento gioca il suo ruolo anche nel rigetto degli xenotrapianti. Abbiamo tre tipi di rigetto, uno
iperacuto, uno acuto e uno cronico. Il rigetto degli xenotrapianti è iperacuto, e si attua in modo estremamente
rapido. Ad esempio, se si prende il cuore di una scimmia, quando viene trapiantato in un uomo, c’è una
reazione immediata, detta rigetto iperacuto per attivazione del complemento. Il complemento riconosce lo
xenotrapianto come un corpo estraneo, in quanto esistono degli anticorpi (che tutti possediamo), e che sono
specie-specifici, detti ‘xenoreactive natural antibodies’ (XNA) rivolti a degli zuccheri dell’endotelio o delle
cellule non umane, perché sono anticorpi diretti contro il galattosio. C’è infatti un enzima, una
galattosiltransferasi, che noi non abbiamo, ma hanno ad esempio la scimmia e il maiale; questo enzima pone
il galattosio sulle proteine di superficie. L’uomo produce anticorpi contro tali antigeni (indotti ad esempio da
contatti di natura alimentare con l’antigene), per cui quando entriamo in contatto con un organo che ha
galattosio sulla superficie (come nel caso del maiale o della scimmia) gli anticorpi in circolo lo vedono, e
automaticamente formano un complesso e attivano il complemento. Questa è una reazione acutissima che
dopo pochi minuti determina necrosi massiva da attivazione del complemento di tutto il trapianto. In futuro
forse si potrà fare un trapianto di cuore, fegato e altri organi da un animale all’uomo, tramite tecniche di
ingegneria genetica, in modo da eliminare gli antigeni riconosciuti dagli anticorpi naturali negli
xenotrapianti. Nel caso del galattosio, si potrebbero allevare animali knock-out per la galattosidasi. Infatti, se
si prende il cuore di un maiale che non ha più questo enzima, il rigetto è più lento.
In futuro quindi si ipotizza di far esprimere nel maiale un complemento umano (per fare in modo che
l’organo che si sviluppa non sia riconosciuto da esso), e nel contempo silenziare il gene della galattosidasi.

Le malattie autoimmuni spesso presentano anch’esse un’eccessiva attivazione del complemento. Tutte le
malattie autoimmuni sono dovute a reazioni immunitarie contro antigeni self. Posto che le malattie
autoimmuni derivino da un'alterata e dannosa risposta verso il proprio organismo, sono ancora poco chiari i
fattori determinanti nel provocare questo tipo di condizione patologica o nel renderla stabile nel tempo. Gli
autoanticorpi possono generarsi per erronea selezione linfocitaria.
Le malattie autoimmuni possono avere una varia e vasta sintomatologia: possono causare anemie, poliartriti,
lupus, vasculiti o osteoartriti. Esse sono caratterizzate da una serie di anticorpi contro vari costituenti
cellulari o della matrice. Nel lupus eritematoso sistemico si producono autoanticorpi contro proteine del
nucleo.
Gli autoanticorpi sono la causa o la conseguenza della malattia autoimmune? Forse sono una conseguenza.
Parte della loro tossicità è dovuta all’attivazione del complemento, che danneggia i vasi e determina
infiammazione, attraverso un circuito in cui sono coinvolti i mediatori dell’infiammazione. In alcune malattie
autoimmuni, si può avere la formazione del MAC a livello delle cellule endoteliali.

Proteine della fase acuta


Se l'infiammazione è particolarmente intensa o interessa un'area molto estesa di tessuto possono instaurarsi le
cosiddette risposte di fase acuta, che comprendono:
• Febbre
• Sintesi epatica delle proteine di fase acuta (es. PCR: proteina C reattiva)
• Alterazioni metaboliche (es. cachessia)

Le proteine della fase acuta sono una classe di proteine la cui concentrazione plasmatica aumenta (proteine
della fase acuta positive) o diminuisce (proteine della fase acuta negative) in seguito all’infiammazione.
Questa risposta è anche chiamata reazione o risposta della fase acuta.
Le proteine della fase acuta sono mediatori dell’infiammazione prodotti dal fegato determinando risposta
sistemica all’infiammazione. Vari mediatori dell’infiammazione, come l’istamina e varie interleuchine,
attivano il fegato a produrre le proteine della fase acuta.
I geni che vengono attivati in questo processo hanno al 5’ delle zone regolative comuni. L’attivazione di
NFkb, C/EBP e p53 sono tutti indotti da segnali di stress. Ogni volta che stressiamo una cellula, tutti i geni
coinvolti hanno a monte zone che sentono lo stress. Ad esempio, l’NFkb è indotto dalle interleuchine o
citochine, p53 è attivato dalla rottura o danno al DNA, mentre l’aumento dei radicali attiva proteine come il
C/EBP.
I sintomi sistemici dell’infiammazione più importanti sono: leucocitosi (aumento dei leucociti nel sangue,
che effettuano la chemiotassi e la fagocitosi), febbre, aumento della velocità di sedimentazione degli
eritrociti (VES), attivazione del complemento, aumento di ACTH e glicocorticoidi, variazione della
concentrazione di alcune proteine plasmatiche, aumento del fibrinogeno, diminuzione di ferro.
L’aumento della velocità di sedimentazione degli eritrociti è un indice molto utile per verificare se ci sono
processi infiammatori in corso. Durante la fase acuta infatti aumenta la sintesi di fibrinogeno. Il fibrinogeno
si lega ai globuli rossi, causando la formazione di accumuli di eritrociti (rouleaux) che sedimentano più
rapidamente rispetto agli eritrociti isolati. Questo concetto è alla base dalla misurazione della velocità di
eritrosedimentazione (VES), usata come semplice esame della risposta infiammatoria sistemica causata da
qualsiasi tipo di stimolo.
Le proteine della fase acuta positive sono la PCR, SAA, SAP, Fibrinogeno, e sono quelle che tendono ad
aumentare; al contrario albumina, prealbumina e transferrina tendono a diminuire, e sono pertanto definite
proteine della fase acuta negative.

Durante la fase acuta, tutto il metabolismo del ferro si modifica (abbiamo minor apporto di ferro), e ciò serve
a limitare la crescita batterica, dato che i batteri ne dipendono. Abbiamo infatti una diminuzione della
transferrina. Un’altra proteina coinvolta nel metabolismo del ferro è l’epcidina. L'epcidina è un ormone
peptidico prodotto dal fegato, e sembra essere il principale regolatore dell'omeostasi del ferro, sia nell'uomo
che in altri mammiferi. Essa infatti inibisce l’entrata del ferro attraverso l’intestino. L'epcidina inibisce
direttamente la ferroportina, una proteina transmembrana che trasporta il ferro fuori dalla cellula. La
ferroportina è presente nei macrofagi e nella membrana basale degli enterociti duodenali. Inibendo la
ferroportina, l'epcidina inibisce il rilascio di ferro nel sangue da parte degli enterociti, riducendo quindi
l'assorbimento del ferro. Inoltre inibendo anche la ferroportina macrofagica inibisce anche il rilascio in
circolo del ferro già presente nell'organismo. Il legame dell’epcidina con la ferroportina induce degradazione
di quest’ultima. La riduzione del ferro può comportare anemia.

La PCR e la SAP fanno parte delle pentraxine, così chiamate a causa del fatto che i primi membri scoperti
presentavano una struttura radiale con cinque subunità. Le pentraxine fungono da opsonine. I ligandi di CRP
e SAP sono rispettivamente fosforilcolina e fosfatidiletanolammina.
Le citochine attivano gli epatociti a fare la PCR (proteina C reattiva). Durante la fase acuta, i livelli di PCR
aumentano rapidamente entro le prime 2 ore dall’insulto, raggiungendo un picco alle 48 ore. La sua
misurazione, insieme quella della VES, può rivelarsi molto utile in caso di sospetto di stati infiammatori di
origine infettiva e di alcune malattie infiammatorie quali l'artrite reumatoide o il lupus.
L’aumento di PCR può anche essere dovuto a condizioni non infiammatorie in cui c’è aumento di leucociti
(come in alcune leucemie). Misurando i livelli di PCR, possiamo rilevare l’entità dello stimolo citochinico
(infiammatorio o neoplastico). La PCR aumenta molto anche nell’infarto. Addirittura qualcuno sostiene che
anche prima dell’infarto la PCR può aumentare, se c’è un’infiammazione da batteri o della placca
aterosclerotica.
La proteina SAP (siero amiloide P) è simile alla PCR. Persone che hanno infiammazioni croniche, oltre a
essere anemici per via dell’alterato metabolismo del ferro, possono presentare piccole formazioni di amiloide
per aumentata produzione del precursore.
Le infiammazioni croniche hanno alti livelli di PCR e alti livelli del precursore dell’amiloide, ma la
differenza tra le due è che l’amiloide precipita, soprattutto quando è soggetto a proteolisi. L’accumulo
dell’amiloide avviene nel fegato, nel cervello e nel cuore e può essere un segno devastante di infiammazioni
cachettiche, cioè che portano all’alterazione del metabolismo, così gravi che diventano indipendenti dallo
stimolo iniziale.

La proteina SAA (siero amiloide A) è una proteina della famiglia delle apolipoproteine associate con le HDL.
Differenti isoforme di SAA sono espresse costitutivamente (SAA costitutive) o a differenti livelli in risposta
a stimoli infiammatori (SAA dello stato acuto). Sono prodotte perlopiù nel fegato.
Le SAA della fase acuta sono secrete durante la fase acuta dell’infiammazione. Queste proteine svolgono
diversi ruoli, tra cui il trasporto del colesterolo al fegato per la secrezione della bile, il reclutamento delle
cellule dell’immunità nei infiammatori, e l’induzione di enzimi che degradano la matrice extracellulare.

PATOLOGIA 12-11-12 prof. Avvedimento parte 1 e 2

FEBBRE
Omeotermia ed ectotermia
L’uomo è in grado di controllare la temperatura, e questo processo si chiama omeotermia. L'omeotermia è
dunque la condizione caratteristica di quegli animali in grado di mantenere costante la propria temperatura
corporea che, entro determinati limiti, risulta indipendente da quella dell'ambiente fisico circostante;
conseguentemente gli animali omeotermi riescono ad avere un metabolismo veloce anche a basse
temperature.
Tutti gli animali ectotermici (pesci, rettili e anfibi) hanno una temperatura corporea che dipenda da quella
esterna, e dunque non hanno un comportamento omeotermico; ciò non significa che essi non adottino
strategie per regolare la temperatura corporea: si tratta però soprattutto di modifiche comportamentali
(esposizione al sole, ricerca del riparo durante la notte), o di riduzione del metabolismo (letargo,
brachicardia). La termoregolazione degli animali ectotermici è chiamata pecilotermia, o anche
poichilotermia (dal greco poikilos = variazione; termos = calore).
L’uomo, come tutti i mammiferi, ha invece un controllo della temperatura corporea che si chiama
omeotermia. Nell’omeotermia, per mantenere la temperatura ad un certo valore, che è molto più ristretto
rispetto a quello degli animali ectotermici (che va anche da 15°C a 35°C), viene sfruttata l’energia del
metabolismo basale. L’omeotermia è una conquista nell’evoluzione molto importante, perché consente di
svolgere le proprie funzioni vitali in un range di temperatura ambientale piuttosto ampio (aumentato
dall’indossare gli indumenti), senza che si abbiano sensibili modificazioni della temperatura corporea.

Variazione circadiana della temperatura


La temperatura corporea può variare fisiologicamente (e quindi indipendentemente dalla febbre o dal colpo
di calore) da un individuo ad un altro, e nell’ambito dello stesso individuo a seconda del momento. Durante
il giorno la temperatura cicla, seguendo un ritmo circadiano; quindi, oltre alla variabilità individuale, bisogna
anche tenere conto che la temperatura corporea fluttua normalmente durante il giorno, con minimo il mattino
alle 4 e un massimo la sera alle 18. Bisogna considerare questo ritmo anche quando misuriamo la febbre::
perciò una temperatura di 37,5 °C potrebbe essere febbre il mattino, ma non nel pomeriggio. Inoltre possono
intervenire altri fattori come la digestione, l'età, l'attività fisica e, nelle donne, il ciclo mestruale (infatti il
progesterone, prodotto durante l'ovulazione, aumenta la temperatura da 0,3 a 0,6 °C). Bisogna poi
considerare anche la variazione di temperatura che può essere indotta da eventuali terapie farmacologiche.
Proprio per la riduzione notturna della temperatura è importante, per chi rimane sveglio di notte, accumulare
energia e compiere lavoro.
Questo ciclo circadiano è un ciclo di adattamento alla luce, ed è dovuto in particolare a due motivi:
• ormoni tiroidei ! aumentano il metabolismo basale e il catabolismo. Infatti si può notare che chi
soffre di ipertiroidismo è solitamente magro, tachicardico ed ha una temperatura basale più alta a
causa sell’aumentato metabolismo basale.
• Ipotalamo ! funziona come rilevatore della temperatura corporea, e ne regola l’omeostasi.

Il centro di controllo omeostatico della temperatura corporea si trova nell’ipotalamo, e da questo dipende il
ritmo circadiano. Questo ritmo circadiano dipende dall’alternanza del giorno e della notte: durante il giorno
aumentiamo la temperatura, in quanto c’è bisogno di stare allerta, e inoltre si tratta del periodo più propizio
per svolgere determinate funzione (come cacciare e procacciarsi il cibo). Di notte invece la temperatura si
abbassa leggermente.
Il normale ciclo circadiano è di 24 ore; in particolari condizioni possiamo però anche avere un ciclo di 6-12
ore, ad esempio durante l’ovulazione o durante alcune malattie. In questi casi c’è un qualcosa che manda dei
segnali all’ipotalamo. Anche la febbre è data da un segnale che agisce sull’ipotalamo.

Regolazione della temperatura corporea


L’ipotalamo funge sia da termometro (è capace, tramite le afferenze centrali e periferiche, di stabilire la
temperatura media corporea) che da termostato: l’ipotalamo presenta infatti un set point di temperatura; se
la temperatura corporea supera o è inferiore a questo set point, grazie ai sistemi di controllo efferenti (che si
concretizzano nei processi di termo produzione e termodispersione) è capace di regolare la temperatura
corporea e riportarla ai valori ottimali.
I più semplici meccanismi di raffreddamento (termodispersione) dell’uomo sono la vasodilatazione periferica
e la sudorazione. La vasodilatazione periferica aumenta il flusso di sangue che raggiunge la cute, e ciò
aumenta notevolmente lo scambio di calore fra il sangue e l’ambiente; la vasodilatazione è anche il motivo
per cui un individuo che deve disperdere calore arrossisce. La sudorazione consiste invece nel far evaporare
l’acqua; l’evaporazione sottrae infatti energia termica alla cute.
Esistono poi dei meccanismi che riscaldano il corpo generando calore (termogenesi): abbiamo
vasocostrizione periferica (e quindi ridotto scambio termico fra il sangue e l’ambiente), ci sono i brividi (che
generano calore grazie alla contrazione muscolare simultanea dei muscoli agonisti e antagonisti) e inoltre c’è
l’erezione dei muscoli del pelo. Quest’ultimo meccanismo non è molto importante per l’uomo, ma è molto
utilizzato da alcuni animali: la contrazione simultanea di tutti i peli, in modo che diventaino eretti e
perpendicolari alla superficie corporea, abbassa la turbolenza dell’aria ed isola la pelle dall’ambiente esterno.
Bisogna quindi tener presente che all’ipotalamo è collegato un sistema di raffreddamento e un sistema di
riscaldamento, e che può essere attivato un sistema o l’altro a seconda di quanto la temperatura corporea si
discosta dal set point. Questo sistema è regolato, oltre dalle afferenze periferiche e centrali (che informano
l’ipotalamo sulla temperatura corporea media), anche da ormoni, dall’attività fisica, dal cibo. Il set point
ipotalamico infatti non è fisso, ma subisce variazioni e può essere regolato da fattori sia esogeni che
endogeni.

Il centro di controllo ipotalamico è collegato ai due sistemi di aumento o diminuzione di temperatura. Nella
regione preottica ipotalamica ci sono i neuroni che controllano la temperatura corporea. Le alterazioni di
questi neuroni possono produrre la febbre.
L’area preottica, oltre all’attività di controllo della temperatura corporea, partecipa anche alla regolazione del
ritmo sonno-veglia, ed è anche coinvolto in attività legate alla vita sessuale e riproduttiva.
Quando si fa una sauna, questo centro funziona normalmente, la sensibilità dei neuroni è normale e il set
point è di 37°, ma la temperatura esterna è troppo alta perché i normali sistemi di termodispersione riescano a
dissipare tutto questo calore in eccesso. Inoltre il corpo riceve il segnale dell’ipotalamo che deve raffreddarsi,
abbiamo abbondante sudorazione e perdita di acqua; se si perde troppa acqua diminuisce la pressione e si
può andare incontro a lipotimia, e quindi a svenimento e collasso.
La febbre costituisce un'ipertermia, che si distingue dalle ipertermie non febbrili per il suo particolare
meccanismo patogenetico, che consiste in un'alterazione funzionale reversibile dei neuroni dei centri
regolatori ipotalamici (ovvero del cosiddetto set point ipotalamico), innescata da diverse citochine in
numerose condizioni patologiche. L'alterazione funzionale dei centri consiste in un innalzamento della soglia
di riconoscimento della temperatura di riferimento, per cui i neuroni avvertono come temperatura di
riferimento non più quella geneticamente determinata (37 °C) ma una temperatura superiore a questa. Il
suddetto slittamento determina l'innesco di risposte termoconservative e termodispersive non più quando la
temperatura corporea si abbassa al di sotto o si alza al di sopra dei 37 °C, ma a temperature superiori.
Dunque la differenza fondamentale tra ipertermia e febbre è che nell’ipertermia non c’è variazione del set
point ipotalamico, variazione che invece è presente nella febbre. Per cui, su una persona che ha avuto un
colpo di calore si interviene raffreddandola; infatti se il soggetto non viene tempestivamente raffreddato può
anche morire. Questo trattamento non è invece consigliato per una persona con la febbre; per la febbre
inoltre la causa non è esterna (come nel colpo di calore), ma interna, quindi il raffreddamento non risolve il
problema.

Risposte coordinate che possono risentire di influenze centrali ! Lo starnuto non è controllato
dall’ipotalamo, ma dal midollo allungato. Lo starnuto (che può derivare dall’epitelio del naso attraverso il
trigemino) modifica i muscoli respiratori, facciali e le ghiandole lacrimali. Anche la tosse è controllata da un
centro nel midollo, ma può essere modificata dal vago a va a finire sui muscoli respiratori.

La febbre
La febbre o piressia è un segno clinico; si definisce come uno stato patologico temporaneo che comporta
un'alterazione del sistema di termoregolazione e una conseguente elevazione della temperatura corporea al di
sopra del valore considerato normale (circa 37 gradi Celsius per gli esseri umani in condizioni basali). Si
distingue dall’ipertermia, che invece è uno stato dovuto a fattori esogeni che comporta l'aumento della
temperatura corporea senza variazione della attività di termoregolazione. La febbre può essere indotta da
numerosi processi patologici innescati da stimoli endogeni o esogeni.

Il principale sintomo sistemico dell’infiammazione è la febbre; essa può insorgere indipendentemente da chi
o da cosa induce la lesione. Si tratta di una risposta generale, sistemica, invariante, e conservata
nell’evoluzione. La febbre comporta un aumento di temperatura; bisogna però distinguere l’aumento di
temperatura indotto dalla febbre e quello causato da un colpo di calore. Una persona che ha un colpo di
calore non ha la febbre, ma ha semplicemente superato la capacità fisiologica di regolare la temperatura, e
non riesce più tramite la termodispersione a mantenere il corpo ad una temperatura ottimale.

La causa della febbre sono i pirogeni; per pirogeno si intende un agente di natura chimica o biologica che,
introdotto nell'organismo, provoca l'innalzamento della temperatura. I pirogeni quindi comprendono tutti i
mediatori chimici che sono in grado di indurre la febbre in quanto vanno a modificare la sensibilità della
temperatura (e dunque il set point) nei neuroni del nucleo sopraottico. Possono essere sia sostanze endogene
che esogene.
Nella maggioranza dei casi i pirogeni non sono prodotti in periferia per poi attraversare la barriera emato-
encefalica, ma in loco; infatti prostaglandine ed interleuchine non passano facilmente la barriera, e ciò
permette di evitare gravi infiammazioni cerebrali ogni volta che questi mediatori sono rilasciati in circolo.
C’è infatti un coordinamento cervello-periferia molto efficiente nelle infiammazioni: i nervi contenenti fibre
afferenti sensitive, come il trigemino, possono sentire i neuropeptidi rilasciati durante l’infiammazione (ad
esempio l’istamina), e ciò può causare la sensazione di prurito o di dolore. Quando questi neuroni sono
attivati, si ha il riflesso antidromico, che si istituisce a minuti o ore dal riflesso normale, ed è uno dei
fenomeni più precoci scatenato dall’infiammazione locale. Tramite le fibre afferenti, il centro viene
informato della presenza dell’infiammazione in una determinata zona, e il centro risponde. Dunque se c’è
qualcosa che non va, l’informazione per via afferente sale ai centri superiori, è qui sono sintetizzati
localmente i mediatori dell’infiammazione; la sintesi a livello ipotalamico di prostaglandine genera riduzione
della sensibilità dei neuroni termo sensitivi, per cui la temperatura che prima era percepita come normale
cambia, e 37°C per definizione diventa freddo.
Normalmente infatti il set point ipotalamico è impostato a 37°C; se ci esponiamo al freddo, abbiamo il
brivido, la contrazione muscolare, si produce calore e la temperatura sale; se ci esponiamo al caldo, abbiamo
risposte comportamentali (come lo spogliarsi), e si inizia a sudare. In entrambi i casi però la temperatura del
set point resta 37°C.

Le prostaglandine sono mediatori dell’infiammazione derivati dall’acido arachidonico, alla cui biosintesi
partecipano la fosfolipasi A2 e la ciclossigenasi; esse sono sostanze che grazie al loro basso peso molecolare
sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica, a differenza delle interleuchine quali IL-1, IL-6, il
TNF-α e altre ancora, che hanno dunque un’azione pirogena indiretta. Queste ultime infatti vanno ad agire
indirettamente sui neuroni ipotalamici: non sono in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, ma
hanno la capacità di attivare le cellule endoteliali dei vasi che irrorano l'ipotalamo a produrre e rilasciare
prostaglandine, in particolare PGE2, ed altri derivati dell'acido arachidonico.
Le prostaglandine giungono ai neuroni termoregolatori (situati a livello della regione preottica
dell'ipotalamo), dove legano specifici recettori (EP3) e determinano un aumento della concentrazione di
cAMP intracellulare, portando alla disregolazione del centro ipotalamico. Il centro termoregolatore, che
agisce da termostato dell'organismo umano, è ora tarato non più sui 37 °C ma su una temperatura superiore.
L'ipotalamo è quindi ‘istruito’ a mantenere una temperatura corporea più elevata.
In presenza di prostaglandine quindi i neuroni termoregolatori non riconoscono più i 37°C come temperatura
ottimale, ma come temperatura inferiore a quella ottimale; l’intero organismo comincia ad avere freddo
perché il set point si è spostato a temperature più alte, e il set point passa da 37°C, a 38, 39, 40°C. Dal
momento che il nostro corpo è a 37°C ed è abituato a regolare la temperatura a questi livelli, succede che
percepiamo freddo, come se fossimo esposti basse temperature, per cui una delle prime cose attivate dalle
prostaglandine a livello ipotalamico è il brivido, causato dallo spostamento in alto del set point.

Ad esempio, se abbiamo un’infezione dentaria, localmente vengono reclutati i linfociti, i monociti e i


macrofagi; questi leucociti attivati iniziano a produrre le citochine. L’LPS del batterio, i proteoglicani o
anche altre sostanze batteriche e dei microorganismi attivano i macrofagi e i leucociti; i leucociti
incominciano a produrre interleuchine e citochine, le citochine attivano la fosfolipasi A2, che determina il
rilascio di acido arachidonico, che viene metabolizzato dalla COX e si formano prostaglandine. Le
prostaglandine, insieme all’istamine e alle citochine, fanno aumentare i leucociti nel focolaio infiammatorio,
e si viene a formare l’essudato purulento, contenente sia batteri che leucociti.
Però questo fenomeno locale è percepito anche dalle fibre afferenti sensitive della bocca, per cui succede la
persona può avere tosse e starnutire; i mediatori dell’infiammazione inoltre possono raggiungere il
compartimento ematico, ma qui non si accumulano quando l’infiammazione è circoscritta e non è diventata
una sepsi. Però tutti i nervi afferenti (in questo caso, il trigemino) comunicano al midollo allungato che è
successo qualcosa, e si attiva la percezione del dolore, che è una delle forme di comunicazione più forti per
segnalare al centro che qualcosa non va. Nel cervello viene attivata la fosfolipasi A2, grazie alla liberazione
di neuropeptidi (come l’istamina) sia localmente ma anche a livello delle sinapsi. Il midollo e il tronco
encefalico comunicano in questo modo con l’ipotalamo, e segnalano tramite il dolore che c’è un problema. Il
dolore attiva la sintesi di prostaglandine locali, e dunque il loro livello aumenta nel sangue che circola
nell’ipotalamo. Nei neuroni ipotalamici le prostaglandine si legano ai proprio recettori, che attivano
l’adenilato ciclasi, con produzione di cAMP in quale attiva la PKA. Il neurone dell’ipotalamo alza dunque il
set point, e a questo punto 37°C diventa una temperatura fredda; se la reazione va avanti, l’individuo
comincia ad avere i brividi. Subito dopo la temperatura sale perché i muscoli si contraggono, e generano
calore scindendo ATP, e ciò si traduce nell’aumento di temperatura.
È importante sapere che l’aumento di temperatura è direttamente proporzionale alla quantità di
prostaglandine prodotte sia a livello locale sia a livello centrale. Infatti nella febbre a 40°C la produzione di
prostaglandine e di pirogeni è più elevata rispetto ad una febbre d 39°C.
La febbre è una risposta sistemica all’infiammazione. Ci possono essere anche altre risposte sistemiche: si ha
un senso di malessere generale (perché è in atto una tempesta citochinica), cambia il tono dell’umore, la
capacità di fare sforzi. Durante l’infiammazione c’è attivazione dell’immunità, che in certi casi non riesce a
debellare il patogeno o la causa di danno, e ciò provoca un vero e proprio stress, la cui gravità (a parità di
batteri e mediatori dell’infiammazione), può essere variabile da persona a persona.

Pirogeni
I pirogeni sono tutte quelle sostanze che sono in grado di provocare la febbre. Essi non necessariamente
agiscono sui neuroni termosensibili ipotalamici, ma possono attivare l’infiammazione direttamente o
indirettamente. È poi l’infiammazione ad attivare i neuroni ipotalamici.
Una prima distinzione che bisogna fare è tra pirogeni esogeni e pirogeni endogeni.
I pirogeni esogeni sono sostanze che non vengono prodotte dall’uomo, ma possono essere prodotte ad
esempio da microorganismi quali batteri e virus. I più importanti pirogeni esogeni sono l’LPS, le tossine o
anche l’antigene stesso. L’LPS, i proteoglicani agiscono tramite la via dei Toll-like receptors, per cui i TLR
sono i primi sensori dei pirogeni esogeni.
I pirogeni endogeni sono invece prodotti dall’uomo, in particolare dalle cellule dell’infiammazione,
(interleuchine, citochine, prostaglandine).
A bassi livelli di prostaglandine prodotte localmente, si proverà solo bruciore ma non verrà la febbre. Se
invece la quantità di prostaglandine è più elevata e va in circolo, ciò comporta la febbre; se poi aumenta
ancora si può avere shock. L’infiammazione scatenante la febbre può interessare qualunque parte del corpo
(dente, intestino, muscolo, pelle, ecc.).
Quando si arriva alla risoluzione dell’infiammazione acuta, la febbre si abbassa, e questo vuol dire che la
produzione di pirogeni si è ridotta. Quando una persona ha la febbre, è importante sapere da quanto tempo ce
l’ha, e le caratteristiche della febbre, perché pur essendo un sintomo di difesa aspecifico, può essere indice di
una malattia grave e può aiutare a comprendere qual è la causa.

I pirogeni esogeni o endogeni agiscono sull’ipotalamo inducendo la produzione di prostaglandine, le quali


determinano l’innalzamento della temperatura corporea (febbre). L’aspirina inibisce la ciclossigenasi, e
questa sua azione, impedendo la formazione delle prostaglandine, blocca la febbre.
Nella maggior parte dei casi la febbre si associa a infezioni a risoluzione spontanea, come le comuni malattie
virali. L'impiego di antipiretici serve in questi casi solo ad attenuare la sensazione soggettiva di disagio del
paziente, ma non accelera o facilita la risoluzione dell'infezione. Questi farmaci agiscono sul centro
termoregolatore riducendo l'elevata soglia ipotalamica, quindi sul sintomo, non sulla causa della febbre, che
andrà opportunamente trattata a parte con adeguati provvedimenti. A volte, inoltre, l'utilizzo inadeguato degli
antipiretici, può mascherare una infezione batterica trattata in modo errato.
La febbre in alcuni casi può anche essere l’unico sintomo della malattia; le patologie che causano la febbre
non sono solo legate a infezioni microbiche, ma anche a sindromi più subdole come le patologie
neoplastiche: infatti individui che hanno linfomi o leucemie possono presentare come unico sintomo una
leggera febbricola altalenante per giorni o settimane.

Fasi della febbre


La febbre si manifesta di solito in tre fasi:
• fase prodomica o fase d'ascesa: coincide con l'inizio della produzione delle prostaglandine. I neuroni
sono tarati ad una temperatura superiore ai 37 °C e innescano delle reazioni che determinano
l'aumento della temperatura corporea, come spasmi muscolari involontari (brividi), vasocostrizione,
stimolazione della tiroide (affinché venga attivato il metabolismo basale). Il soggetto ha un'oggettiva
sensazione di freddo;
• fase del fastigio o acme febbrile: dura per tutto il periodo di produzione delle prostaglandine. I
neuroni ipotalamici mantengono la temperatura sul nuovo valore. Il soggetto ha una soggettiva
sensazione di caldo, con pelle calda ed arrossata, cefalea, mialgia, oliguria, agitazione ed aumento
della frequenza cardiaca e respiratoria.
• fase di defervescenza: inizia con l'inattivazione della produzione delle prostaglandine. I neuroni
tornano ad essere tarati al normale valore di 37 °C e riconoscendo l'innalzata temperatura corporea
mettono in atto meccanismi affinché questa si abbassi (si ha l'attivazione del sistema colinergico che
causa sudorazione e vasodilatazione). La fase di defervescenza può essere graduale (defervescenza
per lisi) o immediata (defervescenza per crisi). Il soggetto ha un'oggettiva sensazione di caldo.

Tipi di febbre
Di fronte a un qualsiasi tipo di febbre, è utile effettuare quello
che viene definito studio analitico della febbre. Lo studio
analitico della febbre si effettua costruendo un diagramma
con la temperatura corporea sulle ordinate e il tempo
(giorni/ore/minuti) sulle ascisse. La febbre va misurata 3
volte al giorno; i valori vanno riportati sul grafico e poi viene
tracciato l’andamento. Si può ottenere così un pattern che può
aiutare notevolmente nell’identificare la causa della febbre, e
così capire dove intervenire.

Distinguiamo vari tipi di febbre:


a) Febbre continua
b) Febbre continua a insorgenza e remissione brusca
c) Febbre remittente
d) Febbre intermittente
e) Febbre ondulante
f) Febbre ricorrente.

La febbre continua è caratterizzata da un rialzo della T


corporea che si mantiene costantemente intorno ai 40°C; le
oscillazioni giornaliere della temperatura corporea sono
sempre inferiori ad un grado centigrado senza che venga mai raggiunta la defervescenza. È perlopiù di
carattere infettivo; la febbre continua può essere causata ad esempio da agenti microbici come il dengue (un
virus che causa febbre e rush cutaneo, e il cui vettore è rappresentato dalla zanzara Aedes albopictus, la
zanzara tigre), o da batteri.
Poi abbiamo la febbre remittente e quella intermittente, tutte e due oscillanti ma che presentano delle
importanti differenze. Nel caso della febbre remittente, il rialzo termico subisce oscillazioni giornaliere senza
però mai raggiungere la defervescenza, quindi non scende mai sotto i 37°C. La febbre intermittente invece è
caratterizzata da periodi di ipertermia che si alternano a periodi di apiressia (mancanza di febbre). Abbiamo
poi la febbre ondulante (il cui classico esempio è quella causata dalla brucellosi) nel quale il periodo febbrile
oscilla nell’ordine di 2-3 giorni, e non vi è picco rapido.
Invece la febbre ricorrente presenta un periodo febbrile che oscilla dai 10 ai 20 giorni, con bruschi rialzi e
rapide discese della temperatura.

La mononucleosi, dovuta al virus di Epstein-Barr (EBV), è caratterizzata da febbre remittente. Le cellule


bersaglio del virus sono i linfociti B (in cui può latentizzare), e la modalità di trasmissione più frequente è
attraverso la saliva. Quando in caso di immunodepressione il virus si risveglia, abbiamo l’esordio della
febbre remittente. Per diagnosticare la mononucleosi nella maggioranza dei casi possiamo dosare gli antigeni
virali e gli anticorpi prodotti. L’andamento della febbre in questo caso rivela l’andamento della produzione
delle citochine.
Un esempio esplicativo di febbre intermittente è invece quello della malaria, nella quale la diagnosi del tipo
di plasmodium che ha infettato il soggetto può essere effettuata in base al ciclo febbrile, che corrisponde al
ciclo del parassita (fase epatica e eritrocitaria); in base all'occorrenza di febbre intermittente, l'infezione da
P. falciparum è detta febbre terzana maligna, quella da P. vivax e da P. ovale è detta febbre terzana benigna e
quella da P. malariae è detta febbre quartana.
Le febbri ricorrenti, che hanno un periodo di 15-20 giorni, sono febbri subdole; esse sono caratteristiche di
una grave patologia, il linfoma di Hodgkin, i cui si ha attivazione dei linfociti e vi è un repentino aumento di
citochine, con la genesi di un falso segnale d’infiammazione; in questa patologia la febbre è inizialmente il
primo e unico sintomo. La febbre causata dal linfoma di Hodgkin è anche detta febbre di Pel-Ebstein; la
caratteristica di questo tipo di febbre è di avere periodi relativamente lunghi, circa due settimane, di febbre
alta, seguiti da altrettanti giorni di remissione. Questo andamento può proseguire ciclicamente per mesi.
La brucellosi invece si manifesta come febbre ondulante.

La febbre reumatica è caratteristica del passaggio da infiammazione acuta ad infiammazione cronica; alcune
infezioni, in particolari quelle causate da streptococchi piogeni, possono indurre una massiva produzione di
anticorpi diretti contro la proteina M della parete cellulare (proteina con capacità antifagocitaria che
determina la diversità antigenica; permette di distinguere infatti più di 100 sierotipi di S. pyogenes). Questi
anticorpi cross-reagiscono con alcune proteine endogene, come la miosina del sarcolemma e con alcuni
derivati dell’acido ialuronico, e possono dare vita a forme subdole di endocarditi (in quanto vengono
riconosciute come estranee le valvole cardiache ricche in acido ialuronico e collageno), e quindi non sono
facilmente diagnosticabili se non quando la valvola è già estremamente danneggiata; in questa patologia
sono frequenti rialzi febbrili serali con dolorabilità alle articolazioni e ai muscoli. Nella forma più grave
questa patologia può dar vita ai noduli di Aschoff; si tratta di un’alterazione infiammatoria granulomatosa,
perivascolare a focolaio, patognomonica della febbre reumatica acuta. È formata da una zona centrale di
degenerazione fibrinoide, da una infiltrazione cellulare periferica con linfociti, plasmacellule e grandi cellule
a citoplasma basofilo, alcune delle quali multinucleate (cellule di Aschoff). I noduli sono localizzati
soprattutto nel tessuto interstiziale del miocardio in prossimità di un'arteriola coronarica.

La febbre mediterranea familiare (FMF) è una malattia genetica caratterizzata da ricorrenti attacchi di
febbre, accompagnati da dolori addominali, al torace e/o alle articolazioni con gonfiore. Generalmente la
malattia interessa persone originarie della zona del mediterraneo e del medio oriente, cioè Ebrei, Turchi,
Arabi e Armeni. FMF è una malattia genetica. Il gene responsabile è il gene MEFV (febbre mediterranea),
che codifica per una proteina chiamata pirina (o marenostrina); anche se la funzione della pirina non è ancora
completamente conosciuta, è altamente probabile che consista nel mantenere il processo infiammatorio sotto
controllo. Delle ricerche indicano che la pirina aiuta a regolare l’infiammazione interagendo col
citoscheletro. La pirina potrebbe dirigere la migrazione delle cellule bianche del sangue verso i siti di
infiammazione, e terminare o rallentare la risposta infiammatoria quando non è più necessaria. Dunque la
pirina ha un ruolo importante nell’abbassamento dell’infiammazione. Se questo gene presenta una mutazione
(come nel caso della FMF), la riduzione del processo infiammatorio non avviene nel modo corretto, ed il
paziente ha degli attacchi febbrili. La FMF può determinare la formazione di amiloidosi (soprattutto a livello
renale), in quanti questa malattia comporta la continua attivazione della fase acuta e delle proteine
caratteristiche di tale fase.

L’ipertermia maligna è una sindrome ereditaria rara, ma potenzialmente mortale. Frequentemente l’evento
scatenante un attacco di ipertermia maligna per i pazienti geneticamente predisposti alla patologia è la
somministrazione di farmaci usati per indurre un’anestesia generale; spesso le persone affette non sanno di
esserlo, e quindi l’esordio della patologia può essere molto pericoloso. Dopo somministrazione di anestetico
(ad esempio l’alotano), la temperatura sale nel giro di pochi minuti fino a 45°C.
Sulla membrana del REL dei miociti sono presenti canali del calcio, che sono i responsabili della contrazione
muscolare. Il canale della rianodina (Ryr), che permette il passaggio del calcio dal reticolo al sarcoplasma, è
mutato in questi pazienti, e presenta un’aumentata permeabilità al Ca++. Questo evento determina la rapida e
contemporanea contrazione di tutti i muscoli striati. Il canale mutato è stimolato dagli anestetici; e questo
determina rabdomiolisi (necrosi sub-acuta a carico dei muscoli striati; testimoniata dall’aumento di enzimi
quale lattico deidrogenasi). L’ipertermia maligna può essere curata tramite somministrazione di Dandrolene
sodico, che inibisce il canale Ryr1, e dunque blocca il rilascio di calcio dal reticolo.
L’apertura dei Ryr1 determina massivo rilascio di calcio dal REL, con contrazione massiccia e generalizzata
dei muscoli, che causa aumento della temperatura; inoltre anche il processo di ricaptazione dell’eccesso di
calcio (mediato da pompe attive ATP-dipendenti) consuma una quota importante dell’ATP cellulare, e
contribuisce alla produzione di calore.
Ci sono tre malattie che presentano un quadro clinico molto simile all’ipertermia maligna:
• Sindrome neurolettica ! classica dei malati trattati con antipsicotici, i quali hanno come effetto
collaterale l’inibizione del rilascio della dopamina; quindi i pazienti affetti presentano
parkinsonismo, e se il dosaggio di antipsicotici è troppo elevato, questi possono dal luogo a
contrazioni spastiche diffuse.
• Tireotossicosi ! condizione in cui vi è un eccesso di ormoni tiroidei nell'organismo.
• Feocromocitoma ! tumore generalmente benigno che origina dalle cellule cromaffini. Il tessuto
cromaffine ha la capacità di sintetizzare e immagazzinare le catecolamine. Questi tumori possono
determinare aumento del rilascio di serotonina, che può generare sintomi di infiammazione acuta
diffusa.

Percezione dell’infiammazione nel SNC


Le citochine prodotte dal focolaio infiammatorio possono aggiungersi a quelle prodotte nel sistema nervoso
centrale, ma nella maggioranza dei casi non attraversano la barriera ematoencefalica (anche se sembra che in
alcune zone la barriera ematoencefalica sia più permeabile a tali fattori, come a livello del plesso coroideo,
una struttura presente all'interno dei ventricoli cerebrali dove viene prodotto il liquido cefalorachidiano).
Pertanto ci sono altri modi con cui principalmente il SNC è informato di un’infiammazione che è in corso
localmente in periferia.

Il nervo vago è un nervo sia afferente (sensitivo) che efferente (motorio). La parte afferente, sensitiva,
raccoglie gli stimoli sensoriali, ma anche gli stimoli nocicettivi, grazie a dei peptidi rilasciati localmente. Nel
momento in cui succede qualcosa all’organo (pelle o organi interni), il messaggio viene ricevuto prima dal
tronco encefalico (che genera la tosse e altri riflessi coordinati), e poi raggiunge degli specifici neuroni
dell’ipotalamo; in questi neuroni sono presenti i cosiddetti recettori nicotinici dell’Ach sensibili all’α-
bungarotossina (l’α-bungarotossina è un antagonista selettivo dei recettori nicotinici tipo α7 presenti a livello
cerebrale). A questi neuroni viene comunicato quello che succede in periferia.
Un importante mediatore infatti è proprio l'acetilcolina. Essa è in grado di comunicare attraverso il nervo
vago con diversi organi, ed è in relazione anche alle cellule del sistema reticoloendoteliale. Le terminazioni
vagali rilasciano acetilcolina, che inibisce la sintesi di TNF-α. L'adrenalina invece, a concentrazioni elevate
favorisce la produzione TNF-α, altrimenti può inibirlo. Il TNF-α che si libera localmente (a seguito di stimoli
molto forti quali l'ischemia) stimola le terminazioni nervose afferenti; questo è uno dei meccanismi principali
con cui il SNC viene sensibilizzato.
Il cervello, direttamente (tramite le fibre nervose afferenti) o indirettamente (tramite il rilascio di mediatori)
tende a sentire l’infiammazione, e può poi anche influenzarla.
La microglia sintetizza numerose citochine a livello del SNC. Studi recenti hanno dimostrato che a livello
sinaptico sono presenti dei contatti diretti tra sistema nervoso e cellule dell’immunità innata e adattativa.
Anche i PAMP (e quindi non solo i mediatori dell’infiammazione endogeni, ma anche quelli esogeni) sono
in grado di stimolare il vago.
Alcuni esperimenti hanno rilevato che la stimolazione del vago e di alcuni centri cerebrali che comunicano in
periferia tramite il vago può cambiare la quantità di mediatori dell’infiammazione periferica.

La barriera ematoencefalica è impermeabile alla maggior parte delle sostanze; essa è costituita dalle cellule
endoteliali che presentano un numero elevato di tight junction. Per attraversare la barriera ematoencefalica è
necessario effettuare processi di endocitosi o transcitosi.
Però a livello del plesso coroideo, che si trova all’interno dei ventricoli cerebrali, sono presenti molti vasi, e
ciò facilita lo scambio fra cervello e compartimento ematico. In questa zona probabilmente è possibile il
passaggio delle citochine prodotte in periferia dai macrofagi e dai monociti, che possono quindi raggiungere
l’ipotalamo.

Un’ulteriore via per informare il cervello di un’infiammazione in corso consiste non nel trasferire
fisicamente la citochina prodotta perifericamente, bensì l’informazione da essa veicolata; infatti ci sono dei
recettori a livello dei vasi cerebrali che rilevano queste citochine e trasducono il segnale, tramite la
produzione di prostaglandine.
Ancora i mediatori dell’infiammazione periferici possono raggiungere il cervello tramite un meccanismo
assimilabile alla transcitosi, in cui le cellule endoteliali della barriera prendono dalla superficie apicale delle
sostanze anche complesse (come le proteine) e le portano verso la porzione basolaterale. Infatti se si
utilizzano citochine marcate, qualche volta le possiamo ritrovare non solo a livello del plesso coroideo, ma
anche in altre zone del cervello, senza che questo significhi che ci sia un’encefalite, ovvero infiammazione
acuta del cervello. Quest’ultimo meccanismo però ha probabilmente un ruolo marginale.

PATOLOGIA 13-11-12 prof. Avvedimento

INFIAMMAZIONE CRONICA
Nell’infiammazione acuta abbiamo alcuni specifici mediatori, e il principale effettore cellulare coinvolto è il
leucocita polimorfonucleato, che nell’infiammazione cronica è sostituito dai monociti e macrofagi. I
monociti circolano nel sangue, ma escono dal compartimento ematico quando c’è l’infiammazione e sono
richiamati dai mediatori nel focolaio infiammatorio; questo è un processo che capita normalmente anche per
i linfociti e altri leucociti circolanti, che attraversano più volte il corpo col sangue e la linfa per poi fermarsi
quando sono richiamati nei focolai infiammatori.
Esistono delle differenze tra i monociti circolanti nel sangue e i macrofagi tissutali. Abbiamo infatti un
cambiamento delle’espressione genica. La cosa più evidente che accade nei macrofagi tissutali rispetto ai
monociti è che il nucleo tende a condensarsi e il citoplasma si ingrandisce e presenta delle vescicole; il
macrofago quando è attivato comincia a fagocitare e può anche accumulare lipidi.

Durante l’infiammazione, in una prima fase abbiamo l’attivazione dei polimorfonucleati, mentre nella
seconda fase (infiammazione prolungata) si passa dai polimorfonucleati ai macrofagi. Il passaggio dalla
prima alla seconda fase è chiamato anche shift-mononucleare, perché si passa dal polimorfonucleato al
monocita, che opportunamente stimolato evolve in macrofago.
Questa transizione è orchestrata dalle citochine; l’infiammazione da acuta diventa subacuta e poi cronica, i
mediatori dell’infiammazione continuano a essere prodotti. I mediatori dell’infiammazione acuta e di quella
cronica sono in parte sovrapponibili; ad esempio l’IL-6 mantiene il macrofago attivo. Inoltre l’IL-6
autoamplifica l’infiammazione, inducendo la trascrizione del suo stesso gene o di altre citochine.
In un normale individuo, se lo stimolo che ha causato l’infiammazione è rimosso, si riduce la quantità di
citochine proinfiammatorie (come IL-1 e IL-6), grazie anche al contemporaneo aumento di citochine
antiinfiammatorie, e l’individuo guarisce. Al contrario, nell’infiammazione cronica, lo stimolo che ha
determinato l’infiammazione non è eliminato, ma rimane.
A questo punto le cellule dell’infiammazione cominciano a cambiare; si passa dalle cellule caratteristiche
dell’infiammazione acuta (i polimorfonucleati) alle cellule dell’infiammazione cronica: monociti/macrofagi,
linfociti, e anche le plasmacellule (che sono linfociti B attivati che sintetizzano anticorpi), mentre mancano o
comunque si riducono i polimorfonucleati (così chiamati perche hanno un nucleo polilobato, a differenza dei
monociti/macrofagi che presentano un nucleo compatto).

Le cellule di Langhans sono cellule giganti multinucleate che si trovano nei granulomi, soprattutto in quelli
causati dal micobatterio tubercolare. Se vengono rilevate, sono un segno distintivo dell’infiammazione
cronica. Queste cellule sono date dalla fusione di macrofagi attivati; si possono ritrovare anche attorno a
corpi estranei, come nel caso di un corpo denso dimenticato dal chirurgo durante un’operazione. Il corpo
denso induce infiammazione acuta, e in seguito viene circondato dai macrofagi; se si tratta di un corpo
piccolo, viene inglobato dal macrofago, ma se è troppo grande per essere fagocitato dal macrofago, più
macrofagi si fondono per cercare di inglobare il corpo.
Quindi quando si osserva cellule multinucleate attorno ad un materiale denso che non è cellulare, ciò indica
che si sta formando o si è formata una struttura caratteristica dell’infiammazione cronica, che prende il nome
di granuloma. Ci sono alcune malattie che sono caratterizzate dalla presenza di questi granulomi, che in
molti casi possono essere persistenti e non venire risolti. Una classica malattia in cui sono presenti i
granulomi e la tubercolosi; in questo caso i granulomi si formano proprio perché i macrofagi non riescono ad
eliminare bene i micobatteri. Oggi, a differenza di qualche anno fa, si è inoltre sviluppata una notevole
resistenza di questi bacilli nei confronti dei farmaci antitubercolari. La tubercolosi è una malattia prototipo
dell’infiammazione cronica e delle relazioni macrofago-batterio. Il batteri infatti possono elaborare delle
strategie che li rendono resistenti all’azione dei macrofagi, e dunque non si riesce ad eliminarli, dando luogo
ad infezioni persistenti.
Nei focolai infiammatori possono accumularsi, oltre ai tipici leucociti quali linfociti, macrofagi o
plasmacellule, anche gli eosinofili; l’accumulo di eosinofili è frequente quando ci sono delle infezioni
parassitarie o delle allergie. Oggi è molto frequente trovare degli eosinofili nei tessuti infiammati in seguito a
infezioni croniche (ad esempio nell’intestino o nel fegato), o anche nella pelle in seguito a fenomeni
allergici. Gli eosinofili sono individuati nei preparati istologici grazie al fatto che si colorano con coloranti
acidofili.

Le cellule dell’infiammazione cronica, oltre macrofagi/monociti, comprendono anche i fibroblasti, le cellule


endoteliali e gli angioblasti. I monociti/macrofagi, i fibroblasti, le cellule endoteliali e gli angioblasti, tutti
questi formano durante l’infiammazione cronica il cosiddetto tessuto di granulazione. Il tessuto di
granulazione è differente dal granuloma, ed è il tessuto caratteristico della riparazione delle ferite.
Durante il processo di angiogenesi, ci sono delle cellule staminali endoteliali presenti nel midollo che
vengono mobilizzate verso la periferia e che si mettono attorno ai vasi, formando delle cellule endoteliali
venose o arteriose.
Durante l’infiammazione viene esercitato un richiamo su queste cellule, però da solo esso è inefficace, e c’è
bisogno di qualcos’altro. Generalmente, indipendentemente dall’infiammazione, il richiamo più forte per gli
angioblasti è costituito dall’ipossia o dall’ischemia; infatti se si riduce l’apporto di ossigeno si attiva un
fattore che si chiama HIF (Hypoxia Inducible Factor), che è un fattore di trascrizione che promuove la
trascrizione di geni come il VEGF (Vascolar Entothelial Growth Factor). Quest’ultimo stimola la
proliferazione delle cellule angiopoietiche o angioblastiche.
I precursori delle cellule endoteliali (gli angioblasti) stanno quindi nel midollo sotto forma di precursori
inattivi: si tratta di cellule staminali endoteliali. Queste cellule normalmente tutti i giorni, in seguito a stimoli
ipossici di varia natura, lasciano il midollo e si dirigono dove sono richieste, e a poco a poco si dispongono a
formare i vasi. Anche quando c’è lo stimolo infiammatorio ipossico queste cellule si attivano e formano i
vasi.
L’SDF1 (Stromal Derived Factor-1 o CXCL12) rappresenta il fattore di richiamo dei precursori endoteliali
dal midollo alla periferia; infatti si è visto che se aggiungiamo questo fattore alle citochine
dell’infiammazione gli angioblasti sono molto più attivi, e migrano dal midollo per diventare dei vasi.
Quando c’è un’ischemia di un organo, si ha la produzione di questo fattore, che mobilizza e richiama le
cellule angiopoietiche. Questo fattore (che appartiene alla famiglia celle chemochine CXC) ha il suo
recettore proprio sui precursori endoteliali.
Dunque i punti più importanti sono:
$ l’angiogenesi è fondamentale nell’infiammazione cronica ! le cellule dell’infiammazione cronica
comprendono anche le cellule endoteliali, perché riparano i vasi del tessuto danneggiato e ne
ripristinano l’apporto ematico;
$ l’angiogenesi avviene attraverso citochine che richiamano i precursori delle cellule endoteliali dal
midollo; un ruolo molto importante in questo processo è svolto da SDF-1.
Attorno ai vasi ci sono poi i periciti, che sono delle cellule endoteliali già parzialmente differenziate. Anche i
periciti generano le cellule endoteliali. Quando però c’è bisogno di molte cellule per formare dei vasi, come
nel caso di una grossa ferita cutanea in cui dobbiamo ricostruire la pelle, lo stimolo angiogenetico è molto
forte, e oltre al reclutamento dei periciti vengono reclutati anche gli angioblasti (soprattutto tramite l’SDF-1).

Lesioni caratteristiche dell’infiammazione cronica:


# ulcera
# ascesso
# fibrosi

Ulcera ! l’ulcera è una lesione della pelle o di un tessuto epiteliale, a lenta, difficoltosa o assente
cicatrizzazione. La mancanza dell’epitelio è la prima caratteristica dell’ulcera.
Per ulcera peptica intendiamo un’ulcera circoscritta che colpisce la mucosa di una zona del tratto digerente
superiore esposta all'azione del succo gastrico A seconda dell'area di localizzazione, l'ulcera peptica viene
definita duodenale o gastrica. Anche il tratto terminale dell'esofago può essere sede di ulcerazioni di tipo
peptico all'interno del quadro clinico di un’esofagite da reflusso esofageo. Nel caso dell’ulcera gastrica, si
può andare da una semplice erosione della mucosa fino alla completa perforazione della parete gastrica.
Oltre che dalla mancanza dell’epitelio, l’ulcera è caratterizzata da una infiammazione sottostante e fenomeni
neoangiogenetici.
Per quanto riguarda la patogenesi, l’ulcera gastrica è considerata la risultante di uno squilibrio a livello della
mucosa gastrica tra i fattori ‘aggressivi’ (acido, pepsina) e i fattori difensivi (secrezione di muco,
prostaglandine, flusso ematico e turnover cellulare). L'ipersecrezione di acido cloridrico e gli ioni H+ sono
considerati un fattore aggressivo primitivo, che può cioè provocare direttamente danni cellulari.
Normalmente quindi la parete gastrica è protetta dal muco, in quanto il muco impedisce al secreto di H+ e al
basso pH di danneggiare le cellule. Si può avere ulcera sia per mancanza di produzione di muco sia per
aumento della secrezione di HCl. L’aumento della secrezione di HCL può essere indotto anche da alcuni
farmaci, per esempio inibitori della sintesi di prostaglandine. Le prostaglandine (in particolare la PGE2)
infatti aumentano la produzione di muco gastrico e agiscono anche sulle cellule parietali inibendo la
secrezione acida; quindi se non ci sono le prostaglandine diminuisce la produzione di muco e aumenta la
secrezione di HCl. Ciò può causare ulcera, che nei casi più gravi sfocia in emorragia gastrica. L’ulcera
gastrica quindi si genera in tutti i casi in cui c’è alterazione tra difesa e acidità dell’HCl.
L’Helicobacter pylori è l’agente eziologico più importante dell’ulcera peptidica. La sequenza di eventi che
conducono allo sviluppo della lesione ulcerosa prevede per prima cosa la colonizzazione gastrica da parte
dell'H. pylori, che oltre ad indurre un danno mucoso diretto allo stomaco, perturba la fisiologia con
alterazioni della secrezione acida. È possibile, inoltre, che l'azione del batterio si estrinsechi
contemporaneamente sulla riduzione della secrezione dei bicarbonati, protettivi a livello duodenale. Quanto
all'ulcera gastrica, ciò che causa la formazione della lesione è una condizione di squilibrio tra i fattori
aggressivi, tra i quali spicca l'infezione dall'H. pylori, e quelli protettivi, che sono ridotti. Le lesioni nello
strato protettivo di muco lo rendono inadeguato a rallentare e neutralizzare la retrodiffusione di una serie di
agenti, che arrivano alle cellule superficiali dello stomaco danneggiandole. All'aggressione batterica è anche
complice la liberazione di mediatori dell'infiammazione, che amplificano, seppur in via indiretta, il
danneggiamento. Il risultato di questa complessa interazione nel duodeno tra l'H. pylori e l'ospite determina,
in una fase successiva, la trasformazione delle cellule duodenali in gastriche (ossia la cosiddetta metaplasia
intestinale) e la loro colonizzazione ad opera del batterio di provenienza dallo stomaco. A questo punto si
danneggiano le varie cellule epiteliali colpite che conduce alla formazione dell'ulcera duodenale.
Riassumendo la formazione dell’ulcera gastrica, abbiamo quindi: alterazione dell’equilibrio tra fattori
protettivi e aggressivi ! necrosi dell’epitelio ! il tessuto connettivo sottostante è esposto all’acido !
infiammazione e formazione del tessuto di granulazione.

Ascesso ! è una raccolta di essudato purulento che si forma all'interno di un tessuto. La suppurazione è
causata da infezione ad opera di microrganismi detti piogeni (stafilococchi o streptococchi). L'ascesso è
caratterizzato da un decorso rapido e doloroso, con tutte le caratteristiche dell'infiammazione: dolore, calore,
arrossamento, tumefazione e limitazione funzionale della parte colpita. È caratterizzato da una regione
centrale necrotica ricca di polimorfonucleati e cellule necrotiche del tessuto, intorno alla quale vi è una zona
di neutrofili vitali. All'esterno, la proliferazione di fibroblasti e di cellule parenchimali, unitamente a una
vasodilatazione periferica, indicano l'inizio dei processi riparativi. I fibroblasti infatti creano con il tempo
una parete di tessuto connettivo che limiterà la diffusione del processo infettivo. Si tratta della membrana
piogenica, costituita da fibre di collagene prodotte dai fibroblasti. L'ascesso si differenzia dall’empiema in
quanto l'empiema è una raccolta purulenta che si crea all'interno di una cavità già presente.

Fibrosi ! dovuta ad un’eccessiva produzione di collagene. La fibrosi è anche responsabile


dell’invecchiamento della pelle che si può osservare nelle persone anziane. La cellula responsabile della
fibrosi è il fibroblasto, che quando va in senescenza o quando viene attivato dalle citochine durante
un’infezione incomincia ad esprimere il gene del collagene.
Il collagene è una proteina fibrosa molto importante; è costituita da tre catene che girano intorno formando
una sorta di fune resistente alla trazione. È la principale proteina del tessuto connettivo degli animali. Il
collagene di tipo I rappresenta il 90% del collagene totale ed entra nella composizione dei principali tessuti
connettivi, come pelle, tendini, ossa e cornea. Il collagene è sintetizzato dai fibroblasti.
Il miofibroblasto è un tipo cellulare del tessuto connettivo intermedio fra un fibroblasto e una cellula
muscolare liscia in via di differenziamento; produce sostanza fondamentale, collagene, fibre elastiche e
fibronectina. Contiene fibrille di actina e di miosina. Ha capacità contrattili come la muscolatura liscia, anche
se alcune volte svolge più funzioni secretorie che contrattili e svolge un ruolo importante nella guarigione
delle ferite, nella fibrosi dei tessuti e nelle contratture patologiche. Infatti in eventi infiammatori i
miofibroblasti si contraggono spesso.
Il miofibroblasto è un fibroblasto differenziato, che possiede la SMA (Smooth muscle actin), una proteina
specifica del muscolo liscio che, come il collagene, è espressione della vecchiaia del fibroblasto e del
miofibroblasto.
Ogni qualvolta che c’è una ferita si attiva un processo che comporta l’attivazioni di specifici geni. Tra questi
i più importante sono il PDGF (Platelet-Derived Growth Factor, fattore di crescita derivato dalle piastrine),
che è un fattore importante nell’infiammazione cronica e nella fibrosi, e il TGF-β. Insieme il PDGF e il
TGF-β rappresentano le due più importanti citochine che stimolano i fibroblasti. In un esperimento, mettendo
il PDGF in un topo, esso sviluppa processi fibrotici.
C’è una malattia umana, che si chiama sclerosi sistemica o sclerodermia, in cui ci sono degli attivatori del
PDGF e del TGF-β, per cui tutto il corpo è sotto l’influsso di questi fattori. I fibroblasti sono attivati e
aumentano la produzione di collagene, che determina fibrosi. Se la fibrosi avviene in organi importanti quali
il polmone, abbiamo parziale perdita della funzionalità di essi, e riduzione dell’apporto ematico.
Il TGF-β, prodotto da linfociti e monociti, stimola l'attività secretiva dei fibroblasti, che quindi producono
più collagene e fibronectina, e inducono la differenziazione dei fibroblasti in miofibroblasti con funzione
contrattile; il PDGF risulta elevato in pazienti con sclerodermia e si correla con l'entità della fibrosi.

PATOLOGIA 15-11-12 prof. Avvedimento

Fibrosi

La fibrosi e la sclerosi (indurimento tissutale) sono dovute all’infiammazione cronica. Le principali cellule
coinvolte sono i fibroblasti; nell’infiammazione cronica si ha infatti la produzione di collagene da parte di
questi ultimi. Ogni volta che il fibroblasto è stressato, produce collageno; questo è importante, perché si
tratta di un sistema molto attivo, che interviene ad esempio ogni volta che c’è una ferita, e partecipa al riparo
di essa. La funzione del collagene è molto rilevante nell’infiammazione e in generale per l’organismo, e ciò è
dimostrato dalle malattie genetiche in cui il collagene presenta dei difetti. Il fibroblasto può essere
richiamato, maturare e differenziare sotto stimolazione, in particolare di alcune citochine o mediatori
dell’infiammazione, e inizia a sintetizzare le fibre di collagene, che poi si agganciano in differenti modi e
formano un reticolo connettivale.
Normalmente l’espressione, la sintesi, la secrezione e la maturazione del collagene avvengono in modo
ordinato, e la deposizione del collagene segue dei ‘binari’ sui quali avviene la reticolazione; questi binari
sono dati dal connettivo, dalla membrana basale e dalle giunzioni fra le cellule. Per cui normalmente, in
mancanza di alterazioni patologiche e di citochine, il fibroblasto produce il collagene, ma in modo ordinato,
seguendo dei binari: vengono prima fatti dei precursori, e questi sono messi in posizione e poi legati fra di
loro con una distanza ottimale. Quando invece c’è un danno tissutale, ci sono le citochine, c’è un’attivazione
dell’infiammazione e il rilascio dei mediatori dell’infiammazione, e questo aumenta la velocità e la quantità
di collageno prodotta; la differente velocità di produzione e la quantità differenziano questo processo dalla
normale deposizione di matrice extracellulare. Inoltre notiamo una disorganizzazione delle fibre collagene.
In tutti i tessuti (polmone, cuore, pleura, tendini, ossa, ecc.) se c’è infiammazione, se c’è alterazione delle
fibre di collageno (sia come quantità che come qualità), abbiamo un’alterazione della struttura dell’organo,
con deposizione di matrice disorganizzata e strozzamento dei vasi, che si traduce in una riduzione
dell’apporto ematico dell’organo, con zone di ischemia. Ci sono molte malattie, ad esempio la cirrosi epatica
o l’infiammazione cronica del polmone, in cui la causa principale del deficit funzionale dell’organo è proprio
la fibrosi e le conseguenze della fibrosi.
Le più importanti citochine che possono agire sulla sintesi del collageno sono il PDGF e TGFβ.
Il pathway di Wnt è coinvolto nel determinare il destino delle cellule staminali, e ha un ruolo regolatoria
nella scelta di queste cellule fra il proliferare e l’autorinnovamento. A causa di queste proprietà, non è
sorprendente che ci sia una correlazione forte tra il signaling di Wnt e lo sviluppo di cancro. Il pathway di
Wnt può essere attivato durante l’infiammazione, e ciò in parte spiega perché l’infiammazione cronica possa
facilitare la progressione tumorale.

Collagene
L'unità strutturale del collagene è rappresentata dal tropocollagene (o tropocollageno), proteina formata da
tre catene polipeptidiche con andamento sinistrorso che si associano a formare una tripla elica destrorsa. Il
collageno è una molecola piuttosto semplice; nasce come un dominio di 18 amminoacidi (che rappresenta
metà giro dell’elica). Il gene del collagene è stato generato da un singolo esone del genoma che durante
l’evoluzione si è duplicato molte volte; per cui possiamo dire che il gene del collageno è dato da numerose
duplicazioni dell’esone di base.
Per formare la tripla elica del tropocollagene, la molecola di collagene presenta un periodo ripetitivo: infatti
il collagene è costituito dagli amminoacidi glicina – X – Y, con X spesso dato da prolina e Y da
idrossiprolina. Ogni tre amminoacidi c’è dunque la glicina, che proprio grazie alla suo corto gruppo laterale
(costituito da un solo atomo di H) consente lo stretto ripiegamento dell’elica di collagene; l’elevato e
ordinato contenuto di glicina del collagene è importante dunque per stabilizzare la tripla elica e consente
l’associazione molto stretta delle fibre di collagene all’interno delle tripla elica di collagene, e facilita la
formazione dei legami a idrogeno e dei cross-link intramolecolari.
L’uomo possiede più di ventina geni del collageno, che sono specializzati e codificano per vari tipi di
collagene, che si ritrovano in differenti organi. Tutti i tipi di collagene però hanno come caratteristiche
comuni il fatto di costituire triple eliche, cioè tre catene avvolte una intorno all’altra, e il fatto che
generalmente la Gly si ripeta ogni 3 aa della molecola.

Biosintesi ! tre molecole di collagene formano il procollagene; il procollagene è secreto all’esterno della
cellula, dove subisce il clivaggio delle estremità N-terminali e C-terminali; il taglio delle estremità del
procollagene dà luogo al tropocollagene; più molecole di tropocollagene si uniscono ordinatamente fra di
loro e con una certa spaziatura a formare le fibrille di collagene; le fibrille a loro volta si uniscono e formano
le fibre di collagene.

Il collagene non nasce già all’interno della cellula come tropocollagene o fibrille, perché ciò comporterebbe
l’aggregarsi del collagene in fibre, con l’accumulo nel reticolo endoplasmatico e danno cellulare. Pertanto il
collagene nasce nella cellula come proteina solubile a singola catena che possiede un’estremità N-terminale e
una C-terminale, che non hanno la stessa struttura della porzione intermedia, e ogni proteina si aggrega con
altre 2 proteine per formare una tripla elica.
Le estremità N- e C-terminali del procollageno sono solubili in acqua, e sono anche chiamate ‘loose ends’ in
quanto non partecipano alla formazione della tripla elica e mancano della particolare sequenza del resto della
molecola di collagene, che presenta una glicina ogni tre aa. Il fatto che le estremità siano idrofile rende il
procollagene una molecola idrosolubile, che può quindi essere secreta; appena il procollagene viene secreto
però le estremità N- e C-terminali vengono tagliate da specifiche peptidasi; la mancanza di queste peptidasi
provoca delle malattie. Una volta tagliate le ‘loose ends’, il procollagene diviene tropocollagene e a questo
punto può cominciare ad assemblarsi con le altre molecole di tropocollagene a formare le fibrille, e quindi le
fibre.
Man mano che il collagene matura, perdendo le estremità idrosolubili e aggregandosi in fibrille e fibre,
diventa sempre di più insolubile e perde molecole d’acqua di idratazione, e acquista una struttura sempre più
forte e resistente.
La sintesi di collagene è un normale processo biologico. Parliamo però di fibrosi quando l’espressione, la
sintesi e la deposizione del collageno avvengono in grandi quantità a causa di numerosi stimoli, e non si ha
una deposizione ordinata, bensì disorganizzata. Il procollagene è secreto all’esterno delle cellule in elevate
quantità, e proprio per questo, invece di essere organizzato lungo la membrana basale, lungo i vasi, lungo i
tendini, lungo l’osso (che costituiscono una sorta di binari preformati, su cui il collagene di dispone in modo
omogeneo), in questo caso si nota che le fibre vanno in tutte le direzioni in modo disorganizzato.

La fibrosi polmonare idiopatica è una malattia molto grave, ad insorgenza rapida. Uccide generalmente entro
tre anni. La fibrosi polmonare idiopatica è una patologia primitiva del tessuto interstiziale del polmone. La
fibrosi polmonare riduce l’elasticità polmonare.
Consiste in una degenerazione fibrosa del parenchima polmonare. All’esame anatomopatologico, una
caratteristica distintiva del polmone con questa patologia è l’aspetto a vetro smerigliato, perché ci sono fibre
di collageno che sono disorganizzare, e che dunque rifrangono la luce in tutte le direzioni. inoltre gli alveoli
presentono strutture alterate, si notano rotture dei setti intraalveolari o addirittura gli alveoli non sono
riconoscibili. Le cellule alveolari proliferano per cercare di riparare il danno, ma anch’esse non si
dispongono in modo ordinato, in quanto è venuta meno l’architettura del connettivo. Infatti ogniqualvolta
viene meno l’architettura connettivale (anche in tessuti diversi dal polmone, come ad esempio il fegato o la
pelle) la proliferazione cellulare diviene disorganizzata, e quindi riferendoci agli esempi precedenti non si
costituiscono gli alveoli nel polmone, i sinusoidi nel fegato e si formano le cicatrici nella pelle. Inoltre le
cellule epiteliali aumentano la proliferazione, in quanto in mancanza di supporto non c’è più contatto fra esse
e si perde l’ inibizione da contatto.
Si formano inoltre delle membrane ialine, date da deposizione di materiale proteico connettivale (in questo
caso sono collagene e proteoglicani), che invece di formare una membrana basale ordinata, precipitano e si
depositano in modo disorganizzato. La disorganizzazione del tessuto è quindi iniziata dalla deposizione di
collagene casuale, ed è completata dal fatto che le cellule epiteliali crescono anch’esse in modo
disorganizzato, senza riuscire a ricostituire la struttura originale (l’alveolo, il cordone epatico, ecc.).
Spesso la malattia comincia come una lieve lesione, con accumulo di fibroblasti e di cellule infiammatorie;
poi a poco a poco i fibroblasti diventano miofibroblasti, aumenta la produzione del collagene, il collagene si
deposita, comprimendo e danneggiando gli alveoli. Inoltre sono coinvolti anche il PDGF e il TGF-β.
La causa di questa malattia non è nota; però osservando i fibroblasti di un paziente che ha fibrosi polmonare
idiopatica, si vede che essi sono ipereccitati, producono radicali, sintetizzano un sacco di fibre e di matrice
ed sono sensibilissimo alle citochine. Non si sa perché questo avvenga, anche se è probabile che si tratti di
una malattia autoimmune, in cui vengono prodotti anticorpi contro qualche componente del fibroblasto (ma
se non si è a conosceza se sia un virus o un batterio a scatenare la reazione autoimmune, come nel caso della
febbre reumatica).
Sebbene non siano ancora state determinate specifiche, si possono somministrare degli antiinfiammatori,
anche se ciò attenua soltanto la patologia.

La fibrosi può anche interessare la pleura polmonare; la fibrosi pleurica riduce il normale aumento di volume
polmonare, e il soggetto presenta pertanto delle difficoltà respiratorie man mano più gravi con la
progressione del processo fibrotico.
Anche la pelle può essere interessata da fibrosi, e ciò determina alterazione della normale capacità di
movimento del soggetto.
Tutte le malattie fibrotiche sono collegate alla presenza dei fibroblasti, che sono attivati, ipereccitati e si
differenziano in miofibroblasti, deponendo una matrice disorganizzata. La deposizione di matrice è un ruolo
fisiologico dei fibroblasti. Però in alcuni processi patologici, questa funzione è amplificata. Il fibroblasto è
una cellula che ha una vita limitata; queste cellule dopo un certo numero di replicazioni vanno in senescenza,
e diventa un mio fibroblasto, che presenta la SMA (actina delle cellule muscolari lisce) e può produrre
collagene.

La sclerodermia o sclerosi sistemica progressiva (SSP) è una malattia cronica e progressiva di tipo
autoimmune. In greco sclerodermia significa letteralmente pelle dura. La malattia causa l'ispessimento della
pelle, arrivando nei casi più gravi a colpire anche i tessuti degli organi interni quali polmoni, cuore, reni,
esofago e tratto gastro-intestinale. Si tratta di un’altra malattia fibrotizzante, molto grave e che si presenta in
modo subdolo. Le cause della sclerodermia restano per ora sconosciute. Non è una malattia infettiva, anche
se si ipotizza che possa essere un virus (CMV) a scatenare la risposta immunitaria verso i tessuti dell'ospite
(mimetismo molecolare).

Guarigione delle ferite

Le ferite possono andare incontro a guarigione con tre modalità differenti:


• Per prima intenzione ! È il caso delle ferite da taglio, ad esempio le ferite chirurgiche (in
particolare quelle suturate), che hanno margini netti. La suturazione, riducendo al minimo la perdita
di sostanza per accostamento dei lembi, ne favorisce il riempimento da parte del tessuto di
granulazione, con tempi di cicatrizzazione veloci e risultati estetici buoni.
• Per seconda intenzione ! Riguarda le ferite non suturate e quindi lasciate aperte, per scelta o per
necessità. In questi casi il tessuto di granulazione, che si forma sul fondo della lesione, per riempirla
deve procedere dal basso in superficie con un processo che richiede tempi più lunghi e che può
determinare inestetismi anche gravi. Appartengono a questo gruppo le:
o Ferite lacero-contuse: caratterizzate da margini frastagliati e poco vitali, da aree necrotiche
e dalla presenza di ematomi, situazioni che predispongono all'infezione.
o Ferite inquinate o infette: sono quelle traumatiche particolarmente contaminate o quelle
chirurgiche interessanti siti infetti, come si verifica in presenza di ascessi, fistole o
dermatopatie.
o Ferite con perdita di sostanza: rappresentate tipicamente dalle ustioni per la loro estensione
in larghezza, per la irregolarità dei margini, per la presenza di aree necrotiche, per i
fenomeni essudatizi.
• Per terza intenzione ! Questo tipo di guarigione riguarda le ferite chirurgiche andate incontro, nel
decorso post-operatorio, a una riapertura (deiscenza) parziale o totale. Il trattamento di questa
complicazione prevede di norma la riapertura completa della ferita, la sua accurata detersione,
l'asportazione delle aree mortificate, un adeguato zaffaggio. In un secondo momento, valutata la
situazione locale e dopo aver escluso la presenza di focolai di infezione, si può procedere a una
nuova sutura dei lembi. Ciò favorirà il processo di guarigione che, in questo caso, sarà detto per III
intenzione.

Sebbene il tipo do guarigione possa essere diverso (ad esempio nella guarigione di prima intenzione il
tessuto guarisce quasi completamente e si forma solo una lieve cicatrice, mentre nel caso di guarigione di
seconda intenzione ci sono delle vere e proprie modificazioni tessutali con possibile formazione di
inestetismi), da un punto di vista molecolare, le cellule e i mediatori coinvolti sono gli stessi.
Il processo di guarigione delle ferite consiste in una serie di eventi finalizzati alla neoformazione di un
tessuto di natura connettivale, quindi diverso da quello originario, la cicatrice, avente la funzione di riempire
la perdita di sostanza rappresentata dalla ferita. Il processo avviene per fasi distinte, ma che in alcuni
momenti possono sovrapporsi, precedute da una fase preliminare emostatica.
• Fase emostatica ! Rappresenta la risposta locale all'emorragia, provocata dalla rottura dei vasi
sanguigni, mediante l'azione dei trombociti e l'attivazione dei fattori tissutali della coagulazione.
Questa fase è caratterizzata dalla formazione di un coagulo (struttura costituita da una rete di fibrina
nella quale rimangono imprigionati gli elementi corpuscolati del sangue) che occupa la ferita. Questo
coagulo è poco aderente alle pareti e può essere rimosso facilmente anche da piccoli traumi.
• Fase infiammatoria ! L'infiammazione, risposta tipica dell'organismo agli insulti patogeni, nel caso
della ferita provvede alla circoscrizione e alla eliminazione dell'agente microbico, degli eventuali
corpi estranei e delle cellule necrotiche, ma anche all'attivazione di quei fattori che sono alla base dei
successivi processi proliferativi e quindi della riparazione o sostituzione del tessuto danneggiato.
Comporta vasodilatazione ed essudazione plasmatica e la proliferazione dei macrofagi, cellule
mononucleate dotate di capacità fagocitica, che insieme ai granulociti neutrofili provvedono alla
detersione della ferita. La reazione infiammatoria inizia immediatamente dopo il trauma e dura
qualche giorno, prolungandosi anche durante la fase successiva. In quest'epoca la ferita si presenta
edematosa e fortemente arrossata.
• Fase proliferativa ! Ha inizio già a qualche ora di distanza dall'evento lesivo e ha lo scopo di
rimpiazzare il coagulo con una struttura solida, definitiva. È contraddistinta dalla proliferazione
cellulare delle strutture epiteliali, endoteliali e connettivali presenti sui bordi della ferita, che dà
origine a un tessuto detto di granulazione per il suo caratteristico aspetto granuloso.
o Ai margini della ferita, dall’endotelio, prende avvio la produzione di abbozzi cellulari che,
seguendo l'impalcatura formata dalla rete di fibrina, si portano verso la zona centrale dove si
saldano con quelli provenienti dal lato opposto. Dopo il contatto inizia un processo di
canalizzazione che trasforma i cordoni solidi in vasi sanguigni; si costituisce in tal modo una
nuova rete vascolare.
o A distanza di 24-72 ore dal trauma si ha un'importante proliferazione a partenza dal
connettivo, quella dei fibroblasti, elementi cellulari che hanno la proprietà di secernere acido
ialuronico. Questa sostanza rappresenta un componente attivo nella formazione delle fibre
collagene, strutture robuste che progressivamente prenderanno il posto dei filamenti di
fibrina. Dai fibroblasti originano inoltre le miofibrille, fibre dotate di elevata capacità
contrattile attive nel ridurre il volume della ferita (inizialmente dilatata per la trazione
esercitata sui bordi dalla tensione dei tessuti e dei muscoli vicini) di oltre 1/3.
I fibroblasti già allo scadere della prima settimana rappresentano la quasi totalità delle
cellule presenti nella ferita; la loro attività durerà ancora per il tempo necessario al collageno
prodotto di riempire la ferita. A questo punto, esaurito il loro compito, intorno alla terza
settimana, i fibroblasti scompariranno dando l'avvio all'ultima fase, quella della maturazione.
o Contemporaneamente alle altre inizia anche la proliferazione delle cellule dello strato basale
dell'epitelio. Questo tessuto ha l'importante funzione di copertura della ferita e la sua
produzione è autoregolata, nel senso che cessa quando i gettoni cellulari prodotti sui margini
vengono a contatto centralmente. Nei processi di guarigione per seconda intenzione, dove il
tessuto di granulazione riempie la ferita dal basso e non offre il sostegno adeguato alla
progressione di queste cellule, il meccanismo risulta inefficace e determina ipertrofie e
inestetismi della cicatrice.
• Fase della maturazione ! Corrisponde a quella fase in cui la ferita, inizialmente edematosa ed
arrossata, viene stabilmente e definitivamente chiusa da una cicatrice con caratteristiche ben diverse:
di colorito pallido, liscia, anelastica, priva di annessi cutanei con irrorazione e innervazione ridotte.
Questa fase dura almeno tre settimane, ma a volte prosegue anche per mesi o per anni.
Il processo descritto è tipico delle guarigioni per prima intenzione. Nelle altre, quelle per seconda intenzione,
le fasi, ben evidenti ad occhio nudo, sono analoghe ma i tempi risultano allungati e gli esiti, sotto l’aspetto
estetico, spesso non soddisfacenti.

Sclerosi vasale
La fibrosi può interessare anche i vasi. Se ci sono dei vasi che presentano infiammazione cronica, il risultato
finale è l’inspessimento della membrana, provocando la sclerosi dei vasi.
Trattando il vaso con una sostanza che danneggia il DNA, si induce stress e produzione di radicali; abbiamo
quindi una risposta acuta, con vasodilatazione, trasmigrazione dei leucociti polimorfonucleati, rilascio di
istamina, e successivamente, nel medio e nel lungo termine, si determina fibrosi e sclerosi.
Le stress chinasi sono chinasi attivate dallo stress (infiammazione acuta, ischemia, radicali, ecc.); fanno
parte di questo gruppo le MAPK, JAK, JNK, p38 e altre chinasi. I mediatori dell’infiammazione, le proteasi,
i ROS possono attivare le stress chinasi. Quando sono prodotti i ROS, quando c’è ischemia, quando c’è
stress, le chinasi tendono a funzionare meglio, non tanto perché aumenta la loro attività, quanto perché c’è
una ridotta attività delle fosfatasi; queste ultime infatti hanno delle cisteine del sito catalitico, che possono
essere ossidate dai ROS inibendone l’attività.
In condizioni di stress, a livello dei vasi le cellule endoteliali sono quelle più fortemente sottoposte allo stress
(meccanico, chimico, ecc.), e possono andare facilmente in apoptosi. Le cellule endoteliali sono dunque le
prime a morire quando c’è stress, anche perché i radicali iperattivano le chinasi, e ciò può indurre l’apoptosi.
Pertanto possiamo dire che le cellule endoteliali hanno una bassa soglia di resistenza allo stress. Le cellule
muscolari lisce, che sono coperte dalle cellule endoteliali, hanno invece una sensibilità più bassa allo stress,
cioè hanno bisogno di una quantità di radicali più elevata per morire; quindi quando ci sono i ROS a causa di
uno stimolo stressorio, spesso ciò determina la morte delle cellule endoteliali, mentre le cellule muscolari
lisce risultano stimolate, e cominciano a proliferare. Anche i fibroblasti, come le cellule del muscolo liscio,
hanno una sensibilità ridotta allo stress, per cui i radicali determinano attivazione delle stress chinasi, e i
fibroblasti risultano attivati, producendo collagene, e proliferano differenziandosi in miofibroblasti. Dunque
nelle cellule endoteliali lo stress generalmente attiva l’apoptosi, mentre nelle cellule muscolari lisce e nei
fibroblasti attiva la proliferazione, con la differenza che i fibroblasti cominciano anche a produrre collagene.
Ad esempio, se abbiamo uno stimolo stressorio, come un abuso di alcol, con accumulo di acetaldeide e
produzione di ROS, lo stimolo stressorio (l’acetaldeide) provoca l’aumento della produzione dei ROS, con
l’attivazione delle stress chinasi. Le cellule endoteliali muoiono, cellule muscolari lisce cominciano a
proliferare, i fibroblasti proliferano e producono collagene, e alla fine può insorgere infiammazione cronica,
che può danneggiare i vasi, in particolare quelli più piccoli. I vasi diventano più spessi (perché le cellule
muscolari lisce sono diventate ipertrofiche e iperplastiche), lo strato endoteliale è danneggiato è i fibroblasti
determinano fibrosi; ciò può comportare l’ostruzione dei vasi.
Ciò spiega perché lo stress, soprattutto sui vasi piccoli, può essere estremamente deleterio, inducendo necrosi
e apoptosi, e aumentare l’ischemia dei tessuti a causa dell’occlusione e della stenosi vasale.
A livello renale, quando aumentano i radicali, possiamo avere sclerosi dei vasi renali con ispessimento del
mesangio. La sclerosi significa inspessimento della parete vasale dovuto alle cellule muscolari lisce e alla
produzione disordinata di collagene dei fibroblasti; è una forma di fibrosi in cui il collagene non si deposita
sul vaso, ma affianco al vaso. Il vaso vecchio, che ha subito molti stress ed è diventato sclerotico, è un vaso
più spesso e rigido, che ha perso le fibre elastiche, ha perso l’epitelio e ha la tonaca media inspessita (tant’è
che quest’ultima prende il nome di neointima, perché assomiglia ad una tonaca intima cresciuta).

Cirrosi epatica
Riguardo all’infiammazione cronica e al tessuto di granulazione, oltre ai fibroblasti e alla produzione di
collagene, non bisogna dimenticare gli angioblasti e i macrofagi.
Nel fegato, quando ci sono insulti stressori, succede esattamente quello che capita nella pelle in caso di
ferite, ma le conseguenze della distruzione degli epatociti, a causa dei numerosi compiti che essi svolgono, è
molto più grave. Quando c’è un’alterazione, un’infiammazione del fegato (epatite), si può arrivare alla
cirrosi epatica, cioè ad un’infiammazione cronica del fegato.
Quando una cellula muore per necrosi, gli istiociti, cioè le cellule appartenenti alla classe dei fagociti
mononucleati, sono attivati e agiscono come se ci fosse infiammazione; la cellula infatti quando muore per
necrosi libera delle sostanze che fungono da mediatori dell’infiammazione, che attivano i macrofagi e ne
inducono la proliferazione. Il macrofago a sua volta amplificherà il processo, producendo citochine come il
PDGF e i TGF-β, e richiama altre cellule infiammatorie.
Viene inoltre attivata la produzione di collagene, che viene deposto in modo irregolare, e si perde la normale
architettura epatica. Nella cirrosi le cellule epatiche proliferano, ma non più ordinatamente, perché non
trovano più i binari su cui dirigere la proliferazione. Ciò determina perdita della funzionalità epatica, anche
se paradossalmente ci sono molti epatociti. L’infiammazione cronica del fegato porta dunque a perdita di
funzionalità non per mancanza delle cellule epatiche per necrosi acuta od altro, ma come conseguenza della
disorganizzazione del tessuto, causata dalla proliferazione dei fibroblasti, dagli istiociti, dalla formazione di
setti fibrosi che non fanno più organizzare le cellule epatiche in normali sinusoidi verso il centro del lobulo.
Un modo per curare la fibrosi è quello di far moltiplicare gli epatociti lungo binari connettivali artificiali;
infatti per costruire un fegato artificiale, si possono creare delle strutture artificiali che mimano la struttura
connettivale, in modo da ricreare i binari persi a causa dell’infiammazione cronica; su queste strutture
artificiali vengono poi impiantati gli epatociti del paziente, che proliferano, ma questa volta in modo
ordianato proprio grazie ad una corretta impalcatura di sostegno.

Ricostruzione cutanea
Effettuando la biopsia della pelle sano di un individuo che ha subito un’ustione, possiamo mettere le cellule
epiteliali della pelle in coltura; se le si mette in un terreno privo di matrice connettivale, queste cellule si
moltiplicano in modo disorganizzato. Ma se invece le si incuba su di un letto connettivale contenete
collagene, le cellule formano epitelio pavimentoso. Quindi un individuo che ha ustioni molto estese (per
esempio in più del 50% del corpo), inizialmente le ustioni possono essere coperte con pelle di cadavere (per
evitare che si perda troppo acqua corporea), ma successivamente, tramite la biopsia di una porzione cutanea
non ustionata, si fanno crescere queste cellule in coltura per ottenere una vasta superficie di pelle dello stesso
paziente (anche se non si formano i peli).

PATOLOGIA 16-11-12 prof. Avvedimento

Sclerosi

La sclerosi vasale è una variante della fibrosi che riguarda i vasi; nella sclerosi vasale la parete si inspessisce
per la crescita delle cellule muscolari lisce e per deposizione di materiale proteico (come la fibronectina); si
ha inoltre la diminuzione delle fibre elastiche, con un aumento delle fibre di collagene che si dispongono in
modo disorganizzato.

L’infiammazione cronica del rene (ad esempio la glomerulonefrite cronica) può causare:
$ glomerulosclerosi
$ fibrosi dei tubuli
$ sclerosi vascolare.
Nei glomeruli sclerotici si nota un accumulo proteico (soprattutto di fibronectina) con diminuzione di fibre
elastiche, e l'area circostante è ispessita, tanto da non rendere spesso più visibile il glomerulo; si ha un
deposito di proteine. Nella glomerulosclerosi, a livello glomerulare si nota dunque un accumulo di materiale
ialino acellulare subendoteliale e il distacco dei podociti dalla membrana basale; le anse che originano dai
glomeruli interessati sono spesso collassate. Nella zona di accumulo della matrice ialina si notano depositi di
frammenti del complemento e anticorpi. La microscopia elettronica rileva la scomparsa dei pedicelli e
accumulo di matrice mesangiale.
Nella sclerosi, come in tutte le malattie con patogenesi di tipo infiammatorio o ischemico, vi è un rilascio di
mediatori dell’infiammazione e radicali, e ciò induce l'attivazione delle cellule muscolari lisce e dei
fibroblasti (in quanto questi due tipo cellulari hanno una bassa sensibilità allo stress); in particolare, i
fibroblasti sono stimolati a secernere fibre.
L’infiammazione cronica renale può determinare vascolopatia renale, con sclerosi dei vasi renali, e inoltre
anche i tubuli renali possono diventare fibrotici. Nei tubuli fibrotici, si ha aumentata deposizione di collagene
in modo disorganizzato. Inoltre l’aumentata quantità di collagene può anche determinare stenosi e
occlusione dei vasi.

Nel caso delle malattie metaboliche, come il diabete (caratterizzato da iperglicemia), a livello vascolare
l’eccesso di glucosio può generare stress osmotico e la produzione radicali che danneggiano i vasi e
inducono la sclerosi vasale; nei capillari dei soggetti diabetici inoltre si nota l’inspessimento della lamina
basale. La sclerosi dei piccoli vasi e l’inspessimento della membrana basale dei capillari compromette lo
scambio tra il compartimento ematico e quello tissutale, e inoltre può generare situazioni di ipossia.
La sclerosi ha un impatto più grave quando coinvolge i piccoli vasi e i capillari, infatti è qui che avviene lo
scambio gassoso e di nutrienti tra il sangue e i tessuti; quando la membrana basale capillare si inspessisce, la
diffusione dell’ossigeno e di altre sostanze diviene più difficoltosa. Se invece la sclerosi coinvolge vasi di
dimensioni maggiori (come l’aorta), l’impatto è minore. Nel diabete i vasi più colpiti sono dunque i vasi
piccoli, in particolare quelli del cervello, dei reni, dell’occhio e delle estremità.
La sclerosi determina un processo auto-amplificatorio, ossia in cui l’ipossia genera danno e ulteriore ipossia;
nel diabetico quindi, a causa dell’ipossia generata dalla sclerosi dei piccoli vasi, ritroviamo alterazioni
(ulcerazioni) alle estremità, nefropatie, encefalopatie, problemi all'occhio e altre sintomatologie.

Sclerodermia (sclerosi sistemica) ! è una malattia cronica e progressiva di tipo autoimmune. Al momento
non esiste una cura definitiva, ma esistono diversi trattamenti per i suoi specifici sintomi, che danno sollievo
e possono rallentare il decorso della malattia e migliorare la qualità di vita. La sclerodermia è la più
frequente fra le connettiviti sistemiche, e comporta un’infiammazione cronica continua in vari tessuti. L'uso
di farmaci che ritardano la fibrosi tissutale, cutanea o degli organi interni (farmaci con azione antifibrotica) è
una strada terapeutica da tempo esplorata ma sempre considerata palliativa.
Nei soggetti affetti la pelle diventa sclerotica e si assottiglia, e si hanno difficoltà nei movimenti; inoltre la i
pazienti presentano il fenomeno di Raynaud, che consiste in un eccessivo vasospasmo (contrazione
improvvisa e prolungata della muscolatura liscia della parete arteriosa) in seguito a uno stimolo fisiologico di
vasocostrizione, quali stimoli simpatici (emozione, spavento) o il passaggio da ambienti caldi a freddi. Il
fenomeno di Raynaud si verifica soprattutto in quei distretti a maggior dispersione calorica e minore richiesta
metabolica, come le dita. Questo fenomeno è molto grave, perché gli individui affetti possono perdere le
estremità per necrosi indotta dall’ischemia, e si distingue dai comuni geloni, irritazioni cutanee causate
dall’esposizione dell’epidermide al freddo intenso e umido.
I fibroblasti dei pazienti affetti presentano numerose aberrazioni cromosomiche.
Nella sclerosi sistemica la patogenesi molecolare è sconosciuta, ma si ipotizza che sia dovuta a produzione di
autoanticorpi anti-connettivo, che attivano la risposta infiammatoria e la produzione di radicali; inoltre
potrebbero essere prodotti anche degli anticorpi contro il PDGF-receptor, che agiscono come agonisti del
PDGF e ne mimano dunque l’effetto, attivando questi recettori. I PDGF-receptors dei fibroblasti quindi
risultano attivati, e il fibroblasto è indotto a sintetizzare e rilasciare collagene.
Un inibitore del recettore del PDGF, come il Gleevec (utilizzato anche in alcune leucemie), determina in
questi pazienti una riduzione del danno causato dalla sclerodermia, sia a livello polmonare che cutaneo.
Questo è un esempio di come la conoscenza del meccanismo patogenetico (in questo caso l’iperattivazione
anticorpo-mediata del recettore del PDGF) può favorire la realizzazione di farmaci adatti.

Infiammazione granulomatosa

Il granuloma è una lesione tipica delle infiammazioni croniche, non solo di natura infettiva (streptococchi,
tubercolosi, sifilide, actinomiceti, ecc.), ma anche da corpi estranei.
Esso è caratterizzato da intensa proliferazione cellulare, così che l'esame al microscopio rivela la presenza di
• grosse cellule giganti multinucleate con funzione fagocitaria, derivanti dalla fusione delle cellule
epitelioidi, che prendono il nome di cellule di Langhans;
• cellule epitelioidi, originate dalla trasformazione dei monociti, disposte tutt'intorno;
• una corona di linfociti;
• un alone di fibrociti e plasmacellule.
Infine, il macrofago va incontro a necrosi, che viene circoscritta da tessuto fibroso, ed il focolaio
infiammatorio si estingue. Il granuloma può essere riassorbito, o dar luogo ad un nodulo fibroso.
Il granuloma è quindi un’aggregazione di macrofagi che assumono l’aspetto di cellule epiteliali (cellule
epitelioidi) e formano noduli che possono avere delle dimensioni anche nell’ordine di millimetri. Nella
maggior parte dei casi le cellule epitelioidi sono circondate dai linfociti. Frequentemente le cellule epiteliodi
si fondono fra loro e formano cellule giganti multinucleate, contenenti fino a 20 nuclei, chiamate cellule di
Langhans, che si localizzano alla periferia o al centro del granuloma. I granulomi più vecchi presentano
fibroblasti e tessuto connettivo che circonda il granuloma. Le aree di infiammazione granulomatosa vanno
incontro a necrosi, che può essere di tipo caseoso.
Non bisogna confondere il granuloma con il tessuto in granulazione (coinvolto nel processo di riparo delle
ferite). Il tessuto di granulazione è il tessuto connettivo fibroso e perfuso che sostituisce il coagulo di fibrina
nella riparazione delle ferite, che generalmente cresce a partire dalla base delle ferite, riempiendole per
avviarle al termine del processo di guarigione.
Il granuloma invece è una struttura specifica, che si caratterizza in particolare per la presenza delle cellule
multinucleate (cellule di Langhans), che hanno attività fagocitica verso l’agente che ha causato il danno. Al
centro del granuloma abbiamo la formazione di necrosi caseosa (forma di necrosi coagulativa), mentre in
periferia le cellule epitelioidi (macrofagi che fanno da barriera tra gli agenti esterni che provocano danno e il
corpo) e anche linfociti e fibroblasti.
La differenza tra un granuloma causato da corpo estraneo e un granuloma dovuto a infezioni batteriche è che
nel granuloma da corpo estraneo ci sono i fibroblasti e i macrofagi, ma mancano i linfociti (in quanto non è
presente un antigene che può essere riconosciuto dagli anticorpi o dai TCR). I macrofagi cercano di
fagocitare il corpo estraneo, ma se il corpo estraneo è troppo grande non ci riescono, e i macrofagi si fondono
fra loro formando le cellule di Langhans, formazioni caratteristiche dei granulomi.

Sarcoidosi (malattia di Besnier-Boeck-Shaumann) ! La sarcoidosi è una malatia idiopatica (cioè non dovuta
a cause esterne note, ovvero senza causa apparente o primitiva) multisistemica, con caratteristici granulomi
non necrotizzanti e non caseosi composti da un'alta percentuale di tessuto fibrotico indotto dall'azione del
TGF-β. Questa malattia non è molto frequente, ma è piuttosto grave e progressiva, ed ha un’eziologia
sconosciuta. I polmoni sono coinvolti nel più del 90% dei casi. L'approccio terapeutico dì base prevede, in
genere, l'utilizzo dei corticosteroidi.

Tubercolosi ! la tubercolosi è il classico esempio di infezione in cui la patogenesi non è dovuta tanto al
batterio in sé per sé, quanto alle reazioni dell’individuo. Il microorganismo responsabile della tubercolosi è il
Mycobacterium tuberculosis. La maggior parte delle persone ha avuto contatto con il batterio, ma solo alcune
però sviluppano la malattia.
Adesso si conosce il completo genoma del micobatterio tubercolare, che è di circa 4 milioni di basi, e
contiene intorno a 4000 geni, di cui circa 250 sono utilizzati per la produzione dei lipidi; ciò suggerisce
l’importanza evolutiva del rivestimento lipidico per la sopravvivenza di questi batteri. I lipidi costituiscono il
60% del peso secco della parete cellulare (e globalmente 30% del peso secco del corpo batterico); si tratta
soprattutto di acidi micolici e cere.
I micobatteri infatti sono dei batteri caratteristici, che non appartengono ne ai Gram+ né ai Gram-, ma
vengono definiti alcol-acido resistenti. I micobatteri sono caratterizzati dalla presenza di una parete cellulare
insolitamente spessa e dalla struttura insolita. Contrariamente a quelle degli altri batteri che sono formate di
solo peptidoglicano (seppure disposto in più o meno strati nelle diverse specie), la parete dei micobatteri
presenta uno strato relativamente sottile di peptidoglicano legato ad una serie di molecole (arabino-galattani,
acidi micolici, glicolipidi fenolici). Questa parete cellulare così complessa conferisce ai micobatteri il
vantaggio di essere completamente impermeabili ad alcune delle sostanze più utilizzate nella terapia medica,
compresi alcuni degli antibiotici più comuni. Inoltre la particolare capsula ricca di lipidi impedisce, dopo che
i batteri sono stati fagocitati dai macrofagi, la fusione del fagosoma col lisosoma.
I batteri diffondono da un ospite a un altro tramite propagazione aerogena. Quindi inizialmente abbiamo
l’inalazione dei batteri, che raggiungono i polmoni e sono fagocitati dai macrofagi alveolari; il batterio è
capace di sopravvivere e di moltiplicarsi nei macrofagi alveolari, e solo i macrofagi attivati (tramite IFN-γ)
sono in grado di ucciderlo. Infatti topi transgenici incapaci di produrre IFN-γ risultano molto più sensibili
alle infezioni da M. tubercolosis.
I batteri possono persistere all’interno delle lesioni lunghi periodi, anche anni (fase di latenza); le attività
metaboliche generali sono rallentate, e non è noto se i batteri siano in grado di replicare durante la fase di
latenza. Recentemente si è osservato che gli enzimi della via del gliossilato sono attivati durante la fase di
latenza; un’enzima chiave del ciclo è l’isocitrato liasi.
L’enzima isocitrato liasi, coinvolto nel ciclo del gliossilato, è dunque un fattore importante nel determinare la
virulenza del micobatterio. Il risultato netto della via del gliossilato è di generare succinato a partire da due
molecole di Acetil-CoA; i lipidi rappresentano la fonte di Acetil-CoA mentre il succinato serve per la sintesi
di glucosio. Il ciclo del gliossilato permette a M. tubercolosis di generare carboidrati a partire da acidi grassi.
Mutanti di M. tubercolosis difettivi nell’enzima isocitrato liasi non mostrano la fase di latenza, e sono quindi
molto meno virulenti. La diminuzione di O2 nel granuloma potrebbe essere il segnale del ‘downshift’
metabolico che precede l’attivazione degli enzimi del ciclo del gliossilato; quindi l’ipossia a livello della
porzione interna del granuloma determina la morte del macrofago, ma il batterio riesce a sopravvivere.
I macrofagi sono le prime cellule ad essere infettare dai micobatteri; il micobatterio penetra nei macrofagi
per endocitosi mediata da diversi recettori macrofagici, e una volta all’interno di questi riesce da evitare la
fusione del fagosoma con il lisosoma, e dunque la mieloperossidasi contenuta all’interno dei lisosomi
macrofagici non può agire sul batterio. Esso può rimanere silente per lungo tempo ma, in alcune condizioni
(come nel caso di un calo delle difese immunitarie) si risveglia, e può entrare nel torrente ematoci, e si ha la
manifestazione sistemica della malattia, che non riguarda solo il polmone, e prende il nome di tubercolosi
miliare sistemica. Per tubercolosi miliare sistemica si intende una forma di tubercolosi in cui il micobatterio
tubercolare diffonde nei polmoni e grazie al sangue in tutto il corpo, con formazione di granulomi in vari
organi; si tratta in realtà di una sepsi tubercolare.
I micobatteri possono passare dal polmone al compartimento ematico grazie alla dissoluzione dei granulomi
polmonari; nella zona in cui in precedenza c’era il granuloma che si è dissolto, si formano delle caveole.
Nel topo, se immettiamo il bacillo tubercolare, notiamo che esso tende a colonizzare tutti gli organi, a
differenza dell’uomo, dove almeno inizialmente l’infezione tende ad essere circoscritta al polmone.
L’infezione da parte di M. tubercolosis non implica necessariamente lo sviluppo della malattia (che avviene
solo nell’1% della popolazione normale infettata); la malattia scaturisce da un disequilibrio tra immunità e
carica batterica.
La gravità di questa malattia sta anche nel fatto che i trattamenti farmacologici che prima erano piuttosto
efficaci, adesso lo sono meno a causa dello sviluppo di farmaco-resistenza dei micobatteri tubercolari. Il
Bacillo Calmette-Guérin (BCG) è un microrganismo attenuato utilizzato come vaccino contro la tubercolosi.
Studi epidemiologici e statistici hanno messo in evidenza che in seguito a vaccinazione con BCG si ha una
maggiore resistenza all'infezione tubercolare, ma variabile da popolazione a popolazione in diverse aree
geografiche; la protezione, inoltre perdura per un periodo di tempo limitato.

PATOLOGIA 19-11-12 prof. Avvedimento

STEATOSI EPATICA
Il fegato ha il ruolo metabolico estremamente importante per l’organismo. Le malattie degenerative (dovute
ad alterazione del metabolismo) possono verificarsi in tutti gli organi (cuore, rene, cervello, ecc.), però il
fegato è un prototipo proprio di esse proprio grazie al suo fondamentale ruolo metabolico; il fegato inoltre
riceve le informazioni su quello che introduciamo dall’esterno tramite l’alimentazione.

Struttura del fegato ! il parenchima epatico è costituito dagli epatociti. Grazie alla presenta di particolari
formazioni, la vena centro lobulare e la triade portale, possiamo dividere microscopicamente il fegato in
unità anatomofunzionali, costituite dai lobuli. Il lobulo classico presenta in periferia le triadi portali (che
contengono diramazioni della vena porta, dell’arteria epatica e dei dotti biliari), mentre al centro di esso c’è
la vena centrolobulare (che convoglia il sangue alle vene epatiche, e da queste alla vena cava inferiore). Il
fegato è al centro di un sistema mirabile venoso (sistema portale). La vena porta coduce il sangue venoso
proveniente dall’intestino al fegato; si tratta quindi del sangue contenente i nutrienti assorbiti a livello
intestinale. Gli epatociti perciò, attraverso il sangue proveniente dalla vena porta, ricevono le informazioni su
quanto è stato assorbito a livello intestinale, e anche sulla qualità (nutrienti glicidici, proteici, lipidici,
oligoelementi, ecc.) e quantità del cibo che noi assumiamo. Nell’uomo, a differenza di quanto accade nel
maiale e in altri animali (in cui i lobuli classici sono delimitati da lamine stromali ben evidenziabili al
microscopio ottico), i lobuli classici non sono delimitati da lamine connettivali.
Nel lobulo epatico classico, il sangue procede dalla periferia (arteria epatica e vena porta) verso il centro
(vena centrolobulare); la bile al contrario procede in direzione opposta, dal centro verso la periferia (dotti
biliari). In questo modo a livello del lobulo si generano 3 zone: in prossimità della triade portale, c’è una
zona più ricca di sangue arterioso, mentre la zona circostante la vena centrolobulare è povera di sangue
arterioso; tra queste due zone ce n’è poi una di transizione, con caratteristiche intermedie.
Le cellule epatiche sono organizzate in cordoni, e tra i cordoni ci sono le cellule endoteliali che formano i
sinusoidi epatici. Tramite i sinusoidi epatici, gli epatociti entrano in contatto col sangue veicolato dalla vena
porta.

Steatosi epatica (o fegato grasso) ! è una patologia cellulare legata all'accumulo intracellulare di trigliceridi
(steatosi) a livello del tessuto epatico, che comporta una serie di danni fino alla necrosi della cellula. Il fegato
è particolarmente sensibile ai processi steatosici in quanto:
• è un organo chiave nel metabolismo dei lipidi;
• è un organo responsabile dell'inattivazione di numerose sostanze tossiche;
• è un organo la cui circolazione è prevalentemente venosa (quindi costantemente vicino ad una
situazione di ipossia).

Un esempio di steatosi epatica molto pronunciata è data dal Foie gras, piatto tipico della cucina francese,
dato da fegato di anatra o di oca fatta ingrassare tramite alimentazione forzata (gavage). L'alimentazione
forzata di questi animali induce una crescita abnorme del fegato ed un aumento di grassi nelle cellule
epatiche.
Esistono due forme di steatosi epatica:
# Steatosi alcolica
# Steatosi non alcolica
Nei processi che portano alla steatosi epatica si accumulano vescicole endocitiche contenenti lipidi. I lipidi
che si accumulano nella steatosi sono i trigliceridi. Avviene l'accumulo di trigliceridi perché il fegato non
riesce a sintetizzare le apolipoproteine sufficienti a trasportare tutti i grassi che produce, quindi i trigliceridi
si accumulano all'interno delle cellule. Il colesterolo in eccesso invece va nel sangue, ma non si accumula nel
fegato.
Nella steatosi, almeno nelle fasi iniziali, manca l’infiammazione; non si tratta pertanto di una epatite o di una
steatoepatite. Successivamente però possiamo avere necrosi degli epatociti, infiammazione acuta e poi
cronica, con l’insorgenza di cirrosi epatica.
La steatosi alcolica avviene in tutte le persone quando si aumenta l’introduzione alcolica; il fegato infatti, in
seguito all’assunzione di alcol, comincia ad accumulare grasso rapidamente. La degenerazione grassa però è
una condizione completamente reversibile se si interrompe l’assunzione di alcol; infatti dopo tempo il fegato
ritorna alla condizione precedente.

Steatosi non alcolica


La causa della steatosi alcolica è l’alcol, mentre quella della steatosi non alcolica fino a poco tempo fa non
era conosciuta. Anzi, la steatosi non alcolica non era nemmeno distinta da quella alcolica, ed entrambe erano
accomunate col termine generale di steatosi.
La steatosi non alcolica è dovuta ad alterazioni metaboliche, in particolare a disordini del metabolismo del
glucosio e ad aumento degli acidi grassi liberi (FFA, Free Fatty Acids). Inoltre la NAFLD è associata con
l’insulino-resistenza (diabete di tipo II) e la sindrome metabolica.
Il glucosio che entra negli epatociti viene metabolizzato attraverso due grandi vie: la prima è la via dei
pentosi fosfati, un processo metabolico citoplasmatico in grado di generare NADPH e zuccheri pentosi;
questi ultimi vengono utilizzati nelle reazioni anaboliche di sintesi di nucleotidi e altro ancora. La seconda
invece è la via glicolitica, un processo catabolico che porta alla produzione di energia sotto forma di ATP
grazie alla degradazione del glucosio, e può essere sia aerobica che anaerobica.
Quando un soggetto presenta insulino-resistenza (condizione frequente ad esempio nei soggetti obesi), gli
adipociti sono pieni di grassi, sono rigonfi e presentano un aumento della superficie. Questi adipociti
divengono meno sensibili all’insulina, anche in seguito al fatto che la loro superficie è aumentata, e sono
aumentati anche i recettori per l’insulina. E ciò si concretizza nel fatto che una stessa dose di insulina,
somministrata ad un soggetto magro e ad uno obeso, determina una risposta ipoglicemizzante più forte nel
soggetto magro. Negli individui obesi, a causa dell’insulino-resistenza, il glucosio ha difficoltà ad entrare
nelle cellule, e dunque l’energia viene prodotta catabolizzando i grassi attraverso la β-ossidazione, che
consente di degradare gli acidi grassi con produzione di acetil-CoA; l’accumulo di acetil-CoA può essere
smaltito solo in parte dal ciclo di Krebs, e il resto dell’acetil-CoA viene nuovamente trasformato in acidi
grassi a catena variabile, che si possono unire al glicerolo (un prodotto che si ottiene dal metabolismo del
glucosio) per formare i trigliceridi. In un soggetto insulino-resistente si accumulano quindi trigliceridi.
Nella steatosi non alcolica dunque si può avere accumulo di trigliceridi nel fegato sia a causa di un aumento
dei FFA (dovuta ad una dieta ricca in lipidi, o a eccessiva produzione di Acetil-CoA che non viene smaltito
del tutto dal ciclo di Krebs e determina lipogenesi), sia da alterazioni del metabolismo del glucosio.
Un soggetto obeso dunque, proprio a causa di questi disordini metabolici, può sviluppare steatosi non
alcolica (NAFLD, Non Alcoholic Fatty Liver Disease).

La NAFLD comprende la steatosi epatica, la steatosi accompagnata da minima infiammazione aspecifica e la


steatoepatite non alcolica (NASH, Non Alcoholic SteatoHepatitis). Nella steatosi non alcolica, non si nota un
danno cellulare visibile, mentre nella steatoepatite non alcolica (NASH) si rileva danno cellulare. La
differenza tra queste due condizioni è solo temporale, perché l’aumento progressivo e persistente di grassi
nel fegato a poco a poco può condizionare la funzione di quest’organo; infatti l’accumulo di grassi negli
epatociti ne alterano il metabolismo e li rende rigonfi, e questi ultimi possono comprimere i sinusoidi e i vasi
determinando un ridotto apporto di ossigeno. L’epatocita che ha accumulato i grassi ha problemi sia a livello
del metabolismo (infatti si genera insulino-resistenza, a causa dell’aumento del numero di recettori per
l’insulina in seguito all’espansione della superficie cellulare), sia in quanto riceve meno ossigeno, perché
essendo più grosso preme sull’endotelio e chiude i capillari. Questa condizione, se persiste, può causare
danno cellulare e necrosi degli epatociti, con infiammazione e successivamente fibrosi del tessuto epatico. La
fibrosi del tessuto epatico può essere inoltre acuita dall’assunzione di alcuni farmaci.

Riassumendo quindi, la steatosi non alcolica, cioè non indotta dall’alcol, dipende dall’alterazione del
metabolismo, in particolare quello del glucosio. L’alterazione del metabolismo del glucosio altera anche il
metabolismo dei lipidi, perché determina accumulo di acetil-CoA, che non viene del tutto consumato nel
ciclo di Krebs, e l’accumulo di acetil-CoA comporta un aumento della produzione di acidi grassi. L’aumento
degli acidi grassi però può anche essere diretto, cioè dovuto alla dieta, e non solo indiretto (dovuto ad
alterazioni del metabolismo); in ogni caso questi si accumulano nel fegato, in quanto i trigliceridi non sono
veicolati efficacemente nel sangue come il colesterolo (ed è per questo che nella steatosi i grassi che si
accumulano sono i trigliceridi, e non altri grassi come il colesterolo). Il colesterolo è invece soprattutto
responsabile di un’altra malattia, l’aterosclerosi.
Dunque inizialmente la steatosi non comporta danno epatico, e la microarchitettura del tessuto è preservata,
con i sinusoidi integri. Se però la steatosi procede e si verifica infiammazione, l’architettura tissutale viene
scompaginata. L’infiammazione cronica comporta fibrosi e fa evolvere il fegato nella condizione di cirrosi;
la cirrosi è lo stadio terminale e irreversibile dell’epatopatia, e comporta alterazioni sia dell’anatomia che
della fisiologia del fegato. Nella cirrosi, paradossalmente gli epatociti sono portati a proliferare in risposta al
danno e alla necrosi di altri epatociti, ma non proliferano in modo ordinato, seguendo dei binari (infatti i
sinusoidi sono scompaginati), bensì in modo disorganizzato, e dunque nonostante le cellule proliferino, si
perde l’organizzazione del tessuto. La microarchitettura del fegato risulta pertanto sconvolta, non si
riconoscono più i lobuli, e si alterano i processi di produzione della bile e le funzioni metaboliche del fegato.
Quando la situazione è degenerata fino a questo punto, l’unica soluzione rimasta è il trapianto.

La steatosi non alcolica, almeno fino a un certo punto, è un processo reversibile, in quanto se il metabolismo
del glucosio si riattiva (ad esempio se il soggetto dimagrisce, oppure in seguito all’azione di alcuni ormoni
come il GH e il cortisolo, che favoriscono la gluconeogenesi), si ritorna alla condizione fisiologica. La prima
fase è dunque reversibile, in quanto se si riattiva il metabolismo del glucosio, l’acetil-CoA diminuisce, e si
ha anche la riduzione della formazione degli acidi grassi, e quelli accumulati a poco a poco vengono smistati
tramite le lipoproteine. Se però la steatosi va avanti per lungo tempo, l’accumulo eccessivo di grassi può
indurre infiammazione e ridurre gli scambi capillari; quest’ultimo evento genera ipossia, che a sua volta
acuisce l’infiammazione. Quindi da una condizione di steatosi non alcolica, senza danno cellulare e senza
infiammazione, si passa ad una condizione di steatoepatite non alcolica (NASH), con danno cellulare e con
infiammazione acuita dall’ipossia.
Inoltre l’obesità e l’aumento dei grassi di per sé possono rappresentare lo stimolo infiammatorio. Ad
esempio, CD36 (recettore per la trombospondina) è un membro dei recettori scavenger presenti sulla
membrana cellulare dei macrofagi, e può legare ed essere attivato da vari ligandi, tra cui NEFA, LDL
ossidate, trombospondina, normali lipoproteine, fosfolipidi ossidati e acidi grassi a lunga catena. Studi
recenti hanno suggerito un chiaro ruolo di questo recettore nel metabolismo degli acidi grassi e del glucosio.
L’attivazione di questo recettore promuove l’attivazione macrofagica e l’infiammazione. Inoltre i lipidi sono
i substrati da cui vengono ricavati molti mediatori dell’infiammazione, ed un aumento dei lipidi si
accompagna ad un’aumentata sintesi di questi mediatori. Ad esempio, il diacilglicerolo è in grado di attivare
la PKC, una chinasi coinvolta nell’infiammazione, e che può anche fosforilare il recettore dell’insulina,
promuovendone l’internalizzazione. I soggetti obesi hanno quindi una elevata quantità di FFA, e anche una
maggiore attivazione di CD36 e della PKC.

Steatosi alcolica
L’alcol appena viene bevuto viene assorbito dallo stomaco e dall’intestino; il metabolismo comincia già
nello stomaco a opera dell’enzima alcol deidrogenasi (ADH) gastrica, ma per lo più avviene nel fegato per
opera di una serie di reazioni di ossidazione; però quando la quantità di alcol assunta è bassa, l’alcol non
riesce nemmeno a raggiungere il fegato in quanto viene rapidamente trasformato nello stomaco tramite
reazioni di ossidazione (deidrogenato) in aldeide (la stessa denominazione ‘aldeide’ deriva infatti da ‘Alcol
deidrogenato’). Esiste poi un altro enzima, l’aldeide deidrogenasi (ALDH), che trasforma l’acetaldeide in
acetato, e l’acetato sotto forma di acetil-CoA entra nel ciclo di Krebs o può essere convertito il acidi grassi.
Dunque l’alcol è una fonte energia; inoltre chi beve molto alcool tende anche ad accumulare grasso. Infatti
un eccesso di alcol determina accumulo di acetil-CoA, utilizzato nella sintesi dei grassi oppure metabolizzato
nel ciclo di Krebs.
Le reazioni di metabolizzazione dell’alcol (quelle catalizzate dall’ADH e dall’ALDH) sono reazioni di
ossidoriduzione, e possono determinare la formazione di ROS. La tossicità dell’alcool è perciò anche dovuta
al fatto che per metabolizzarlo sono necessarie numerose reazioni di ossidoriduzione, e inoltre se assunto in
dosi elevate può comportare l’accumulo di acetaldeide. L’acetaldeide è più tossica dell’alcol; inoltre se
l’ALDH non riesce a smaltire efficacemente l’acetaldeide, essa si accumula nell’organismo, e determina vari
effetti dannosi, oltre ad essere responsabile dell’alito cattivo caratteristico dei bevitori.
L’alcol deidrogenasi è un enzima molto polimorfico, e quindi non tutti abbiamo gli stessi enzimi; alcuni
individui hanno ADH più efficienti, altri meno. Inoltre il metabolismo dell’alcol è influenzato dalla
corporatura del soggetto: una persona più robusta, avendo più massa corporea, generalmente presenta una
maggiore quantità di alcol deidrogenasi, ed ha una minore sensibilità all’alcol rispetto ad una persona esile e
minuta. Questo è uno dei motivi per cui le donne sono più sensibili degli uomini all’alcol.

L'intolleranza all'alcool si verifica quando il corpo non ha gli enzimi (o li possiede in modo insufficiente)
per metabolizzare l’alcol o i prodotti da esso derivati; spesso è causata da una predisposizione genetica.
In particolare, in alcune popolazioni orientali (cinesi, giapponesi, thailandesi) è particolarmente diffusa una
variante dell’ADH (ADH1C) che funziona da 40 a 100 volte più velocemente; nel contempo però la ALDH
funziona a velocità normale. Pertanto, la velocità di produzione dell’acetaldeide a partire dall’alcol (reazione
catalizzata dall’ADH) è molto più veloce rispetto alla reazione di conversione dell’acetaldeide in acido
acetico (reazione catalizzata dall’ALDH), per cui si ha accumulo di acetaldeide; l’accumulo di acetaldeide è
ciò che dà tossicità e intolleranza all’alcol.
Su questo stesso principio sono stati elaborati dei farmaci con lo scopo di ridurre l’apporto alcolico negli
alcolisti. Un esempio di farmaco usato nella cura dell'alcolismo è il disulfiram (dietilditiocarbammato), un
inibitore dell'acetaldeide deidrogensi; ciò porta ad un accumulo di acetaldeide nel sangue che genera sintomi
spiacevoli (palpitazioni, cefalea, vomito, ecc.). In questo modo si riduce la dipendenza dall’alcol, in quanto
l’alcol è associato ad una sensazione fortemente sgradevole.

L’alcol piace in quanto è collegato al circuito della dopamina; la dopamina è il neurotrasmettitore che dà la
gratificazione e il piacere. L’alcol attiva infatti il rilascio delle β-endorfine, che inibiscono il rilascio di
GABA, il quale inibisce la secrezione dei neuroni dopaminergici; dunque la rimozione dell’inibizione del
GABA determina un aumento del rilascio di dopamina. La dopamina è prodotta in diverse aree del cervello,
tra cui la substantia nigra e la zona ventrale tegmentale (VTA). Grandi quantità di dopamina si trovano nel
nucleo accumbens; le afferenze dopaminergiche provenienti dall'area tegmentale ventrale si pensa modulino
l'attività dei neuroni del nucleo accumbens. La stimolazione della via della dopamina genera sensazione di
piacere.

Anche l’avvelenamento causato da funghi, sostanze tossiche o chemioterapici può dare steatosi. Infatti,
quando al fegato arrivano sostanze tossiche, queste determinano stress cellulare; vengono inibita la sintesi
proteica e i trasportatori dei grassi, con accumulo di trigliceridi e steatosi.
AMILOIDOSI
L'amiloidosi è una situazione patologica caratterizzata dalla deposizione in sede extracellulare di materiale
proteico a ridotto peso molecolare ed insolubile, che forma degli aggregati fibrillari (amiloide); l’amiloide è
così chiamato per la proprietà di reagire con lo iodio simile a quella dell'amido.
L'amiloidosi non è tanto una malattia, piuttosto è un'alterazione della struttura proteica coinvolta in diverse
patologie. Il numero di precursori proteici amiloidi è enorme, e pressoché qualsiasi proteina è in grado di
dare luogo ad amiloidosi.
L'amiloidosi è un deposito extracellulare di proteine strutturalmente alterate, che formano aggregati a
struttura fibrillare; queste fibrille hanno un diametro variabile, sono insolubili, rigide, lineari e resistenti
all'idrolisi enzimatica. L'aggregato dell'amiloidosi non è amorfo, ma ha una peculiare organizzazione.
Il 95% circa dell’amiloide è composto da fibrille proteiche, e il restante 5% da altre glicoproteine e dalla
componente P dell’amiloide (SAP). Quest’ultima proteina appartiene alla famiglia delle pentraxine, incluse
nelle cosiddette proteine di fase acuta; essendo l'amiloidosi un processo molto comune in luogo di reazioni
infiammatorie croniche, questo spiegherebbe la presenza della componente P nell'aggregato amiloide. Le
proteine che danno origine a depositi di amiloide sono numerose, e a seconda della proteina coinvolta,
l'amiloide acquista caratteristiche diverse. Tra le proteine più frequentemente coinvolte vi sono:
% catene leggere delle immunoglobuline (in particolare nei mielomi);
% SAA (Serum amyloid A), la cui produzione è indotta da IL-1; la febbre mediterranea familiare può
indurre amiloidosi da SAA;
% TTR (transtiretina, in passato chiamata anche prealbumina); è una proteina di trasporto per ormoni
tiroidei. Alcune sue mutazioni, come V30M, favoriscono la formazione di amiloide da transtiretina e
generano forme autosomiche dominanti di amioloidosi:
% β2-microglobulina;
% proteina prionica, espressa in particolare nel SNC;
% amiloide β, derivante da una proteina più grossa chiamata precursore della proteina β dell'amiloide
(βAPP).

Componente P dell'amiloide ! correlata alla CRP (proteina C reattiva); sono ambedue membri della
famiglia delle pentraxine, proteine dalla struttura pentamerica che fungono da opsonine. Come la CRP, lega
e attiva il complemento, ed è pertanto associata a infiammazione. Non si sa bene però se l'amiloidosi sia una
conseguenza dell'infiammazione o piuttosto contribuisca a sostenerla.

Le proteine che danno luogo alla formazione di questi aggregati subiscono una transizione strutturale che ne
converte la struttura secondaria in una forma prevalentemente β‐planare, detta anche β-foglietto. La struttura
β-planare e più resistente ed è responsabile della maggiore resistenza all'idrolisi enzimatica. Il colorante
rosso Congo viene incastrato nella trama fibrillare dei depositi d'amiloide: questo dimostra che tali aggregati
sono fortemente rigidi e resistenti e, essendo il colorante bloccato in una data posizione, quando si osserva il
preparato con luce polarizzata, si osserva solo ciò che si trova nello stesso piano della luce polarizzata.
Ci sono delle condizioni predisponenti alla formazione di amiloide, ad esempio una propensione intrinseca
alla proteina ad assumere conformazione alterata (questo è il caso della transtiretina). Una concentrazione
persistentemente elevata di una data proteina è ugualmente predisponente all'amiloidosi, così come
mutazioni di singoli amminoacido che influenzano la proteolisi; infatti anche una singola sostituzione
amminoacidica può shiftare il sito di idrolisi enzimatica, alterando il frammento prodotto, e questa può essere
una condizione predisponente all'amiloidosi. Anche modifiche post-traduzionali alterate possono predisporre
alla formazione di depositi di amiloide. Importante sembra essere anche il ruolo del protein-folding: le
molecole tendono a raggiungere uno stato d'energia più basso, e quindi ad assumere una determinata
conformazione con minore energia libera. In condizioni normali, le proteine mal ripiegate, se non sono tante,
vengono opportunamente degradate; se però la quantità di proteine misfolded aumenta, i sistemi di
eliminazione sono insufficienti e si formeranno degli aggregati. Il processo di fibrillogenesi è un processo
autocatalitico, infatti le fibrille si formeranno più rapidamente quando si forma un microaggregato fibrillare
che funge da punto di nucleazione.
Una delle amiloidosi più conosciuta è l’Alzheimer, una malattia neurodegenerativa.

Qualsiasi proteina, in alcune condizioni, può precipitare; dunque l’ amiloide è il nome generico dato ad un
precipitato proteico. La migliore denominazione dell’amiloidosi è quella di ‘amiloide’ seguita dal nome della
proteina, oppure abbreviando con la sigla ‘A’ davanti al nome della proteina precipitata. Ad esempio, se la
proteina che precipita è la SAA (una proteina della fase acuta), allora parliamo di amiloidosi da SAA (AA).
Se invece l’amiloidosi è data da accumulo di Ig, parliamo di amiloidosi da immunoglobuline.
La vecchia classificazione dell’amiloidosi prevedeva la distinzione in:
% amiloidosi primaria ! precipitazione delle catene leggere delle Ig (amiloidosi AL). Nasce da
malattie caratterizzate da disordini del sistema immunitario, come il mieloma multiplo
% amiloidosi secondaria ! amiloidosi che si verificano come complicazione di altre malattie
infiammatorie croniche o in cui il tessuto è danneggiato.
L’amiloidosi AL è dovuta ad aumento della produzione delle catene leggere delle Ig, che si possono
verificare in caso di tumori delle plasmacellule (mielomi), o comunque in varie condizioni in cui le
plasmacellule sono aumentate.
La classificazione moderna delle amiloidosi consiste invece nell’uso dell’abbreviazione della proteina che
costituisce la maggior parte del deposito, preceduta dal prefisso A. Per cui in caso di amiloidosi da
transtiretina, parliamo di ATTR.
Nell’infiammazione acuta e cronica, nelle cachessie tumorali, in tutte le situazioni in cui c’è aumento di
proteine ci può essere un’amiloidosi. Le principali sedi di accumulo dell’amiloide sono il rene, che è l’
organo principale di escrezione e in cui avviene l’ultrafiltrazione del plasma, il cervello e il fegato.
Ogni proteina presenta delle particolari combinazioni di strutture secondarie, cioè ad α-elica oppure a β-
foglietto, e poi presentano anche dei segmenti non strutturati. Generalmente, in una proteina le porzioni
idrofobiche sono poste al centro, mentre le parti idrofile si trovano all’esterno, a contatto con il solvente
acquoso. Ad esempio, una proteina globulare ematica (che quindi viaggia nel sangue, una soluzione
acquosa), si presenta appunto con una forma globulare, con al centro la parte idrofobica e all’esterno la parte
idrofila. Se in una proteina si elimina la parte idrofobica, rimane la parte idrofobica, che non può interagire
con l’acqua, ma solo con altre sostanze idrofobiche come i lipidi o altre proteine idrofobiche; ed è questo che
determina la precipitazione delle proteine. In particolare, ad interagire fra di loro nella formazione
dell’amiloide sono i β-foglietti. Le fibrille di amiloide hanno una caratteristica particolare: la fibrilla che si
forma ha un asse che è perpendicolare alla direzione del β-foglietto; le interazioni dei β-foglietti sono
idrofobiche e sono molto forti. Le fibrille sono resistenti all’attivazione delle proteasi e alla fagocitosi
mediata dai macrofagi.

Analisi istologica ! per quanto riguarda il riconoscimento delle amiloidosi, un organo sede di deposito
amiloide importante acquista un colore arancio all'osservazione macroscopica. Invece, per quanto riguarda
l’osservazione microscopica, nei preparati con H&E si osserva una colorazione rosa diffusa, mentre con il
cristalvioletto il preparato appare metacromatico. Se il preparato viene colorato con rosso Congo (Congo-
red) e illuminato con luce polarizzata, appare invece birifrangente. Questo colorante infatti interagisce con le
fibrille e le molecole di colorante vengono bloccate in un certo orientamento.
È possibile quindi riconoscere i depositi di amiloide perché si colorano col rosso Congo. Esiste proprio un
esame specifico che è richiesto sul materiale bioptico per verificare la presenza di amiloidosi o meno, e
richiede l’utilizzo del rosso Congo. Il rosso Congo, sebbene sia un colorante di colore rosso, al microscopio a
luce polarizzata appare verde.
Abbiamo vari modi per osservare l’amiloide al microscopio; possiamo osservarla al microscopio ottico
tradizionale con varie colorazioni, al microscopio a fluorescenza e al microscopio elettronico. Al
microscopio polarizzante, se coloriamo l’amiloide con Congo red, essa appare verde, e non rossa, e pertanto
non bisogna fare confusione.

Alcune volte ci sono delle proteine che hanno una bassa tendenza a precipitare, ma i geni che le codificano
possono subire delle mutazioni, e quindi codificare per una proteina alterata (anche in un singolo aa); questa
alterazione può facilitare il clivaggio della proteina in punti diversi da quelli in cui avviene normalmente, e
aumentare anche di molto la tendenza della proteina a precipitare.
Parecchie AL, cioè amiloidosi in cui si trovano delle immunoglobuline leggere associate in depositi di
amiloide (in particolare nel cuore, nel fegato e nei reni), possono essere dovute anche a mutazioni di altre
proteine; infatti una proteina mutata che tende a precipitare forma degli aggregati, che possono fungere da
centro di nucleazione che attrae e determina la precipitazione di altre proteine, anche diverse. Essendo quindi
le Ig, dopo l’albumina (una proteina estremamente idrofilica), le proteine più diffuse nel plasma, la loro
precipitazione può essere determinata da un centro di nucleazione costituito da un altro tipo di proteine. Per
cui si possono ritrovare depositi di immunoglobuline anche in persone che non hanno mielomi o
iperproduzione di immunoglobuline, ma in soggetti che hanno alterazioni in alti tipi di proteine (per esempio
persone con alterazioni del fibrinogeno o della transtiretina).

Proteina di Bence-Jones ! proteina appartenente alla classe delle globuline. È di fatto la catena leggera di
un anticorpo, distaccata dalla catena pesante. Le catene leggere chiamate ‘proteina di Bence Jones’ sono
diverse dalle catene leggere ‘usuali’ che i linfociti B del corpo normalmente producono, in quanto sono
libere (cioè non legano la catena pesante) e sono monoclonali, cioè tutte geneticamente uguali (mentre le
normali catene leggere sono policlonali, ovvero tutte con delle sottili differenze tra loro). Può accumularsi e
formare aggregati di amiloide.

PATOLOGIA 20-11-12 prof. Avvedimento

Alzheimer
L’Alzheimer è un classico esempio, insieme al morbo di Parkinson, di malattie neurodegenerative in cui è
possibile notare amiloidosi.
L’Alzheimer è la patologia neurodegenerativa più diffusa, e probabilmente ciò è dovuto all’aumento della
vita media della popolazione globale; infatti la maggior parte delle persone, se arrivate ad un’età piuttosto
avanzata, svilupperebbero l’Alzheimer. Può essere infatti quasi considerata una malattia ‘fisiologica’, nel
senso che è dovuta ai processi di invecchiamento del cervello.
La malattia è caratterizzata da perdita progressiva e irreversibile di neuroni e sinapsi della corteccia e
dell’ippocampo. Le manifestazioni tipiche dell’Alzheimer sono:
• deterioramento progressivo della memoria e del linguaggio
• perdita della capacità di giudizio
• perdita di orientamento spaziale e temporale

Normalmente, le proteine hanno una vita limitata, e sono soggette a turnover, per cui a un certo punto le
proteine vecchie vanno incontro a degradazione o a eliminazione. Infatti le proteine, dopo un certo tempo,
tendono ad usurarsi; l’usura più frequente è l’ossidazione su residui di lisina, serina o tirosina con
conseguente perdita di legami. Possiamo dunque dire che l’invecchiamento delle proteine scaturisce da un
processo ossidativo continuato.
Il sistema più efficiente per degradare una proteina è quello di ridurla negli amminoacidi costituenti. Tale
attività non può essere svolta da proteasi come tripsina, chimotripsina o altre proteasi, perché esse effettuano
tagli a livello di particolari residui, ma non di tutti i residui della proteina; la degradazione delle proteine
avviene invece nel proteasoma, una macchina enzimatica che degrada in modo attivo le proteine. Per essere
degradata, la proteina deve entrare nel canale del proteasoma; le proteine che devono essere indirizzate al
proteasoma vengono poliubiquitinate.

Il turnover delle proteine nei neuroni quindi avviene con un ritmo circadiano; in questo turnover proteico
sono coinvolte anche le proteine coinvolte nella trasmissione sinaptica. Una proteina neuronale ha dunque
una vita media di 24-16 ore, e questo consente alle proteine del cervello di essere rinnovate all’incirca ogni
mattina. Questo processo dipende da vari fattori, come la luce, gli ormoni e il sonno.
Se mettiamo a confronto un cervello vecchio e un cervello giovane, la differenza risiede nel fatto che quello
vecchio è più piccolo, essendo andato incontro a fenomeni di atresia, ad aumento dei lisosomi e a riduzione
del volume cellulare.
La PET SCAN è una tecnica di medicina nucleare che consente di ottenere mappe dei processi funzionali che
avvengono nel corpo e nel cervello; per quanto riguarda il cervello, la PET SCAN rileva le aree più attive in
base all’aumento dell’apporto ematico e del consumo di ossigeno. Nei soggetti che mostrano la malattia si
nota che c’è una compromissione progressiva delle aree del linguaggio e dell’apprendimento rispetto ai
soggetti sani.

La lesioni anatomopatologiche caratteristiche dell’Alzheimer sono la presenza di:


& placche di amiloide (placche senili) extracellulari ! depositi costituidi da 40-42 residui di β-
amiloide
& ammassi neurofibrillari intracellulari (entanglement) ! costituiti dalla proteina τ iperfosforilata.
Le due lesioni più importanti dell’Alzheimer sono quindi all’esterno le placche di amiloide, ovvero ammassi
di proteina β-amiloide che precipita, mentre dentro le cellule ci sono ammassi di neurofibrille.
La proteina coinvolta nella formazione delle placche senili è la β-amiloide, che tende a precipitare formando
aggregati proteici insolubili. La β-amiloide assume una forma particolare quando precipita; essa forma
aggregati costituiti da la β-foglietti uniti da legami idrofobici. Per cui, dal punto di vista morfologico, gli
aggregati di amiloide formati dalla β-amiloide non sono molto diversi da quelli formati da altre proteine
(come la proteina di Bence Jones, la SAA o altri tipi di proteine) in diversi tipi di amiloidosi. Quando
precipita, la β-amiloide viene a trovarsi all’esterno della cellula perché viene escreta, e blocca le funzioni
neuronali come la trasmissione sinaptiche. Le placche si presentano come grossi corpuscoli birifrangenti.
Gli ammassi neurofibrillari che si trovano all’interno della cellula sono costituiti dalla proteina τ (tau), che
assembla in fasci i neurofilamenti che formano lo scheletro del neurone. La proteina τ cicla tra una forma
fosforilata e una forma defosforilata; quando è fosforilata lega le altre proteine mentre quando è defosforilata
è in forma monomerica. Infatti, i microtubuli si assemblano secondo cicli di fosforilazione e
defosforilazione. La fosforilazione di τ è una caratteristica degli ammassi intracellulari.

Il principale componente delle placche di amiloide che si ritrovano nei pazienti affetti dall’Alzheimer è la β-
amiloide; la β-amiloide deriva dalla β-APP (Proteina precursore della β-amiloide). L’APP è dunque la
molecola precursore, dalla cui proteolisi si genera la β-amilode (Aβ), un peptide che contiene dai 37 ai 49
amminoacidi. L’APP è una proteina integrale di membrana, espressa in vari tessuti (non è dunque
neurospecifica) ma è concentrata nelle sinapsi e nei neuroni. Dunque la localizzazione e la struttura della
proteina sono note, mentre la funzione di questa proteina non è ancora chiara, sebbene sembra prendere parte
a numerosi processi fisiologici (quali la regolazione della formazione delle sinapsi, la plasticità neuronale e il
trasporto del ferro). Si è cercato di scoprirne la funzione mutandola e osservando il funzionamento delle
sinapsi nei neuroni in cui essa era stata modificata.
APP può essere tagliata da enzimi proteolici specifici per questa proteina, tra cui la proteasi BACE (β-
secretasi 1). APP presenta delle similarità con Notch, una proteina che può modificare l’espressione di alcuni
geni; sia APP che Notch, dopo essere state tagliate da specifiche proteasi intracellulari appartenenti alla
famiglia delle secretasi, generano un frammento solubile che migra nel nucleo e attiva la trascrizione dei
geni coinvolti nella plasticità neuronale, nella memoria e nello sviluppo del cervello.
La malattia si stabilisce nel momento in cui una delle proteasi specifiche per APP non funziona, o perché
non viene più riconosciuto bene il sito di taglio o per altri motivi non ancora ben determinati; il difettivo
riconoscimento del sito di taglio può verificarsi o perché si è avuta una mutazione della secretasi, o perché è
mutato il sito di clivaggio. Il sistema è estremamente vulnerabile, infatti esistono varie classi di Alzheimer
precoce dovute a varie forme di mutazione delle secretasi; le secretasi sono così chiamate perché un tempo si
pensava che fossero implicate nella secrezione delle proteine. Nella maggioranza dei casi vi è un
accentuazione dello sviluppo della patologia perché la proteasi non è funzionante, tende a rompersi o non
funziona in modo efficiente. Se la proteasi sbaglia il segmento in cui deve effettuare il taglio, si può generare
un frammento non amiloidogenico oppure un frammento amiloidogenico.
La maturazione dell’amiloide avviene in virtù di un ciclo proteolitico. L’errore del taglio può verificarsi sia
per un mancato riconoscimento del giusto sito di taglio, sia per un mancato funzionamento dell’enzima, e,
teoricamente, possiamo anche avere amiloidosi senza Alzheimer. In realtà, dopo che la secretasi ha effettuato
il taglio sull’APP, una parte della proteina si porta all’esterno, mentre l’altra parte va nel nucleo, per cui essa
APP non può essere definita una proteina transmembrana convenzionale. Se tagliata male, la proteina può
subire un’alterazione della conformazione originale e divenire idrofobica, e ciò causa l’accumularsi di
aggregati proteici all’esterno della cellula.
La β-amiloide (Aβ) è formata in seguito a un clivaggio sequenziale della proteina precursore dell’amiloide
(APP); APP può essere processata da degli enzimi proteolitici chiamati secretasi (α-, β- e γ-secretasi). La β-
amiloide è generate dall’azione sequenziale della β e della γ secretasi. L’α-secretasi infatti taglia all’interno
del frammento che dà origine alla β-amiloide; quando invece APP è processato dalla β-secretasi e dalla γ-
secretasi, dà origine alla β-amiloide, il peptide associato alla malattia di Alzheimer. Per questo, il taglio da
parte dell’α-secretasi previene la formazione della β-amiloide, e questo enzima è considerato facente parte
del pathway non amiloidogenico del processa mento dell’APP.
L’APP dunque quando è tagliata dall’α-secretasi non precipita, perché il clivaggio avviene al centro della β-
amiloide, e dunque previene la formazione di questo peptide amiloidogenico; il segmento prodotto dall’α-
secretasi è infatti solubile. Se invece APP è tagliato dalla β- e dalla γ-secretasi, forma la β-amiloide, che
tende invece a precipitare; la processazione operata da queste due secretasi è sequenziale, nel senso che la γ-
secretasi agisce solo sui residui già clivati dalla β-secretasi.
La γ-secretasi è costituita da varie subunità, tra cui la presenilina e la nicastrina. La presenilina è la subunità
della γ-secretasi responsabile del taglio dell’APP, cioè rappresenta la componente catalitica del complesso; la
nicastrina invece non possiede attività catalitica, ma promuove la maturazione e il corretto assemblaggio
delle altre proteine del complesso. Mutazioni dominanti del gene codificante per la presenilina sono le cause
più comuni della manifestazione familiare precoce del morbo di Alzheimer.

Un’altra caratteristica dell’Alzheimer sono i grovigli neurofibrillari, formati dalla iperfosforilazione della
proteina τ (proteina associate ai microtubuli), che ne causa l’aggregazione e l’assemblaggio in una
formazione insolubile. Si ritiene che la proteina τ leghi i microtubuli e cooperi nella loro formazione e
stabilizzazione; però quando τ è iperfosforilata, non lega più i microtubuli (che diventano instabili e
cominciano a disassemblarsi) e forma invece i grovigli neurofibrillari. La proteina τ non è prensente nei
dendriti, mentre è attiva soprattutto nelle porzioni distali dell’assone, dove collabora nella stabilizzazione ,a
anche nella flessibilità dei microtubuli.

La maggior parte dei casi di Alzheimer non mostrano una componente ereditaria, e vengono definiti
sporadici. In ogni caso, ci sono delle differenze genetiche che possono agire come fattori di rischio. Il più
conosciuto fattore di rischio genetico è la presenza di una particolare variante allelica (E4)
dell’apolipoproteina E (ApoE). Questa variante aumenta il rischio di insorgenza della malattia di Alzheimer
di 3 volte in eterozigosi e di 15 volte in omozigosi.
L’apolipoproteina E si ritrova nei chilomicroni e nelle IDL, ed è essenziale per il normale catabolismo dei
costituenti delle lipoproteine ricche di trigliceridi. Inoltre ApoE ha anche l’azione di promuovere la rottura
proteolitica della β-amiloide, sia all’interno che all’esterno della cellula; alcune isoforme di ApoE però meno
efficienti di altre in quest’ultimo meccanismo; in particolare, l’isoforma ApoE-E4 è molto poco efficiente nel
catalizzare la degradazione della β-amiloide, e ciò comporta che gli individui con questa variante allelica
siano più vulnerabili all’insorgenza dell’Alzheimer.

L’Alzheimer comincia in modo subdolo a partire dalla corteccia entorinale (una parte della formazione
dell'ippocampo) e si distribuisce al cervello. Ci si è pertanto chiesti se la proteina τ iperfosforilata si diffonda
da un solo punto (origine monoclonale), oppure se viene prodotta in modo indipendente da ogni neurone
(origine policlonale).
Per scoprire ciò, è stato effettuato un esperimento su dei topi geneticamente modificati, in cui è stato indotto
l’Alzheimer perché esprimono il gene per la presenilina mutato. Si prende poi la proteina τ e si marca solo
quella prodotta a livello della corteccia entorinale: inizialmente i grovigli di τ sono presenti solo a livello
della corteccia entorinale; dopo qualche tempo però si rilevano grovigli di τ marcata anche in altre zone della
corteccia cerebrale.
Dunque, anche se viene fatta esprimere la proteina τ alterata solo nella corteccia entorinale, dopo un po’ però
l’amiloide e i grovigli neurofibrillari con la τ marcata si trovano in tutta la corteccia. Dal momento che τ
marcata si trova dappertutto, significa che dopo essere stata prodotta a livello della corteccia entorinale si è
diffusa; dunque questo evento suggerisce, ma non prova definitivamente, che ci può essere trasmissione
trans-sinaptica di proteine misfolded. Non si tratta quindi di episodi clonali (ogni neurone non sviluppa la
malattia indipendentemente dagli altri neuroni), ma potrebbe esserci un singolo neurone (o un gruppo di
neuroni) in cui comincia la lesione. In questo neurone avviene misfolding di amiloide, la quale viene secreta
all’esterno; inoltre la proteina τ di questa cellula viene iperfosforilata e produce gli ammassi neurofibrillari;
poi a poco a poco la proteina τ che sta dentro la cellula si può trasferire per via trans-sinaptica a tutti i
neuroni collegati. Se questo è realmente il procedimento il progressione dell’Alzheimer, questa progressione
potrebbe essere inibita limitando la trasmissione trans-sinaptica di τ. In futuro potremmo curare l’Alzheimer,
oltre ad agire sulla causa del misfolding dell’amiloide, anche limitando il trasferimento trans-sinaptico
bloccando alcune sinapsi; ciò sempre a patto che si riveli definitivamente provato il fatto che l’alterazione
proteica si può diffondere attraverso la sinapsi, la quale potrebbe avere un meccanismo d’azione simile a
quello dei prioni, inducendo l’alterazione delle proteine normali. Questo esperimento tende a suggerire che ci
può essere una trasmissione della proteina alterata τ anche per via cellula-cellula.

Parkinson
Il sistema extrapiramidale è un insieme di vie e di centri nervosi che agiscono direttamente o indirettamente
sulla corretta azione motoria, controllando le reazioni istintive orientate e adattandole al movimento
volontario, coordinato dal sistema piramidale.
Il sistema extrapiramidale è soggetto a neurodegenerazione molto più frequentemente di quello piramidale;
infatti è sede di oltre il 90% delle malattie neurodegenerative (ma non dell’Alzheimer). Per l’attività
dell’extrapiramidale sono fondamentali due mediatori: l’acetilcolina e il GABA.

Il Parkinson, per frequenza, è la seconda malattia nero degenerativa dopo l’Alzheimer. Caratteristiche del
parkinsonismo sono:
$ bradicinesia
$ rigidità e instabilità posturale
$ tremori a riposo.

Per quando riguarda l’analisi istopatologia, si rilevano:


% perdita dei neuroni dopaminergici della sostanza nigra
% presenza di corpi di Lewy (dati da proteine ubiquitinate nel citoplasma dei neuroni)
% presenza di neuriti di Lewy (inclusioni filamentose).

I fusi neuromuscolari, dei recettori periferici, percepiscono il grado di distensione del muscolo; se il muscolo
è disteso il fuso si allunga, e aumenta la propria scarica. A livello del midollo spinale i neuroni sensitivi
formano sinapsi con quelli motori, e quando c'è un aumento degli impulsi fusali provenienti dal muscolo, il
motoneurone è stimolato ed invia impulsi eccitatori, aumentando il tono muscolare (riflesso da stiramento);
quando invece c'è una diminuzione della frequenza degli impulsi il motoneurone viene inibito, favorendo il
rilassamento. Nel frattempo i neuroni sensitivi inviano anche informazioni ai centri superiori e al cervello per
informarlo sul posizionamento del corpo nello spazio; in particolare il cervelletto rappresenta un’importate
stazione di arrivo delle informazioni fusali e delle altre informazioni provenienti dalla periferia, e grazie al
fatto che riceve anche efferenze cerebrali, funge da comparatore dell’errore (analizza di quanto si discosta il
movimento che si vuole compiere da quello che si sta compiendo).

Un altro importante sistema di regolazione del movimento è rappresentato dai gangli della base, o nuclei
sottocorticali. I nuclei (o gangli) della base rielaborano le informazioni provenienti dalla corteccia e le
riproiettano ad essa, costituendo delle vere e proprie vie; in particolare, il circuito scheletromotorio controlla
la messa in atto dei movimenti volontari e involontari (per es. la postura), in quanto raccoglie informazioni
provenienti dalle aree motorie e somestetiche, per poi proiettare verso le aree motorie frontali. Il cervelletto e
i nuclei sottocorticali sono sede della maggior parte delle malattie neurodegenerative avanzate, proprio per il
loro importante ruolo nel controllo dei movimenti e della postura.
I gangli basali, un gruppo di strutture cerebrali innervate dal sistema dopaminergico, sono le aree cerebrali
più colpite nella malattia di Parkinson. La principale caratteristica patologica della condizione è la morte
delle cellule nella substantia nigra. I sintomi principali della malattia di Parkinson sono il risultato di una
attività molto ridotta delle cellule secernenti dopamina, causata dalla morte cellulare nella regione pars
compacta della sostanza nigra; la sostanza nigra produce dopamina, ed è anche coinvolta nella regolazione
dell’umore.

Il fuso neuromuscolare determina la nascita di un arco riflesso spinale; quando abbiamo l’attivazione del
fuso neuromuscolare, il motoneurone si attiva e il muscolo si contrae. Anche quando stiamo in piedi, seduti o
sdraiati i muscoli non sono mai completamente rilassati, ma sono mantenuti sotto tensione grazie all’azione
dei fusi, che determinano contrazione muscolare quando sono i muscoli sono rilasciati, e permettono pertanto
il mantenimento del tono muscolare, in modo da mantenere la stazione eretta e la postura.
Il tono muscolare presenta un controllo dai centri superiori sia tonico (sistema extrapiramidale) che fasico
(sistema piramidale); il controllo tonico è continuo, mentre quello fasico, che deriva dalla corteccia cerebrale
(fascio corticospinale) permette di modulare il tono muscolare volontariamente. Abbiamo quindi il tono di
base che è dato dall’arco riflesso, e questo tono può essere modulato dal sistema extrapiramidale o dalla
corteccia.
Se il sistema di controllo del tono muscolare non funziona più adeguatamente, abbiamo dei difetti nel
compiere i movimenti; nel Parkinson sono alterate alcune componenti del sistema extrapiramidale, e ciò
comporta rigidità muscolare, condizione che si caratterizza per rigidità e resistenza muscolare date da
aumento del tono muscolare, e i movimenti avvengono a scatti.
Il Parkinson, colpendo il circuito dopaminergico (coinvolto nelle emozioni), può determinare alterazione
dell’umore e delle emozioni.
La maggior parte delle persone con malattia di Parkinson presenta una condizione idiopatica (che non ha una
causa specifica nota); una piccola percentuale di casi, tuttavia, può essere attribuita a fattori genetici
conosciuti. Altri fattori sono stati associati con il rischio di sviluppare la malattia, ma non sono stati
dimostrate relazioni causali. La malattia di Parkinson è stata tradizionalmente considerata una malattia non
genetica; tuttavia almeno il 5% delle persone ha delle forme della malattia che si verificano a causa di una
mutazione di un determinato gene specifico. Le mutazioni in geni specifici (come quelli che codificano per
l’α-sinucleina e la parkina) sono state definitivamente dimostrate essere causa della malattia.
L’α-sinucleina normalmente è una proteina solubile non strutturata, ma in condizioni patologiche può
aggregare in una forma insolubile e formare i corpi di Lewy (inclusi cellulari che si riscontrano nel Parkinson
ed altre malattie neurodegenerative); l’α-sinucleina infatti è il componente principale delle fibrille dei corpi
di Lewy. In rari casi di forme familiari del morbo di Parkinson, ci sono mutazioni che codificano per il gene
dell’α-sinucleina; sino ad adesso sono state identificate tre mutazioni puntiformi missenso; anche
duplicazioni e triplicazioni del locus che lo contiene (circa il 2% dei casi familiari) sono state trovate in
diversi gruppi aventi familiari affetti dalla malattia di Parkinson. Sebbene rara, la moltiplicazione genica è
più frequente delle mutazioni puntiformi. Quindi in definitiva alcune mutazioni dell’α-sinucleina possono
formare fibrille simil-amiloide che contribuiscono alla generazione della malattia di Parkinson.
L’α-sinucleina è presente in modo particolare nelle sinapsi, e si ipotizza controlli il metabolismo della
dopamina. Se la dopamina non è inclusa in vescicole, può ossidarsi e generare ROS, causando danno
neuronale; il deficit di sinucleina riduce la formazione di vescicole di dopamina, e rende la dopamina più
soggetta all’ossidazione, generando radicali e danneggiando, fino a causarne la morte, i neuroni della
sostanza nigra.
Per quanto riguarda la parkina, la sua funzione è sconosciuta; si sa però che questa proteina fa parte del
complesso multiproteico dell’E3 ubiquitini-ligasi, che catalizza la reazione di poliubiquitinazione e
l’indirizzamento alla degradazione proteasomale delle proteine. Mutazioni di questo gene possono causare
alcune forme familiari di Parkinson; il modo con cui la perdita di funzione della parkina conduce alla morte
delle cellule dopaminergiche è ancora poco chiaro; le ipotesi prevalenti sono che la parkina cooperi nella
degradazione di una o più proteine tossiche per i neuroni dopaminergici, e ne eviti l’accumulo.

Malattie da prioni
I prioni sono costituti da forme anomale di una proteina a basso peso molecolare dell’ospite, chiamata
proteina prionica (PrP); questi agenti possono essere la causa di encefalopatie spongiformi trasmissibili
(TSE), come la malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD) e l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE). Il termine
spongiformi indica proprio l’aspetto caratteristico (come una spugna bucherellata) che assume il cervello dei
soggetti affetti da queste malattie.
La proteina prionica è normalmente presente nei neuroni; la malattia si manifesta quando la PrP subisce una
variazione conformazionale che le conferisce resistenza alle proteasi. La PrP proteasi-resistente promuove a
sua volta la conversione della normale PrP proteasi-sensibile nella forma anomala, e ciò spiega la natura
infettiva di queste patologie. L’accumulo di PrP anomala determina danno neuronale e la caratteristica
lesione spongiforme dell’encefalo. Mutazioni spontanee o ereditarie della PrP, tali da renderla resistente alle
proteasi, sono state notate rispettivamente nella forma sporadica e familiare della CJD.
Possiamo quindi dire che la proteina prionica presenta due isomeri, la PrPC, cioè la forma normale, e la
PrPSC, che invece rappresenta la particella proteica infettiva. PrPSC è una particella infettiva molto
particolare, in quanto sebbene priva di acidi nucleici, risulta comunque infettiva in quanto è in grado di
impartire la conformazione alterata e patogena alla proteina omologa PrPC, che è un normale costituente
cellulare. La PrPSC è resistenze ad alte temperature, ad alta pressione, alla formaldeide e ai raggi UV e X. La
proteina prionica normale è caratterizzata dalla presenza di una struttura ad α-elica, mentre quella anomala
presenta una struttura con β-foglietti.

L'encefalopatia spongiforme bovina (BSE, Bovine Spongiform Encephalopathy) è una malattia neurologica
cronica, degenerativa e irreversibile che colpisce i bovini causata da un prione. Il morbo è diventato noto
all'opinione pubblica come morbo della mucca pazza. Esiste una correlazione fra la BSE e una nuova
variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob (vCJD o nvCJD) che colpisce l'uomo, che può essere trasmessa
all’uomo tramite l’ingestione di parti del sistema nervoso (ma non solo) dell’animale infetto.
In realtà la proteina prionica è specie-specifica, per cui l’infezione della mucca non tende a trasmettersi da
animali all’uomo, a meno che la proteina prionica non muti assumendo una struttura simile a quella umana.
La malattia di Creutzfeldt-Jacob (MCJ) è una malattia neurodegenerativa rara, che conduce ad una forma di
demenza progressiva fatale. La sindrome clinica è caratterizzata da perdita di memoria, cambiamenti di
personalità, allucinazioni, disartria, mioclono, rigidità posturale e convulsioni. I sintomi della MCJ sono
causati dalla progressiva morte delle cellule nervose del cervello, che è associata con la formazione di
placche amiloidi dovuti ai prioni. La proteina prionica che causa questa malattia può essere soggetta a
mutazioni spontanee o ereditarie, che ne favoriscono la conformazione alterata.
Si differenzia dal caso del morbo della mucca pazza, in cui invece l’insorgenza della patologia è dovuta
all’assunzione della proteina prionica alterata della mucca.

Patologia 21-11-12 Prof Avvedimento parte 1 e 2

ATEROSCLEROSI
L'aterosclerosi è una forma di arteriosclerosi caratterizzata da infiammazione cronica solitamente delle
arterie di grande e medio calibro che si instaura a causa dei fattori di rischio cardiovascolare: fumo,
ipercolesterolemia, diabete mellito, ipertensione, obesità, iperomocisteinemia; si sospetta che possano esservi
anche altre cause, in particolare di natura infettiva e immunologica.
Il termine aterosclerosi è usato per sottolineare la presenza dell'ateroma (che indica il materiale grasso,
poltaceo, contenuto nelle placche). Le lesioni, che hanno come caratteristica specifica la componente lipidica
più o meno abbondante, si evolvono con il tempo: iniziano nell'infanzia come strie lipidiche (a carattere
reversibile) e tendono a divenire placche aterosclerotiche, che nelle fasi avanzate possono restringere
(stenosi) il lume arterioso oppure ulcerarsi e complicarsi con una trombosi sovrapposta, che può portare a
una occlusione, spesso improvvisa, dell'arteria. Le placche aterosclerotiche quindi, oltre ad ostacolare di per
sé il flusso ematico (stenosi vasale), possono rompersi causando la trombosi dei vasi; inoltre possono
indebolire la tonaca media sottostante e portare alla formazione di aneurismi.
Anatomicamente, la lesione caratteristica dell'aterosclerosi è l'ateroma o placca aterosclerotica, ossia un
ispessimento dell'intima (lo strato più interno delle arterie, che è rivestito dall'endotelio ed è in diretto
contatto con il sangue) delle arterie, dovuto principalmente all'accumulo di materiale lipidico (grasso) e a
proliferazione del tessuto connettivo, che forma una cappa fibrosa al di sopra del nucleo lipidico.
Clinicamente l'aterosclerosi può essere asintomatica, oppure manifestarsi, di solito dai 40-50 anni in su, con
fenomeni ischemici acuti o cronici, che colpiscono principalmente cuore, encefalo, arti inferiori e intestino.
Più che una malattia, possiamo parlare di un gruppo di malattie.

Aterosclerosi e arteriosclerosi:
- Aterosclerosi ! gruppo di malattie che è caratterizzato da alterazione dei vasi, con la formazione di
placche ateromasiche. L'aterosclerosi è un particolare tipo di arteriosclerosi in cui il danno
endoteliale è causato dalla formazione di placche ateromatose.
- Arteriosclerosi ! definizione generica di sclerosi dell’arteria. L'arteriosclerosi è un indurimento
tissutale, o sclerosi, della parete arteriosa che compare con l'avanzare dell'età, come conseguenza
dell'accumulo di tessuto connettivo fibroso a scapito della componente elastica. Ne esistono tre
forme morfologicamente distinte:
" Aterosclerosi: formazione della placca ateromatosa o ateroma.
" Sclerosi calcifica della media: calcificazioni della tonaca media delle arterie muscolari.
" Arteriosclerosi ialina: ispessimento ialino della parete delle piccole arterie e delle arteriole.

L’aterosclerosi è un processo infiammatorio, in cui sono coinvolti i lipidi. I lipidi, quando si trovano in
soluzioni acquose, non sono solubili ma formano delle emulsioni.
I vasi possono essere paragonati a condutture idrauliche che accumulano residui e ruggine. Una questione da
porsi è come mai l’evoluzione non ha selezionato individui che riuscissero a mantenere puliti i vasi.
Gli organi più colpiti sono gli organi più importanti, il cervello e il cuore. Pure gli altri organi sono colpiti,
ma se ciò accade nel cuore o nel cervello, le conseguenze sono gravi.

Organi interessati
Sia nel cuore che nel cervello ci sono dei motivi per cui questo fenomeno capita più frequentemente. In
particolare, gioca un ruolo importante l’architettura dei vasi.
Per quanto riguarda il cervello, l’architettura dei vasi è molto particolare. A differenza di altri organi, come il
rene, il fegato e lo stesso cuore, non c’è un supporto che mantiene i vasi quando piegano, e tutti i vasi si
dirigono perpendicolarmente dall’esterno all’interno e da sotto in sopra facendo degli angoli; questi angoli
non sono sostenuti da supporti, ma da sostanza bianca, di natura prevalentemente lipidica (mielina). Ogni
tipo di insulto pressorio o alterazioni idrodinamiche, dovute ad esempio a resistenza periferica (vasi) e
pressione del sangue (cuore), può rapidamente condurre o alla formazione di aneurismi (infatti gli aneurismi
cerebrali sono molto frequenti) oppure può indurre alterazioni che portano alla formazione di placche
aterosclerotiche.
Questa è una ragione squisitamente anatomica. A questo si aggiunge il fatto che il cervello e il cuore sono
due organi che consumano molto ossigeno, per cui anche piccole variazioni di flusso, se sono improvvise,
possono rapidamente modificare il metabolismo.

Patogenesi
Contrariamente alla prima formulazione dell'ipotesi della ‘risposta al danno endoteliale’, oggi è generalmente
accettato che l'inizio dell'aterosclerosi non richieda un danno endoteliale nella forma di desquamazione
focale, con denudamento dell'intima e adesione piastrinica. Piuttosto, un evento precoce dell'aterogenesi è
identificato nell'alterazione funzionale (disfunzione) dell'endotelio da parte delle noxae patogene. La
compromissione della attività endocrino-paracrina dell'endotelio è responsabile della disfunzione endoteliale.
L'alterazione funzionale si manifesta con l'espressione di molecole adesive alla superficie cellulare e con la
secrezione di sostanze biologicamente attive (citochine, fattori di crescita, radicali liberi), che sono
responsabili dell'adesione dei leucociti, ma anche di turbe delle proprietà emostatiche dell'endotelio, della
permeabilità alle proteine plasmatiche e del controllo del tono vasale.
Gli eventi iniziali nella formazione dell'aterosclerosi (aterogenesi) vanno identificati nel danno dell'endotelio
(danno funzionale o disfunzione endoteliale) e nell'accumulo e successiva modificazione (aggregazione,
ossidazione e/o glicosilazione) delle lipoproteine a bassa densità (LDL) nell'intima delle arterie, due eventi
che si influenzano a vicenda.
L'accumulo delle LDL è dovuto non solo all'aumento della permeabilità dell'endotelio funzionalmente o
anatomicamente danneggiato, ma anche al loro legarsi ai costituenti della matrice extracellulare dell'intima,
legame che aumenta il tempo di residenza in loco delle lipoproteine. Un fattore importante che causa un
aumento della matrice connettivale intimale (ispessimento dell'intima) è rappresentato dall'attrito della
corrente sanguigna sulla superficie vasale (stress emodinamico), che è particolarmente accentuato in
corrispondenza delle ramificazioni e delle curvature dei vasi, sedi che risultano particolarmente predisposte
alla sviluppo delle lesioni aterosclerotiche.
La disfunzione/attivazione endoteliale, ad opera dei fattori di rischio cardiovascolare, è seguita dall'adesione
e migrazione di monociti e linfociti T nell'intima in risposta all'espressione sulla superficie endoteliale di
molecole adesive (Selettine, VCAM-1, ICAM-1) e ai segnali chemiotattici (MCP-1) emessi dall'endotelio
danneggiato. I macrofagi fagocitano le lipoproteine infiltrate ed ossidate nell'intima e si trasformano nelle
cellule schiumose, che caratterizzano le strie lipidiche (fatty streaks). La secrezione di citochine e di fattori di
crescita, principalmente di derivazione macrofagica, induce la migrazione delle cellule muscolari lisce dalla
media nell'intima, dove proliferano, si differenziano nel fenotipo che sintetizza matrice extracellulare,
determinando la trasformazione delle strie lipidiche nelle lesioni avanzate. Alla crescita delle lesioni può
contribuire l'adesione di piastrine all'intima denudata e il formarsi di trombi intramurali, conseguenti alla
erosione/ulcerazione delle placche aterosclerotiche.
Quindi, nella patogenesi dell'aterosclerosi intervengono l'endotelio, i leucociti, le cellule muscolari lisce e le
piastrin,e e rivestono un ruolo fondamentale l'infiltrazione lipidica della parete arteriosa e l'azione meccanica
del flusso sanguigno sulle pareti dell'arteria.

L’aterosclerosi è una patologia infiammatoria, per cui coinvolge le stesse cellule coinvolte nei processi
infiammatori. In particolare, abbiamo dei monociti che a livello del punto in cui poi si verrà a formare la
placca si comportano come se ci fosse un focolaio infiammatorio, con i processi correlati (chemiotassi,
adesione, diapedesi, fagocitosi, ecc.). Le molecole che intervengono sono anch’esse le stesse (selectine,
integrine, v-CAM, I-CAM). L’aterosclerosi è quindi un’infiammazione della parete vasale.
Inoltre successivamente possono essere prodotte le fibrille di collagene, per cui si passa dall’infiammazione
acuta a quella cronica, a volte anche in un breve lasso di tempo. Si tratta infatti di lesioni per cui occorrono
degli anni per accumularsi e per essere evidenti, però può capitare che ci voglia anche molto meno (anche
alcuni giorni). Ciò può essere la causa di alcune morti improvvise, che capitano a persone giovani mentre
fanno attività fisica. Infatti la placca ateromasica (che è una placca infiammatoria), una volta formata, può
anche rompersi all’improvviso, e bloccare i vasi:
" coronarie ! morte improvvisa
" cervello ! ictus.

La lesione aterosclerotica comincia con un danno funzionale all’endotelio o come una vera e propria lesione
endoteliale. Ogni giorno infatti i vasi sono sottoposti a stressi meccanici che possono causare lesioni
endoteliali (pressione, urti, resistenze e altri fattori). La cellula endoteliale inoltre è estremamente sensibile ai
radicali; i radicali causano la morte delle cellule endoteliali, mentre sulle cellule muscolari ne stimolano la
crescita. Normalmente però non si forma la placca aterosclerotica, perché nella maggior parte dei casi la
lesione endoteliale è rapidamente riparata.
Nel momento in cui si genera una lesione, cioè si alza la cellula, i leucociti entrano in contatto non più con
l’endotelio, ma con le strutture sottostanti, ed avverte come se ci fosse una lesione. Appena viene perso lo
strato endoteliale, il contatto con le cellule muscolari lisce e con la matrice extracellulare (collagene, ecc.)
induce i leucociti e i macrofagi a ritenere che ci sia un focolaio infiammatorio, ed essi si attivano,
producendo numerosi mediatori. I macrofagi cominciano a fagocitare sostanze che sono veicolate dal flusso
ematico, in particolare i grassi. I grassi nel sangue si spostano come piccole goccioline di olio (a meno che
non siano trasportati da proteine); essi sono rapidamente captati dai macrofagi, soprattutto se il flusso
ematico rallenta. Infatti se il sangue scorre più lentamente, questo processo è velocizzato.
Nel caso di un vaso che presenta aterosclerosi, oltre al vaso stesso, possono essere coinvolti anche i vasa
vasorum. Nei vasi più grandi ci sono infatti i vasa vasorum (vasi dei vasi), i quali risentono della produzione
di fattori locali.
Quindi, riassumendo, il monocita-macrofago dal sangue passa sotto la parete, perché c’è una lesione, e va nel
connettivo, dove viene attivato (in quanto qui ci sono dei fattori attivanti). Inoltre, grazie alla presenza e
all’attivazione dei fattori della coagulazione, si hanno fenomeni di coagulazione, in cui partecipano anche le
piastrine (perché è come se ci fosse una vera e propria lesione). Ma cosa più importante è che il macrofago
incomincia a fagocitare massivamente i lipidi ematici, e si rigonfia di grassi ! cellule schiumose, o foam
cells (macrofagi giganti che hanno accumulato i grassi). La cellula che inizia il fenomeno aterosclerotico è
infatti il macrofago. Il macrofago è la cellula principale coinvolta nella patogenesi della malattia (i
polimorfonucleati invece sono poco importanti).

Si forma quindi la placca. Inoltre il macrofago, oltre a fagocitare lipidi, risulta attivato per la presenza di
numerosi fattori.
MCP-1 (monocyte chemoattractant protein-1) ! induce i monociti a lasciare il letto vascolare ed entrare nel
tessuto circostante, diventando macrofagi. Questa chemochina è coinvolta in varie patologie caratterizzate da
infiltrati di macrofagi, fra cui l’aterosclerosi. È prodotto soprattutto da monociti-macrofagi e cellule
dendritiche. Il PDGF è un potente induttore della sua sintensi.

Processo ateriosclerotico:
1. disfunzione endoteliale (o lesione endoteliale)
2. attivazione dei macrofagi
3. formazione di un core lipidico
4. infiammazione

La placca aterosclerotica si trova tra la tonaca media e quella intima. Se la lesione aterosclerotica si rompe,
può generare un residuo insolubile fatto di grassi, piastrine, coaguli, il quale può ostruire i piccoli vasi.
Una placca giovane è più pericolosa di una placca vecchia. La placca giovane è infatti ricca di cellule, ma ha
scarsa componente fibrosa (collagene), dunque può rompersi facilmente, mentre la placca vecchia diventa
sclerotica, a causa dei meccanismi di fibrosi e di accumulo di proteine. Per cui la placca vecchia è come una
cicatrice che difficilmente si rompe, perché più fibrosa, mentre la placca giovane si rompe con maggiore
facilità. Questa è una delle cause della morte improvvisa nei giovani. Infatti in una persona che sta
perfettamente bene, si può formare velocemente una placca, che si può rompere e bloccare vasi importanti
quali le coronarie (e causando quindi arresto cardiaco). Sono pertanto morti improvvise determinate da
trombosi acuta.
La placca possiede un cap fibroso. Questo sta indicare che la placca non è formata solo da cellule, ma anche
da una componete fibrosa di collagene, in quanto ha stimolato l’infiammazione cronica.
La malattia infatti presenta componenti che riguardano sia l’infiammazione acuta che quella cronica.
L’insieme di infiammazione acuta e cronica crea delle condizioni, per cui alcune persone in alcune persone
la placca non si rompe, mentre in altre si.
Si tratta di una situazione in cui c’è l’infiammazione cronica, l’attivazione dei macrofagi, la produzione di
collagene e la formazione del cap, cioè del cappelletto fibroso che chiude la placca. Però se i macrofagi
continuano ad essere attivati e a fagocitare lipidi, alcuni macrofagi possono morire e riattivare
l’infiammazione acuta. L’infiammazione acuta si accompagna al rilascio di proteasi, le quali digeriscono il
collagene e determinano la rottura della placca. L’equilibrio fra crescita della placca (cioè chemioattrazione
dei macrofagi, formazione di collagene ! infiammazione cronica) e l’attivazione di questi macrofagi
all’interno delle placche (rilascio degli enzimi proteolitici, rottura della placca) conduce a diversi esiti.
Esistono vari enzimi proteolitici. Uno di questi è la collagenasi, un enzima che taglia il collagene. Essa
viene prodotta solo se c’è molto collagene e se si riduce la quantità di citochine pro-fibrotiche (cioè di quelle
che attivano l’infiammazione cronica, come TGF-β e PDGF). E poi ci sono le citochine che attivano
l’infiammazione acuta.
Durante l’infiammazione acuta sono attivate delle proteasi; alcune di queste sono liberate dal macrofago
stesso, che dopo aver fagocitato troppi grassi, può scoppiare e rilasciare enzimi lisosomiali e proteolitici che
digeriscono la placca di collagene del cap fibroso.
Se la placca si rompe, la lesione diventa una cicatrice. La cicatrice irrigidisce il vaso ma non determina la
formazione di trombi, ai quali potrebbe aggiungersi anche le piastrine con l’ostruzione del vaso. Per cui i
vasi vecchi che hanno avuto delle lesioni e delle rotture di placche, diventano fibrotici e sclerotici. Diventano
più piccoli, cioè c’è stenosi, ma non c’è chiusura completa dei vasi. Per cui anche se c’è stenosi, il cervello e
il cuore a poco a poco si adattano all’ossigeno basso. In altre parole, le lesioni vecchie aterosclerotiche, che
diventano arteriosclerotiche, sono meno gravi delle lesioni acute perché c’è adattamento. I vasi possono
anche essere pieni di lesioni aterosclerotiche, pieni di cicatrici vecchie, ma possono ancora avere una certa
funzionalità residua.
La lesione inizia con lo strato epiteliale che si sfalda, però nella sua genesi sono fondamentali anche le
lipoproteine. La presenza di lesioni endoteliali e LDL alterate sono i presupposti scatenanti per la formazione
delle placche.

Ci sono alcuni fattori che possono amplificare o ridurre l’aterosclerosi. Uno dei fattori più importanti sono
gli estrogeni. Gli estrogeni però possono sia indurre che prevenire l’aterosclerosi.
La loro attività di prevenzione spiega perché le donne, prima della menopausa, sono più protette, e dopo la
menopausa possono andare incontro più facilmente ad aterosclerosi.
Quando il rilascio di estrogeni è alto e discontinuo però, si attivano di più i processi infiammatori e il rilascio
di citochine. Quando invece il rilascio è ciclico e regolare, o è più basso, si attivano di più i processi
antiinfiammatori. Ciò implica che gli estrogeni, se ben regolati, prevengono l’aterosclerosi. E questo spiega
le differenze delle donne rispetto agli uomini: prendendo una giovane signora rispetto ad un coetaneo
maschio, guardando i vasi si nota che l’uomo comincia ad avere placche aterosclerotiche, mentre la donna
no. Bisogna però comunque distinguere la qualità dell’effetto estrogenico: da una parte essi possono attivare
geni antiinfiammatori, dall’altra anche geni proinfiammatori; dipende infatti dalla quantità e dal ciclo: se gli
estrogeni ciclano, attivano i geni antiinfiammatori, se invece sono instabili, o se ci sono dei bruschi cali di
estrogeni, questo può attivare i geni proinfiammatori.
L’effetto biologico degli estrogeni è di non fare attivare le piastrine, e ne riducono l’aggregazione.

Una delle sedi più colpite dalla formazione delle placche ateromasiche sono le biforcazioni dei vasi. La
biforcazione della carotide è molto importante, perché è un sito di stress meccanico per l’endotelio, in
quanto lì la pressione è alta, e poi perché l’alterazione in senso stenotico della carotide possono causare
alterazioni al circolo sanguigno, per quanto ci siano meccanismi di compensazione.
La carotide è quindi una delle sedi più colpite, primo perché, venendo alterato il flusso ematico cerebrale
(per quanto il circolo cerebrale sia compensato dall’altro lato), abbiamo delle manifestazioni rilevabili, e poi
soprattutto perché nella biforcazione c’è un’altissima pressione che genera stress meccanico, dunque la
lesione endoteliale è più facile. Se a ciò si aggiunge dislipidemia, queste tre componenti giustificano perché a
livello della biforcazione carotidea si possano formare frequentemente delle placche.
Ruolo delle LDL ossidate
Il ruolo fondamentale nello sviluppo della reazione infiammatoria cronica dell'intima è svolto dalla
ossidazione delle LDL, che restano intrappolate nella matrice extracellulare dello spazio subendoteliale.
L'ossidazione delle LDL è dovuta ad enzimi e metaboliti ossidanti prodotti dalle cellule della parete
arteriosa, soprattutto dai monociti-macrofagi reclutati nell'intima in conseguenza del danno endoteliale a
varia eziologia.
Inizialmente, si ha la perossidazione della componente lipidica delle LDL, che interferisce scarsamente
sull'interazione delle LDL con il recettore ApoB-E (o LDL-R); tali MM-LDL (LDL minimamente ossidate)
sono ‘cavalli di Troia’, fisicamente simili alle LDL, ma con un carico di macromolecole bioattive, che viene
introdotto nella cellula con la endocitosi delle MM-LDL.
Nelle fasi successive, si generano prodotti dei lipidi perossidati e prodotti aldeidici (malonildialdeide, MDA;
4-idrossinonenale), che possono modificare covalentemente la componente proteica delle LDL; queste OX-
LDL non vengono più riconosciute dagli LDL-R, ma si legano agli ‘scavenger receptors’ (SR). Poiché gli SR
non sono soggetti a regolazione a feedback-negativo, le OX-LDL non solo introducono nelle cellule che le
fagocitano macromolecole attive, ma in aggiunta causano l'accumulo intracellulare di esteri del colesterolo,
responsabile della trasformazione in cellule schiumose o foam cells, caratteristiche del tessuto
aterosclerotico.
L'interazione con i corrispondenti recettori LDL-R e SR (e la conseguente generazione di messaggeri
intracellulari, in particolare i radicali liberi dell'ossigeno o ROS) e l'introduzione nella cellula di prodotti
ossidati sono la base biochimica dell'azione patogena delle LDL. Le OX-LDL attivano nelle cellule
(endotelio, macrofagi, cellule muscolari lisce), alcuni fattori di trascrizione (es. NF-κB), che inducono
l'espressione di geni che codificano per molecole adesive, citochine e fattori di crescita e che danno l'avvio
alla risposta infiammatoria. Ad esempio, nell'endotelio, i geni per le molecole adesive ICAM-1, VCAM-1 e
E selettina, per il fattore chemiotattico MCP-1 e per il Fattore Tessutale sono sotto il controllo del fattore di
trascrizione redox-sensibile NF-κB.
Gli studi sperimentali hanno attestato che le LDL ossidate possiedono numerose attività biologiche sulle
cellule della parete arteriosa, inclusa un'azione citotossica diretta e un'azione mitogena su cellule muscolari
lisce, macrofagi, fibroblasti e cellule endoteliali. Nell'endotelio inducono l'espressione di molecole adesive
per i leucociti; stimolano la produzione di sostanze chemiotattiche (che in parte rimangono legate alla
superficie endoteliale e in parte sono liberate nel subendotelio) e favoriscono la sintesi di fattori di crescita
per i monociti/macrofagi e per le cellule muscolari lisce; stimolano la sintesi di PAI-1 (plasminogen activator
inhibitor-1) e di fattore tissutale, promuovendo la coagulazione; stimolano la produzione di endotelina e
inibiscono quella di NO, inibendo la vasodilatazione endotelio-dipendente. Sui macrofagi esercitano un
effetto chemiotattico diretto, determinano la trasformazione in cellule schiumose e stimolano la produzione
di citochine, fattori di crescita e metalloproteasi. Nelle cellule muscolari lisce inducono la sintesi di MCP-1.
Infine le LDL ossidate attivano le piastrine e ne provocano l'aggregazione.

I lipidi sono trasportati nel sangue tramite lipoproteine; infatti i lipidi sono idrofobici, e per essere trasportati
nel sangue necessitano di un trasportatore con una componente idrosolubile. Le lipoproteine sono di diverso
tipo e densità.
Lipidogramma ! è un esame di laboratorio che indica il tracciato elettroforetico delle lipoproteine,
permettendo la loro distinzione in rapporto alla mobilità e alla loro densità in tre classi (HDL, VLDL, LDL),
a cui vanno aggiunti i chilomicroni (provenienti dall'alimentazione e presenti in circolo dopo un pasto
abbondante).

Le lipoproteine sono una mistura di lipidi e proteine; proprio perché presentano i lipidi, sono molto
galleggianti, ossia hanno una densità bassa e tendono ad andare in superficie (fenomeno detto floating). La
densità delle lipoproteine fornisce indicazione della quantità di lipidi che questa presenta. Il lipidogramma è
un utile strumento per valutare i tipi e la quantità di lipidi presenti nel sangue in base alla densità delle
lipoproteine; poiché le proteine sono molto dense mentre i lipidi sono poco densi, maggiore è la componente
lipidica minore è la densità della lipoproteina. Esistono (in ordine decrescente di densità) le HDL, le LDL e
le VLDL e i chilomicroni; man mano che si passa da una proteina più densa a una meno densa aumenta la
quantità di lipidi. La lipoproteina che presenta più lipidi è il chilomicrone, costituito per circa il 90% di
lipidi; il chilomicrone veicola i lipidi provenienti dalla dieta dall’intestino verso il fegato. I chilomicroni, le
VLDL e le LDL sono potenzialmente proinfiammatorie, mentre le HDL sono potenzialmente
antiinfiammatorie.
Le HDL sono lipoproteine ad alta densità, in quanto presentano un’elevata componente proteica, e sono
quindi più solubili, mentre le LDL hanno componente proteica più bassa e quindi sono meno solubili. Le
LDL trasportano il colesterolo dal fegato alla periferia, mentre le HDL dalla periferia al fegato e ai tessuti
steroidogenici; essendo in grado di rimuovere il colesterolo da un ateroma nelle arterie e trasportarlo al
fegato, vengono in genere comunemente chiamate colesterolo buono.

La LDL ha come parte proteica ApoB, che forma una specie di cintura attorno al grasso come se fosse un
salvagente che lo fa galleggiare nel sangue. La parte idrofobica della apolipoproteina sta al centro della
lipoproteina. La LDL però ha dei grassi esposti (in quanto ApoB circonda solo una parte dei lipidi) che
possono interagire con altre componenti del sangue; proprio perché ha una parte dei lipidi esposta, la LDL è
piuttosto sensibile a processi di ossidoriduzione, ossia questa lipoproteina può essere facilmente ossidata (sia
a livello della proteina ApoB che dei grassi ad essa associata). Quando alcuni amminoacidi di ApoB (la parte
proteica della lipoproteina) sono ossidati, cambia la struttura della proteina, che facilita l’ossidazione dei
grassi associati alla proteina, i quali si ossidano e formano esteri del colesterolo. L’ossidazione dei grassi
aumenta la loro aggregabilità e quella delle LDL. L’ossidazione delle LDL avviene normalmente, e anche il
semplicemente il contatto con una parete endoteliale può modificare le LDL. Quando si danneggia una
cellula endoteliale, vengono liberati enzimi idrolitici che possono tagliare dei residui dell’LDL, liberando dei
gruppi reattivi, e anche in questo caso la lipoproteina tende ad aggregare.
Se c’è una lesione vasale in cui manca il rivestimento endoteliale, la lipoproteina può aggregarsi a questo
livello, e poi venire fagocitata dai macrofagi. La proteina alterata è percepita come una particella dannosa,
come qualcosa di estraneo all’organismo che deve essere eliminato. Sia le cellule endoteliali sia i macrofagi
iniziano a sintetizzare la proteina MCP, proteina di chemoattrazione dei macrofagi; questa proteina attrae i
macrofagi e favorisce la maturazione e la differenziazione dei monociti, e si avvia un processo di
infiammazione acuta locale. Di per sé questo processo non è eccessivamente dannoso, però se la quantità di
LDL aumenta, se c’è uno stimolo infiammatorio e se c’è una grave lesione endoteliale, si favorisce
l’attivazione dei macrofagi sul sito alterato; il macrofago attivo produce le citochine che avviano la cascata
di amplificazione dell’infiammazione. I macrofagi che fagocitano i grassi si trasformano in grosse cellule
schiumose.
Una volta che si sono formate le foam cells, se si riduce l’infiammazione acuta, la quantità di lipidi ossidati e
il livello di attivazione dei macrofagi, la lesione può essere coperta, e si avvia il processo di infiammazione
cronica. La presenza invece di proteine e lipidi ossidati e il rilascio di alcuni mediatori può favorire il
riattivarsi dell’infiammazione acuta e l’attivazione di metalloproteasi. Infiammazione acuta, infiammazione
cronica, rottura e morte dei macrofagi e fagocitosi sono dei processi che possono favorire la maturazione
della placca.

Anche per quanto riguarda l’HDL, come tutte le lipoproteine abbiamo una parte proteica ed una parte
lipidica. In questo caso però la parte proteica e molto più elevata rispetto ai chilomicroni e alle LDL, e quindi
i lipidi sono meno esposti. Generalmente, in un individuo normale nel sangue abbiamo 100-120 mg/dL di
LDL e 40-60 mg/dL di HDL, anche se questi valori sono variabili, anche in modo piuttosto consistente, da
individuo a individuo. La struttura di questa lipoproteina è molto più idrofilica, in quanto anche se presenta
un core idrofobico di lipidi, trigliceridi e esteri del colesterolo, ha una maggiore componente proteica; in
particolare, possiamo ritrovare le apolipoproteine ApoA I e II, che mediano l’interazione della lipoproteina
con l’acqua; ApoA infatti è molto solubile, e quanto maggiore è la quantità di ApoA, tanto più la
lipoproteina diventa solubile; la quantità di ApoA varia infatti tra HDL e un’altra. Se una HDL ha più ApoA,
è più densa, e possiamo dire che il ‘colesterolo buono’ è dato dalle HDL con più ApoA. Queste lipoproteine
sono più idrosolubili in quanto, grazie all’azione delle loro apolipoproteine, riducono al minimo l’interazione
dei lipidi con l’esterno. Le HDL sono prodotte dal fegato, vanno in periferia e poi riportano il colesterolo al
fegato, utilizzando per raccogliere il colesterolo i trasportatori ABC.
Un’altra caratteristica di queste lipoproteine è che portano con sé le paraxonasi, enzimi antiossidanti
implicati nel ridurre il rischio di sviluppare patologie coronariche e aterosclerosi; infatti prevengono la
formazione delle LDL ossidate, implicate nella genesi delle placche ateromasiche. Dunque questa classe di
enzimi antiossidativi riducono l’ossidazione delle lipoproteine, favorendo l’eliminazione dei lipidi ossidati.
L’HDL ha dunque azione protettiva nei confronti dell’ossidazione, in quanto se incontra lipidi ossidati nelle
placche o nelle LDL può rimuoverli grazie alla presenza delle paraxonasi, e quindi in un certo senso ‘cura’ le
LDL ossidate. Un’altra azione protettiva delle HDL nel prevenire l’aterosclerosi consiste nel fatto che le
HDL favoriscono l’efflusso di colesterolo dalla periferia al fegato: quando una HDL si lega a una cellula,
favorisce l’uscita di colesterolo attraverso una serie di proteine trasportatrici ABC (ABCA1, ABCG1); le
proteine ABC (dall'inglese ATP-binding cassette) sono trasportatori transmembrana che utilizzano l'energia
dell'idrolisi dell'ATP per trasportare varie sostanze (tra cui i lipidi e gli steroli) attraverso le membrane
cellula.

L’iperomocisteinemia è un fattore di rischio per lo sviluppo di aterosclerosi. I possibili meccanismi


patogenetici con cui l’omocisteina è in grado di favorire eventi aterotrombotici sono molteplici. Uno dei più
noti riguarda il danno endoteliale indotto da stress ossidativo: l’omocisteina può andare incontro a
autossidazione con formazione di dimeri disulfidici di omocisteina, omocisteina-cistina, omocisteina-
proteina. L’ossidazione comporta il rilascio di 2 protoni e 2 elettroni con formazione di ROS. I ROS sono in
grado di ossidare sia i residui amminoacidici sia i lipidi di LDL; anche le membrane delle cellule endoteliali
vengono danneggiate dai ROS. Quindi alti livelli di omocisteina tendono a fare aumentare le lesioni
aterosclerotiche.
Se un individuo ha alti livelli di paraxonasi, il rischio aterosclerotico diminuisce; se invece si hanno bassi
livelli di paraxonasi e alti livelli di omocisteina, il rischio aumenta perché si riduce l’attività antiossidante
delle HDL sulle LDL. L’aumento della quantità delle HDL può in qualche modo compensare l’aumento
delle LDL; recenti studi però hanno dimostrato che persone che hanno alti livelli di HDL in realtà non sono
protette dalle lesioni aterosclerotiche in modo significativo rispetto a chi ha valori normali, in quanto oltre
alla quantità delle HDL bisogna considerare anche la qualità di queste lipoproteine, e cioè la quantità di
ApoA1 e ApoA2, la densità e capacità di produrre enzimi antiossidanti.

Anatomia patologica
Macroscopicamente l'aterosclerosi si manifesta fondamentalmente con tre lesioni elementari, che
rappresentano le fasi evolutive della malattia:
# stria lipidica
# placca fibrosa
# lesione complicata
Le strie lipidiche sono strie allungate di 1-2 mm, ma talvolta raggiungono 1 cm o più, di colore giallastro e
bordi netti, che spiccano sul colore biancastro dell'intima; sono di solito piatte e presentano una superficie
liscia e continua. Si tratta di lesioni reversibili: in presenza dei fattori di rischio cardiovascolare possono
progredire nelle lesioni più avanzate, ma se questi mancano possono regredire.
La placca fibrosa consiste di un ispessimento circoscritto, sporgente sul piano dell'intima, di colorito bianco
perlaceo o lievemente giallognolo, di dimensioni varie, da qualche millimetro a diversi cm. La superficie è
liscia o alquanto scabra ma continua, la consistenza è dura. Alla sezione, l'aspetto può essere omogeneo
oppure variegato per la presenza di un centro decisamente giallo, molle o poltaceo, unto e asportabile (la
cosiddetta pappa ateromasica), ricoperto verso l'intima da un rivestimento fibroso, detto cappa, duro e
biancastro.
Le placche fibrose possono poi andare incontro ad ulteriori complicazioni (ulcerazione, emorragia, trombosi,
calcificazione), determinando così il terzo e più grave stadio aterosclerotico, le lesioni complicate.

Conseguenze dell’aterosclerosi
Gli esiti principali dipendono dalla dimensione dei vasi coinvolti, dalla stabilità relativa della placca stessa e
dal grado di degenerazione della parete arteriosa sottostante.
I vasi più piccoli possono occludersi, compromettendo la perfusione dei tessuti distali. La rottura delle
placche può provocare l’embolizzazione dei frammenti aterosclerotici e determinare l’ostruzione dei vasi
distali, oppure una trombosi vascolare acuta. Inoltre la distruzione delle pareti vascolari sottostanti può
causare la formazione di aneurismi, con rottura secondaria e/o trombosi.

Conseguenze dell’aterosclerosi:
# Stenosi aterosclerotica
# Modificazioni acute delle placche (rottura, ulcerazione, emorragia dell’ateroma); l’erosione o la
rottura delle placche è in genere subito seguita da una trombosi vascolare parziale o completa, che
determina infarto acuto dei tessuti.
# Trombosi
# Vasocostrizione
Patologia 22-11-12 Prof Avvedimento

MALATTIE LEGATE AL DANNO AL DNA


Le malattie legate al danno al DNA e all’instabilità genomica sono per la maggior parte malattie genetiche;
anche i tumori però sono caratterizzati da instabilità genomica.
Quando la cellula invecchia, la velocità di riparazione del DNA decresce fino a che non può tenere più il
passo con la creazione del danno al DNA. A quel punto la cellula va incontro ad uno dei tre possibili destini:
1. Uno stato di dormienza irreversibile, detto senescenza.
2. Il suicidio della cellula chiamato apoptosi o morte cellulare programmata.
3. La carcinogenesi, ossia la formazione del cancro.

Le malattie legate al danno al DNA possono provocare invecchiamento precoce sia cellulare che
dell’individuo; un esempio è la progeria, una malattia rara che causa l'invecchiamento precoce anche se non
altera la mente, che resta l'unico indice della vera età del malato. Inoltre causa nel bambino l'insorgere di
malattie tipiche degli anziani, quali la malattia coronarica, e porta l'individuo ad una morte precoce. La
maggior parte dei casi è causata da una mutazione troncante il gene della lamina A (proteina facente parte
della lamina nucleare) nei cromosomi paterni; il gene LMNA di solito subisce una mutazione de novo
dominante. Quindi gli individui affetti da progerie dimostrano un’età fisica molto più grande di quella reale.
Un altro esempio di malattia che provoca invecchiamento precoce è la sindrome di Werner, una malattia
genetica ereditaria rara che provoca invecchiamento precoce, associato ad una predisposizione al tumore; è
una malattia autosomica recessiva. La malattia è causata da un mutazione nel gene WRN, che codifica una
DNA elicasi che funziona in direzione 3’!5’. In questa sindrome, l’invecchiamento precoce si manifesta più
tardivamente rispetto a quanto accade nella progerie.
Dunque l’invecchiamento precoce può manifestarsi già nei bambini, oppure più in là negli adulti, a seconda
dei diversi geni alterati coinvolti.
Tutte le malattie dovute all’instabilità genomica, sia genetiche sia somatiche, comportano o un fenotipo
senescente oppure neoplastico; questa potrebbe sembrare una contraddizione, in quanto le cellule
neoplastiche sono caratterizzate del fatto di evadere la senescenza e divenire immortali. In realtà senescenza
e tumori sono due facce della stessa medaglia.

Per organismi che vivono poco, come i lieviti o i batteri, il danno al DNA è una sorgente di variazione e di
evoluzione, mentre per specie che vivono a lungo come l’uomo il danno al DNA è dannoso, perché
compromette l’individuo, la sua capacità di sopravvivenza e quella di generare prole. Il danno al DNA porta
ad instabilità genomica, e l’instabilità genera alterazione delle cellule; l’uomo pertanto ha sviluppato dei
sistemi estremamente sofisticati per sentire il danno e per ripararlo.
Anche in condizioni normali, il DNA è soggetto a mutazioni con una certa frequenza (di circa 1 base su 109
ad ogni replicazione cellulare), perché in ogni cellula abbiamo più di tre miliardi di coppie di basi, e anche se
la polimerasi è un enzima estremamente efficiente, è anch’esso soggetto ad errore (circa ogni 107 nucleotidi,
se consideriamo l’attività esonucleasica 5’!3’), anche se la maggior parte di essi sono corretti dai
meccanismi di riparo.
Naturalmente ci sono delle sorgenti esogene che accelerano l’alterazione del DNA, come le radiazioni
ionizzanti, i raggi UV, gli agenti chimici, ma anche fonti endogene (tra cui spiccano i ROS). Le radiazioni
ionizzanti (come i raggi X) possiedono elevata energia e sono di tipo α (basso potere di penetrazione), β e γ
(alto potere di penetrazione). Le radiazioni ultraviolette hanno una minore energia rispetto a quelle
ionizzanti, e sono distinte in vari tipi: UV-A (400-315 nm), UV-B (315-280 nm) e UV-C (280-100 nm), di
cui le UV-C sono le più dannose (ed hanno una frequenza d’onda che risuona con le basi di DNA, 260 nm).
Possiamo avere vari tipi di danno al DNA: c’è il danno a una singola base, che può essere mancante o
alterata, oppure possiamo avere delezioni, inserzioni, traslocazioni, ecc. Possiamo poi avere rottura del
singolo filamento di DNA (single-strand break), ma il danno più pericoloso per il DNA è però la rottura a
doppio filamento, il double-strand break.
Il DNA è formato da oltre tre miliardi di coppie di basi; i cromosomi, distesi, possono raggiungere anche 20
cm, e se prendiamo il DNA di una singola cellula esso raggiunge circa i 2 m di lunghezza (anche se nel
nucleo il DNA è sotto forma di cromatina, e occupa un piccolo volume grazie ai vari processi di
compattamento). In alcuni casi però il DNA si distende, come quando deve andare incontro a replicazione o
trascrizione, e durante questi processi il DNA diventa vulnerabile ed è più soggetto a rottura di uno o di
entrambi i filamenti; l’apertura della doppia elica facilita fenomeni quali traslocazione, fusione, inserzione,
delezione, ecc.

Il cromosoma presenta ad entrambe le proprie estremità delle strutture particolari, chiamate telomeri; i
telomeri sono composte da sequenze ripetute di DNA che si associano a diverse proteine, e proteggono le
terminazioni dei cromosoma. I telomeri formano un cappelletto all’estremità dei cromosomi (che altrimenti
risulterebbero aperte e reattive) e ne impediscono la fusione con l’estremità di altri cromosomi.
I telomeri si accorciano a causa del meccanismo di replicazione del filamento lagging del DNA. Il DNA in
replicazione presenta infatti un filamento ‘leading’ ed uno ‘lagging’, in quanto la replicazione del DNA non
ha inizio dalle estremità ma da varie regioni più centrali di ogni cromosoma, e inoltre tutte le DNA
polimerasi polimerizzano in direzione 5’!3’ (spostandosi in direzione 3’!5’). Sul filamento leading, la
DNA polimerasi può produrre un filamento complementare senza ostacoli, perché procede da 5’ al 3’. Al
contrario, c’è un problema riguardo al senso 3’!5’ che l'enzima dovrebbe prendere sul lagging; per risolvere
questo problema, piccole sequenze di RNA (RNA primer) legano tale filamento e agiscono come innesco,
favorendo l'attacco della DNA polimerasi e l'avvio della polimerizzazione; questo processo genera la
formazione dei frammenti di Okazaki. I frammenti di Okazaki sono processati infine dalla DNA polimerasi,
che sostituisce l'RNA dei primers con DNA, e dalla DNA ligasi, che forma il legame fosfodiesterico tra
frammenti consecutivi. Questo accade presso tutti i siti del filamento lagging, ma non dove si appaia l'ultimo
primer di RNA; in questa regione, infatti, l'RNA viene distrutto da RNAsi, ma non c'è alcuna sostituzione
con DNA. Questo genera un continuo processo di accorciamento di queste regioni, che si trovano appunto
presso i telomeri.
Proprio per questo processo di accorciamento dei telomeri, la lunghezza dei telomeri in una cellula è molto
variabile (da 3 a 25 kilobasi), a seconda dell’età cellulare: le cellule vecchie hanno subito più replicazioni, ed
è per questo che presentano un telomero più corto, mentre la cellula giovane ha il telomero più lungo in
quanto ha avuto meno replicazioni. I telomeri delle cellule staminali invece non sono accorciati, in quanto la
cellula staminale si divide in modo asimmetrico e conserva il DNA template, mentre trasmette alle figlie
quello neosintetizzato. La vecchiaia, dal punto di vista cellulare, può essere dunque dovuta all’accorciamento
dei telomeri.
Il telomero è un punto sensibile del genoma, perché è costituito da due estremità libere di DNA, proprio
come accade se fosse una rottura del doppio filamenti; in realtà in virtù delle sequenze ripetute e delle
proteine associate, si forma un cappuccio che maschera quella che potrebbe essere percepita come double-
strand break. Però se il telomero si accorcia troppo, le estremità dei due filamenti di DNA non possono
essere più mascherate adeguatamente, e vengono percepite come una rottura dai sistemi di controllo del
danno; quindi se le estremità del cromosoma non sono protette dai telomeri, vengono percepiti come danno
del DNA.

La stabilità dei telomeri previene la fusione dei cromosomi, in quanto le estremità libere sono molto reattive,
e possono dar luogo a trasposizione, fusione e alterazione del cromosoma; in queste situazioni, la cellula può
diventare aneuploide. L’aneuploidia (variazione nel numero dei cromosomi, rispetto a quello che
normalmente caratterizza le cellule di un individuo della stessa specie) e un indice morfologico di instabilità
del DNA. Il numero dei cromosomi e la qualità dei cromosomi ci dice se una cellula è più o meno giovane:
se una cellula è vecchia, i cromosomi sono alterati, possono essere fusi, il telomero è accorciato, cioè la
cellula presenta invecchiamento genetico. La conseguenza di questo invecchiamento è che la cellula non si
riesce a replicare più bene, in quanto se i cromosomi sono in numero alterato, alcuni risultano spaiati e non
vengono adeguatamente divisi fra le due cellule figlie.
L’aneuploidia il più delle volte si accompagna ad una situazione incompatibile con la vita cellulare, e
comporta morte cellulare o incapacità replicativa; ogni tanto però l’aneuploidia, modificando il numero e la
qualità dei cromosomi, può generare un vantaggio di crescita selettiva alla cellula, o addirittura renderla
immortale (e dunque partecipa al meccanismo di evoluzione). In generale, l’aneuploidia, l’alterazione del
DNA, l’instabilità genomica generano nella maggioranza dei casi cellule vecchie, senescenti; però queste
creano anche le condizioni per una modificazione genomica che dà un vantaggio alla cellula. Perciò, anche
se raramente, in seguito all’instabilità genomica la cellula può acquistare delle proprietà che non la rendono
senescente, ma immortale, cioè esattamente il contrario di quanto avviene nella maggioranza dei casi.
Dunque la senescenza e l’immortalità possono essere considerate due facce della stessa medaglia.
Il nostro corpo presenta un enorme numero di cellule che si replicano, e ogni tanto qualcuna di queste cellule
acquisisce una mutazione, che invece di indurre senescenza le conferisce un vantaggio di crescita; il tumore
o la proliferazione neoplastica è esattamente l’esito di questa instabilità genomica: quando si crea instabilità
genomica c’è infatti la possibilità che il fenotipo cellulare vari. Le nostre cellule normalmente invecchiano,
ma può accadere che proprio a causa di alterazioni genomiche una cellula riesca ad evadere il processo di
invecchiamento e a diventare immortale; in questo modo alterazioni somatiche danno luogo alla nascita dei
tumori.

Sistemi di riparo del danno al DNA


Le nostre cellule possiedono sistemi che sentono e riparano il danno al DNA, in modo da evitare alterazioni
del genoma; quando questi sistemi sono compromessi, possiamo avere da un lato l’invecchiamento cellulare,
e dall’altro un aumento dell’insorgenza di tumori.

Quando solo uno dei due filamenti di un cromosoma presenta un difetto, l'altro filamento può essere usato
come stampo per guidare la correzione del filamento danneggiato. Al fine di riparare il danno di una delle
due eliche di DNA, ci sono numerosi meccanismi tramite i quali si può realizzare la riparazione del DNA.
Questi includono:
• reversione diretta del danno mediante vari meccanismi specializzati (rimozione di gruppi alchilici,
separazione di dimeri di pirimidine, ecc.); nessun filamento-stampo è richiesto per questo tipo di
riparo.
• Meccanismi di riparazione per escissione, che rimuovono il nucleotide danneggiato sostituendolo
con un nucleotide non danneggiato complementare al nucleotide presente nel DNA non danneggiato.
Questi comprendono:
1. Riparazione per escissione di base (BER, Base Excision Repair) che ripara il danno che
coinvolge un singolo nucleotide, causato da ossidazione, alchilazione, idrolisi, oppure
deaminazione; il meccanismo enzimatico parte dall'attivazione di una DNA-glicosidasi che
riconosce la base alterata e rompe il legame N-glicosidico, poi una AP-endonucleasi 1
elimina la base azotata, lasciando il fosfato e il deossiribosio; ancora, una liasi toglie fosfato
e zucchero così che una DNA-polimerasi leghi il nuovo nucleotide e la ligasi lo incorpori nel
filamento. Il BER quindi può riparare la de-aminazione della Citosina in Uracile o la
trasformazione della Guanina in 8-oxo-guanina, analogo dell'adenina.
2. Riparazione per escissione di nucleotidi (NER, Nucleotide Excision Repair), che ripara un
danno che coinvolge filamenti lunghi da 2 a 30 nucleotidi. Questi includono danni da
voluminosa distorsione dell'elica, quali i dimeri di timina causati da luce UV, come pure le
rotture di un singolo filamento. Una volta che è stata trovata una lesione voluminosa,
l’ossatura fosfodiestere del filamento anormale viene tagliata su entrambi i lati della
distorsione, e un oligonucleotide a singolo filamento che contiene la lesione viene eliminato
dalla doppia elica del DNA tramite un’elicasi; la grossa interruzione prodotta nell’elica del
DNA viene poi riparata dalla DNA polimerasi e dalla DNA ligasi.
3. Mismatch Repair (MMR), che corregge errori di replicazione e di ricombinazione genetica
che determinano la formazione di nucleotidi male appaiati in seguito alla replicazione del
DNA.
Un tipo particolarmente pericoloso di danno al DNA per le cellule in divisione è la rottura di entrambi i
filamenti della doppia elica. Esistono due meccanismi capaci di riparare questo danno:
• ricombinazione non omologa (Non-Homologous End-Joining) ! riunisce le due estremità della
rottura in assenza di una sequenza che possa fungere da stampo; tuttavia può esserci una perdita di
sequenza durante questo processo e quindi tale riparo può essere mutagenico.
• ricombinazione omologa (Homologous End-Joining) ! scambio genetico tra una coppia di sequenze
di DNA uguali o molto simili, di norma quelle situate su due copie dello stesso cromosoma. È più
fedele rispetto alla NHEJ.
Il sistema di sorveglianza del danno è molto efficiente; esso è composto da sensori che vedono il danno, c’è
poi bisogno di un sistema che amplifica il segnale prodotto dal sensore del danno, e infine abbiamo bisogno
di un sistema effettore che esegue la riparazione del danno; il danno al DNA deve essere quindi essere visto,
amplificato e poi riparato. Se non si riesce a riparare il danno al DNA, nell’economia generale
dell’organismo è meglio che la cellula muoia, per cui abbiamo l’apoptosi di queste cellule. Quando la cellula
invecchia, la velocità di riparazione del DNA decresce, ed è per questo motivo che in una persona anziana
aumenta il numero di cellule che vanno in apoptosi.
La proliferazione cellulare è un processo attentamente controllato; possiamo distinguere 3 checkpoints che la
cellula deve superare affinché si possa replicare:
% checkpoint di fase G1
% checkpoint di fase G2
% checkpoint di fase M (spindle checkpoint).

Sistemi di riparo del danno al DNA:


o proteine sensori (ATM, ecc.)
o amplificazione del segnale (Chk1/Chk2, ecc.)
o proteine effettrici (Mre11, ecc.)
Stress ! danno al DNA ! proteine sensore ! amplificatori del segnale (tra cui p53) ! proteine effettrici.
La sindrome di Li-Fraumeni è una malattia ereditaria autosomica dominante, caratterizzata dalla mutazione
di un allele del gene p53, che provoca sarcomi della mammella, al cervello, e un aumento della probabilità di
sviluppare tumori per una seconda mutazione dell'allele in una qualsiasi cellula dell'individuo.
Mutazioni di Mre11 generano una malattia molto simile all’Atassia Teleangiectasia.
Le tappe più critiche in cui il DNA e più soggetto a rottura sono la replicazione e la mitosi.

Risposte al danno:
" arresto del ciclo
" riparo
" apoptosi.

Normalmente, se si tratta una cellula con radiazioni ionizzanti (ad esempio con raggi X) una cellula normale
si ferma, blocca la progressione cellulare e smette di sintetizzare il DNA, in quanto si attiva il sistema che
percepisce il danno indotto dalle radiazioni e manda la cellula in arresto di ciclo; una cellula che ha delle
mutazioni nelle proteine che sentono il danno possono diventare radio-resistenti, cioè in seguito ad un danno
al DNA non si blocca il ciclo in. Una cellula radio-resistente quindi continua a replicare il DNA e a
duplicarsi anche se c’è danno al DNA, e dunque il suo ciclo cellulare non viene bloccato tramite le radiazioni
ionizzanti.

A sottolineare l’instabilità genomica delle cellule tumorali, se osserviamo il cariotipo tumorale e lo


confrontiamo con un cariotipo normale, nel cariotipo tumorale notiamo frequentemente aneuploidia.
I complessi cicline-Cdk sono molto importanti per la progressione nel ciclo cellulare; la Cdk è una chinasi,
che viene attivata dal legame con la ciclina. Le cicline sono invece così chiamate perché i loro livelli
oscillano durante il ciclo cellulare; ci sono varie cicline, ognuna caratteristica di una specifica fase del ciclo
cellulare.
Una particolare categoria di geni che mutano nella trasformazione tumorale sono gli oncosoppressori; gli
oncosoppressori limitano la proliferazione cellulare e l’avanzamento del ciclo, ad esempio inibendo i
complessi ciclina-Cdk. Generalmente, le mutazioni che coinvolgono gli oncosoppressori sono recessive, in
quanto bisogna inattivare tutte e due le copie.

Ricombinazione omologa e non omologa


Le rotture a doppio filamento sono le più pericolose; esse possono essere riparate tramite ricombinazione
(omologa o non-omologa).
Per quanto riguarda la ricombinazione non-omologa, questa è meno accurata, fa più errori e può determinare
perdita o alterazione delle informazioni genetiche; questo processo in effetti cuce due estremità rotte. Però
per avere questa ricucitura, le due estremità perdono qualche base, e dunque in questo processo si può
perdere l’informazione genetica. La NHEJ è anche causa di mutazioni.
La ricombinazione omologa, oltre ad intervenire nella meiosi generando variabilità genetica (tramite il
crossing-over, in cui si formano le giunzioni di Holliday), è un modo per riparare le lesioni al doppio
filamento di DNA senza la perdita di informazioni; si tratta perciò di un processo molto più accurato rispetto
alla NHEJ; questo processo è molto conservato nell’evoluzione (è presente anche nel lievito, e in alcuni
batteri e virus).
Quando abbiamo una rottura del doppio filamento, si generano due estremità di DNA entrambe a doppio
filamento; su ognuna di queste estremità, uno dei filamenti viene accorciato, e così si genera un single strand;
il single strand cerca una sequenza omologa nel genoma, e vi si appaia. Infatti, poiché noi possediamo due
alleli di un gene nei due cromosomi omologhi, praticamente la ricombinazione omologa può utilizzare come
stampo il gene presente sull’altro cromosoma per correggere il danno, oppure se è presente si può usare il
cromatide fratello (Sister Chromatide Exchange, scambio dei cromatiti fratelli). Se si utilizza il cromatide
fratello come template, il cromosoma ritorna alla situazione originale, mentre se si usa il cromosoma
omologo, ci possono essere delle piccole differenze.
La HEJ nei gameti, se non avviene fra due segmenti uguali di DNA, può generare crossing over ineguale !
meccanismo responsabile di ri-arrangiamenti genomici in seguito ad appaiamento errato tra sequenze
omologhe. L'appaiamento errato può essere favorito dalla somiglianza tra corte sequenze di basi, in posizioni
non omologhe, o da una preesistente duplicazione genica, più o meno estesa. Un crossing over nella regione
mal appaiata può portare a duplicazione in alcuni gameti e a delezione in altri, e favorisce ulteriori eventi di
crossing-over diseguale, con formazione di triplicati ecc. Ci sono delle talassemie o delle emoglobinopatie
dovute appunto a crossing over ineguale.
L’HEJ è il modo migliore e più accurato per riparare le rotture del doppio filamento. La ricombinazione
omologa avviene nelle cellule in cui c’è replicazione, cioè è presente l’apparato proteico che sintetizza il
DNA (come la DNA polimerasi), mentre non avviene nelle cellule post-mmitotiche.

Ricapitolando, i sistemi per riparare le lesioni del doppio filamento sono due: abbiamo un sistema accurato
(Homologous End Joining) ed un sistema non accurato (Non Homologous End Joining); a differenza della
NHEJ, la HEJ richiede un filamento template per essere attuata. Le cellule post-mitotiche usano soltanto la
Non Homologous End Joining, e questo significa che le cellule post-mitotiche, come i neuroni e i
cardiomiociti, sono suscettibili al danno al DNA e lo accumulano, in quanto non possono riparare bene la
rottura del DNA a doppio filamento.
Nella Non Homologous End Joining, un enzima coinvolto è la DNA-PK, una chinasi attivata dal danno a
doppio filamento del DNA, che a sua volta interagisce con numerose altre proteine.
Nella ricombinazione omologa ci sono anche qui numerosi enzimi coinvolti, tra cui BRCA1 (che sta per
breast cancer); la mutazione di BRCA1 dà origine alla sndrome carcinoma mammario ereditario

Patologie legate ai sensori del danno

Atassia Teleangectasia (sindrome di Louis-Bar) ! è una malattia autosomica recessiva dovuta a mutazioni
di ATM (Ataxia telangiectasia mutated). ATM è una serina/treonina chinasi che è reclutata e attivata dalla
rottura del doppio filamento di DNA, la quale fosforila una serie di proteine chiave nel mediare la risposta al
danno, e ciò comporta l’arresto del ciclo cellulare, il riparo del DNA o l’apoptosi; alcuni target di
ATM sono p53, H2AX e alcuni oncosoppressori. Gli studi su questa malattia sono stati i primi che hanno
permesso di capire come funzionano gli enzimi che sentono e riparano il DNA.
I sintomi di questa malattia sono:
& atassia ! disturbi della postura e dell'andatura, con incapacità di compiere movimenti fini. Si tratta
di un’atassia cerebellare; il cervelletto è il centro della coordinazione dei movimenti muscolari, ed
elabora gli impulsi portati ai muscoli dal midollo spinale e dai nervi periferici (tramite i fascio
spinocerebellari); si tratta quindi di alterazioni del sistema extrapiramidale.
& immunodeficienza ! ridotta capacità di combattere le infezioni. Ciò perché il differenziamento dei
linfociti richiede la ricombinazione, che è deficitaria in questo caso.
& propensione all’insorgenza di tumori ! lo sviluppo tumorale è facilitato a causa dell’instabilità
genomica e dell’accumulo di mutazioni, che possono rendere le cellule immortali.
& telangectasia ! dilatazioni dei piccoli vasi che si manifestano dapprima a livello delle congiuntive,
poi si diffondono su tutta la cute; è dovuta al fatto che i vasi sono più fragili.
Per rilevare se in una cellula ATM funziona, si tratta la cellula con radiazioni: se ATM è funzionante, la
cellula va in arresto di ciclo, mentre se ATM non è funzionate, il ciclo cellulare non si blocca e la cellula
continua a sintetizzare DNA. Se manca ATM, la cellula continua a sintetizzare il DNA anche se c’è danno, e
parliamo pertanto di sintesi del DNA radio-resistente.
ATM è una chinasi centrale nel percepire la rottura al DNA; quando il genoma è integro, la proteina non è
attiva; appena però si verifica una rottura del DNA, ATM viene attivata. Un complesso trimerico, costituito
da Mre11, RAD50 e NBS1 (chiamato complesso MRN) recluta ATM a livello della rottura a doppio
filamento e mantiene le due estremità congiunte. ATM interagisce con la subunità NBS1 e fosforila la
variante istonica H2AX; questa fosforilazione genera dei siti di legame per delle proteine adattatrici che
presentano il dominio BRCT. Queste proteine adattatrici reclutano differenti fattori, tra cui la chinasi
effettrice CHK2 e l’oncosoppressore p53. La risposta al danno al DNA mediata da ATM consiste in una
risposta rapida e in una ritardata; la chinasi CHK2 e fosforilata e in questo modo attivata da ATM; CHK2
attivata fosforila la fosfatasi CDC25, che è pertanto degradata e non può più defosforilare il complesso
Cdk2-ciclina, e ciò determina arresto del ciclo cellulare. Se il double-strand break non può essere riparato
durante la risposta rapida, ATM fosforila anche MDM2 e p53; p53 può anche essere fosforilato da CHK2.
Queste fosforilazioni stabilizzano e attivano p53, e ciò determina la trascrizione di numerosi geni target di
questo soppressore, tra cui l’inibitore dei complessi ciclina-Cdk p21: ciò comporta arresto prolungato del
ciclo o addirittura apoptosi.

Mutazioni delle proteine effettrici


Le proteine effettrici (che riparano il danno) si trovano a valle delle proteine sensori e di quelle
amplificatrici; gerarchicamente abbiamo infatti: sensore, amplificatore, effettore.

Xeroderma pigmentoso ! non è una sola malattia, ma un gruppo di malattie; lo XP più essere dovuto a
mutazioni di vari geni implicati nel NER (riparazione per escissione di nucleotidi), che causano alterazioni
del meccanismo di riparazione del DNA quando vi è la creazione di un legame (dimero) fra molecole di
timina (causati in particolare dai raggi UV). La malattia si manifesta precocemente nei bambini; la
caratteristica prominente di questa malattia è l’elevata fotosensibilità, per cui i bambini affetti non possono
essere esposti alla luce del sole; questi bambini vengono chiamati ‘Children of the Night’. Il nome
xeroderma deriva dalla caratteristica cheratosi della cute.
I raggi UV sono però dannosi anche per gli individui non affetti da XP; infatti se ci si sottopone a un
trattamento abbronzante, oltre ai raggi UV-A, possono esserci anche dei raggi più dannosi (come gli UV-B e
gli UV-C).
Lo Xeroderma Pigmentoso può essere dovuto a mutazione di vari geni (chiamati XPA, XPB, XPC, cc.);
poiché lo stesso fenotipo (o comunque un fenotipo molto simile) può essere determinato da più geni, questi
geni formano un gruppo di complementazione genica.

Negli ultimi anni, si è compreso come alcuni geni importanti per il metabolismo (es. ormone della crescita,
insulina, IGF-receptor) possono essere controllati dai geni di riparo del danno al DNA; per cui, se il DNA si
rompe, anche il metabolismo si può alterare.
Inoltre un’altra scoperta è stata che la restrizione calorica (minore introduzione di cibo) aumenta la vita
media. Nel verme C. Elegans, la restrizione calorica può anche raddoppiarne la vita; anche nell’uomo se c’è
restrizione calorica, si allunga la vita. Ciò è dovuto al fatto che la restrizione calorica diminuisce il
metabolismo; invece se aumenta il metabolismo aumentano i ROS e il danno al DNA.

Sindrome di Cockayne ! rara patologia autosomica recessiva, caratterizzata da deficit di crescita, ridotto
sviluppo del sistema nervoso, fotosensibilità e invecchiamento prematuro. Come lo XP, è anch’essa dovuta a
difetti del NER. Le mutazioni sono a carico dei geni ERCC6 e ERCC8.

Esistono in realtà tre sindromi che hanno dei quadri molto simili, anche se sono distinguibili da un punto di
vista clinico. Difetti nei meccanismi NER sono responsabili di diversi disordini genetici, quali:
o Xeroderma pigmentoso: ipersensibilità alla luce solare/UV, che determina aumentata incidenza di
cancro alla cute ed invecchiamento precoce
o Sindrome di Cockayne: ipersensibilità a raggi UV e ad agenti chimici
o Tricotiodistrofia: sensibilità della pelle e fragilità di unghie e capelli
Queste patologie sono dovute a tre classi diverse di enzimi, anche se ci sono delle differenze. Però in
generale le manifestazioni sono soprattutto a carico della pelle.

Sindrome di Werner ! malattia autosomica recessiva, che provoca invecchiamento precoce, associato a
predisposizione al tumore; è causata da un mutazione nel gene WRN che codifica una DNA elicasi che
funziona 3’!5’. L’elicasi è un enzima multisubunitario che utilizza l’energia di idrolisi dell’ATP per
separare i due filamenti del DNA; è importante sia nella trascrizione sia nella replicazione. Se queste elicasi
non funzionano il DNA non si apre bene, e quindi non si replica né viene trascritto regolarmente, e inoltre
non ripara correttamente, in quanto sia la ricombinazione omologa che quella non omologa hanno bisogno
dell’apertura del DNA e della separazione dei due filamenti appaiati da parte della elicasi. Ci sono anche
altre sindromi caratterizzate da difetti dell’elicasi.
Progerie (sindrome di Hutchinson-Gilford) ! è una laminopatia, cioè una malattia causata da alterazioni
della lamina nucleare (infatti la maggior parte dei casi è dovuta a mutazione del gene della lamina A); si
tratta di una malattia rara che causa l'invecchiamento precoce. È una delle poche patologie correlate al danno
al DNA ad essere dominante. È distinta da altre sindromi progeroidi, tra cui la sindrome di Werner
(quest’ultima ha infatti una minore espressività clinica ed un esordio più tardivo).
La lamina nucleare è una rete fibrillare all’interno del nucleo delle cellule eucariotiche; è composta da
filamenti intermedi e da proteine associate alla membrana; oltre a fornire supporto meccanico, la lamina
nucleare regola molti importanti eventi cellulari, tra cui la replicazione del DNA e la divisione cellulare;
inoltre, partecipa all’organizzazione della cromatina e ancora i complessi del poro nucleare inseriti nella
membrana nucleare. La lamina nucleare è associata con la faccia interna dell’involucro nucleare.
Le mutazioni della lamina A, che causano la progerie, determinano invecchiamento precoce già nel bambino,
mentre l’invecchiamento precoce nella sindrome di Werner si manifesta più tardivamente.
La lamina nucleare è costituita da proteine dette lamine; nella maggior parte delle cellule umane si
riscontrano quattro lamine diverse:
• lamine di tipo B (di cui fanno parte la B1 e la B2, espressi da due geni diversi)
• lamine di tipo A, che comprendono la A e la C, derivanti dallo splicing differenziale del gene LMNA
(la cui mutazione determina progerie).
Il gene LMNA dunque codifica sia per la lamina A che per la lamina C (in seguito a splicing alternativo), e
può dare luogo ad una proteina più corta (C) e a una più lunga (A). La lamina A deriva da un processo di
maturazione: viene prima formato un precursore, che poi è soggetto a farnesilazione (cioè l’aggiunta di un
lipide, che attacca questa proteina alla membrana); abbiamo quindi il clivaggio dell’estremità C-terminale
appena a valle della cisteina a cui è legato il farnesile, e su questa stessa estremità è poi inserito un gruppo
metilico, formando la prelamina A, una proteina di 74 kD; abbiamo poi un’ulteriore clivaggio della porzione
C-terminale (in una porzione a monte della cisteina che lega il farnesile), con la formazione della lamina A di
72 kD. Se c’è una mutazione in residui importanti per quest’ultimo processo di clivaggio, la prelamina A
non matura nella lamina A, e questo difetto di maturazione altera, in maniera dominante, tutta la struttura
della lamina nucleare, e ciò va ad inficiare trascrizione e replicazione.

Il danno al DNA, e l’accumulo del danno, è una funzione esponenziale dell’età; anche l’incidenza dei tumori
aumenta esponenzialmente con l’età, per cui ad esempio dopo i sessant’anni è molto più frequente avere un
tumore che non nell’adolescenza. Oltre i cento anni quasi tutti gli uomini sviluppano un tumore; la
proliferazione neoplastica infatti dipende dalla quantità di mutazioni che una cellula accumula. L’avanzare
dell’età significa accumulo di mutazioni, che portano a senescenza cellulare e allo sviluppo di tumori; i
tumori infatti sono segno di accumulo di mutazioni e di instabilità genomica.

Anemia di Fanconi ! rara malattia autosomica recessiva, di cui l’aspetto più rilevante è legato al fatto che il
midollo osseo non riesce a produrre i globuli bianchi, i globuli rossi o le piastrine. Sono stati individuati
numerosi geni la cui mutazione può causare l’anemia di Fanconi; questi geni vengono chiamati FANC,
seguiti da una lettera (FANCA, FANCB, FANCC, ecc.), e sono coinvolti nei meccanismi di riparo al DNA.
L’anemia di Fanconi non è un’anemia semplice, ma una malattia dovuta ad un’alterazione di geni che
codificano per proteine che riparano il DNA; soggetti che presentano questa malattia hanno instabilità
genomica e sono soggetti allo svilupparsi di tumori; troviamo immunodeficienza e alterazioni proliferative,
soprattutto a livello di globuli bianchi e rossi.

PATOLOGIA 23-11-12 prof. Avvedimento

MALATTIE DEL CONNETTIVO


Le malattie del connettivo fondamentalmente sono di due tipi:
' malattie infiammatorie autoimmuni
' malattie dovute a mutazioni dei geni che codificano per il collagene ed altre proteine del connettivo.

Malattie connettivali autoimmuni


Connettiviti autoimmuni:
" Lupus eritematoso sistemico
" Artrite reumatoide
" Sclerodermia (sclerosi sistemica)
" Sindrome di Sjögren
" Connettiviti miste (sclerodermia – lupus – artrite reumatoide – dermatitosite)
" Polimiositi

Lupus eritematoso sistemico (LES o semplicemente lupus) ! malattia cronica di natura autoimmune, che
può colpire diversi organi e tessuti del corpo; nel lupus il sistema immunitario produce anticorpi rivolti
contro antigeni propri del corpo, in particolare contro proteine del nucleo. Le alterazioni morfologiche del
LES sono molto varie, come la clinica e il decorso della malattia; le lesioni tipiche sono causate
dall’accumulo di immunocomplessi nei vasi, nel rene, nel connettivo e nella cute. Il lupus può indurre
vasculite acuta necrotizzante dei capillari, delle piccole arterie e delle arteriole, che può coinvolgere tutti i
tessuti; l’arterite è caratterizzata da depositi fibrinoidi nella parete dei vasi. Nelle fasi avanzate, i vasi vanno
incontro a sclerosi e si obliterano.
Il lupus è una malattia che causa la formazione di immunocomplessi, ed è proprio la deposizione di
immunocomplessi che provoca la glomerulonefrite e l’artrite tipicche di questa patologia; infatti a livello dei
glomeruli renali e delle sinovie, il plasma viene ultrafiltrato (per produrre urina e liquido sinoviale,
rispettivamente) e pertanto rappresentano la sede preferenziale di deposito degli immunocomplessi. Inoltre
gli immunocomplessi causano danni vascolari; essi possono legare i recettori Fc presenti su mastociti e
leucociti, e inoltre attivano il complemento, determinando lo sviluppo di una reazione infiammatoria.
Il lupus è una lesione infiammatoria con anticorpi contro proteine nucleari, DNA ed RNA. Tutte le cellule
sono colpite, specialmente queste del tessuto connettivo; non esiste una singola causa specifica per
l'insorgenza del LES, tuttavia sono stati descritti dei fattori di rischio eziologici, ambientali e genetici. Le
ricerche effettuate indicano che esiste predisposizione genetica, tuttavia non è stato identificato un gene
causale unico; sembra, invece, che numerosi geni possano influenzare lo sviluppo del LES in conseguenza
delle esposizione a fattori ambientali. Si ipotizza che i fattori ambientali non siano soltanto attivatori della
malattia, ma anche fattori causali; è stata ricercata la connessione con determinati agenti infettivi, virali e
batterici, ma in nessun caso si è riscontrata una relazione costante.
Quindi la causa primaria che determina la patologia è sconosciuta. Questa patologia, come la sclerodermia, è
una patologia autoimmune, ed è possibile che a scatenare la reazione autoimmune sia un’infezione virale o
batterica, che determina la produzione di anticorpi contro gli agenti infettivi che cross-reagiscono con
antigeni self.
Il rene rappresenta un frequente bersaglio (40-85%) della patologia lupica (condizione caratterizzata da una
continua produzione di immunocomplessi e da lesioni vascolari); gli immunocomplessi si depositano nel
glomerulo renale, innescando un processo infiammatorio caratterizzato da deposizione di complemento e di
anticorpi con chemiotassi e proliferazione flogistica, condizione che esita verso la glomerulonefrite. Il rene è
più sensibile perché i vasi renali sono piccoli, la pressione è elevata, e in esso avviene la filtrazione del
plasma; ciò causa la deposizione degli immunocomplessi, che possono danneggiare le arteriole e
accumularsi, scatenando reazioni infiammatorie.
Nel lupus eritematoso sistemico, l’interessamento cutaneo e multisistemico sono comuni; ci sono però forme
di lupus eritematoso (lupus eritematoso discoide cronico, lupus eritematoso cutaneo subacuto) che non sono
sistemiche, ma hanno un interessamento cutaneo esclusivo o prevalente.

Dermatomiosite ! malattia a patogenesi autoimmune caratterizzata da doppia sintomatologia, in quanto


abbiamo infiammazione cutanea e muscolare:
• Alterazioni cutanee: eritema violaceo accompagnato da edema duro (senza segno della fovea, cioè
senza formazione in seguito a digitopressione di una fossetta o di una depressione transitoria), in
particolare a livello del volto, palpebre e collo.
• Alterazioni muscolari: colpisce esclusivamente i muscoli striati, dapprima con sola dolenzia, poi con
impotenza funzionale man mano più grave.
Questa malattia sistemica quindi colpisce prevalentemente i muscoli e la pelle, ma può anche coinvolgere le
articolazioni, l’esofago, i polmoni e, meno frequentemente, il cuore.
Il bersaglio di questi autoanticorpi sono il muscolo, le fasce e il derma; infatti c’è atrofia perifascicolare
attorno al muscolo e c’è infiammazione perivascolare, con accumulo di macrofagi attorno al vaso. Le
vasculiti sono frequenti nelle malattie autoimmuni; infatti in quasi tutte le malattie autoimmuni, più o meno
precocemente, abbiamo un danno vasale, con rilascio di antigeni self delle cellule del vaso in un ambiente
infiammatorio, che facilita l’autoreattività contro tali anticorpi (in particolare contro le componenti
mesenchimali dei vasi, come i periciti).
Uno degli organi che può essere coinvolto è anche l’esofago, la cui infiammazione ne restringe il lume, e
rende difficile la deglutizione .

Artrite reumatoide ! è una poliartrite infiammatoria cronica, anchilosante e progressiva, a patogenesi


autoimmunitaria e ad eziologia sconosciuta, a carico delle articolazioni sinoviali, caratterizzata da
produzione di autoanticorpi contro la sinovia. La sinovia va incontro a iperplasia e ipertrofia, cresce in
spessore e si forma così il panno sinoviale che comincia a erodere perifericamente la cartilagine;
contemporaneamente i polimorfinucleati si spostano nel liquido sinoviale e linfociti T, B e plasmacellule a
livello della sinovia formano un tessuto simil-linfonodale. L’artrite reumatoide comporta infiammazione
cronica delle articolazioni.

Malattie da difetti delle fibre connettivali

Sindrome di Marfan
La sindrome di Marfan è una patologia autosomica dominante che colpisce il tessuto connettivo; dal
momento che tutti gli organi contengono tessuto connettivo, le manifestazioni della sindrome di Marfan
interessano molte parti del corpo, specialmente il sistema scheletrico, gli occhi, il cuore e i vasi sanguigni, i
polmoni e le membrane fibrose che ricoprono il cervello e la colonna vertebrale. Si trasmette come carattere
autosomico dominante, ed è dovuta dovuto a mutazioni nel gene FBN1, che codifica per la fibrillina 1.
La fibrillina è una glicoproteina extracellulare ricca in cisteina, resistente alle collagenasi e presente in 3
forme nell’uomo: la fibrillina 1, la fibrillina 2 e la fibrillina 3. Solo le mutazioni nel gene per la fibrillina 1
causano la sindrome di Marfan, mentre le mutazioni nel gene per la fibrillina 2 causano la sindrome di Beals
(aracnodattilia contratturale congenita).
Oltre ad essere una proteina del connettivo che contribuisce a formare il supporto per i tessuti fuori dalla
cellula, la fibrillina-1 normale è capace di legare il (TGF-β), sequestrandolo nella matrice extracellulare e
controllandone la biodisponibilità. Il TGF-β ha effetti deleteri sullo sviluppo della muscolatura liscia vasale e
sull’integrità della matrice extracellulare; degli studi hanno dimostrato che la perdita delle microfibrille in
seguito alla mutazione della fibrillina-1 può causare un’eccessiva e anomala attivazione del TGF-β. Inoltre
somministrando degli inibitori del TGF-β, la sintomatologia della sindrome si attenua.

Tra le manifestazioni più caratteristiche della sindrome abbiamo:


& anomalie scheletriche; il soggetto è insolitamente alto, con estremità eccezionalmente lunghe; i
legamenti delle articolazioni delle mani e dei piedi sono lassi; possono comparire deformità spinali e
toraciche;
& alterazioni oculari, tra cui sublussazione o lussazione bilaterale del cristallino (ectopia lentis);
& danni cardiovascolari, tra cui prolasso della valvola mitralica, dilatazione dell'aorta ascendente e del
bulbo aortico con insufficienza aortica; sono le caratteristiche a cui è associato il maggior rischio di
complicanze mortali;
& aumentato rischio di pneumotorace.
Nonostante tutte queste siano manifestazioni cliniche della sindrome di Marfan, vi è una grande variabilità
nell'espressione clinica di questa malattia genetica. Per questo motivo la diagnosi clinica della Sindrome di
Marfan deve basarsi sul coinvolgimento principale di 2 dei 4 sistemi (scheletrico, cardiovascolare, oculare,
cutaneo) e sull'interessamento secondario di un altro organo.

Collagenopatie

Struttura del collagene


Il collagene è la principale proteina del tessuto connettivo negli animali; è la proteina più abbondante nei
mammiferi (circa il 25% della massa proteica totale), rappresentando nell'uomo circa il 6% del peso
corporeo; è una molecola resistente all’azione di molte proteasi ed alla trazione. Viene sintetizzato in forma
di precursore inattivo noto come procollagene. Questa forma di collagene contiene nella sua struttura 2
frammenti peptidici assenti nella forma attiva, noti come C-telopeptide e N-telopeptide, in quanto presenti
all’estremità C- ed N-terminale. Questi due frammenti rendono il precursore solubile, in modo tale da
impedire che si formino aggregati intracellulari.
Una volta secrete, le molecole di procollagene perdono i frammenti terminali a causa di peptidasi specifiche,
formando il tropocollagene insolubile; contemporaneamente una prolil- e una lisil-idrossilasi idrossilano i
residui di prolina e di lisina formando idrossilisina e idrossiprolina, molto abbondanti nella struttura
primaria, come la Gly (la quale è presente ogni 3 amminoacidi). Tre molecole di collagene formano il
tropocollagene, e sono tenute insieme da legami crociati, la cui formazione è preceduta da reazioni di
deaminazione ossidativi dei residui di lisina e idrossilisina in allisina; l’allisina è un amminoacido non
standard derivato della lisina; è prodotto tramite l'enzima lisil ossidasi nella matrice extracellulare, ed è
essenziale nella formazione dei legami cross-link che stabilizzano il collagene e l'elastina. La tripla elica del
tropocollagene presenta una curvatura molto stretta, dovuta alla Gly ripetuta ogni 3 amminoacidi, la quale,
possedendo un gruppo laterale di piccole dimensioni, consente all’elica di stringersi di più.
Si conoscono diversi tipi di collagene, ognuno con una differente combinazione di catene; le diverse catene
hanno una differente struttura amminoacidica, ma possiedono tutte con lo stesso schema di base (Gly-X-Y)
ripetuto più volte. I collageni che formano fibrille sono quelli di tipo I, II, III, V e XI; esistono infatti sia
collageni fibrillari che non fibrillari.
Ci sono diverse patologie associate ad un’anomala struttura del collagene. Tra queste, le più importanti sono:
' sindrome di Ehlers Danlos
' osteogenesi imperfetta.

Sindrome di Ehlers-Danlos
La sindrome di Ehlers-Danlos (EDS) comprende una serie di patologie ereditarie contraddistinte da lassità
dei legamenti, estrema mobilità delle articolazioni e iperelasticità della cute. Tale sindrome, infatti, colpisce
prevalentemente il tessuto connettivo, con la presenza di un collagene mutato; tuttavia, ciascun tipo
differente ha caratteristiche specifiche, che coinvolgono altri organi ed apparati. Si tratta dunque di un
complesso di malattie causate da mutazioni nei geni che codificano per il collagene o da alterazioni in uno
dei molteplici passaggi enzimatici che partono alla formazione di fibrille. Essendo la cute, i legamenti, le
articolazioni i siti più ricchi di collagene, sono quelli maggiormente interessati dalla Ehlers-Danlos.
Tra le manifestazioni cliniche si riscontrano:
% pelle ! iperestensibilità e fragilità della cute, che è sensibile a traumi anche leggeri; la cute manca di
forza tensile. Qualsiasi riparazione chirurgica è complicata dalla ridotta tensione elastica.
% iperflessibilità delle articolazioni
% occhio ! fragilità oculare, rottura della cornea, possibile distacco della retina, possibili danni
interni.
Il difetto del tessuto connettivo può causare gravi danni e complicanze interne.

Esistono dunque diverse varianti della sindrome Ehlers-Danlos, tutte causate da un difetto della produzione
di collagene; sono caratterizzate da anomalie a livello di tutti i siti dell’organismo in cui si concentra il
tessuto connettivo.
Varianti della sindrome di Ehlers-Danlos:
# Tipo classica (tipo 1 e 2) ! mutazioni dei geni per il collagene di tipo V.
# Tipo ipermobile (tipo 3) ! la causa è sconosciuta; è possibile che sia dovuta ad un’alterazione
ancora non identificata in un collagene.
# Tipo vascolare (tipo 4) ! difetti strutturali nella catena del collagene III in seguito a mutazioni del
gene COL3A1; è molto grave.
# Tipo cifoscoliotico (tipo 6) ! mancanza dell’enzima lisil idrossilasi (protein-lisina 6-ossidasi);
difetti di questo tipo riducono la formazione di idrossilisina, fondamentale per dare stabilità
strutturale alla molecola collagene.
# Tipo artroclasico (tipo 7A e 7B) ! mutazioni dei geni COL1A1 e COL1A2 del collagene di tipo I.
# Tipo dermatosparassico (tipo 7C) ! mancanza della procollagene N-peptidasi codificata dal gene
ADAMST2; questo enzima agisce sul collagene di tipo I, e se manca, la porzione N-terminale del
procollagene I non può essere eliminata. È rara nell’uomo, mentre è comune nei bovini.

Osteogenesi imperfetta
L’osteogenesi imperfetta (o malattia delle ossa fragili) è una malattia genetica a trasmissione autosomica
dominante, dovuta ad anomalie nella sintesi del collagene tipo I per mutazione dei geni COL1A1 e 2; è la più
comune malattia ereditaria del tessuto connettivo. È causata da anomalie del collagene di tipo I, e pertanto
presenta principalmente manifestazioni scheletriche, ma colpisce anche altri tessuti ricchi di collagene di tipo
I (come articolazioni, occhi, orecchie, cute e denti). I fenotipi più gravi o letali sono la conseguenza di difetti
genetici, che determinano molecole anomale di collagene che non riescono a formare la tripla elica.
L’osteogenesi imperfetta, in genere, è dovuta a mutazioni dominanti a livello dei geni che codificano per le
catene α1 e α2 del collagene di tipo I; molte di queste mutazioni comportano la sostituzione dei residui di
glicina a livello della porzione della molecola di collagene che si trova all’interno della tripla elica del
tropocollagene.
L'entità del danno e il fenotipo clinico dipendono dalla posizione della mutazione all'interno della proteina e
dal tipo di mutazione. Infatti, le mutazioni che causano solo una diminuzione della produzione di collagene
normale determinano segni fenotipici lievi, mentre le mutazioni che causano la formazione di collagene
mutato che non può assemblarsi presentano segni fenotipici molto gravi, o addirittura non mortali. Quindi,
quando la mutazione spegne semplicemente uno dei due alleli, il fenotipo non è molto grave; al contrario, se
la mutazione altera l'allele senza spegnerlo, i danni possono essere più gravi. Il collagene infatti funziona
come trimero, e anche se una sola componente del trimero è alterata, viene alterata tutta la funzionalità del
collagene; statisticamente è infatti molto probabile che almeno una delle tre componenti del trimero sia
alterata, mentre è più raro che si formino molecole di collagene con tutte e tre se subunità non alterate.
Proprio perché il collagene funziona come trimero, la proteina mutata interferisce con quella non mutata
compromettendone la funzione (meccanismo dominante negativo).

Clinicamente, l'osteogenesi imperfetta è suddivisa in 8 tipi, che sono tutti dominanti (tranne il tipo VII e
l’VIII). I quattro tipi principale sono:
# Tipo I ! è la forma meno grave; le persone affette hanno una aspettativa di vita normale, ma
presentano delle caratteristiche distintive:
$ fratture frequenti, soprattutto durante l'infanzia;
$ sclere blu ! la diminuzione del contenuto di collagene rende la sclera traslucida
consentendo la parziale visualizzazione della sottostante coroide (strato dell’occhio
ricco di pigmento e di vasi sanguigni);
$ perdita dell’udito;
$ imperfezioni dentarie, secondarie a deficit di dentina.
# Tipo II ! è la forma più grave; è mortale in utero o nel periodo perinatale; è caratterizzata da
estrema fragilità ossea e fratture multiple intrauterine.
# Tipo III ! progressiva e deformante.
# Tipo IV ! deformante, ma con sclere normali.
Indipendentemente dalla variante considerata, tutte le forme di osteogenesi imperfetta sono caratterizzate da
una ridotta quantità di osso, che conduce a una forma di osteoporosi con assottigliamento della corticale e
deformazione delle trabecole.

PATOLOGIA lezione 27-11-12 prof. Avvedimento

MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI


Nel nostro organismo la flora microbica commensale è molto estesa; i microrganismi (soprattutto batteri)
colonizzano varie zone del nostro corpo, e sono particolarmente numerosi nell’intestino (dove costituiscono
la flora microbica intestinale). Il microbioma umano è formato da 1013 a 1014 microrganismi; la
composizione della flora batterica varia però da un individuo ad un altro, e nell’ambito di uno stesso
individuo in tempi diversi. La flora microbica presente dentro e sul nostro corpo si trova in uno stato di
continuo mutamento, determinato da una serie di fattori (età, abitudini alimentari, stato di salute, stato
ormonale, igiene personale, ecc.). I batteri commensali vengono infatti sottoposti a selezione, per cui
cambiano continuamente.
La normale popolazione di microbi commensali partecipa al metabolismo dei prodotti alimentari, fornisce
fattori di crescita, protegge dalle infezioni causate da microrganismi estremamente virulenti e stimola la
risposta immunitaria; essi quindi svolgono un ruolo importante nell’uomo, e alterazioni che coinvolgono la
flora batterica possono causare patologie nell’uomo. Il ruolo nel metabolismo energetico dell’ospite di questi
microorganismi è sottolineato da alcuni esperimenti; ad esempio, se in un topo magro trasferiamo
nell’intestino i batteri di un topo obeso, il topo comincia ad ingrassare; viceversa, trasferendo la flora
batterica da un topo magro ad uno obeso, il topo comincia a dimagrire.
A livello intestinale è presente una barriera, data dall’epitelio e da altre componenti dell’immunità, la cui
compromissione è responsabile di aumentata suscettibilità alle infezioni intestinali; infatti una
compromissione dell’equilibrio tra flora batterica intestinale e immunità può comportare patologie, sia se
abbiamo una risposta immunitaria carente (suscettibilità alle infezioni), sia se c’è una eccessiva risposta
immunitaria (sindromi infiammatorie).
Il microbioma umano è in grado di influenzare anche il sonno, oltre a influenzare la regolazione della
temperatura corporea; infatti le citochine e i fattori prodotti dai microbi (come l’LPS) inducono sonno
nREM; la mattina invece il cortisolo, seguendo il suo ritmo circadiano, viene prodotto in maggiori quantità, e
questo ormone inibisce l’attività infiammatoria delle citochine e dei prodotti microbici, e inoltre favorisce la
transizione nREM!REM. Questo circuito inatteso suggerisce che i batteri commensali e la flora intestinale
non hanno solo un ruolo correlato al metabolismo energetico (e a difetti di esso, quali obesità, sindrome
metabolica, insulino-resistenza) ma anche al sonno.

Le due più importanti malattie infiammatorie croniche intestinali:


' morbo di Crohn ! caratterizzato da granulomi, con cellule epitelioidi e cellule giganti, associati a
infiammazione. È malattia infiammatoria cronica dell'intestino (MICI) che può colpire qualsiasi
parte del tratto gastrointestinale, dalla bocca all'ano, provocando una vasta gamma di sintomi, tra cui
principalmente dolori addominali, diarrea, vomito e perdita di peso. La malattia di Crohn è
considerata una malattia autoimmune, in cui il sistema immunitario aggredisce il tratto
gastrointestinale provocando l'infiammazione. Anche se l'eziologia esatta della malattia di Crohn è
ancora sconosciuta, una combinazione di fattori ambientali e predisposizione genetica sembra essere
la causa più probabile.
' rettocolite ulcerosa ! è caratterizzata per la presenza di veri e propri ascessi. È una malattia
infiammatoria cronica intestinale che, a differenza del morbo di Crohn, coinvolge selettivamente la
mucosa del retto e/o del colon, nella maggioranza dei casi la parte discendente; la mucosa appare
macroscopicamente arrossata, granulare, friabile e facilmente sanguinante, e nella fase conclamata
presenza grave infiammazione, con numerose e ampie ulcerazioni della mucosa del colon. Anche in
questo caso nel determinare l’insorgere della malattia sono coinvolti si fattori genetici che
ambientali.

Inflammasoma ! l’inflammasoma è un complesso multiproteico, comprendente la caspasi 1, PYCARD,


NALP e a volte anche la caspasi 5; è espresso dalle cellule della linea granulocitaria (granulociti neutrofili,
basofili e eosinofili), ed è una componente dell’immunità innata; l’esatta composizione dell’inflammasoma
dipende dal tipo di attivatore che ne ha determinato l’assemblaggio. L’inflammasoma promuove la
maturazione delle citochine infiammatorie IL-1β e IL-18; questo complesso è responsabile dell’attivazione
del processo infiammatorio, e inoltre è coinvolto nell’indurre la piroptosi, un processo di morte programmata
distinto dall’apoptosi e associato alle risposte antimicrobiche durante l’infiammazione. Quindi le caspasi non
sono coinvolte solo nell’apoptosi, ma anche nell’infiammazione.
Oltre ai TLR, esistono anche altri PRR (pattern recognition receptors) che riconoscono i PAMPs e i DAMPs,
fra cui i NLR (NOD-like receptors); NALP è un tipo di NOD-like receptor, e fa parte dell’inflammasoma. Si
ritiene che NALP percepisce in danno in corso, e crea una risposta basata sull’inflammasoma, e
l’inflammasoma a sua volta attiva la cascata infiammatoria. Una volta attivato, l’inflammasoma lega la pro-
caspasi 1 (tramite il proprio dominio CARD, oppure tramite il dominio CARD di un adattatore proteico), e
induce la trasformazione della pro-caspasi 1 a caspasi 1 attiva. La caspasi 1 poi porta alla formazione di
citochine infiammatorie, quali IL-1 e IL-18.
il 25% circa dei pazienti affetti dal morbo ci Crohn presentano mutazioni nel gene NOD2 (Nucleotide-
binding oligomerization domain-containing protein 2, anche conosciuto come caspase recruitment domain-
containing protein 15, CARD15); NOD2 è un PRR intracellulare, cioè un sensore intracellulare per le
sostanze prodotte dai microbi.
I PRR non riconoscono propriamente degli antigeni, ma piuttosto dei profili molecolari comuni nei microbi
(PAMPs, pathogen-associated molecular patterns), cioè piccoli motivi molecolari conservati in una classe di
microrganismi. In seguito al riconoscimento dei PAMPs, l’inflammasoma si attiva, e induce l’attivazione di
alcune citochine infiammatorie, in particolare IL-1β e IL-18.
L’IL-1β così prodotta può andare ad attivare il proprio recettore, determinando molteplici effetti
nell'organismo sia a livello locale che a livello generale (come la febbre); inoltre stimola la produzione di
prostaglandine da parte di vari tipi di cellule, la produzione di altre citochine quali IL-2 e l'attivazione e il
reclutamento di altre cellule del sistema immunitario. Infatti il recettore dell’IL-1 determina l’attivazione del
fattore di trascrizione NF-k, e viene quindi attivata l’espressione dei geni responsivi a NF-kB. L’IL-1β poi è
coinvolta anche coinvolta nell’attivazione della fagocitosi da parte dei macrofagi.
L’inflammasoma, oltre ad essere attivato da componenti microbiche, può anche essere attivato da bassi
livelli di potassio intracellulare, dai ROS e da cristalli di molecole organiche (quali cristalli di urea o di
colesterolo); inoltre varie tossine, metalli (silicio, asbesto, alluminio) e altre sostanze ancora sono capaci di
attivare questo meccanismo.
Nel caso in cui viene a mancare l’inflammasoma o la funzione dell’IL-1β, si sviluppa un’infezione microbica
che non è limitata all’intestino, ma è sistemica e dà luogo a setticemia; al contrario, nel caso in cui vi è una
iperattivazione di questo sistema (che comporta quindi un’iperproduzione di IL-1β) si ha una iperattività del
sistema immunitario, aumento dei processi infiammatori e si favorisce l’autoimmunità (come accade nel
morbo di Crohn).

Un soggetto obeso, a causa della elevata quantità di grassi, presenta un aumento dei processi infiammatori, e
risulta inoltre insulino-resistente. L’adipocita produce infatti TNF-α, una citochina proinfiammatoria; inoltre
i grassi ossidati possono essere fagocitati dai macrofagi, che li rilevano come DAMPs (damage-associated
moleular patterns), e vengono pertanto attivati.
L’IL-1 attiva NF-kB, che oltre a favorire il processo infiammatorio, può avere sia un ruolo pro-apoptotico
che proteggere dall’apoptosi a seconda del tipo di stimolo. L’IL-18, come l’IL-1β, è coinvolta nel
meccanismo di attivazione dei macrofagi, ma ha anche altri effetti; infatti l’IL-18 induce attivazione della
proliferazione, in modo fa favorire il riparo dell’epitelio intestinale, ma questa sua azione può essere
coinvolta nella tumorogenesi. L’alterazione del meccanismo di infiammazione e del controllo dell’apoptosi
può determinare l’attivazione di particolari proteine che inducono resistenza all’apoptosi, proliferazione
cellulare incontrollata e quindi portano alla tumorogenesi; pertanto l’IL-1 e l’IL-18 sono due delle molecole
coinvolte nella tumorogenesi favorita dall’infiammazione cronica.

PATOLOGIA 26-11-12 parte 1 e 2

MALATTIE LEGATE ALL’IMPRINTING


Imprinting
Le patologie legate all’imprinting sono caratterizzate da una ereditarietà molto particolare, basata appunto
sull’imprinting genomico. Con il termine di imprinting genomico si vuole indicare l'espressione differenziata
di materiale genetico a seconda dell'origine parentale; si tratta di un meccanismo di regolazione genica che
riguarda un ristretto numero di geni. L’imprinting genomico è dunque il fenomeno per cui si ha l’espressione
preferenziale di uno solo dei due alleli, in funzione dell’origine parentale; questo vuol dire che due alleli
dello stesso gene sui due cromosomi omologhi hanno livelli di espressione differenti, a seconda della
provenienza materna o paterna dell’allele.
L'imprinting è un fenomeno fisiologico delle cellule somatiche; in una cellula somatica sono presenti 46
cromosomi, che formano 23 coppie di cromosomi omologhi (22 coppie di autosomi e una coppia di
cromosomi sessuali), e per ogni coppia un cromosoma è di origine paterna e l’altro di origine materna.
Quindi normalmente abbiamo due copie (alleli) di ogni gene, che sono simili fra loro (ma non perfettamente
uguali, a causa della presenza di polimorfismi), e ogni copia proviene da uno dei due genitori. Per cui per
ogni gene abbiamo una copia proveniente dal padre e una dalla madre; queste due copie sono leggermente
diverse tra di loro (a causa del polimorfismo genetico), ma codificano entrambe per la stessa proteina. Dato
che per la maggior parte dei geni, per svolgere la propria funzione, è sufficiente una sola copia, l'imprinting
silenzia uno dei due alleli (compattando la cromatina tramite metilazione, in modo da non consentire
l’accesso alle proteine trascrizionali in quella regione), e quello che viene attivamente trascritto è solo l’altro
allele, che in alcuni casi proviene dalla madre, in altri dal padre. Durante la gametogenesi, tutte le modifiche
epigenetiche presenti nel genoma dell’individuo vengono azzerate, e quindi riprogrammate in modo
differente nell’oocita e nello spermatozoo; la maggior parte dei geni, immediatamente dopo la fecondazione
(stadio post-zigotico), subisce poi un’ondata di demetilazione che interessa la quasi totalità del genoma, però
ci sono alcune aree in cui invece le modifiche epigenetiche permangono, e permettono di differenziare la
provenienza parentale (materna o paterna) del gene.
Nelle malattie mendeliane, quindi trasmesse mediante i meccanismi classici dell’ereditarietà, possiamo avere
geni in omozigosi o eterozigosi; inoltre alcune malattie in eterozigosi, in cui un allele è funzionante mentre
l’altro no, hanno un fenotipo intermedio, in quanto è comunque presente il prodotto genico, ma in quantità
ridotta, a causa del dosaggio genico ridotto (aploinsufficienza). Questi fenomeni sono potenziati ed
esasperati nell’imprinting: infatti, in questo caso uno dei due alleli (quello paterno o materno) è silenziato;
se si verifica una mutazione a livello dell’allele silenziato, di fatto non riscontriamo nessuna alterazione; al
contrario, se ad essere mutato e reso inattivo è l’allele non imprinted, abbiamo dei problemi, in quanto questa
rappresenta l’unica copia del gene ad essere espressa attivamente (poiché l’altro allele, sottoposto a
imprinting, è silenziato), e una sua alterazione diminuisce drasticamente (o annulla del tutto) la quantità di
proteina prodotta. L’imprinting è un meccanismo di regolazione che non è esteso a tutto il genoma, ma è
strettamente limitato ad un piccolo gruppo di geni, in particolare geni che svolgono un ruolo molto
importante nel differenziamento e nello sviluppo.

Schematizzando, possiamo dire che nella formazione dell’embrione e nello sviluppo del feto intervengono
una serie di geni; da una parte abbiamo una serie di meccanismi che intervengono nello sviluppo del feto per
determinare un feto forte, grande, veloce nella crescita, e dall’altro abbiamo altri meccanismi che al contrario
fanno in modo che il feto non sia troppo grande né cresca troppo velocemente, altrimenti ci possono essere
problemi nella gestazione e nel parto. Evolutivamente, si è quindi raggiunto un equilibrio tra questi due
meccanismi; la madre infatti tende a trasmettere geni che moderano la crescita dell’embrione e lo sviluppo
del feto (in modo tale da portare a termine la gravidanza facilmente), mentre i geni che provengono dal padre
generalmente tendono a far sviluppare un feto più grande e più forte, con maggiore capacità di
sopravvivenza, e durante l’evoluzione si è raggiunto l’equilibrio tra i due meccanismi, una sorta di
compromesso, e da ciò deriva il fatto che alcuni geni di provenienza paterna e materna sono espressi in modo
differenziato.
L'imprinting può essere:
% di origine materna, in questo caso viene silenziato l’allele materno ed espresso l’allele paterno;
% di origine paterna, se viene silenziato l’allele paterno ed espresso quello materno.
L’espressione allele-specifica che caratterizza l’imprinting è data da modifiche epigenetiche, cioè senza che
ci sia una modificazione della sequenza primaria dei geni interessati: infatti i due alleli possono codificare
per la stessa proteina oppure per lo stesso trascritto con la stessa sequenza primaria; quello che cambia
invece in questi due alleli sono le modifiche ai nucleotidi o agli istoni, ad esempio la metilazione delle
citosine, mentre gli istoni possono essere acetilati o metilati. Queste modifiche fanno si che ci sia una
regolazione dell’espressione dei geni nelle immediate vicinanze di queste regioni, in particolare di quei geni
che hanno il promotore in una regione soggetta a modifiche epigenetiche.
Un elevato grado di metilazione ed una elevata deacetilazione degli istoni porta alla chiusura strutturale della
cromatina e ad un silenziamento dell’espressione genica, mentre un elevato grado di acetilazione facilita
l’apertura della cromatina e l’espressione genica; quindi un gene, a seconda del grado di acetilazione o
metilazione degli istoni, sarà più o meno espresso. Dunque l’imprinting non è dato da alterazioni della
sequenza primaria dei geni, ma consiste in modifiche epigenetiche delle regioni controllate dall’imprinting.
Il meccanismo di imprinting di origine paterno e materno nasce durante la gametogenesi. Durante la
gametogenesi, tutte le modifiche epigenetiche che abbiamo sviluppato durante la vita vengono azzerate, e nel
gamete si riprogramma la modificazione; questa riprogrammazione è specifica in base al sesso, cioè i gameti
femminili e i gameti maschili riprogrammano in maniera selettiva la metilazione del genoma. Questa
riprogrammazione infatti è generalmente estremamente diversa, e si manifesta in alcune differenze a livello
dei gameti maschili e femminili: la cromatina degli spermatozoi è estremamente compatta e ipermetilata,
mentre la cromatina dell’oocita è meno soggetta a questo fenomeno. Una volta però che lo spermatozoo
feconda la cellula uovo, queste differenze vengono eliminate in quanto vengono rimosse le modifiche
epigenetiche sia del pronucleo maschile che di quello femminile, tranne in alcune regioni che sono state
conservate dalla selezione.
In genere i geni che subiscono imprinting sono raggruppati in clusters, e questo permette loro di condividere
elementi regolativi comuni, come RNA non codificanti e regioni con metilazione differenziata (differentially
methylated regions, DMRs); l’insieme di questi elementi, che controllano l’imprinting di uno o più geni,
vengono chiamati regioni di controllo dell’imprinting (imprinting control regions, ICRs). Le DMRs sono
delle zone cromosomiche che non vengono riprogrammate dopo la formazione dello zigote, e mantengono la
programmazione originaria che si era generata nella gametogenesi; queste regioni quindi non vengono de-
metilate dopo la fecondazione, e dunque permane la metilazione presente nel gamete di origine.
Se sul cromosoma paterno il gene 1 è acceso e il gene 2 è spento, è possibile che sul cromosoma materno sia
spento il gene 1 e acceso il gene 2; questo fa si che ciascun individuo ha una sola copia trascrizionalmente
attiva per il gene 1 e una sola copia trascrizionalmente attiva per il gene 2. Qualunque situazione genetica o
epigenetica che modifichi questo assetto può portare a delle conseguenze gravi; infatti su può avere lo
spegnimento di un gene su entrambi gli alleli, oppure l’accensione di un gene su entrambi gli alleli: in
entrambi i casi si possono avere delle ripercussioni sullo sviluppo del feto e sullo sviluppo dell’individuo.
Ci sono delle evidenze sperimentali dimostrano l’importanza di questi meccanismi; verso la fine degli anni
’80 e l’inizio degli anni ’90, si effettuavano degli esperimenti volti a scoprire se il clonaggio fosse possibile.
In alcuni di questi esperimenti, venivano generati degli embrioni sostituendo i pronuclei della madre e del
padre con un nucleo esclusivamente materno o esclusivamente paterno; queste osservazioni hanno portato
alla scoperta che gli embrioni ottenuti sostituendo i pronuclei con un nucleo del padre o un nucleo della
madre (i quali presentavano delle modifiche epigenetiche proprie dell’adulto e tessuto-specifiche), questi
embrioni erano difettosi. Infatti quando si costruisce un embrione di questo tipo, il feto non si sviluppa e si
ha interruzione della gravidanza precoce dovuta al alterazione dello sviluppo (in alcuni casi addirittura già
allo stadio di blastocisti); invece quando la fecondazione avviene normalmente, e i due pronuclei
mantengono le modificazioni così come sono state generate durante la gametogenesi, lo sviluppo
dell’embrione è normale. Inoltre anche nel caso di embrioni ginogenetico (2 pronuclei femminili) o
androgenetico (2 pronuclei maschili), abbiamo anche qui problemi di sviluppo embrionale.
Oltre ai modelli sperimentali, ci sono anche altri modelli in cui possiamo individuare questo fenomeno; ad
esempio, nel teratoma ovarico (un tumore dell’ovaio generalmente benigno, composto da tessuti derivanti da
tutti e tre i foglietti embrionali: ectoderma, endoderma e mesoderma) si è riscontrato che in molti casi di
c’era un’alterazione dell’imprinting (dovute ad esempio ad uno pseudoembrione che contiene un corredo
diploide, che si può originare da una non corretta divisione dei precursori gametici). Anche nella mole
idatiforme, condizione causata dalla generazione di uno zigote con corredo genetico diploide di origine
interamente paterna (fenomeno originato dalla fecondazione di un oocita che ha perso il suo corredo
cromosomico), anche in questi casi qua è facile osservare delle alterazioni dell’imprinting. In entrambi i casi
osserviamo un cariotipo 46XX.

Un’alterazione dell’imprinting può modificare in maniera sostanziale l’espressione di alcuni geni, in


particolare di alcuni geni che sono estremamente importanti per lo sviluppo dell’embrione e del feto, ma
anche per altre funzioni. I meccanismi che possono generare queste alterazioni sono diversi; il meccanismo
più semplice, ed anche quello più comune, è quello riconducibile a al una classica mutazione genetica, come
una delezione o una mutazione puntiforme. Se sia ha una delezione o una mutazione nella regione di un gene
imprinted, possiamo avere un fenotipo diverso a seconda che sia stato colpito l’allele materno o quello
paterno.

Un altro meccanismo meno consueto, ma abbastanza frequente, che genera alterazioni dell’imprinting è
quello della disomia uniparentale. Con il termine disomia uniparentale (UPD) si definisce l’ereditarietà di
due cromosomi omologhi da un solo genitore; è causata principalmente da eventi di non-disgiunzione,
seguiti da meccanismi di correzione di trisomie o monosomie. La maggioranza dei casi sembra essere
associata all’età materna e può venire individuata inizialmente in forma di trisomia a mosaico durante la
diagnosi prenatale, sia nel caso di prelievi di villi coriali che nel caso di prelievi di liquido amniotico. Inoltre
anomalie strutturali, come le traslocazioni Robertsoniane e cromosomi marcatori soprannumerari, sembrano
essere associate ad un rischio aumentato di UPD. Per rilevare una disomia uniparentale, c’è bisogno di una
diagnostica molto più sofisticata rispetto a quella necessaria per la ricerca di una delezione. La disomia
uniparentale si verifica allorquando nell’embrione abbiamo due cromosomi omologhi (oppure due porzioni
di essi) provenienti dallo stesso genitore; ciò comporta che i due alleli di un gene sui due cromosomi
omologhi non siano, come avviene normalmente, uno di origine paterna e l’altro di origine materna, bensì
tutti e due provenienti dallo stesso genitore.
Distinguiamo una eterdisomia uniparentale (i due cromosomi uniparentali sono 2 cromosomi omologhi
diversi, che derivano da entrambi i genitori del proprio genitore), o una omodisomia uniparentale (i due
cromosomi uniparentali sono due cromosomi omologhi uguali).

I meccanismi di formazione dell’UPD sono principalmente:


a) complementazione gametica: fertilizzazione attraverso l’unione di gameti aneuplodi che si
complimentano ! un gamete disomico si unisce a un gamete nullisomico. Si accompagna quindi a
eterodisomia se l’errore avviene durante la I divisione meiotica, o a omodisomia se l’errore avviene
durante la II divisione meiotica.
b) recupero della trisomia (trisomy rescue): perdita di un cromosoma in uno zigote trisomico formatosi
per fusione di un gamete disomico con uno normale monosomico; con la perdita del terzo
cromosoma, a quel punto lo zigote avrà un numero di cromosomi corretto, ed è in grado di
svilupparsi; in 2/3 dei casi, la perdita casuale di uno dei tre cromosomi omologhi determina una
coppia biparentale normale, ma in 1/3 dei casi si ha disomia uniparentale. Questo è forse il
meccanismo più frequente di formazione di UPD; può determinare non solo eterodisomia, ma anche
omodisomia in relazione al tipo di errore meiotico che ha generato il gamete disomico.
c) duplicazione mitotica (monosomy duplication) o recupero della monosomia (monosomy rescue):
fertilizzazione di un gamete monosomico da parte di un gamete nullisomico, seguita nelle prime
divisioni mitotiche da duplicazione del cromosoma monosomico. È sempre caratterizzata da
omodisomia.
d) sostituzione eterocromosomica (sostituzione di marker): rappresenta un tentativo mitotico di
oltrepassare una situazione di aneuploidia, più precisamente una pseudodiploidia. Un marker
strutturalmente anormale sparisce dalla cellula sostituito da una seconda copia del suo partner
normale attraverso duplicazione. Si ritrova quindi sempre omodisomia.
e) scambio eterocromatidico: un crossing over somatico determina lo scambio alla mitosi tra due
eterocromatidi di una coppia di cromosomi replicati. L’UPD riguarda in questo caso un segmento del
cromosoma, ma si può accompagnare oltre che a scambio allelico, anche a delezioni o duplicazioni
nei punti di rottura.
Il fenomeno più frequente è il recupero di una trisomia. Le uniche trisomie compatibili con la vita sono la
trisomia del cromosoma 21, del 13 e del 18; perciò quando si sviluppa uno zigote trisomico, nella
maggioranza dei casi la gravidanza termina prima, c’è un aborto spontaneo; in alcuni casi però si può avere
un recupero della trisomia, nel senso che un cromosoma in eccesso viene eliminato. Quando si ha un
recupero della trisomia, si ha l’espulsione di uno dei tre cromosomi, e l’ovulo fecondato o la morula
contengono pertanto delle cellule disomiche, in grado di produrre un individuo maturo. Quando si ha il
recupero della trisomia, se l'espulsione del cromosoma soprannumerario avviene in maniera corretta (cioè
viene eliminato uno dei due cromosomi provenienti dallo stesso genitore), l’individuo si svilupperà
normalmente, senza che questo evento lasci traccia. Se invece ad essere escluso è l’unico cromosoma che
proviene dall’altro genitore, si genera disomia uniparentale (UPD); si avrà quindi uno zigote in grado di
produrre un individuo, che però presenta delle alterazioni del grado di espressione dei geni imprinted sul
cromosoma in cui entrambi gli omologhi sono uniparentali.

La formazione di una disomia uniparentale completa, cioè che coinvolge un intero cromosoma, non è molto
frequente.
Molto più frequenti sono invece le UPD zonali (o segmentali), caratterizzate da una situazione in cui solo
alcune zone del cromosoma sono soggette a disomie uniparentali. Questo si verifica quando, per esempio, c'è
una rottura durante la migrazione mitotica, per cui i cromosomi si rompono e si riparano per ricombinazione
omologa e si scambiano materiale, come avviene durante la meiosi. Si definisce UPD segmentale l’UPD di
una parte di un cromosoma (interstiziale o telomerica) in presenza di eredità biparentale del resto della
coppia di cromosomi e in presenza di un cariotipo normale.
L’UPD segmentale, se coinvolge zone sottoposte ad imprinting, determina alterazioni del corretto sviluppo
dell’individuo, anche piuttosto gravi.

Generalmente, quando un allele non è funzionante, la cellula può utilizzare l’altro l'allele di quel gene
presente sul cromosoma omologo, in modo da produrre una proteina funzionante; nel caso invece in cui uno
dei due alleli è imprinted, se l’allele non imprinted non è funzionante, la cellula non potrà ricorrere all’altro
allele (in quanto imprinted, e dunque silenziato). È per questo motivo che si possono sviluppare delle
malattie legate all’imprinting.
Le malattie dell’imprinting determinano in particolare disturbi di crescita e dello sviluppo. Le prime malattie
collegate all’imprinting ad essere state individuate sono la sindrome di Angelman e di Prader-Willi;
paradossalmente però, ad oggi sono più chiari i meccanismi di altre patologie legate all’imprinting scoperte
più recentemente, rispetto a quanto accade per la AS e la PWS.
Sindrome di Beckwith Wiedeman
La maggior dei casi di questa patologia (>85%) sono sporadici (cioè non caratterizzati da familiarità). La
sindrome di Beckwith Wiedeman è caratterizzata da:
• incidenza piuttosto basta ! 1/12.000-14.000 nati vivi
• macrosomia fetale, cioè la condizione che si presenta quando il feto è più grosso della media, in
particolare quando il peso al momento della nascita è maggiore di 4,5 kg; la macrosomia è
caratteristica anche di bambini nate da madri diabetiche.
• macroglossia, un’anomalia che comporta un'eccessiva crescita volumetrica della lingua; a causa
dell’aumento delle dimensioni della lingua, il bambino non riesce a tenere la lingua all'interno della
cavità boccale e tende a tenerla protusa.
• visceromegalia
• malformazioni congenite (a volte) ! onfalocele (parete addominale molto sottile, tanto da mostrare
gli organi interni), ernia addominale; queste malformazioni non sono sempre presenti. Se però si
verificano queste due situazioni, siamo di fronte a casi estremamente critici per la sopravvivenza, e
richiedono interventi chirurgici.
Un’altra caratteristica di questa malattia è che, qualora i bambini siano in grado di crescere, presentano
un’elevata predisposizione allo sviluppo di tumori piuttosto rari, come il tumore di Wilns (neuroblastoma) o
il rabdomiosarcoma. Inoltre questi bambini hanno una crescita più rapida, tanto che a 7-8 anni presentano
una curva di crescita superiore al 105°-110° percentile rispetto ai bambini normali.

Più della metà dei casi sporadici presenta alterazioni dell'imprinting; nel 60% dei casi sporadici, le
alterazioni dell’imprinting colpiscono una regione DMR che si trova sul cromosoma 11p15.5, della
dimensione di circa 1 Mb. Nella stragrande maggioranza di casi si tratta di delezione. In questa zona ICR,
ossia zona soggetta a imprintig, si trovano almeno 12 geni, con una differente espressione a seconda
dell’origine parentale:
" i geni paterni normalmente espressi sono IGF2 e KCNQ1OT1 (gene che codifica per un RNA non
tradotto, presente nel locus KCNQ1); questo significa che in caso di UDP paterna di questo locus,
l’espressione di IGF2 sarà aumentata, determinando macrosomia.
" i geni materni normalmente espressi sono H19 (che codifica per un RNA non tradotto, con attività
regolativa), KCNQ1 (gene codificante un canale del K+ voltaggio-dipendente) e CDKN1C (Cyclin-
dependent kinase inhibitor 1C).
Il 25-50% dei pazienti presenta espressione biallelica di IGF2. In questi casi, il fenomeno è dovuto a perdita
dell’imprinting (LOI, loss of imprinting) sull’allele materno dell’IGF2, che normalmente è silenziato.
L’espressione o meno di IGF2 dipende dalla metilazione della ICR di H19; infatti se questa regione è
imprinted, si esprime IGF2, mentre non si esprime H19 (come accade normalmente nel cromosoma
materno), e si verifica il contrario (H19 espresso, IGF2 non espresso) se questa regione non è imprinted.
Non tutti i casi di questa patologia però sono stati trovati con questo tipo di alterazione; si è visto che
nell'altra metà dei casi la perdita dell'imprinting coinvolge un trascritto antisenso di RNA non codogenico.
Abbiamo infatti LOI su KCNQ1QT1, un gene codificante per un RNA non tradotto (interno a KCNQ1, un
gene che codifica per un canale del potassio); il ruolo di questo trascritto probabilmente è quello di modulare
la trascrizione del gene per IGF2, visto che una sua alterazione provoca l'espressione incontrollata di IGF2.
Ci sono casi in cui si è verifica alterazioni dell'imprinting su entrambi i loci, cioè con LOI su entrambi i geni;
tuttavia si tratta di casi estremamente rari.
Si è riscontrato che la LOI sul trascritto non codogenico KCNQ1QT1 sono molto più spesso associate a
alterazioni della crescita e delle malformazioni congenite; questo perché il trascritto non regola solo
l'espressione di geni in cis come IGF2, ma anche di altri geni coinvolti nella differenziazione dei tessuti e
nello sviluppo. La perdita dell’imprinting sulla regione H19 adiacente al gene IGF2 è invece stata più
associata ad un maggiore rischio di sviluppare neoplasie.
Quindi, riassumendo, sul cromosoma 11 c'è una regione che contiene una zona imprinted in modo differente
nel cromosoma materno e in quello paterno, la quale controlla attraverso la metilazione differenziale
l’espressione di una dozzina di geni, di cui almeno due sono stati direttamente collegati al fenotipo.

Sindrome di Angelman e di Prader-Willi

I primi disordini genetici basati su meccanismi d’imprinting ad essere descritti nell’uomo sono state la
sindrome di sindrome di Angelman (AS) e la sindrome di Prader-Willi (PWS). Queste due patologie sono
definite sorelle, in quanto esse rappresentano i due aspetti speculari dello stesso danno genetico; in queste
due malattie è coinvolto infatti lo stesso locus genico (sul cromosoma 15 q11-q13), ma il fenotipo cambia a
seconda se ad essere colpito da un difetto è il cromosoma materno o quello paterno, proprio a causa di un
diverso imprinting sui due cromosomi. In entrambe c’è un alterazione del comportamento e del sonno,
mentre altre caratteristiche sono differenziate.
La percentuale di micro-delezioni è molto più frequente nella sindrome di Angelman, mentre la delezione di
diverse mega-basi è più frequente nella sindrome di Prader-Willi. Se ad essere deleto è l’allele proveniente
dalla madre, abbiamo la sindrome di Angelman; se invece manca l’allele paterno, avremo la sindrome di
Prader-Willi; quindi, quando il cromosoma difettoso è del padre, si ha la PWS, mentre se il cromosoma
difettoso è della madre, si genera l’AS.
Nella PWS il gene materno è silenziato perché sotto imprinting, mentre quello paterno è deleto; la PWS è
strettamente correlata con la Sindrome di Angelman, la quale è causata da imprinting paterno e delezione del
gene materno, anche se i sintomi sono molto diversi.

Sindrome di Prader-Willi ! caratteristiche:


% ha una frequenza di circa 1:10000-30000;
% alla nascita i bambini con questa sindrome mostrano una ipotonia severa di origine centrale, va man
mano scomparendo con l'età adolescenziale;
% ritardo globale dello sviluppo (in particolare dello sviluppo dei caratteri sessuali);
% ritardo mentale di grado live (QI tra 60 e 70).
% spiccata iperfagia, dovuta a disfunzioni ipotalamiche, che porta ad un’obesità eccessiva, con tutti i
problemi che da essa ne derivano (vascolari, diabete ecc.). Quindi, molto spesso ci si accorge di
questa sindrome quando le mamme, esasperate nel vedere i loro bambini mangiare e ingrassare a
dismisura, li portano a fare dei controlli medici;
% ipoplasia dei genitali, molto spesso visibile già alla nascita;
% ritardo nello sviluppo motorio (questi bambini ritardano molto nell’assumere la posizione supina, e
di solito cominciano a camminare intorno ai 2 anni); ovviamente questa ipotonia non deve essere
confusa con quella molto più grave legate ad altre malattie invalidanti, come la distrofia muscolare;
% ipogonadismo ipogonadotropo; quando ci si avvicina alla pubertà, si notano che questi bambini
hanno le gonadotropine basse e scarso sviluppo dei genitali;
% nell’adulto ritroviamo: infertilità, bassa statura, facies tipica, disturbi del sonno;
% l’aspetto fisico dei soggetti affetti è caratterizzato da arti lunghi, genitali molto piccoli e un marcato
grado di obesità.

Facies ! Aspetto ed espressione del volto. Ad esso concorrono la struttura dei suoi componenti (scheletro,
muscoli e cute sovrastante), e la motilità dei muscoli facciali. In condizioni patologiche questi elementi
possono venire modificati così da conferire all’espressione del volto particolari caratteristiche, tali da
costituire utili elementi per orientare il medico verso la diagnosi.

La maggior parte delle problematiche, almeno nella sindrome di Prader-Willi, è dovuta all’alterazione di
trascritti che non sono deputati alla sintesi di proteine, ma alla regolazione di altri trascritti.

Sindrome di Angelman ! dal punto di vista del fenotipo fisico, tale sindrome è molto meno grave rispetto a
quella di Prader-Willi; se invece consideriamo il ritardo mentale, nella AS abbiamo un ritardo mentale grave
(mentre nella PWS si aveva solo un modesto ritardo mentale).

Caratteristiche:
% frequenza: 1/15000-20000;
% ritardo mentale grave;
% andatura a scatto (atassia);
% attacchi epilettici e altri difetti neurologici;
% assenza del linguaggio; i bambini affetti iniziano a parlare molto tardi (intorno ai 2-3 anni), e inoltre
parlano molto poco; pertanto spesso tale sindrome può essere confusa con un tipo di ritardo mentale
che si associa all’autismo;
% microcefalia e occipite piatto (microbrachicefalia); queste caratteristiche sono osservabili molto
presto, già con un ecografia del feto;
% facies caratteristica;
% risate eccessive con protusione della lingua; infatti in inglese, una vecchia denominazione della AS
era ‘happy puppet syndrome’; la protusione della lingua è una caratteristica in comune con la PWS,
ma non è dovuta a macroglossia come in quest’ultimo caso;
% prognatismo (mandibola sporgente);
% ritardo dello sviluppo dai 6-12 mesi: il ritardo dello sviluppo, soprattutto quello della crescita fisica
del bambino, oltre che quello mentale, si inizia a vedere intorno ai 6-12 mesi di vita; quindi è
difficile fare una diagnosi rapida. Il più delle volte questi segni di ritardo vengono osservati dal
medico quando il bambino si è già sviluppato;
% cervello strutturalmente normale alla risonanza magnetica;
% ipopigmentazione della pelle; l’ipopigmentazione è una caratteristica anche di altre malattie (come la
fenilchetonuria);
% di solito la diagnosi è posta nella tarda infanzia.

La diagnosi per l’AS di solito viene effettuata solo quando sono state escluse altre ipotetiche patologie.
Mentre per la sindrome di Prader-Willi la maggior parte dei trascritti coinvolti sono trascritti non codogenici,
di cui è difficile analizzarne in ruolo regolatorio, nel caso della sindrome di Angelman è coinvolto invece un
trascritto codogenico, ed inoltre esiste anche un modello sperimentale murino di questa sindrome.

La sindrome di Angelman è causata dalla perdita nella normale componente materna di una regione del
cromosoma 15, comunemente per una delezione di quel segmento del cromosoma. Altre cause includono la
disomia uniparentale, la traslocazione, oppure la mutazione di un singolo gene in quella regione. Una
persona sana riceve due copie del cromosoma 15, una dalla madre e l’altra dal padre; però, nella regione
cromosomica che è critica per lo sviluppo della AS, la componente materna e quella paterna esprimono
determinati geni in modo molto differente, a causa di un meccanismo di imprintig sesso-specifico.
La sindrome di Angelman può anche essere il risultato di una mutazione di un singolo gene; questo gene
UBE3A (che codifica per l’ubiquitina-ligasi 3A) è presente sia sul cromosoma materno che su quello
paterno, ma differisce nei due per il pattern di metilazione (imprinting). Infatti abbiamo il silenziamento
dell’allele paterno UBE3A in maniera specifica per determinate regioni cerebrali; nell’ippocampo e nel
cervelletto infatti, l’allele materno è quasi esclusivamente l’unico attivo. Il difetto genetico più comune che
conduce alla AS è una delezione di circa 4 Mb all’interno della regione 15q11-13 del cromosoma materno,
causando l’assenza dell’espressione della UBE3A nelle regioni cerebrali in cui abbiamo l’imprinting paterno.
Anche solo mutazioni puntiformi dell’allele materno del gene UBE3A danno il fenotipo caratteristico della
AS. L’enzima UBE3A è coinvolto nell’indirizzare le proteine dalla degradazione proteasomale; la
degradazione proteica è un processo fisiologico, che rimuove le proteine danneggiate o non più necessarie, e
aiuta preservare le normali funzioni cellulari.

Diversi tipi di alterazioni genetiche possono dar luogo alla sindrome di Prader-Willi o a quella di Angelman.
Nella sindrome di Prader-Willi, il 65-75% dei casi che sono stati riscontrati fino ad oggi è dovuta a delezione
di megabasi che coinvolgono il cromosoma 15 materno. Se invece queste delezioni coinvolgono il
cromosoma paterno, abbiamo la sindrome di Angelman; anche per l’AS, la delezione è la causa del 65-75%
dei casi, anche se in questo caso spesso sono delezioni più ridotte o microdelezioni. Questo tipo di
alterazione è chiamata alterazione di classe 1, ed è diagnosticabile attraverso metodiche abbastanza semplici,
come ad esempio l’analisi del cariotipo e la tecnica FISH; bisogna inoltre individuare se ad aver subito la
delezione è il cromosoma 15 materno o paterno.
Invece il 20-30% dei pazienti affetti da sindrome di Prader-Willi non presenta questo tipo di alterazioni , ma
alterazioni di classe 2, dovute cioè a disomia uniparentale; invece solo il 5% circa dei casi della sindrome di
Angelman è dovuta a UPD. L’analisi di questo tipo di alterazione è più complicata rispetto alla ricerca di una
delezione; per poter dire se c’è una disomia uniparentale, bisogna fare l’analisi del cromosoma 15 dei
genitori per confrontarli con quelli del soggetto in esame, e bisogna quindi effettuare uno studio preventivo
della famiglia (mentre nel caso di una delezione, lo studio può essere effettuato successivamente alla
scoperta di questo difetto).
Abbiamo poi le alterazioni di classe 3, che sono dovute a difetti dell’imprinting; il 5% dei casi sia di PWS
che di AS è dovuto a questo tipi di alterazioni.
Le alterazioni di classe 4 sono invece costituite da mutazioni puntiformi; queste alterazioni sono
estremamente rare nella PWS (meno dello 0.1% dei casi), mentre sono presenti nel 10% dei casi della AS.
Infine, vi sono le alterazioni di classe 5, che:
- nel caso della PWS, sono grossolane alterazioni bilanciate (che possono essere evidenziate in
maniera molto semplice attraverso un’indagine cariotipica) in cui lo scambio di materiale porta non
solo all’alterazione morfologica dei cromosomi, con scambio di regioni tra un cromosoma e l’altro,
ma anche a una disomia uniparentale; è la causa dello 0.1% dei casi di PWS;
- nell’AS, si tratta del 10% dei casi di cui non sono state ancora individuate le cause.

Attualmente si presume che le caratteristiche peculiari della Sindrome di Angelman siano dovute alla
espressione o funzione deficitaria del gene UBE3A, attivo solo sull’allele materno (in quanto quello paterno
è sottoposto a imprinting), ma i cui meccanismi sono ancora sconosciuti.
I pazienti con Sindrome di Angelman possono essere suddivisi in specifiche classi eziologiche, a cui
corrispondono meccanismi biologici e rischi di ricorrenza differenti:
" delezione de novo dalla componente della regione 15 q11-q13 sulla copia del cromosoma 15
ereditato dalla madre;
" disomia uniparentale paterna: entrambi i cromosomi 15 derivano dal padre; in questo modo viene a
mancare il contributo genetico materno per la regione critica;
" difetto del centro di imprinting (IC): sono presenti nel 3% dei casi;
" mutazione del gene UBE3A; descritte nel 5-11% dei casi. Parecchi individui che ereditano il
cromosoma 15 da entrambi i genitori e con un normale pattern di metilazione presentano mutazioni
del gene UBE3A;
" meccanismi non ancora ben identificati: nell’11-20% degli individui con Sindrome di Angelman,
con test di metilazione normale, non si riscontra nessuna delle precedenti cause genetiche descritte.
È plausibile che un altro gene (localizzato altrove nel genoma), implicato nel ciclo dell’ubiquitina,
possa essere coinvolto.

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