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PANT.

288C
Fabiano Gruppo Editoriale
Copyright 2017
FGE srl – Fabiano Gruppo Editoriale

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Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione totale o parziale

Grafica e stampa: FGE srl

ISBN 978-88-97929-70-3

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info@fgeditore.it – www.fgeditore.it
Coordinatore

Luigi Mele

Autori

Luigi Mele
Medico Chirurgo Oculista
Andrea Piantanida
Medico Chirurgo Oculista
Mario Bifani
Medico Chirurgo Oculista

Contributors

Costantino Bianchi Antonio Mocellin


Medico Chirurgo Oculista Medico Chirurgo Oculista
Gianni Boccacini Italo Muzza
Fisico IRSOO Ortottista
Decio Capobianco Roberta Nobili
Medico Chirurgo Oculista Ortottista
Mario Casini Paolo Perri
Medico Chirurgo Oculista Medico Chirurgo Oculista
Ciro Costagliola Matteo Piovella
Medico Chirurgo Oculista Medico Chirurgo Oculista
Carla Gallenga Manuela Spera
Medico Chirurgo Oculista Ortottista
Pier Enrico Gallenga Pasquale Troiano
Medico Chirurgo Oculista Medico Chirurgo Oculista
Gioacchino Gesmundo Salvatore Troise
Ottico Medico Chirurgo Oculista
Barbara Kusa Marica Vampo
Medico Chirurgo Oculista Fisico IRSOO
Michele Lanza
Medico Chirurgo Oculista
V

Introduzione

Affrontare la refrazione in tempi di computer potrebbe sembrare anacronistico e


forse anche un po’ inutile. In realtà la pratica clinica quotidiana specie in oftalmologia
pediatrica ci obbliga ad avere dimestichezza con tecniche che esulano dall’utilizzo
di macchinari sofisticati. Ancora oggi utilizzare tecniche manuali per diagnosticare
i difetti visivi nell’adulto ed ancor di più nei bambini risulta un passaggio non solo
necessario ma anche inevitabile al fine di poter prescrivere una correzione “giusta”.
È infatti sull’analisi accurata e precisa della refrazione che si basa la gestione sia
dell’ambliopia sia dello strabismo sia di tutte le patologie oculari. Si potrebbe dire
che proprio la refrazione è la “pietra angolare” della terapia oculistica: bisogna
considerare infatti che risulta molto difficile se non impossibile richiedere al
bambino e talvolta anche all’adulto, quella collaborazione che permette l’utilizzo di
computer o quant’altro con sufficiente precisione ed accuratezza.
Per questi motivi spinti dalla esigenza di fornire un supporto a tutti i medici oculisti
ed a tutti gli ortottisti nasce questo testo con una parte elettivamente dedicata alla
refrazione nel bambino. Molte delle regole descritte potranno essere agevolmente
utilizzate coi pazienti, adulti o bambini che siano, consentendo ai colleghi di
intervenire in maniera semplice “sul campo” laddove non esistano strumentazioni
adeguate.
Pur consapevoli della presenza di opere dedicate alla refrazione che hanno
rappresentato e rappresentano ancora oggi il punto di riferimento per “imparare a
dare gli occhiali”, abbiamo ritenuto opportuno cercare di semplificare gli argomenti
dando un taglio pratico alla loro descrizione, riservando al lettore la facoltà di
approfondirli leggendo le opere già pubblicate in passato.
Si spera che l’utilizzo di questo manuale possa contribuire ad agevolare la pratica
quotidiana di chi si troverà ad affrontare i problemi refrattivi da cui dipendono il
trattamento delle più comuni patologie oculari.
Un sentito ringraziamento ai contributors che con professionalità hanno collaborato
alla stesura di alcuni capitoli di quest’opera, trasfondendo in essi il loro sapere e la
loro esperienza.
Un encomio particolare va anche al Dott. Costantino Bianchi ed alla giovane
ortottista Dr.ssa Gulia Gerosa per il paziente e preciso lavoro di revisione.

Luigi Mele
Andrea Piantanida
Mario Bifani
VI

Indice
PARTE PRIMA
CAPITOLO 1 – Le radiazioni elettromagnetiche (L. Mele, C. Caruso) pag. 1
Le caratteristiche fisiche
La polarizzazione
Lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche
La radiazione del visibile
La spettrofotometria

CAPITOLO 2 – Ottica geometrica (M. Bifani, G. Boccacini, M. Vampo) pag. 9


Riflessione
Rifrazione
Radiazione policromatica
Numero di Abbe
Prisma
Diottro sferico
Lente sottile
Lenti astigmatiche
Lenti prismatiche
Convenzione degli ottici

CAPITOLO 3 – Acuità visiva (L. Mele, P. Troiano) pag. 67


Introduzione
Definizione di acuità visiva
Unità di misura dell’acuità visiva
Notazione decimale
Scala di Monoyer
Frazione di Snellen
Scala LogMAR
Cicli per grado (c/g)
Strumenti per la valutazione dell’acuità visiva
Calcolo del valore di AV
Fattori che influenzano l’acuità visiva
Curiosità

CAPITOLO 4 – Occhio schematico (M. Bifani, M. Lanza) pag. 81


Introduzione
L’occhio “esatto” di Gullstrand
Poteri diottrici della cornea
Poteri diottrici del cristallino
Potere totale dell’occhio
Definizione di emmetropia e ametropia (miopia e ipermetropia)
Occhio emmetrope
Occhio ametrope
Disco di diffusione: definizione e calcolo del suo diametro

CAPITOLO 5 – Ametropie sferiche ed astigmatismo (L. Mele, C. Gallenga, P. Perri) pag. 89


Introduzione
La miopia: introduzione e definizione
Genetica della miopia
Classificazione della miopia
Sintomi e segni della miopia
Ipermetropia e sue classificazioni
Sintomi e segni dell’ipermetropia
Astigmatismo: introduzione e definizione
VII

L’astigmatismo oculare
Classificazione dell’astigmatismo
Sintomi dell’astigmatismo
Cheratocono e microambiente

CAPITOLO 6 – Accomodazione e convergenza (L. Mele, P.E. Gallenga) pag. 105


Introduzione
Filogenesi dell’accomodazione
Punto prossimo
Punto remoto
Variazioni fisiologiche nel processo dell’accomodazione
Accomodazione da sfuocamento
Profondità di fuoco e di campo
Accomodazione prossimale
Accomodazione da vergenze orizzontali
Accomodazione aggregata
Stato di riposo dell’accomodazione
Misura del potere accomodativo
Convergenza
Unità di misura della convergenza
Componenti della convergenza

CAPITOLO 7 – Cassetta lenti di prova e forottero (M. Bifani, D. Capobianco) pag. 121
Descrizione cassetta di lenti
Il posizionamento del portalenti
La centratura delle lenti di prova
Forottero
Lenti accessorie del forottero
Vantaggi nell’uso del forottero
Svantaggi nell’uso del forottero
Oftalmometria

CAPITOLO 8 – Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo (M. Bifani, B. Kusa) pag. 133
Anamnesi
Valutazione dell’acuità visiva
Foro stenopeico
Punto prossimo di accomodazione
Occhio dominante
Test del filtro rosso (dominanza sensoriale)
Test del foro (dominanza motoria)
La schiascopia o retinoscopia
Esecuzione dell’esame
Schiascopia statica: i movimenti
Ricerca della lente corretrice
Schema riassuntivo
Ametropia astigmatica
Fonti d’errore nella schiascopia
Autorefrattometro

CAPITOLO 9 – Refrazione monoculare (M. Bifani, S. Troise) pag. 147


Compensazione della miopia
Compensazione dell’ipermetropia
Metodiche di misura dell’ipermetropia
Compensazione dell’astigmatismo con il quadrante per astigmatici
Procedura d’esame con il quadrante per astigmatici
Esempio pratico
Compensazione dell’astigmatismo con il cilindro crociato di Jackson
Utilizzo del cilindro crociato per l’evidenziazione del potere e dell’asse del cilindro correttore
VIII

CAPITOLO 10 – Bilanciamenti monoculari e binoculari (L. Mele, A. Mocellin) pag. 157


Rifinitura della sfera
Test bicromatico o Duochrome
Test del reticolo a croce
Utilizzo di lenti di ± 0,25 dt
Test di bilanciamento binoculare
Filtri ed ottotipi polarizzati
Prismi dissocianti

CAPITOLO 11 – Presbiopia (L. Mele, M. Piovella) pag. 171


Variazioni del cristallino e dell’accomodazione con l’avvento della presbiopia
La presbiopia
Classificazione della presbiopia
Eziologia della presbiopia
Fattori che influenzano l’insorgenza della presbiopia
Sintomatologia soggettiva
Determinazione dell’addizione
Determinazione dell’addizione secondo Bennon
Determinazione dell’addizione secondo Bennet
Tabelle
Determinazione dell’addizione secondo il metodo del minimo e massimo positivo
Verifica dell’addizione
Controllo dell’intervallo di visione nitida
Verifica dell’addizione con reticolo a croce e cilindro crociato
Verifica dell’addizione con il test bicromatico

CAPITOLO 12 – Anisometropia e refrazione binoculare (L. Mele, C. Costagliola) pag. 183


Introduzione
Visione del soggetto anisometrope
Influenza dell’anisometropia sullo sviluppo del sistema visivo
Tecnica di esame
Test delle 4 luci di Worth
Lang stereotest 1 e 2
Titmus fly stereotest
Schiascopia
Esame refrattivo soggettivo
Refrazione binoculare
Vantaggi dell’esame in visione binoculare
Metodo vettografico
Setto separatore di Turville
Sospensione foveale (annebbiamento monoculare)
HIC Test

CAPITOLO 13 – Deviazioni oculari latenti: le forie (L. Mele, C. Bianchi) pag. 197
Il sistema motorio e le sue anomalie
Gli squilibri del sistema motorio: forie e tropie
Classificazione degli squilibri muscolari latenti
Esame dello stato eteroforico
Tecniche soggettive per l’evidenziazione delle forie
Test di Schober
Test di Hering
Tecnica con cilindro di Maddox
Metodo di Von Graefe
Tecniche oggettive per l’evidenziazione delle forie: cover test
Cover/Uncover Test
Cover Test Alternato
Confronto tra Cover/Uncover Test e Cover Test Alternato
IX

Misura dell’entità delle forie


Importanza della valutazione delle forie

PARTE SECONDA
CAPITOLO 14 – Acutezza visiva in età pediatrica (A. Piantanida) pag. 209
Introduzione
Definizione e caratteristiche
Metodi oggettivi di misurazione dell’acutezza visiva
Le scale di misura: ottotipo decimale ed ottotipo logaritmico
Soglie ed indovinamento
Metodi di utilizzo degli ottotipi a progressione logaritmica
Le analisi statistiche della misura dell’ acutezza visiva

CAPITOLO 15 – La refrazione in età pediatrica (A. Piantanida) pag. 225


Validità
Validità di criterio
Validità predittiva
Validità concorrente
Accomodoazione
Accomodazione binoculare
Ampiezza accomodativa
Cicloplegia
Effetti collaterali dei cicloplegici

CAPITOLO 16 – Il Riflesso rosso del fundus e la refrazione in età pediatrica pag. 233
(A. Piantanida, R. Nobili)
Quadri clinici del riflesso rosso

CAPITOLO 17 – La schiascopia in età pediatrica (A. Piantanida) pag. 237


La schiascopia a striscia
La schiascopia sferica
Cause di errore nella schiascopia
La schiascopia cilindrica

CAPITOLO 18 – La motilità oculare e la refrazione (A. Piantanida, M. Spera) pag. 247


Anatomia della motilità oculare
Duzioni versioni e vergenze
Disallineamento oculare: strabismo
Il Prisma
Influenza delle lenti oftalmiche sulla motilità oculare
Strabismo e vizi refrattivi

PARTE TERZA
CAPITOLO 19 – La montatura nell’adulto (L. Mele, M. Casini) pag. 259
Definizioni
Parti fondamentali della montatura
Sistemi di misura
Sistemi di riferimento
Angolo pantoscopico
Angolo di avvolgimento
Montature in materiali di sintesi
Materiali di Sintesi
Metodi di costruzione di una montatura in materiali di sintesi
Montature in metallo
Classificazioni
X

Parti fondamentali della montatura in metallo


Metodi di costruzione di una montatura in titanio
La montatura per lenti progressive

CAPITOLO 20 – Le lenti oftalmiche (L. Mele, G. Gesmundo) pag. 291


Costruzione delle lenti oftalmiche
Materiali organici
Vetro minerale
I materiali costitutivi delle lenti oftalmiche
La refrazione
La dispersione
La trasparenza
Vetro minerale
Vetri organici
Cr 39
Materiali ad alto indice di refrazione
Geometria delle lenti oftalmiche
Lenti sferiche
Lenti asferiche
Lenti toriche
Ottica delle lenti oftalmiche
Lenti monofocali
Lenti bifocali
Lenti da interno o indoor
Lenti progressive
Lenti oftalmiche personalizzate: la tecnologia free form
I filtri delle lenti oftalmiche
Lenti da sole
Lenti fotocromatiche
Lenti a filtro selettivo
Lenti polarizzanti
Lenti a filtro blu
I trattamenti delle lenti
Il trattamento antiriflesso
Il trattamento indurente
Il trattamento idrorepellente
La tempera

CAPITOLO 21 – L’occhiale in età pediatrica (A. Piantanida) pag. 317


Caratteristiche generali di una montatura
Le montature pediatriche: conformazione, materiali e caratteristiche morfologiche
Le montature in gomma o polimeri biocompatibili
Montature per lo sport
Lenti: potere, distanza, ingrandimento ed effetti derivanti dal loro utilizzo proprio e
improprio
Occhiali con lenti bifocali nei bambini: tipologie e indicazioni per l’impiego
Occhiali con lenti da sole e fotocromatiche nel bambino
Conclusioni

CAPITOLO 22 – La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica pag. 329


(A. Piantanida, I. Muzza)
Quando le lenti a contatto nei bambini
Multifocali a visione simultanea
Multifocali a traslazione
I materiali delle lenti a contatto
L’occhio ed i parametri pediatrici

CAPITOLO 23 – La compilazione della ricetta (M. Bifani) pag. 339


PARTE PRIMA
1. Le radiazioni elettromagnetiche 1

Capitolo 1 – Le radiazioni elettromagnetiche


L. Mele, C. Caruso
Caratteristiche fisiche

Alcuni fenomeni fisici possono essere spiegati assumendo che l’energia luminosa sia
costituita da onde, mentre altri fenomeni vengono spiegati accettando che, la stessa,
sia costituita da particelle discrete (fotoni), ciascuna dotata di una energia E legata
alla frequenza della radiazione dalla relazione di Einstein del 1905.
Oggi con il termine radiazione s’intende ogni forma di energia che si propaga me-
diante onde e particelle in moto.
La materia è formata da atomi costituiti da un nucleo, dotato di carica elettrica po-
sitiva, e da elettroni dotati di carica elettrica negativa.
Un elettrone immobile genera, a causa della sua carica, una forza elettrica nello spa-
zio circostante, il campo elettrico. Questo campo elettrico, generato dall’elettrone,
viene perturbato dal cambiamento di distanza, dall’elettrone stesso, durante la sua
oscillazione attorno al nucleo.
La variazione del campo elettrico genera un campo magnetico.
La radiazione elettromagnetica, quindi, è un fenomeno ondulatorio dovuto alla pro-
pagazione di perturbazioni periodiche di un campo elettrico e di un campo magneti-
co, oscillanti in piani tra di loro ortogonali.
Essa viaggia nel vuoto alla velocità di 2.99x108 m/s, mentre nell’acqua (mari, oce-
ani...) si riduce a circa 2.2x108 m/s, e può essere descritta matematicamente dalle
equazioni di Maxwell, in base alla quale: “…ogni qual volta si verifica una variazione
di campo elettrico si genera un campo magnetico; viceversa, da un campo magnetico
variabile nel tempo si genera un campo elettrico. Una perturbazione elettromagnetica,
una volta che si è generata, si propaga nello spazio anche quando viene a cessare la causa
che l’ha originata…”.
I parametri che caratterizzano le radiazioni elettromagnetiche sono:
– Lunghezza d’onda (λ), ovvero lo spazio percorso da un’onda per compiere un’oscil-
lazione completa. Essa viene definita anche come distanza tra due creste o due
ventri vicini;
– Velocità di propagazione nel vuoto (c), ovvero la distanza percorsa da un’oscilla-
zione nell’unità di tempo e che, nel caso delle radiazioni elettromagnetiche, è la
velocità della luce che nel vuoto raggiunge il suo valore massimo e viene indicata
con co = 3x108 m/s; negli altri mezzi invece tale velocità è pari a co/n, dove n è una
costante tipica del mezzo nel quale si propaga l’onda ed è detta indice di refrazio-
ne assoluto del mezzo. Non esistono mezzi nei quali n sia minore di uno, cioè la luce
nel vuoto si propaga con la massima velocità possibile;
– Frequenza (ν), ovvero il numero di oscillazioni nell’unità di tempo. Essa è espressa
in Hertz (Hz, dove 1 Hz = 1s-1);
– Periodo (T), ovvero l’intervallo di tempo che intercorre tra due passaggi consecuti-
vi della cresta in uno stesso punto.
Tutti questi elementi caratteristici delle onde elettromagnetiche sono legati tra loro
dalle seguenti relazioni:
1. Le radiazioni elettromagnetiche 2

Benché la velocità c sia la stessa per tutte le onde elettromagnetiche, la lunghezza


d’onda e la frequenza possono variare notevolmente. Esse sono, naturalmente, l’una
inversamente proporzionale all’altra: quanto maggiore è la lunghezza d’onda tanto
minore è la frequenza.

1.3 La polarizzazione

Il campo elettromagnetico, la cui variazione nel tempo e nello spazio provoca le onde
elettromagnetiche, è un vettore caratterizzato da una vibrazione, cioè da un modulo
di direzione e verso. La direzione del vettore campo elettrico è denominata “direzio-
ne di polarizzazione”.
Le onde elettromagnetiche sono trasversali, il che sta ad indicare che il vettore cam-
po elettrico giace sempre in un piano perpendicolare alla direzione di propagazione,
detto piano di vibrazione.
Quando il campo elettrico-magnetico oscilla su una linea retta si parlerà di polarizza-
zione lineare, ma se la direzione di polarizzazione cambia nel tempo, il vettore campo
elettrico potrà vibrare lungo una circonferenza, polarizzazione circolare, oppure su
una ellissi, polarizzazione ellittica. In natura è presente la radiazione non polariz-
zata, cioè quella radiazione la cui polarizzazione varia continuamente in maniera
casuale. Per ottenere una radiazione polarizzata si usano i polarizzatori, dispositivi
che, investiti da una radiazione priva di una ben precisa direzione di polarizzazione
danno luogo a luce completamente o parzialmente polarizzata.
Un esempio tipico di polarizzatore della luce visibile è il materiale Polaroid, che
consiste di un sottile strato di piccoli cristalli di herapatite (un sale di iodio e chini-
no) tutti allineati con i loro assi paralleli. Questi cristalli assorbono la luce quando
le oscillazioni sono in una direzione, mentre non l’assorbono quando le oscillazioni
sono in un’altra direzione. Gli occhiali muniti di lenti Polaroid sono quindi partico-
larmente adatti a ridurre la luce non polarizzata, quale è quella che si ottiene per
riflessione su superfici come acqua, asfalto e neve.

1.4 Lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche

L’insieme di tutte le lunghezze d’onda elettromagnetiche costituisce il cosiddetto


spettro elettromagnetico, suddiviso in regioni parzialmente sovrapposte.
L’intervallo di frequenza entro il quale le onde elettromagnetiche sono oggetto di
applicazione e di studio è estremamente ampio essendo compreso fra un migliaio di
Hertz e circa 1025 Hertz (e oltre). A seconda della loro frequenza, le onde elettro-
magnetiche sono prodotte da tipi di sorgenti diverse, hanno proprietà diverse e in
particolare hanno diverse modalità di interazione con la materia.
In base al loro livello energetico, verranno distinte in ionizzanti e non ionizzanti
(Figura 1).
Le radiazioni non ionizzanti sono dotate di livelli energetici bassi e non interagisco-
no con la materia a livello molecolare quanto a livello superficiale illuminandola e
causandone l’innalzamento termico. Ne fanno parte le radiazioni del visibile (luce),
le radiazioni infrarosse, le microonde e le onde radio.
Le radiazioni ionizzanti, invece, sono quelle a più alta energia in grado, quindi, di in-
teragire con la materia a livello molecolare modificandola e/o alterandola. Ne fanno
parte le radiazioni UVA, UVB, UVC, i raggi X, i raggi gamma ed il nucleare.
1. Le radiazioni elettromagnetiche 3

Figura 1. Lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche

Le radioonde, onde invisibili del tipo generato e rivelato per la prima volta da Hertz,
hanno frequenza compresa tra 103 Hertz e circa 109 Hertz. I segnali televisivi, le
onde corte, le onde radar, i segnali radio AM (amplitude modulation, modulazione di
ampiezza) e FM (frequency modulation, modulazione di frequenza) sono particolari
tipi di radioonde. Vengono generati da circuiti elettronici che fanno oscillare cariche
elettriche le quali, quando vengono accelerate, emettono energia.
Le onde radio sono impiegate in radiotelegrafia, nelle trasmissioni radiofoniche, te-
lefoniche, televisive, radar, nei sistemi di navigazione e nelle comunicazioni spaziali.
Le microonde hanno frequenze comprese tra 109Hz e alcune unità di 1011Hz e lun-
ghezza d’onda compresa tra 0,3x109 nm e 0,3x106 nm e sono generate da dispositivi
meccanici (cavità risonanti, guide d’onda). Le microonde attraversano l’atmosfera
terrestre senza subire interferenze, come accade invece per le onde radio, e possono
penetrare attraverso nubi e foschia, a differenza della radiazione visibile e infrarossa
(che hanno lunghezza d’onda inferiore).
Sono usate nella ricerca (studi atomici e molecolari) e in telecomunicazioni (radar e
GPS). Vengono inoltre facilmente assorbite dalle molecole d’acqua contenute negli
alimenti, facendoli riscaldare rapidamente (forno a microonde).
La radiazione infrarossa (IR) occupa l’intervallo di lunghezze d’onda (frequenza)
compreso tra 1mm e 750 nm (300 GHz e 400 THz). La banda dell’infrarosso è comu-
nemente divisa in tre parti: FAR, MID, NEAR. La regione FAR è vicina alla banda
delle microonde, la NEAR è vicina alla banda della luce visibile.
Circa il 50% della radiazione solare è emessa nella regione infrarossa (NEAR, vicina
al visibile), il resto è emesso nel visibile e, in piccola parte, nell’ultravioletto. La ter-
ra, a una temperatura media di circa 15°C, emette nell’infrarosso.
La radiazione infrarossa viene spontaneamente emessa dai corpi caldi, in cui gli
atomi vengono eccitati tramite gli urti causati dall’agitazione termica. Se assorbiti
da una molecola, i quanti hanno un’energia sufficiente a provocare un moto vibrazio-
nale, che si traduce in un aumento di temperatura. L’emissione infrarossa è utilizzata
in medicina per terapie fisiche e, nella ricerca, per lo studio dei livelli energetici
vibrazionali.
Molti animali, come i serpenti, sono sensibili all’infrarosso. Il vetro è opaco all’infra-
1. Le radiazioni elettromagnetiche 4

rosso, il che spiega il cosiddetto effetto serra. Infatti la luce che attraversa il vetro di
una serra viene assorbita dalle piante e riemessa sotto forma di infrarosso, il quale
rimane intrappolato provocando l’aumento di temperatura all’interno della serra.
La radiazione visibile (o semplicemente luce) (Figura 2) ha frequenza compresa tra
3,8x1014 Hz e 7,9x1014 e lunghezza d’onda compresa tra 380 nm e 780 nm. Il campo
della luce del visibile è molto ristretto rispetto all’intero spettro delle radiazioni, ma
è estremamente importante per gli organismi viventi poiché l’occhio della maggior
parte di essi è sensibile a queste radiazioni. La luce viene emessa da atomi e mole-
cole quando i relativi elettroni compiono transizioni da uno stato metastabile o in-
stabile alla stato fondamentale, o da cariche microscopiche in movimento per agita-
zione termica a temperature molto elevate. In particolare il Sole (la cui temperatura
superficiale è prossima a 6000 gradi) emette uno spettro di radiazioni il cui massimo
è centrato intorno ad una lunghezza d’onda di circa 5000 U.A. (1 U.A.=10-7mm) e si
estende dall’ultravioletto al vicino infrarosso.
I raggi ultravioletti (UV) (Figura 3) occupano l’intervallo di lunghezza d’onda com-
preso tra la luce visibile e i raggi X, ossia tra: 400 nm e 10 nm (750 THz e 30000 THz)
ed energie tra 3 eV e 124 eV. In fisica la radiazione ultravioletta è divisa in quattro
regioni: Near (400-300 nm), Middle (300-200 nm), Far (200-100 nm), Extreme (sotto
i 100 nm).
Quando si considera l’impatto dei raggi UV sull’ambiente e sulla salute umana, sono
evidenziate tre regioni dello spettro UV: UV-A (400-315 nm), UV-B (315-280 nm) e
UV-C (280-100 nm). La sorgente naturale più importante di radiazione UV è il sole.
La radiazione UV che raggiun-
ge la superfice terrestre è circa
il 9% (circa 120 W/m2) della ra-
diazione solare al top dell’atmo-
sfera. L’atmosfera terrestre, tra-
mite processi di assorbimento e
diffusione, agisce come un filtro
rispetto alle radiazioni prove-
nienti dal sole.
In particolare:
– la radiazione UV- C (la più dan-
nosa per la vita a causa del suo
alto contenuto energetico) vie- Figura 2. La radiazione del visibile
ne completamente assorbita
dall’ozono e dall’ossigeno degli
strati più alti dell’atmosfera;
– la radiazione UV-B viene
anch’essa in buona parte as-
sorbita, ma una non trascura-
bile percentuale (circa il 15-
20%) riesce a raggiungere la
superficie terrestre; è respon-
sabile di bruciature solari e di
cancro alla pelle.
– la radiazione UVA riesce in
buona parte (circa il 55-60%)
a raggiungere la superficie
terrestre. Figura 3. Lo spettro dell’ultravioletto
1. Le radiazioni elettromagnetiche 5

Sono utilizzati nelle lampade germicide (UV-C), dove distruggono microorganismi


quali batteri, virus, muffe, ecc., e sono usate per assicurare la sterilità di utensili e
ambienti ospedalieri. Trovano largo uso nelle lampade UV (UV-A), per favorire l’ab-
bronzatura, e nel laser UV (UV-B) in applicazioni industriali (incisioni con laser) e
in medicina (dermatologia).
I raggi X hanno frequenza compresa fra circa 3x1017Hz e 5x1019Hz e lunghezza d’onda
compresa tra i 6x10-1nm e 6x10-3 nm. I raggi X hanno energia sufficiente per pro-
vocare transizioni di elettroni atomici più interni, danneggiare le cellule viventi e
possono penetrare nei tessuti biologici.
L’atmosfera terrestre assorbe al 95% i raggi X provenienti dall’universo, cosa che
rende merito del fatto che la maggior parte è prodotta artificialmente dall’uomo.
Il loro diverso assorbimento ad opera dei tessuti di diversa consistenza e densità
rende possibile il loro impiego in diagnostica medica (radiografia e radioscopia).
Trovano inoltre applicazioni in radiochimica e Medicina.
Rosalind Franklin, al King’s College di Londra, utilizzò la diffrazione a raggi X per stu-
diare fibre di DNA. Con i risultati che ottenne (tra il 1951 e il 1953) diede un contri-
buto fondamentale alla scoperta della struttura a doppia elica del DNA. James Watson
e Francis Crick ebbero modo di conoscere foto e dati elaborati (non ancora pubblicati)
dalla Franklin: i risultati della Franklin furono per loro molto utili nell’elaborazione del
modello della doppia elica del DNA (marzo 1953).
I raggi gamma hanno frequenze superiori a 3x1018 Hz con lunghezze d’onda minori
a 10-1 nm e sono prodotte nei decadimenti radioattivi gamma, in interazioni tra par-
ticelle (annichilazione elettrone-positrone, decadimento del pione neutro); processi
tipici delle reazioni nucleari.
Raggi X e raggi γ hanno un intervallo energetico di sovrapposizione. Tipicamente,
quando possibile, le due radiazioni sono distinte e definite (X o γ) in base alla loro
origine: raggi X se emessi da elettroni al di fuori del nucleo, raggi γ se emessi dal
nucleo (decadimenti radioattivi). Vengono impiegati nella medicina nucleare at-
traverso varie metodiche diagnostiche quali SPECT (Tomografia computerizzata a
emissione di fotoni singoli), PET (Tomografia a emissione di positroni), oppure in
applicazioni terapeutiche quali la Cobalto terapia.

1.5 Le radiazione del visibile

All’interno dello spettro elettromagnetico, solo una piccolissima porzione appartie-


ne al cosiddetto spettro visibile (Figura 4), cioè all’insieme delle lunghezze d’onda

Figura 4. Lo spettro della luce visibile è solo una piccola porzione dell’intero spettro elettromagnetico
1. Le radiazioni elettromagnetiche 6

a cui l’occhio umano è sensibile e che sono alla base della percezione dei colori.
Le differenze individuali possono far variare leggermente l’ampiezza dello spettro
visibile. In linea di massima, comunque, esso si situa tra i 380 e i 780 nanometri:
alla lunghezza d’onda minore corrisponde la gamma cromatica del blu-violetto, alla
lunghezza d’onda maggiore corrisponde invece la gamma dei rossi.
Il termine luce (dal latino lux) si riferisce, quindi, alla porzione dello spettro elettro-
magnetico visibile dall’occhio umano, ed è approssimativamente compresa tra 400
e 700 nanometri di lunghezza d’onda. Questo intervallo coincide con il centro della
regione spettrale della luce emessa dal sole che riesce ad arrivare al suolo attraverso
l’atmosfera. I limiti dello spettro visibile all’occhio umano non sono uguali per tutte
le persone, ma variano soggettivamente e possono raggiungere i 720 nanometri, avvi-
cinandosi agli infrarossi, e i 380 nanometri avvicinandosi agli ultravioletti.
La presenza contemporanea di tutte le lunghezze d’onda visibili, in quantità propor-
zionali a quelle della luce solare, forma la luce bianca. La luce, come tutte le onde
elettromagnetiche, interagisce con la materia.
I fenomeni che più comunemente influenzano o impediscono la trasmissione della
luce attraverso la materia sono: l’assorbimento, la diffusione (scattering), la riflessio-
ne speculare o diffusa, la refrazione e la diffrazione. La riflessione diffusa da parte
delle superfici, da sola o combinata con l’assorbimento, è il principale meccanismo
attraverso il quale gli oggetti si rivelano ai nostri occhi, mentre la diffusione da parte
dell’atmosfera è responsabile della luminosità del cielo.
La refrazione (Figura 5) è la deviazione subita da un’onda che ha luogo quando que-
sta passa da un mezzo ad un altro
nel quale la sua velocità di propaga-
zione cambia. Quando l’onda passa
in un materiale che ne aumenta la
velocità la nuova direzione forma
un angolo meno ampio mentre se
passa in un materiale che ne ridu-
ce la velocità la direzione forma un
angolo più ampio. È responsabile
delle distorsioni ottiche.
La riflessione è il fenomeno per cui
un’onda cambia di direzione a causa
di un impatto con un materiale riflet-
Figura 5. La refrazione
tente. Se il materiale ha una super-
ficie levigata e regolare si parlerà di
riflessione lineare, il cd. effetto spec-
chio. Mentre quando la superficie è
irregolare si parlerà di riflessione
diffusa responsabile dello scattering
della luce, il cd. abbagliamento.
La dispersione è la separazione di
un’onda in componenti spettrali con
diverse lunghezze d’onda, a causa
della interazione con il mezzo attra-
versato, il cd. effetto arcobaleno.
In seguito ai suddetti processi fisici,
la luce monocromatica (bianca) che
attraversa un prisma di cristallo Figura 6. Bande spettrali della radiazione visibile
1. Le radiazioni elettromagnetiche 7

trasparente (come dimostrato da Newton nel 1966) viene suddivisa in bande colo-
rimetriche (bande spettrali) nelle quali viene, classicamente suddiviso, lo spettro
della luce visibile (Figura 6).
Una cosa simile accade nell’arcobaleno: la luce che passa attraverso le piccole gocce
d’acqua, sospese nell’aria dopo una pioggia, si scompone nei sette colori dello spet-
tro (con tutte le relative gradazioni intermedie).

1.6 La spettrofotometria

La spettrofotometria (o spet-
trometria) UV-visibile si basa
sull’assorbimento di radiazioni
elettromagnetiche dell’interval-
lo del visibile e del vicino ultra-
violetto da parte di atomi o di
molecole. Questa tecnica trova
applicazione nella determinazio-
ne qualitativa e quantitativa di
numerose sostanze sia organiche
che inorganiche nel campo am-
bientale, farmaceutico e alimen-
tare. Quantificare l’interazione Figura 7. Spettrometria vetro minerale
della radiazione visibile con un
campione chimico, di varia na-
tura, permette ad esempio la
determinazione della concentra-
zione di un campione incognito
o di seguire l’andamento di una
reazione in funzione del tempo.
Le tecniche spettroscopiche sono
basate sullo scambio di energia
che si verifica fra l’energia ra-
diante e la materia.
Il principio si basa sulla registra-
zione dell’intensità della radia-
zione trasmessa da un campione Figura 8. Spettrometria lenti in carbonio CR39
(IT) in funzione dell’intensità del-
la radiazione incidente (I0) al variare della lunghezza d’onda incidente(λ).
Il rapporto tra la radiazione incidente sul campione e quella trasmessa determina la
trasmittanza (T) del campione stesso (T=IT/I0).
La trasmittanza viene visualizzata attraverso un grafico dove sull’asse delle ascisse è ri-
portata la λ e su quello delle ordinate la percentuale di energia, relativa alla λ, trasmessa.
In particolare, la spettrofotometria di assorbimento è interessata ai fenomeni di assor-
bimento delle radiazioni luminose della regione dello spettro elettromagnetico appar-
tenenti al campo del visibile (350 – 700 nm) e del vicino ultravioletto (200 – 350 nm).
Viene interessato anche l’UV lontano (10 – 200 nm), anche se in questo caso si opera
sotto vuoto o in atmosfera di gas inerte, perché l’ossigeno atmosferico copre i segnali
delle altre sostanze.
In campo ottico la spettrofotometria è fondamentale per valutare l’assorbimento
1. Le radiazioni elettromagnetiche 8

delle diverse radiazioni elettromagnetiche da parte dei diversi materiali che costitu-
iscono le lenti (Figure 7 e 8).
È interessante notare come le lenti in policarbonato bloccano (T=0) tutte le radiazio-
ni UV cosa che non accade con le lenti in vetro minerale.
2. Ottica geometrica 9

Capitolo 2 – Ottica geometrica


M. Bifani, G. Boccaccini, M. Vampo

Il ramo della fisica che studia i fenomeni luminosi nelle loro varie manifestazioni
(emissione, propagazione, assorbimento o interazione con altri mezzi) costituisce la
scienza chiamata OTTICA.
Lo studio di questa disciplina può essere eseguito da vari punti di vista ed allora
avremo:
1) l’OTTICA GEOMETRICA quando l’interesse principale è rivolto al cammino, o
traiettoria, della luce, valutandone l’aspetto geometrico senza porsi domande su
quale sia la sua natura;
2) l’OTTICA FISICA quando il fine è studiare la natura della radiazione ottica, inda-
gando sulla sua origine e sul suo sistema di propagazione;
3) l’OTTICA QUANTISTICA quando l’oggetto delle indagini sono le interazioni del-
la radiazione ottica con le entità atomiche della natura; tale studio richiede la
conoscenza della meccanica quantistica e pertanto esula dalle finalità di questo
capitolo del libro.
In queste note tratteremo l’Ottica dal punto di vista geometrico e quindi studiere-
mo principalmente quale è la traiettoria del raggio luminoso (vedi par. 2.1) quando
questo si propaga in determinati ambienti e soprattutto osserveremo le variazioni
di cammino che il raggio subisce quando attraversa uno o più elementi fisici che
definiremo “mezzi ottici”.

2.1 Le principali definizioni dell’ottica geometrica

Per creare un linguaggio tecnico-scientifico che ci permetta di esporre speditamente


gli argomenti che seguono, è necessario fornire una serie di definizioni che sono il
glossario fondamentale dell’ottica geometrica; queste sono:
- “mezzo omogeneo”: si dice omogeneo un materiale le cui proprietà chimiche sono
uguali in ogni sua parte;
- “mezzo isotropo”: si dice isotropo il materiale che presenta uguali caratteristiche
fisiche in ogni sua parte, indipendentemente dalla direzione considerata (ad esem-
pio uguale resistenza meccanica o elettrica in tutte le direzioni);
- “mezzo ottico”: si definisce mezzo ottico un materiale che sia al tempo stesso omo-
geneo ed isotropo (ed in certi casi anche trasparente);
- “raggio” (ottico o luminoso): si definisce raggio la traiettoria percorsa dalla radia-
zione ottica (luce) nei mezzi omogenei ed isotropi; tale percorso in questi mezzi
viene assunto rettilineo (è cioè una linea retta) per il rispetto del principio di
Fèrmat;
- “diottro” o discontinuità ottica: si definisce diottro una superficie ideale, di forma
qualunque, che separa due mezzi ottici diversi; quindi la presenza di un diottro
presuppone che il raggio che lo attraversa (salvo un caso particolare di incidenza)
venga deviato, perché, come si è detto prima, la traiettoria è rettilinea solo quando
il raggio si propaga nello stesso mezzo ottico.
2. Ottica geometrica 10

2.2 I fenomeni fisici connessi alla luce incidente

Quando una radiazione in-


cide su un diottro possono
verificarsi contemporane-
amente i seguenti quattro
fenomeni fisici: riflessione,
refrazione, assorbimento e dif-
fusione; i primi due sono og-
getto dell’Ottica geometrica
e ne parleremo ampiamente
in seguito, mentre l’assorbi-
mento e la diffusione vengo-
no studiati nell’Ottica Fisica;
di essi diremo solamente che Figura 1. Fenomeni fisici relativi alla luce incidente su un diottro
l’uno riguarda la trasforma-
zione di energia da una forma all’altra (esempio da energia luminosa in calore) e
l’altro riguarda la distribuzione della radiazione in modo disordinato nello spazio, a
causa della scabrezza della superficie. Quanto detto può essere schematizzato nella
figura 1, in cui si è rappresentato un raggio incidente su un diottro e la normale N al
punto di incidenza con i relativi fenomeni che ne nascono.
Lo spazio sopra il diottro costituisce il mezzo ottico, indicato con M.O.1, da cui pro-
viene il raggio incidente e che è differente dal mezzo ottico sottostante, indicato in
figura con M.O.2.

2.3 La riflessione

Il fenomeno della riflessione


si ha quando la luce, che in-
cide su un diottro, viene da
questo rinviata nel mezzo di
provenienza; al raggio rin-
viato si dà il nome di raggio
riflesso (in riferimento alla
figura 1, è il raggio colorato
di blu).
Studiare la riflessione com- Figura 2. Riflessione su un diottro
porta trascurare gli altri fe-
nomeni fisici visti in precedenza, ma che nella realtà avvengono contemporanea-
mente; così sarà anche per la refrazione e questo perché nell’Ottica geometrica ci
occupiamo dell’aspetto geometrico della questione e non di quello energetico.
Per quanto detto, il fenomeno può così essere rappresentato graficamente in figura 2,
dove l’angolo di incidenza i è l’angolo compreso tra la normale N al diottro ed il rag-
gio incidente, quello di riflessione i’ è compreso tra la normale ed il raggio riflesso.
Le leggi alla base della riflessione sono due:
1) il raggio incidente, quello riflesso e la normale alla superficie nel punto di incidenza
giacciono sullo stesso piano (legge di complanarità)
2) l’angolo di incidenza i e l’angolo di riflessione i’ sono uguali, ovvero:
i = i’
2. Ottica geometrica 11

2.4 La refrazione

La refrazione si ha quando un
raggio luminoso proveniente da
un mezzo ottico (M.O.1) incon-
tra un diottro, lo attraversa e si
propaga nel mezzo ottico suc-
cessivo (M.O.2), pertanto nel fe-
nomeno della refrazione si stu-
dia il cammino del raggio che si
propaga in quest’ultimo mezzo;
a questo raggio si dà il nome di
raggio rifratto (nella figura 1 è il
raggio colorato di verde).
Nell’ipotesi che il raggio inci- Figura 3. Refrazione attraverso un diottro
dente sia monocromatico, aven-
te cioè una sola lunghezza d’onda (più avanti, nel par. 2.5.2, chiariremo meglio questo
aspetto) la situazione si presenta come raffigurata in figura 3; dove si indica con:
i = angolo di incidenza del raggio sul diottro
i’ = angolo di refrazione del raggio che attraversa il diottro
(N.B. come nella riflessione, anche nel fenomeno della refrazione gli angoli sono
misurati a partire dalla normale).
La figura 3 non inganni il lettore: il raggio rifratto prenderà una sola delle due di-
rezioni indicate in figura, saranno le caratteristiche ottiche dei due mezzi a dirci se
sarà quella rossa o la blu.
Inoltre si indica con δ l’angolo formato tra la direzione del raggio rifratto ed il pro-
lungamento della direzione del raggio incidente: a tale angolo si dà il nome di angolo
di deviazione.
Come nel caso della riflessione, le leggi che regolano il fenomeno della refrazione
sono due:
1) il raggio incidente, la normale al punto di incidenza ed il raggio rifratto giacciono
nello stesso piano (legge di complanarità)
2) il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e quello di refrazione è costante
ovvero in formula

Quest’ultima espressione (al momento incompleta) va sotto il nome di legge di Snell-


Cartesio e per angoli i, i’ minori di 30° può essere sostituita con l’espressione appros-
simata:

Nel caso si utilizzi la precedente espressione approssimata parleremo di Ottica al


primo ordine od Ottica gaussiana; pertanto si parla di Ottica gaussiana quando con-
sideriamo angoli a di piccola ampiezza (non superiore a 30°), per i quali possiamo
identificare il valore del seno dell’angolo espresso in gradi sessagesimali con la sua
misura in radianti, cioè sen (a°) ≅ arad.
La legge di Snell-Cartesio (o la sua espressione approssimata) costituisce un assun-
to fondamentale dell’Ottica geometrica perché ci dice che: al variare dell’angolo i
anche l’angolo i’ varierà di conseguenza, in modo che il rapporto tra i loro seni (od il
loro rapporto diretto) rimanga costante; questa affermazione costituisce il significa-
2. Ottica geometrica 12

to geometrico della legge


di Snell-Cartesio o legge
fondamentale della refra-
zione.
Il vero problema è cono-
scere il valore di questa
costante, che sarà ge-
neralmente diversa per
ogni coppia di mezzi ot-
tici esistenti in natura;
per rispondere al que-
sito fissiamo il mezzo di
provenienza del raggio e
variamo l’altro mezzo ot-
tico. Come mezzo ottico Figura 4. Refrazione attraverso un diottro con raggio proveniente dal
di provenienza del raggio vuoto
viene convenzionalmente scelto il vuoto e come secondo mezzo ottico uno qualsiasi:
sperimentalmente si osserva che qualunque sia il secondo mezzo la radiazione ri-
fratta si avvicina sempre alla normale, pertanto avremo che in questa situazione i’ è
sempre minore di i e quindi, poiché vale ancora la legge di Snell-Cartesio (esatta o
approssimata), il valore della costante sarà sempre maggiore di 1.
Nella figura 4 il mezzo ottico 1 (M.O.1) coincide con il vuoto ed il mezzo ottico 2
(M.O.2) è quello in cui si propaga la radiazione rifratta, dopo aver oltrepassato il
diottro.
Riepilogando, diremo che quando il raggio proviene dal vuoto ed, attraversato un
diottro, si propaga in un mezzo ottico qualunque abbiamo che:

oppure

Il valore della costante delle espressioni precedenti, assume un significato importan-


te, data la particolare situazione ottica (raggio proveniente dal vuoto) nella quale è
stato ricavato, e viene chiamato indice di refrazione assoluto del mezzo ottico ed indi-
cato con il simbolo n, quindi:

oppure

pertanto l’indice di refrazione assoluto di un mezzo ottico è dato dal rapporto tra il
seno dell’angolo di incidenza ed il seno dell’angolo di refrazione (o dal rapporto diretto
degli angoli se essi sono minori di 30°) quando la radiazione incidente proviene dal vuoto.
Tale indice è un numero puro, sempre positivo e, salvo un unico caso che vedremo più
avanti, anche > 1.
Per chiarire meglio il significato dell’indice di refrazione assoluto di un materiale
facciamo il seguente esempio: consideriamo il vetro Crown (materiale molto utilizza-
to in ottica) il cui indice di refrazione assoluto è 1,523; questo numero indica che per
qualsiasi angolo di incidenza sulla superficie del vetro, ovviamente compreso tra 0°
2. Ottica geometrica 13

e 90°, avremo un angolo di refrazione di valore tale che il rapporto tra i seni dei due
angoli è sempre uguale a 1,523. Inoltre l’indice di refrazione assoluto di un materiale
permette di chiarire meglio il concetto di mezzo isotropo: in ottica un materiale è
isotropo quando ha l’indice di refrazione assoluto uguale in tutte le direzioni consi-
derate all’interno di esso.
Ripetendo il procedimento precedente per tutti i materiali esistenti in natura, o per
lo meno per tutti quelli che hanno importanza dal punto di vista ottico, sono stati
ricavati i loro indici di refrazione assoluti i cui risultati possono essere così riassunti:
– per i materiali liquidi nl ≅ 1,33…
(le cifre decimali dalla terza in poi variano a seconda del liquido, per l’acqua si
assume n = 1,333; tra i liquidi fa eccezione il solfuro di carbonio che ha n = 1,63 che
è tipico dell’indice dei solidi)
– per i materiali solidi ns ≅ 1,39 ÷ 1,9
(anche per tali valori esiste un’eccezione rappresentata dal diamante il quale ha
un indice di refrazione assoluto n = 2,4 ÷ 2,5).
– per il vuoto nv = 1
(valore facilmente ricavabile quando, nell’esperimento con il quale si ricava l’indi-
ce di refrazione assoluto, il secondo mezzo sia ancora il vuoto)
– per l’aria na = 1,000293 ≅ 1
(quindi per gli studi di ottica oftalmica si assume che aria e vuoto siano mezzi
assimilabili, anche se fisicamente non è così).
L’indice di refrazione assoluto di un materiale è molto importante in ottica oftalmica
perché serve a valutare lo spessore di una lente; infatti più alto è l’indice e più picco-
lo sarà lo spessore, ma di solito aumenta il peso specifico del mezzo.
Nella pratica considereremo il mezzo ottico (la lente) circondato da aria, che in otti-
ca significa dire immerso in aria, quindi parleremo di indice di refrazione assoluto.
Aver definito l’indice di refrazione assoluto di un materiale consente la risposta alla
domanda, postaci in precedenza, di quale sia la direzione presa dal raggio rifratto
dopo aver attraversato il diottro.
Considerando due materiali a contatto (separati dal diottro), essi saranno caratte-
rizzati da due indici di refrazione assoluti n1 ed n’1 rispettivamente, ovvero data la
seguente situazione:

se un raggio incide sulla superficie del diottro e poi si propaga nel mezzo 2 avremo
che:

il rapporto n’1 / n1 si chiama indice di refrazione relativo dei due mezzi ottici e si indica
con il simbolo nr, cioè:

pertanto dati due mezzi ottici qualunque, a contatto tra loro e separati da un diottro
di forma qualsiasi, la legge di Snell-Cartesio si traduce nel dire che:
il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e quello di refrazione è costante e tale co-
stante è uguale al rapporto tra l’indice di refrazione assoluto del mezzo in cui si rifrange
il raggio e l’indice di refrazione assoluto del mezzo da cui proviene il raggio, ossia più
brevemente è uguale all’indice di refrazione relativo dei due materiali.
2. Ottica geometrica 14

È opportuno far notare che anche l’indice di refrazione relativo è un numero puro,
poiché scaturisce dal rapporto di due numeri puri, quali sono gli indici di refrazione
assoluti n1 ed n’1.
Inoltre la conoscenza degli indici di refrazione dei due materiali permette anche di
stabilire il cammino geometrico del raggio rifratto nel mezzo 2; infatti se n’1 > n1 la
legge di Snell-Cartesio dice che

da cui

e pertanto, ricordando l’andamento della funzione seno di un angolo nell’intervallo


0°÷ 90°, avremo che i > i’, quindi il raggio rifratto si avvicina alla normale perché
l’angolo di refrazione è più piccolo dell’angolo di incidenza.
Mentre se n’1 < n1 avremo che

e quindi anche

pertanto, considerato sempre l’intervallo di angoli 0°÷90°, segue che i < i’ e perciò
il raggio rifratto si allontana dalla normale perché l’angolo di refrazione è maggiore
dell’angolo di incidenza.
Chiariamo quanto detto con due esempi, nei quali supporremo di operare con
angoli < 30°.
Esempio 1. Supposto n1 = 1,3 ed n’1 = 1,6 (vetro) la legge di Snell-Cartesio (approssi-
mata) dice pertanto:

pertanto i = 1,23 ⋅ i’, cioè i > i’ e quindi nell’attraversare il diottro il raggio rifratto si
avvicina alla normale, come illustrato nella figura 5.

Esempio 2. Supposto n1 = 1,6 (vetro) ed n’1 = 1,3 la legge di Snell-Cartesio (approssi-


mata) dice pertanto:

pertanto i = 0,81 ⋅ i’, cioè i < i’ e quindi nell’attraversare il diottro il raggio rifratto
si allontana dalla normale, come
illustrato nella figura 6.
Per quanto concerne l’angolo di
deviazione δ, precedentemente
definito, possiamo asserire che
il suo valore dipende dall’angolo
di incidenza e dagli indici di re-
frazione assoluti dei due mezzi;
è definita “salto d’indice” la dif-
ferenza tra gli indici di refrazio-
ne assoluti dei due mezzi ottici,
pertanto si può affermare che, a
parità di angolo di incidenza i,
l’angolo di deviazione δ aumenta Figura 5. Refrazione attraverso un diottro con passaggio
all’aumentare del salto d’indice e del raggio da un indice di refrazione minore a maggiore
2. Ottica geometrica 15

viceversa diminuisce al diminuire


del salto d’indice.
Non dimostreremo analiticamen-
te quanto detto sopra, ma per
giustificare ciò basti pensare
che più sono diversi otticamente
i materiali (e ciò si traduce con
l’espressione: “tanto più grande
è la differenza tra i loro indici”)
e maggiormente il raggio rifratto
si allontanerà dalla direzione del
raggio incidente (indicata con il
prolungamento tratteggiato).
Il raggio rifratto proseguirebbe Figura 6. Refrazione attraverso un diottro con passaggio
indisturbato se n1 fosse uguale ad del raggio da un indice di refrazione maggiore a minore
n’1; in questo caso infatti non ci sarebbe il diottro ma un unico mezzo omogeneo.

2.5 La radiazione policromatica

Lo studio dell’Ottica, secondo l’approccio fisico, ci dice che i raggi luminosi sono
in realtà delle radiazioni elettromagnetiche caratterizzate da una certa gamma di
lunghezze d’onda.
Riguardo alla lunghezza d’onda (λ), le radiazioni elettromagnetiche vengono classifi-
cate nel modo indicato in figura 7.
Come è evidenziato nello schema di figura 7, la radiazione compresa tra le lunghezze
d’onda dell’UV-A, VISIBILE ed INFRAROSSO (I.R.) VICINO costituisce la radiazio-
ne più importante per l’Ottica
geometrica perché è quella che
viene maggiormente impiegata
nelle applicazioni strumentali,
compreso l’occhio umano, ed è
detta radiazione ottica.
All’interno di questo ampio
rango di lunghezze d’onda si
trova la radiazione visibile che
è di fondamentale importanza
per il meccanismo della visio-
ne umana, perché è verso tali
frequenze che il nostro occhio è
sensibile; vediamola quindi più
in dettaglio.

2.5.1 Lo spettro elettromagneti-


co della luce visibile
Vediamo in dettaglio il ran-
go delle lunghezze d’onda nel
campo del visibile. Questo in-
tervallo ha una straordinaria
importanza nel processo di vi- Figura 7. Spettro della radiazione elettromagnetica
2. Ottica geometrica 16

sione dell’occhio
umano, perché ad
esso è associata
la percezione cro-
matica; infatti ad
ogni lunghezza
d’onda l’occhio
associa un deter-
minato colore.
(figura 8, dove λ è
riportata in nano-
metri nm).
Se usiamo come
unità di misura il
µm (micron) pos-
siamo asserire
che lo spettro del
visibile è compre- Figura 8. Spettro elettromagnetico della luce visibile e lunghezze d’onda di
so tra le lunghez- Fraunhofer
ze d’onda che
vanno da 0,4 µm a 0,8 µm circa. Nelle ultime due colonne di destra di questo schema
si è anche riportata la sensibilità relativa dell’occhio umano ai colori, o meglio alle
lunghezze d’onda che l’occhio traduce in quei colori.

2.5.2 La refrazione policromatica


Una radiazione elettromagnetica originata da onde che hanno tutte la stessa lun-
ghezza d’onda è detta monocromatica e viene percepita dall’occhio di un solo colore;
in natura difficilmente si ha radiazione di questo tipo, se non quando si consideri la
radiazione emessa da particolari strumenti fisici quali il laser, il monocromatore ecc.
Molto più frequente è invece il caso che la radiazione emessa dai corpi che stia-
mo esaminando sia policromatica, ossia un tipo di radiazione che è caratterizzato da
onde elettromagnetiche aventi un numero molteplice di lunghezze d’onda. Cosa suc-
cede, nel caso in cui vogliamo occuparci del solo fenomeno della refrazione, quando
una radiazione policromatica incontra la superficie di un diottro? Avviene che dopo
aver attraversato il diottro il raggio policromatico incidente viene scomposto in tanti
raggi rifratti monocromatici, tante quante sono le lunghezze d’onda del raggio incidente;
l’insieme dei raggi monocromatici rifratti è chiamato spettro (elettromagnetico) della
radiazione.
Possiamo cioè dire che per ogni lunghezza d’onda del raggio che incide, corrisponde
un particolare raggio rifratto monocromatico che si origina nella refrazione.
Nel caso di refrazione di radiazione visibile (luce bianca), contrassegnata da un nu-
mero elevato di lunghezze d’onda, avremo una infinità di raggi rifratti, cosa che ren-
de difficoltoso lo studio di tale fenomeno ed allora, per razionalizzare lo studio, si
prendono in considerazione solo tre raggi rifratti, quelli delle bande di emissione di
Fraunhofer, esattamente quelli relativi alle lunghezze d’onda:
– λC = 656,3 nm (riga rossa dell’idrogeno, C), che identifica il colore rosso;
– λD = 589,3 nm (riga gialla dell’elio, D), che identifica il colore giallo;
– λF = 486,1 nm (riga blu dell’idrogeno, F), che identifica il colore blu.
Riguardando lo schema di figura 8, si potrà notare che la prima e l’ultima delle tre
lunghezze d’onda scelte non si trovano in realtà alle estremità dell’intervallo del visi-
2. Ottica geometrica 17

bile, mentre la seconda


non è esattamente al
centro di detto interval-
lo; si potrebbe quindi
dubitare sulla opportu-
nità di tale scelta, ma in
realtà la scelta è corret-
ta poiché queste sono
le lunghezze d’onda (o
per meglio dire le fre-
quenze) verso le quali
l’occhio umano è più
sensibile.
Rappresentando con
uno schema la refrazio-
ne della luce visibile si Figura 9. Dispersione e rifrangenza di un mezzo ottico
ha sperimentalmente il
comportamento di figura 9.
Nella figura 9 si evidenzia che nella refrazione policromatica l’angolo di refrazione
relativo alle tre lunghezze d’onda fondamentali rispetta la seguente condizione ge-
ometrica:
i’F < i’D < i’C
cioè il raggio blu è quello che si avvicina di più alla normale subendo la maggior
deviazione, mentre quello rosso si avvicina di meno perché subisce la minor deviazio-
ne; ovviamente il raggio giallo subirà una deviazione intermedia tra le due.
Inoltre nella figura abbiamo sottinteso che il raggio incidente provenga dal vuoto
perché, se fosse diversamente, al momento dell’emissione della luce si avrebbe subi-
to il fenomeno di refrazione policromatica e sul diottro perverrebbero già tanti raggi
monocromatici relativi ad ogni lunghezza d’onda e quindi il fenomeno perderebbe di
interesse perché significherebbe studiare la refrazione di tanti raggi monocromatici,
seppure di colore diverso.
Infine con il termine ravis si intende il sincretismo della frase: radiazione vista; quin-
di con la scrittura “ravis rossa” si intende una radiazione che l’occhio umano vede
di colore rosso.
Se poi, per fissare le idee, consideriamo sempre in figura 9, angoli minori di 30° pos-
siamo scrivere, ricordando la definizione di indice di refrazione assoluto (par. 2.4):

Pertanto, al riguardo di una radiazione policromatica, un materiale sarà sempre con-


traddistinto da tre indici di refrazione assoluti: uno per la ravis blu (n’F), uno per la
ravis gialla (n’D) ed uno per la ravis rossa (n’C).
Se l’indice fornito non è specificatamente attribuito ad una lunghezza d’onda, si
assume convenzionalmente che si tratti di n’D.
Per le relazioni esistenti tra gli angoli i’F, i’D ed i’C viste in precedenza si può dedurre
che, nel campo della radiazione visibile: n’F > n’D > n’C ciò è valido per tutti i mezzi
ottici dielettrici; quindi si può ricavare che ogni mezzo ottico avrà un indice di refra-
zione assoluto per il blu maggiore del giallo, a sua volta maggiore del rosso.
Vogliamo adesso ricavare alcune relazioni geometriche che interessano gli indici
di refrazione del materiale e a tal proposito consideriamo la differenza tra l’indice
2. Ottica geometrica 18

maggiore e minore, cioè n’F – n’C detta dispersione del mezzo ottico ed il suo significato
geometrico può essere così definito:
ricordando che
ed

possiamo esprimere la dispersione come

da cui, potendo approssimare che

avremo per la dispersione

Da questa espressione si vede come la dispersione sia direttamente proporzionale


all’angolo (i’C - i’F), che rappresenta l’angolo compreso tra i raggi rifratti della ravis
rossa e della ravis blu; essendo questi i raggi estremi dello spettro elettromagnetico
di un materiale (relativamente al visibile) la dispersione ci informa, anche se per
via indiretta, sull’ampiezza del cono dei raggi rifratti e quindi ci illustra di quanto si
disperdano le componenti del raggio incidente dopo la refrazione.
Per quanto riguarda l’ottica, strumentale od oftalmica, minore è la dispersione dei
mezzi utilizzati (ossia minore è la differenza tra l’indice massimo e minimo), tanto
migliore sarà il loro comportamento perché significa che il raggio policromatico ri-
fratto rimane più compatto dopo la refrazione (bassa dispersione) e quindi più nitida
sarà l’immagine prodotta da tali mezzi.
Consideriamo adesso la differenza tra l’indice intermedio e quello dell’aria n’D - 1
detta rifrangenza del mezzo ottico; il suo significato geometrico può essere così stabi-
lito (sempre in riferimento alla figura 9): ricordando che

sostituendo nell’espressione della rifrangenza abbiamo

la quale espressione ci informa che la rifrangenza del materiale è direttamente pro-


porzionale all’angolo (i - i’D); questo angolo, come si vede dalla figura 9, è l’angolo
formato tra la direzione del raggio incidente, prolungata idealmente nel secondo
mezzo, e la direzione del raggio rifratto relativo alla ravis gialla che, come si è detto,
viene assunto come il raggio rappresentativo di tutto lo spettro, trovandosi compreso
tra quello blu e rosso. La rifrangenza, dunque, ci fornisce in via indiretta la deviazio-
ne che lo spettro elettromagnetico ha subito, rispetto alla sua direzione di incidenza,
dopo la refrazione.
Nei mezzi ottici è importante che alto sia il valore della rifrangenza perché ciò si-
gnifica una forte capacità di deviare il percorso geometrico del raggio incidente e
2. Ottica geometrica 19

questa caratteristica si ripercuote positivamente in una riduzione dello spessore del


mezzo ottico, a parità di deviazione da imprimere (alta rifrangenza).

2.5.3 Il numero di Abbe di un mezzo ottico


Riassumendo quanto detto nel par. 2.5.2 si può dire che un mezzo ottico ideale do-
vrebbe possedere i seguenti requisiti:
a) bassa dispersione, per mantenere compatto lo spettro dei raggi rifratti e quindi
creare minori problemi nella visione all’occhio umano
b) alta rifrangenza, per imprimere un forte cambio di direzione alla direzione del
raggio con tutti i vantaggi che ne derivano in tema di riduzione dello spessore del
mezzo ottico (per esempio quando si parla di lente).
Esiste un parametro che quantifica con un numero i concetti sopra esposti; il suo
valore è dato dal rapporto tra la rifrangenza e la dispersione del materiale e viene
chiamato numero di Abbe o costringenza o bontà ottica oppure ancora coefficiente di
dispersione media di un mezzo ottico e viene indicato con la lettera ν (ni o nu), in
formula abbiamo:

Come si vede ν aumenta se sono rispettate le condizioni a) e b) precedenti sul mezzo


ottico ideale, pertanto il comportamento ottico di un mezzo sarà migliore quanto più
grande sarà il suo numero di Abbe.
A scopo di riferimento possiamo dire che in ottica le sostanze che hanno numero di
Abbe < 30 sono sostanze ad alta dispersione e quindi di bassa bontà ottica; mentre le
sostanze con numero di Abbe > 60 vengono considerate a bassa dispersione e quindi
di elevata bontà ottica; bisogna anche aggiungere che la maggior parte dei materiali
impiegati nell’ottica ha valori di ν compresi nell’intervallo sopra indicato.
Riportiamo per completezza i numeri di Abbe di alcuni materiali utilizzati in ottica
oftalmica (ricordando che l’indice n’ riportato è in realtà n’D):
CR 39 ν = 58; n’ = 1,499
Policarbonato ν = 30; n’ = 1,589 materie organiche
Crown ν = 59; n’ = 1,523
Flint ν = 38; n’ = 1,7
Crown al Bario ν = 42; n’ = 1,6 vetri
Titanio ν = 42; n’ = 1,7
Infine concludiamo il paragrafo riportando un semplice esempio applicativo, relativo
al numero di Abbe.
Esempio:
calcolare l’indice n’D di un mezzo ottico avente n’F = 1,529; n’C = 1,520 e ν = 58,1.
Dall’espressione del numero di Abbe

si ha (n’D – 1) = ν · (n’F – n’C) e quindi n’D = ν · (n’F – n’C) + 1


che sostituendo dà
n’D = 58,1 · (1,529 – 1,520) + 1
da cui n’D = 1,523.
Si noti che i risultati trovati rispettano la condizione n’F > n’D > n’C.
2. Ottica geometrica 20

2.6 Il prisma

È definito prisma un mezzo ottico delimitato da


due superfici piane ma non parallele tra loro (que-
sta è la definizione geometrica).
Un volume che lo rappresenta è quello di figura
10.
Il prisma è individuato dal diedro AA’BB’SS’;
le facce interessate dall’attraversamento della
radiazione (raggio con freccia) sono le superfi-
ci laterali ABS’S e A’B’S’S (dette facce attive del
prisma) e l’angolo che esse formano è indicato
con α; il rettangolo AA’B’B costituisce la base e la Figura 10. Geometria del prisma
retta SS’ lo spigolo del prisma.
E’ interessante notare che se la radiazione at-
traversasse le facce attive AA’S e BB’S’ il diedro
considerato non si comporterebbe più come un
prisma ma come un altro mezzo ottico, a facce
piane e parallele, detto lamina.
Sezionando il prisma con un piano (π) perpen-
dicolare alle facce attive la sezione ottenuta è
il triangolo CC’V, tratteggiato in figura, che ha
forma triangolare uguale alle superfici laterali
non attive; è questa la sezione che prenderemo
in considerazione nello studio del prisma perché
faremo l’ipotesi che la radiazione incida su una Figura 11. Sezione e parametri del
faccia attiva (fuoriuscendo dall’altra) come se prisma
giacesse sul piano π.

2.6.1 I parametri ottici e geometrici del prisma


Prendendo in considerazione la sezione CC’V della figura 10 otteniamo la sezione
del prisma in figura 11, dove in essa abbiamo:
n1 = indice di refrazione del mezzo che precede il prisma
n’1 = indice di refrazione del mezzo che costituisce il prisma
n’2 = indice di refrazione del mezzo che segue il prisma
questi tre indici di refrazione costituiscono i parametri ottici;
α = angolo di rifrangenza del prisma
questo unico angolo costituisce il parametro geometrico.
Nella generalità della situazione quindi il comportamento ottico del prisma è indi-
viduato da quattro parametri complessivi; essi possono ridursi a tre se il mezzo che
precede è uguale a quello che segue il prisma (cioè se n1 = n’2) ed allora il prisma si dirà
immerso nello stesso mezzo.
Si distinguono due tipologie di prismi:
1) prisma fisico o geometrico si ha quando l’angolo di rifrangenza α è maggiore di 15°
(α >15°)
2) prisma sottile od oftalmico: quando l’angolo di rifrangenza α è minore od uguale a
15° (α ≤ 15°).

2.6.2 Il comportamento ottico del prisma


La modificazione della traiettoria di un raggio luminoso che attraversi un prisma
dipende ovviamente dalle relazioni che intercorrono tra i parametri ottici n1, n’1
2. Ottica geometrica 21

ed n’2 (condizioni ottiche); nel nostro studio


prenderemo in considerazione il caso ottico
più comune nella realtà, ossia: n’1 > n1, n’2
cioè quando il prisma ha indice di refrazione
assoluto maggiore di quello dei mezzi che lo
circondano.
In questa ipotesi la traiettoria di un raggio
monocromatico che attraversa il prisma è rap-
presentata in figura 12 (supponiamo per ora
che n1 ≠ n’2).
Il raggio incidente attraversando la prima su- Figura 12. Angolo di deviazione del prisma
perficie del prisma, per le conseguenze della
legge di Snell-Cartesio, dopo la refrazione si avvicina alla normale (n’1 > n1) e
arrivato sulla seconda superficie fuoriesce dal prisma allontanandosi dalla nor-
male in quanto n’2 < n’1; pertanto osservando la direzione del raggio incidente
(con prolungamento tratteggiato nel disegno) e quella del prolungamento del
raggio rifratto che si incontrano in K, possiamo dire che in tali condizioni ottiche
(le ripetiamo n’1 > n1, n’2), l’effetto del prisma è quello di far ruotare la radiazione
emergente, rispetto a quella entrante, verso la base del prisma.
L’angolo che rappresenta tale rotazione viene detto angolo di deviazione del raggio
(prodotta dal prisma). In alcuni casi viene chiamato, più semplicemente, angolo di
deviazione del prisma. Esso è indicato con δ ed è individuato dal prolungamento della
direzione del raggio incidente e da quello del raggio rifratto.
Per tale ragione un prisma viene anche definito un deviatore di vergenza (dove per
vergenza in questa sede si intende qualcosa riconducibile all’inclinazione del raggio).
Quando il prisma è immerso nello stesso mezzo ottico, nella condizione ottica
n’1 > n1 = n’2 e gli angoli sono ≤ 30° l’angolo di deviazione δ si calcola con la
relazione

(formula della deviazione del prisma quando n1 = n’2 ≠ 1)

Nel caso particolare in cui il prisma è immerso in aria (n1 = n’2 = 1) la formula divie-
ne:
(formula della deviazione del prisma quando n1 = n’2 = 1)
Si ricorda, ancora una volta, che con n’1 si fa riferimento all’indice di refrazione del
prisma.
Sottolineiamo che la validità delle precedenti relazioni è dovuta a due ipotesi sem-
plificatrici: la prima presuppone angoli minori di 30°, la seconda presuppone che il
prisma sia immerso nello stesso mezzo ottico (aria od altro mezzo).

2.6.3 La formazione dell’immagine con il prisma


Come si è detto l’effetto del prisma, quando il suo indice di refrazione ha valore
maggiore di quello dei mezzi che lo circondano, è quello di far ruotare la radiazione
uscente verso la propria base; vogliamo pertanto determinare il meccanismo grafico
con il quale si formerà l’immagine di un oggetto osservato attraverso di esso, rife-
rendoci alla figura 13 e ricordando che a questo scopo è necessario il tracciamento
di almeno due raggi.
In figura 13 consideriamo un prisma generico, cioè con α > 15°; i due raggi che par-
tono dall’oggetto A attraversando il prisma subiscono una rotazione verso la base di
questo; pertanto giungono sull’osservatore O con una vergenza tale che all’osservato-
re pare provengano da un punto A’, detto immagine di A data dal prisma, individuato
2. Ottica geometrica 22

dai prolungamenti dei raggi


uscenti dal prisma e spostato
verso il vertice V.
Riepilogando: il comporta-
mento di un prisma per il
quale vale n’1 > n1, n’2
determina una rotazione ver-
so il vertice dell’immagine (in
conseguenza della rotazione
verso la base dei raggi uscen-
ti) ed un avvicinamento verso Figura 13. Formazione dell’immagine data da un prisma generico
il prisma dell’immagine stessa.
Questo avvicinamento potrebbe determinare un effetto di ingrandimento dell’imma-
gine che, in realtà, viene trascurato poiché si utilizzano prismi sottili (α ≤ 15°).
Da notare infine che, parlando rigorosamente, le deviazioni subite dai raggi incidenti
tracciati sono diverse tra loro (e difatti nel disegno le abbiamo indicate distinta-
mente con δ1 e δ2) ma in pratica si ritengono uguali quando gli angoli in gioco sono
comunque minori di 30°.
Consideriamo adesso un prisma sottile od oftalmico, cioè con α ≤ 15° (vedi figura 14);
anche in questo caso l’immagine sarà spostata verso il vertice ma, data la “sottigliez-
za” del prisma, dovuta al suo piccolo angolo di rifrangenza, possiamo approssimare
che la deviazione complessiva avvenga proprio sull’asse. Proprio in virtù di questa
approssimazione si può affermare che l’immagine venga a formarsi sulla verticale del
punto A, trascurando l’effetto di avvicinamento (e di ingrandimento) rilevato in pre-
cedenza, come rappresentato in figura 14 (con α maggiorato per esigenze grafiche).
Il vantaggio dell’uso dei prismi oftalmici consiste quindi nell’affermare che l’im-
magine si trova alla stessa distanza dell’oggetto dal prisma ed entrambe le distanze
vengono riferite al suo asse.

2.6.4. Misura della deviazione: la diottria prismatica


Lo studio del prisma permette di definire un particolare sistema di misura degli
angoli: il sistema della diottria prismatica.
Ci sono due distinte maniere per definire tale nuova unità di misura di un angolo,
vediamole entrambe.
Il primo modo, che definiremo geometrico, fa riferimento a quanto stabilito nel si-
stema analitico o circolare o dell’angolo radiante, in cui la misura di un angolo in
radianti, è data dal rapporto tra l’arco di circonferenza l ed il raggio r espressi nella
stessa unità di misura. Nel caso della diottria prismatica avremo invece la situazione

Figura 14. Formazione dell’immagine data da un prisma sottile


2. Ottica geometrica 23

di figura 15, nella quale l’angolo ϕ avrà ampiezza di 1 diottria prismatica (simbolo Δ)
quando alla lunghezza del raggio di 1 m (un metro) corrisponde un arco di circonfe-
renza (l) di lunghezza 1 cm (un centimetro); in formula

Ricordando che la misura di un angolo espressa in milliradianti (mrad) è definita dal


rapporto tra la lunghezza dell’arco espressa in mm (millimetri) e quella del raggio in
m (metri), ossia in formula

per la definizione della diottria prismatica possiamo allora scrivere

Questa espressione rappresenta l’equivalenza fondamentale tra i due sistemi di mi-


sura.
Il secondo modo, che definiremo ottico, chiama invece in causa direttamente il com-
portamento deviatorio del prisma nei confronti della radiazione che lo attraversa,
consideriamo infatti la figura 16.
Nella figura 16 si considera una sorgente monocromatica A che emette radiazione
con traiettoria inizialmente orizzontale fino ad incontrare nel punto A1 uno schermo
(S) verticale; sul percorso del raggio viene poi posto un prisma sottile che imprime
alla radiazione una deviazione di un angolo δ verso la propria base; se il prisma,
come si suppone, è immerso in aria il raggio deviato in questo caso incontrerà lo
schermo nel punto A2 e l’angolo di deviazione δ avrà ampiezza di 1 diottria prismati-
ca (Δ) se la distanza tra i punti A1 ed A2 misura 1 cm (un centimetro) quando il prisma
sottile è posto ad 1 m (un metro) dallo schermo, che tradotto in formula diviene

Alla luce di queste due definizioni possiamo concludere che, avendo un prisma con
angolo α di nota ampiezza espressa in gradi, possiamo calcolarne la deviazione in
diottrie prismatiche trasformando l’angolo di deviazione δ prima in milliradianti
(moltiplicandolo per 17,45) e poi dividendo per 10; oppure, senza passare attraverso
i milliradianti, moltiplicando direttamente per 1,745.
Vediamo alcuni esempi di quanto sopra affermato:
a) dato un prisma con n’1 =1,5 ed α = 5° ed immerso in aria
avremo δ = 2,5° per cui δ = 2,5° ⋅ 1,745 ≅ 4,362 Δ
b) dato un prisma con n’1 =1,6 ed α = 5° ed immerso in aria
avremo δ = 3° per cui δ = 3° ⋅ 1,745 ≅ 5,235 Δ

Figura 15. Definizione analitica della Figura 16. Definizione optometrica della diottria prismatica
diottria prismatica
2. Ottica geometrica 24

Proseguendo con gli esempi noteremmo che, per valori dell’indice di refrazione com-
presi tra 1,5 ed 1,6, l’angolo di deviazione δ, espresso in diottrie prismatiche, ha
ampiezza circa uguale all’angolo di rifrangenza α espresso in gradi; con valori dell’in-
dice di refrazione al di fuori di questo intervallo (n’1 > 1,6 e n’1 < 1,5) tale singolarità
non vale più.

2.7 Il diottro sferico

Se due mezzi ottici differenti sono separati da una superficie avente forma di calotta
sferica allora tale superficie prende il nome di diottro sferico.
Si ricorda che la calotta sferica è una superficie ottenuta sezionando una sfera con
un piano avente inclinazione qualunque, anche non passante dal centro della sfera.
Si fa notare, inoltre, come il diottro sia una superficie ideale, in quanto tale superfi-

Figura 17. Geometria del diottro sferico

Figura 18. Diottro convesso e parametri associati

Figura 19. Diottro concavo e parametri associati


2. Ottica geometrica 25

cie può essere pensata come appartenente ad ognuno dei mezzi ottici in questione;
in base a tali considerazioni il diottro sferico può essere rappresentato come in fi-
gura 17, in cui si evidenzia l’asse ottico del diottro sferico come l’asse di simmetria
della calotta sferica, passante per il centro C e che incontra la calotta nel punto V,
detto vertice; ogni altro asse passante per C ma che non è asse di simmetria è detto
asse secondario del diottro.

2.7.1 I parametri ottici e geometrici del diottro


Come per il prisma, anche per il diottro sferico si individuano i parametri che carat-
terizzano il suo comportamento ottico-geometrico; facendo riferimento alla figura
17, chiameremo parametri ottici gli indici di refrazione assoluti n1 ed n’1 dei due mezzi
separati dal diottro e parametro geometrico il raggio di curvatura r del diottro sferico;
pertanto il comportamento del diottro è caratterizzato da tre parametri complessivi.

2.7.2 Il diottro convesso o concavo


Sezionando una calotta sferica con un qualsiasi piano passante per il centro della
sfera otteniamo una sezione che ha la forma di un arco di circonferenza; in base alla
posizione del centro di curvatura C, possiamo enunciare la definizione di diottro sfe-
rico convesso o concavo.
Dalle sezioni di figura 18, un diottro sferico si definisce convesso quando il suo cen-
tro di curvatura C si trova nel mezzo ottico con indice di refrazione assoluto maggiore,
quindi le due sezioni di figura 18 individuano due diottri sferici convessi.
Osservando le sezioni di figura 19, il diottro sferico si definisce concavo quando il suo
centro di curvatura C si trova nel mezzo ottico con indice di refrazione assoluto minore,
quindi le due sezioni di figura 19 individuano due diottri sferici concavi.

2.7.3 Il diottro sferico convergente o divergente


Consideriamo un oggetto puntiforme posto sull’asse ottico del diottro; all’allonta-
narsi del punto dal vertice V i raggi luminosi, partenti dal punto e che vanno verso il
diottro, formano con l’asse angoli sempre più piccoli; tutto quanto è evidenziato dal-
la figura 20, dove abbiamo δ < ϕ < β < α relativamente agli angoli nei punti D, C, B, A.
La figura 20 mostra in maniera chiara che l’angolo δ, formato dal punto più lontano
D, è più piccolo di ϕ, angolo relativo al punto C più vicino e così via, fino ad arrivare
al punto A, a cui si riferisce l’angolo α più grande, in quanto tale punto è il più vicino
al vertice; possiamo pertanto concludere che quando si ha un oggetto su un punto
dell’asse molto lontano dal diottro, in ottica questa situazione viene indicata con la
frase “oggetto all’infinito”, i raggi che partono da tale punto formano con l’asse del
diottro angoli tendenti a zero, ovvero la radiazione proveniente da un punto all’infini-
to costituisce un fascio di raggi paralleli tra loro e, nel caso in cui il punto sia sull’asse
ottico, tale fascio è parallelo all’asse ot-
tico stesso.
Dopo questa importante considerazio-
ne, possiamo procedere con la defini-
zione di convergenza e di divergenza di
un diottro.
Nella figura 21 viene rappresentato il
percorso geometrico di un raggio prove-
niente da un oggetto all’infinito e inci-
dente su un diottro convesso. Esso for- Figura 20. Inclinazione dei raggi incidenti per punti
ma un angolo i con la normale al diottro. che si allontanano dal vertice del diottro
2. Ottica geometrica 26

Figura 21. Diottro convesso con centro di curvatura Figura 22. Diottro convesso con centro di curvatura
C a destra del vertice C a sinistra del vertice

Ricordiamo al lettore che, per una nota proprietà della geometria del cerchio, il
raggio condotto in un punto della circonferenza costituisce la normale alla circonfe-
renza in quel punto.
Il percorso del raggio rifratto è determinato dalla legge di Snell-Cartesio

e se il rapporto n’1 / n1 > 1 (in quanto n’1 > n1 diottro convesso) segue che pure
sen i / sen i’ > 1 e quindi i > i’.
In questo caso il raggio rifratto, avvicinandosi alla normale, descrive un angolo di
refrazione i’ più piccolo di quello di incidenza e pertanto subisce una rotazione verso
l’asse ottico, tale comportamento di rotazione verso l’asse ottico viene detto conver-
genza del raggio rifratto rispetto a quello incidente.
Vediamo ora la situazione, sempre al riguardo di un diottro sferico convesso, rappre-
sentata in figura 22; il percorso del raggio rifratto segue la legge di Snell-Cartesio

e se il rapporto n’1 / n1 < 1 (in quanto n’1 < n1 diottro convesso) segue che
sen i / sen i’ < 1 e quindi i < i’.
In questo caso il raggio rifratto, allontanandosi dalla normale, descrive un
angolo di refrazione i’ più grande di quello di incidenza e pertanto subisce anche
questa volta una rotazione verso l’asse ottico, tale comportamento di rotazione ver-
so l’asse ottico viene detto ancora convergenza del raggio rifratto rispetto a quello
incidente.
Dalle figure 21 e 22 si deduce che il raggio rifratto, esaminato nei due casi, subisce
una rotazione verso l’asse ottico del diottro e pertanto converge verso di esso; si con-
clude quindi che il diottro convesso è un diottro convergente.
Consideriamo adesso, nella figura 23, il percorso geometrico di un raggio provenien-
te da un oggetto all’infinito, incidente su un diottro concavo; il percorso del raggio
rifratto è determinato dalla legge di Snell-Cartesio

se il rapporto n’1 / n1 < 1 (in quanto n’1 < n1 diottro concavo) segue che anche
sen i / sen i’ < 1 e quindi i < i’.
In questo caso il raggio rifratto, allontanandosi dalla normale, descrive un angolo di
refrazione i’ più grande di quello di incidenza e pertanto subisce una rotazione allon-
2. Ottica geometrica 27

Figura 23. Diottro concavo con centro di curvatura Figura 24. Diottro concavo con centro di curvatura
C a destra del vertice C a sinistra del vertice

tanandosi dall’asse ottico, tale comportamento di rotazione opposta alla posizione


dell’asse ottico viene detto divergenza del raggio rifratto rispetto a quello incidente.
Se la situazione, a riguardo sempre di un diottro sferico concavo, fosse quella di
figura 24, il percorso del raggio rifratto è comunque determinato dalla legge di Snell-
Cartesio

e se il rapporto n’1 / n1 > 1 (in quanto n’1 > n1 diottro concavo) segue che anche
sen i / sen i’ > 1 e quindi i > i’
In questo caso il raggio rifratto, avvicinandosi alla normale, descrive un angolo di
refrazione i’ più piccolo di quello di incidenza e pertanto subisce una rotazione al-
lontanandosi dall’asse ottico; tale comportamento di rotazione, ancora opposta alla
posizione dell’asse ottico, viene detto divergenza del raggio rifratto rispetto a quello
incidente.
Considerando il comportamento del raggio rifratto esaminato nelle figure 23 e 24,
possiamo affermare che la radiazione che attraversa un diottro sferico concavo subi-
sce una rotazione che la allontana dall’asse ottico del diottro e quindi diverge da esso,
si conclude quindi che il diottro concavo è un diottro divergente.

2.7.4 I punti cardinali di un diottro sferico


Nel seguito di questa trattazione adotteremo la seguente convenzione: nelle figure sup-
porremo che la radiazione si propaghi da sinistra verso destra. Lo spazio che contiene i rag-
gi incidenti che vanno fino alla superficie del diottro viene detto spazio “oggetto”, si posizio-
na a sinistra del diottro ed è caratterizzato dall’indice di refrazione assoluto n1. Lo spazio
che contiene i raggi rifratti dalla superficie del diottro viene chiamato spazio “immagine”,
si posiziona a destra del diottro ed è caratterizzato dall’indice di refrazione assoluto n’1.
Enunciata questa doverosa convenzione (che come vedremo avrà ruolo determinan-
te nello studio dei sistemi rifrangenti) passiamo all’illustrazione di due punti fonda-
mentali (o cardinali), facendo presente che la loro individuazione nasce dall’assun-
zione della seguente approssimazione:
– i raggi sono parassiali, ossia prenderemo in considerazione il cammino geometrico
di quei raggi che rimangono molto vicini all’asse ottico; è evidente che per tali
raggi l’angolo di incidenza sul diottro sarà molto piccolo.
L’approssimazione di cui sopra è di fondamentale importanza per l’ottica geometrica
e viene chiamata con il nome di condizione di Gauss.
Consideriamo un diottro convesso ed un raggio proveniente dall’infinito, che incide
su di esso nella condizione gaussiana (figura 25).
2. Ottica geometrica 28

Figura 25. Fuoco immagine di un diottro convesso Figura 26. Fuoco immagine di un diottro concavo

Le considerazioni di par. 2.7.3 sul diottro convesso ci permettono di ricavare che il


raggio rifratto converge verso l’asse ottico e lo incontra in un punto F’, detto fuoco
immagine del diottro, che rappresenta il primo punto cardinale cercato. Il fuoco im-
magine è stato individuato dalla intersezione del raggio rifratto con l’asse ottico e
pertanto viene detto reale.
La distanza tra il fuoco F’ ed il vertice del diottro V, viene detta distanza focale im-
magine (F’V = f’).
Se in questa situazione consideriamo come secondo raggio quello avente la direzione
coincidente con l’asse ottico, che non subisce deviazione attraversando il diottro in
quanto i=0 e quindi anche i’=0, possiamo interpretare il fuoco immagine F’ come
l’immagine A’ del punto A, posto all’infinito.
Si possono inoltre confermare le stesse conclusioni se avessimo disegnato il diottro
convesso avente centro in n1 (con n1 > n’1).
Consideriamo, in figura 26, un diottro concavo ed un raggio monocromatico, prove-
niente dall’infinito, che incide su di esso nelle condizioni gaussiane.
Le motivazioni esposte nel par. 2.7.3 a riguardo del diottro concavo ci permettono
di ricavare che il raggio rifratto diverge dall’asse ottico e il suo prolungamento lo
incontra in un punto F’, detto fuoco immagine del diottro, che rappresenta di nuovo il
punto cardinale cercato. Il fuoco immagine è stato individuato dalla intersezione del
prolungamento del raggio rifratto con l’asse ottico e pertanto viene detto virtuale.
La distanza tra il fuoco F’ ed il vertice del diottro V è detta ancora distanza focale
immagine (F’V = f’).
Se in questa situazione consideriamo come secondo raggio quello avente la direzione
coincidente con l’asse ottico, che non subisce deviazione attraversando il diottro in
quanto i=0 e quindi anche i’=0, possiamo interpretare il fuoco immagine F’ come
l’immagine A’ del punto A, posto all’infinito.
Si possono inoltre confermare le stesse conclusioni se avessimo disegnato il diottro con-
cavo avente centro in n1 (con n1
< n’1).
Consideriamo nella figura 27
un diottro convesso ed imma-
giniamo di condurre ad esso
dei raggi luminosi, nelle ipo-
tesi gaussiane, che partono da
un oggetto puntiforme sull’as-
se ottico che via via si avvicina
al vertice del diottro (punti A,
B, D ecc.): Figura 27. Fuoco oggetto di un diottro convesso
2. Ottica geometrica 29

Nella figura 27 si è voluto evidenziare che, all’avvicinarsi del punto al vertice del
diottro, aumenta l’angolo di incidenza del raggio e quindi, per il rispetto della legge
di Snell-Cartesio, aumenta anche quello di refrazione. Per questo motivo il raggio
rifratto forma con l’asse ottico un angolo sempre più piccolo dunque, nell’avvicinarsi
al diottro, ci sarà un punto sul suo asse dal quale partirà un raggio incidente il cui
raggio rifratto formerà con l’asse un angolo tendente a zero, ossia la sua direzione
sarà parallela a quella dell’asse ottico. A tale punto si dà il nome di fuoco oggetto F del
diottro sferico e viene detto reale, come nel caso in esame, quando la sua posizione è
individuata dall’intersezione del raggio incidente con l’asse.
Il fuoco oggetto rappresenta l’altro punto cardinale cercato del diottro sferico.
La distanza del fuoco oggetto dal vertice del diottro (FV = f ) viene chiamata distanza
focale oggetto.
Se anche in questa situazione consideriamo come secondo raggio quello avente la
direzione coincidente con l’asse ottico, che non subisce deviazione attraversando il
diottro in quanto i=0 e quindi anche i’=0, possiamo interpretare il fuoco oggetto F
come quel punto oggetto la cui immagine è all’infinito; in figura 27 il punto D coinci-
de con il fuoco oggetto F (D≡F) e quindi la sua immagine D’ è all’infinito.
Si possono inoltre confermare le stesse conclusioni se avessimo disegnato il diottro
convesso avente centro in n1 (con n1 > n’1).
Ora consideriamo un diottro concavo ed immaginiamo di condurre ad esso dei raggi
luminosi nelle ipotesi gaussiane, relativi a punti oggetto che si trovano a destra del
diottro, quindi nello spazio opposto a quello in cui si propagano i raggi incidenti (in
seguito tali punti verranno chiamati virtuali).
Nella figura 28 si è voluto evidenziare che, all’aumentare dell’angolo di incidenza
del raggio aumenta, per il rispetto della legge di Snell-Cartesio, anche quello di re-
frazione e pertanto il raggio rifratto forma con l’asse ottico un angolo sempre più
piccolo. Ci sarà un punto sull’asse ottico nel quale arriva il prolungamento di un rag-
gio incidente il cui raggio rifratto formerà con l’asse un angolo tendente a zero, ossia
la sua direzione sarà parallela a quella dell’asse ottico: a tale punto si dà il nome di
fuoco oggetto F del diottro sferico e questa volta viene detto virtuale, in quanto la sua
posizione è individuata dall’intersezione del prolungamento del raggio incidente con
l’asse ottico.
Il fuoco oggetto rappresenta, anche in questa situazione, l’altro punto cardinale cer-
cato del diottro sferico.
La distanza del fuoco oggetto dal vertice del diottro (FV = f ) viene di nuovo chiama-
ta distanza focale oggetto.
Se in questa situazione consideriamo come secondo raggio quello avente la direzione
coincidente con l’asse ottico, che non subisce deviazione attraversando il diottro in
quanto i=0 e quindi anche i’=0, possiamo interpretare il fuoco oggetto F come quel
punto oggetto la cui immagine è
all’infinito. In figura 28 il punto
B coincide con il fuoco oggetto
F (B≡F) e la sua immagine B’ è
all’infinito.
Si possono inoltre confermare
le stesse conclusioni se avessi-
mo disegnato il diottro concavo
avente centro in n1 (con n1 < n’1).
Riassumendo queste prime con-
siderazioni, possiamo affermare Figura 28. Fuoco oggetto di un diottro concavo
2. Ottica geometrica 30

che il diottro convesso ha fuochi (oggetto ed immagine) entrambi reali; il diottro con-
cavo ha invece i fuochi entrambi virtuali.
Non riteniamo opportuno in questa sede entrare nel merito delle relazioni anali-
tiche che regolano il comportamento ottico del diottro, anche perché tali relazioni
si ritrovano, in modo abbastanza similare, nello studio della lente e pertanto ci sof-
fermeremo su di esse quando parleremo di tale mezzo ottico; in questo frangente ci
limiteremo ad introdurre il potere F del diottro sferico, definito dalla relazione:

dove n’1 è l’indice dello spazio immagine, n1 quello dello spazio oggetto, r il raggio
di curvatura del diottro sferico, che viene assunto positivo se a destra del vertice
V, negativo se a sinistra.
Siccome n1 ed n’1 sono due indici di refrazione assoluti sono dei numeri puri mentre r
è una distanza: se la esprimiamo per convenzione in metri allora avremo che il potere
F del diottro avrà come unità di misura la Diottria.
Questa è una convenzione molto importante perché stabilisce che le distanze che
compaiono nelle formule con le quali si calcola il potere di superfici rifrangenti (len-
ti, sistemi ottici ecc.) debbano essere espresse in metri perché si possa esprimere
il potere F in diottrie; la diottria (simbolo D) è un parametro che ha quindi come
dimensione l’inverso di una distanza espressa in metri, cioè

Il potere di un diottro sferico e più in generale quello di una superficie curva, rap-
presenta la capacità della superficie di deviare il percorso del raggio rifratto rispetto
alla direzione di quello incidente; più il potere è alto tanto più grande sarà la capa-
cità di far convergere i raggi se il diottro è convesso, di farli divergere se concavo;
più il potere è piccolo tanto più piccola sarà la capacità di convergenza o divergenza.
Si fa notare infine come il potere F aumenti se aumenta la differenza tra l’indice del-
lo spazio immagine n’1 e quello dello spazio oggetto n1 (salto d’indice) e/o diminuisce
il raggio di curvatura r del diottro; viceversa se il salto d’indice si riduce e/o il raggio
aumenta il potere diminuisce.

2.8 La lente

Una lente è formata dalla combinazione di due diottri, che possono essere entrambi
sferici, oppure uno sferico e l’altro asferico oppure uno sferico e l’altro piano ecc.,
pertanto la sua definizione (geometrica) sarà: dicesi lente un mezzo ottico delimitato
da due superfici (diottri) delle quali almeno una curva.
Quando entrambi i diottri
della lente sono sferici que-
sta si dice sferica, se uno è
asferico la lente si dice asferi-
ca, se tutti e due sono asferici
è detta biasferica (in questo
contesto prenderemo in esa-
me solo le lenti sferiche); i
diottri vengono anche detti
facce attive della lente (ante-
riore e posteriore). Figura 29. Parametri ottici e geometrici della lente
2. Ottica geometrica 31

Figura 30. Lenti Biconvesse non isosceli

2.8.1 I parametri caratteristici


In riferimento alla generica figura 29 (la denominazione completa delle lenti sarà
data nel par. 2.8.2) possiamo individuare i parametri ottici e geometrici della lente;
essi vengono indicati con
n1 indice di refrazione assoluto dello spazio oggetto (dal quale proviene la radiazio-
ne)
n’1 indice di refrazione assoluto della lente
n’2 indice di refrazione assoluto dello spazio immagine (nel quale si propaga la ra-
diazione rifratta dalla lente)
Gli indici di refrazione precedenti costituiscono i parametri ottici della lente, che
quindi sono in generale tre; se poi n1 è uguale ad n’2 allora la lente si dice immersa
(nello stesso mezzo) ed i parametri ottici diventano due.
Gli altri parametri della lente sono:
r1 raggio di curvatura della prima faccia (o diottro o superficie) della lente, C1 è il
relativo centro di curvatura
r2 raggio di curvatura della seconda faccia (o diottro o superficie) della lente, C2 è
il relativo centro di curvatura.
I raggi di curvatura delle facce della lente costituiscono i suoi parametri geometrici,
che quindi in generale sono due; se poi la lente ha r1 uguale ad r2 allora la lente si
dice isoscele ed il parametro geometrico è uno solo.
Nella figura precedente è disegnato anche un asse orizzontale che taglia simmetrica-
mente la lente e che per questo motivo deve contenere i due centri di curvatura delle
sue facce; esso è l’asse ottico della lente definito come l’asse di simmetria di questa e
sul quale si trovano di conseguenza i centri di curvatura delle superfici.
Nella figura 29 si noterà anche che l’asse ottico incontra la lente in due punti V1 e V2,
detti rispettivamente vertice anteriore e vertice posteriore della lente; le lenti che
hanno simmetria di rivoluzione attorno all’asse ottico sono dette assosimmetriche.

2.8.2 Tipologia e nomenclatura delle


lenti
Il criterio adottato nel par. 2.7.2 per
stabilire la convessità o concavità
del diottro consente di assegnare il
nome alle varie tipologie di lenti,
con la condizione che tale denomi-
nazione vuole che l’indice della len-
te n’1 sia maggiore degli indici n1 ed
n’2 dei mezzi che la circondano, cioè
n’1 > n1, n’2. Figura 31. Lente Biconvessa isoscele
2. Ottica geometrica 32

Figura 32. Lenti Pianoconvesse

Figura 33. Lenti Menisco positive

Figura 34. Lenti Biconcave non isosceli

Per comprendere meglio come determinare la convessità o concavità delle superfici


che compongono la lente, si faccia riferimento agli esempi 1 e 2 di par. 2.8.3.
Le lenti di figura 30 vengono dette Biconvesse non isosceli, essendo formate da due
diottri convessi di raggio non uguale. Ricordando l’espressione di par. 2.7.4 con la
quale si calcola il potere di un diottro sferico si avrà sempre che le superfici convesse
hanno potere positivo (mentre le concave negativo) e pertanto la lente biconvessa è
una lente positiva.
La lente di figura 31 è detta Biconvessa isoscele, essendo formata da due diottri con-
vessi aventi lo stesso raggio di curvatura,
anche questa lente ha potere positivo.
Invece le lenti di figura 32 si dicono Pia-
noconvesse, in quanto hanno una faccia
convessa e l’altra piana. Il loro potere sarà
ancora positivo, e poiché la faccia piana ha
potere uguale a zero, il potere della lente
coinciderà con quello della faccia convessa.
Le lenti di figura 33, che hanno una faccia
convessa e l’altra concava sono dette invece
Menisco positive perché, come si è detto alla Figura 35. Lente Biconcava isoscele
2. Ottica geometrica 33

Figura 36. Lenti Pianoconcave

Figura 37. Lenti Menisco negative

fine del par. 2.7.4, la faccia convessa ha raggio minore e quindi potere positivo mag-
giore di quella concava, cioè quella con potere negativo.
Riassumendo quindi sono positive le lenti: Biconvesse non isosceli, Biconvesse isosceli,
Pianoconvesse, Menisco positive.
Si noterà dalle figure precedenti che le lenti positive sono più spesse al centro e più
sottili ai bordi (questa osservazione costituisce uno dei metodi per il riconoscimento
di una lente positiva).
Prendiamo ora in esame la figura 34, in cui sono rappresentate due lenti Biconcave
non isosceli, che essendo formate da due diottri concavi, pertanto di potere negativo,
costituiscono l’esempio di due lenti negative.
La lente in figura 35 è detta Biconcava isoscele, avendo due superfici concave di ugual
raggio; il suo potere sarà pertanto negativo.
Le lenti di figura 36 si dicono invece Pianoconcave, in quanto hanno una faccia conca-
va e l’altra piana, il loro potere sarà ancora negativo. Il potere della lente coinciderà
con quello della faccia curva, poiché il potere della faccia piana è zero.
Infine le lenti in figura 37 sono dette invece Menisco negative, perché la faccia conca-
va ha raggio minore, e quindi potere negativo maggiore (par. 2.7.4) di quella conves-
sa, la quale ha invece potere positivo.
Riassumendo quindi sono negative le lenti: Biconcave non isosceli, Biconcave isosceli,
Pianoconcave, Menisco negative.
Si noterà dalle figure precedenti che le lenti negative sono più spesse al bordo e più
sottili al centro (questa osservazione costituisce uno dei metodi per il riconoscimen-
to di una lente negativa).

2.8.3 Le lenti sottili (sferiche)


A fianco della classificazione delle lenti fatta nel par. 2.8.2, dove il nome della lente
è stato assegnato in base alla forma geometrica, ve n’è un’altra, di natura più stretta-
mente ottica, secondo la quale la lente può essere definita spessa o sottile.
Non ci occuperemo della prima categoria perché le lenti oftalmiche, per motivi che
2. Ottica geometrica 34

Figura 38. Rappresentazione di una lente sottile positiva e negativa

esulano dallo scopo di queste brevi note di ottica geometrica, vengono considerate,
nella quasi totalità dei casi, lenti sottili.
In prima ipotesi possiamo considerare sottile una lente in cui lo spessore tende a
zero (anche se in realtà la giustificazione è un po’ più articolata) e pertanto la sua
rappresentazione grafica è illustrata in figura 38.
La simbologia grafica di figura 38 rappresenta l’asse ottico della lente come suo
asse di simmetria e pertanto su di esso si troveranno i centri di curvatura delle sue
superfici curve.
Una lente sottile positiva viene rappresentata con una linea, alle cui estremità ci
sono due frecce dirette in senso opposto all’asse ottico, mentre nella negativa all’e-
stremità della linea ci sono due frecce dirette verso l’asse ottico.
Non bisogna però dimenticare che la lente, anche se sottile, è sempre formata dall’unione
di due diottri e quindi il suo potere scaturirà dalla somma algebrica dei poteri dei diottri
che la compongono; con ciò si intende dire che: se la lente è biconvessa la sua potenza sarà
data dalla somma dei poteri delle facce, se pianoconcava coinciderà con il potere della
faccia concava, se menisco il potere sarà la differenza tra i poteri delle facce ecc.
Da queste considerazioni, tralasciandone la dimostrazione matematica, ricaviamo
che il potere di una lente sottile, detto potere nominale Fn, è dato dall’espressione:
Fn = F1 + F2 (potere nominale di una lente sottile)
dove F1 ed F2, potenze del diottro anteriore e posteriore rispettivamente, sono calco-
late con l’espressione di par. 2.7.4 e precisamente

ed

espressioni nelle quali


n’1 = indice di refrazione assoluto della lente
n1 = indice del mezzo ottico che precede la lente (spazio oggetto)
n’2 = indice del mezzo ottico che segue la lente (spazio immagine)
r1 = raggio di curvatura della faccia anteriore della lente
r2 = raggio di curvatura della faccia posteriore della lente

Vediamo alcuni esempi applicativi della relazione precedente.


Esempio 1) Calcolare il potere nominale di una lente sottile, immersa in aria, avente
n’1 = 1,5; r1 = +10 cm; r2 = –20 cm.
Osservazione: Ricordando quanto detto nel par. 2.7.4 per il diottro sferico, possiamo con-
siderare l’asse ottico della lente come un asse di riferimento ed i vertici della lente come
origine per ciascun diottro.
2. Ottica geometrica 35

Adottando la stessa convenzione per i segni dei raggi, possiamo dire che la faccia anteriore
della lente ha raggio positivo, quindi il suo centro di curvatura è a destra del vertice, nel
mezzo con indice di refrazione assoluto maggiore. Quando si considera la prima faccia
della lente bisogna trascurare la seconda ed immaginare che lo spazio a destra di V1 sia
illimitato, ecco perché il centro della prima superficie cade nell’indice maggiore. La faccia
è convessa e pertanto la sua potenza è positiva.
La seconda superficie ha invece raggio di curvatura negativo, quindi il suo centro è a sini-
stra del vertice. Applichiamo nuovamente il ragionamento usato per la prima superficie
ma, questa volta, bisogna estendere il mezzo a sinistra del vertice V2, considerandolo illi-
mitato; quindi anche il centro della seconda faccia cade nel mezzo con indice di refrazione
assoluto maggiore: anche questa faccia è convessa e la sua potenza positiva. La lente è
quindi Biconvessa ed ha la forma di quella rappresentata in figura 30a.
Utilizziamo la formula del potere di un diottro sferico riportata nel par. 2.7.4 per calcola-
re le potenze delle facce della lente.
Calcolo della potenza della faccia anteriore, F1:

Calcolo della potenza della faccia posteriore, F2:

pertanto avremo Fn = F1 + F2 = +5 + 2,5 = +7,5 D

Esempio 2) Calcolare il potere nominale di una lente (sottile) immersa in aria, avente
n’1 = 1,5; r1 = +10 cm; r2 = +20 cm.
Osservazione: Procedendo con analogo ragionamento a quello fatto per l’esempio 1, per la
faccia anteriore della lente valgono le stesse considerazioni fatte per la faccia anteriore del-
la lente del primo esempio, quindi la faccia è convessa e pertanto la sua potenza è positiva.
La seconda superficie ha pure raggio di curvatura positivo, quindi il suo centro è a destra
del vertice, nel mezzo con indice di refrazione assoluto minore: questa faccia è concava e
la sua potenza negativa. La lente è quindi Menisco e la sua forma è quella di figura 33f.
Utilizziamo la formula del potere di un diottro sferico riportata nel par. 2.7.4 per calcola-
re le potenze delle facce della lente.
Calcolo della potenza della faccia anteriore, F1:

Calcolo della potenza della faccia posteriore, F2:

pertanto avremo Fn = F1 + F2 = +5 + (–2,5) = +2,5 D

2.8.4 I punti cardinali della lente sottile


I punti cardinali della lente sottile, come già detto per il diottro sferico, sono il fuoco
immagine F’ ed il fuoco oggetto F e, nel rispetto della capacità convergente (potere
positivo) o divergente (potere negativo) della lente (si riveda quanto detto nel par.
2.7.4), avremo rispettivamente fuochi reali o virtuali, come indicato in figura 39;
nella quale si evidenzia che i fuochi, reali (lente positiva) o virtuali (lente negativa),
sono simmetrici rispetto alla lente: ciò avviene sempre quando la lente è immersa
2. Ottica geometrica 36

Figura 39. Punti cardinali di una lente sottile positiva e negativa

nello stesso mezzo ottico, quindi anche quando è immersa in aria; vedremo più avanti
la spiegazione di quanto affermato.
La distanza dei fuochi dalla lente si chiama distanza focale effettiva. La focale effet-
tiva si indica con fe e rappresenta la focale oggetto f e la focale immagine f’ della len-
te che, come si è detto prima, sono uguali se la lente è immersa nello stesso mezzo. La
convenzione vuole, però, che la focale effettiva venga fatta coincidere con la focale
immagine (fe ≡ f’), quindi le due focali hanno stessa lunghezza ma anche stesso segno.
Consideriamo ora (per semplicità) una lente positiva immersa in aria ed un oggetto
esteso AB, situato prima del suo fuoco oggetto F; costruiamo mediante il traccia-
mento dei raggi cardinali l’immagine che ne fornirà la lente; graficamente avremo
quanto rappresentato in figura 40.
Vediamo di illustrare quanto è disegnato nella figura 40: dall’estremità B dell’ogget-
to (reale) facciamo passare il raggio (di colore rosso) proveniente dall’infinito, che
pertanto sarà parallelo all’asse ottico della lente. Dopo essere stato rifratto dalla
lente, il raggio convergerà (lente positiva) verso l’asse per passare dal fuoco imma-
gine F’ (reale); dall’estremità B dell’oggetto tracciamo poi il raggio che passa dal
fuoco oggetto F della lente (raggio di colore blu). Dopo la refrazione il raggio uscirà
parallelo all’asse ottico ed incontrerà il raggio rifratto precedente nel punto B’, che è

Figura 40. Formazione dell’immagine reale data da una lente sottile


2. Ottica geometrica 37

l’immagine di B. L’immagine complessiva dell’oggetto AB sarà quindi rappresentata


dal segmento A’B’ e viene detta reale perché è individuata dall’intersezione dei raggi
rifratti (nella convenzione grafica l’immagine reale è disegnata con linea continua); il
meccanismo appena illustrato, applicabile anche a lenti negative, si chiama determi-
nazione grafica dell’immagine.
Nella figura 40 è indicato con l la distanza dell’oggetto dalla lente, con l’ quella
dell’immagine dalla lente, con f ‘ la focale immagine (coincidente con la focale effet-
tiva) e con f la focale oggetto della lente; si dimostra che tra i parametri precedenti
sussiste la relazione:
(equazione di Gauss o dei punti coniugati di una lente immersa in aria)
la quale consente di determinare uno qualunque dei tre parametri Fn, l, l’ che vi
compaiono, qualora siano noti gli altri due.
In ottica geometrica è uso definire vergenza l’inverso di una distanza espressa in
metri; pertanto, dal momento che l ed l’ sono distanze, possiamo chiamare la fra-
zione 1/l’ vergenza dell’immagine e la frazione 1/l vergenza dell’oggetto, e quindi
la formula precedente può esprimersi dicendo che il potere nominale di una lente
(sottile) si ricava dalla differenza algebrica delle vergenze dell’immagine e dell’oggetto;
avendo espresso le distanze l ed l’ in metri, l’unità di misura del potere di una lente
è la Diottria (simbolo D).
Inoltre si dimostrano valide le relazioni
ed anche
le quali ci dicono che, esplicitando f ed f’ dalle formule, la focale oggetto e la focale
immagine di una lente immersa hanno lo stesso valore numerico ma sono di segno
opposto (focale oggetto positiva e focale immagine negativa o viceversa); ciò chiari-
sce quanto detto all’inizio del paragrafo e cioè che focale oggetto e focale immagine
di una lente immersa sono uguali, ma di segno opposto. A quanto detto si può aggiun-
gere che la focale effettiva avrà lo stesso segno della focale immagine, ciò può essere
riassunto nella seguente espressione: – f = f ‘ = fe.
Le precedenti relazioni ci indicano quindi che il potere nominale Fn della lente sotti-
le, quando la lente è immersa nello stesso mezzo ottico, è uguale all’inverso della sua
focale immagine (o effettiva) espressa in metri, oppure a meno l’inverso della sua
focale oggetto (sempre espressa in metri).
Il lettore si sarà certamente accorto che esistono più relazioni che ci consentono di
calcolare il potere nominale di una lente sottile (immersa in aria); infatti alle for-
mule illustrate in questo paragrafo si possono aggiungere quelle di par. 2.8.3 (con
n1 = n’2 = 1) e quindi avere in definitiva:

In figura 40 è anche indicata la grandezza trasversale dell’oggetto (h) e quella


dell’immagine (h’); in Ottica geometrica esiste un parametro che stabilisce un lega-
me tra le due grandezze: questo è l’ingrandimento trasversale, mt, definito come “il
rapporto tra la grandezza trasversale dell’immagine e quella dell’oggetto”.
Si dimostra anche che l’ingrandimento trasversale mt è uguale al rapporto tra la
distanza immagine e distanza oggetto, e quindi l’espressione dell’ingrandimento tra-
sversale può essere così riassunta:

[Ingrandimento trasversale della lente sottile]


2. Ottica geometrica 38

L’ultima relazione ci permette di calcolare l’ingrandimento trasversale della lente


conoscendo la reciproca posizione dell’oggetto l e dell’immagine l’.
L’ingrandimento, in dipendenza dei segni associati alle distanze l ed l’, può essere
positivo o negativo: nel primo caso significa che l’oggetto e l’immagine stanno dalla
stessa parte rispetto all’asse ottico (entrambi sopra l’asse ottico o entrambi sotto),
nel secondo da parti opposte; considerato in valore assoluto, invece l’ingrandimento
trasversale ci dice che:
se mt > 1 l’immagine è più grande dell’oggetto
se mt < 1 l’immagine è più piccola dell’oggetto
se mt = 1 l’immagine è uguale all’oggetto
Il corretto utilizzo delle formule precedenti esige, lo ricordiamo, di esprimere le di-
stanze in metri (solo così il potere è espresso in Diottrie) e soprattutto di rispettare
le convenzioni sui segni di r1, r2, l, l’, f, f’; tale convenzione va sotto il nome di con-
venzioni gaussiane, che qui riassumiamo facendo riferimento alla figura 39, 40 e 41:
Fn = potere nominale della lente (espresso in Diottrie, ovvero m-1)
Fn > 0 se la lente ha potere positivo, cioè convergente
Fn < 0 se la lente ha potere negativo, cioè divergente
f = focale oggetto = distanza del fuoco oggetto (F) dalla lente
f’ = focale immagine = distanza del fuoco immagine (F’) dalla lente
Quando il fuoco oggetto (F) si trova nello spazio oggetto ed il fuoco immagine
(F’) nello spazio immagine, i fuochi si definiscono reali (figura 39).
Una lente positiva ha fuochi reali, perciò assumiamo che
f < 0 fuoco oggetto a sinistra della lente (nello spazio oggetto)
f’ > 0 fuoco immagine a destra della lente (nello spazio immagine)
In una lente negativa, invece, i fuochi sono virtuali (figura 39).
Il fuoco oggetto (F) è nello spazio immagine e viceversa il fuoco immagine (F’) è
nello spazio oggetto, quindi:
f > 0 fuoco oggetto a destra della lente (nello spazio immagine)
f’ < 0 fuoco immagine a sinistra della lente (nello spazio oggetto)
l = distanza dell’oggetto dalla lente
l’ = distanza dell’immagine dalla lente
l > 0 cioè positiva se l’oggetto è virtuale (a destra della lente)
l < 0 cioè negativa se l’oggetto è reale (a sinistra della lente)
l’ > 0 cioè positiva se l’immagine è reale (a destra della lente)
l’ < 0 cioè negativa se l’immagine è virtuale (a sinistra della lente)
Da ciò si deduce che quando l’oggetto è situato nello spazio oggetto sarà reale, quan-
do si trova nello spazio immagine sarà virtuale; viceversa l’immagine è reale quando
è posizionata nello spazio immagine, virtuale se è situata nello spazio oggetto.
h = grandezza trasversale dell’oggetto
h’ = grandezza trasversale dell’immagine
h > 0 cioè positiva se l’oggetto si trova sopra l’asse ottico
h < 0 cioè negativa se l’oggetto si trova sotto l’asse ottico
h’ > 0 cioè positiva se l’immagine si trova sopra l’asse ottico
h’ < 0 cioè negativa se l’immagine si trova sotto l’asse ottico
Pertanto, considerando l’intersezione della lente con l’asse ottico come il punto di
origine di un sistema cartesiano, si potrà affermare che quando l’oggetto, l’immagi-
ne o un fuoco della lente sono a destra di essa avranno una distanza positiva; quando
sono a sinistra avranno una distanza negativa.
Inoltre l’oggetto o l’immagine che sono sopra l’asse avranno grandezza trasversale
positiva; viceversa negativa.
2. Ottica geometrica 39

Concludiamo con alcuni esempi che illustrino come si applicano le formule prece-
dentemente esposte.
Esempio 1) Data una lente sottile di potere nominale Fn = +5,00 D, calcolare le sue
focali.
Per la focale oggetto avremo

(fuoco oggetto reale, a sinistra della lente);


per la focale immagine

(fuoco immagine reale, a destra della lente) oppure

(c.v.d.)

Esempio 2) Data una lente sottile di potere nominale Fn = -4,00 D, calcolare le sue
focali.
Per la focale oggetto avremo

(fuoco oggetto virtuale, a destra della lente);


per la focale immagine

(fuoco immagine virtuale, a sinistra della lente) oppure

(c.v.d.)

Esempio 3) È data una lente sottile immersa in aria. Un oggetto reale si trova a 20 cm
dalla lente e questa ne forma una immagine reale che si localizza ad una distanza di
20 cm dalla lente; calcolare il potere nominale della lente e l’ingrandimento trasversa-
le da essa fornito. (L’esercizio è riassunto nel grafico di figura 40.)
Osservazione: L’oggetto è reale, quindi a sinistra della lente, pertanto la distanza da essa
sarà negativa: l = –20 cm, l’immagine è reale, quindi a destra della lente, allora la distan-
za da essa sarà positiva: l’ = +20 cm.
Dall’equazione dei punti coniugati, riportata in questo paragrafo, abbiamo

da cui si ha Fn = +5 D + 5 D e quindi Fn = +10 D.


Le focali della lente saranno

(focale oggetto)

(focale immagine o focale effettiva);


come si vede le due focali hanno stesso valore numerico, ma segno opposto.
2. Ottica geometrica 40

Dalla relazione dell’ingrandimento trasversale si ha

(dove la x non rappresenta l’unità di misura dell’ingrandimento, che è un numero puro,


ma il suo il simbolo, che si legge “per”).

Commento: il segno negativo dell’ingrandimento trasversale indica che l’immagine e


l’oggetto hanno posizione contrapposta rispetto all’asse ottico; il valore assoluto dell’in-
grandimento (mt = 1) ci indica che l’immagine è di grandezza trasversale uguale a quella
dell’oggetto.
Quest’ultimo risultato è generalizzabile per tutte le lenti positive con oggetti reali: l’im-
magine reale avrà la stessa grandezza dell’oggetto reale se questo è posto ad una distanza
dalla lente pari al doppio della distanza focale oggetto, infatti

che è la metà della distanza a cui si trova l’oggetto dalla lente.

Esempio 4) È data una lente sottile immersa in aria di Fn = +4 D. Un oggetto reale si


trova a 10 cm dalla lente, calcolare a che distanza dalla lente si localizzerà l’imma-
gine e l’ingrandimento trasversale da essa fornito. (L’esercizio può essere riassunto nel
grafico di figura 41).
Osservazione: L’oggetto è reale, quindi a sinistra della lente, pertanto la distanza da essa
sarà negativa: l = –10 cm. Inoltre applicando la relazione

ricaviamo che la focale oggetto della lente è

pertanto, trovandosi l’oggetto tra il fuoco oggetto e la lente, avremo la formazione di una
immagine virtuale.
Dall’equazione dei punti coniugati, riportata in questo paragrafo, abbiamo

da cui si ha

e quindi

per cui

(il segno negativo della distanza indica che l’immagine si trova a sinistra della lente,
quindi è virtuale). Il risultato, peraltro già previsto nell’Osservazione, è generalizzabile a
tutte le lenti positive: se l’oggetto reale è posto tra F (fuoco oggetto) e lente, la lente posi-
tiva fornirà di esso una immagine virtuale.

il risultato conferma che essa è uguale, come valore numerico, ma di segno opposto alla
focale oggetto.
2. Ottica geometrica 41

Figura 41. Formazione dell’immagine virtuale data da una lente sottile

Dalla relazione dell’ingrandimento trasversale si ha

(dove la x, per quanto detto nell’esercizio 3, si legge “per”).


Commento: il segno positivo dell’ingrandimento trasversale indica che l’immagine e l’og-
getto hanno posizione concorde rispetto all’asse ottico; il valore assoluto dell’ingrandi-
mento (1,67 > 1) ci indica che l’immagine è più grande dell’oggetto.
Nella figura 41 AB è l’oggetto reale tra fuoco oggetto (F) e lente, A’B’ l’immagine virtuale
ed i simboli riportati, con i segni rispettivi, sono di chiara interpretazione.
(nota: è forse opportuno soffermarsi sull’immagine ottenuta in questo esempio; si parla
di immagine virtuale quando questa è individuata dai prolungamenti dei raggi rifratti
e quindi non è materializzabile su un supporto fisico, ad esempio uno schermo, come lo è
invece quella reale.
Nella convenzione grafica l’immagine virtuale è disegnata con linea tratteggiata).

2.9 Le lenti astigmatiche

Per una migliore comprensione delle lenti astigmatiche è opportuno prima ritornare
sulle lenti assosimmetriche (vedi par. 2.8.1) ed illustrare meglio l’effetto ottico da
esse prodotto.

2.9.1 La ricetta di una lente oftalmica sferica


Le lenti oftalmiche, o lenti da occhiali, sono considerate lenti sottili e vengono defi-
nite sferiche, o assosimmetriche, quando entrambe le facce curve che le compongono
sono diottri sferici (oppure la faccia curva se l’altra è piana).
Dal momento che si è stabilita la geometria della lente (ad esempio: Pianoconvessa
oppure Menisco o Biconvessa ecc.) sezionando tale lente con piani di orientamento
qualunque, ma passanti dai centri delle superfici curve, otterremo sezioni che hanno
tutte la stessa forma geometrica.
2. Ottica geometrica 42

Nella figura 42 si è considerata una lente


oftalmica avente il diottro anteriore (faccia
anteriore) di potere F1 = +6,50 D e quello po-
steriore di F2 = –1,50 D; questa lente è stata
poi sezionata con un piano verticale, uno
orizzontale ed uno obliquo, tutti passanti
per i centri di curvatura delle sue facce (e
quindi contenenti l’asse ottico) ed ai lati del-
la lente si sono riportate le sezioni ottenute.
Come si è prima detto, ciascuna delle sezioni
proposte (come tutte quelle non riportate)
ha la stessa geometria (i raggi di curvatura Figura 42. Sezioni passanti per il centro ottico
dei diottri anteriore e posteriore sono co- di una lente sferica
stanti) e pertanto il potere di ognuna di esse
sarà dato dalla formula
Fn = F1 + F2 che, nel caso dell’esempio di figura 42 dà:
Fn = +6,50 D + (–1,50 D) = +5 D (vedi par. 2.8.3).
Se la lente di potere nominale Fn = +5 D non avesse avuto la forma di Menisco ma
una qualunque altra geometria, compatibile con il potere positivo della lente, sareb-
bero rimaste valide le considerazioni circa la geometria costante delle sue sezioni e
pertanto la somma algebrica del potere delle sue facce avrebbe sempre dato come
potenza nominale +5,00 D (ad esempio se la lente fosse stata Biconvessa una combi-
nazione poteva essere F1 = +3 D ed F2 = +2 D; oppure, se fosse stata Pianoconvessa a
faccia piana posteriore, avremmo avuto F1 = +5 D ed F2 = 0 D).
Possiamo perciò concludere che una lente siffatta può essere rappresentata da una
scrittura sintetica, che ne individui le caratteristiche principali, del tipo:
Sf +5 D (che si legge: sfera +5 diottrie); tale scrittura è detta rappresentazione simbo-
lica analitica o più semplicemente ricetta.
Come già detto in precedenza l’asse ottico è l’asse di simmetria della lente e pertan-
to deve contenere i centri di curvatura delle sue superfici; se però rappresentiamo
graficamente la lente sottile come fatto nelle figure 38 e 39 possiamo indicare con O
l’intersezione dell’asse ottico con la lente e chiameremo questo punto centro ottico
della lente (questo è il significato del punto O disegnato nelle figure 40, 41 e 42).
Nella lente rappresentata in figura 42 abbiamo il potere della faccia anteriore
F1 = +6,50 D e quello della faccia posteriore F2 = –1,50 D; pertanto il potere no-
minale della lente Fn, ovvero il suo potere totale, sarà Fn = +6,50 + (–1,50) = +5 D e
quindi la sua “ricetta” è Sf +5,00 D.
In relazione al centro ottico O possiamo quindi dire che una lente sferica avrà potere
uguale in tutte le sue sezioni passanti da O; questa caratteristica viene riassunta
nella sua “ricetta”, che è del tipo Sf (1) dove:
– l’abbreviazione Sf indica appunto che la lente è sferica o assosimmetrica e quindi
ha potere uguale in ogni sezione (o meridiano) passante per il suo centro ottico O
(per tale motivo la lente sferica è anche detta monofocale, perché avendo un potere
unico ha anche una focale unica).
– in (1) è riportato il potere, positivo o negativo, di tutte le sue sezioni (ad esempio
Sf +3,50 D oppure Sf –1,25 D ecc.).
Si noterà che tale tipo di ricetta non ci dice quale sia la forma della sezione (se ad
esempio è Pianoconvessa, Biconvessa non isoscele ecc.) ma del resto la cosa non è
fondamentale, dal momento che la sezione di una lente oftalmica è, nella quasi tota-
lità dei casi, un Menisco.
2. Ottica geometrica 43

Per quanto detto sopra si capisce quindi


che una lente sferica, avendo lo stesso
potere in tutti i suoi meridiani, è ido-
nea alla compensazione di ametropie
sferiche, miopia o ipermetropia, ossia di
ametropie nelle quali il sistema ottico
dell’occhio (cornea, cristallino ecc.) ha
lo stesso potere in tutti i meridiani, che Figura 43. Rappresentazione grafico simbolica
ruotano rispetto all’asse visivo. (R.G.S.) di una lente astigmatica

2.9.2 Le immagini di una lente astigmatica


Si è detto che la lente sferica compensa ametropie in cui l’occhio mantiene una sim-
metria di potere rispetto all’asse visivo; se l’occhio perde tale simmetria globale per
mantenerla solo rispetto a due piani perpendicolari tra loro, allora esso avrà potenze
diverse in tali piani e l’ametropia che ne nascerà è detta astigmatismo.
La compensazione di questo difetto della vista si otterrà pertanto con lenti che
abbiano per costruzione poteri diversi su due meridiani ortogonali tra loro, detti
meridiani principali, e di segno opposto a quello del potere presente nei meridiani
dell’occhio: le lenti con questa caratteristica sono dette astigmatiche.
Le caratteristiche di tali lenti vengono, di norma, rappresentate mediante un dise-
gno schematico in cui si riportano i due meridiani principali della lente (ortogonali
tra loro), il potere che la lente ha in tali meridiani e la direzione di questi rispetto
ad una linea di riferimento orizzontale; il metodo, detto rappresentazione grafico
simbolica (R.G.S.), è rappresentato nella figura 43, nella quale con α1 ed α2 si sono
indicate le direzioni dei meridiani principali della lente rispetto alla linea orizzonta-
le 0°-180°, e con F1 e F2 i rispettivi poteri in quei meridiani.
E’ definito astigmatismo della lente la differenza, presa in valore assoluto, tra i po-
teri (con il segno relativo) che la lente ha nei suoi meridiani principali; in formula:
Ast = | F1 – F2 | = | F2 – F1 | (considerare il valore assoluto comporta che è irrilevante
prendere l’uno o l’altro potere come primo termine della differenza ed inoltre l’a-
stigmatismo della lente è sempre un numero positivo).
L’immagine fornita da una lente astigmatica è riprodotta nella figura 44, in cui, imma-
ginando che la radiazione provenga da un punto oggetto all’infinito, si evidenzia come
i raggi che giacciono sul meridiano orizzontale, supposto di maggior potere, si incon-
trino in un punto sull’asse ma la contemporanea presenza dei raggi che si propagano
in quello verticale fa nascere una immagine che non è puntiforme ma si trasforma in
una linea; analogo risultato si ottiene considerando la radiazione che si propaga sul
meridiano verticale (che
nel caso dell’esempio è
quello di potere minore).
È interessante notare
come l’immagine a for-
ma di linea, originata
dai raggi su un meridia-
no, si formi sul meridia-
no ortogonale.
Considerando il cono
complessivo di tutti i
raggi rifratti dalla lente,
denominato Conoide di Figura 44. Conoide di Sturm
2. Ottica geometrica 44

Sturm, si avrà un punto in cui detto cono presenta una sezione di diametro minimo
che si dice disco di minima confusione: è questa la migliore immagine che la lente
astigmatica può dare di un oggetto puntiforme.
È altresì opportuno far presente che la situazione rappresentata in figura 44 è pura-
mente indicativa, nella realtà possiamo avere il potere maggiore sul meridiano ver-
ticale oppure i due meridiani principali possono non essere verticale ed orizzontale
ma, rimanendo sempre ortogonali tra loro, possono avere inclinazione qualunque
rispetto all’orizzontale.

2.9.3 La ricetta di una lente (astigmatica) pianocilindrica


Le lenti astigmatiche a geometria sferica (in questo contesto esuliamo dalle geome-
trie asferiche) si dividono nelle seguenti tipologie: Pianocilindriche, Bicilindriche, Sfe-
rocilindriche, Pianotoriche e Sferotoriche ed in questo paragrafo, per motivi di sintesi,
ci soffermeremo sulle Pianocilindriche e Sferocilindriche.
Anche se la lente Pianocilindrica non ha un impiego pratico, è necessario parlarne
per motivi “didattici”, poiché consente più agevolmente di capire il comportamento
ottico di una lente astigmatica.
Una lente Pianocilindrica si ottiene sezionando un cilindro con un piano parallelo
all’asse del cilindro stesso. Consideriamo, per semplicità, una lente Pianocilindrica
positiva (convessa) ed inviamo sulla faccia curva un fascio di raggi che attraversano
la lente su un piano parallelo all’asse del cilindro, figura 45a, i raggi incontreranno
nella lente una sezione a forma di lamina (potere zero) e quindi proseguiranno senza
modificare la loro inclinazione; se invece consideriamo un fascio di raggi che incide
sulla faccia curva della lente secondo un piano ortogonale all’asse del cilindro, figura
45b, essi incontreranno la sezione di una lente Pianoconvessa ovvero con potere di-
verso da zero, detto anche potere del cilindro o Fcil.
In una lente Pianocilindrica, detta anche cilindro puro, i meridiani principali sono
quindi:
– il meridiano con la direzione dell’asse del cilindro, nel quale il potere è nullo (figura
45a)
– il meridiano con la direzione perpendicolare all’asse del cilindro, nel quale si ha il
potere del cilindro Fcil, che ovviamente è diverso da zero (figura 45b).
Come si è detto la lente Pianocilindrica, o cilindro puro, ha il potere solo su un me-
ridiano; dovremo pertanto specificare non solo il valore diottrico del potere su tale
meridiano ma anche il posizionamento stesso della lente. La posizione della lente
si ottiene aggiungendo al valore diottrico del cilindro l’ulteriore indicazione della
direzione del suo asse: pertanto la rappresentazione simbolica scritta, o ricetta, di

Figura 45. Sezioni di una lente Pianocilindrica convessa Figura 46. Rappresentazione grafico simbolica
della lente Pianocilindrica di ricetta cil +3,50
ax 35°
2. Ottica geometrica 45

una lente Pianocilindrica, nella sua formulazione generale, sarà del tipo Cil (1) ax
(2) dove in (1) è indicato il potere del cilindro (Fcil ) e in (2) la direzione del suo asse.
Consideriamo ad esempio una lente Pianocilindrica di ricetta: cil +3,50 ax 35°; tale
scrittura indica che nella direzione 35°, quella dell’asse del cilindro, la lente ha pote-
re zero, mentre nella direzione 125°, quella ortogonale all’asse del cilindro, il potere
è +3,50 D.
Quanto detto in precedenza può essere illustrato anche mediante un disegno sche-
matico, detto rappresentazione grafico simbolica, così come mostrato in figura 46.
Il disegno di figura 46 dice che il potere della lente nel meridiano con direzione 35°
è zero (F35° = 0 D) e dunque in quella direzione vi è l’asse del cilindro, invece nel
meridiano con direzione 125° il potere è +3,50 D (F125° = +3,50 D) e dunque quello è
il Fcil; pertanto, partendo dalla rappresentazione grafico simbolica, possiamo risalire
alla ricetta della lente Pianocilindrica prendendo come orientamento dell’asse del
cilindro la direzione in cui la lente ha potere nullo; come Fcil il potere espresso
sull’altro meridiano principale della lente; quindi in definitiva otterremo la ricetta
cil +3,50 ax 35°, che è quella da cui siamo partiti.
L’astigmatismo della lente sarà: Ast = | +3,50 – 0 | = | 0 – (+3,50) | = +3,50 D deducendo
quindi, e questa è regola generale, che nella lente Pianocilindrica l’astigmatismo
coincide sempre con il potere del cilindro (Fcil) preso in valore assoluto, ossia:
Ast ≡ | Fcil |.

2.9.4 La ricetta di una lente (astigmatica) sferocilindrica


Come si è visto la lente Pianocilindrica ha potere solo su un meridiano, quello orto-
gonale al suo asse; pertanto se venisse usata per compensare l’astigmatismo dell’oc-
chio potrebbe compensare solo il caso in cui su un meridiano l’occhio sia emmetrope
e sull’altro miope od ipermetrope (astigmatismo semplice).
Se lo stato refrattivo dell’occhio necessita la compensazione su due meridiani, la len-

Figura 47. Formazione di una lente Sferocilindrica


2. Ottica geometrica 46

te Pianocilindrica non è sufficiente allo scopo; possiamo ricorrere allora alla lente
Sferocilindrica; come si vede dalla figura 47, essa può essere ottenuta idealmente
dall’unione di una lente Pianosferica (sezione di una sfera ottenuta con un piano
qualunque, anche non passante per il suo centro, detta anche calotta sferica) ed una
lente Pianocilindrica.
Dalla figura 47 si deduce che i meridiani principali di questa lente sono:
– il meridiano avente la direzione dell’asse del cilindro
– il meridiano avente la direzione ortogonale all’asse del cilindro.
Ricordando quanto detto al riguardo della ricetta di una lente sferica
(par. 2.9.1) e di un cilindro puro (par. 2.9.3), la ricetta di una lente Sferocilindrica
avrà pertanto la seguente forma Sf (1) cil (2) ax (3) dove in (1) è riportato il potere
della lente Pianosferica (Fs), in (2) il potere della lente Pianocilindrica (Fcil) ed in (3)
la direzione dell’asse di quest’ultima.
Appare quindi chiaro che nel meridiano parallelo all’asse del cilindro questa lente
ha potere uguale al potere della sfera (Fs) e, nel meridiano ortogonale all’asse del
cilindro, il potere della lente sarà dato dalla somma algebrica del potere della sfera e
di quello del cilindro (Fs + Fcil). Facciamo notare che somma algebrica vuol dire tener
conto del segno di Fs e Fcil, che può essere positivo o negativo.
L’astigmatismo di questa lente sarà dato dalla somma degli astigmatismi delle lenti
che la compongono; quello della lente Pianosferica è nullo in quanto essa ha poteri
uguali su tutti i meridiani, quello della Pianocilindrica, come si è già detto, è dato
dal valore assoluto del Fcil; in definitiva è regola generale identificare l’astigmati-
smo della lente Sferocilindrica con il valore assoluto del potere del cilindro, ossia:
Ast ≡ | Fcil |.
Se consideriamo una ricetta Sferocilindrica iniziale, chiamata primitiva (P), a questa
possiamo associare un’altra ricetta Sferocilindrica, detta trasposta (T), equivalente
alla primitiva (due o più ricette di lenti astigmatiche si dicono equivalenti quando le
lenti che esse rappresentano hanno i meridiani principali con lo stesso orientamento
e potere, ossia hanno la stessa rappresentazione grafico simbolica).
La ricetta trasposta può essere scritta con la seguente regola pratica:
– il potere della sfera è dato dalla somma algebrica di sfera e cilindro della
primitiva;
– il potere del cilindro si ottiene cambiando il segno alla potenza del cilindro della
primitiva;
– la direzione dell’asse nella trasposta si ottiene ruotando l’asse della primitiva di
90°.
A titolo di esempio consideriamo una lente Sferocilindrica primitiva di ricetta:
P) Sf +3,00 cil –2,00 ax 75°; essa avrà Ast = 2,00 D; la sua ricetta trasposta sarà
Sf [+3,00 +(–2,00)] cil –(–2,00) ax (75° + 90°) e quindi in definitiva
T) Sf +1,00 cil +2,00 ax 165°.
La lente primitiva avrà un potere totale, nel meridiano principale con direzione 75°,
dato dalla somma del potere della sfera (Fs) e del cilindro (Fcil), che però avendo l’as-
se in quella direzione, è nullo; quindi in definitiva:
F75° = Fs + 0 = +3,00 + 0 = +3,00 D
Nel meridiano principale con direzione 165°, la lente avrà un potere totale dato dal
contributo algebrico dei poteri sia della sfera (Fs) che del cilindro (Fcil), in quanto
questa è la direzione ortogonale al suo asse e quindi quella in cui la lente Pianocilin-
drica ha una sezione con potere diverso da zero; in definitiva:
F165° = Fs + Fcil = +3,00 + (–2,00) = +1,00 D.
La scrittura della ricetta trasposta è utile per i seguenti motivi:
– il potere della sfera della primitiva e quello della trasposta danno la potenza totale
2. Ottica geometrica 47

Figura 48. Rappresentazione grafico simbolica della lente Sferocilindrica di ricetta Sf +3,00 cil -2,00 ax 75°

della lente nei suoi meridiani principali, ovvero la sfera della primitiva è il potere
totale della lente nel meridiano che ha la stessa direzione dell’asse del cilindro
della primitiva; analogo discorso per la sfera della trasposta che indica il potere
totale della lente nel meridiano che ha la stessa direzione dell’asse del cilindro
della trasposta;
– stabilire il prezzo della lente; infatti le aziende creano i listini delle lenti astigma-
tiche usando la ricetta con cilindro positivo o negativo. Se la ricetta che abbiamo
a disposizione non ha il segno del cilindro coincidente con quello del catalogo
consultato, possiamo ricavare il prezzo della lente scrivendone la ricetta trasposta.
La figura 48 riproduce la rappresentazione grafico simbolica dell’esempio proposto
(primitiva).
Nel disegnare quanto riprodotto in figura 48 si è considerato che la lente Sferocilin-
drica assegnata fosse composta, idealmente, da due lenti: una Pianosferica ed una
Pianocilindrica, ossia
Sf +3,00 cil -2,00 ax 75°
lente Pianosferica lente Pianocilindrica
Anche per la lente Sferocilindrica, così come fatto per la Pianocilindrica alla fine
di par. 2.9.3, è possibile scriverne la ricetta partendo dalla rappresentazione grafico
simbolica, mediante le regole seguenti:
– Sf = il potere della sfera della ricetta si otterrà prendendo come valore diottrico il
potere totale che la lente ha in uno dei due meridiani principali;
– Fcil = il potere del cilindro sarà quel valore diottrico che consente di passare (al-
gebricamente) dal potere presente nel meridiano prescelto (e che, come visto nel
punto precedente, coincide con il valore della sfera) al potere presente sull’altro
meridiano principale;
– ax = l’asse del cilindro coinciderà con la direzione del meridiano principale, il cui
potere abbiamo preso come sfera.
(Si fa notare al lettore che scegliendo come potere della sfera il potere sull’altro me-
ridiano principale della lente, scriveremo la trasposta della ricetta iniziale).
A chiarimento di quanto detto, riprendiamo l’esempio riportato in figura 48; pren-
dendo come valore della sfera il potere sul meridiano a 75°, quindi Sf +3,00, il potere
del cilindro sarà tale da consentire il passaggio dal potere +3,00 al potere +1,00 che
si trova sul meridiano con direzione 165°, quindi cil –2,00; l’asse del cilindro avrà
direzione 75° perché in quella direzione il potere del cilindro deve essere nullo, in
quanto il potere totale della lente è già stato raggiunto con la sola sfera, pertanto
ax 75°; per cui la ricetta definitiva sarà: Sf +3,00 cil –2,00 ax 75°.
Prendendo invece come potere della sfera il potere sull’altro meridiano principale con
direzione 165°, otterremo Sf +1,00; il potere del cilindro sarà tale da consentire il pas-
2. Ottica geometrica 48

saggio dal potere +1,00 al potere +3,00 che si trova sul meridiano con direzione 75°,
quindi cil +2,00; l’asse del cilindro avrà direzione 165° perché in quella direzione il
potere del cilindro deve essere nullo, in quanto il potere totale della lente è già stato
raggiunto con la sfera, pertanto ax 165°; per cui la ricetta sarà: Sf +1,00 cil +2,00 ax 165°,
che è la trasposta dell’esempio proposto.
A conclusione del discorso sulle ricette delle lenti astigmatiche diremo che, tra le
altre tipologie, le Bicilindriche (ad assi perpendicolari) sono importanti perché la
loro ricetta rappresenta la sintesi analitica della lettura che si ha al frontifocometro
quando viene misurato il potere della lente astigmatica; le Pianotoriche non hanno
un riscontro pratico ma solo teorico (per capire la geometria della Sferotorica); le
Sferotoriche sono importanti perché è con questa geometria che si costruiscono og-
gigiorno le lenti astigmatiche.

2.10 Lenti prismatiche e sistemi di riferimento

Nei paragrafi precedenti, ogni volta che si è reso necessario riportare una direzione
(linea focale della lente, rappresentazione grafico simbolica, rappresentazione grafi-
ca effettiva ecc.) abbiamo sempre posizionato lo zero a destra.
Ciò è stato fatto per semplicità ma, nello scrivere la ricetta di una lente e in tutta
l’Ottica oftalmica in generale, la posizione dello zero varia in funzione del partico-
lare sistema di riferimento usato; in Ottica oftalmica si usano due sistemi di riferi-
mento:
il sistema T.A.B.O. (Technischer Ausschus fur Brillen Optik, proposto nel 1904 ed
adottato nel 1921 dal Council of British Ophthalmologists) ed il sistema INTERNA-
ZIONALE (proposto già dal 1874 ed adottato dal Congresso Internazionale di Napoli
nel 1911 e detto anche Axint per l’annotazione dell’asse dell’astigmatismo).
Gli schemi di entrambi i sistemi sono riportati in figura 49 (N.B.: lo schema si disegna
come se avessimo il paziente di fronte):
Nel sistema T.A.B.O. lo zero, per i due occhi, è posizionato a destra (quindi nasale per
O.D. e temporale per O.S.) e per andare da 0° a 180° si ruota in senso antiorario; nel
sistema INTERNAZIONALE lo zero è nasale e le rotazioni sono per l’O.S. in senso
orario e per l’O.D. in senso antiorario: è pertanto evidente che le differenze tra i due
sistemi si riscontrano solo per l’occhio sinistro.
Pertanto la frase: “Occhio Sinistro Sistema T.A.B.O.” si sintetizza con l’acronimo

Figura 49. Sistemi di riferimento T.A.B.O. e INTERNAZIONALE


2. Ottica geometrica 49

O.S.S.T, mentre la frase “Occhio Sinistro Sistema INTERNAZIONALE” con l’acro-


nimo O.S.S.I.
Il passaggio di una prescrizione da un sistema all’altro si effettua lasciando inaltera-
ti i valori dei poteri (di sfera e del cilindro), mentre la direzione dell’asse del nuovo
sistema si otterrà sottraendo a 180° il valore della direzione dell’asse del sistema di
partenza; il seguente esempio chiarisce quanto detto:
– data la prescrizione in Sistema T.A.B.O.
O.S.S.T. Sf -1,25 cil -0,75 ax 120°
– essa equivale alla prescrizione nel Sistema INTERNAZIONALE
O.S.S.I. Sf -1,25 cil -0,75 ax 60°
dove la direzione dell’asse della seconda ricetta è ottenuta dalla differenza
(180° - 120°) = 60°.
Quando la direzione è 90° o 180° allora i due sistemi sono esattamente equivalenti,
come dimostra il seguente esempio di figura 50:
a) data la ricetta
O.S.S.I. Sf +2,00 cil +3,00 ax 90° (o 180°) la sua rappresentazione grafico simbolica
è quella in figura 50a
b) data la ricetta
O.S.S.T. Sf +2,00 cil +3,00 ax 90° (o 180°) la sua rappresentazione grafico simbolica
è quella in figura 50b
Come si vede le due rappresentazioni riportate in figura 50 sono identiche.
Se invece consideriamo l’occhio sinistro in generale, esulando dal caso particola-
re precedente, occorre specificare quale sistema vogliamo adottare, perché dall’uno
all’altro le cose cambiano molto, infatti consideriamo la figura 51 e le seguenti ri-
cette:
a) O.S.S.I. Sf +2,00 cil +3,00 ax 60° la sua rappresentazione grafico simbolica è quella
in figura 51a
b) O.S.S.T. Sf +2,00 cil +3,00 ax 60° la sua rappresentazione grafico simbolica è quella
in figura 51b

Figura 50. Coincidenza del sistema T.A.B.O. e INTERNAZIONALE nelle direzioni 90° e 180°

Figura 51. Rappresentazione grafico simbolica di ricette Sferocilindriche nel sistema INTERNAZIONALE
e T.A.B.O.
2. Ottica geometrica 50

Come si vede le due rappresentazio-


ni riportate in figura 51 invece con-
ducono a situazioni completamente
diverse, che non si riferiscono assolu-
tamente a lenti equivalenti; infatti
se la ricetta a) della figura 51 fosse
scritta nel sistema T.A.B.O. sarebbe
O.S.S.T. Sf +2,00 cil +3,00 ax 120°
Un’altra convenzione, semplice Figura 52. Suddivisione dell’occhio nella zona temporale
quanto importante, è stabilire la e nasale
zona nasale e temporale per cia-
scun occhio. Il posizionamento di queste zone, che, lo ripetiamo, viene riportato
come se avessimo di fronte il paziente, risulterà utile in seguito quando, ad esempio,
dovremo riportare l’effetto prismatico di una lente oppure il decentramento del suo
centro ottico ecc.; essa è schematizzabile così come riportato in figura 52, presuppo-
nendo di dividere l’occhio a metà con un meridiano verticale.

2.11 La prescrizione prismatica

Nel par. 2.6.2 abbiamo appreso che un prisma immerso in aria è un deviatore di ver-
genza ossia un mezzo ottico che imprime, alla radiazione che lo attraversa, una rota-
zione o deviazione rispetto alla direzione di incidenza. Se poi il prisma è immerso in
un mezzo con indice di refrazione assoluto minore di quello del prisma stesso, allora
tale deviazione o rotazione è diretta verso la sua base; sempre nel par. 2.6.2 abbiamo
anche visto la formula con cui è possibile calcolare tale deviazione.
La conoscenza della sola deviazione non è però sufficiente a fornire una informazio-
ne completa del comportamento del prisma, in quanto essa si produrrà sul piano che
contiene l’asse del prisma (cioè il comportamento di un prisma con asse verticale
sarà ben diverso da quello che avrebbe se avesse l’asse orizzontale oppure obliquo)
e pertanto dovremo indicare la direzione di questo; ma pur con queste due indica-
zioni l’informazione non è ancora completa perché occorre anche stabilire in quale
posizione (o verso) si trova la base lungo la direzione dell’asse (ad esempio base alta
o bassa, oppure temporale o nasale).
Quindi la ricetta di una prescrizione prismatica dovrà tener conto di:
– deviazione prodotta: detta talvolta anche potenza del prisma, espressa in diottrie
prismatiche (simbolo Δ); corrisponde al modulo o entità della prescrizione; ricor-
diamo che si definisce diottria prismatica l’angolo al centro di una circonferenza

Figura 53. Rappresentazione della Figura 54. a) Possibili posizioni della base del prisma nel caso
prescrizione prismatica O.D. 4 Δ a di ricetta 2 Δ a 90°. b) Possibili posizioni della base del prisma
40° B.T. nel caso di ricetta O.D. 2 Δ a 140°
2. Ottica geometrica 51

che sottende un arco di 1 cm se il raggio è 1 m oppure è l’angolo di deviazione di


un prisma sottile che produce uno spostamento dell’immagine di un centimetro
quando il prisma è ad 1 metro (vedi par. 2.6.4)
– direzione dell’asse del prisma: corrisponde alla direzione della prescrizione
– posizione della base del prisma: corrisponde al verso della prescrizione.
Ad esempio la prescrizione prismatica O.D. 4 Δ a 40° B.T. è rappresentata dal disegno
in figura 53.
Nell’esempio di figura 53 si riassume il fatto che quando si pone un prisma davanti
all’occhio di un paziente, il corretto posizionamento richiede la conoscenza di tre
parametri:
– modulo o potenza del prisma (espressa in diottrie prismatiche Δ; 4 Δ nell’esempio)
– direzione o asse del prisma (espressa in gradi; 40° nell’esempio)
– posizione della base del prisma (base temporale B.T. o base nasale B.N.; B.T. nell’e-
sempio)
La deviazione prismatica è pertanto una grandezza vettoriale, dal momento che è
caratterizzata dalla conoscenza di tre parametri: modulo, direzione, verso.
Inoltre l’indicazione dei parametri precedenti deve sempre essere preceduta dalla
scelta del sistema di riferimento, T.A.B.O. od INTERNAZIONALE, se ci riferiamo
all’occhio sinistro; nel caso dell’esempio di figura 53 non è necessaria perché trattasi
dell’occhio destro.

2.12 Il sistema “360° protractor”

Specificare la posizione della base è di fondamentale importanza per i sistemi


T.A.B.O. ed INTERNAZIONALE; di ciò ne abbiamo già sottolineata l’importanza nel
par. 2.11 ma qui vogliamo ancora soffermarci fornendo alcuni esempi pratici; pren-
diamo la prescrizione prismatica 2 Δ a 90° (figura 54a); non specificare la posizione
della base nella prescrizione prismatica comporta l’indeterminazione che, nella di-
rezione 90°, questa possa essere in alto (prisma tratteggiato, di colore nero) oppure
in basso (prisma a linea continua, di colore rosso).
Anche nel caso di figura 54b, la cui ricetta è O.D. 2 Δ a 140°, non specificare la posizio-
ne della base nella prescrizione prismatica comporta l’indeterminazione che, nella
direzione 140°, questa possa essere temporale (prisma tratteggiato di colore nero)
oppure nasale (prisma a linea continua di colore rosso).
Esiste tuttavia un sistema di riferimento nel quale si omette l’indicazione relativa
alla posizione della base dell’effetto prismatico.
Si tratta del sistema “360° protractor”, proposto circa vent’anni fa negli Stati Uniti
d’America ed oggigiorno molto
in uso soprattutto nelle Aziende
costruttrici di lenti oftalmiche.
In questo sistema l’effetto com-
pensativo di un prisma è indivi-
duato, anche se in forma meno
diretta, mediante due soli para-
metri: la deviazione prismatica
e la direzione dell’asse; sembre-
rebbe questa una violazione del-
la regola fino a qui enunciata, Figura 55. a) Posizionamento della base del prisma nel
ma in realtà non è così perché sistema T.A.B.O. b) Posizionamento della base del prisma nel
nel sistema “360° protractor” si sistema “360° protractor”
2. Ottica geometrica 52

utilizza tutto l’angolo giro e quindi tutti i quattro quadranti del goniometro (e non
solo i primi due come nel T.A.B.O. e nell’INTERNAZIONALE) pertanto la posizione
della base cade esattamente laddove termina l’angolo indicato nella ricetta.
In questo sistema si riprende la convenzione del sistema T.A.B.O. circa la posizione
dello 0° nei due occhi e quindi lo 0° si pone a destra.
Nell’esempio di figura 55a si ha una ricetta prismatica per occhio sinistro in sistema
TABO: O.S.S.T. 4 Δ a 30° B.N. Per completezza è stata scritta anche la ricetta equiva-
lente nel sistema INTERNAZIONALE ma l’immagine in figura 55a si riferisce alla
ricetta nel sistema T.A.B.O.; si è ottenuta poi la corrispondente ricetta nel sistema
“360° protractor”, figura 55b, ricavando la direzione 30° + 180° = 210°. Infatti la stes-
sa ricetta nel sistema “360° protractor” sarà O.S. 4 Δ a 210°.
Se la ricetta iniziale fosse stata: O.S.S.T. 4 Δ a 30° B.T.; allora la ricetta nel nuovo
sistema “360° protractor” sarebbe stata semplicemente O.S. 4 Δ a 30°.
Come ulteriore esempio riportiamo la ricetta O.S.S.I. 3 Δ a 125° B.N. essa avrà come
ricette equivalenti negli altri sistemi O.S.S.T. 3 Δ a 55° B.N. ; 3 Δ a 235° (360° pro-
tractor)

2.13 Le lenti prismatiche

In precedenza abbiamo definito il prisma un deviatore di vergenza perché produce


una rotazione tra la direzione del raggio emergente e quella del raggio entrante. Tale
rotazione, detta anche angolo di deviazione δ (vedi par. 2.6.2), fa sì che, se il prisma è
immerso in aria o comunque in un mezzo con indice di refrazione assoluto minore del
prisma, il raggio uscente ruoti sempre verso la base del prisma stesso. L’immagine
di ciò che si osserva attraverso il prisma si forma spostata verso il vertice del prisma
(par. 2.6.3), rispetto all’asse visuale dell’occhio che osserva lo stesso oggetto ad oc-
chio nudo.
Una lente prismatica, tra le altre caratteristiche, riprende questo comportamento
di “spostare” l’immagine di ciò che si osserva, deviandola rispetto alla direzione
primaria di sguardo; una lente prismatica può quindi definirsi come: una lente che
oltre all’effetto compensativo dell’ametropia, con conseguente trasformazione di vergenza
e introduzione dell’ingrandimento trasversale dell’immagine, presenta anche un compor-
tamento tipico del prisma detto effetto prismatico, che consiste nel deviare l’immagine,
con conseguente suo spostamento.
Le lenti prismatiche non vanno quindi confuse con i prismi puri, ma in determinati
aspetti (la deviazione), questi due mezzi ottici possono essere equiparati tra loro. Si
conoscono due tipologie di lenti prismatiche: le lenti prismatiche per costruzione e le
lenti prismatiche per decentramento.

Figura 56. Effetto prismatico (δ ) di una lente


2. Ottica geometrica 53

2.13.1 La lente come combinazione di prismi


Quando un raggio di luce attraversa una lente secondo una direzione coincidente
con l’asse ottico di questa, per motivazioni ottiche che qui tralasciamo, la direzione
del raggio rifratto (uscente) rimane quella del raggio incidente, ossia il raggio che
attraversa la lente nel suo centro ottico O non subisce deviazione.
Quando però il raggio luminoso attraversa una lente in un punto O’ distante h dal
suo centro ottico O (tale distanza h è chiamata anche decentramento), subisce una
deviazione (o rotazione) rispetto alla sua direzione di incidenza; tale deviazione si
chiama effetto prismatico della lente e viene indicata con la lettera δ.
Quanto appena detto è riassunto nella figura 56.
Nella figura 56, il punto O è il centro ottico della lente, O’ il punto di incidenza del
raggio e, in pratica, coincide con il centro pupillare del soggetto; h è la distanza,
rispetto all’asse ottico, alla quale incide il raggio sulla lente (quindi rappresenta il
decentramento tra centro ottico O e centro pupillare O’), infine f’ è la focale imma-
gine della lente.
Sia per la lente positiva che negativa, l’angolo δ, chiamato effetto prismatico, è misu-
rabile in radianti, esprimendo h ed f’ in metri, con l’espressione:

e quindi

ricordando che

Se però vogliamo misurare l’angolo in diottrie prismatiche (Δ), unità di misura più
consueta in Ottica Oftalmica, dobbiamo esprimere il decentramento h in millimetri
(mm) e dividere tutta l’espressione per 10, cioè:

(formula di Prentice)

da cui si ricava il decentramento h in mm

La formula di Prentice indica che l’effetto prismatico indotto da una lente è diretta-
mente proporzionale alla distanza del raggio incidente rispetto all’asse ottico (quin-
di rispetto al decentramento h tra centro pupillare e centro ottico) ed alla potenza Fn
della lente, misurata in diottrie D. La potenza della lente viene considerata in valore
assoluto per non avere un effetto prismatico di segno negativo quando la lente ha
potere negativo.
Invece il decentramento h è direttamente proporzionale all’effetto prismatico da
introdurre ed inversamente proporzionale alla potenza della lente.
La legge di Prentice testimonia il fatto che la lente introduca una deviazione ai raggi
che la attraversano fuori dal suo asse ottico; tale deviazione determina uno sposta-
mento dell’immagine rispetto alla direzione dell’asse visuale dell’occhio che osserva
lo stesso oggetto ad occhio nudo. Lo spostamento dell’immagine (verso l’alto o verso
il basso) dipende dal segno del potere della lente e dalla provenienza dei raggi, che
possono incontrare la lente sopra o sotto il suo asse ottico.
Se ricordiamo quanto asserito nel par. 2.6.2 a riguardo del prisma, definito come de-
viatore di vergenza, possiamo rappresentare una lente con un insieme di due prismi,
2. Ottica geometrica 54

Figura 57. a) Lente positiva come insieme di due Figura 58. a) Lente prismatica positiva per
prismi abbinati base-base. b) Lente negativa costruzione. b) Lente prismatica negativa per
come insieme di prismi abbinati spigolo-spigolo costruzione

distinguendo la situazione tra lenti positive e negative (naturalmente il discorso è in-


vertibile, nel senso che due prismi possono rappresentare una lente), vedi figura 57.
Nella figura 57a la deviazione dell’immagine data da una lente positiva, è rappresen-
tabile dall’abbinamento di due prismi con la base rivolta verso l’asse ottico.
Nella figura 57b la deviazione dell’immagine di una lente negativa, è rappresentabi-
le con l’abbinamento di due prismi con il vertice sull’asse ottico (ovvero con la base
opposta).
Naturalmente ribadiamo il fatto, estremamente importante, che se la radiazione
giunge sulla lente con una direzione coincidente con l’asse ottico allora l’effetto
prismatico della lente sarà δ = 0 perché è nulla la distanza h; quindi in generale
quando l’asse visivo del soggetto passa per il centro ottico della lente non c’è spostamento
dell’immagine rispetto all’asse visivo stesso.

2.14 Le lenti prismatiche per costruzione

Come si è detto nel par. 2.13 le lenti prismatiche possono essere realizzate in due
modi; in quelle realizzate “per costruzione” l’effetto prismatico è inserito nella len-
te direttamente nella fase di costruzione, realizzando uno stampo in cui gli spessori
siano differenziati, anche in punti simmetrici della lente, in maniera da “creare” la
presenza fisica di un prisma in essa, posteriormente se la lente è positiva, caso a) di
figura 58, anteriormente se negativa, caso b).
Nella figura 58 si vede che, nella lente per costruzione, l’effetto prismatico è deter-
minato da una componente fissa δp, dovuta al prisma (calcolabile con l’espressione
δp = α (n’1 - 1), con n’1 indice del prisma, cui va a sommarsi il contributo variabile
dovuto alla lente, che si calcola con la relazione di Prentice.
Con una lente così fatta il portatore percepirà sempre un effetto prismatico,
quando il suo asse visivo passerà per il centro ottico O della lente; inoltre la realiz-
zazione di una lente di questo tipo è compito esclusivo dell’Azienda costruttrice,
all’Ottico spetta montarla correttamente sull’occhiale.
A parità di diametro, potere ed effetto prismatico, la presenza materiale del prisma
rende questa lente molto meno estetica e funzionale (a causa del maggior spessore
e peso) della lente per decentramento (che vedremo successivamente), ma il ricorso
alla lente prismatica per costruzione è obbligatorio quando:
– il decentramento è eccessivo; si è visto che il decentramento h è direttamente pro-
porzionale all’effetto prismatico da introdurre ed inversamente proporzionale alla
2. Ottica geometrica 55

potenza della lente; inoltre si dimostra che per effettuare un decentramento pari
ad h, tra centro ottico e centro pupillare, occorre ridurre il diametro della lente
iniziale di una quantità uguale a 2h (vedremo la dimostrazione, puramente geome-
trica, nel par. 2.15, quello dedicato alle lenti prismatiche per decentramento).
Se volessimo quindi realizzare con il decentramento un forte effetto prismatico, in
una lente di bassa potenza, dovremmo decentrare molto la lente (h molto grande)
e quindi ridurre il diametro della lente di partenza di una quantità 2h molto ele-
vata, che renderebbe il diametro della lente finita troppo piccolo peché essa possa
essere inserita in una montatura normale (o tradizionale);
– la lente non ha potere nella direzione in cui vogliamo realizzare l’effetto prisma-
tico; in questo caso è impossibile applicare la formula di Prentice; ad esempio la
lente: cil +2,00 ax 90° (cilindro puro) non permette di realizzare una compensazio-
ne prismatica a 90° per decentramento, essendo presente su tale meridiano potere
nullo;
– la lente è asferica; in tal caso, mancando un centro ottico fisso, è impossibile valu-
tare con esattezza h e quindi non è applicabile la legge di Prentice in modo univo-
co.

2.15 Lenti prismatiche per decentramento (o molatura eccentrica)

Una lente (monofocale o astigmatica) dopo la sua fabbricazione ha forma general-


mente circolare e, nel rispetto della Normativa italiana ed europea, il suo centro ot-
tico O coincide con il centro geometrico O’ (si fa presente che per centro geometrico
si intende il centro del contorno che delimita la forma della lente). In realtà esistono
anche lenti che dopo la fabbricazione hanno forma lievemente ellittica ma esse sono
lenti speciali, che quindi esulano da questa trattazione di Ottica geometrica di base.
Se poi, ponendo la lente davanti all’occhio del soggetto, facciamo coincidere il centro
pupillare di quest’ultimo con il centro geometrico O’ (da ora in avanti identifiche-
remo questi due punti) avremo che l’asse visivo passerà anche dal centro ottico O

Figura 59. Osservazione attraverso il centro ottico di una lente positiva e negativa

Figura 60. Effetto della molatura eccentrica in una lente positiva


2. Ottica geometrica 56

della lente ed il portatore non percepirà nessun effetto prismatico in quanto, dalla
formula di Prentice, h = 0.
Quanto esposto può riassumersi nella figura 59.
Nella parte sinistra della figura 59 è rappresentata la lente di forma circolare, dopo
la sua costruzione, con i centri O ed O’ coincidenti per rispetto della Normativa
(in realtà è ammesso un piccolo errore nella coincidenza ma si tratta di uno scarto
dell’ordine dei decimi di millimetro); nella parte destra la sezione di una lente posi-
tiva, caso a) supponendola Pianoconvessa, e di una lente negativa, caso b) supposta
Biconcava.
In entrambi i casi comunque non abbiamo effetto prismatico perché l’asse visivo,
passando per O, non incontra i prismi che rappresentano la lente (o meglio li incon-
tra in una zona in cui i prismi non producono nessun effetto e cioè: la base comune
nel caso della lente positiva, il vertice comune nel caso della lente negativa).
Se moliamo la lente precedente, asportandone una parte di spessore costante lungo
tutta la sua circonferenza (molatura concentrica), otterremo sicuramente una lente
di diametro più piccolo ma con ancora O ed O’ coincidenti per cui l’osservatore, al
quale si faccia coincidere il suo centro pupillare con O’, non percepirà nessun effetto
prismatico in quanto utilizza la lente nelle stesse condizioni della figura precedente.
Adesso consideriamo una lente sferica positiva (circonferenza tratteggiata nella fi-
gura 60) nelle tre sezioni a) Pianoconvessa; b) Biconvessa isoscele; c) Menisco po-
sitiva e riduciamone il diametro, mediante molatura su tutta la sua circonferenza,
facendo però in modo che la parte asportata passi da un valore nullo ad un valore
massimo, che viene raggiunto nel punto della lente diametralmente opposto a quello
in cui è iniziata la molatura; successivamente l’entità della molatura decresce per
ritornare a zero nel punto di partenza (molatura eccentrica). Così facendo il centro
della nuova lente molata O’ (circonferenza non tratteggiata di figura 60) non coinci-
derà più con il centro ottico O della lente iniziale, ma anzi questi saranno distanziati
di una quantità h detta appunto decentramento.
Nella figura 60 abbiamo indicato rispettivamente con O il centro ottico e con O’
il centro geometrico della lente, quest’ultimo coincide con il centro pupillare del
soggetto.
Se nella lente molata facciamo passare l’asse visivo del portatore dal punto O’, ossia
se facciamo coincidere il centro pupillare del soggetto con tale punto, avremo intro-
dotto nel portatore di questa lente un effetto prismatico perché adesso il suo asse
visivo attraversa un prisma e non più le basi o i vertici dei prismi che rappresentano
le lenti; in altre parole si può dire che, nelle lenti prismatiche per decentramento, la
compensazione prismatica si ottiene decentrando la lente (il suo centro ottico O) ri-
spetto all’asse visivo del soggetto, ovvero decentrando il centro pupillare O’ rispetto
al centro ottico O di una quantità h, detta decentramento.
L’entità dell’effetto prismatico introdotto è calcolabile con la già illustrata formula
di Prentice

mentre il decentramento h, in mm, si otterrà con la formula inversa

E’ importante rilevare che anche il decentramento h è grandezza vettoriale,


così come detto nel par. 2.11 a riguardo dell’effetto prismatico δ.
Nella pratica oftalmica si parte normalmente dalla conoscenza della correzione pri-
smatica, nonché dal potere della lente oftalmica, pertanto l’entità del decentramen-
2. Ottica geometrica 57

to, misurato in mm, verrà calcolata utilizzando la seconda delle precedenti espres-
sioni.
Ripetiamo adesso la stessa operazione di molatura eccentrica su una lente sferica
negativa (circonferenza tratteggiata nella figura 61) nelle tre sezioni a) Pianoconca-
va; b) Biconcava isoscele; c) Menisco negativa.
Anche in figura 61 il significato di O ed O’ è lo stesso di figura 60 ed anche in questo
caso si sottolinea come siano valide ancora le considerazioni fatte sull’effetto pri-
smatico introdotto al portatore con la molatura eccentrica. Infatti pure stavolta egli
avrà il suo centro pupillare (considerare la circonferenza non tratteggiata di figura
61) non più coincidente con il centro ottico della lente (circonferenza tratteggiata
di figura 61); analogamente sono altresì valide le formule per il calcolo dell’effetto
prismatico e del decentramento viste in precedenza.
È fondamentale notare che la conseguenza della molatura eccentrica si differenzia a
seconda che la lente sia positiva o negativa:
– in lenti positive, l’effetto prismatico (il prisma) introdotto ha la base dalla parte
della molatura (dove la molatura è maggiore), quindi l’immagine percepita, spo-
standosi verso l’apice del prisma, verrà deviata dalla parte opposta a quella dove
è stata molata la lente;
– in lenti negative, l’effetto prismatico introdotto ha la base dalla parte opposta a
quella della molatura (dove la molatura è maggiore), quindi l’immagine percepita,

Figura 61. Effetto della molatura eccentrica in una lente negativa

Figura 62. Posizionamento della base dopo molatura eccentrica in lente


positiva e negativa
2. Ottica geometrica 58

spostandosi verso l’apice del prisma, verrà deviata dalla parte in cui è stata molata
la lente.
Se ad esempio molassimo temporalmente una lente positiva otterremmo un prisma
con base temporale e le immagini sarebbero deviate nasalmente, mentre se la lente
è negativa otterremmo un prisma con la base nasale e l’immagine sarebbe deviata
temporalmente; analogamente molando nasalmente una lente positiva otterremo un
prisma con la base nasale con immagine spostata temporalmente mentre se la lente è
negativa otterremo un prisma con base temporale ed immagine spostata nasalmente.
Soffermiamo ulteriormente l’attenzione sulle figure 60 e 61, che riguardano la mo-
latura eccentrica.
Abbiamo detto che, nel caso di lente positiva, la base dell’effetto prismatico si collo-
ca dalla parte della molatura e quindi, dal momento che nell’esempio la molatura è
stata eseguita a 90° in basso, l’effetto prismatico ha asse verticale con base bassa; nel
caso di lente negativa la base dell’effetto prismatico si posiziona dalla parte opposta
a quella della molatura e quindi, dal momento che nell’esempio la molatura è stata
eseguita a 90° in basso, l’effetto prismatico ha asse verticale con base alta. Possiamo
riassumere tutto quanto detto nella figura 62.
Se consideriamo convenzionalmente O’, centro pupillare, come punto fisso, mentre
il centro ottico O si sposta rispetto ad esso, allora i casi a), b), c), relativi alla lente
positiva, della figura 62, evidenziano la considerazione che: nella lente positiva il
centro ottico O si “sposta”, rispetto ad O’, verso la base dell’effetto prismatico introdotto
nella lente; i casi a’), b’), c’), della lente negativa, ci illustrano invece che nella lente
negativa il centro ottico O si “sposta”, rispetto ad O’, verso il vertice dell’effetto prismati-
co introdotto (oppure dalla parte opposta alla base).
Ripetiamo che quanto affermato è un criterio puramente convenzionale, determi-
nato dalla consuetudine di considerare il punto O’ come punto di riferimento; nella
realtà è il centro ottico che non si sposta nella lente, quando questa viene molata
eccentricamente.
Da quanto sopra esposto, il lettore avrà capito che, a differenza di quello che si è
detto per le lenti prismatiche per costruzione in cui l’effetto è inserito in fase di
costruzione della lente escludendo l’intervento dell’Ottico, la molatura eccentrica
è una operazione di pura pertinenza professionale dell’Ottico, il quale, avvalendosi
della tecnologia tradizionale (mola manuale) o più evoluta (mola automatica), ese-
guirà questo particolare tipo di lavorazione nella lente.
Concludiamo il paragrafo fornendo la dimostrazione di quanto asserito sul rapporto
tra decentramento ed entità di molatura maggiore.
Consideriamo la figura 63, dove con linea tratteggiata si è indicata la lente iniziale
(prima della molatura), con tratto continuo quella finale (dopo la molatura) e con O’ i
rispettivi centri geometrici (prima e dopo la molatura).
Inoltre nella figura 63 abbiamo indicato con:
– O’i = centro geometrico della lente iniziale (prima
della molatura); esso coincide con il centro ottico
della lente
– O’f = centro geometrico della lente finale (dopo la
molatura); esso coincide con il centro pupillare del
portatore, vale a dire da lì passerà l’asse visivo di
quest’ultimo
– h = decentramento, ossia spostamento tra O’i(O) ed O’f
– AO’i = r = raggio della lente iniziale Figura 63. Decentramento (h) e
– AB = φi= 2r = diametro lente iniziale relativa molatura (BB’)
2. Ottica geometrica 59

– AO’f = (r – h) = raggio della lente finale


– AB’ = φf = 2⋅(r – h) = diametro della lente finale.
Se la lente iniziale ha raggio r, dopo la molatura con la quale si è introdotto il decen-
tramento h, avrà raggio (r – h); la porzione maggiore di lente BB’, che è stata asportata,
molandola, è pertanto rappresentata dalla differenza dei diametri delle due lenti pri-
ma e dopo la molatura, quindi si ha BB’ = AB - AB’ = 2r - 2(r - h) = 2h
E così rimane dimostrato che la quantità di molatura (maggiore) è il doppio del de-
centramento da introdurre nella lente per ottenere l’effetto prismatico voluto e di
conseguenza la lente molata finale avrà un diametro Øf pari a Øf = Øi - 2h.
Ad esempio: consideriamo una lente di diametro iniziale Øi = 60 mm, nella quale sia
stato introdotto un decentramento di 10 mm tra centro ottico O e centro pupillare O’;
il diametro della lente dopo la molatura sarà Øf = 60 – (2⋅10) = 40 mm.
Il ragionamento fino a qui seguito comporta che, una volta molata la lente, occor-
re scegliere la montatura adatta al suo diametro ed, essendo quest’ultimo ridotto,
la montatura può risultare di calibro troppo piccolo o comunque non tradizionale.
Nella pratica commerciale però non si fa così ma, normalmente, si parte dalla scelta
della montatura. Sarà quindi compito dell’Ottico, mediante formule semi empiriche
oppure usando il regolo, calcolare il diametro minimo della lente da ordinare, che
una volta molata risulti di un diametro tale da poter essere inserita nella montatura
prescelta.
Il metodo da noi seguito, quello del calcolo del diametro finale della lente molata,
rimane indubbiamente valido sotto il profilo teorico e costituisce anche un criterio
per stabilire l’ordinazione o meno di una lente prismatica per costruzione (al riguar-
do possiamo introdurre il criterio, senza però elevarlo al rango di regola assoluta,
che quando il diametro della lente molata è inferiore a 50 mm allora sarà opportuno
ordinare una lente prismatica per costruzione).

2.16 Esempi di ricette prismatiche

Completando il paragrafo sulla teoria delle lenti prismatiche, forniamo adesso alcu-
ni esempi relativi a lenti prismatiche, suddividendo i vari casi che si possono presen-
tare in relazione alla correzione ottica del paziente:
a) correzione prismatica in lente monofocale (sferica)
sia data la seguente prescrizione O.S.S.T. Sf +4,00 D
1 Δ a 45° B.N.
calcolare il decentramento necessario per ottenere l’effetto prismatico richiesto.
Il decentramento è grandezza vettoriale (par. 2.15) per cui, per determinarlo in modo
univoco, dobbiamo individuarne modulo, direzione e verso.
Per quanto concerne il modulo, dalla formula inversa della relazione di Prentice (par.
2.15 ), si ha:

La direzione del decentramento sarà la stessa dell’effetto prismatico, in quanto la


lente è sferica (stesso potere in tutti i meridiani), quindi 45°.
Il verso del decentramento sarà nasale poiché il potere della lente è positivo nella
direzione 45° dell’effetto prismatico (par. 2.15).
Riassumendo, l’espressione del decentramento sarà data dalla seguente scrittura
vettoriale h = 2,5 mm a 45° lato nasale.
Vediamo il disegno della lente iniziale e finale, figura 64a.
2. Ottica geometrica 60

In figura 64b) è riportata invece la lettura al frontifocometro della lente.


(in questo caso la lente subirebbe una riduzione di diametro BB’ pari a 5 mm, vedi
par. 2.15, per cui, partendo da un diametro congruo della lente iniziale, tipo 65 mm
o 70 mm, la lente molata può essere facilmente inserita in una montatura tradizio-
nale; quindi in questo caso non è necessario ricorrere ad una lente prismatica per
costruzione).
– sia data la seguente prescrizione O.S.S.T. Sf -4,00 D
1 Δ a 45° B.N.
calcolare il decentramento necessario per ottenere l’effetto prismatico richiesto.
Il decentramento è grandezza vettoriale (par. 2.15) per cui, per determinarlo in modo
univoco, dobbiamo individuarne modulo, direzione e verso.
Per quanto concerne il modulo, dalla formula inversa della relazione di Prentice (par.
2.15), si ha:

La direzione del decentramento sarà la stessa dell’effetto prismatico, in quanto la


lente è sferica (stesso potere in tutti i meridiani), quindi 45°.
Il verso del decentramento sarà temporale poiché il potere della lente è negativo e
nella direzione 45°, che è quella dell’effetto prismatico (par. 2.15).
Riassumendo, l’espressione del decentramento sarà data dalla seguente scrittura
vettoriale h = 2,5 mm a 45° lato temporale.
Vediamo il disegno della lente iniziale e finale, figura 65a.
La lettura al frontifocometro della lente è quella riportata in figura 65b).
Anche in questo caso valgono le considerazioni sul diametro finale della lente, con
conseguente scelta della montatura, fatte nell’esercizio precedente.
È importante notare che nella lettura al frontifocometro l’immagine della mira,
allorquando leggiamo una lente prismatica, si sposta sempre dalla parte della base
dell’effetto prismatico della lente: questa è una condizione generale, la cui motivazio-
ne, è insita nello schema ottico dello strumento.

Figura 64.
a) Molatura eccentrica di una lente di ricetta O.S.S.T. Sf +4,00; 1Δ a 45° B.N.
b) Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.S.S.T. Sf +4,00; 1Δ a 45° B.N.
2. Ottica geometrica 61

Figura 65. a) Molatura eccentrica di una lente di ricetta O.S.S.T. Sf -4,00;


1Δ a 45° B.N. b) Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.S.S.T. Sf
-4,00; 1Δ a 45° B.N.

b) correzione prismatica in lente astigmatica, con molatura in direzione principale del-


la lente.
In questo caso è noto il potere della lente nella direzione dell’effetto prismatico
o del decentramento, per cui non si ha difficoltà ad applicare la legge di Prentice
nella direzione voluta; questo caso si risolve quindi come se la lente in quella
direzione fosse monofocale e pertanto ripetendo il ragionamento esposto nel caso
a) del par. 2.16, quello della correzione prismatica con lente monofocale).
– sia data la seguente prescrizione O.S.S.I. Sf +5,00 cil -6,50 ax 35°
4 mm a 35° lato temporale
calcolare l’effetto prismatico introdotto con tale decentramento.
La lente ha un decentramento di 4 mm tra centro ottico O e geometrico (o pupillare)
O’, pertanto occorre ricavare l’effetto prismatico δ, introdotto con tale decentramen-
to; il suo modulo è dato dalla formula di Prentice:

e considerando che F35° = +5,00 D avremo:

La direzione dell’effetto prismatico è la stessa del decentramento, in quanto la dire-


zione è principale, quindi 35°.
La base dell’effetto prismatico sarà temporale poiché il potere della lente nella dire-
zione 35° è positivo e quindi segue il verso del decentramento (par. 2.15).
Riassumendo, l’espressione dell’effetto prismatico sarà indicata dalla seguente
scrittura vettoriale δ = 2 Δ a 35° base temporale (B.T.).
2. Ottica geometrica 62

Figura 66. a) Molatura eccentrica di una lente di ricetta O.S.S.I. Sf +5,00 cil -6,50 ax 35°;
4mm a 35° lato temporale. b) Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.S.S.I. Sf
+5,00 cil -6,50 ax 35°; 4mm a 35° lato temporale

Vediamo il disegno della lente iniziale e finale, figura 66a.


Nella figura 66b è riportata la lettura al frontifocometro della lente.
– è data la seguente prescrizione O.S.S.I. Sf +5,00 cil -6,50 ax 35°
2 Δ a 125° base temporale (B.T.)
calcolare il decentramento necessario per ottenere l’effetto prismatico richiesto.
Per quanto concerne il modulo, dalla formula inversa della relazione di Prentice (par.
2.15), si ha:

e considerando che F125° = -1,50 D avremo:

La direzione del decentramento è la stessa dell’effetto prismatico, in quanto la dire-


zione è principale, quindi 125°.
Il verso del decentramento sarà nasale poiché il potere della lente è negativo nella
direzione 125° (par. 2.15).
Riassumendo, l’espressione del decentramento sarà data dalla seguente scrittura
vettoriale h ≅ 13,3 mm a 125° lato nasale.
Vediamo il disegno della lente iniziale e finale, riportato in figura 67a.
Nella figura 67b si è riportata la lettura al frontifocometro della lente.
La lente molata ha un diametro ridotto di circa 26,6 mm rispetto al diametro inizia-
le; è decisamente troppo piccola, quindi sarà opportuna l’ordinazione di una lente
prismatica per costruzione, altrimenti la lente che rimane ha un diametro troppo
ridotto che non le consente di essere inserita in una montatura tradizionale.
c) correzione prismatica in lente astigmatica, con molatura in direzione non principale
della lente
Questa volta il potere della lente nella direzione dell’effetto prismatico o del decen-
2. Ottica geometrica 63

Figura 67. a) Molatura eccentrica di una lente di ricetta O.S.S.I. Sf +5,00 cil -6,50 ax
35°; 2Δ a 125° B.T. b) Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.S.S.I. Sf +5,00
cil -6,50 ax 35°; 2Δ a 125° B.T.

Figura 68. Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.D. Sf +3,00 cil -2,00 ax 50°;
2Δ a 80° B.N.

tramento non è nota, in quanto si tratta di una direzione qualunque (non principale);
pertanto l’uso diretto della relazione di Prentice non è possibile.
Questa volta la metodologia di risoluzione richiede la scomposizione del vettore dato
(effetto prismatico o decentramento) lungo le direzioni principali della lente (in cui
si conosce il potere) e successivamente applicare la legge di Prentice due volte, una
per ciascuna direzione principale.
Il metodo è però complesso e richiede conoscenze di trigonometria che esulano dallo
scopo di questo testo.
Nell’esempio che segue, che rientra nel caso c), non sarà effettuato quindi lo svolgi-
mento analitico ma sarà riportata semplicemente la lettura al frontifocometro della
lente (figura 68).
– è data la seguente prescrizione O.D. Sf +3,00 cil -2,00 ax 50°
2 Δ a 80° base nasale (B.N.)
2. Ottica geometrica 64

2.17 La convenzione degli ottici

In precedenza, per esprimere il potere nominale di una lente sottile immersa in aria,
abbiamo calcolato il potere dei diottri sferici che la costituiscono, utilizzando la con-
venzione gaussiana, vedi par. 2.8.4.
Con questa convenzione, lo ricordiamo, il potere F di una superficie rifrangente di
forma sferica si valuta con la formula

dove si è indicato con:


n’1 = indice di refrazione assoluto dello spazio immagine
n1 = indice di refrazione assoluto dello spazio oggetto
r = raggio di curvatura del diottro sferico.
Pertanto nella convenzione gaussiana, al numeratore della frazione che esprime il
potere del diottro sferico, avremo la differenza tra l’indice di refrazione assoluto
dello spazio immagine e l’indice di refrazione assoluto dello spazio oggetto.
Inoltre in questa convenzione il segno del raggio di curvatura r viene attribuito se-
condo questo criterio:
– r > 0 (positivo) se il centro C è a destra del vertice V del diottro
– r < 0 (negativo) se il centro C è a sinistra del vertice V del diottro

Nella realtà però, soprattutto nell’ambito delle lenti oftalmiche, viene adottata una
convenzione diversa, detta convenzione delle lenti o convenzione degli Ottici.
In questa nuova convenzione, partendo dal presupposto che la lente è immersa in
aria, nella frazione che esprime il potere del diottro, al numeratore scriveremo sem-
pre per primo l’indice di refrazione assoluto della lente n’1, ossia useremo l’espres-
sione:

per calcolare il potere sia della prima che della seconda faccia (n’1 è l’indice della
lente); al denominatore, come ovvio, c’è il raggio, il cui segno questa volta viene at-
tribuito secondo il seguente criterio:
– r > 0 (positivo) quando la superficie è convessa
– r < 0 (negativo) quando la superficie è concava.
Riportiamo un esempio per chiarire meglio quanto detto al riguardo delle due con-
venzioni; consideriamo la lente biconvessa di figura 69 immersa in aria e di indice di
refrazione assoluto n’1 = 1,5 ed i cui i raggi delle facce (diottri) hanno rispettivamen-
te i valori assoluti, | r1 | = 10 cm ed | r2 | = 20 cm.

Figura 69. Applicazione della convenzione degli Ottici per una


lente
2. Ottica geometrica 65

Calcoliamo il potere nominale della lente utilizzando le convenzioni precedente-


mente illustrate:
1) con convenzione gaussiana
Per il segno dei raggi avremo:
– r1 > 0 (positivo) perché il suo centro C1 è a destra del vertice V1
– r2 < 0 (negativo) perché il suo centro C2 è a sinistra del vertice V2.
Pertanto il potere dei diottri sarà, ricordando di esprimere il raggio in metri:

(primo diottro potere positivo, convesso)

(secondo diottro potere positivo, convesso),

quindi il potere della lente biconvessa sarà:


Fn = F1 + F2 = +5 + 2,5 = +7,5 D.

2) con convenzione delle lenti o degli Ottici


Per il segno dei raggi avremo:
– r1 > 0 (positivo) perché il primo diottro è convesso
– r2 > 0 (positivo) perché il secondo diottro è convesso.
Pertanto il potere dei diottri sarà, ricordando di esprimere il raggio in metri:

(primo diottro potere positivo, convesso)

(secondo diottro potere positivo, convesso),

quindi il potere della lente biconvessa sarà:


Fn = F1 + F2 = +5 + 2,5 = +7,5 D.
Come era evidente il potere della lente non cambia, così come non cambia quello dei
diottri che la costituiscono.
Si noterà inoltre che le due convenzioni differiscono a livello formale ma non nel
risultato; solo sulla seconda faccia della lente si ha differenza tra le due convenzioni,
mentre per la prima superficie l’espressione con cui si calcola il potere è la stessa.
3. Acuità visiva 67

Capitolo 3 – Acuità visiva


L. Mele, P. Troiano

3.1 Introduzione

Quando osserviamo un oggetto e non vogliamo limitarci a notare una massa


confusa, ma siamo interessati alle sue caratteristiche, dobbiamo percepirne i singoli
particolari.
Un oggetto può essere visto se:
a) emette, riflette o trasmette la radiazione del visibile (400÷760 nm),
b) se queste radiazioni possiedono un livello energetico sufficiente ad innescare il
processo visivo,
c) ha una sufficiente differenza di luminanza rispetto allo sfondo,
d) se l'oggetto o i suoi dettagli hanno dimensioni sufficientemente grandi (Fig.1)
per stimolare in maniera adeguata le unità recettive retiniche.

Fig.1: Varie dimensioni dell’oggetto

3.2 Definizione di acuità visiva

L’acuità visiva, genericamente, viene intesa come la capacità del sistema visivo
legato alla funzionalità della retina centrale (fovea) di distinguere delle lettere più o
meno piccole su una tavola ottotipica. Considerando occhi privi di qualsiasi tipo di
patologia, la misura dell’acuità visiva ci può indirettamente informare sulla qualità
dell’immagine retinica ed è per questo motivo che normalmente per misurarla
vengono utilizzati degli stimoli bidimensionali (lettere, numeri, figure ecc.) che
presentano un alto contrasto rispetto allo sfondo. L'acuità visiva è inversamente
proporzionale alla dimensione angolare del più piccolo stimolo percepito e viene
abitualmente quantificata dall'inverso dell'angolo visuale considerato. Gli scopi per

x verificare se ci sono ametropie o anomalie dell’apparato ottico-oculare,


cui viene misurata possono essere i seguenti:

x ottenere una documentazione oggettiva per quantificare con una scala

x verificare se l’AV è uguale a quella dell’occhio controlaterale o a quella dello


numerica i disturbi soggettivi accusati dall’esaminato,

x verificare se l’AV è uguale o inferiore ai valori fissati dalle leggi per un


stesso occhio se misurata in tempi diversi,

x stimare le capacità dell’esaminato di svolgere determinate attività.


determinato lavoro o attività, come la conduzione di mezzi meccanici,

x minimo visibile o acutezza di visibilità,


Esistono diversi modi di quantificare l'acuità visiva, di cui i principali sono:

x minimo separabile o potere risolutivo,


x minimo riconoscibile,
x iperacuità.
3. Acuità visiva 68

Minimo visibile o acutezza di visibilità: indica la minima ampiezza angolare entro


la quale l’occhio riesce a distinguere un segnale, cioè a vedere o meno la presenza
di uno stimolo. Esempio tipico di minimo visibile sono le più piccole stelle nel
cielo. Per misurare il minimo visibile vengono utilizzati test dove è variata la
grandezza di una linea nera o di un punto su sfondo chiaro (Fig.2).

Fig.2: Punto nero su sfondo chiaro per la valutazione del minimo visibile

Minimo separabile o potere risolutivo: è la capacità che il nostro occhio ha di


vedere separati due oggetti molto vicini tra loro. Per rilevare distinte e separate due
linee è necessaria l’attivazione di due fotorecettori non adiacenti, in modo tale che
tra loro ce ne sia uno non attivato che faccia valutare la mancanza di continuità. Il
minimo separabile dipende dalla salute del tappeto retinico e dalla precisione del
sistema ottico oculare. L’angolo espresso in primi che tale distanza sottende al
punto nodale si chiama minimo angolo di risoluzione, M.A.R. (Fig.3).

MAR
dettaglio
caratteristico

Fig.3: Minimo angolo di risoluzione (MAR)

Minimo riconoscibile: è il tipo di acuità visiva che viene maggiormente utilizzata;


permette di riconoscere delle forme tra tante possibili come ad esempio lettere
dell’alfabeto o numeri (Fig.4). Questo è un aspetto del funzionamento del sistema
visivo un po’ più complesso dei precedenti, perché il valore dell’acuità visiva è
influenzato non solo dal potere risolutivo, ma anche dall’esperienza del soggetto
nei confronti delle mire utilizzate. I limiti medi sono simili a quelli validi per il
minimo separabile.

E
H D 8 6 E
E

Fig.4: Minimo riconoscibile


3. Acuità visiva 69

Iperacuità: è il minimo spostamento spaziale percepibile tra due linee (Fig.5) o per
meglio dire tra due figure, cioè rappresenta la capacità di allineare due linee tra di
loro.

Fig.5: Iperacuità

Per quantificare l’acuità visiva si possono utilizzare diversi tipi di unità


di misura, però la progressione scelta deve soddisfare contemporaneamente alcune

x validità diagnostica: è la capacità di differenziare i soggetti sani da quelli


esigenze come:

x praticità d’esame: il test deve essere facilmente interpretabile in tempi brevi,


malati ed è definita da due indici biostatistici, sensibilità e specificità,

x precisione: la precisione di un metodo di misura consiste nella sua capacità


di produrre valori molto simili quando la stessa caratteristica viene
ripetutamente misurata nelle stesse condizioni.
La valutazione dell’acuità visiva in ambito clinico mediante lettere dell'alfabeto o
altri simboli con anologhe caratteristiche permette di rilevare il minimo separabile
(acutezza di risoluzione) misurando il minimo angolo di risoluzione (MAR)
abbinato alla capacità di riconoscere gli oggetti. L'acuità visiva viene quantificata
dall'inverso del minimo angolo di risoluzione espresso in minuti primi, ossia in
sessantesimi di grado:
1
AV
MAR'
Normalmente la misurazione dell’acutezza visiva si attua attraverso l’uso di tavole
o ottotipi, nelle quali sono presenti simboli grafici o disegni in diverse grandezze e
che rappresentano i punti e le soglie di controllo della “potenza” visiva di un
soggetto esaminato. La grandezza minima dei simboli presenti negli ottotipi,
normalmente sottende un angolo di 1 min. di arco ad una distanza di sei metri nei
paesi anglosassoni e di cinque in quelli europei.

3.3 Unità di misura dell’acuità visiva

Per quanto riguarda la progressione nei valori angolari e quindi nelle dimensioni

x notazione decimale
dei simboli vengono utilizzati vari criteri:

x scala di Monoyer
3. Acuità visiva 70

x frazione di Snellen metrica e/o imperiale


x scala Logmar
x cicli per grado.

3.3.1 Notazione decimale

Con questo sistema l’acuità visiva si esprime mediante il reciproco del minimo
angolo di risoluzione (MAR) HVSUHVVR LQ SULPL G¶DUFR Į'); il risultato di tale
inverso prende il nome di “Notazione Decimale”. Vediamo un esempio:

1
Į
 1’ AV 1 => AV espressa in notazione decimale (AVnd)
1

Į' = 1’ AVnd = 1 Į' = 1,1’ AVnd = 0,9 Į' = 1,25’ AVnd = 0,8

Į' = 1,42’ AVnd = 0,7 Į' = 1,66’ AVnd = 0,6 Į' = 2’ AVnd = 0,5

Į
 ¶$9nd = 0,4 Į' = 3,33’ AVnd = 0,3 Į' = 5’ AVnd = 0,2

Į' = 10’ AVnd = 0,1

3.3.2 Scala di Monoyer

La scala di Monoyer si ottiene mettendo la notazione decimale sottoforma di


frazione:


10
AV 10 / 10 => AV espressa in frazione decimale (AVfd)
10

AVnd =1 AVfd =10/10 AVnd=0,9 AVfd =9/10 AVnd = 0,8 AVfd =8/10

AVnd =0,7 AVfd =7/10 AVnd =0,6 AVfd =6/10 AVnd = 0,5 AVfd =5/10

AVnd =0,4 AVfd =4/10 AVnd = 0,3 AVfd =3/10 AVnd = 0,2 AVfd =2/10
AVnd = 0,1 AVfd =1/10

La tavola ottotipica decimale più utilizzata fino a poco tempo fa seguiva la “Scala
Monoyer”, dove i caratteri più grandi sono dieci volte maggiori dei più piccoli; in
tal modo si definiscono dieci righe, in ciascuna delle quali le lettere hanno la stessa
determinata grandezza, o decimi attraverso i quali è possibile quantizzare il visus.
Le righe intermedie, tra quelle contenenti i simboli di grandezza maggiore e quella
contenente quelli di grandezza inferiore, sono di grandezze che rispettano una scala
decimale. In altre parole, vi troviamo 1/10, 2/10, 3/10 e così di seguito fino ad
arrivare a 10/10. La scelta di questi valori non permette un’analisi dell’acuità visiva
3. Acuità visiva 71

con la stessa precisione a tutti i livelli; abbiamo un valutazione molto precisa per
valori di acuità visiva elevata, ma un rilevamento grossolano alle basse acuità
visive. Ad esempio, per leggere la riga successiva a quella di 1/10 il minimo angolo
di risoluzione si deve dimezzare (1/10 = MAR 10’; 2/10 = MAR 5’; la variazione
quindi è del 50%), mentre per leggere la fila successiva a quella di 9/10 è
sufficiente che il MAR si riduca di circa il 10 % (9/10 = MAR 1,1’; 10/10 = MAR
1’).

3.3.3 Frazione di Snellen

Nelle tabelle con progressione parageometrica il visus è espresso con una frazione
che segue la legge di Snellen, cioè V=d/D, dove V è il visus, d è la distanza alla
quale viene visto l’oggetto e D è la distanza alla quale lo stesso oggetto viene visto
da un occhio con visus normale. Secondo Snellen un occhio ha una “visione
normale” se è in grado di riconoscere un ottotipo quando questo sottende 5 minuti
d’arco e quindi distingue un singolo tratto della dimensione di 1 minuto d’arco.
Questa unità di misura è uguale alla distanza a cui il test viene eseguito (d) diviso la
distanza a cui il dettaglio della lettera sottende un angolo di 1’ (D) (Fig.4).
d
Frazione di Snellen =
D

Fig.4: Frazione di Snellen

In questa frazione, contrariamente a quella decimale, il numero fisso è il


numeratore (6 o 20), mentre il denominatore varia in funzione del MAR. In base
all’unità di misura utilizzata per indicare le distanze possiamo avere due

x Metrica; in cui le distanze sono espresse in metri, ad esempio 6/12


espressioni della frazione di Snellen:

x Imperiale o anglosassone; in cui le distanze sono espresse in piedi (feet), ad


esempio 20/40.
Anche questo rapporto, come il precedente, esprime in forma di frazione l’inverso
dell’angolo misurato in primi. La conversione tra la frazione decimale e quella di
Snellen si effettua mediante la seguente proporzione:

x 6 x 20
Scala Metrica Scala Imperiale
10 y 10 y
3. Acuità visiva 72

Come si può notare, con questa progressione l’incremento di M.A.R., e quindi


l’aumento della dimensione dei simboli, non è uniforme. Pertanto, nelle tabelle
ottotipiche più recenti si è preferita una progressione di tipo logaritmico, perché in
questo modo la variazione da una riga di ottotipo alla successiva resta sempre
costante.

3.3.4 Scala LogMAR

Una delle percentuali di progressione più utilizzate negli ottotipo con scala
logaritmica è quella nella quale si ha una variazione delle dimensioni del simbolo
del 26 % tra una riga e quella successiva. Sfruttando la proprietà secondo la quale i
logaritmi di una progressione geometrica formano una progressione aritmetica, i
valori di acuità visiva sono stati indicati attraverso il LogMAR, ossia il logaritmo in
base 10 del minimo angolo di risoluzione corrispondente ai livelli inseriti nella
progressione. Considerando valori di MAR compresi tra 1’ e 10’, il LogMAR sarà
compreso tra 0 (Log 1’) ed 1 (Log 10’); come si può vedere in tabella 2, dalla
progressione scelta (ragione 1.26) risultano intervalli di 0,1 unità logaritmiche tra
un livello e l’altro. Si può notare che a valori maggiori di acuità visiva si associano
valori numerici inferiori, fino ad arrivare a LogMAR 0 che sta ad indicare un potere
risolutivo considerato normale; questo inconveniente rende tale unità di misura
poco intuitiva e ne limita la diffusione nella pratica clinica. Per ovviare a questo
inconveniente, la maggior parte dei proiettori di ottotipi di recente costruzione
presentano una progressione di ottotipi che segue le regole della scala LogMAR e
l’acuità visiva continua ad essere indicata in notazione decimale (Tabella 2).
3. Acuità visiva 73

Esempi di conversione tra Log MAR e notazione decimale:


Log a b = x ax = b
dove:
a = 10
b = MAR
x = valore scalare dell’AV.
x AV Log M AR = + 0,2 MAR = 10 +0,2 = 1,585’
AV nd =1/1,585 = 0,63
x AV = 8/10 = 0,8 in ND Ÿ MAR = 1/0,8 = 1,25’
Log 1 0 1,25’ = 0,09 (Scala Log M AR )

3.3.5 Cicli per grado (c/g)

Il ciclo per grado è un’unità di misura molto utilizzata in laboratori di ricerca ed in


elettrofisiologia dove si utilizzano delle mire particolari, chiamati “reticoli”,
costituiti da un’alternanza di bande bianche e nere di uguale ampiezza (Fig.5). In
essi la variazione di luminanza segue un andamento ciclico e l’insieme di una
banda chiara ed una scura costituisce un ciclo. Le dimensioni dei reticoli si
possono esprimere indicandone la frequenza spaziale, ossia il numero di cicli
contenuti in una superficie di ampiezza angolare pari ad un grado (da qui “cicli per
grado”). A parità di superficie, maggiore sarà la frequenza spaziale (il numero di
cicli) minore sarà l’ampiezza dei cicli che costituiscono il reticolo e viceversa.
3. Acuità visiva 74

Fig.5: Reticoli con alternanza di bande chiaro-scure

Con questi reticoli andiamo a valutare il potere risolutivo, in quanto per poter
“risolvere” il reticolo (ad es. per indicare l'orientamento delle barre) la distanza tra
due bande nere deve essere maggiore od uguale al minimo separabile. A questo
punto possiamo dire che l’acuità visiva espressa in cicli per grado indica il numero
di cicli massimo che un soggetto può risolvere in una superficie di ampiezza
angolare di un grado. Il collegamento tra i reticoli ed i normali ottotipi si può fare
assegnando al dettaglio caratteristico l’ampiezza di una banda, ossia di metà ciclo.
Ne risulta, ad esempio, che una lettera sarà costituita da 2,5 cicli (Fig.6).

Fig.6: Numero di cicli che compongono una lettera dell’ottotipo

Più alta sarà la frequenza spaziale in cicli per grado minore sarà la dimensione della
letterina e quindi maggiori saranno i cicli per grado più alta sarà l’acuità visiva.
Vediamo ora di stabilire la relazione che lega l’acuità visiva espressa in decimi e
quella in cicli per grado. Per prima cosa dobbiamo sottolineare che un ciclo ha
un’ampiezza pari a due volte quella del dettaglio caratteristico (una striscia nera o
bianca) (Fig. 7).

Fig.7: 1 ciclo è uguale a 2 volte il MAR

di 10’; la dimensione angolare del ciclo più piccolo che potrà risolvere sarà D ciclo
Consideriamo ora un soggetto che presenta un’acuità visiva di 1/10, ossia un MAR

= 2 MAR = 2 x 10’ = 20’.


3. Acuità visiva 75

Per saper il numero di cicli che può risolvere sarà sufficiente calcolare quanti cicli
da 20’ primi saranno contenuti nello schermo di riferimento (di ampiezza angolare

D schermo
pari a 60’).

D ciclo
60'
Numero cicli per grado = 3c / g
20'

Quindi ogni decimo corrisponde a 3 cicli per grado, per cui dato il valore in decimi
è sufficiente moltiplicarlo per 3 e si ottiene l’acuità visiva in cicli per grado. Al
contrario, dato il numero di cicli per grado basterà dividerlo per 3 e si otterrà
l’acuità visiva espressa in decimi.

3.4 Strumenti per la valutazione dell'acuità visiva

Gli stimoli impiegati per l’esame dell’acuità visiva sono numerosi e vengono
chiamati ottotipi; essi possono essere utilizzati per il calcolo del minimo angolo di
risoluzione. Per questo scopo, soprattutto nei bambini, vengono utilizzati ottotipi
facilmente standardizzabili, cioè reticoli e scacchiere oppure figure astratte con una
componente direzionale, come gli anelli di Landolt e le E di Albini (Fig. 8).

Fig.8: Anelli di Landolt ed E di Albini o direzionali

I più numerosi sono gli ottotipi che ci permettono di valutare l’acuità visiva
morfoscopica e per questo scopo sono utilizzate lettere dell’alfabeto, numeri e
disegni vari. Questi ottotipi sono molto semplici, anche se richiedono un piccolo
grado di istruzione da parte dell’esaminato. Una cosa da ricordare è che a parità di
grandezza angolare non tutti i simboli dell’ottotipo presentano le stesse difficoltà
(Tabelle 3,4 e 5).
3. Acuità visiva 76

È quindi opportuno che per ogni riga dell’ottotipo ci sia un assortimento di lettere
che comporti in media lo stesso grado di difficoltà, per evitare errori di valutazione
dell’acuità visiva. Le lettere possono essere suddivise in quattro gruppi in funzione
della crescente difficoltà di riconoscimento (Tabella 6).

Per quanto riguarda le E di Albini e gli anelli di Landolt la difficoltà di


riconoscimento è costante, perché sono meno implicati fattori psicologici e
percettivi. Gli ottotipi sono formati da una serie di lettere o altri caratteri con
dimensioni decrescenti, preferibilmente secondo una scala logaritmica, in modo
che ci sia una costante riduzione dell’angolo di risoluzione tra una riga e la
successiva. Un esempio di valida tabella ottotipica con lettere è quella di Bailey-
Lovie, poiché, oltre a rispettare una giusta progressione nella variazione delle
dimensioni dei simboli, propone nelle varie righe lettere equamente assortite come
difficoltà e utilizza distanze adeguate, in modo da tenere sotto controllo il
fenomeno dell’affollamento (tanto meno è lo spazio tra lettera e lettera, tanto più
difficile è la lettura) (Fig.9).

Fig.9: Tabella ottotipica Bailey-Lovie

Il dettaglio caratteristico dell’ottotipo corrisponde al dettaglio che dovrebbe essere


percepito per riconoscere una lettera e si associa al minimo angolo di risoluzione.
Per convenzione si considera come dettaglio caratteristico lo spessore dei tratti che
delineano le lettere; le dimensioni delle lettere sono solitamente cinque volte in
larghezza e cinque volte in altezza superiori al tratto stesso (anelli di Landolt, E
3. Acuità visiva 77

orientate, lettere di Sloan). In alcuni ottotipi (come quello Bailey-Lovie) le lettere


sono cinque volte il tratto in altezza e quattro in larghezza (“non-serif”). La
dimensione dei quadrati che contengono la lettera è tale che i loro lati sottendono
un angolo visivo pari a cinque volte l’angolo di risoluzione, quando esse si trovano
ad una distanza prestabilita dall’occhio (Fig.10). Naturalmente se l’ottotipo non è
utilizzato alla distanza per cui è stato calcolato si devono ricalcolare i valori di AV
corrispondenti ad ogni lettera.

Fig.10: Lettera in una griglia 5x5, che quindi sottende un angolo visivo di 5D alla distanza d.

L’acuità visiva può essere definita come il reciproco dell’angolo di risoluzione,


quindi: AV = 1/ Į , dRYHĮqO¶DQJRORPLVXUDWRLQSULPL
Da questo possiamo capire che per misurare l’AV bisogna misurare un angolo e
calcolare il suo reciproco. Lavorando, però, con angoli molto piccoli fare una
misura diretta non è cosa molto semplice, quindi è preferibile affidarci alla
funzione trigonometrica tangente e per LOWULDQJROR$%&FDOFRODUHODWJĮ $%%&
(Fig.11).

Į
C
B

Fig.11: Rappresentazione geometrica per il calcolo della tangente.

Dalla tangente si potrà poi risalire facilmente all’angolo stesso con l’apposita
tavola trigonometrica o con una calcolatrice (AB/BC e, successivamente, arctg del
risultato ottenuto). In questo modo facendo il rapporto tra l’altezza della lettera e la
sua distanza dall’occhio abbiamo espresso una grandezza angolare in modo lineare.
Poiché l’altezza e la distanza dei simboli, per un certo valore di AV (AV1), sono
direttamente proporzionali se l’ottotipo non è utilizzato alla distanza corretta (D1);
si può, quindi, ricavare il valore effettivo di AV (AV2), ad una distanza diversa
(D2), tramite una semplice proporzione:

AV1 : D1 = AV2 : D2
3. Acuità visiva 78

Esempio:
AV = 8/10, con un ottotipo costruito per 6 metri, ma posto a 3 metri. A quale reale
AV corrisponde (AV2)?
0,8 : 6 = AV2 : 3
Quindi AV2 = 0,4 o meglio 4/10.

3.4.1 Calcolo del valore di AV

Conoscendo la distanza dell’ottotipo e la sua altezza può essere calcolata la


corrispondente AV. Avendo una lettera di altezza totale H, espressa in millimetri e
posta ad una distanza d, sempre in millimetri, dall’osservatore, l’acuità visiva sarà:

H/5 = h
KG Įƒ
DUFWJ KG  Įƒ
Įƒ.  Į¶
Į¶ $9

Più precisamente:
1
§ h·
AV
¨ arctg ˜ 60
© d ¹̧
Esempio:
H = 75 mm, quindi h = 15 mm
d = 5 metri => 5000 mm

arctg 0,003 ˜ 60 0,1718 ˜ 60


1 1 1
§ 15 ·
AV AV AV
¨ arctg ˜ 60
© 5000 ¹̧

AV = 1/10,3 => AV a 0,1 quindi AV 1/10.

Se invece dobbiamo calcolare le dimensioni di una lettera in modo che corrisponda


ad una certa AV ad una certa distanza d:

$9 Į¶
Į¶ Įƒ
K WJĮƒ. d
H=5.h

­ § 1 ·½
In generale:

®tg ¨ ¾˜d ˜5
¯ © AV ˜ 60 ¹̧¿
H

Esempio:
AV = 10/10
d = 5 metri quindi 5000 mm
3. Acuità visiva 79

­ § ·½
°° ¨ 1 ¸°°
H ®tg ¨ ¸¾ ˜ 5000 ˜ 5 H ­ § 1 ·½
®tg ¨ ¾ ˜ 5000 ˜ 5 H ^tg 0.01666`˜ 5000 ˜ 5
° ¨¨ 10 ˜ 60 ¸¸° ¯ © 1 ˜ 60 ¹̧¿
¯° © 10 ¹¿°
H a 7,5 mm.

1.5 Fattori che influenzano l’acuità visiva

Tanti sono i fattori che, come già accennato, influenzano l’acutezza visiva e alcuni
di essi vale la pena conoscerli.
Alfabetizzazione: innanzi tutto, siccome normalmente le tavole ottotipiche
riportano lettere dell’alfabeto, interviene il livello culturale e intuitivo
dell’osservatore; ad un letterato sarà più facile, infatti, distinguere e riconoscere le
lettere dell’ottotipo anche se non viste perfettamente, poiché la sua esperienza
visiva facilita l’intuizione del simbolo grafico in base alla sua forma. Un ottotipo
con lettere arabe o ideogrammi cinesi, a parità di grandezza angolare degli elementi
caratteristici, per un paziente occidentale è meno "facile" di un ottotipo con lettere
dell'alfabeto latino.
Luminanza: è un altro fattore di notevole importanza; L'acutezza visiva è
tipicamente legata alla attività dei coni. Se la illuminazione dell'ottotipo non è
adeguata, l'AV risulterà progressivamente peggiore.
Diametro pupillare: influisce sull’acutezza visiva quando esso è esageratamente
grande o piccolo; se troppo grande, infatti facendo entrare un fascio di luce troppo
grande, indurrà una maggiore influenza delle aberrazioni ottiche dei mezzi oculari;
se invece il diametro pupillare è inferiore a 1.5 mm, i fenomeni di diffrazione
indotti dal bordo pupillare deterioreranno sensibilmente la percezione degli ottotipi.
Inoltre, l'immagine che arriva alla retina potrebbe non essere sufficientemente
luminosa (vedi punto precedente).
Movimenti oculari: come già detto gli occhi non sono mai immobili durante
l’attività visiva. Se i movimenti oculari sono però eccessivi, essi influiscono
sull’acutezza riducendo la nitidezza della visione, come potrebbe succedere
nell’impressionare una foto di un oggetto in movimento.
Trasparenza e qualità dei mezzi diottrici dell’occhio: sono ulteriori caratteristiche
che influenzano l’acutezza visiva; Mezzi poco trasparenti riducono la luminosità
dell'immagine e il suo contrasto (vedi sopra).
Soglia di contrasto: valutando l’acutezza visiva attraverso l’uso di disegni o lettere
diventa molto importante anche il contrasto che tali simboli hanno con lo sfondo;
maggiore sarà il contrasto, migliore sarà l’acutezza visiva. Negli ottotipi
normalmente in uso il contrasto è altissimo, almeno 95%. Ma esistono anche
ottotipi a basso contrasto, utilizzati per misurare il visus in condizioni di scarsa
illuminazione (guida notturna). Indirettamente in questo aspetto rientra quindi
anche il corretto utilizzo delle tavole ottotipiche retroilluminate o degli ottotipi a
proiezione che debbono essere sempre mantenuti in ordine e in efficienza nel
rispetto delle caratteristiche ottiche sotto le quali sono stati progettati.
Caratteristiche ottiche delle lenti utilizzate in un occhiale: trovano a ragione una
loro collocazione tra i fattori che influenzano la qualità e talvolta la quantità
dell’acutezza visiva. Come ben sappiamo, infatti, le lenti da occhiali hanno diverse
caratteristiche ottico-geometriche legate alla loro trasparenza, al loro assorbimento
3. Acuità visiva 80

e al loro potere che possono pesantemente condizionare l’acutezza visiva. Esse


infatti riducono la luminosità entrante, modificano la grandezza dell’immagine
retinica dell’oggetto osservato in modo sempre più evidente man mano che il loro
potere diottrico aumenta, ingrandendola nei soggetti ipermetropi e riducendola nei
soggetti miopi, influenzano le vergenze per i loro effetti prismatici e quindi la
qualità dell’acutezza binoculare ed infine tutte sono soggette ad aberrazioni
sferiche e/o cromatiche che inducono variazioni a livello visivo.
Concludendo poi questa rapida e sicuramente non completa carrellata sui fattori
che influenzano l’acutezza visiva, occorre non trascurare l’età dell’osservatore, la
sua emotività e la sua attenzione nello svolgimento dell’esame dell’acutezza visiva.
A tutti questi fattori che si riferiscono ad un sistema visivo strutturalmente integro,
vanno inoltre aggiunti tutte le influenze negative che sull’acutezza visiva hanno le
patologie oculari sia di carattere strutturale che funzionale; oltre a tutti gli stati
patologici generali che alterino l'attenzione e la collaborazione del soggetto
esaminato.

3.6 Curiosità
Nelle prime fasi della vita, l'acutezza visiva aumenta con il progredire dell’età.
Sotto le sei settimane il visus è limitato al solo riconoscimento di semplici punti o
angoli; a 10 settimane il bimbo inizia a riconoscere gli occhi della persona che gli
sta davanti e ad una distanza ravvicinata; a 12 settimane inizia a percepire oltre gli
occhi anche i lineamenti del viso; a 20 settimane aggiunge alla sua percezione
visiva anche la bocca altrui; a 24 settimane definisce meglio i dettagli dei visi, ma
non riesce ancora a distinguere gli uni dagli altri, cosa che inizia a fare a 30
settimane. Nei primi 6 mesi si completano proprietà importanti del sistema;
l’esperienza visiva è particolarmente delicata. In questa fase i danni maggiori
possono, per esempio, derivare da vizi di refrazione come la miopia elevata
monolaterale, l’astigmatismo o l’ipermetropia, non individuati quindi non corretti,
e che dunque non permettono al bambino una normale esperienza visiva. Al di
sotto dei 3 anni, 3 anni e mezzo il visus monoculare raramente supera i 5/10
quando si usano stimoli come simboli o figure. Nella tabella n.7 vengono riportate
schematicamente le fasi più importanti dello sviluppo visivo del bambino dalla
nascita ai 4 anni.
4. Occhio schematico 81

Capitolo 4 – Occhio schematico


M. Bifani, M. Lanza
4.1 Introduzione

L’occhio è costituito da una serie di diottri con raggi di curvatura non del tutto
uguali sui vari meridiani, oltre a questo gli indici di refrazione possono essere
diversi da persona a persona e può capitare che variano col passare dell’età anche
nello stesso individuo. Considerando un occhio come un sistema di diottri sferici
centrati su un unico asse, è conveniente avere la possibilità di rappresentarlo in una
forma grafica semplice, in modo da semplificare eventuali calcoli riguardanti
l'occhio stesso.

4.2 L’occhio “esatto” di Gullstrand

Il modello di occhio schematico di Gullstrand è formato da 6 superfici rifrattive:


superficie anteriore e posteriore della cornea, superficie anteriore e posteriore del
cristallino, superficie anteriore e posteriore con accomodazione del nucleo del
cristallino (Fig.1-A). Questo viene proposto sia in versione rilassata (Fig.1-A), sia
in versione con accomodazione attiva (Fig.1-B).

A B
R4 -5,33 mm
R3 10,00 mm R3 5,33 mm
R4 -6,00 mm
R2 6,8 mm R2 6,8 mm
R1 7,7 mm R5 7,91 mm R1 7,7 mm R5 2,65 mm

vitreo vitreo
spessore cornea n = 1,336 spessore cornea n = 1,336
0,5 mm 3,1 mm 0,5 mm 2,7 mm
3,6 mm 4,00 mm
R6 -5,76 mm
cornea cornea R6 -2,65 mm
n = 1,376 n = 1,376
cristallino cristallino
acqueo n = 1,41 acqueo n = 1,41
n = 1,336 n = 1,336

24,2 mm 24,2 mm

Fig.1: Occhio esatto di Gullstrand rilassato (A); occhio accomodato (B)

In figura 1A e B:
R1(A) => raggio curvatura faccia anteriore cornea
R2(A) => raggio curvatura faccia posteriore cornea
R3(A) => raggio curvatura faccia anteriore della corticale cristallino
R4(A) => raggio curvatura faccia posteriore della corticale cristallino
R5(A) => raggio curvatura faccia anteriore del nucleo cristallino
R6(A) => raggio curvatura faccia posteriore del nucleo cristallino

Al fine di creare una schematizzazione accettabile verrà preso in considerazione un

x le superfici anteriore e posteriore della cornea,


occhio schematico semplificato con 4 superfici rifrattive (Fig. 2):
4. Occhio schematico 82

x le superfici anteriore e posteriore del cristallino.

1,3375
R1 R2 R3 R4
1,3333 1,416 1,3333
A A’ B B’ F

Disaccomodato Accomodato
Raggi curvatura (mm)
R1 7.80 7.80
R2 6.60 6.60
R3 10.00 6.00
R4 -6.00 -5.50
Distanza/spessore (mm)
A'B 3,60 mm 3,60 mm
AA' 0,50 mm 0,50 mm
BB' 3,60 mm 3,60 mm
AF 24.00 mm 24.00 mm

Fig.2: Occhio schematico semplificato e relativi valori

Calcoliamo adesso la potenza di ogni diottro oculare che la radiazione luminosa


attraversa prima di arrivare alla retina. Per ottenere questo, dall’ottica geometrica
sappiamo che il potere di un diottro è legato a due variabili, il raggio di curvatura e
l’indice di refrazione; da cui:

4.2.1 Poteri diottrici della cornea

n2  n1
P(dt )
R ( m)

La cornea fornisce circa i 2/3 del potere complessivo al sistema diottrico oculare; il
suo indice di refrazione è rappresentato dallo stroma, n = 1,3375, ed i suoi raggi di
curvatura sono per la faccia anteriore 7,80 mm e per la faccia posteriore 6,60 mm;
oltre a questo ricordiamo che la superficie posteriore della cornea è a contatto con
l’umor acqueo che presenta un indice di refrazione pari a 1,3333. Applicando la
formula alle superfici refrattive della cornea risulta che:

P1 cornea = (1,3375 – 1) / 0,0078 = 43,27 dt


P2 cornea = (1,3333 – 1,3375) / 0,0066 = - 0,64 dt
4. Occhio schematico 83

Calcoliamo adesso la potenza della cornea considerandola una lente spessa:

§e·
P P1  P2  ¨ ˜ P1 ˜ P2
© n ¹̧
dove e è lo spessore della lente al centro e n è il suo indice di refrazione.
Quindi, considerando lo spessore corneale centrale 0,5 mm, avremo:

43,27   0,64  ¨ ˜ 43,27 ˜  0,64 42,64dt


§ 0,0005 ·
© 1,3375 ¹̧
Pcornea

4.2.2 Poteri diottrici del cristallino

Il cristallino risulta essere molto simile ad una lente biconvessa anche se le due
facce che lo compongono non sono perfettamente uguali, avendo quella anteriore
un raggio di curvatura di 10,00 mm e quella posteriore di 6,00 mm; il suo indice di
refrazione non è costante dal centro alla periferia, ma per i nostri scopi verrà
considerato 1,416, mentre lo spessore al centro è di 3,6mm. In funzione di tali
valori per il potere del cristallino avremo:

P1 cristallino = (1,416 – 1,3333) / 0,010 = 8,27 dt


P2 cristallino = (1,3333 – 1,416) / -0,006 = 13,78 dt

Calcoliamo adesso la potenza del cristallino considerandolo una lente spessa:

§ 0,0036 ·
Pcristal. 8,27  13,78  ¨ ˜ 8,27 ˜ 13,78
© 1,416 ¹̧
21,76dt

4.2.3 Potere totale dell’occhio

Anche se l’occhio ridotto è meno simile ad un occhio reale si possono comunque


trarre delle valide conclusioni. Il suo potere complessivo si ricava tenendo presente
che la distanza tra il piano principale della cornea e il piano principale del
cristallino è di 5,746 mm. Questa distanza deve essere utilizzata come spessore
della lente nella formula della potenza.

60,40dt # 60,00dt
§ 0,005746 ·
42,64  21,76  ¨ ˜ 42,64 ˜ 21,76
© 1,333 ¹̧
Pocchio

Se invece che considerare i due piani principali prima citati consideriamo un unico
piano principale a distanza intermedia tra i due, questo si troverà ad una distanza di
circa 1,8 mm dalla superficie anteriore della cornea e ad una distanza di circa 22,2
mm dal polo posteriore. Se calcoliamo la focale oggetto e la focale immagine del
nostro occhio vedremo che la seconda corrisponde, considerate le dovute
approssimazioni, alla distanza piano principale-retina (dpp/r).
4. Occhio schematico 84

 0,01667 m 16,67 mm
n1 1
f ( f .oggetto)
P 60

n2 1,3333
f ' ( f .immagine) 0,0222m 22,2mm
P 60

4.3 Definizione di emmetropia e ametropia (miopia e ipermetropia)

Nelle definizioni e calcoli delle prossime pagine considereremo l’occhio come un


unico diottro (Fig.3) con indice di refrazione pari alla media degli indici di
refrazione dei vari mezzi diottrici oculari: n=1,3333. Il punto dove avviene la
refrazione dei raggi che entrano nell’occhio viene detto piano principale e si trova a
1,8 mm dall’apice corneale e a 22,2 mm dalla retina. Questa estrema
semplificazione è molto utile al fine dei calcoli, in quanto si concentra tutto il
processo refrattivo in un'unica refrazione su un solo diottro.

PP

n=1,000
n=1,333
F F’

f=-16,67mm f’=dppr=22,22mm

60,00 dt

Fig.3: Occhio come unico diottro

4.3.1 Occhio emmetrope

L’emmetropia è la condizione nella quale, con accomodazione completamente


rilassata, l’occhio porta a fuoco esattamente sulla retina la radiazione luminosa
proveniente dall’infinito.
Pertanto possiamo affermare che, affinché il comportamento refrattivo di un occhio
sia corretto, è necessario che l’immagine di un oggetto monocromatico, posto
sull’asse all’infinito, si formi sulla retina; cioè la lunghezza della focale immagine
(f’) deve coincidere con la distanza piano principale-retina (dpp/r):
f’ = d pp/r

Per un occhio emmetrope quindi più il bulbo sarà corto maggiore sarà la sua
potenza e viceversa.

Esempio:
Quanto deve essere la dpp/r di un occhio con P=62,00 dt affinché possa essere
emmetrope?
4. Occhio schematico 85

n2 1,3333
f ' ( f .immagine) 0,0215m 21,5mm
P 62

4.3.2 Occhio ametrope

L’ametropia è considerata quella condizione nella quale la distanza piano-


principale retina è diversa dalla focale. L’occhio ametrope è caratterizzato da una
relazione piano principale-retina che è la seguente:

f’ z d pp/r

Un occhio ametrope presenta un errore refrattivo o vizio refrattivo, che può essere
sferico o astigmatico. L’ametropia sferica si ha quando il sistema refrattivo oculare
presenta simmetria di rivoluzione attorno al suo asse, mentre quella astigmatica
quando il sistema non presenta simmetria di rivoluzione. In questa fase

x la miopia, nella quale f’<dpp/r


considereremo solo ametropie sferiche:

x l’ipermetropia, nella quale f’>dpp/r

Oltre a questo le ametropie possono essere classificate in assiali e rifrattive


(Fig.4):
x Assiali: dovute ad un’anomala lunghezza del bulbo oculare e cioè quando la
dpp/r è diversa da 22,2 mm e la lunghezza focale è uguale a 22,2 mm, cioè la

x
potenza dell’occhio è 60 dt.
Rifrattive: quando la dpp/r è 22,2 mm, cioè uguale all’occhio schematico, e la
lunghezza focale è diversa da 22,2 mm, cioè la potenza dell’occhio è diversa
da 60 dt.

Fig.4: Schematizzazione delle ametropie assiali e rifrattive


4. Occhio schematico 86

Inoltre possono a loro volta suddividersi in ametropie da indice e da curvatura:


x da indice: dovute ad una variazione dell’indice di refrazione dei mezzi

x
diottrici oculari,
da curvatura: cornea e cristallino possono avere delle curvature tali da far
variare il potere del sistema occhio.

4.4 Disco di diffusione: definizione e calcolo del suo diametro

Tutte le volte che l’immagine di un oggetto puntiforme posto all’infinito non


rispetta la relazione di emmetropia (f’=dpp/r) l’immagine non si forma sulla retina,
ma in un punto diverso. Sulla retina si formerà un’immagine del punto oggetto
sfuocata, tanto più sfuocata quanto più è lontano F’ dalla retina.
L’immagine sulla retina prende la forma di un disco che aumenta di dimensione
all’allontanarsi di F’ dalla retina e prende il nome di “disco di diffusione o disco di
confusione” (Fig.5).
Per calcolare la grandezza del disco di diffusione sono necessari alcuni parametri.
Come si vede nel disegno (Fig.6) le misure da conoscere sono il diametro pupillare
(g), la focale dell’occhio ametrope dalla quale si ricava la distanza tra il piano
pupillare e il punto dove si forma l’immagine F’ (D = f’- 1,8 mm, approssimato) e
la distanza assiale che separa la retina dall’immagine F’ (d).

Fig.5: Visualizzazione del disco di confusione per un occhio miope

Fig.6: Parametri da conoscere per il calcolo del disco di confusione


4. Occhio schematico 87

La relazione da applicare per calcolare h, la metà della grandezza del disco di


confusione (poiché il diametro del disco di diffusione sarà 2h) è la seguente:

g
:D h:d
2
da cui:
§g·
¨ ˜d
h © 2 ¹̧
D

Esempio (1): un soggetto con una ametropia di +4,00 dt (miopia) presenterà una
potenza totale dell’occhio di 64 dt. Se consideriamo un diametro pupillare pari a 6
mm, quanto sarà il disco di diffusione sulla retina?
Per prima cosa dobbiamo calcolare la focale dell’occhio (f’) che sarà uguale a 20,8
mm poiché:

n2 1,3333
f ' ( f .immagine) 0,0208m 20,8mm
P 64

Conoscendo questo dato possiamo ricavarci tutti gli altri:

D = f’- 1,8 mm => 20,8 – 1,8 = 19 mm

d = dpp/r - f’ => 22,2 – 20,8 = 1,4 mm g/2 = 3 mm

quindi h
3 ˜ 1,4 0,22mm
19

e il diametro del disco di confusione è uguale a 0,22 ˜ 2 0,44mm .

Esempio (2): un soggetto con una ametropia di - 4,00 dt (ipermetropia) presenterà


una potenza totale dell’occhio di 56 dt. Se consideriamo un diametro pupillare pari
a 6 mm, quanto sarà il disco di diffusione sulla retina?
Per prima cosa dobbiamo calcolare la focale dell’occhio (f’) che sarà uguale circa a
23,8 mm poiché:
0,0238m # 23,8mm
n2 1,3333
f ' ( f .immagine)
P 56

Conoscendo questo dato possiamo ricavarci tutti gli altri:

D = f’- 1,8 mm => 23,8 – 1,8 = 22 mm

d = dpp/r - f’ => 22,2 – 23,8 = -1,6 mm per il calcolo possiamo utilizzare questo
valore come positivo

g/2 = 3 mm
4. Occhio schematico 88

quindi h
3 ˜ 1,6 0,218mm
22

e il diametro del disco di confusione è uguale a 0,218 ˜ 2 0,436mm .


5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 89

Capitolo 5 – Ametropie sferiche ed astigmatismo


L. Mele, C. Gallenga, P. Perri

5.1 Introduzione
In caso di ametropie sferiche l’occhio presenta un eccesso o un difetto di potere.
Come abbiamo calcolato nel quarto capitolo, l’occhio emmetrope con una distanza
piano principale/retina di 22,2 mm ha un potere di 60,00 dt, mentre il potere di un
occhio ametrope si può calcolare con la seguente formula:
P. occhio ametrope = P. occhio emmetrope + Ametropia

n2 n2
Poiché f ' => Po.e. e quindi:
P f'

A
n2
P.o.a.
f'

5.2 La miopia: introduzione e definizione

La miopia rappresenta la situazione refrattiva nella quale il fuoco immagine di un


oggetto posto all’infinito si forma prima della retina, ad occhio disaccomodato
(Fig.1). La focale dell’occhio miope è più corta della lunghezza del bulbo e quindi
è vera la relazione seguente:
f’ < d pp/r

Fig.1: Occhio miope

“Miopia” deriva dalla parola greca che significa "occhio strizzato, contratto", in
quanto il soggetto miope tende a strizzare gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco
le immagini sulla retina. Affinché l’occhio miope possa avere l’immagine nitida
sulla retina è necessario che la radiazione ottica non provenga dall’infinito, ma da
una distanza finita che varia al variare dell’entità della miopia. Questo concetto
trova spiegazione nel fatto che l’oggetto e l’immagine relativa sono punti
coniugati. La miopia è l’ametropia più studiata, probabilmente perché riveste
un’importanza sociale rilevante, in quanto, anche valori bassi (ad es. Am. = +0,50
dt) limita la visione. Generalmente può insorgere nelle varie fasi della vita,
sebbene con eziologia diversa. Tuttora non se ne conosce con certezza il
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 90

meccanismo d’insorgenza, salvo alcune forme particolari indotte da alterazioni


patologiche (ad es.: nelle cataratte nucleari l’ametropia è conseguente ad un
aumento di indice del nucleo).

5.2.1 Genetica della miopia

La complessità dell’embriogenesi dell’occhio si rileva anche nella genesi della


miopia, i cui pathways peraltro non sono ancora completamente delucidati.
Sotto l’indirizzo del “master control gene” universale Pax 6, per lo sviluppo
dell’occhio, agiscono una cascata di geni che hanno alleli favorenti l’insorgenza
della miopia. Alcuni regolano la trasmissione degli impulsi nervosi (GRIA4:
Glutamate receptor ionotropic AMPA4 [AMPA (alpha-amino-3-hydroxy-5-
methyl-1-4-isonxazole-propionate) sensitive glutamate receptor: neurotrasmettitore
predominante nel cervello dei mammiferi]; altri il metabolismo dell’acido retinoico
(RDH5), sintetizzato nella retina ma fortemente espresso anche nella coroide e
coinvolto nella crescita dell’occhio: codifica un enzima per la catena corta della
famiglia deidrogenasi/reduttasi, funge da catalizzatore per la fase finale della
biosintesi dell’11-cis retinaldeide, cromoforo universale dei pigmenti visivi; altri
ancora controllano il rimodellamento della matrice extracellulare come il Bone
Morphogenetic protein 2 gene (BMP2), che codifica il ligando per il Transforming
Growth Factor-Beta (TGF-Beta) per il reclutamento ed attivazione della
preproteina che viene processata per proteolisi a subunità dell’omodimero legato al
disulfide correlato allo sviluppo di osso e cartilagine e che ne controlla
l’architettura; Laminin subunit alpha2 (LAMA2) esprime la laminina, componente
essenziale della membrana basale, identificata come mediatore dell’adesione,
migrazione ed organizzazione cellulare nello sviluppo embrionale, interagente con
le altre componenti della matrice, le cui mutazioni sono identificate come causa
congenita della distrofia muscolare da deficit di merosina; lo sviluppo dell’occhio
con geni homeobox SIX6 e Protease Serina 56 (PRSS56) sul cromosoma 2, dei
quali era già noto il coinvolgimento rispettivamente dell’anoftalmia, nel glaucoma
e nella microftalmia.
I vettori di questi geni aumentano fino a 10 volte il rischio di sviluppare miopia.
L’alterazione del collagene sclerale nell’area dello stafiloma di Scarpa era stata
prioritariamente dimostrata al microscopio elettronico da Garzino (1956), nella
Clinica Oculistica dell’Università di Torino diretta da Riccardo Gallenga: gli studi
genetici hanno confermato il bersaglio, identificando un mosaico di geni attivi su
domini coinvolti nel puzzle miopico. La mutazione di APLP2 (Amyloid precursor-
like protein 2), localizzato sul braccio lungo del cromosoma 11q2.4, con dominio
extracellulare dimerico per legami a rame, zinco, collagene ed eparansolfato,
induce un eccesso di produzione della proteina che causerebbe allungamento del
bulbo oculare; LEPREL1, localizzato sul braccio lungo del cromosoma 3 (3q28),
codifica una prolina idrolasi (prolyl 3-hydroxylase 2: P3H2), enzima essenziale per
la modificazione finale del collagene oculare indebolito.
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 91

COL 1A1(Collagen Type I Alpha 1)localizzato sul braccio lungo del cromosoma
17q21.3-22.1, genera istruzioni per la produzione di collagene tipo I, che provvede
a rinforzare e sostenere molti tessuti umani, cartilagine, osso, tendini, pelle e
sclera; le molecole di procollagene vengono processate da enzimi della matrice per
creare collagene maturo, riarrangiandosi in lunghe e sottili fibrille che formano
interazioni stabili di cross-linking negli spazi extracellulari, realizzando fibre molto
resistenti.
RaSGRF1rs 2969336 (CC vs CG+GG, p = 0.03) è associato a miopia elevata nei
modelli recessivi in eterozigosi (CG vs GG, p = 0.04), ma non in altri modelli.
RaSGRF1, studiato al Kings College di Londra e confermato all’Erasmus Medical
Center di Rotterdam su oltre 13.000 soggetti, è un Ra specific guanine e
nucleotide-releasing factor 1, presente nella retina e nei neuroni dell’ippocampo,
fondamentale per la funzione retinica e per la memorizzazione delle immagini,
agisce con una cascata di reazioni bilanciate dello switch del complesso rasGTP
(attiva i segnali a valle) e rasGDP (inibisce i segnali a valle) e correla con lo
sviluppo miopico.
Secondo Peduzzi (2000) la miopia semplice è trasmessa soprattutto con modalità
autosomica dominante, fortemente condizionata da fattori ambientali (prolungato
sforzo accomodativo, particolarmente in ambiente mesopico), come adattamento
migliorativo per l’aumentata richiesta di performance per vicino correlato alla
scolarizzazione: correla infatti con un incremento miopico da 0% nella generazione
‘’wild’’ analfabeta al 30% in F 3 alfabetizzata, un tempo troppo breve per un
possibile ruolo di variazione genetica, pur in presenza di significative variazioni
etniche, ma esprime un vantaggio per la visione per vicino perché permette di
economizzare in termini di energia e migliorare in termini di rendimento; la miopia
patologica viene trasmessa con modalità autosomica recessiva, meno influenzata
da fattori ambientali. Balacco Gabrieli ha individuato nel cross-talk retina/asse
diencefalo-ipofisario una possibile componente neuroendocrina.

5.2.2 Classificazione della miopia

Vengono riportate in ordine cronologico una rassegna delle classificazioni più


significative:

x miopia stazionaria: generalmente di tipo lieve (1.50 - 2.00 dt) che non
1. in base alle modalità della progressione della miopia (F.C. Donders, 1864)

x miopia temporaneamente progressiva: progredisce nei primi anni di vita poi


progredisce nel corso della vita

x miopia permanentemente progressiva: miopia di tipo elevato che continua ad


rimane costante (es: 3.00 dt a 10 anni, 7.00 dt a 20 anni, poi si stabilizza)

aumentare nel corso della vita (es: 3.00 dt a 10 anni, 7.00 dt a 20 anni, 9.00 dt
a 70 anni)
2. in base alle alterazioni indotte dalla miopia (Duke - Elder, 1949)
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 92

x miopia semplice: ametropia nella quale non vengono riscontrate alterazioni del
fondo oculare; di solito insorge entro i 4 e 7 anni d’età e la sua progressione

x miopia degenerativa: forma di ametropia che si associa a degenerazioni del


tende a ridursi dopo l’adolescenza

polo posteriore, le quali in casi estremi possono portare alla cecità

x miopia assiale: nella quale l’errore refrattivo è imputabile ad una lunghezza


3. in base al fattore prevalente che induce miopia (Emsley, 1953)

x miopia refrattiva: nella quale l’errore refrattivo è imputabile ad un potere del


anomala del bulbo oculare

sistema diottrico oculare anomalo; questa a sua volta può essere ulteriormente
suddivisa in:
I. da indice: quando è dovuta ad una alterazione dell’indice di refrazione di
uno o più mezzi diottrici oculari (es. cataratta nucleare)
II. da curvatura: quando è dovuta ad una alterazione della curvatura di uno o
più mezzi diottrici oculari
III. da posizione: causata principalmente dalla profondità della camera
anteriore, la quale dipende dalla posizione del cristallino rspetto agli altri
mezzi diottrici oculari

x miopia fisiologica (lieve, semplice o benigna): dovuta ad una mancanza di


4. in base all’entità ed alle alterazioni del fondo oculare (Curtin, 1985)

correlazione tra potenza del sistema e lunghezza del bulbo, pur avendo
entrambi i parametri valori nella normalità; fanno parte di questa categoria

x miopia intermedia (media o modesta): situazione in cui la lunghezza del bulbo


miopie fino a 3.00 dt.

oculare è superiore al range di normalità (> 25 mm), ma non si riscontrano


alterazioni del fondo oculare; fanno parte di questa categoria le miopie tra 3.00
e 5.00 dt (in assenza di alterazioni del fondo anche miopie fino a 10.00 dt)
Queste prime due categorie possono essere a loro volta suddivise in base all’età di
insorgenza:
I. miopia congenita – quando è presente alla nascita e scompare nei
primissimi mesi di vita (si riscontra circa nel 6% dei neonati)
II. miopia giovanile o infantile o acquisita – quando si sviluppa tra i 5 e i 12
anni di età; la miopia aumenterà tanto più velocemente quanto più precoce
è stata la sua insorgenza
III. miopia tardiva – si sviluppa dopo i 15 anni, cioè in una fase dove lo
sviluppo sia oculare che generale si è concluso; le persone che sviluppano
questo tipo di miopia sono prevalentemente persone che svolgono la

x miopia patologica (elevata o maligna): situazione in cui la lunghezza del bulbo


maggior parte del loro lavoro da vicino

risulta molto lontana dai valori medi (> 32 mm) associata a tutta una serie di
complicazioni patologiche del fondo oculare

Fino a 3.00 dt Da 3.00 a 5.00 dt Da 5.00 a 8.00/10.00 dt Olre 10.00 dt


Fisiologica Fisiologica/intermedia Intermedia/patologica Patologica
dpp-r < 22 mm dpp-r da 22 a 25,5 mm dpp-r da 25,5 a 32,5 mm dpp-r > 32,5 mm

5. in base alla teoria dello sviluppo miopico (McBrien – Bames, 1984)


5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 93

x teoria statistico-biologica: l’ametropia rappresenta, statisticamente, una

x
normale variazione biologica di una componente fisiologica
teoria dell’uso-abuso: la miopia è vista come un adattamento ad una situazione

x
di uso eccessivo della visione da vicino
teoria dell’emmetropizzazione: quando il processo di emmetropizzazione è
disturbato da un feedback negativo che influenza il processo di messa a fuoco,
può manifestarsi miopia

x
6. in base all’età di insorgenza della miopia (Grosvenor, 1987)
miopia congenita: nonostante molti bambini nascano miopi questa
classificazione include solo quelli in cui la miopia persiste durante l’infanzia

x
ed è presente all’inizio della scuola (circa il 2%)
miopia ad insorgenza precoce o giovanile (youth onset): si evidenzia durante il
periodo di tempo compreso tra i 6 anni e tutta l’adolescenza (20 anni); durante

x
questo periodo la percentuale cresce dal 2% a 6 anni fino al 20% a 20 anni
miopia ad insorgenza adulta precoce (early adult onset): fa la sua comparsa nel

x
periodo che va dai 20 ai 40 anni e la percentuale sale al 30%
miopia ad insorgenza adulta tardiva (late adult onset): si presenta dopo i 40
anni e la percentuale tende ad aumentare durante gli ultimi anni di vita.

5.2.3 Sintomi e segni della miopia

x acuità visiva bassa per lontano


I sintomi che generalmente lamenta il soggetto miope sono:

x buona acuità visiva per vicino


x astenopia: più precisamente mal di testa, dolori sopraciliari, dolori dei bulbi
oculari, in quanto, in alcuni studi, è stato rilevato la presenza di
accomodazione anomala nell’occhio miope, in parte dovuta ad uno squilibrio
tra accomodazione e convergenza

Invece l’operatore come segni può notare la tendenza del soggetto a strizzare le
palpebre, una certa midriasi e, nei casi di miopia più elevata, esoftalmo (eccessiva
sporgenza dell’occhio verso l’esterno). Altresì, in caso di miopia elevata e di
eccessivo allungamento assiale, possono essere più facilmente presenti alterazioni
del fondo oculare, evidenziabili con un esame oftalmoscopico.

x ridotta AV per lontano,


Inoltre, durante la refrazione possiamo notare:

x buona AV per vicino,


x PP più vicino rispetto al coetaneo emmetrope,
x PR a distanza finita,
x miglioramento dell’AV con foro stenopeico.
In funzione dell’acuità visiva presente, a meno che non scenda al di sotto di 1/10,
può essere calcolato all’incirca il difetto refrattivo; ogni 0,25 dt di miopia il nostro
occhio perde circa 1/10 di visione.

AV 2/10 a 2,00 dt; AV 5/10 a 1,25 dt; AV 8/10 a 0,50 dt


Esempi:
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 94

5.3 Ipermetropia e sue classificazione


L’ipermetropia è quella ametropia in cui, con l’accomodazione completamente
rilassata, la focale dell’occhio è maggiore della distanza piano principale/retina
(Fig.2), quindi un oggetto posto all’infinito forma la sua immagine dietro la retina.

f’ > d pp/r

F’

Fig. 2: Occhio ipermetrope

x quando il potere della cornea e/o del cristallino è inferiore al normale


Questa condizione si realizza nei seguenti casi:

x quando il cristallino è troppo lontano dalla cornea, cioè quando la camera


(ipermetropia refrattiva),

x quando la lunghezza antero-posteriore dell’occhio è inferiore al normale


anteriore è più profonda della norma,

x quando il cristallino è assente.


(ipermetropia assiale),

x congenita,
L’ipermetropia può essere suddivisa in:

x acquisita,
x fisiologica (massimo 0,50 dt).
L’ipermetropia congenita è presente fin dalla nascita e generalmente perdura
durante i primi 6-7 anni di vita, successivamente invece può manifestarsi una
riduzione del difetto grazie all’allungamento assiale del bulbo dovuto
all’accrescimento, che addirittura può andare a sfociare in miopizzazione.
L’ipermetropia acquisita invece si può manifestare in qualunque momento
nell’arco della vita, in particolare dopo i 45 anni, a causa della riduzione
dell’accomodazione. Il soggetto ipermetrope non corretto compie costantemente un
determinato sforzo accomodativo che gli occorre per mettere a fuoco gli oggetti
all’infinito. Inoltre, nella visione a distanza finita (all’interno dei 6 metri), lo sforzo
accomodativo risulta essere maggiore rispetto al soggetto coetaneo emmetrope
della quantità dell’ametropia stessa; quindi tale sforzo aumenta in proporzione
diretta con l’ipermetropia da compensare e la distanza dell’oggetto osservato. A
causa di questa eccessiva attività il muscolo ciliare del giovane ipermetrope
acquista un determinato tono fisiologico il quale fa si che una certa quantità di
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 95

accomodazione rimanga permanentemente esercitata, non potendo più essere


rilasciata volontariamente.

x
L’ipermetropia può essere classificata, in base alla sua entità, in:

x
bassa, fino alle 3,00 dt

x
media, tra le 3,25 e le 5,00 dt
elevata, maggiore alle 5,00 dt.

L’ipermetropia può essere suddivisa in:


1. manifesta; quella parte di ametropia che corrisponde alla massima lente
positiva che permette la massima acuità visiva, praticamente il valore che si
misura con la refrazione.
2. latente; quella parte di ipermetropia che non si può misurare senza l’uso dei
cicloplegici, poiché rimane nascosta sotto forma di accomodazione tonica a
livello del muscolo ciliare, cioè dovuta ad un aumento del tono fisiologico del
muscolo ciliare.
Inoltre l’ipermetropia manifesta può essere classificata in base all’entità di
ametropia rapportata alla quantità di potere accomodativo disponibile in:
1. facoltativa; che corrisponde alla parte di ipermetropia che può essere
compensata mediante l’accomodazione. A causa della graduale perdita di PA
con l’età l’ipermetropia che in gioventù non era stata evidenziata, perché
mascherata dal potere accomodativo, gradualmente diventa assoluta.
2. assoluta; è data da quella lente oftalmica che misura quella parte di
ipermetropia che l’accomodazione non riesce a correggere.
Quindi possiamo considerare che:

x se PA t A, iperm. facoltativa, AV buona (AV > 10/10)


x
x
se PA < A, ipermetropia in parte facoltativa e in parte assoluta, AV < 10/10
se PA = 0, ipermetropia assoluta, AV < 10/10.

5.3.1 Sintomi e segni dell’ipermetropia

x buona acuità visiva da lontano,


I sintomi che generalmente lamenta il soggetto ipermetrope sono:

x difficoltà nella visione da vicino (a seconda dell’età),


x astenopia, più precisamente mal di testa, dolori sopraciliari, dolori dei bulbi
oculari, arrossamento, lacrimazione e bruciore agli occhi soprattutto a fine
giornata.
L'esaminatore può notare una diffusa iperemia congiuntivale e una miosi.

x buona AV per lontano,


Inoltre durante la refrazione possiamo notare:

x AV per vicino che varia a seconda del PA disponibile,


x punto prossimo più lontano rispetto al coetaneo emmetrope.
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 96

5.4 Astigmatismo: introduzione e definizione

L’astigmatismo è il terzo tipo di ametropia e a differenza delle altre due è


caratterizzato dal fatto che i raggi luminosi che entrano all’interno dell’occhio non
vanno a fuoco tutti nello stesso punto, ma su due piani focali differenti. I sistemi
diottrici astigmatici non presentano simmetria di rivoluzione rispetto all’asse ottico
ed ogni sezione presenta una curvatura diversa (Fig. 3).

Fig.3: Sistema diottrico astigmatico in cui R1 z R2

I meridiani nei quali la curvatura è maggiore e minore possiedono rispettivamente


il minore ed il maggiore potere diottrico; questi sono i “meridiani principali”. La
differenza di potere tra i due meridiani principali rappresenta l’astigmatismo del
sistema. Se l’oggetto è posto all’infinito in corrispondenza dei due piani focali, si
formano due “linee focali”; se l'astigmatismo è regolare, sono ortogonali tra loro
ed ognuna è ortogonale al meridiano che la genera, quindi la linea focale
orizzontale è generata dal meridiano verticale e quella verticale dal meridiano
orizzontale. Un sistema astigmatico con diaframma di forma circolare, come
l’occhio con il suo diaframma pupillare, forma un fascio di raggi rifratti che
assumono la forma di una conoide, la “conoide di Sturm” (Fig. 4). La distanza tra
le linee focali viene detta “intervallo di Sturm” ed è proporzionale all’entità
dell’astigmatismo.

Fig.4: Conoide di Sturm


5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 97

5.4.1 L’astigmatismo oculare

Quando il sistema diottrico oculare presenta astigmatismo, le radiazioni luminose


provenienti dall’esterno formano immagini sfuocate, qualunque sia la sezione del
conoide che va a focalizzarsi sulla retina. Si associa spesso alla miopia ed
all’ipermetropia ed è un’ametropia di natura quasi esclusivamente refrattiva.
Vediamo nel dettaglio quali sono le fonti eziologiche di tale difetto refrattivo:
1. Astigmatismo corneale: principalmente è a carico della superficie corneale
anteriore, in quanto è sufficiente una modesta differenza di curvatura tra i
meridiani principali della cornea per avere un astigmatismo importante. Il valore
medio dell’astigmatismo che si crea è circa 0,50 - 1,00 dt secondo regola
(meridiano verticale più potente). Per quanto riguarda la superficie posteriore,
l’astigmatismo che può generare è di entità trascurabile, circa 0,25 – 0,50 dt contro
regola.
2. Astigmatismo interno (a carico del cristallino): le superfici del cristallino
mediamente presentano un astigmatismo contro regola di circa 0,25 – 0,50 dt.
3. Astigmatismo dinamico: è un astigmatismo, o la variazione di esso,
conseguente all’azione accomodativa necessaria per guardare a distanza
ravvicinata. È una condizione molto rara e generalmente non supera le 0,25 dt.
4. Astigmatismo retinico: può derivare dalla toricità della retina conseguente ad
uno stafiloma miopico, oppure potrebbe essere la conseguenza di un intervento
chirurgico di cerchiaggio eseguito in presenza di distacco di retina.
5. Astigmatismo patologico: l’astigmatismo può essere causato da patologie
quali il cheratocono, lo pterigio, il calazio, cicatrici corneali ecc.; in questi casi
generalmente si risconta un astigmatismo di tipo irregolare.

5.4.2 Classificazione dell’astigmatismo

Una suddivisione fondamentale, soprattutto ai fini della possibilità di


compensazione, è quella che si basa sulla regolarità dei mezzi diottrici oculari. Ed

x Astigmatismo regolare: è la situazione in cui le superfici diottriche dell’occhio


allora avremo:

non presentano né irregolarità di curvatura né distribuzione irregolare di indice


di refrazione. In questo caso avremo dei meridiani principali ortogonali tra
loro e che daranno origine a due linee focali. L’occhio generalmente presenta

x Astigmatismo irregolare: solitamente viene definito come quella condizione


questo tipo di astigmatismo.

nella quale i meridiani principali non sono ortogonali tra loro; sarebbe più
preciso parlare di situazione in cui il sistema diottrico oculare presenta delle
irregolarità di curvatura o di distribuzione di indice (non omogeneità). A volte
le irregolarità sono così marcate, come nel cheratocono avanzato, che non
possiamo neanche parlare di meridiani principali; in questi casi non sono
presenti due linee focali ed ovunque si sezioni il fascio rifratto si trovano
figure di diffusione irregolari. Mancando di regolarità l’unica possibilità per
compensare in modo soddisfacente questo tipo di astigmatismo è l’utilizzo
delle lenti a contatto fisicamente rigide, le quali fanno si che si formi un
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 98

menisco lacrimale tra lente e superficie corneale in grado di regolarizzare il


sistema.

x Astigmatismo secondo regola: il meridiano verticale è più potente e quindi più


Un’altra classificazione è legata alla conformazione dei meridiani corneali:

curvo di quello orizzontale; in questo caso la focale orizzontale sarà più vicina

tra 70° e 110° (tolleranza di r 20°).


ai piani principali. Si parla di meridiano verticale quando questo è compreso

x Astigmatismo contro regola: il meridiano orizzontale è più potente e quindi


più curvo di quello verticale, così che la focale verticale sarà più vicina ai

e 20° e tra 160° e 180° (tolleranza di r 20°).


piani principali. Per meridiani orizzontali si considerano quelli compresi tra 0°

x Astigmatismo obliquo: condizione in cui i meridiani principali sono obliqui,


compresi tra 110°/160° e 20°/70°.
Oltre a questo l’astigmatismo può essere classificato in funzione della posizione
delle focali rispetto alla retina:
a. atigmatismo ipermetropico semplice; una focale è sulla retina l’altra si trova
dopo di essa
b. atigmatismo ipermetropico composto; entrambe le focali sono posizionate
oltre la retina
c. atigmatismo misto; una focale è prima l’altra è dopo la retina
d. atigmatismo miopico semplice; una focale è sulla retina l’altra si trova prima
di essa
e. atigmatismo miopico composto; entrambe le focali sono posizionate prima
della retina.

Fig.5: Posizionamento focali a livello retinico in caso di astigmatismo

Quando vogliamo catalogare un astigmatismo per poter capire la disposizione delle


focali rispetto alla retina dobbiamo integrare quest’ultima classificazione con
quella precedente. Per ognuno di questi casi quindi dovremo specificare se
l’astigmatismo è secondo o contro regola oppure se è obliquo.

x astigmatismo debole: compreso tra 0 ed 1,00 dt


Infine, a seconda del valore di astigmatismo, possiamo avere:

x astigmatismo medio: compreso tra 1,00 e 2,00 dt


x astigmatismo elevato: superiore alle 2,00 dt.
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 99

5.4.3 Sintomi dell’astigmatismo


A seconda del tipo di astigmatismo e del suo valore diottrico la sintomatologia può
essere molto diversa, in quanto valori molto bassi possono essere asintomatici. In

x visione sfuocata sia da lontano che da vicino,


soggetti con valori di astigmatismo più alti possiamo avere:

x cefalea,
x bruciore agli occhi e lacrimazione,

5.4.4 Cheratocono e microambiente

Il cheratocono (CC) (OMIM148300) è una ectasia corneale, bilaterale e


progressiva benchè generalmente asimmetrica, correlata ad una moltitudine di
fattori genetici, ambientali esterni e di microambiente oculare, ad esordio in II – III
decade e comunque postpuberale; presentaprogressivo assottigliamento e
sfiancamento dello stroma corneale dell’apice e/o della media periferia inferiore,
che assume forma conoide ed induce miopia (cd ‘miopia anteriore’) ed
astigmatismo irregolare, con segno precoce di Amsler all’oftalmometro.
L’incidenza varia tra 50 e 230/100.000 soggetti con ampie differenze etniche; nel
6-8% dei pazienti esiste una documentata familiarità, con alta concordanza nei
gemelli monozigoti; talora è trasmesso con tratto mendeliano o associato a malattie
genetiche (trisomia 21, amaurosi di Leber, malattie del connettivo, etc.), ma
esistono molti casi sporadici. La prevalenza varia da 0,003% in Russia a 0,086% in
Danimarca, 0,249% in Iran, 2,3% in India centrale a 600/100,000 in studi di
popolazione USA. Tutti gli strati corneali, eccetto l’endotelio, mostrano alterazioni
istopastologiche strutturali. Oltre al difetto refrattivo sono rilevabili segni clinici
come l’anello di Fleischer (depositi di ferro a contorno del cono), strie di Vogt
(interessano lo stroma profondo e la Descemet), l’assottigliamento corneale
ectasico e il segno di Munson nello sguardo in basso, la variazione pachimetrica
alla cheratotopografia che unitamente alla microscopia confocale hanno portato un
contributo fondamentale allo studio ed alla classificazione dinamicadel CC sec.
Caporossi,integrando l’istopatologia dei sei strati corneali, comprensivi dei 15
micron predescemetici di Dua. L’idrope del CC evoluto e scompensato è legata
non solo a rotture della Descemet, ma anche a lesioni o deiscenza dello strato di
Dua (DL), povero o privo di cheratociti, che l’Autore ritiene essere responsabile di
mantenere la resistenza alla perforazione nel descemetocele, mentre nel contesto
dell’alterazione del collagene nel CC, la distruzione di DL causata da proteolisi
indebolisce la Descemet che rapidamente si perfora dando luogo a idrope dello
stroma.

a 2- Disfunzione dei cheratociti


In CC, i cheratociti hanno quattro volte più recettori per interleuchina 1 (IL1):
questa attiva le collagenasi, le metalloproteinasi (MMP) con overespressione di
IL6 e di fattore di crescita dei cheratociti, stimolando i fibroblasti e regolando una
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 100

iperproduzione di prostagtlandina E2, ma, per contrasto, una bassa produzione di


collagene, con induzione di apoptosi stromale che ne modifica l’organizzazione
strutturale; il transforming growth factor–beta1(TGF-beta1) favorisce la
trasformazione dei cheratociti in miofibroblasti, per stabilizzare il tessuto, attiva
una iperegolazione di citochine infiammatorie che inducono apoptosi e possibile
evoluzione in fibrosi, con formazione di cicatrice leucomatosa nell’area del CC.

Alterazione del microambiente e citochine


L’incremento di IL6 e TNF-alpha nelle forme subcliniche, con la presenza di
MMP-9 nelle lacrime dei pazienti con CC manifesto, supporta l’ipotesi di una
componente infiammatoria nella genesi di CC, confermata dalla marcata presenza
di IL-beta e di interferon-gamma, a fronte di riduzione di IL-10, citokina
antinfiammatoria, supportando la necessità di considerare un ruolo per
l’infiammazione nell’evoluzione del CC, sia nel tessuto che nel microambiente
lacrimale. Nei soggetti normali la lattoferrina controlla l’espressione di citochine e
proteinasi: in CC risulta sottoespressa, suggerendo l’ipotesi di una rottura di
barriera protettiva. Per contro risultano sovraespresse la cheratina, i proteoglicani
di matrice extracellulare, il collagene I – III - V, i livelli di MMP-1: risultati che
correlano con patologia degenerativa ma anche con caratteristiche infiammatorie e
di rilevante stress ossidativo.
Negli stati allergici è stato rilevato incremento di citochine IL-6 e di TNF-alpha
nelle lacrime dei pazienti CC, riconoscendo una forte correlazione con allergia
oculare e una associazione positiva con l’atopia (asma, eczema, febbre da fieno).
Ciò ha portato ad indicare lo sfregamento dell’occhio, indotto dal fastidio
dell’atopia, come fattore di rischio per CC, per un presumibile aumento di
temperatura dovuto allo sfregamento con incremento di MMP-13 nelle lacrime.
Analogo meccanismo è ipotizzato per l’uso di lenti a contatto, in particolare per
lenti gas permeabili che inducono iperegolazione di IL-6, TNF-alpha, ICAM-1
(molecole di adesione intercellulare, codificate da gene ICAM-1) e VCAM-1
(molecole di adesione cellulare vascolare), nelle lacrime dei portatori.

Profilo enzimatico.
MMPs, coinvolte nella degradazione di fibrille collagene denaturate, sono
iperespresse in tutte le strutture corneali in CC. MMP-1, iperespresso insieme ad
induttore di matrice extracellulare CD147(EMMPRIN), glicoproteina di superficie
cellulare nota per la capacità di indurre produzione di MMP nei fibroblasti a
seguito di interazione epitelio-stroma, degradano la fibronectina, le glicoproteine
di membrana ed il collagene I e III; la gelatinasi MMP-9 degrada le fibrille
collagene denaturate nelle patologie con componente infiammatoria. L’incremento
di MMP-14 in epitelio e stroma condiziona l’iperespressione di gelatinasi A
(MMP-2) che attiva la digestione delle lamelle di collagene IV e di MMP-14: la
presenza di questi enzimi è interpretata come segno di deficit di cicatrizzazione.
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 101

Stress ossidativo.
Neutralizzare i radicali liberi dell’ossigeno (ROS) e gli ossidanti continuamente
prodotti dagli ultravioletti ed i cataboliti cellulari è un compito rilevante del
‘sistema cornea’; i fattori protettivi sono rappresentati dalla superossidodismutasi
(SOD), antiossidanti a basso peso molecolare come l’acido ascorbico, la ferritina,
il glutatione e ad alto peso molecolare come catalasi e glutatione perossidasi. La
valutatione delle componenti totali consente di stabilire l’indice di stress
ossidativo, che, qualora aumentato, risulta fattore predisponente al CC ed alla sua
progressione. Nel CC il contenuto di glutatione è ridotto, ciò che induce accumulo
di aldeidi e perossinitriti con effetto citotossico; la iperregolazione di IL1-alpha
riduce la sintesi di SOD, alterando la barriera antiossidante, mentre
l’iperespressione di catepsina induce produzione di perossido di idrogeno (H2O2).
L’architettura stromale è destrutturata da un basso livello di inibitori tessutali delle
MMP (TIMP), TIMP-1che ha azione antiapoptotica e da alti livelli di TIMP-3 che
ha azione proapoptotica. Lo squilibrio verso TIMP-3 comporta incremento della
apoptosi dei cheratociti. Una correlazione tra progressione del CC e lo stato di
infiammazione sistemica può essere evidenziata valutando il rapporto
neutrofili/linfociti (NLR), maggiore nei casi con progressione rispetto ai casi
stazionari o frusti.
Una intensa attività proteolitica con denaturazione del collagene è un fattore di
accelerazione della progressione: se ne può trovare riscontro nelle lacrime di CC
evolutivo, insieme a incremento di catepsina B, proteasi lisosomiale che degrada le
proteine della matrice e a decremento di cistatine (gruppo di inibitori della cisteina
proteasi, espresso dal gene CST3).
Si può concludere che ci sono evidenze sufficienti per confermare che tra i fattori
ambientali lo sbilanciamento tra citochine infiammatorie, proteasi e loro inibitori,
come anche radicali liberi e ossidanti gioca un ruolo chiave nella patogenesi del
CC.

Considerazioni genetiche.
Benchè l’etiologia rimanga ambigua e multifattoriale con influenze ambientali,
soltanto recentemente ha visto sciogliere alcuni enigmi genetici ed emergere
invece l’evidenza dell’iperespressione di mediatori infiammatori nelle lacrime
(Gordon-Shaag et al. 2015), ciò che riporta all’attenzione la sindrome di Lodato
(Frezzotti – Guerra 2006).
Sono documentate sia la trasmissione autosomica dominante che recessiva, con 19
loci di possibili mutazioni, ciò che indica la eterogeneità genetica della patogenesi
del CC.
Tra questi, gli studi di linkage hanno evidenziato loci in cromosoma 5q21.2 e
5q32-33; 14q11.2; 16q22.3-q23; 1p36.23-36.21 e 8q13.1-q21: ma non sono state
identificate mutazioni nei 6 geni candidati espressi nella cornea. Una mutazione di
15q22-q25, in microRNA (miR-184) associa CC e cataratta congenita e secondo
Gordon-Schaag potenzialmente correla piuttosto con quest’ultima. In un modello
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 102

autosomico dominante, 13q32 è stato associato a CC per mutazione in DOCK9


(dedicator of cytokinesis 9) con scambio GTP/GDP che attiva specificatamente la
proteina-G CDc42 (cell division cycle 42) regolatore della riparazione delle lesioni
corneali ed è espresso nella cornea. Il dato è in attesa di conferma.
5q14.3-q21.1 esprime gene CAST che codifica calpastatina, inibitore di calpaine,
proteinasi intracellulari non lisosomiali, la cui attività è Ca 2+ dipendendente e la
cui distribuzione nell’epitelio della cornea affetta da CC differisce dal normale.
Anche potenziali mutazioni di IL1RN (interleukin 1 receptor antagonist) e
SLC4A11 (solute carrier family 4, borate transporter, member 11) sono state
identificate con studi di linkage.
La subunità catalitica di proteine che attiva GTPase Rab3 è un enzima che
nell'uomo è codificato dal gene RAB3GAP1 localizzato in 2q21.3 ed appare
suggestivamente associato a contributo genetico di questa regione al CC.
Gli studi sullo spessore corneale (CCT) con ampia associazione genomica
(GWAS) hanno riportato correlazione con le regioni FOXO1 e FNDC3B, che
implicano il ruolo del pathway del collagene e della matrice extracellulare nella
determinazione di CCT e potenzialmente di CC. La variante missenso in ZNF469
(zinc-finger protein) attiva come fattore di trascrizione o regolatore extranucleare
sulla sintesi e l’organizzazione delle fibre collagene, presenta alcune delezioni nei
CC familiari ed è correlata anche a sindrome della cornea fragile (Burkitt Wright et
al. 2013).
Anche per il CC come per la miopia risulta una correlazione con HGF che regola la
crescita cellulare, la motilità cellulare e la morfogenesi attivando la cascata della
tirosina ciò che suggerisce il potenziale coinvolgimento del correlati pathways
infiammatori (Gordon-Shaag).
Tra i geni candidati, lo screening del gene homeobox VSX1 (Visual System X1)
con next –generation sequencing analysis ha individuato 2 mutazioni (D144N e
D295Y) fortemente correlabili alla patogenesi (Bardak et al. 2016). VSX1 codifica
una proteina che si lega al cluster genico del pigmento rosso e verde e può regolare
l’espressione dei geni dell’opsina dei coni nello sviluppo embrionario; ma la sua
espressione nella cornea è dubbia, non sempre confermata e potenzialmente
correlata ad una ridotta percentuale di CC, ciò che è compatibile con la definizione
di eterogeneità genetica del CC.
È accettato che stress ossidativo abbia ruolo importante nella progressione del
CC (così come eventi meccanici di strofinamento) e nelle cornee affette sono stati
documentati accumuli di prodotti di degrado citotossici e danni del DNA
mitocondriale, ma il gene candidato superossidodismutasi (SOD1) non ha mostrato
alterazioni.
L’identificazione del polimorfismo di LOX (collagen crosslinking enzyme lysyl
oxidase), potenzialmente responsabile di linkage a 5q32-q33, gene che innnesca il
crosslinking di collagene ed elastina catalizzando la deaminazione in residui di
lisina e idrossilisina, chiarisce come difetti di LOX inducano un indebolimento
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 103

biomeccanico della cornea; risulta attenuato e diversamente distribuito nell’epitelio


a livelli corrispondenti al grado di severità del CC.
Brancati et al. (2004) hanno descritto 14 membri in due generazioni di una
famiglia italiana a trasmissione autosomica dominante con nuova localizzazione in
3p14-q13, con variabili espressioni in forme fruste e in forme evolutive sottoposte
a cheratoplastica.
È dunque evidente che il cheratocono risulta correlato ad anomalie in diversi
pathways biochimici le cui interazioni non sono a tutt’oggi completamente chiarite
e richiedono ulteriori indagini genetiche.
6. Accomodazione e convergenza 105

Capitolo 6 – Accomodazione e convergenza


L. Mele, P.E. Gallenga
6.1 Introduzione
Quando un soggetto fissa con entrambi gli occhi un oggetto posto all’infinito, se
questo si avvicina, i suoi occhi devono aumentare il proprio potere per far sì che
sulla retina si formi un’immagine perfettamente a fuoco dell’oggetto fissato; oltre a
questo, l’angolo che si forma fra gli assi visivi dei due occhi deve aumentare per
permettere alle immagini dell’oggetto di rimanere sulle fovee dei due occhi (Fig.1).

Fig.1: Variazione dell’angolo tra gli assi visivi con un oggetto in avvicinamento

Questi due processi sono conosciuti come accomodazione, variazione del potere
refrattivo degli occhi, e convergenza, aumento dell’angolo formato tra gli assi
visivi (se l’angolo tra gli assi visivi diminuisce il processo prende il nome di
divergenza). La sinergia che si crea tra accomodazione e convergenza, oltre al
restringimento del diametro pupillare, nella visione per vicino è stato definito
“complesso della visione da vicino”. L’accomodazione è il meccanismo autonomo
dell’apparato visivo che consiste nella capacità del cristallino di modificare il suo
potere refrattivo tramite il muscolo ciliare che determina un cambiamento nella
forma della lente, in modo da adeguare la propria visione alle varie distanze di
fissazione dall’infinito, alle distanze intermedie fino a quelle molto ravvicinate.
Queste variazioni permettono all’occhio di mantenere l’immagine retinica nitida
quando l’oggetto fissato si sposta tra Punto Prossimo e Punto Remoto di visione
nitida (Fig.2). Lo stimolo all’accomodazione è l’immagine retinica sfuocata.

Fig.2: Schematizzazione del cambiamento strutturale del cristallino durante il processo


dell’accomodazione; A – occhio disaccomodato, B – occhio accomodato
6. Accomodazione e convergenza 106

6.2 Filogenesi dell’accomodazione

È comunemente accettato che l’organo visivo si è evoluto più di una volta, a partire
dal semplice percettore di onda elettromagnetica del Trilobitanel Cambriano
Inferiore (400–500 milioni di anni), occluso da calcite semitrasparente e dal
percettore della Fenestraria rhoparophylla, sepolta nella sabbia desertica per
risparmio termico con “l’occhio vegetale” capace di sintesi clorofilliana, poi
nell’occhio “semplice” dei molluschi e dei vertebrati e nell’occhio composto degli
artropodi, benché la base monofiletica nei metazoi siano il comune uso della
rodopsina come molecola fotorecettoriale e la presenza del “master control gene
Pax 6” che regola lo sviluppo dell’occhio. Che lo sviluppo strutturale dell’organo
visivo sia mono- o poli–filetico non modifica il fascino della scoperta
dell’esistenza di soluzioni comuni a comuni problemi ottici nell’ambito
dell’evoluzione.
Esempi ne sono il tapetum lucidum, strato riflettente della coroide o l’epitelio
pigmentato della retina, presente in specie notturne per aumentare la possibilità che
l’energia luminosa raggiunga il livello utile di stimolazione dei fotorecettori. È
proprio la familiarità tra l’occhio dei cefalopodi e dei vertebrati che è stata
identificata come evidente esempio di “evoluzione convergente”. In particolare la
presenza di lente sferica/quasi sferica per focalizzare la luce sulla retina.
Il cristallino dei vertebrati è ectodermico, cresce per tutta la vita dall’equatore per
l’attività mitotica che mantiene centralmente il tessuto più anziano, creando una
lente con gradiente di indice refrattivo, ove l’indice aumenta dalla periferia verso il
centro. Nei vertebrati acquatici, come i pesci, il cristallino è l’unico elemento
refrattivo: nei Teleostei ha una relativa lunghezza focale costante, nota come
Matthyssen ratio, di 2.55 (raggio laterale/lunghezza focale); la pupilla è immobile,
l’occhio lavora costantemente a bassi livelli, l’aberrazione sferica non può essere
neutralizzata da opposta aberrazione corneale e poiché i pesci accomodano per
spostamento dell’intero cristallino e non per modifica della sua forma,
l’accomodazione sferica non è interessata. Nei Cefalopodi il cristallino si sviluppa
da due separate metà germinative ectodermiche di differenti dimensioni:
l’anteriore incapsula la primordiale metà posteriore; nella seppia la lente è
composta da proteina solubile S-cristallina e le qualità ottiche del cristallino sono
inferiori a quelle dei Teleostei; la pupilla dei cefalopodi si modifica e in condizioni
fotopiche può proteggere la retina dalla aberrazione della periferia del cristallino.
Nei Teleostei, l’accomodazione è gestita dal muscolo liscio Retractor lentis
innervato da fibre parasimpatiche postganglioniche che sposta il cristallino verso
la retina; la qualità e direzione del movimento sono correlate con l’ambiente
alimentare delle varie specie. Nell’Astronotus ocellatus (Oscar) la lente ruota con
movimenti nasale-temporale e mediale-laterale, separatamente o contemporanei,
per il doppio orientamento delle fibre del Retractor lentis.
Soluzioni estreme di filogenesi accomodativa sono state sviluppate nei pesci di
superficie e di profondità. L’Anableps anableps che nuota a filo d’acqua nelle foci
6. Accomodazione e convergenza 107

dei fiumi dell’America centrale ha sviluppato un particolare adattamento


morfologico per la visione simultanea sopra e sotto l’acqua, per il diverso indice di
refrazione; una banda pigmentata sulla cornea separa due diverse pupille, mentre
un cristallino ovoidale ha sostituito quello sferico tipico dei pesci e i coni sono
differentemente distribuiti: l’area retinica che riceve il segnale subacqueo ha
modificato la trascrizione dei fotorecettori privilegiando le opsine sensibili a medie
lunghezze d’onda nella retina ventrale e quelle sensibili ad onde lunghe soltanto
nella retina dorsale, mentre le opsine per UV e corte lunghezze d’onda sono
distribuite in tutta la retina.

Anableps a.

Il Dolichopteryx longipes, pesce di profondità delle isole Samoa e Nuova Zelanda,


‘‘pesce quattro occhi’’, ha sviluppato una parte inferiore con uno specchio
parabolico (evoluzione del tapetum) al posto del cristallino che riceve luce da una
cornea in basso e la invia ad una apposita retina ad un angolo di circa 90° per la
visione per vicino, mentre una cornea superiore trasmette la luce dall’ambiente
attraverso una unica camera vitrea alla retina principale: dunque non vi è
refrazione della luce ma solo riflessione (ciò che riduce le aberrazioni); lo specchio
è formato da cristalli di guanina orientati ciascuno con angolo differente, cosicchè
l’immagine è riflessa e focalizzata in uno specifico punto della retina secondaria
(Wagner et al. 2008).
Anche un altro pesce mesopelagico teleosteo di profondità, il Rhynchohyalus
natalensis (pesce ‘’occhio a botte’’), presenta occhio diverticolare con ottica
riflettente, ma i cristalli riflettenti derivano invece dalla lamina argentea coroideale
e sono paralleli alla superficie specchiante, così che la formazione dell’immagine è
funzionale per riflessione allo specchio diverticolare di ciascun occhio tubulare: la
selezione dell’ambiente (Partridge et al. 2014) ha condizionato soluzioni differenti
in queste specie correlate di teleostei opistoproctidi per estendere la visione ristretta
di un campo visivo tubulare ed ottenere una immagine focalizzata con ottica di
riflessione.
Nella specie Homo, evoluto in bipedismo nella savana ad est della Rift Valley, con
sistema antigravitazionario piede-orecchio-occhio (Gallenga e coll. 2015) le
differenze fra stimolo e risposta accomodativa appaiono come ritardo
(accomodazione insufficiente, ipermetropia: l’immagine si forma dietro la retina)
6. Accomodazione e convergenza 108

prevalente per vicino e anticipo (eccesso di accomodazione, miopia: l’immagine si


forma davanti alla retina) per il target lontano (Toates, 1971).
Queste differenze, questi “errori”, sono necessari per il controllo di biofeedback, in
cui l’accomodazione agisce come controllore proporzionale.
Cioè una informazione di defocus è necessaria al sistema nervoso autonomo per
guidare il sistema neuromuscolare responsabile della risposta accomodativa
corretta.
Tenendo in ovvia considerazione le differenze morfofisiologiche tra i meccanismi
accomodativi dei Teleostei e della specie Homo e al fatto che la contrazione del
muscolo accomodativo ha luogo per gli obiettivi lontani per i primi e vicini per i
secondi, Oscar mostra invece un ritardo di accomodazione per gli obiettivi vicini e
un anticipo per i lontani, come avviene in Homo. Negli Uccelli la forza di
contrazione del muscolo ciliare, in assenza di legamento sospensorio, è trasmessa
direttamente al cuscinetto anulare del cristallino, formato da allungamento delle
cellule epiteliali equatoriali, in presenza di solco corneoscerale accentuato,
mantenuto da un anello limbare di ossicini sclerali; il muscolo ciliare degli Uccelli
è striato, così come sfintere e dilatatore iridei, ed è innervato da fibre
parasimpatiche post ganglionari del III.
Un apparato accomodativo così sviluppato insieme alla consistenza soffice del
cristallino, ha prodotto in alcune specie acquatiche la possibilità di compensare con
il cristallino la perdita refrattiva corneale quando si immerge nell’acqua.
Così, quando l’anitra (Mergus cucullatus e Bucephala clangula o anitra
quattrocchi) si immerge a caccia di preda, ottiene una impressionante variazione
accomodativa fino a 70 – 80 D), cambiando la faccia anteriore del cristallino in un
lenticono anteriore.
Tuttavia altri Uccelli, tra cui il pollo possono anche modificare la curvatura
corneale attraverso la contrazione delle fibre anteriori del muscolo ciliare che si
inseriscono alle lamelle corneali interne, stirando la cornea posteriormente,
riducendo il raggio di curvatura e aumentando il potere refrattivo. Il gruppo di fibre
posteriori origina dalla sclera e si inserisce alla lamina basale del corpo ciliare:
durante la contrazione le pieghe ciliari vengono spinte contro il cristallino e ne
modificano la curvatura. Il terzo gruppo di fibre interne agisce sia sulla
accomodazione corneale che lenticolare. Nel pollo, nel piccione e nel gheppio
l’azione del primo gruppo di fibre è prevalente accentuando il ruolo della
accomodazione corneale; nell’anitra il secondo e terzo gruppo di fibre è più
sviluppato giustificando la preminenza dell’accomodazione lenticolare per le
necessità acquatiche.
Anche nel pollo l’accomodazione si riduce con l’invecchiamento, diminuendo
progressivamente da 22 – 23 D alla schiusa fino a 2 D ad 1 anno, con rapido
decremento iniziale a 10 D a 7 gg e 5 D a 6 settimane .
In Homo sapiens l’ampiezza accomodativa è massima intorno ai 10 anni e si riduce
di 24-28 volte a 65 anni (da 12 – 14 a 0.5 D).
6. Accomodazione e convergenza 109

Wiesel e Raviola (Nature 1977), hanno dimostrato la possibilità di indurre miopia


assile nel macaco per sutura palpebrale monolaterale alla nascita e nel pollo
deprivando precocemente alla schiusa la visione nitida per sutura della membrana
nictitante, con effetti che compaiono nell’arco di ore o giorni; ma anche usando
lenti concave o convesse è possibile indurre miopia o ipermetropia. Questo
modello sperimentale agisce fondamentalmente sulla lunghezza assile e non
modifica lo sviluppo del cristallino: cioè il cristallino sarebbe geneticamente
determinato in peso, dimensioni, morfologia, lunghezza focale, trasparenza e
quantità totale di proteina solubile, ma nei polli in cui sono indotte miopia o
ipermetropia è dimostrata una miglior aberrazione sferica ed una variazione nella
concentrazione di proteina delta-cristallina rispetto ai controlli. Pertanto sarebbe
incorretto sostenere che lo sviluppo del cristallino è soltanto geneticamente
determinato e non modificabile da fattori ambientali.
Sivak (2004) nella Proctor Lecture, riporta l’esperimento di Troilo e coll: la miopia
da deprivazione ha luogo anche se viene tagliato il nervo ottico, riducendo dunque
il ruolo di controllo legato all’accomodazione, ma la crescita e lo sviluppo
refrattivo è almeno parzialmente alterato dalla assenza di informazione afferente
del nervo ottico; cioè, quando l’ametropia viene indotta alterando il normale pattern
di stimolo retinico nel pulcino le caratteristiche focali del cristallino e la risposta
accomodativa sono alterate.
Nei casi in cui viene indotta miopia le lunghezze focali del cristallino sono ridotte,
così come l’accomodazione, mentre l’opposto si verifica quando viene indotta
ipermetropia.
È tuttavia importante non generalizzare eccessivamente, basandosi su questi
modelli, dal momento che ci sono più di 50.000 specie di vertebrati, di cui i pesci
sono il 50% con ampia varietà di storia naturale evolutiva e di bisogni visivi per la
sopravvivenza.
In conclusione: Gillum (1976) ha ben sintetizzato i meccanismi di accomodazione
nei vertebrati; tra questi, il meccanismo accomodativo varia con la filogenesi, la
struttura dell’occhio, le attitudini difensive (posizione temporale) o offensive
(posizione frontale) e le abitudini alimentari. Alcuni hanno sviluppato occhi così
piccoli per quanto riguarda una lunga profondità di fuoco, mentre altri con occhi
più grandi hanno strutture che richiedono un attivo meccanismo lenticolare. I
Ciclostomi e i Teleostei sono miopi e utilizzano la retrazione del cristallino per
accomodare per lontano. Salacidi, Anfibi, Rettili sono ipermetropi e spostano il
cristallino in avanti per accomodare per vicino; gli Anfibi vertebrati hanno la
massima ampiezza accomodativa. L’accomodazione dei Mammiferi è
relativamente nuova nella filogenesi ed è generalmente poco sviluppata, eccetto
nell’uomo, ma col passare degli anni la perdita di elasticità capsulare e la sclerosi
nucleare hanno il maggior ruolo nella riduzione della capacità accomodativa.
6. Accomodazione e convergenza 110

6.3 Punto prossimo

Il punto prossimo (P.P.) è il punto più vicino che l’occhio riesce a vedere nitido ad
accomodazione completamente esercitata. E’ quindi il punto in cui si forma
l’immagine reale oppure virtuale di un oggetto puntiforme monocromatico, posto
idealmente sull’asse ottico e sulla retina in visione fotopica e accomodazione
completamente esercitata.
1
P. A.  Am.
P.P.
dove:
P.A. => potere accomodativo Am. => ametropia
Esempio: dati tre soggetti con P.A. = 10,00 dt; 1) emmetrope 2) miope di 4,00 dt
3) ipermetrope di 4,00 dt, a che distanza avranno il punto prossimo?
1
10  0
1) P.P. 0,1metri 10cm
1
10  4
2) P.P. 0,07 metri 7cm

10   4
1
3) P.P. 0,17 metri 17cm

Nelle miopie il P.P. ha un valore superiore all’ampiezza accomodativa in quanto si


ottiene sommando l’accomodazione all’entità della miopia (esempio 2), al contrario
nell’ipermetrope il P.P. risulta inferiore all’ampiezza accomodativa in quanto una
parte dell’accomodazione viene utilizzata per neutralizzare il difetto visivo
portando il punto remoto all’infinito. Ne consegue che il valore dell’ametropia
ipermetropica va sottratto all’ampiezza accomodativa (esempio 3).

6.4 Punto remoto

Il punto remoto (P.R.) è il punto più lontano che l’occhio riesce a mettere a fuoco
ad accomodazione completamente rilassata. E’ quindi il punto in cui si forma
l’immagine reale oppure virtuale di un oggetto puntiforme monocromatico posto
idealmente sull’asse ottico e sulla retina in visione fotopica e ad accomodazione
completamente rilassata. Nell’occhio emmetrope il punto remoto si trova
all’infinito (Fig.2A), sempre considerando l’occhio con accomodazione rilassata,
nell’occhio miope si trova a distanza finita davanti l’occhio (Fig.2B), mentre
nell’ipermetrope si trova a distanza finita dietro l’occhio (Fig.2C) (oggetto
virtuale).

Fig.2: Punto remoto di un occhio emmetrope (A), di un occhio miope (B) e di un occhio
ipermetrope (C)
6. Accomodazione e convergenza 111

Il punto remoto viene calcolato tramite la seguente formula:

1
P.R. in metri =
A
Esempi:
0 o PR f
1 1
Ametropia
A 0
2.00dt o PR
1 1
Ametropia 0,5metri
A 2
2.00dt o PR 0,5metri
1 1
2
Ametropia
A

6.5 Variazioni fisiologiche nel processo dell’accomodazione

Durante l’accomodazione il corpo ciliare si contrae, così che la tensione


normalmente esercita sulla zonula di Zinn si riduce; in questo modo il cristallino,
che è una lente elastica, assume una forma più curva. Quando il corpo ciliare non è
più contratto aumenta la tensione sulla zonula di Zinn ed il cristallino ritorna più

x variazione del raggio di curvatura anteriore del cristallino da 10 a 6 mm,


piatto. Nel processo accomodativo possiamo riscontrare:

x a causa della variazione di curvatura della faccia anteriore del cristallino


mentre quello posteriore varia da – 6 a – 5,5 mm,

x aumento dello spessore del cristallino,


abbiamo una diminuzione della camera anteriore da 3,6 a 2,7 mm,

x aumento della tensione dei muscoli ciliari,


x miosi pupillare,
x deformazione delle fibre del cristallino che, schiacciandosi verso il suo asse
centrale, determinano una variazione dell’indice di refrazione n, tanto che
proprio 1/3 del potere accomodativo è dovuto all’incremento di tale valore.
Il potere accomodativo (P.A.) o ampiezza accomodativa può essere calcolato con la
formula di DONDERS:

 Ÿ PAdt  Adt Ÿ PPm


1 1 1 1
PAdt  Adt
PAdt
PPm PRm PPm

L’accomodazione è un meccanismo riflesso, infatti il cristallino cambia il proprio


potere tutte le volte che l’attenzione visiva si sposta su oggetti diversi senza che il
soggetto se ne renda conto. In funzione dello stimolo che innesca l’accomodazione
questa può essere classificata in tre tipologie, la somma delle quali determina la
risposta accomodativa finale, chiamata anche “risposta accomodativa aggregata”.

x accomodazione da sfuocamento
Le tre tipologie di accomodazione sono:

x accomodazione prossimale
x accomodazione da vergenze orizzontali.
6. Accomodazione e convergenza 112

6.6 Accomodazione da sfuocamento

Quando l’immagine retinica risulta sfuocata viene sollecitato il cristallino per far sì
che modifichi il proprio potere in modo da determinare un’ottimizzazione della
messa a fuoco e consentire quindi una visione chiara e distinta. La richiesta
accomodativa per una certa distanza può essere così calcolata:
1
ACCdt
xm
dove: Xm => distanza di fissazione in metri.

Ovviamente questo è un valore nettamente teorico, poiché la profondità di fuoco


può permette al sistema accomodativo di raggiungere la visione nitida senza
esercitare tutto il valore teorico di accomodazione. Così l’accomodazione effettiva
è:

E
1 dove: E => profondità di fuoco
ACC.effettivadt
xm

6.6.1 Profondità di fuoco e di campo

Per profondità di fuoco si intende la distanza, per un valore fisso di


accomodazione, davanti e dietro alla retina all’interno della quale l’immagine può
essere spostata senza determinare una riduzione di nitidezza tale da modificare il
valore dell’A.V.
Per profondità di campo si intende invece, sempre per un valore fisso di
accomodazione, la distanza all’interno della quale può essere spostato l’oggetto
senza determinare una riduzione di nitidezza tale da essere percepita dal soggetto
(Fig. 3).

Fig.3: Profondità di campo: 1) l’occhio è messo a fuoco sul punto o; 2) la profondità di campo si
estende da A a B, in quanto tra questi due punti il cerchio di diffusione non supera le dimensioni
massime che consentono la formazione di un’immagine riconoscibile.
6. Accomodazione e convergenza 113

La profondità di fuoco e di campo, “E”, può essere così calcolata:

ª§ 0,75 · º
r «¨¨ ¸¸  0,08»
¬© g ¹ ¼
E

g = diametro pupillare.
6.7 Accomodazione prossimale

La percezione della vicinanza apparente di un oggetto può scatenare


un’accomodazione nonostante l’immagine retinica non sia sfuocata e non sia stata
messa in gioco la convergenza. L’informazione che arriva alla coscienza circa la
distanza di un oggetto deriva dalle dimensioni apparenti dell’oggetto e da molte
altre caratteristiche ambientali. È come se l’apparato di controllo dell’innervazione
accomodativa “riconoscesse”, sulla base di precedenti esperienze, che, data la
distanza che l’oggetto sembra occupare nello spazio, date le caratteristiche
refrattive dell’occhio e tenuto conto della correzione ottica presumibilmente usata,
si rende necessario installare una determinata accomodazione per ottenere
un’immagine retinica nitida dell’oggetto.

6.8 Accomodazione da vergenze orizzontali

La convergenza o la divergenza sono di per sé capaci di mettere in gioco


l’accomodazione. Tutte le volte che gli occhi convergono avviene un aumento del
potere diottrico dei cristallini, mentre per contro ad una diminuzione della
convergenza, divergenza, si associa una riduzione del potere diottrico dei
cristallini.

6.9 Accomodazione aggregata

In condizione di visione normale la risposta accomodativa finale è costituita dalla


somma delle modificazioni accomodative sollecitate contemporaneamente da
stimoli accomodativi coerenti costituiti dallo sfuocamento dell’immagine retinica,
dalla sensazione di prossimità degli oggetti fissati e dalla convergenza dei bulbi
oculari. Il funzionamento dell’accomodazione si svolge in modo ottimale in
presenza di stimoli coerenti, cioè quando non esiste una differenza fra la distanza a
cui l’oggetto sembra collocarsi, l’entità dello sfuocamento dell’immagine retinica e
la convergenza degli assi visivi messa in gioco.
Invece l’accomodazione può risultare inadeguata a produrre un’immagine retinica
nitida in presenza di stimoli accomodativi non coerenti, ad esempio quando la
distanza percepita dell’oggetto osservato non corrisponde all’errore di messa a
fuoco. Un esempio viene dall’utilizzo di apparecchi ottici mono o binoculari, dove
può manifestarsi un’accomodazione positiva stimolata dalla sensazione di
prossimità.

6.10 Stato di riposo dell’accomodazione

La situazione accomodativa degli occhi che fissano un oggetto è sempre la


risultante della somma delle stimolazioni accomodative che abbiamo elencato.
Quando gli stimoli visivi che controllano l’accomodazione riflessa sono assenti
6. Accomodazione e convergenza 114

(come succede al buio o in presenza di un campo uniformemente illuminato e privo


di elementi strutturati) o quando essi hanno valori subliminali, il muscolo ciliare si
trova in uno stato di contrazione che conferisce al cristallino un valore diottrico
superiore di circa 1,00-1,50 dt a quello che esso ha in condizioni di massima
accomodazione negativa fisiologicamente ottenibile, realizzando così una
condizione di “miopizzazione”. Questo fenomeno è stato definito con i termini di
“tono accomodativo”, “accomodazione tonica”, “dark-focus”, “miopia notturna”,
“miopia da spazio aperto”, a seconda delle circostanze nelle quali è stato osservato.
L’accomodazione, quindi, è necessaria per una visione nitida nelle distanze vicine,
proprio perché permette la messa a fuoco delle immagini sulle fovee, ma essa, per

x miosi; per la riduzione di aberrazioni cromatiche e sferiche a livello retinico e,


avere una buona qualità visiva, deve essere associata ad alcuni fenomeni:

x convergenza; che permette il giusto posizionamento degli assi visivi


di conseguenza, per una maggiore profondità di fuoco e di campo

sull’oggetto da fissare.
La sinergia di accomodazione, convergenza e miosi realizza quella che viene
chiamata la “reazione per vicino”.

6.11 Misura del potere accomodativo

Per quanto riguarda la misura del potere accomodativo riportiamo tre metodologie:
1. formula di Hoffstetter, che scaturisce dalle curve standard di Duane,
2. push-up/down,
3. metodo delle lenti negative.

1- La formula di Hoffstetter per il calcolo del potere o ampiezza accomodativa

x Ampiezza massima (D) = 25 - (0,4 x età)


scaturisce dalle curve standard di Duane (Fig. 4):

x Ampiezza media (D) = 18,5 - (0,3 x età)


x Ampiezza minima (D) = 15 - (0,25 x età)
15 
età
Generalmente viene presa di riferimento l’ampiezza minima: PA( dt )
4

Fig.4: Curve standard di Duane


6. Accomodazione e convergenza 115

2- Push-up/down (Fig.5): si effettua posizionando la tavola ottotipica a 50 cm,


chiedendo all’esaminato di leggere lettere della massima acuità visiva e di riferire
da mano a mano che si avvicina quando nota il primo annebbiamento (d1).
Annotando la distanza trovata allontaniamo la mira fino a quando il soggetto non
riferisce nuovamente di vederla nitida (d2). L’inverso della distanza intermedia in
metri (dm) tra i due punti trovati ci dice il potere accomodativo in diottrie del
soggetto; tale metodo tende a sovrastimare il valore del potere accomodativo di
circa 1,50/2,00 dt.

Fig.5: Metodo del push-up/down

3- Metodo delle lenti negative: si determina posizionando la tavola ottotipica a 40


cm chiedendo all’esaminato di leggere lettere di uno o due decimi inferiori alla
massima acuità visiva e si inseriscono lenti negative crescenti di 0,25 dt fino alla
visone sfuocata; si calcola poi il potere accomodativo in base alla formula:

PA dt  potere ultima lente negativa


1
x

Questo test tende a sottostimare di circa 1,00 dt l’accomodazione a causa della


riduzione dell’immagine indotta dalle lenti negative.

x ottotipo posizionato a 33 cm
Esempio:

x ultima lente negativa che permette la lettura – 1,00 dt

  1,00 3,00  1,00


1
PA(dt ) 4,00dt
0,33

6.12 Convergenza

La convergenza è un movimento di vergenza che provoca un aumento dell’angolo


che si forma tra gli assi visivi, normalmente questo avviene tramite
l’avvicinamento simultaneo dei due occhi alla loro linea mediana (movimento di
adduzione).
6. Accomodazione e convergenza 116

Gli occhi possono compiere anche un movimento di vergenza verso l’esterno


(abduzione), che viene chiamata divergenza e comporta una riduzione dell’angolo
tra gli assi visivi.

6.12.1 Unità di misura della convergenza

Le unità di misura della convergenza possono essere:


1. Angolo Metrico (AM)
2. Diottria prismatica (ǻ)
3. Grado (°).

Angolo Metrico (AM) - Nagel 1880


L’angolo metrico rappresenta la quantità di convergenza che gli occhi devono
compiere per fissare un oggetto posto ad un metro di distanza. Da un punto di vista
quantitativo l’angolo metrico è il reciproco della distanza di osservazione in metri e
quindi coincide con la vergenza espressa in diottrie: AM = 1/x in metri. L’angolo
metrico è un’unità uguale per tutti, anche se la quantità reale o assoluta di
convergenza dipende anche dalla Distanza Assi Visuali del soggetto; con
precisione l’entità dell’angolo metrico è direttamente proporzionale alla DAV
(Fig.6).

Fig.6: Definizione di angolo metrico (AM)

Diottria prismatica (ǻ) - Prentice 1890


La diottria prismatica (Fig.7) è l’angolo di convergenza necessario per spostare
l’asse visivo di 1 centimetro alla distanza di fissazione di 1 metro. Questa è l’unità
di misura più utilizzata per determinare le riserve fusionali e le deviazioni oculari
latenti (forie) e manfeste (tropie).
6. Accomodazione e convergenza 117

Fig.7: Diottria prismatica

Grado (°)
Il grado è un’unità di misura poco utilizzata, anche se esistono ancora strumenti
con la scala in gradi e cassette di prova che hanno le lenti prismatiche con i valori
in gradi; 1° = 1.75 diottrie prismatiche.

6.12.2 Componenti della convergenza

La convergenza può essere divisa, secondo Maddox (1886), in un certo numero di


componenti:
1. Convergenza Tonica
2. Convergenza Accomodativa
3. Convergenza Prossimale o Psichica
4. Convergenza Fusionale.

1. Convergenza Tonica
La convergenza tonica (Fig.8) è quella parte di convergenza totale che porta gli
occhi dalla “posizione anatomica di riposo”, generalmente in divergenza, causata
da assenza di stimoli innervativi, alla posizione di foria nella visione da lontano
passando per la “posizione fisiologica di riposo”, posizione di leggera divergenza
che assumono gli occhi in assenza di qualsiasi stimolo visivo che si ha in soggetti
nel sonno profondo. L’entità di questa componente è molto difficile da misurare, in
quanto non si conosce la posizione anatomica di riposo. Il suo livello dipende dal
tono dei muscoli extraoculari.
6. Accomodazione e convergenza 118

Fig.8: Componenti della convergenza tonica

2. Convergenza Accomodativa
Quando un soggetto deve accomodare, oltre a questa richiama una certa quantità di
convergenza; tale convergenza prende il nome di convergenza accomodativa
(Fig.9). Il parametro che esprime questa correlazione tra accomodazione e
convergenza prende il nome di rapporto AC/A, cioè quanto il sistema visivo
converge per ogni diottria che accomoda.

Fig.8: Convergenza accomodativa

3. Convergenza Prossimale o Psichica (Fig.9)


Rappresenta la componente di convergenza totale che deriva dalla consapevolezza
della vicinanza dell’oggetto fissato. Viene esercitata anche se l’oggetto vicino agli
occhi è visto attraverso sistemi ottici che ne danno un’immagine all’infinito.
L’entità di questa componente viene sempre considerata insieme alla convergenza
accomodativa in quanto impossibile da quantificare.
6. Accomodazione e convergenza 119

Fig.9: Convergenza prossimale

4. Convergenza Fusionale
La convergenza fusionale è quella parte di convergenza (o divergenza) che
provvede a correggere gli errori di allineamento degli assi visivi in presenza di uno
squilibrio motorio. La convergenza fusionale è detta anche fusione motoria; è
stimolata dalla disparità delle immagini retiniche ed ha il compito di portare gli assi
visivi dalla posizione di foria al corretto allineamento.

Fig.10: Convergenza fusionale

Tutte le componenti sopracitate danno luogo a quella che viene definita la


“convergenza totale” (Fig.11).
6. Accomodazione e convergenza 120

Fig.11: Convergenza totale

L’angolo di convergenza simmetrica partendo da assi visivi paralleli necessario per


fissare un oggetto posto ad una certa distanza e quindi la convergenza totale
necessaria in diottrie prismatiche è calcolabile con la seguente relazione:

DAVcm ˜ DAVcm ˜ AM
1
x metri

Esempio:

x Dav = 68 mm / d = 40 cm
Convergenza totale o sforzo in convergenza totale = 6.8 .  ǻ
7. Cassetta lenti di prova e forottero 121

Capitolo 7 - Cassetta lenti di prova e forottero


M. Bifani, D. Capobianco

7.1 Descrizione di una cassetta di lenti

Nell’esecuzione dell’esame visivo i professionisti utilizzano un set di lenti di potere


noto, definito Cassetta lenti di prova (Fig.1), inserendole in una speciale
montatura (o occhiale) di prova (Fig.2), alla quale possono essere effettuate varie
regolazioni riguardanti: DAV (distanza assi visuali), altezza, lunghezza aste ed
inclinazione del frontale.

Fig.1:Cassetta in legno con lenti di prova

Fig.2: Occhiale di prova

La cassetta lenti di prova riunisce una serie di lenti sferiche negative e positive
(generalmente da sf ± 0,25 a sf ± 20 dt), una serie di lenti cilindriche negative e
positive (generalmente da cil ± 0,25 a cil ± 5 dt) (Fig.3), prismi con passi di 1ǻ
JHQHUDOPHQWH ILQL D ǻ  e lenti accessorie. Le lenti di prova sono racchiuse in
cerchi di materiale plastico oppure metallico e possono così essere agevolmente
inserite nella montatura di prova. Possono avere superfici pianoconvesse e piano-
concave, bi-convesse e biconcave oppure a menisco. Le lenti oftalmiche utilizzate
per realizzare la maggior parte degli occhiali in commercio sono lenti a menisco e,
7. Cassetta lenti di prova e forottero 122

se vengono utilizzate lenti di prova con superfici diverse, tale differenza


costruttiva, in caso di poteri diottrici elevati, può comportare significative
variazioni. Le lenti accessorie (Fig.4) includono: occlusore per testare la visione
monoculare, foro stenopeico, fessura stenopeica, coppia di filtri anaglifici
Rosso/Verde per dissociare la visione, cilindro di Maddox, vetro smerigliato,
coppia di filtri polarizzanti per dissociare la visione, coppia di croci di centratura ed
infine una lente neutra per smascherare eventuali simulazioni. Non in tutte le
cassette di prova sono presenti tutte queste lenti.

Esempio di cassetta di prova da 232 lenti

Fig.3: Lenti della cassetta di prova


7. Cassetta lenti di prova e forottero 123

Accessori a corredo:

Fig.4: Lenti accessorie

7.2 IL POSIZIONAMENTO DEL PORTALENTI


Prima di entrare nel merito specifico delle fasi che porteranno all’identificazione
del vizio refrattivo e la sua correzione, bisogna effettuare un’operazione -ossia il
posizionamento del portalenti- che, per quanto possa sembrare banale ed
automatica, potrebbe inficiare notevolmente il risultato ottico ottenuto.
I criteri con cui il portalenti va regolato sono correlati principalmente alla
centratura ed all’angolo pantoscopico.
La centratura si ottiene da ciò che facciamo routinariamente, ovvero dalla
regolazione della lunghezza della stecca a tempiale, dalla regolazione dell’altezza
dei cerchi della montatura regolando la lunghezza del supporto nasale e la distanza
orizzontale tra i due supporti circonferenziali, così da garantire la corretta
misurazione del visus. Per agevolare questa operazione è possibile avvalersi di
croci di riferimento, presenti in ogni portalenti, sincerandosi che, a fine
regolazione, i centri pupillari siano perfettamente allineati con l’intersezione degli
assi delle croci.
Oltre alla posizione frontale del portalenti, va posta la stessa attenzione alla
posizione laterale.
Infatti piccole e modeste variazioni dell’inclinazione del portalenti possono creare
disallineamenti tra il centro ottico e la lente, che risulterebbe o più distante
dall’occhio in alcuni punti, o inclinata al punto da introdurre variazioni prismatiche
non quantificabili ed aberrazioni ottiche notevoli.
Per tale ragione va regolato l’angolo pantoscopico, che dovrà essere pari a zero nel
momento in cui l’occhiale di prova viene posto in maniera tale che il piano delle
7. Cassetta lenti di prova e forottero 124

lenti sia perpendicolare al piano di sguardo, così da mantenere coassiali i centri


ottici delle lenti progressivamente inserite nello strumento.

7.3 LA CENTRATURA DELLE LENTI DI PROVA


Una volta regolato il portalenti si procede alla fase di centratura, necessaria a
garantire il miglior risultato visivo ottenibile con le lenti che verranno
progressivamente inserite.
La centratura si ottiene da ciò che facciamo routinariamente, ovvero dalla
regolazione della lunghezza della stecca a tempiale, dalla regolazione dell’altezza
dei cerchi della montatura regolando la lunghezza del supporto nasale e la distanza
orizzontale tra i due supporti circonferenziali, così da garantire il corretto studio del
visus.
Per agevolare questa operazione è possibile avvalersi di croci di riferimento,
presenti in ogni portalenti, sincerandosi che, a fine regolazione, i centri pupillari
siano perfettamente allineati con l’intersezione degli assi delle croci (Fig. 5 e
Fig.6).

Fig.5: Centratura delle lenti di prova

Fig.6: Centratura delle lenti di prova


7. Cassetta lenti di prova e forottero 125

Provveduto a questo siamo pronti alla fase vera della rifrazione, visus per lontano e
per vicino, tenendo a mente che negli occhiali di prova le lenti sferiche vanno
posizionate nelle scanalature poste dietro all’anello di montatura, così da riprodurre
la distanza a cui la maggior parte delle ditte produttrici lavorano, misurata nei 12-
14 mm, mentre le lenti cilindriche vanno poste anteriormente, dunque nelle
scanalature dell’anello, così da permettere, attraverso la rotazione dello stesso, di
individuare l’asse esatto di correzione.

7.4 Forottero

Il forottero (Fig.7) fu brevettato nel 1908 con il nome di "Lens System Measuring
the refraction of the eye". I primi esemplari erano composti da una struttura
comprendente quattro dischi dotati di non più di otto lenti ciascuno, che
consentivano un'escursione diottrica da sf -20,00 a sf +15,00 diottrie. In un secondo
tempo vennero inserite al suo interno lenti cilindriche, i cilindri di Maddox
orientabili come asse ed una coppia di prismi di Risley.

Fig.7: Il forottero meccanico

Questi ultimi sono due prismi di uguale potere montati su appositi supporti per cui
possono ruotare passando dalla posizione base-base alla posizione base-spigolo.
Oggi il forottero è uno strumento più complesso, dotato di lenti sferiche, lenti
astigmatiche, prismi e lenti accessorie assemblate in un'unica struttura, tenuta
sospesa dinanzi agli occhi del soggetto esaminato. La struttura che contiene le lenti
può essere allontanata ed avvicinata in base alla DAV del soggetto esaminato da 50
a circa 76 mm ad intervalli di 1 mm; un’ulteriore manopola è invece adibita alla
distanza apice-corneale lente (Fig.8).
7. Cassetta lenti di prova e forottero 126

Fig. 8: Distanza apice corneale lente

Oltre a questo nei forotteri è presente una livella a bolla che permette, tramite
un’apposita manopola, di mettere lo strumento in posizione perfettamente verticale
e senza rotazioni. A volte però è necessario compensare con una rotazione della
testa dello strumento eventuali vizi di posizione del capo. Normalmente lo
strumento è composto da diversi dischi che contengono lenti:

1. Il primo disco contiene lenti sferiche di valore elevato da +16,75 a -19,00 dt;
2. Il secondo disco contiene anch’esso lenti sferiche positive e negative, ma di
valore più piccolo, da 0,25 a 0,75 dt;
3. Il terzo disco contiene lenti cilindriche negative da 0,25 a 6,00 dt con la
possibilità di essere ruotate per quanto riguarda l’asse;
4. Il quarto disco contiene le lenti accessorie.

7.5 Lenti accessorie del forottero

Le lenti accessorie normalmente sono:

ƒ occlusore: permette di eseguire l’esame monoculare


ƒ croce: per centrare correttamente il forottero davanti al forame pupillare
ƒ foro stenopeico: permette di ridurre il diametro pupillare e capire se siamo di
fronte ad un’ametropia o a problemi di diverso genere
ƒ filtro polarizzato: utilizzando ottotipi polarizzati e con filtri orientati tra loro
ortogonalmente, permette di eseguire alcuni test dissociando la visione dei due
occhi
ƒ lente per schiascopia: può essere richiesto il valore desiderato (normalmente

cilindro di r 0,50 dt con asse negativo fisso (o stazionario) a 90°: da


+1,50 o +2,00 dt)
ƒ
utilizzarsi con il reticolo a croce del proiettore
ƒ filtri rosso-verde: uno si trova sull’OD e l’altro sull’OS, sono complementari
ƒ cilindri di Maddox: sono sia verticali che orizzontali e permettono verificare
la presenza di una eventuale eteroforia, mediante dissociazione della visione
binoculare stato eteroforico
ƒ prisma di 6 ǻ BA sull’OD e 10 ǻ BN sull’OS: servono per dissociare in
verticale ed in orizzontale
ƒ lente di +0,12 dt.
7. Cassetta lenti di prova e forottero 127

Oltre al quarto disco su un supporto anteriore troviamo i prismi di Risley (Fig.9-A)


ed i cilindri crociati (Fig.9-B). I prismi, con un valore che varia da 0 a 20 ǻ (quindi
40 ǻ se consideriamo entrambi gli oculari), possono essere posti davanti agli occhi

I cilindri crociati normalmente sono di r 0,25 dt e funzionano come quello


BN (base nasale) o BT (base temporale), oppure BA (base alta) o BB (base bassa).

manuale, con il vantaggio che l’asse correttore della lente cilindrica ruota insieme
al cilindro crociato stesso.

Fig.9: Prismi di Risley (A) e cilindro crociato (B)

I controlli per vicino si eseguono tramite l’inserimento sul forottero stesso di un


asta graduata di 70 cm sulla quale può essere fissato un ottotipo ruotante che
comprende diversi tests.
Il forottero risulta particolarmente pratico nelle sequenze di analisi visiva che
richiedono una frequente sostituzione di lenti. In Italia non ha avuto una capillare
diffusione che invece è avvenuta nei paesi anglosassoni; gli studi medici italiani
che ne dispongono sono pochi, probabilmente perché il forottero viene considerato
semplicemente (ed erroneamente) come un'alternativa alla cassetta di lenti di prova.
Interpretato in maniera così riduttiva il forottero non viene valorizzato nei suoi
numerosi pregi, che ne fanno uno strumento fondamentale nella valutazione visiva
[Roncagli, 2002].
Negli ultimi anni sono nate le versioni automatizzate del forottero (Fig.10), dove,
tramite una consolle, è possibile controllare le funzioni impostate e comandare
anche il proiettore.
7. Cassetta lenti di prova e forottero 128

Fig.10: Il Forottero automatico

7.6 Vantaggi nell’uso del forottero

I vantaggi principali del forottero consistono:

x
x
nella sua capacità di velocizzare il cambio delle lenti (e quindi l'esame visivo),
nella sua comodità, presentando sempre in ordine e protetti dalla polvere i vari

x
dispositivi ottici di cui è dotato,
nella sua precisione (l'asse e il potere delle lenti astigmatiche possono essere
verificati con particolare esattezza con i cilindri crociati fissati al forottero;
l'asse dei cilindri crociati è collegato, attraverso ingranaggi, alla manopola di
regolazione dell'asse delle lenti astigmatiche inserite, cosicché, durante l'esame
visivo, la rotazione della lente astigmatica inserita provoca automaticamente

x
una rotazione del cilindro crociato posto davanti all'occhio),
nella sua stabilità (il potere prismatico introdotto per quantificare forie e
vergenze attraverso il prisma di Risley è stabile, in quanto è fissato allo

x
strumento; la misura può quindi essere rilevata con maggiore accuratezza),
nella ripetibilità delle modalità di presentazione dei test, che ha indotto vari
autori (Donders, Sheard, Percival, Hofstetter, Fry, Morgan, ecc..) a predisporre
specifiche sequenze standardizzate dell'esame visivo.

7.7 Svantaggi nell’uso del forottero

I principali limiti del forottero, invece, risiedono:

x nella forma dello strumento, che nasconde il volto del soggetto esaminato,
impedendo al professionista di osservarne la mimica,
7. Cassetta lenti di prova e forottero 129

x nel limitato diametro dei fori per la visione e nel conseguente ridotto campo
visivo, che riduce significativamente la visione periferica, e spesso induce un

x
"effetto cannocchiale",
nell'impossibilità di verificare con il forottero l'effettivo potere frontale
posteriore della combinazione di lenti realizzata attraverso l'esame visivo nella
sua indipendenza dalla postura del soggetto esaminato (se egli piega
lievemente la testa da un lato durante l'esame la correzione cilindrica risulterà

x
prescritta con un asse errato),
nell’impossibilità di far provare dinamicamente al soggetto la correzione
trovata.

7.8 Oftalmometria

La cornea si comporta come uno specchio convesso e fornisce quindi delle


immagini riflesse tanto più rimpicciolite quanto più piccolo è il suo raggio di
curvatura e cioè quanto più elevato è il suo potere diottrico. L’oggetto di cui si
valuta il rimpicciolimento è l’intervallo fra due mire; conoscendo la distanza che le
separa, quella che intercorre fra le due immagini riflesse e la distanza fra le mire e
l’occhio, si ricava la curvatura della cornea, o più precisamente la curvatura di una
parte ristretta della superficie corneale anteriore e cioè di due punti situati a circa
1,25mm da un lato e dall’altro, dal centro della zona ottica della cornea.
L’oftalmometro di Javal-Schiotz ( Fig. 11a, 11b) è lo strumento più diffuso nella
pratica clinica per la misura dell’astigmatismo corneale. Questo strumento è
costituito da due mire mobili, di colori complementari e diversa forma che scorrono
su di un arco metallico a concavità rivolta verso il paziente. La mira rossa si
presenta di forma rettangolare mentre quella verde è scalinata; entrambe sono
attraversate al centro da una linea retta nera detta “linea di fede”, riferimento
fondamentale una volta eseguita la messa a fuoco. Una volta rese tangenti le due
mire mobili, deve essere allineata perfettamente la linea di fede. Le due mire,
solidali ad un dispositivo a cremagliera a forma d’arco di circonferenza, possono
scorrere su di esso e, a sua volta, questo dispositivo può ruotare attorno all’asse di
un microscopio corneale.

Fig.11 a Fig. 11b


7. Cassetta lenti di prova e forottero 130

Controllando l’esatta collocazione delle mire sul goniometro di cui è dotato lo


strumento:
- si focalizzano prima le stesse,
- si valuta l’orientamento
- successivamente si osserva e si collima la linea di fede.
Esecuzione dell’esame:
Attraverso l’oculare l’esaminatore potrà osservare le immagini delle mire riflesse
dalla superficie corneale anteriore sdoppiate dal prisma di Wollastone. Si vedranno
quindi quattro immagini, due periferiche, che verranno trascurate, e due centrali di
diverso colore che, una volta messe a fuoco manovrando il joy-stick, andranno
collimate avendo cura che siano perfettamente allineate anche le due linee di fede
(Fig. 12). Si otterrà così la prima lettura del raggio di curvatura corneale e/o del
potere diottrico sul meridiano esaminato.

Fig. 12

Si ruota quindi l’arco di 90° rispetto alla prima misurazione, si ricollimano le due
mire facendo in modo che la linea di fede della prima si continui nella seconda e si
procederà quindi alla rilevazione della seconda lettura. Si possono osservare
almeno tre possibilità:

1) le mire restano collimate (Fig. 13): la cornea in esame è sferica (non c’è
astigmatismo fisiologico); la curvatura corneale avrà lo stesso valore sui
due meridiani principali;

Fig. 13

2) le mire si sovrappongono parzialmente (Fig. 14): siamo in presenza di un


astigmatismo secondo regola. Il meridiano verticale è più curvo quindi più
rifrangente di quello orizzontale. Quando le due mire si sovrappongono, la
zona di sovrapposizione diviene biancastra. Approssimativamente 1 gradino
= 1 diottria;
7. Cassetta lenti di prova e forottero 131

Fig. 14

3) le mire si discostano (Fig. 15): siamo in presenza di un astigmatismo contro


regola, cioè il meridiano verticale è meno curvo di quello orizzontale.

Fig. 15

In sintesi (Fig. 16)

Fig 16

È possibile inoltre osservare, anche durante la misurazione del primo meridiano,


mire di dimensioni diverse fra loro (una più piccola ed una più grande) che di solito
si accompagna alla impossibilità di allineare correttamente le linee di fede: ci
troviamo di fronte ad un astigmatismo irregolare.
7. Cassetta lenti di prova e forottero 132

REGISTRAZIONE DEI PARAMETRI CHERATOMETRICI: è diversa a seconda


che si vogliano prescrivere lenti corneali a contatto o lenti da occhiale. Nel primo
caso faremo riferimento alla scala dei raggi di curvatura (espressa in mm con step
di 0,05mm), nel secondo caso alla scala dei poteri diottrici (espressa in diottrie con
step di 0,25D).

Vantaggi del cheratometro di Javal-Schiotz:


- accuratezza e ripetitività della misura su cornee con raggio di curvatura
normale (38-47D);
- velocità e facilità d’impiego;
- costo relativamente modesto.
Svantaggi:
- non misura la cornea plana e il cheratocono avanzato (oltre le 60D);
- non è utilizzabile se la cornea non è speculare;
- misura solo una piccola area corneale;
- la zona misurata è tanto più piccola quanto più la cornea è curva;
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 133

Capitolo 8 -Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo


M. Bifani, B. Kusa
8.1 Anamnesi

In medicina, l'anamnesi è la raccolta dalla voce diretta del paziente e/o dei suoi
familiari (per esempio i genitori nel caso di un lattante o di un bambino) di tutte
quelle informazioni, notizie e sensazioni che possono aiutare il medico a
indirizzarsi verso una diagnosi.

8.2 Valutazione dell’acuità visiva

Normalmente si esegue prima il visus per lontano e poi quello per vicino. Si
consiglia l’utilizzo di ottotipi standard formati da lettere o numeri (Fig.1) e di
indicare se è stata eseguita senza correzione, con correzione a tempiale o con lenti a
contatto. Indicare l’occhio esaminato, poichè prima valutiamo monocularmente OD
e OS e poi facciamo un controllo binoculare. Invitiamo il soggetto a leggere la riga
più piccola di simboli che riesce a riconoscere, raccomandandoci di non stringere le
palpebre. Indicare in scheda quanti simboli sono stati riconosciuti sul totale da
riconoscere (es. 4/5 degli 8/10 oppure 8/10- ) e se sono stati riconosciuti alcuni
simboli della linea successiva indicare quanti in più (es. +2 degli 8/10 oppure
8/10++).

Fig.1: Ottotipo standard formato da lettere decrescenti

8.2.1 Foro stenopeico (Fig.2)

Il foro stenopeico (lente con piccolo foro al centro di circa 1,5 mm) viene
normalmente utilizzato, in fase preliminare, per scongiurare una eventuale
patologia, in quanto è stato osservato che, quando una persona con problemi
rifrattivi come la miopia, l’astigmatismo o l’ipermetropia guarda attraverso un
piccolo foro vede meglio, in quanto si riduce il disco di confusione a livello
retinico. Quando questo non succede è segno che la persona esaminata può essere
affetta da patologie quali cataratta, glaucoma, ambliopia o problemi retinici.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 134

Fig.2: Foro stenopeico

8.3 Punto prossimo di accomodazione

Il punto prossimo di accomodazione viene definito come il punto più vicino agli
occhi in cui un oggetto può essere distinto in maniera chiara. Per l’esecuzione del
test si utilizza una mira strutturata (es. il numero che si trova scritto sulle lenti della
cassetta di prova) avvicinandola all’occhio esaminato (“push up”) fino a quando il
soggetto non riferisce di vederla sfuocata (punto prossimo di accomodazione).
Come visto nel cap. 3 il punto prossimo è influenzato sia dal potere accomodativo
che dall’ametropia, quindi, svolgendo il test del “push up” monocularmente si
potrebbero avere indicazioni sull’ametropia presente nell’occhio. Ad esempio se
esaminando tre soggetti di 20 anni, che dovrebbero presentare un potere
accomodativo di 10,00 dt (derivante da: PA = 15-età/4) e quindi un P.P.A. a 10 cm
troviamo i seguenti risultati:

x
x
Sogg. (1) – P.P.A. = 10 cm => emmetropia

x
Sogg. (2) – P.P.A. = 8 cm => miopia (circa 2,00 dt)
Sogg. (3) – P.P.A. = 12,5 cm => ipermetropia (circa 2,00 dt)

8.4 Occhio dominante

La maggior parte degli organi dell’uomo sono doppi: uno a destra e l’altro a
sinistra; abbiamo due braccia, due mani, due gambe, due occhi e due orecchie.
Questi organi sono speculari, ma non sono identici, e ciascuno di noi usa di
preferenza uno di essi, quello cosiddetto dominante. Quando fissiamo un oggetto,
solo uno dei due occhi sarà realmente allineato a questo, proprio l’occhio
dominante, mentre l’altro completerà l’immagine garantendoci la tridimensionalità.
Il mancato rispetto della dominanza naturale del soggetto lo espone ad una serie di
sintomi visivi e non visivi e ad un’intolleranza più o meno evidente al porto della
correzione visiva. Lo studio della dominanza oculare può essere fatto sia da un
punto di vista motorio che sensoriale. I test per l’evidenziazione della dominanza
del soggetto sono:
1. Test del filtro rosso (sensoriale)
2. Test del foro (motoria).
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 135

8.4.1 Test del filtro rosso (dominanza sensoriale)

Per effettuare questo test invitiamo il soggetto ad osservare sull’ottotipo, con


entrambi gli occhi aperti, uno spot luminoso, dopodiché inseriamo sull’occhio
destro un filtro rosso ed andiamo a chiedere di quale colore vede lo spot; stessa
cosa la chiediamo inserendo il filtro rosso sull’altro occhio. Se il soggetto riferisce
di vedere lo spot rosso, o comunque più rosso, quando il filtro è sull’occhio destro
significa che quello è l’occhio dominante sensoriale (Fig.3). Ci possono essere
situazioni in cui il soggetto abbia difficoltà nel riferire il colore dello spot, poiché
gli risulta molto simile, quindi anche l’operatore non è in grado di capire quale
occhio abbia la dominanza sensoriale.

Fig.3: Test del filtro rosso: A) visualizzazione spot luminoso B) filtro rosso su OD ed il soggetto
vede lo spot rosso; C) filtro rosso su OS ed il soggetto riferisce di vedere lo spot bianco => occhio
dominante Dx

8.4.2 Test del foro (dominanza motoria)

Anche questo test si effettua con entrambi gli occhi aperti e tenendo le braccia tese.
Si chiede al soggetto di formare una specie di cerchio con i pollici e gli indici delle
mani ed osservare attraverso di esso lo spot luminoso sul proiettore; a questo punto
chiediamo all’esaminato di avvicinare le mani agli occhi mantenendo lo spot
all’interno del foro. Le mani andranno a posizionarsi davanti ad uno dei due occhi,
cioè il dominante (motorio). Lo stesso test può essere fatto con un cartoncino al
quale è stato praticato un foro di circa 1,5 cm. In questo caso invitiamo l’esaminato
a sorreggere il cartoncino con entrambe le mani ad una certa distanza dalla faccia;
l’operatore prova a chiudere un occhio e poi l’altro in modo tale che quello con cui
vede ancora lo spot è l’occhio dominante (Fig.4)
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 136

Fig.4: Test del foro per la dominanza motoria

Quest’ultima procedura può essere effettuata anche facendo il foro con le mani,
così come la prima, quella dell’avvicinamento, con il cartoncino forato.
Oltre a questo in fase di test preliminari è consigliabile fare un cover test per la
valutazione dello stato eteroforico (vedi cap. 13) e dei test di stereopsi come il lang
stereotest od il titmus fly stereotest (vedi cap. 12).

8.5 La schiascopia o retinoscopia

Schiascopia (dal greco “osservazione dell’ombra”) o retinoscopia è un esame


oggettivo che permette di rilevare con affidabilità lo stato refrattivo dell’occhio
umano, sia nella sua componente sferica che in quella cilindrica. Si basa sull’analisi

x Primo: impresso dall’operatore sullo strumento,


di tre movimenti:

x Secondo: movimento del riflesso sulla retina,


x Terzo: movimento del riflesso in uscita dal foro pupillare.
La schiascopia può essere: statica (per la visione da lontano) e dinamica (fatta per
vicino); noi prenderemo in considerazione solo la prima. La schiascopia statica si
esegue nell’esame della visione per lontano cercando di inibire il più possibile
l’intervento dell’accomodazione (l’aggettivo “statica” infatti è riferito al non
intervento dell’accomodazione) e permette di ricavare la correzione dell’ametropia.
Esiste la possibilità di eseguire la schiascopia statica anche con l’oftalmoscopio e
prende il nome di “schiascopia statica secondo Strampelli”. La schiascopia o
retinoscopia è un esame finalizzato alla valutazione oggettiva qualitativa e
quantitativa della potenza del sistema diottrico oculare.

x consente agevolmente di valutare eventuali alterazioni delle principali strutture


I suoi vantaggi sono:

x l’esame può essere condotto sulla correzione abituale del soggetto,


oculari, cornea (cheratocono), cristallino (cataratta),

x richiede una minima collaborazione da parte del soggetto esaminato.


8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 137

L’unico suo svantaggio è che la tecnica richiede una certa abilità. Gli schiascopi
commercializzati si distinguono in funzione dello stimolo utilizzato (filamento

x striscia se lo stimolo è lineare (Fig.5 A)


della lampadina) in:

x spot se lo stimolo è circolare (Fig.5 B)

Fig.5: Schiascopio a striscia (A) ed a spot (B)

x permette la visualizzazione complessiva e simultanea del riflesso retinoscopico


Lo schiascopio a spot:

x permette una migliore valutazione delle caratteristiche qualitative del riflesso


in tutte le direzioni,

x richiede maggiore esperienza nella definizione dell’asse del cilindro correttore.


retinoscopico,

x richiede minore esperienza nella valutazione dell’asse del cilindro correttore,


Lo schiascopio a striscia:

x non consente la valutazione contemporanea del riflesso in tutte le sezioni.

La schiascopia statica fornisce risultati attendibili solo se il soggetto non esercita


l’accomodazione. Si inserisce nell’occhiale di prova o nel forottero una lente
positiva, chiamata lente di neutralizzazione, di potere pari all’inverso della
distanza a cui abbiamo posto lo strumento rispetto al soggetto. Le distanze
maggiormente utilizzate sono le seguenti:

x
x
d = 50 cm => lente di neutralizzazione 2.00 dt

x
d = 57 cm => lente di neutralizzazione 1.75 dt

x
d = 66 cm => lente di neutralizzazione 1.50 dt

x
d = 80 cm => lente di neutralizzazione 1.25 dt
d = 100 cm => lente di neutralizzazione 1.00 dt.

Si invia il fascio luminoso verso il soggetto; entrando dalla pupilla arriverà ad


illuminare la retina la quale, diffondendo la luce con cui è stata colpita, formerà
un’immagine di essa in corrispondenza del punto remoto dell’occhio esaminato.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 138

8.5.1 Esecuzione dell’esame

Per quanto riguarda la mira sull’ottotipo solitamente per la retinoscopia statica


viene utilizzato un carattere di 1/10 o la tavola bicromatica standard; in questo
modo la valutazione dell’ametropia è indipendente dall’attività di identificazione
critica. In alcuni nuovi schermi LCD sono state inserite delle fotografie di sfondi.
Per quanto riguarda il posizionamento è necessario che l’operatore si posizioni alla
stessa altezza del soggetto (operatore e soggetto sono seduti) e che osservi con il
proprio OD l’OD del soggetto e con il proprio OS l’OS del soggetto, spostandosi in
modo opportuno (Fig.6). Il soggetto deve fissare la mira con l’occhio non
esaminato. Oltre a questo occorre evitare l’eccesso accomodativo da parte del

x
soggetto mentre fissa la mira proposta, allo scopo si consiglia:

x
non oscurare completamente l’ambiente,

x
proporre mire riconoscibili,

x
evitare oggetti interposti tra il soggetto e la mira,
in caso di ipermetropia porre una adeguata lente positiva davanti all’occhio

x
non esaminato,
dopo avere esaminato il secondo occhio riesaminare il primo e, se la
situazione è cambiata, riesaminare il secondo fino alla stabilità refrattiva.

Fig.6: Posizionamento dell’operatore per eseguire correttamente l’esame

8.5.2 Schiascopia statica: i movimenti

Durante la schiascopia andiamo a valutare la relazione tra il primo ed il terzo


movimento, quindi possiamo avere:
1. punto neutro: questa condizione rappresenta la massima intensità del riflesso
retinoscopico, perché tutta l’energia che viene emessa dall’occhio del soggetto
attraversa il diaframma del retinoscopio e l’operatore vedrà il foro pupillare
sempre illuminato; abbiamo punto neutro tutte le volte che l’operatore con lo
schiascopio si trova sul punto remoto dell’occhio esaminato (Fig.7). Il punto
neutro rappresenta la condizione di passaggio tra il movimento concorde e il
movimento discorde del riflesso retinoscopico e immediatamente prima e dopo
questa condizione la velocità del riflesso è molto elevata.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 139

Fig.7: Condizione affinchè si verifichi punto neutro

2. movimento discorde: l’operatore vedrà un riflesso d’uscita dal foro pupillare


con la direzione opposta rispetto al movimento impresso allo strumento; la
radiazione che fuoriesce dall’occhio focalizza prima dello strumento (Fig.8).

Fig.8: Condizione affinchè si verifichi movimento discorde

3. movimento concorde: l’operatore vedrà un riflesso d’uscita dal foro pupillare


con la stessa direzione impressa allo strumento; la radiazione che fuoriesce
dall’occhio focalizza dopo lo strumento (Fig.9).
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 140

Fig.9: Condizione affinchè si verifichi movimento concorde

La valutazione dei movimenti può essere riassunta con il seguente schema (Fig.10):

1. Punto neutro 2. Discorde 3. Concorde

Fig.10: Movimenti in schiascopia

8.5.3 Ricerca della lente correttrice

Per quanto riguarda l’individuazione della lente correttrice si possono utilizzare


vari metodi:
1. Metodo con lente di neutralizzazione inserita => Ln = 1/d
Si osserva il movimento che può essere:
a) Concorde: in questo caso per arrivare all’emmetropizzazione (punto neutro)
l’operatore deve aggiungere lenti positive di valore crescente; normalmente si
aggiungono lenti positive di 0,50 in 0,50 dt fino all’inversione del movimento
e poi torniamo indietro di 0,25 dt.
b) Discorde: in questo caso per arrivare all’emmetropizzazione (punto neutro)
l’operatore deve aggiungere lenti negative di valore crescente; normalmente si
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 141

aggiungono lenti negative di 0,50 in 0,50 dt fino all’inversione del movimento


e poi torniamo indietro di 0,25 dt.

c) Punto neutro: il soggetto esaminato è emmetrope.

Una volta trovato il punto neutro si toglie la lente di neutralizzazione


corrispondente a 1/d e ciò che resta sull’occhiale di prova rappresenta la lente
correttrice.

2. Metodo senza lente di neutralizzazione inserita

Si osserva il movimento che può essere:


a) Concorde: si aggiungono lenti positive fino ad arrivare al punto neutro; la lente
che ci da questo prende il nome di lente punto neutro (Lpn).
b) Discorde: si aggiungono lenti negative fino ad arrivare al punto neutro; la lente
che ci da questo prende il nome di lente punto neutro (Lpn).
c) Punto neutro: la lente punto neutro (Lpn) è zero.
A questo punto andiamo a calcolare la lente correttrice (Lc); se per esempio viene
fatta la schiascopia a 66 cm e viene trovato il punto neutro con una sola lente di -
3,50 dt, questa non sarà la lente correttrice, ma si troverà applicando una semplice
formula:
Lc = Lpn – Ln

quindi => Lc = - 3,50 – 1,50 = - 5,00 dt.

Nel caso in cui venga visto movimento concorde, sempre lavorando a 66 cm, per
arrivare al punto neutro saranno state aggiunte lenti positive e supponiamo sia stato
trovato il punto neutro con una sola lente di +2,50; la lente correttrice sarà: Lc = +
2,50 – 1,50 = + 1,00 dt. Se troviamo invece punto neutro senza dover aggiungere
lenti, sempre a 66 cm, la lente correttrice sarà: Lc = 0,00 – 1,50 = - 1,50 dt.

3. Metodo “della distanza”


Nel caso in cui, senza mettere la lente di neutralizzazione, venga visto movimento
discorde, essendo di fronte ad un occhio con miopia maggiore dell’inverso della
distanza a cui l’operatore lavora, possiamo arrivare ad ottenere il punto neutro
avvicinandoci con lo schiascopio all’occhio esaminato, in quanto otteniamo questo
tutte le volte che lo schiascopio si trova sul punto remoto dell’occhio esaminato.

Esempio: lavorando a 66 cm l’operatore vede un movimento discorde e per


ottenere punto neutro deve avvicinarsi fino a 33 cm. I 33 cm rappresentano il punto
remoto dell’occhio esaminato, quindi:
PR = 1/Am => Am = 1/PR in metri
Ametropia dell’occhio esaminato = 1/0,33 = 3,00 dt di miopia.

8.5.4 Schema riassuntivo

1. Movimento concorde - per capire quale sia l’ametropia dell’occhio esaminato


dobbiamo mettere la lente di neutralizzazione = + 1/d, successivamente
possiamo vedere:
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 142

a) movimento concorde; l’occhio esaminato è ipermetrope, quindi aggiungeremo


lenti positive fino a trovare il punto neutro,
b) punto neutro; l’occhio esaminato è emmetrope,
c) movimento discorde; l’occhio esaminato è miope, quindi diminuiremo il valore
della lente positiva fino a trovare il punto neutro.

2. Punto neutro - l’occhio esaminato ha una miopia = 1/d.


3. Movimento discorde - l’occhio esaminato ha una miopia > 1/d, quindi
aggiungeremo lenti negative fino a trovare il punto neutro.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 143

8.5.5 Ametropia astigmatica

Se esplorando tutti i meridiani il riflesso mantiene costante le proprie caratteristiche


significa che il vizio refrattivo che stiamo esaminando è di tipo sferico (Fig.11a).
Se il riflesso varia in meridiani ortogonali tra loro siamo in presenza di
astigmatismo (Fig.11b).

Fig.11: a) Ametropia sferica, il riflesso retinoscopico ha sempre lo stesso orientamento della striscia
in ogni meridiano; b) ametropia astigmatica, il riflesso retinoscopico ha lo stesso orientamento della
striscia solo nei meridiani principali

In caso di astigmatismo si può procedere in due modi:


a) neutralizzazione separata con lenti sferiche dei due meridiani; si giunge alla
lente sferocilindrica correttrice trovando le lenti punto neutro separatamente
sui due meridiani, cioè si calcolano le lenti correttrici e, considerandole come
una lente bicilindrica, si calcola la sferocilindrica.
b) neutralizzazione contemporanea con sfera e cilindro; si va a neutralizzare un
meridiano con la lente sferica e l’altro si compensa con un cilindro posto con
asse ortogonale alla direzione di spazzolamento (parallelamente alla striscia,
utilizzando uno schiascopio di questo tipo).

Ricordiamo che la direzione della striscia dello schiascopio indica l’asse del
cilindro correttore.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 144

Esempio:

Distanza di lavoro: 66 cm (Lente di neutralizzazione +1,50 dt)

Lente punto neutro meridiano a 70° sf -2,25


Lente punto neutro meridiano a 160° sf -3,50
Lente correttrice meridiano a 70° sf -3,75 dt con striscia schias. a 160°
(meridiano 70°)

Lente correttrice meridiano a 160° sf -5,00 dt con striscia schias. a 70°


(meridiano 160°)

Sferocilindrica correttrice: sf –3,75 cil –1,25 ax 70°

8.5.6 Fonti d’errore nella sciascopia statica

Le principali fonti di errore della schiascopia sono la distanza di lavoro e


l’obliquità di osservazione.
Un errore di 5 cm nella distanza di lavoro può causare:
a) a 50 cm => 0,22 dt di errore,
b) a 66 cm => 0,14 dt di errore,
c) a 1 m => 0,05 dt di errore.

Anche un’obliquità di osservazione porta all’alterazione della sfera per


esplorazione di aree non maculari; ad esempio a 50 cm un’obliquità di 5° porta a
circa 0,25 dt di errore, però maggiore è la distanza di lavoro, a parità di obliquità,
minore è l’errore in diottrie, come abbiamo potuto vedere anche per l’errore di
distanza.

5.6 Autorefrattometro

Al principio di funzionamento dello schiascopio si è ispirata la tecnologia


dell’autorefrattometro, uno strumento computerizzato (utile sia nella pratica clinica
ordinaria che nell’attività di screening) che permette una rilevazione oggettiva
rapidissima dello stato refrattivo dell’occhio. Serve quindi per la misurazione
oggettiva del potere refrattivo dell’occhio.
Questo tipo di strumento, infatti, procede alla misurazione quasi senza intervento
dell’operatore; teoricamente i valori refrattivi ottenuti potrebbero essere riportati
senza modifiche sulla prescrizione degli occhiali.
Praticamente però ciò non è conveniente, poiché ha un margine di errore:
1. può essere facilmente ingannato da uno spasmo accomodativo del soggetto,
2. è poco preciso quando sono presenti opacità dei diottri oculari o la fissazione
non è ben centrata,
3. è poco preciso quando la pupilla è in miosi,
4. ha difficoltà nell’acquisizione in presenza di fissazione instabile.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 145

L’autorefrattometro (Fig.12) funziona mediante la proiezione di un fascio di


radiazione infrarossa sul fondo dell’occhio e la valutazione del relativo
comportamento; viene usata una radiazione infrarossa perchè rende più
confortevole l’esame e permette di evitare la miosi pupillare riflessa che sarebbe
invece inevitabilmente provocata dalla radiazione visibile.
La mira di fissazione può essere interna allo strumento oppure esterna, ovvero
ambientale (ottotitipi, diapositive o filmati).

x sfera da -30,00 dt a + 25,00 dt (considerando una DAL di 12-13 mm) con


Mediamente gli autorefrattometri presentano il seguente intervallo di misurazione:

x cilindro da 0 a ± 12,00 dt con incrementi di 0,01/0,12/0,25 dt.


incrementi di 0,01/0,12/0,25 dt.

x asse da 0 a 180° con intervalli da 1° a 5°


x minimimo diametro misurabile 2 mm

Fig.12: A - autorefrattometro monoculare B - autorefrattometro binoculare

Fig.13: Visualizzazione schermata auto refrattometro


8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 146

Come possiamo vedere dalla figura nella schermata può essere visualizzato:
1. valore sferico (S)
2. valore cilindrico (C)
3. asse del cilindro (A)
4. distanza apice corneale lente (VD)
5. distanza assi visuali (PD)
9. Refrazione monoculare 147

Capitolo 9 – Refrazione monoculare


M. Bifani, S. Troise
9.1 Compensazione della miopia

La miopia viene sempre compensata con la minima lente negativa che da la


massima acuità visiva. In funzione dell’acuità visiva presente, almeno che non
scenda al di sotto di 1/10, si può circa calcolare il difetto refrattivo considerando
che ogni 0,25 dt di miopia il nostro occhio perde circa 1/10 di visione; quindi:

AV 2/10 a 2,00 dt - AV 5/10 a 1,25 dt - AV 8/10 a 0,50 dt di miopia.


Esempio:
AV naturale < 1/10 Sf – 2,50 dt 9/10
Sf – 1,00 dt 3/10 Sf – 2,75 dt 10/10
Sf – 1,50 dt 5/10 Sf – 3,00 dt 12/10
Sf – 2,00 dt 7/10 Sf – 3,25 dt 12/10
Sf – 2,25 dt 8/10 Sf – 3,50 dt 12/10.
Si sceglie la lente di – 3,00 dt, perché è la minima correzione negativa che fornisce
il massimo visus. Per una corretta refrazione è consigliabile aumentare il potere
della lente negativa con intervalli di 0,25 in 0,25 dt. In caso, però, di miopie medio-
elevate il lavoro risulta essere troppo prolisso, quindi è consigliabile iniziare
inserendo lenti di potere più elevato e passare successivamente a quelle di 0,25 dt,
nel seguente modo:
x
x
AV < 2/10: inserire lenti con variazione di -1,00 in -1,00 dt
”$9”: inserire lenti con variazione di -0,50 in-0,50 dt
x AV > 6/10: inserire lenti con variazione di -0,25 in -0,25 dt.

9.2 Compensazione dell’ipermetropia

L’ipermetropia viene sempre compensata con la maggiore lente positiva, in quanto


l’occhio ipermetrope è meno potente di quello emmetrope, che da la massima
acuità visiva (ipermetropia manifesta).
Esempio:
AV naturale 10/10
Sf. +0,50 dt 10/10 Sf. +1,75 dt 10/10
Sf. +1,00 dt 10/10 Sf. +2,00 dt 10/10
Sf. +1,50 dt 10/10 Sf. +2,25 dt 9/10
Si sceglie la lente di +2,00 dt, perché è la massima correzione positiva che fornisce
il miglior visus.

9.2.1 Metodiche di misura dell’ipermetropia

1. Sfuocamento
Lo sfuocamento è un metodo refrattivo monoculare. Si miopizza il soggetto
esaminato ponendogli davanti una lente positiva, ad esempio un soggetto
emmetropizzato con una lente di +1,00 dt possiamo miopizzarlo con una lente di
9. Refrazione monoculare 148

+3,50 dt, comunque si metterà una lente positiva tale che l’acuità visiva scenda a 2-
3/10. A questo punto iniziamo a diminuire la potenza della lente chiedendo ogni
volta al soggetto esaminato di leggere l’ottotipo e inducendo così un rilassamento
forzato del cristallino; ovviamente l’occhio non va mai lasciato senza lente,
altrimenti rientra in gioco tutta l’accomodazione, quindi prima si inserisce la nuova
lente, di gradazione inferiore, e poi si toglie quella precedente. Se esiste un
ipermetropia latente troveremo un visus massimo con una lente di valore più alto di
quella usata per gli occhiali. Nella maggior parte dei casi il valore trovato non può
essere utilizzato per correggere l’ametropia, in quanto scaturito da una
disaccomodazione forzata del cristallino.

2. Recessione
La recessione è una metodica refrattiva binoculare. Si pone il soggetto ad 1m
dall’ottotipo e gli mettiamo delle lenti positive che gli permettano di vedere le
lettere corrispondenti ad una AV di 10/10. Si fa poi allontanare l’esaminato
dall’ottotipo finché non vede più le lettere, quindi diminuiamo il potere della lente
stessa a passi di 0,25 in 0,25dt fino a quando non rivede le lettere; si continua
questo procedimento raggiungendo i 6 metri di distanza con il massimo visus.

3. Sfuocamento inverso
Lo sfuocamento inverso è un metodo refrattivo monoculare che viene utilizzato in
quei soggetti che hanno un potere accomodativo limitato. Iniziamo aumentando il
potere positivo della lente di 0,25 in 0,25dt fino a raggiungere il massimo visus.
Esempio:
AV naturale 5/10
Sf. +0,25 dt 6/10 Sf. +1,00 dt 9/10
Sf. +0,50 dt 7/10 Sf. +1,25 dt 10/10
Sf. +0,75 dt 8/10 Sf. +1,50 dt 9/10.

Una volta ottenuto questo peggioriamo la visione aggiungendo +0,75 dt all’ultima


lente che migliora il visus oppure aggiungendo +0,50 dt alla prima lente che
peggiora il visus. A questo punto iniziamo a diminuire la potenza della lente
chiedendo ogni volta all’esaminato di leggere l’ottotipo e inducendo così un
rilassamento forzato del cristallino, fino a riportare l’AV a 10/10. Come in tutti i
metodi di misura dell’ipermetropia tutte le volte che cambio il potere della lente
devo prima inserire la nuova lente e poi togliere la lente più potente, in modo da
non fare mai accomodare il soggetto.

9.3 Compensazione dell’astigmatismo con il quadrante per astigmatici

Un metodo per l’evidenziazione e la compensazione dell’astigmatismo è il


quadrante per astigmatici (Fig.1), che viene utilizzato una volta determinato il
valore sferico che permette di ottenere la miglior acuità visiva (best vision sphere,
BVS). Generalmente questo test utilizza una raggiera nella quale ogni riga, o
gruppo di righe, identifica e consente di valutare la capacità visiva del soggetto in
quella direzione.
9. Refrazione monoculare 149

Fig.1: Alcune tipologie di quadrante per astigmatici

La raggiera può essere composta da 12 strisce o, più frequentemente, da una serie


di 3 strisce nere ad una distanza di circa 2 primi di arco e disposte ad intervalli di
30° l’una dall’altra. Molte volte i raggi sono indicati con numeri da 1 a 12, come il
quadrante di un orologio, in modo da facilitare l’esame o meglio la risposta
dell’esaminato. I numeri presenti in corrispondenza di ogni raggio indicano il suo
orientamento in gradi secondo il sistema TABO, quindi con lo 0 nasale per l’occhio
destro e con lo 0 temporale per quanto riguarda l’occhio sinistro, con l’avvertenza
che, trovandosi il quadrante nello spazio di fronte al soggetto, la posizione dei punti
0° e 180° deve essere speculare rispetto all’occhio o a quella della montatura di
prova (Fig.2).

Fig.2: Quadrante per astigmatici con relativa specularità o proiezione nello spazio dei vari meridiani
dei due occhi

Il test viene svolto in visione monoculare, con la BVS inserita; viene invitato il
soggetto a riferire quale sia, se c’è, la riga vista meglio e le possibili risposte
possono essere tre:
1. tutte le linee sono viste nitide allo stesso modo,
2. tutte le linee sono viste sfuocate allo stesso modo,
3. una linea viene vista più nitida rispetto alle altre.
9. Refrazione monoculare 150

x occhio non astigmatico,


Sia nel primo che nel secondo caso si possono fare le seguenti ipotesi:

x occhio astigmatico con il disco di minima confusione sulla retina.


Per distinguere questi due nuovi casi basta aggiungere lenti sferiche positive
(mediamente +0,50 - +0,75 dt); se dopo tale aggiunta il soggetto riferisce sempre di
vedere le linee tutte ugualmente nitide o sfuocate siamo di fronte ad una ametropia
sferica. Se, invece, con l’aggiunta, il soggetto giunge alla preferenza di una linea
allora siamo di fronte ad un astigmatismo non corretto; in questo ultimo caso infatti
la lente positiva aggiunta porta verso un astigmatismo miopico semplice. Nel terzo
caso invece, in cui il soggetto riferisce fin da subito di vedere una linea meglio
delle altre, anche senza aggiunta positiva, siamo sicuramente di fronte ad un
astigmatismo, in cui orientata come linea vista meglio, troveremo la focale più
vicina alla retina, mentre alla linea vista più sfuocata corrisponderà la focale più
lontana dalla retina stessa. Alcune volte può succedere che i soggetti riferiscano di
vedere meglio non una sola linea, ma due; ciò significa che uno dei due meridiani
principali è intermedio tra le due linee.

9.3.1 Procedura d’esame con il quadrante per astigmatici

La corretta procedura per l’utilizzo del quadrante per astigmatici è la seguente:


1. misura dell’AV naturale (senza correzione oftalmica o lenti a contatto);
2. ricerca della BVS, ovvero la lente sferica negativa più piccola o la lente sferica
positiva più grande che dà il massimo dell’AV;
3. presentare il quadrante per astigmatici e mettere delle lenti positive tali da far
portare una focale sulla retina ed una nel vitreo (condizione di ast. miopico
semplice);
4. inserire il cilindro negativo con asse in direzione corrispondente alla linea vista
peggio dal soggetto. Continuare ad aumentare il valore del cilindro fino a
quando il soggetto non dice di vedere le linee del quadrante tutte uguali
(Fig.3).

Fig.3: Varie visioni al quadrante per astigmatismo


9. Refrazione monoculare 151

7.3.2 Esempio pratico

Un soggetto con una BVS di -2,50 dt sull’OD riferisce, di fronte ad un quadrante


per astigmatismo, la visione di figura 4.

Fig.4: Visione schematica di un soggetto davanti al quadrante per astigmatismo. Il soggetto riferisce
di vedere in maniera nitida la linea a 60°, cioè la numero 11

Riprendendo ciò che abbiamo detto in precedenza, siamo nel terzo caso, quindi a
questo punto, lavorando con un occhiale di prova o con il forottero, iniziamo ad
inserire gradualmente lenti cilindriche negative con asse in corrispondenza della
linea vista più annebbiata, fino a raggiungere l’uguaglianza di tutte le linee. Se, per
esempio, con la lente sferica di –2,50 dt e una lente cilindrica di –0,75 dt il soggetto
riferisce di vedere tutte le linee allo stesso modo, la sua refrazione sarà:
sf –2,50 cil –0,75 ax 150°.

9.4 Compensazione dell’astigmatismo con il cilindro crociato di Jackson

Il cilindro crociato (c.c.) è una lente particolare che viene usata durante l’esame
refrattivo soggettivo per determinare l’entità e la direzione dell’astigmatismo
presente in un occhio. Il cilindro crociato è composto da una lente bicilindrica con
potenze, in valore assoluto, uguali, ma di segno opposto, ed una impugnatura che
permette facilmente di ruotare la lente e quindi di invertire la posizione dei due
cilindri davanti all’occhio (Fig.5).

Fig.5: Cilindro crociato di Jackson


9. Refrazione monoculare 152

Molto importanti sono anche i riferimenti presenti sulla lente, solitamente di colore
rosso in corrispondenza dell’asse del cilindro negativo e di colore bianco o nero o
verde in direzione dell’asse del cilindro positivo. Il cilindro crociato è molto
importante durante la refrazione, poiché permette di determinare l’entità
dell’astigmatismo e di valutare con elevata precisione l’asse. I cilindri crociati più
utilizzati sono quelli ± 0,25 dt e ± 0,50 dt, ma in commercio si possono trovare le
seguenti versioni:

± 0,12 con sferocilindrica sf + 0,12 cil - 0,25 e trasposta sf - 0,12 cil + 0,25
± 0,25 con sferocilindrica sf + 0,25 cil - 0,50 e trasposta sf - 0,25 cil + 0,50
± 0,50 con sferocilindrica sf + 0,50 cil - 1,00 e trasposta sf - 0,50 cil + 1,00
± 0,75 con sferocilindrica sf + 0,75 cil - 1,50 e trasposta sf - 0,75 cil + 1,50
± 1,00 con sferocilindrica sf + 1.00 cil - 2,00 e trasposta sf - 1.00 cil + 2,00

9.4.1 Utilizzo del cilindro crociato per l’evidenziazione del potere e dell’asse
del cilindro correttore

visiva (AV) che l’esaminato raggiunge con la BVS. Se l’AV è a5-6/10 si può
Per la scelta del cilindro crociato da utilizzare bisogna tenere conto dell’acuità

utilizzare il cilindro crociato di ± 0,25 dt, mentre se l’AV è minore si inizia con
quello di ± 0,50 dt e successivamente si passa a quello immediatamente inferiore.
La rifinitura finale eventualmente può anche essere fatta con il c.c. di ± 0,12 dt.

x lettere dell’ottotipo:
Le mire ottotipiche da utilizzare sono le seguenti (Fig.6):
si invita il soggetto a guardare una letterina
(preferibilmente rotondeggiante, come la O o la C o la D) corrispondente ad
una acuità visiva 2-3/10 inferiore a quella raggiunta con la BVS,

x anelli di Landolt: si presenta un anello di Landolt, sempre più grande rispetto


a quelli della massima AV raggiunta,

x mira a punti: questa mira è stata progettata appositamente per l’utilizzo del il
cilindro crociato; è composta da una serie di punti neri che sottendono un
angolo di 2’ disposti a griglia.

Fig.6: Vari tipologie di mire utilizzate con il cilindro crociato


9. Refrazione monoculare 153

Per utilizzare correttamente il cilindro crociato è necessario che il disco di minima


confusione si trovi sulla retina, quindi che le due focali si trovino alla stessa
distanza diottrica da essa. Una volta stabilita la lente sferica equivalente, BVS, si

x si pone il cilindro crociato davanti all’occhio del soggetto con assi orientati a
procede nel seguente modo:

90° e 180° (Fig. 7a), poi verrà ruotato attorno al suo manico di 180°, in modo
da invertire il segno del cilindro presente sui due meridiani. Proponendo le due
posizioni del cilindro crociato il soggetto dovrà riferire con quale delle due
vede la mira meno deformata, cioè meglio. La posizione preferita dovrà essere
annotata tenendo in considerazione l’asse del cilindro negativo,
indipendentemente dal tipo di lente sferica, poiché, lavorando con cilindri
negativi, siamo in grado di tenere sotto controllo l’accomodazione.

x Si ripete la stessa azione precedente, posizionando, però gli assi del cilindro
crociato con assi 45° e 135° (fig. 7b), anziché 90° e 180°, e di nuovo si fa
scegliere una delle due posizioni.

Fig.7: Il cil. crociato verrà prima posizionato (a) con ax 90° e 180° e verrà ruotato attorno al suo
manico in modo che inverta il segno del cilindro presente nelle due direzioni, dopo si posizionerà
(b) con ax 45° e 135°

Se il soggetto, per esempio, al punto 1 ha preferito l’asse del cilindro negativo a


180° ed al punto 2 a 135° si potrà dedurre che l’asse del cilindro correttore sarà
compreso tra 135° e 180° e si potrà inserire davanti alla BVS la sferocilindrica
risultante dal cilindro crociato utilizzato con asse intermedio. Utilizzando il cilindro
crociato di ±0,25, nell’esempio, si inserirà sf +0,25 cil -0,50 con asse intermedio
alle due posizioni preferite, 155° - 160°. Ovviamente la sfera di +0,25dt si
sommerà algebricamente alla BVS, oppure possiamo inserire semplicemente un cil
– 0,25 ax …. e variare la sfera solo se il soggetto accetta un incremento del cilindro
stesso (ogni variazione cilindrica di 0,50 dt variamo la sfera di 025 dt per
mantenere inalterato l’equivalente sferico).

x il soggetto preferisce la posizione dell’asse negativo prima a 90° (tra 90 e


Esempi per l’inserimento del primo cilindro sull’occhiale di prova o sul forottero:

x il soggetto preferisce la posizione dell’asse negativo prima a 90° (tra 90 e


180°) e a 135° (tra 45° e 135°) => inserisco: cil – 0,25 ax 110°

180°) e a 45° (tra 45° e 135°) => inserisco: cil – 0,25 ax 70°
9. Refrazione monoculare 154

x il soggetto preferisce la posizione dell’asse negativo prima a 180° (tra 90 e

x
180°) e a 135° (tra 45° e 135°) => inserisco: cil – 0,25 ax 160°
il soggetto preferisce la posizione dell’asse negativo prima a 180° (tra 90 e
180°) e a 45° (tra 45° e 135°) => inserisco: cil – 0,25 ax 20°.

Una volta inserito il primo cilindro posizioniamo il cilindro crociato con


l’impugnatura parallelamente o perpendicolarmente all’asse del cilindro
correttore inserito, in modo che gli assi del cilindro crociato si trovino a 45° di
distanza dall’asse del cilindro correttore stesso (Fig. 8). Si eseguirà la rotazione
del cilindro crociato attorno al manico per ottenere due immagini tra le quali il
soggetto deve scegliere la più nitida. In conseguenza della scelta, quella
preferita corrisponderà alla posizione dove il cilindro negativo fornisce,
sommandosi al cilindro correttore, un cilindro risultante con direzione più
vicina a quella dell’astigmatismo refrattivo presente.

Fig.8: Il controllo dell’asse si effettua posizionando il manico del cilindro crociato parallelo o
perpendicolare all’asse del cilindro correttore

Quindi:
1) si ruoterà il cilindro correttore di circa 10° in direzione dell’asse del cilindro
negativo del cilindro crociato (riferimento rosso o segno -) nella posizione
preferita dal soggetto. Se avessimo utilizzato un cilindro correttore positivo la
rotazione sarebbe stata fatta in direzione dei riferimenti bianchi o neri o del
segno +,
2) si ripeterà la stessa operazione spostando il manico del cilindro crociato in
corrispondenza del nuovo asse del cilindro correttore, fino a quando il soggetto
non apprezzerà differenze tra le due posizioni. Ovviamente avvicinandosi
all’esatta direzione dell’asse gli spostamenti saranno via via inferiori.
Una volta definito l’asse del cilindro correttore si va a ricercare l’esatta potenza nel
seguente modo:
- Si posizionerà il cilindro crociato con i riferimenti di uno dei due assi paralleli
all’asse del cilindro correttore (Fig. 9). In questo modo ruotando il cilindro
crociato si otterrà in una posizione l’aumento del cilindro correttore, mentre
nell’altra una riduzione.
9. Refrazione monoculare 155

Fig.9: Valutazione del potere del cilindro correttore

- Se il soggetto sceglierà la posizione in cui i riferimenti rossi o il segno - sono


paralleli al cilindro correttore negativo, se ne aumenterà la potenza
ricordandosi di modificare anche la componente sferica; se la posizione
preferita sarà invece quella con i riferimenti bianchi o neri o verdi o i segni +
paralleli all’asse del cilindro correttore negativo, si ridurrà la sua potenza.
- Saranno ripetute le stesse operazioni fino a quando il soggetto non percepirà
differenze in seguito alla rotazione del cilindro crociato.
Dobbiamo constatare che, se è di più facile e veloce utilizzo il quadrante per
astigmatici, è sicuramente più preciso il metodo del cilindro crociato; questo infatti
permette di definire con esattezza potenza ed asse del cilindro.
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 157

Capitolo 10 – Bilanciamenti monoculari e binoculari


L. Mele, A. Mocellin
10.1 Rifinitura della sfera

Nell’effettuare una refrazione assume particolare importanza per l’operatore


procedere alla “rifinitura della sfera”, dopo aver determinato il suo valore e
compensato l’eventuale astigmatismo.

x Test bicromatico o “duochrome”


I metodi che possono essere utilizzati sono i seguenti:

x Reticolo a croce associato a cilindro crociato


x Utilizzo di lenti di ± 0,25 dt.

10.1.1 Test bicromatico o Duochrome

Il test bicromatico sfrutta l’aberrazione cromatica dell’occhio, in base alla quale le


radiazioni a lunghezza d’onda minore vanno a fuoco prima di quelle a lunghezza
d’onda maggiore. Con questo test facciamo valutare al soggetto le differenze tra
vari simboli, numeri o lettere neri presenti nel test con diversa dimensione (in
modo da coprire un buon range di acuità visiva), che si trovano in due quadranti
adiacenti, uno con sfondo rosso ed uno con sfondo verde. In funzione dell’acuità
visiva raggiunta in precedenza faremo osservare i simboli di maggiore o minore
dimensione. Quando l’acuità visiva è particolarmente elevata, in alcuni test
bicromatici, sono presenti due piccoli puntini neri, uno presentato su sfondo verde
ed uno su sfondo rosso, all’interno di un cerchietto, da far confrontare in nitidezza
(Fig.1).

Fig.1: Varie tipologie di test bicromatico

Quando, invece, l’acuità visiva è molto bassa alcuni proiettori permettono di


sovrapporre lo sfondo rosso-verde a tutte le schermate di lettere o altri simboli
(Fig.2).

Fig.2: Test bicromatico con sovrapposizione dello sfondo alle schermate di lettere
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 158

I colori dei due quadranti sono stati scelti affinché in un occhio emmetrope, il quale
in visione fotopica ha la massima sensibilità per una lunghezza d’onda di 555 nm
(colore giallo), l’immagine del quadrante verde si focalizza davanti alla retina,
mentre quella del rosso dietro la retina, quasi alla stessa distanza, valutabile in circa
0,25 dt (Fig.3).

Fig.3: Focalizzazione del bicromatico sulla retina di un occhio emmetropie.

Se un soggetto è ben compensato, anche come valore di cilindro, vedrà i simboli,


che sono gli stessi nei due quadranti, con lo stesso contrasto sui due sfondi, quindi
li percepirà nitidi allo stesso modo. In caso di miopia non perfettamente
compensata o ipermetropia sovracorretta il soggetto riferirà di vedere i simboli più
nitidi sullo sfondo rosso, perché l’immagine rossa si trova più vicina alla retina
(Fig.4).

Fig.4: Visione al test bicromatico: caratteri sfuocati sul verde, mentre perfettamente nitidi sul rosso

Naturalmente in questo caso bisogna aggiungere una lente di –0,25 dt o maggiore.


In caso invece di ipermetropia non perfettamente compensata o miopia
sovracorretta il soggetto riferirà di vedere i simboli più nitidi sullo sfondo verde,
perché l’immagine verde si trova più vicina alla retina (Fig.5).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 159

Fig.5: Visione al test bicromatico: caratteri sfuocati sul rosso, mentre perfettamente nitidi sul verde

Naturalmente in questo caso bisogna aggiungere una lente di +0,25 dt o maggiore.


Nell’eseguire il test è importante non passare da una preferenza sul rosso ad una sul
verde aumentando troppo la potenza delle lenti negative; quando, invece, nella
pratica, abbiamo di fronte soggetti ipermetropi, in funzione del caso, possiamo
anche privilegiare il verde, cioè non prescrivere la compensazione positiva totale.
E’ opportuno ricordare che il test è prettamente monoculare, quindi l’occhio non
esaminato deve essere sempre occluso; in più dobbiamo effettuarlo con un
illuminamento ambientale molto basso, quasi nullo, dal momento che l’aberrazione
cromatica cresce all’aumentare del diametro pupillare, quindi abbassando
l’illuminazione dell’ambiente aumenta l’efficacia del test. Altrettanto importante
per un buon funzionamento del test è far capire al soggetto che non deve
concentrarsi sulla luminosità dei colori dei due sfondi, quanto sulla nitidezza dei
simboli; è pertanto importante che l’operatore ponga correttamente la domanda
all’esaminato e cioè non “se vede meglio sul rosso o sul verde”, ma quali simboli
sono più nitidi. Il test bicromatico ha il vantaggio di essere di semplice esecuzione
e facilmente intuibile da parte del soggetto. Al tempo stesso, però, mostra dei limiti
con le persone anziane, in cui il cristallino ingiallito assorbe o diffonde
maggiormente le radiazioni blu/verdi: ne consegue una preferenza per la parte
rossa, che non dipende dal valore della sfera che può indurre l’operatore in errore.

10.1.2 Test del reticolo a croce

Il test del reticolo a croce prende questo nome perché per effettuarlo viene
utilizzata come mira il reticolo a croce, costituito da varie linee (generalmente
cinque) verticali ed orizzontali incrociate tra loro, in modo da formare una croce
(da qui il nome di “reticolo a croce”); mira quasi sempre presente nei proiettori
(Fig. 6).

Fig.6: Varie tipologie di reticolo a croce


10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 160

Sull’occhiale di prova, invece, viene posto un cilindro crociato di ±0,50dt con asse
negativo orientato a 90°. Tale cilindro crociato serve a creare un astigmatismo sulla
retina, in modo che, in un occhio emmetrope, le linee verticali vadano a fuoco
dietro la retina, mentre quelle orizzontali davanti, entrambe ad una distanza
corrispondente a 0,50 dt, per un intervallo totale di 1,00 dt (Fig. 7).

Fig.7: Test del reticolo a croce. (A Reticolo a croce, B Reticolo a croce + Cilindro crociato ± 0.50
ax - 90°) Il disco di minor confusione (B) mantiene la stessa posizione che ha l’immagine prima
dell’inserimento del cilindro crociato (A)

Ovviamente per eseguire questo test è necessario che sia compensato perfettamente
un eventuale astigmatismo. Il soggetto deve riferire se nota differenze di nitidezza
tra le linee orizzontali e verticali. Se le strisce nelle due direzioni vengono viste
ugualmente nitide significa che il valore della sfera precedentemente trovato è
corretto, se, invece, sono percepite meglio le linee verticali abbiamo di fronte un
occhio con una miopia sottocorretta o un’ipermetropia sovracorretta, dobbiamo
quindi inserire una lente di – 0,25 dt o più negativa fino a raggiungere
l’uguaglianza di nitidezza o comunque non passare alla preferenza delle linee
orizzontali (Fig.8).

Fig.8: Nel soggetto miope o miopizzato, le linee verticali vanno a fuoco più vicino alla retina (il
disco di minor confusione è davanti ad essa), quindi saranno viste più nitidamente

In caso contrario, cioè se appaiono più nitide le linee orizzontali, si tratta di un


occhio ancora ipermetrope, o miope eccessivamente compensato, quindi è
necessaria l’aggiunta di lenti positive (Fig.9).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 161

Fig.9: Nel soggetto ipermetrope o ipermetropizzato le linee orizzontali vanno a fuoco più vicino alla
retina (il disco di minor confusione è dietro ad essa), quindi saranno viste più nitidamente

10.1.3 Utilizzo di lenti di ± 0,25 dt

Devono essere utilizzate le lenti di + 0,25 dt e – 0,25 dt della cassetta di prova e


come mira, da far osservare, le lettere corrispondenti alla massima acuità visiva
monoculare che il soggetto raggiunge.

x poniamo davanti alla compensazione trovata la lente di + 0,25 dt, per circa 3
La procedura da seguire è la seguente:

x sostituiamo la lente di + 0,25 dt con quella di – 0,25 dt, facendo attenzione che
secondi

il soggetto non osservi l’ottotipo senza lente, mantenendola non più di mezzo
secondo; ciò al fine di impedire che intervenga l’accomodazione per
compensare tale lente

A questo punto il soggetto deve riferire se ha una preferenza di visione con una
delle due lenti oppure nessuna preferenza. Se il soggetto non ha preferenze
significa che la compensazione precedentemente trovata è corretta. Nel caso in cui
il soggetto scelga una delle due lenti dobbiamo effettuare un’ulteriore prova, che
consiste nel far vedere all’esaminato se vede meglio con o senza lente. In
particolare tale ulteriore prova deve essere effettuata se la lente scelta è quella
negativa, chiedendo al soggetto se la lente fa vedere solamente le lettere più nitide
o anche più piccole, poiché se così, non va assolutamente considerata. Se con e
senza lente non viene riferita nessuna differenza, ci comporteremo nel seguente

x nel caso in cui la lente scelta è quella positiva non esitiamo a variare la
modo:

compensazione (meno negativa per il miope, mentre più positiva per

x nel caso in cui la lente scelta è quella negativa non variamo la compensazione.
l’ipermetrope)

Generalmente, durante lo svolgimento di una refrazione non vengono effettuati tutti


e tre i test, ma al massimo due, da scegliere in funzione del caso. Per esempio in
caso di bambini o persone sopra i 50/55 anni può non funzionare bene il
bicromatico; nel primo caso per semplice preferenza del colore, mentre nel secondo
caso a causa di una bassa aberrazione cromatica dell’occhio. Invece, utilizzando il
reticolo a croce si incontrano spesso preferenze per linee verticali, poiché, nella vita
quotidiana, la maggior parte di ciò che ci circonda si sviluppa dal suolo verso
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 162

l’alto; oltre a quanto detto questo test è più lungo da eseguire. La prova del ± 0,25
dt, invece, è sempre bene effettuarla, poiché è una vera e propria interpretazione
soggettiva dell’esaminato, relativa non solo alla maggior nitidezza, ma anche al
miglior comfort visivo.

10.2 Test di bilanciamento binoculare

Dopo aver effettuato un’attenta refrazione monoculare, con la determinazione della


migliore sfera (BVS), minima lente sferica negativa o massima lente positiva che
permetta di raggiungere il miglior visus, ricerca del cilindro (asse e potenza) con il
cilindro crociato e bilanciamento - rifinitura della sfera è importante effettuare un
bilanciamento binoculare dell’accomodazione. Può darsi che non siamo riusciti ad
inibire l’accomodazione alla stessa maniera nell’occhio destro rispetto a quello
sinistro, in questo caso, quando il soggetto è messo in condizioni di visione
binoculare, gli occhi necessitano di un livello accomodativo diverso, ma dal
momento che l’innervazione del sistema accomodativo è coniugata ciò non è
possibile; quindi le immagini non si formano contemporaneamente sulla retina, e
ciò, oltre a produrre un diverso livello di nitidezza nei due occhi, può essere fonte
di disturbi astenopici nel caso in cui il soggetto accomodasse alternativamente per
un occhio o per l’altro. Questi test servono a portare contemporaneamente le
immagini sulle retine di entrambi gli occhi, uguagliando così lo stimolo
accomodativo. Va ricordato che quest’esame va svolto solo in caso di visione
binoculare normale e quando l’acuità visiva è circa uguale nei due occhi. Per lo
svolgimento di questi test è necessario dissociare la visione, cioè interrompere la
visione binoculare, ma lasciare entrambi gli occhi aperti, in modo che vengano
percepite, contemporaneamente da OD e OS, due mire simili, ma localizzate in due
posizioni distinte. Queste condizioni visive si possono ottenere dissociando la
visione seguendo uno dei due metodi di seguito riportati.

10.2.1 Filtri ed ottotipi polarizzati

Questa metodica utilizza la mira polarizzata, generalmente presente nella maggior


parte dei proiettori, costituita da due strisce di lettere o numeri di varia grandezza e
polarizzate diversamente (ortogonalmente) (Fig. 10).

R DF H N 4 30 6 7

P OE C H 7 63 2 9

Fig.10: Varie tipologie di mire polarizzate

Il soggetto dovrà osservare la mira binocularmente attraverso i filtri polarizzati


presenti generalmente sul forottero o nella cassetta di lenti tra le lenti accessorie,
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 163

oppure attraverso un occhialino polarizzato da porre davanti all’occhiale di prova


(Fig.11).

Fig.11:Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati (OS per vedere nitido ha bisogno di
accomodare)

Fatto questo l’esaminato verrà penalizzato con due lenti di + 0,50 dt in entrambi gli
occhi, in modo da controllare un’eventuale accomodazione residua (Fig.12).

Fig.12: Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati, aggiunta di lenti di +0,50 dt in
entrambi gli occhi per miopizzare l’esaminato

A questo punto verrà chiesto al soggetto di riferirci su quale delle due linee vede
più nitidi i caratteri. In funzione della risposta saremo in grado di capire se
entrambi gli occhi vedono allo stesso modo oppure quale dei due vede meglio e
quale in maniera peggiore. Se la risposta è che la nitidezza delle due strisce è
identica la compensazione è già corretta, quindi i valori di sfera presenti nei due
occhi non devono essere variati. Se c’è una preferenza nella visione di un occhio
andremo a penalizzare quello che vede meglio con una lente di +0,25 dt e
porremmo di nuovo la stessa domanda (Fig.13).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 164

Fig.13: Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati, aggiunta di lenti di + 0,25 dt
sull’occhio che vede meglio

Adesso le risposte potranno ancora essere tre:


1. le due linee si vedono ugualmente nitide,
2. vede sempre meglio lo stesso occhio,
3. la preferenza di visione è passata all’altro occhio.
Nel primo caso abbiamo terminato il test.
Nel secondo caso dobbiamo ancora penalizzare, con l’aggiunta di un altro + 0,25
dt, lo stesso occhio, fino a raggiungere, se possibile, l’uguaglianza di visione.
Il terzo caso sta invece a significare che non riusciamo ad ottenere un’uguaglianza
di nitidezza, quindi è consigliabile lasciare una leggera preferenza (migliore
visione) sull’occhio dominante; quindi manteniamo la lente di + 0,25 dt di
penalizzazione se l’occhio in cui è stata messa non è il dominante, altrimenti la
togliamo. Alla fine dobbiamo togliere le lenti di + 0,50 dt che erano state aggiunte;
eventualmente quest’ultima operazione può essere fatta gradualmente di 0,25 dt in
0,25 dt (più facile da fare se stiamo utilizzando il forottero, più difficoltosa invece
con l’occhiale di prova) facendo osservare le lettere corrispondenti alla massima
acuità visiva precedentemente senza penalizzazione; in questo modo il soggetto
potrebbe accettare binocularmente una aggiunta ulteriore di + 0,25 dt,
prescriveremo così il minore negativo al miope ed il maggior positivo
all’ipermetrope, secondo le indicazioni fornite in precedenza (Fig. 14).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 165

Fig.14: Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati, tolgo le lenti di + 0,50 dt in entrambi
gli occhi

Alla fine dobbiamo disinserire i filtri polarizzati (Fig.15).

Fig.15: Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati, accomodazione bilanciata

10.2.2 Prismi dissocianti

Questa metodica prevede invece l’utilizzo di una dissociazione prismatica o con 3


ǻEDVHDOWDVXXQRFFKLRHǻEDVHEDVVDVXOFRQWURODWHUDOHRFRQǻEDVHYHUWLFDOH
sull’occhio dominante, in modo da essere certi che la visione si sdoppierà. Come
ottotipo invece viene utilizzata una linea orizzontale di caratteri (lettere, numeri o
altro) di dimensioni tali da essere percepiti nonostante la penalizzazione binoculare
di + 0,50 dt. Tale linea talvolta è già presente tra i test del proiettore (Fig.16)
oppure, si ottiene schermando una linea di caratteri di dimensioni opportune,
normalmente linea di lettere di 5/10, in funzione del caso.
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 166

R D F H N

Fig.16: Linea di lettere già predisposta sul proiettore

È consigliabile suddividere l’effetto prismatico introdotto nei due occhi,


XWLOL]]DQGRLSULVPLURWDQWLGL5LVOH\RGXHSULVPLGDǻLQIDWWLGDOPRPHQWRFKHLO
test si basa sul paragone delle immagini percepite dai due occhi e tenendo presente
che i prismi peggiorano la qualità dell’immagine (per le aberrazioni), nel caso
usassimo un solo prisma le aberrazioni introdotte influenzerebbero la risposta del
soggetto, rendendo, quindi, meno attendibile il test. Per quanto riguarda la
procedura da seguire non ci sono particolari differenze rispetto alla precedente
metodica, si deve solo specificare all’esaminato di porre attenzione soltanto alla
nitidezza dei caratteri e non all’eventuale diversità dello sfondo, che può variare in
particolare quando viene utilizzato un solo prisma di 6 ǻ SHU OD GLVVRFLD]LRQH
Presentiamo una fila di lettere dei 5/10 (inserendo una schermatura orizzontale nel
proiettore d'ottotipi (Fig. 17).

Fig.17: Schermatura linea dei 5/10 (OD per vedere nitido ha bisogno di accomodare)

Il soggetto dovrà osservare la mira binocularmente attraverso i prismi dissocianti;


l'inserimento dei prismi può infastidire il soggetto, perché il sistema motorio prova
ad eliminare la diplopia. Secondo quanto detto, dovremo inserire dei prismi a basi
contrapposte (ad es. base bassa OS, base alta OD). In queste condizioni visive, il
soggetto vede due file di lettere (Fig.18): quella in alto con l’occhio sinistro (ha il
prisma base bassa) e quella in basso con l’occhio destro (ha il prisma base alta).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 167

Fig.18: Inserimento prismi e sdoppiamento dell’immagine

Aggiungiamo alla correzione trovata fino a questo punto, una sfera di +0,50 dt in
entrambi gli occhi (Fig.19).

Fig.19: Annebbiamento di entrambi gli occhi

Chiediamo al soggetto se legge meglio le lettere nella riga in alto o in quella in


basso e come in precedenza peggioriamo l'immagine vista meglio inserendo sfere
positive di + 0,25 dt fino a che il soggetto riferirà di vederle allo stesso modo
(Fig.20).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 168

Fig.20: Peggioriamo l'immagine vista meglio, aggiungendo sfere positive (+ 0,25 dt) fino a che
leggerà allo stesso modo con entrambi gli occhi (le immagini sono alla stessa distanza dalle retine)

Togliamo la sfera di + 0,50 dt inserita in precedenza (Fig.21).

Fig.21: Eliminazione di entrambe le sfere di +0,50 dt

Per concludere si tolgono i prismi e ciò che resta negli oculari non è altro che la
correzione bilanciata (Fig.22).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 169

Fig.22: Correzione bilanciata

I test di bilanciamento bioculare servono per il bilanciamento dell’accomodazione,


quindi possono portare solo a variazioni di sfera, rispetto a quella trovata in
monoculare. Per questo motivo è più importante eseguirli sui soggetti non ancora
presbiti o che hanno ancora un residuo accomodativo. Inoltre non sono da
effettuarsi sui soggetti che presentano, dopo la refrazione monoculare, differenze di
acuità visiva nei due occhi maggiore di 2/10, perché dovremmo peggiorare troppo
l’occhio con acuità visiva migliore per portarlo al livello dell’altro e, molto
probabilmente, tale variazione non verrebbe accettata. Durante lo svolgimento di
questi test è possibile evidenziare eventuali soppressioni di un occhio, in questo
caso l’esaminato riferirà di vedere solo una linea invece che due, in modo costante
o intermittente.
11. Presbiopia 171

Capitolo 11 – Presbiopia
L. Mele, M. Piovella

11.1 Variazioni del cristallino e dell’accomodazione con l’avvento della


presbiopia

Il cristallino (Fig.1), mezzo diottrico oculare responsabile dell’accomodazione, con


l’invecchiamento riduce progressivamente la capacità di modificare la propria
curvatura; ciò provoca una diminuzione del potere accomodativo e
conseguentemente un allontanamento del punto prossimo dall'occhio.
La riduzione dell’ampiezza accomodativa inizia nell’adolescenza e continua fino
all’età di 60 anni, dopodiché il piccolo valore accomodativo residuo è
prevalentemente dovuto alla profondità di campo dell’occhio, che non ad una reale
accomodazione.
Questo comportamento del sistema accomodativo è da ritenersi del tutto normale e
comincia a creare problemi di affaticamento e sfuocamento visivo nei lavori a
distanza ravvicinata mediamente nella quinta decade della vita.

Fig.1: Il cristallino

11.2 La presbiopia

La presbiopia colpisce le persone generalmente a partire dai


quaranta/quarantacinque anni ed interessa la visione per vicino e poco dopo anche
quella a distanze intermedie. Non può essere considerata un vero e proprio difetto
della vista, ma un processo fisiologico legato all’età. Dopo i 40 anni infatti l’occhio
normale (emmetrope) continua a vedere bene da lontano, ma perde
progressivamente la possibilità di vedere a distanza ravvicinata (Fig.2).
11. Presbiopia 172

Fig.2: Il soggetto presbite

Ciò accade, poiché con il passare degli anni la capacità del cristallino di assumere
la curvatura adatta affinché le immagini vadano a fuoco sulla retina guardando da
vicino diminuisce e conseguentemente risulta più difficile mettere a fuoco gli
oggetti vicini, infatti solitamente i primi problemi vengono avvertiti nella lettura.
La parola “presbiopia”, dal greco “occhio vecchio”, è un termine che è stato
coniato da F.C. Donders nel 1864 e sta ad indicare la situazione in cui l'ampiezza
accomodativa non è più sufficiente a permettere una visione nitida e confortevole
alla distanza ravvicinata abituale. Dal momento che la riduzione del potere
accomodativo è fisiologica, non possiamo includere la presbiopia tra le ametropie.
La definizione di presbiopia sopra scritta non fa riferimento ad un limite preciso
d’ampiezza accomodativa sotto alla quale si può veramente parlare di presbiopia.
Ciò è dovuto al fatto che le problematiche non dipendono solo dal valore
d’accomodazione disponibile, ma anche dalle esigenze visive della persona. Ad
ogni modo si può adottare una definizione clinica di presbiopia, considerando
presbiti tutti i soggetti che hanno un’ampiezza accomodativa inferiore alle 4,00 dt.
La scelta di questo limite non è arbitraria, ma si basa sulla considerazione che le
attività “da vicino” si svolgono di media ad una distanza di 40 cm (x), alla quale
occorre un’accomodazione (Acc.) così calcolabile:

o
x metri
1 1
Acc. 2,50dt
0,4

Per avere una visione confortevole a tale distanza, il soggetto non potrà esercitare
tutto il potere accomodativo di cui dispone, ma al massimo potrà utilizzare il
“potere accomodativo confortevole” (P.A.conf), che può essere considerato pari ai
2/3 del potere accomodativo totale, quindi:
2
P. A.(conf .) P. A.
3
Affinché il potere accomodativo confortevole sia di 2,50 dt, l’ampiezza
accomodativa (P.A.) dovrà essere:
11. Presbiopia 173

˜ P. A.(conf .) o ˜ 2,50
3 3
P. A. 3,75dt
2 2
In definitiva, il soggetto non presenterà problemi nella visione da vicino fino a
quando la sua ampiezza accomodativa non scenderà sotto le 4,00 dt.
Questo solitamente avviene tra 42 e 48 anni ed è in questa la fascia d’età che le
persone cominciano a lamentare disturbi nella visione a distanza ravvicinata.
Per superare queste difficoltà i soggetti presbiti necessitano di una addizione per
vicino, ossia di un’aggiunta di potere positivo, da sommare all’eventuale correzione
per lontano, che renda la visione da vicino nitida e confortevole.

11.3 Classificazione della presbiopia

I soggetti presbiti possono presentare delle caratteristiche notevolmente diverse tra


loro, quindi possiamo classificare la presbiopia in:
- Presbiopia incipiente; che rappresenta lo stadio iniziale della presbiopia, in cui
compaiono i primi sintomi astenopici o di difficoltà visiva ed il soggetto riesce
ad avere una visione nitida ma non confortevole, in quanto deve utilizzare una
quantità d’accomodazione maggiore del proprio potere accomodativo
confortevole.
- Presbiopia manifesta; è quella fase nella quale il soggetto dispone ancora di
una certa quantità d’accomodazione, ma questa non è sufficiente a garantirgli
una visione nitida da vicino, il soggetto quindi ha una visione sfuocata e
necessita dell’addizione anche se possiede un certo valore di potere
accomodativo residuo.
- Presbiopia assoluta; indica la situazione in cui il potere accomodativo del
soggetto è pressoché assente, quindi solitamente si verifica dopo i 60 anni
d’età.

11.4 Eziologia della presbiopia

La presbiopia è un malfunzionamento dell’occhio legato in modo specifico all’età;


con l’avanzare degli anni, infatti, la lente dell’occhio (cristallino) perde le proteine,
si secca e si indurisce, perdendo di flessibilità e causando visione sfuocata.
Riferendosi alle cause che portano all’insorgenza della presbiopia occorre
distinguere le situazioni normali da quelle in cui la riduzione del potere
accomodativo deriva da una patologia. Nel primo caso le cause della perdita di
accomodazione vanno ricercate nelle variazioni che intervengono durante la vita a
cristallino, zonula di Zinn e muscolo ciliare (Fig.3).
11. Presbiopia 174

Fig.3: Cristallino, zonula di Zinn e muscolo ciliare

Il cristallino continua a crescere per tutta la vita di circa 0,02 mm all’anno;


l’occhio, invece, smette di crescere all’arrivo della pubertà. Il cristallino perde di
“accomodazione”, che consiste nell’aggiustamento della curvatura necessaria per
consentire la visione di oggetti vicini. Per quanto riguarda il muscolo ciliare
numerosi studi hanno messo in evidenza che la sua funzionalità non diminuisce
fino all’età di 60 anni; anzi, nelle prime fasi della presbiopia, si riscontra
un’ipertrofia di tale muscolo, dovuta probabilmente all’eccessivo sforzo necessario
per vedere nitidamente da vicino. Complessivamente si può affermare che la
riduzione fisiologica del potere accomodativo è causata soprattutto dalle variazioni
a carico del cristallino e della sua capsula, mentre risulta scarso il contributo dato a
questo processo dal muscolo ciliare.

11.5 Fattori che influenzano l'insorgenza della presbiopia

Ci sono fattori che possono ritardare od anticipare la comparsa della presbiopia, tra
cui i principali sono:
- fattori geografico-ambientali; più alta è l’esposizione ai raggi ultravioletti più è
veloce il processo d’invecchiamento del cristallino.
- fattori nutrizionali e stato di salute
- errore refrattivo; in caso di ipermetropia non corretta o sottocorretta il punto
prossimo è più lontano rispetto al soggetto emmetrope, quindi i sintomi della
presbiopia compaiono in anticipo. Oltre a questo un soggetto ametrope
compensato con lenti oftalmiche quando guarda da vicino necessita di uno

x il miope necessita di uno sforzo accomodativo minore


sforzo accomodativo diverso da quello dell'emmetrope:

x l’ipermetrope necessita di uno sforzo accomodativo maggiore

La variazione dipende della potenza della lente oftalmica e della sua


distanza dall'apice corneale e si calcola con la seguente formula:
11. Presbiopia 175

§1 P ˜ d · § 1 ·
Sf .acc. ¨ ˜¨
© 1  P ˜ d ¹̧ © x ¹̧
x P: potere della lente correttrice
dove:

x d: distanza apice corneale-lente, che in caso di lenti a contatto è

x x: distanza di lavoro per vicino.


approssimabile a 0

Questo calcolo trova una sua verità quando la lente oftalmica ha un potere
maggiore di ± 3.50dt.
Consideriamo la seguente correzione di un soggetto ipermetrope:

OD sf + 6,00

Distanza di lavoro = 33 cm
OS sf + 6,00

ª 1  6 ˜ 0,013 º § 1 ·
Sf .acc. Ÿ « » ˜¨
¬ 1  6 ˜ 0,013 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di occhiali:
3,25dt
ª 1  6 ˜ 0 º § 1 ·
Sf .acc. Ÿ « » ˜¨
¬ 1  6 ˜ 0 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di lenti a contatto: 3,00dt.
Consideriamo la seguente correzione di un soggetto miope:

OD sf - 6,00

Distanza di lavoro = 33 cm
OS sf - 6,00

ª 1  6 ˜ 0,013 º § 1 ·
Sf .acc. Ÿ « » ˜¨
¬ 1  6 ˜ 0,013 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di occhiali:
2,59dt

ª 1  6 ˜ 0 º § 1 ·
Sf .acc. Ÿ « » ˜¨
¬ 1  6 ˜ 0 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di lenti a contatto:
3,00dt.

Consideriamo che un emmetrope per vedere nitido a 33 cm dovrebbe accomodare


di 3,00 dt (Acc. = 1/d(in metri) 1/0,33 = 3,00 dt).
Si può notare, quindi, che il miope con l’utilizzo di lenti oftalmiche sarà
avvantaggiato, perché dovrà accomodare meno dell'emmetrope e dell'ipermetrope.
Questo vantaggio, ovviamente, scompare nel momento in cui il miope decide di
passare alle lenti a contatto; se ciò avviene in una fase di presbiopia incipiente si
può determinare un peggioramento della visione da vicino tale da far rifiutare
questo tipo di correzione.
11. Presbiopia 176

11.6 Sintomatologia soggettiva

Il primo segnale d’allarme di sospetta presbiopia è la necessità di allontanare dagli


occhi gli oggetti che si stanno guardando. Quando si rende inevitabile distanziare
dagli occhi il giornale che si sta leggendo, per esempio, è molto probabile che una
persona sia presbite. Nella fase incipiente, ad esempio, il soggetto lamenterà
disturbi astenopici che insorgono principalmente verso sera a causa della
stanchezza accumulata durante la giornata lavorativa, mentre quando si arriva alla
fase manifesta lamenterà una perdita di visione nitida alle brevi distanze, cioè non
riuscirà più a leggere ed ad infilare il filo nell'ago.
Quindi possiamo avere:
- Annebbiamento per lontano; si manifesta occasionalmente e soprattutto in
persone che lavorano a distanza ravvicinata (PC) ed è tipico del soggetto con
presbiopia incipiente, il quale per ottenere visione nitida a distanza ravvicinata
deve compiere un'elevata stimolazione del muscolo ciliare, questo fatto può
provocare un lieve spasmo accomodativo che si traduce in pseudo-miopia (di
norma non superiore a 0,50 dt).
- Affaticamento visivo; il soggetto presbite non corretto o sottocorretto riferisce
di essere costretto a "sforzare" i propri occhi quando svolge le attività da
vicino, ciò provoca l’insorgenza di disturbi astenopici caratterizzati da mal di
testa, bruciore degli occhi, nausea e sonnolenza.
- Annebbiamento per vicino; è il sintomo più caratteristico del soggetto presbite
ed indica che il potere accomodativo è sceso sotto al valore necessario per
avere visione nitida e confortevole. Il soggetto cerca di superare il problema
aumentando la distanza d’osservazione, sempre che l’attività svolta glielo
consenta; può anche ricorrere ad un'illuminazione più forte diretta verso
l'oggetto di sguardo, che provoca una miosi ed un aumento della profondità di
fuoco ed inoltre migliora l’illuminamento e quindi la sensibilità della retina.

11.7 Determinazione dell’addizione

L’addizione per vicino è l’entità di potere positivo, da sommare all’eventuale


correzione per lontano, che permette al soggetto la visione da vicino nitida e
confortevole. Si determina dopo aver ultimato l’esame refrattivo per lontano,
compreso il bilanciamento dell’accomodazione.

x esame dell’ampiezza accomodativa (vedi cap. 3),


Tecniche per determinare l’addizione:

x tabelle,
x minimo positivo e massimo positivo.

x controllo dell’intervallo di visione nitida,


Inoltre l’addizione deve essere bilanciata tra i due occhi mediante alcuni test:

x reticolo a croce e cilindro crociato,


x bicromatico.
11. Presbiopia 177

11.7.1 Determinazione dell’addizione secondo Bennon

Secondo Bennon per la determinazione dell’addizione deve essere fatto l’inverso


della distanza di visione nitida per vicino e poi sottrarre un valore corrispondente
alla metà dell’accomodazione totale:

Esempio (1): Esempio (2):

Distanza di visione 33 cm (3,00 dt) Distanza di visione 40 cm (2,50 dt)

P.A. => 3,00 dt P.A. => 4,00 dt

P.A.confortevole => 1,50 dt P.A.confortevole => 2,00 dt

Lente necessaria 3,00 - 1,50 = +1,50 dt Lente necessaria 2,50 - 2,00 = +0,50 dt

11.7.2 Determinazione dell’addizione secondo Bennet

Secondo Bennet invece deve essere calcolato l’inverso della distanza di visione
nitida per vicino e sottratto un valore corrispondente a 2/3 dell’accomodazione
totale:

Esempio (1): Esempio (2):

Distanza di visione 33 cm (3,00 dt) Distanza di visione 40 cm (2,50 dt)

P.A. => 3,00 dt P.A. => 4,00 dt

P.A.confortevole => 2,00 dt P.A.confortevole => a2,50 dt

Lente necessaria 3,00 - 2,00 = +1,00 dt Lente necessaria 2,50 - 2,50 = 0,00 dt
NO ADD
11. Presbiopia 178

11.7.3 Tabelle

Le tabelle sottostanti possono aiutare a determinare l’addizione da prescrivere ad


un soggetto; queste sono state calcolate seguendo le formule di Bennet (tab.1) e
Bennon (tab.2).

11.7.4 Determinazione dell’addizione secondo il metodo del minimo positivo e


massimo positivo

Per determinare l’addizione con il metodo del minimo e del massimo positivo

x fissare la distanza di visione per vicino,


dobbiamo, dopo aver emmetropizzato il soggetto per lontano, così procedere:

x aggiungere all’eventuale correzione per lontano lenti positive di 0,25 in 0,25 dt

x continuare con lenti positive fino allo sfuocamento (massimo positivo).


fino alla visione nitida, (minimo positivo),

L’addizione da adottare sarà il potere intermedio tra i due valori.

Esempio: Distanza 33 cm
Min pos. +1,00 dt
Max pos. +1,50 dt --> Add. da prescrivere +1,25 dt.

11.8 Verifica dell’addizione

11.8.1 Controllo dell’intervallo di visione nitida

x inserire nell’occhiale di prova la correzione per vicino determinata fino a


Per verificare l’intervallo di visione nitida dobbiamo:

x dare in mano al soggetto una tavola di lettura chiedendogli di posizionarla alla


questo punto,

distanza abituale di lettura (o di lavoro) invitandolo ad osservare i caratteri più


piccoli,
11. Presbiopia 179

x chiedere al soggetto di avvicinare l’ottotipo fino al punto in cui i caratteri

x
cominciano a diventare sfuocati (rileviamo la distanza),
chiedere al soggetto di allontanare l’ottotipo fino al punto in cui vede sfuocato
(rileviamo la distanza) (Fig. 4).
Questo test ha una notevole rilevanza pratica: consente di verificare e dimostrare
l’intervallo di spazio in cui funzionerà l’occhiale che prescriveremo. Inoltre
possiamo, in base alla risposta soggettiva, effettuare gli opportuni ritocchi. La
possibilità di avvicinare l’ottotipo di qualche centimetro ci conferma la presenza di
una riserva accomodativa, condizione necessaria per avere visione confortevole.

Fig.4: Controllo dell’intervallo di visione nitida; A – add. corretta, B – add. scarsa, C – add. elevata

11.8.2 Verifica dell’addizione con reticolo a croce e cilindro crociato

Per verificare l’addizione con il reticolo a croce e cilindro crociato si inserisce un


valore di addizione determinato con uno dei metodi descritti in precedenza, si

inserisce monocularmente il cilindro crociato r 0,50 dt con asse negativo a 90° in


posiziona il reticolo a croce alla distanza abituale di lavoro del soggetto e si

modo da introdurre un astigmatismo secondo regola (Fig. 5).


11. Presbiopia 180

Fig.5: Verifica add. con cil. crociato r 0,50 dt e reticolo a croce

x se vede entrambe le linee allo stesso modo significa che l’addizione è ben
A questo punto si chiede al soggetto quali linee vede più nitide:

x se vede meglio le linee orizzontali significa che l’addizione è scarsa, quindi


bilanciata,

x se vede meglio le linee verticali l’addizione è eccessiva, quindi dovremmo


dovremmo aggiungere lenti positive,

aggiungere lenti negative.


Si modifica opportunamente l’addizione fino a quando il soggetto non vedrà
differenze tra le linee verticali e quelle orizzontali; nel caso non si raggiunga
l’uguaglianza si lascia la preferenza per le linee orizzontali.

11.8.3 Verifica dell’addizione con il test bicromatico

Per verificare l’addizione con il test bicromatico si deve inserire un valore di


addizione determinato con uno dei metodi descritti in precedenza. Si posiziona
l’ottotipo retroilluminato alla distanza abituale di lavoro in condizioni di visione
scotopica e si chiede al soggetto su quale sfondo i caratteri sono più nitidi (Fig. 6).

Fig.6: Verifica add. con il test bicromatico da vicino


11. Presbiopia 181

A. Se vede i simboli ugualmente nitidi in entrambe le parti, la radiazione gialla va


a fuoco esattamente sulla retina, quindi il soggetto è perfettamente compensato
per quanto riguarda l’addizione.
B. Una preferenza per i simboli della parte rossa, indica che la radiazione gialla
va a fuoco prima della retina, quindi il soggetto ha una addizione troppo
elevata.
C. Una preferenza per la parte verde, indica che la radiazione gialla va a fuoco
oltre la retina, quindi il soggetto ha una addizione troppo bassa.

Anche se teoricamente il test bicromatico può risultare semplice ed efficace, come


detto nel Cap.8, mostra dei limiti con le persone anziane, in cui il cristallino
ingiallito assorbe o diffonde maggiormente le radiazioni blu/verdi, ne consegue una
preferenza per la parte rossa.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 183

Capitolo 12 – Anisometropia e refrazione binoculare


L. Mele, C. Costagliola

12.1 Introduzione

L’anisometropia è quella situazione in cui gli occhi presentano uno stato refrattivo
diverso, mentre la situazione in cui gli occhi presentano uno stato refrattivo uguale
prende il nome di isoametropia.
In caso di anisometropia essendo presente una diversa ametropia nei due occhi, la
maggior parte delle persone potrebbe essere considerata anisometrope, ma si
considerano tali solo quei soggetti in cui lo stato refrattivo differisce di una quantità
maggiore a 1.50 - 2.00 dt. Questo limite ha una spiegazione pratica: in presenza di
anisometropie di bassa entità non si verificano grossi problemi né in sede d’esame
né al momento della prescrizione.

Possibili combinazioni di anisometropia:

Occhio destro Occhio sinistro Tipo di anisometropia

Emmetrope Miope ANISOMIOPIA

Miope Miope (di una quantità minore) ANISOMIOPIA

Emmetrope Ipermetrope ANISOIPERMETROPIA

Ipermetrope Ipermetrope (di una quantità ANISOIPERMETROPIA


maggiore)

Miope Ipermetrope ANTIAMETROPIA

Statisticamente una differenza di ametropia di 1.00 dt è presente circa nel 10%


della popolazione, mentre una differenza di 2.00 dt circa nel 2,5%; oltre a questo
l’anisomiopia è due-tre volte più frequente dell’anisoipermetropia e si ha
un’incidenza maggiore nei bambini nati prematuri rispetto a quelli nati a termine.

xdifferente correlazione tra i componenti del sistema diottrico oculare,


I fattori che possono provocare l’insorgenza dell’anisometropia sono:

xsecondaria a patologie: glaucoma infantile, ptosi palpebrale e cataratta,


xdi origine chirurgica: chirurgia refrattiva, interventi di cataratta e trapianto
corneale.

12.2 Visione del soggetto anisometrope

La visione del soggetto anisometrope va affrontata da tre punti di vista diversi,


spesso collegabili tra loro:
1.le limitazioni visive provocate dall’anisometropia nelle condizioni visive abituali
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 184

2.il condizionamento dello sviluppo del sistema visivo nel caso in cui
l’anisometropia si presenti nel periodo plastico
3.gli effetti visivi disturbanti indotti dalla correzione dell’anisometropia con lenti
oftalmiche.

12.3 Influenza dell’anisometropia sullo sviluppo del sistema visivo

L’anisometropia può indurre soppressione nel caso in cui sia:


1.non compensata: differenza di nitidezza delle immagini retiniche
2.compensata con lenti oftalmiche: differenti dimensioni delle immagini percepite
con i due occhi (aniseiconia).
L’aniseiconia può essere definita come differenza di forma e/o dimensione delle

x assenza di sintomi per differenze 0 – 0,75%


immagini oculari e statisticamente possiamo dire:

x difficoltà di fusione per differenze 1 – 3%


x impossibilità di visione binoculare, negli adulti, per differenze 3,25 – 5%; nei
bambini tali valori aumentano fino ad arrivare all’8%.
L’aniseiconia può essere denominata in funzione dei fattori che la determinano,
infatti si dice:
¾Anatomica Ÿ quando è dovuta a variazioni nella densità dei fotorecettori retinici
¾Ottica inerente Ÿ quando dipende dal sistema diottrico oculare
¾Ottica acquisita Ÿ quando dipende dall’ingrandimento introdotto dal sistema
ottico utilizzato per la compensazione del vizio refrattivo.
Inoltre l’aniseiconia può essere simmetrica (compensabile) ed asimmetrica (non
compensabile).
L’aniseiconia simmetrica a sua volta si divide in overall, meridianale e composta

xOverall Ÿ le immagini di un occhio aumentano o diminuiscono della stessa


(Fig.1).

quantità in tutti i meridiani, per esempio:


OD sf. + 0,25
OS sf. + 3.25
xMeridianale Ÿ le immagini di un occhio aumentano o diminuiscono
simmetricamente in un solo meridiano, ad esempio:
OD sf. + 0,25
OS sf. +0,25 cil. +2,00 ax 180
xComposta Ÿ abbiamo la combinazione delle due precedenti situazioni, cioè:
OD sf. +0,25
OS sf. +2,00 cil. +2.00 ax 90
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 185

Fig.1: A) aniseiconia overall B) aniseiconia meridianale C) aniseiconia composta

12.4 Tecnica di esame

Come per tutti i soggetti che si presentano per sottoporsi a un esame della
refrazione è consigliabile iniziare con l’anamnesi ed in caso di anisometropia la
sintomatologia riferita cambia notevolmente in base al tipo e cioè:
anisoipermetropia, anisomiopia ed antiametropia.
Questa fase guida nella prescrizione dell’ausilio più idoneo.

x DFXLWjYLVLYDSHUORQWDQRHYLFLQR 2' OS, ma non sempre)


Conclusa l’anamnesi si passa ai controlli preliminari:

x PPA (diverso nei due occhi)


x schiascopia comparativa e/o autorefrattometria
x aspetto esteriore degli occhi (fattori di rischio: esoftalmo, ptosi, strabismo).
Oltre ad i sopracitati sono consigliabili alcuni esami preliminari che verifichino la

x visione binoculare (Luci di Worth, Lang stereotest, Titmus stereotest)


presenza di:

x soppressione (Luci di Worth, Lang stereotest, Titmus stereotest )


x ambliopia (AV naturale e/o abituale, AV con foro stenopeico).

12.4.1 Test delle 4 luci di Worth

Per l’esecuzione del test occorre impostare sull’ottotipo la mira delle 4 luci di
Worth (Fig. 2), far indossare al paziente l’occhiale con filtri rosso-verde e
l’eventuale correzione con l’illuminazione ambientale abbassata.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 186

Fig.2: Test delle quattro luci di Worth.

La mira è formata da quattro luci dislocate a rombo. Le mire poste sulla diagonale
orizzontale sono di colore verde, quindi percepite dall’occhio con davanti il filtro
verde, mentre le mire situate sulla diagonale verticale sono una rossa, percepita
dall’occhio con davanti il filtro rosso, e l’altra bianca (solitamente quella in
basso) percepita da entrambi gli occhi, che rappresenta lo stimolo alla fusione. Il
test può essere eseguito sia per lontano che per vicino.

x Sono viste due mire rosse (Fig. 3): soppressione e visione monoculare,
Le risposte che il soggetto potrebbe riferire durante il test sono le seguenti:

l’occhio che presenta visione è quello posteriore al filtro rosso.

Fig.3: Soppressione occhio sinistro

xSono viste tre mire verdi (Fig. 4): soppressione e visione monoculare, l’occhio che
presenta visione è quello posteriore al filtro verde.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 187

Fig.4: Soppressione occhio destro

xSono viste quattro mire (Fig. 5): assenza di soppressione. Il soggetto presenta
visione binoculare, riferendo di vedere tutte e quattro le mire con la mira in
basso che appare di colore giallastro o rosacea, effetto dovuto alla fusione delle
due immagini monoculari.

Fig.5: Soggetto con visione binoculare

xSono viste cinque mire, due rosse e tre verdi (Fig. 6): assenza di soppressione. Il
soggetto presenta diplopia a causa di una deviazione manifesta o latente (tropia
o foria), in quanto le immagini non vengono fuse.

Fig.6: Mancanza di fusione con diplopia


12. Anisoametropia e refrazione binoculare 188

12.4.2 Lang stereotest 1 e 2

La stereopsi è la visione tridimensionale che origina dalla stimolazione


simultanea di elementi retinici orizzontalmente disparati nell'ambito delle aree di
Panum. Il valore stereoscopico degli elementi retinici strettamente corrispondenti
è pari allo zero, mentre la massima sensibilità della stereopsi si ha nelle loro
immediate vicinanze.
Per la verifica dell’acuità stereoscopica può essere utilizzato il Lang stereotest 1
(Fig.7), nel seguente modo:

Fig. 7: Lang stereotest 1, il quale presentà la seguente disparità: Macchina = 550” di arco, Stella =
600” di arco e Gatto = 1200” di arco

x posizionarsi di fronte al soggetto da esaminare, in modo da potere osservare


facilmente i suoi movimenti oculari e mostrargli il test in posizione

x
perpendicolare (ad angolo retto) a una distanza di circa 40 cm.
chiedere al soggetto se ha visto qualcosa sul test e guardare i suoi movimenti
oculari mirati alla ricerca dell’oggetto, una volta che il primo è stato
individuato chiedere di cercare gli altri e di descriverli.

Altrimenti può essere utilizzato il Lang stereotest 2 (Fig.8); la cui procedura di


utilizzo è la stessa del precedente.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 189

Fig.8: Lang stereotest 2, il quale presentà la seguente disparità: Stella = visione monoculare, Luna =
200” di arco, Macchina = 400” di arco ed Elefante = 600” di arco

I risultati dei Lang stereotest 1 e 2 possono essere:

x Positivo: corretta localizzazione e denominazione di tutti gli oggetti nascosti,


tipici movimenti oculari rapidi tra un oggetto e l’altro; in questo caso non è

x
necessario nessun ulteriore esame della stereopsi.
Negativo: nessun oggetto viene riconosciuto e neanche i movimenti degli occhi
indicano il riconoscimento degli oggetti tridimensionali, gli occhi osservano il

x
test e poi guardano altrove; è preferibile un controllo più approfondito.
Dubbio: viene localizato e definito correttamente solo un oggetto nascosto, gli
occhi cercano gli altri oggetti; anche in questo caso è preferibile un controllo
più approfondito.

12.4.3 Titmus fly stereotest

Nel titmus fly stereotest viene utilizzato il principio dei vettogrammi, infatti è
polarizzato e si esegue con gli occhiali polarizzati (Fig. 9).
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 190

Fig.9: Titmus fly stereotest

Il test viene svolto a 40 cm ed è suddiviso in tre parti:


1. la mosca, caratterizzata da ali che vengono viste in rilievo rispetto al corpo;
circa 3600” di arco
2. il test degli animali, in cui sono presenti tre linee con cinque figure; in ogni
linea c’è un solo animale in rilievo con rispettivamente un angolo di disparità
di 400”, 200” e 100” di arco
3. il test dei cerchi (Fig.10), costituito da nove elementi con quattro cerchi ed in
ognuno vi è un cerchio in rilievo. Dal n°1 al n° 9 l’angolo di disparità a 40 cm
varia da 800 a 40” di arco.

Fig.10: Test dei cerchi


12. Anisoametropia e refrazione binoculare 191

12.4.4 Schiascopia

La procedura da seguire in schiascopia senza cicloplegia è neutralizzare l’occhio


destro mentre il sinistro fissa senza correzione, passare poi a neutralizzare
l’occhio sinistro mentre il destro fissa attraverso la correzione trovata in
schiascopia.
Dopodichè deve essere ricontrollato l’occhio destro mentre il sinistro fissa
attraverso la correzione trovata in schiascopia e, se troviamo una differenza di
0.50 diottria o più, neutralizzarlo nuovamente, poi si ricontrolla il sinistro mentre
il destro guarda attraverso la nuova correzione trovata; si continua in questo
modo fino a quando nei passaggi successivi non si trovano differenze minori di
0.25 diottria.

12.5 Esame refrattivo soggettivo

In soggetti senza visione binoculare, con strabismi, soppressione, ambliopie


profonde e quindi marcata differenza di acuità visiva nei due occhi, deve essere
effettuato l’esame refrattivo monoculare.
Nei soggetti invece in cui è presente una visione binoculare (di livello più o meno
normale) le difficoltà cambiano in base all’età; nell’adulto sono sufficienti le
normali metodiche soggettive, mentre nel soggetto giovane, con potere
accomodativo elevato, può essere molto difficile determinare l’anisometropia
totale.
In questo ultimo caso può essere utile effettuare la refrazione in cicloplegia oppure
la “refrazione binoculare”.

12.5.1 Refrazione binoculare

La refrazione binoculare è una tecnica che:


1.permette la valutazione dello stato refrattivo nei due occhi separatamente, mentre
però il soggetto è in condizioni di visione binoculare,
2.determina lo stato refrattivo in condizioni visive più reali e più confortevoli.
In refrazione monoculare si interrompe la fusione e quindi gli occhi assumono la
posizione di foria. In presenza di una cicloforia l'asse del cilindro correttore
determinato in monoculare può essere sensibilmente diverso da quello determinato
in visione binoculare.
Inoltre in refrazione monoculare si interrompe il legame accomodazione-
convergenza e quindi c’è il rischio di non controllare bene l’accomodazione.
Per eseguire una refrazione binoculare è necessario impedire la visione dell’area
foveale o maculare dell’occhio non esaminato mantenendo inalterata la fusione
periferica. Le informazioni sulla percezione dei dettagli dipenderanno dalle
condizioni visive dell’occhio esaminato.
La refrazione binoculare ci consente di eseguire la misura dello stato refrattivo,
prima in un occhio poi nell'altro e di effettuare poi un bilanciamento binoculare,
cioè un bilanciamento dell'accomodazione; il tutto in condizioni di visione
binoculare.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 192

12.5.2 Vantaggi dell'esame in visione binoculare

Come abbiamo già accennato, le tecniche refrattive binoculari offrono il vantaggio


di poter esaminare il soggetto in una situazione molto vicina alle condizioni visive
abituali. Infatti quando si esegue la refrazione monoculare e si pone l'occlusore
davanti all'occhio non esaminato avvengono delle variazioni importanti a livello
del sistema visivo:
1) il diametro pupillare aumenta (midriasi) - se la cornea presenta una qualunque
asimmetria, l'errore refrattivo può esserne influenzato.
2) viene interrotto il legame accomodazione/convergenza - in condizioni particolari
questo legame può influenzare lo stato refrattivo; ne sono un esempio
l'ipermetropia relativa, in cui il soggetto in visione binoculare sottoaccomoda per
evitare di perdere l'allineamento degli assi visivi, o la presenza di una marcata
exoforia, la cui compensazione richiama accomodazione che induce una falsa
miopizzazione.
3) è necessario sopprimere l'immagine proveniente dall'occhio occluso; questo
risulta molto difficile, se non addirittura impossibile, quando il soggetto in esame
mostra una spiccata dominanza per uno dei due occhi.
4) si interrompe la fusione, gli occhi assumono la posizione di foria ed, in presenza
di una cicloforia, l'asse del cilindro correttore determinato in monoculare può
risultare sensibilmente diverso da quello in visione binoculare.
Inoltre, in visione monoculare può manifestarsi un nistagmo latente che rende
molto difficoltoso l'esame refrattivo.
Utilizzando delle tecniche refrattive binoculari si eliminano tutti questi problemi ed
in aggiunta mettiamo il sistema visivo nella condizione di rilasciare più
accomodazione possibile. Per poter eseguire l'esame refrattivo binoculare
dobbiamo mettere il soggetto esaminato in condizioni di visione binoculare ed al
tempo stesso dovremo essere certi che una parte dell'ottotipo presentato venga vista
solo da un occhio ed un'altra parte solo dal controlaterale. Queste condizioni visive
si possono ottenere utilizzando diverse tecniche: il metodo vettografico, il setto
separatore di Turville.
Un ulteriore tecnica utilizzabile è quella dell’annebbiamento monoculare
denominata sospensione foveale.

12.6 Metodo vettografico

Il metodo vettografico prevede l'uso di una coppia di filtri polarizzati da porre


davanti agli occhi del soggetto mentre gli viene presentato un vettogramma
(Fig.11). Il vettogramma è una mira formata da una parte centrale non polarizzata
(stimolo fusionale) e da due parti polarizzate su piani ortogonali, cosicché una
parte viene vista dall'occhio destro e l'altra dall'occhio sinistro.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 193

Fig.11: Vettogramma e filtri polarizzati. A) l'OD vede la parte alta, l'OS vede la parte bassa; la parte
centrale non polarizzata è vista da entrambi gli occhi (stimolo fusionale). B) l'OD vede la parte
sinistra, l'OS vede la parte destra; la parte centrale non polarizzata è vista da entrambi gli occhi
(stimolo fusionale).

In linea di massima con questa tecnica la procedura è uguale a quella dell’esame


refrattivo monoculare, ossia si determina l’equivalente sferico, poi la potenza e
l’asse del cilindro correttore; tutto ciò si esegue prima in un occhio e poi nell’altro
in condizioni di visione binoculare. Ovviamente, se partiamo dai valori di
schiascopia, l’esame servirà a verificare ed eventualmente a ritoccare i dati
dell’esame oggettivo.
Questa tecnica è molto efficace, ma nei proiettori in commercio è difficile trovare
un vettogramma completo.

12.7 Setto separatore di Turville

Questo metodo può essere eseguito con diverse modalità e strumentazione, ma si


basa sempre sulla presenza di un setto separatore, il quale fa vedere all'occhio
destro la parte di ottotipo che non vede l'occhio sinistro e viceversa; lo stimolo alla
fusione sarà dato dal setto separatore stesso e dalle parti di ottotipo viste da
entrambi gli occhi. Nella versione originale Turville (1936) sfruttò un setto
separatore per eseguire il test di bilanciamento binoculare denominato TIB
(Turville Infinity Balance) (Fig.12): veniva usato uno specchio schermato nella
parte centrale in modo che l'ottotitpo, posto dietro la testa del soggetto, venisse
visto in parte dall'occhio destro ed in parte dall'occhio sinistro. Però si può ottenere
lo stesso tipo di visione mettendo il setto separatore tra l'ottotipo ed il soggetto
esaminato.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 194

Fig.12: Setto separatore di Turville

Come per quanto riguarda la tecnica precedente anche in questa si determina


l’equivalente sferico, poi la potenza e l'asse del cilindro correttore; tutto ciò si
esegue prima in un occhio e poi nell'altro in condizioni di visione binoculare. È una
tecnica efficace ma anacronistica, soprattutto per la sua realizzazione pratica
(utilizzo dello specchio o di un setto a metà stanza); sicuramente è invece di più
facile utilizzo per l’esame da vicino (Fig.13).

Fig.13: Setto separatore di Turville da vicino.

12.8 Sospensione foveale (annebbiamento monoculare)

Questa tecnica si basa sull'inibizione, o meglio sulla sospensione, della regione


foveale che si verifica in visione binoculare quando un occhio presenta un certo
valore di annebbiamento. Tale metodo è stato proposto da vari autori, ma si deve
certamente a D. Humphriss (1979) l'analisi più approfondita sugli effetti
dell'annebbiamento monoculare sulla stabilità della visione binoculare. Prima di
lui, per ottenere l'annebbiamento fu proposto l'uso di cilindri crociati (Mallett,
1964), di lenti positive di + 2,00 dt (Cooper), di filtri neutri a densità variabile per
ridurre l'illuminamento retinico (Lyons, 1962).
La tecnica di sospensione foveale proposta da Humphriss prevede l'utilizzo di una
lente positiva da anteporre ad un occhio (quello non esaminato), la quale deve
avere una potenza tale da ridurre l'acuità visiva fino a 5÷6/10 (di solito è sufficiente
una lente di +0,75 ÷ +1,00 dt). La scelta del "giusto valore di annebbiamento"
proposto dall'autore è scaturita dalla ricerca scientifica attraverso la quale è stato
dimostrato che:
1.per questo livello di annebbiamento (+0,75 ÷ +1,00 dt) la visione binoculare è
possibile grazie alla fusione paracentrale e periferica (Fig.14)
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 195

Fig.14: Annebbiamento monoculare

2. valori superiori di annebbiamento (lenti di potenza superiore a +1,50 dt) rendono


la visione binoculare instabile con tendenza alla diplopia
3. anche se il soggetto è in condizioni di visione binoculare le informazioni relative
alla nitidezza dell'immagine provengono solo dall'occhio non annebbiato, ossia
quello che andremo ad esaminare; infatti l'annebbiamento provoca la
sospensione dell'area foveale, la quale è alla base del riconoscimento dei
caratteri di piccole dimensioni.
La refrazione binoculare, come sopracitato, è una tecnica refrattiva soggettiva che
dispone di molti più vantaggi rispetto alla refrazione monoculare. Ha però
l’inconveniente di non essere adatta per soggetti che presentano anomalie della
visione binoculare o una marcata differenza di acuità visiva nei due occhi. Per
valutare l’idoneità dell’individuo esaminato ad essere sottoposto ad esame
refrattivo binoculare, esiste un test molto rapido ed affidabile: Test delle quattro
luci di Worth, già precedentemente illustrato in questo capitolo.
La refrazione binoculare eseguita con la tecnica dell’annebbiamento monoculare
presenta come punto di partenza i valori di sfera, cilindro ed asse trovati in
schiascopia o eventualmente la vecchia compensazione, purchè permetta un buon
visus. Questo è assolutamente necessario, in quanto, se il soggetto presenta un
visus naturale ridotto, causato dalla presenza di un'ametropia non corretta, diventa
difficile produrre il giusto valore di annebbiamento che ci permette di svolgere

x occludiamo l'occhio destro e penalizziamo il visus nell'occhio sinistro


l'esame. In linea di massima, la procedura è la seguente:

x togliamo l'occlusore ed eseguiamo la refrazione all'occhio destro, che dovrebbe


aggiungendo positivo fino ad ottenere 5÷6/10

avere un buon visus, secondo le modalità abituali, ossia si controlla l'asse e poi
il potere del cilindro correttore per poi passare alla sfera con l’utilizzo dell’HIC
test; tutto ciò si esegue prima in un occhio e poi nell'altro in condizioni di
visione binoculare.
Ovviamente se partiamo dai valori di schiascopia, l'esame servirà a verificare ed
eventualmente a ritoccare i dati dell'esame oggettivo.
Questa tecnica, a differenza delle altre, non richiede mire o attrezzature particolari
e la cosa importante da ricordare è che la lente positiva posta davanti all’occhio non
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 196

esaminato induce un forte stimolo alla disaccomodazione, quindi è consigliabile in

x ipermetropia latente
casi di:

x pseudomiopia
x antiametropia
x anisometropia ipermetropica.
Per contro può avere dei limiti in caso di:
x visione binoculare instabile (il positivo può indurre diplopia o soppressione)
x spiccata dominanza (non riesce ad inibire la fovea dell’occhio dominante)
x bassi visus non dovuti ad ametropia non corretta.

12.8.1 HIC Test

Con la tecnica della sospensione foveale si può utilizzare l'HIC Test (HIC:
Humphriss Immediate Contrast) anche detto test del contrasto immediato. Questo
non è un test di bilanciamento, ma serve a determinare per quale valore di sfera
entra in gioco l'accomodazione; tutto ciò si esegue in visione binoculare, prima in
un occhio poi nel contro laterale, dopo aver già ottimizzato l’asse e il potere degli
eventuali cilindri.
Vediamo nei dettagli la procedura del test del contrasto immediato:
1) dopo aver svolto i soggettivi monoculari, abbiamo anteposto davanti all'occhio
sinistro una sfera di +0,75 o +1,00 diottria in modo da ridurre l'acuità visiva a
circa 5÷6/10, abbiamo cioè indotto la sospensione foveale e abbiamo controllato
il cilindro dell’occhio destro,
2) davanti all'occhio che stiamo controllando, in questo caso il destro, viene
anteposta prima una sfera di +0,25 diottria e lasciata in posizione un secondo
abbondante; viene poi rapidamente sostituita con una sfera negativa di -0,25
diottria, che sarà lasciata in posizione solo mezzo secondo, per poi essere
sostituita nuovamente con la lente positiva. Tale "altalena" sarà ripetuta alcune
volte, in modo da facilitare il giudizio dell'osservatore.
A tale presentazione il soggetto potrà fornire una delle seguenti risposte:
1.se non accomoda sarà scelta immediatamente la lente negativa, in quanto
migliora la nitidezza dell'immagine,
2. se il soggetto invece accomoda potremo avere le seguenti risposte:
2a - vede meglio con la sfera positiva,
2b - dopo una certa esitazione non sa scegliere quale fra le due lenti gli fornisca la
migliore nitidezza,
2c - vede leggermente meglio con la lente negativa, ma le lettere si
rimpiccioliscono.
Se la risposta è la numero 1 si aumenta il valore negativo o si diminuisce il valore
positivo della correzione in uso di 0,25 diottria e si ripete il test.
Se la risposta è la 2a: si aumenta il valore positivo o si diminuisce il valore
negativo della correzione in uso e poi si ripete il test.
Se la risposta è la 2b: la correzione è ben bilanciata; eventualmente si utilizza
un'altro metodo di verifica.
Se la risposta è la 2c: la lente negativa induce accomodazione; la correzione non è
da modificare.
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 197

Capitolo 13 – Deviazioni oculari latenti: le forie


L. Mele, C. Bianchi

13.1 Il sistema motorio e le sue anomalie

Per ottenere una visione binoculare è necessario che le immagini degli oggetti
guardati stimolino elementi retinici corrispondenti. Questa condizione deve
verificarsi in ogni momento ed in qualsiasi posizione di sguardo, ossia gli occhi
devono assumere di volta in volta una posizione tale da avere visione binoculare.
Se l’allineamento dello stimolo su punti retinici corrispondenti è la condizione
affinché le due immagini possano essere fuse, è necessario che il sistema possieda
degli idonei strumenti che realizzino tale condizione. Essi sono:
1. la fusione sensoriale (fusione piatta)
2. la fusione motoria.
La fusione sensoriale riceve ed elabora tutte le informazioni del mondo esterno e le
trasmette alla componente motoria. Quest’ultima governa l’attività della
muscolatura estrinseca che attraverso complessi movimenti di vergenza consente di
mantenere gli assi visivi allineati correttamente. Non è detto, però, che ciò accada
sempre; alcune volte, una certa grossolanità dell’attività della muscolatura
estrinseca non consente un perfetto allineamento degli assi visivi sul punto di
fissazione, con la conseguenza che gli stimoli visivi non cadono su punti retinici
corrispondenti. Per evitare la diplopia la fusione sensoriale interviene una seconda
volta, sulla componente motoria, riuscendo nella maggior parte dei casi a
ripristinare il corretto allineamento che consente il compimento della fusione. Solo
in alcune situazioni, in cui l’errore di vergenza è particolarmente cospicuo, la
componente fusionale sensoriale può non riuscire a ripristinare il corretto
allineamento; in questo caso la diplopia è inevitabile e fastidiosa. Caso tipico sono
gli errori di vergenza verticale, in cui la componente fusionale sensoriale riesce a
compensare solo piccoli angoli di deviazione. Pertanto il sistema motorio ha
l'importante compito di portare e mantenere le immagini sulle fovee in ogni
direzione di sguardo, assicurando in questo modo la visione binoculare. È
necessario sottolineare che il meccanismo della fusione motoria è stimolato dalla
diplopia che si verifica quando gli occhi non fissano contemporaneamente l'oggetto
che si vuole guardare.

13.2 Gli squilibri del sistema motorio: forie e tropie

Gli squilibri che possono essere compensati dalla fusione motoria prendono il
nome di forie o deviazioni latenti, mentre quelli non compensabili dal meccanismo
fusionale si chiamano tropie o deviazioni manifeste. Che lo sbilancio della visione
binoculare si limiti ad una foria o diventi invece una tropia è legato alla relazione
che intercorre tra l'entità della deviazione e la capacità del sistema motorio di
compensarla. Una deviazione lieve può essere compensata dalla fusione motoria
senza grosse difficoltà, mentre, se lo squilibrio è più marcato, la sua
compensazione può indurre disturbi astenopici (visione binoculare non
confortevole), oppure assumere le caratteristiche di una tropia, cioè diventare una
deviazione manifesta. Le conseguenze della tropia dipendono dall'età in cui si
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 198

manifesta: se avviene in età plastica, il bambino risponderà alla diplopia tramite la


soppressione di un occhio oppure instaurando una corrispondenza retinica anomala,
mentre se compare in età adulta il soggetto dovrà imparare a convivere con la
diplopia. Si può verificare la presenza di uno squilibrio la cui compensazione
avviene al limite delle capacità della fusione motoria; ciò produce una visione
faticosa, in quanto è necessario un impegno notevole del sistema motorio. Se
questa situazione si presenta nel periodo plastico il bambino in molte occasioni
finirà per accettare una tropia con soppressione, rischiando di adattarsi a questa
situazione che gli risolve il problema in modo semplice; se invece si verifica in un
soggetto adulto sarà costretto ad alternare astenopia alla diplopia e probabilmente
farà ricorso quanto prima allo specialista.
E’ interessante rilevare che è molto frequente il caso in cui forie e tropie siano
presenti solo per determinate posizioni di sguardo, il che può portare sia a farle
passare inosservate (quando interessano una posizione poco utilizzata
normalmente) sia a compensarle con atteggiamenti “viziati” del capo, del collo e
delle spalle. Peraltro, poiché usualmente il soggetto utilizza il suo apparato visivo
fino ai limiti estremi della compensazione mediante la fusione motoria, ecco
spiegate non poche astenopie che sembrano inspiegabili.

13.2.1 Classificazione degli squilibri muscolari latenti

In base alla direzione della deviazione le forie si distinguono in:

x esoforia: gli occhi convergono verso l'interno e gli assi visivi si incontrano
Forie orizzontali

x exoforia: gli occhi convergono verso l'esterno e gli assi visivi si incontrano
prima del punto di fissazione,

dopo il punto di fissazione.

x iperforia destra: l'occhio destro tende a posizionarsi più in alto rispetto al


Forie verticali

x iperforia sinistra: l'occhio sinistro tende a posizionarsi più in alto rispetto al


sinistro,

destro.

x incicloforia: rotazione della parte superiore degli occhi verso l'interno attorno
Forie torsionali

x excicloforia: rotazione della parte superiore degli occhi verso l'esterno attorno
all’asse visuale,

all’asse visuale.
Si tenga presente che le forie sono a carico di entrambi gli occhi, anche se
apparentemente i test clinici, soprattutto parlando di forie verticali, attribuiscono lo
squilibrio ad un occhio solo; nella terminologia corrente non sono previste le
ipoforie ed allora un’ipoforia destra, ad esempio, verrà indicata come iperforia
sinistra, dal momento che rappresenta lo stesso tipo di deviazione.
Si tenga anche presente che la capacità di fusione, mentre è molto ampia per le
deviazioni orizzontali, è molto ridotta per quelle verticali, per cui uno squilibrio
della binocularità verticale anche minimo genera facilmente fenomeni di astenopia,
soppressione o diplopia.
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 199

13.3 Esame dello stato eteroforico

Alla base delle tecniche ortottiche usate per evidenziare lo stato eteroforico c'è
l'interruzione della fusione sensoriale, che serve ad ottenere una visione dissociata;
in questo modo si esclude il meccanismo correttivo della fusione motoria e gli
occhi assumono la loro posizione usuale di riposo (posizione di foria).
La visione dissociata può essere ottenuta in diversi modi:
a) fornendo immagini differenti nei due occhi – questo si può realizzare mediante
occhiali polarizzati o filtri rosso/verde,
b) escludendo un occhio dalla visione – si mette un occlusore davanti ad un
occhio,
c) utilizzando dei prismi dissocianti – ossia dislocando l'immagine retinica, in
uno o in entrambi gli occhi, di una quantità superiore alle capacità di recupero
del sistema motorio.
Se è presente una foria, durante la visione dissociata le immagini di un oggetto
fissato andranno a formarsi su punti retinici disparati generando diplopia. In caso di
esoforia le immagini cadranno sulla porzione nasale delle retine dando origine a
diplopia omonima, situazione in cui l'oggetto viene localizzato dallo stesso lato
dell'occhio che ne ha fornito l'immagine; in caso di exoforia invece verrà stimolata
la porzione temporale delle retine dando origine alla diplopia crociata, in cui
l'oggetto viene localizzato dal lato opposto dell'occhio che ne ha fornito
l'immagine.
Le procedure di esame si differenziano in tecniche soggettive ed oggettive: le prime
si basano sulle risposte del soggetto (che deve riferire dove percepisce una parte
dell’ottotipo presentato), mentre le seconde si basano sull'osservazione del soggetto
in esame da parte dell’operatore.
È inutile rilevare che la buona pratica clinica prevede che si utilizzino ambedue le
tecniche, per minimizzare il rischio di falsi positivi o falsi negativi. L’utilizzo
combinato consente altresì di evidenziare eventuali discrepanze tra dati soggettivi e
dati oggettivi, discrepanze che non raramente hanno una notevole importanza
diagnostica e terapeutica.

13.4 Tecniche soggettive per l'evidenziazione delle forie

Questi test si distinguono in base al sistema di dissociazione:


a) presentazione di oggetti diversi: l’interruzione della fusione sensoriale, quindi
la dissociazione, si ottiene producendo immagini retiniche di forma diversa nei
due occhi (test di Schober, test di Hering e test con cilindro di Maddox),
b) dissociazione tramite prismi: questi test si basano sulla visione dissociata che
si ottiene con prismi che spostano l'immagine retinica di una quantità che va
oltre le capacità di recupero del sistema motorio (metodo di Von Graefe).

13.4.1 Test di Schober

La mira è costituita da una croce di colore rosso posta nel centro di un cerchio
verde (o viceversa), la quale viene usata in associazione ai filtri rosso-verde, in
modo che l’occhio con il filtro rosso veda la croce e quello con il filtro verde veda
il cerchio. Si presenta la mira al soggetto, chiedendogli dove vede la croce rispetto
al cerchio: se al centro sarà ortoforico, se è spostata presenterà una foria. Una volta
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 200

stabilito quale occhio vede la croce e quale il cerchio, la posizione assunta dalla
croce rispetto al cerchio ci permetterà di stabilire il tipo di diplopia e quindi il tipo
di foria presente nel soggetto in esame (Fig.1).

Fig.1: Rappresentazione della visione al test di Schober (filtro rosso su OD)

13.4.2 Test di Hering

La mira è costituita da una croce in cui i bracci verticali ed orizzontali sono


polarizzati su piani ortogonali tra loro o rosso-verdi. Facendo guardare il soggetto
attraverso una coppia di filtri polarizzati o rosso verdi, questi vedrà i bracci
verticali con un occhio e quelli orizzontali con l'altro. Se vogliamo verificare le
forie orizzontali chiediamo al soggetto se i bracci verticali sono spostati a destra o a
sinistra; volendo analizzare le forie verticali chiederemo se i bracci orizzontali sono
posizionati in alto o in basso (Fig.2).

Fig.2: Rappresentazione della visione al test di Hering polarizzato o rosso-verde (OD vede i bracci
verticali)
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 201

I test di Schober e di Hering non consentono un controllo preciso


dell'accomodazione, quindi possono risultare imprecisi; hanno però il vantaggio di
poter valutare simultaneamente le forie orizzontali, verticali ed anche quelle
composte. Le cicloforie possono essere meglio individuate con il test di Hering.

13.4.3 Tecnica con cilindro di Maddox

Il "cilindro di Maddox" in origine era costituito da una lente cilindrica con


un'elevata potenza (300÷500 dt), del diametro di circa 3 mm inserita in un disco
opaco che funge da holder per poterla inserire nel portalenti. Quando si guarda un
punto luminoso attraverso un cilindro di Maddox percepiamo una striscia
ortogonale all'asse del cilindro stesso; questo è dovuto al fatto che la sezione neutra
non cambia la vergenza delle radiazioni incidenti, mentre l'altra le fa convergere
immediatamente dopo il cilindro, portandole quindi a incidere divergenti sul
sistema diottrico oculare. La dissociazione necessaria per il rilevamento dello stato
eteroforico si ottiene posizionando il cilindro di Maddox su uno dei due occhi: in
questo modo un occhio vedrà una striscia luminosa e l'altro vedrà un punto
luminoso. A questo punto, per risalire al tipo di foria presente, sarà sufficiente
chiedere al soggetto di riferirci dove vede la striscia rispetto al punto luminoso. Per
rilevare le forie sul piano orizzontale il cilindro di Maddox deve essere posizionato
con asse orizzontale, in modo che fornisca una striscia verticale (Fig.3); invece
deve essere messo ad asse verticale per rilevare le forie sul piano verticale (Fig.4).
Il cilindro di Maddox, a causa delle ridotte dimensioni, doveva essere posizionato
esattamente di fronte alla pupilla, così col tempo è stato sostituito dalla grata di
Maddox, costituita da una serie di lenti piano cilindriche, la quale fornisce lo stesso
effetto ottico del cilindro di Maddox e al tempo stesso non richiede un
posizionamento così preciso.

Fig.3: Rappresentazione della visione al test con cilindro di Maddox orizzontale


13. Deviazioni oculari latenti: le forie 202

Fig.4: Rappresentazione della visione al test con cilindro di Maddox verticale

13.4.4 Metodo di Von Graefe

Se ad un soggetto che sta osservando uno stimolo in visione binoculare inseriamo


un prisma davanti ad un occhio l'immagine retinica verrà spostata in direzione della
base del prisma e l'occhio dovrà ruotare verso il suo apice per riportare l'immagine
su punti retinici corrispondenti. Quando l'entità del prisma introdotto supera la
capacità di recupero del sistema motorio, la fusione sensoriale sarà impossibile e
comparirà diplopia. La tecnica di Von Graefe si basa proprio sulla dissociazione
ottenuta mediante l’inserimento di prismi; questi hanno il compito di interrompere
la fusione sensoriale, in modo che gli occhi assumano la posizione di foria.
Questo test può essere utilizzato per il rilevamento delle forie orizzontali e anche di
quelle verticali:
1) Per misurare le forie orizzontali viene presentata al soggetto in esame una carta
di Sheard verticale, dopo di ché si antepone davanti ad uno dei suoi occhi un
prisma base verticale di potenza sufficiente ad interrompere la fusione
VHQVRULDOH FLUFD ·ǻ  $ TXHVWR SXQWR LO VRJJHWWR ULIHULUj GL YHGHUH GXH
strisce di lettere, una in alto ed una in basso: se saranno allineate sarà presente
ortoforia, mentre se saranno disallineate, una più a destra ed una più a sinistra,
sarà presente una foria che verrà classificata in funzione del tipo di diplopia
(Fig.5).
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 203

Fig.5: Rappresentazione della visione al test di Von Graefe con prisma verticale

2) Per la misura delle forie verticali viene presentata al soggetto in esame una
carta di Sheard orizzontale, dopo di ché si antepone ad uno dei suoi occhi un
prisma base nasale di potenza sufficiente ad interrompere la fusione sensoriale
FLUFDǻ ,OVRJJHWWRULIHULUjGLYHGHUHGXHVWULVFHGLOHWWHUHXQDDGHVWUDHG
una a sinistra: se saranno allineate sarà presente ortoforia, mentre se saranno
disallineate sarà presente una foria che verrà classificata in funzione del tipo di
diplopia (Fig 6).

Fig.6: Rappresentazione della visione al test di Von Graefe con prisma orizzontale

13.5 Tecniche oggettive per l'evidenziazione delle forie: cover test

Questa tecnica è di semplice esecuzione, è molto rapida e non prevede l'utilizzo di


una strumentazione particolare, in quanto sono necessari solo un occlusore ed una
mira; dal momento che non richiede una grossa collaborazione del soggetto (è
sufficiente che guardi la mira di fissazione), può essere eseguita anche nei bambini.
Il cover test si può eseguire con e senza correzione (quando il visus naturale è
sufficiente), sia in visione da lontano che in quella da vicino; è consigliabile
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 204

svolgere l'esame in ambiente ben illuminato, in quanto ciò consente di osservare


meglio i movimenti degli occhi del soggetto esaminato. La mira di fissazione deve
essere uno stimolo preciso, sia per l'accomodazione che per la fissazione: può
essere utilizzata una lettera dell'ottotipo avente ampiezza di uno o due decimi
inferiore alla massima acuità visiva raggiunta dal soggetto oppure una striscia
verticale di lettere, come la carta di Sheard, che presenta simboli di dimensioni
diverse; per i bambini sono consigliabili delle figurine o dei piccoli oggetti che
richiamino la loro attenzione, come il dado di Lang. Nei più piccoli, per mantenere
la fissazione, si può far osservare uno schermo televisivo che proietti un cartone
animato. Come occlusore si può usare quello della cassetta di prova, ma ne esistono
in commercio alcune versioni traslucide particolarmente pratiche con manico, quali
l’occlusore di Spielmann. L'operatore può anche utilizzare la propria mano,
facendo ben attenzione a non lasciare fessure attraverso le quali il soggetto possa
vedere. Esistono diverse metodologie per eseguire il cover test, tra le quali le più
utilizzate sono il Cover/Uncover Test ed il Cover Test Alternato.

13.5.1 Cover/Uncover Test (Fig.7)

Scelta la mira opportuna la procedura da seguire è la seguente:


1. si invita il soggetto in esame a fissare la mira - questa può essere posta
all'infinito oppure a distanza ravvicinata (di norma 35÷40 cm o alla distanza
abitualmente utilizzata),
2. si occlude uno dei due occhi - in questo modo si ottiene visione dissociata e
l'occhio occluso assume la posizione di foria,
3. si scopre l'occhio occluso - si osserva il movimento di recupero, ossia quello
che l'occhio precedentemente occluso compie per ripristinare il corretto
allineamento.

Fig.7: Rappresentazione del Cover/Uncover Test in situazione di esoforia (A) ed exoforia (B)

13.5.2 Cover Test Alternato (Fig.8)

Nelle prime due fasi la procedura del cover test alternato è uguale a quella del
cover/uncover test, dalla quale si differenzia per le modalità con cui si scopre
l'occhio occluso: nel cover test alternato, come dice la parola stessa, l'occlusione
viene passata velocemente da un occhio all'altro e deve essere osservato il
movimento di recupero dell’occhio che si va a scoprire.
La corretta procedura è quindi la seguente:
1. si invita il soggetto in esame a fissare la mira,
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 205

2. si occlude uno dei due occhi - l'occhio occluso assume la posizione di foria,
3. si sposta l'occlusore sull'occhio controlaterale - ciò provoca uno scambio di
fissazione e, se presente una foria, si potrà osservare il movimento di recupero
dell'occhio che diventa fissante,
4. si inverte ancora la posizione dell'occlusore - vi sarà un nuovo scambio di
fissazione e ciò permetterà l'osservazione dell’eventuale movimento di
recupero dell'occhio appena scoperto.

Fig.8: Rappresentazione delle fasi del Cover Test Alternato in una situazione di Exoforia

In entrambi i test il movimento di recupero è sempre opposto alla direzione della


deviazione ed allora abbiamo cinque possibilità:
a) Ortoforia - non si nota nessun movimento di recupero,
b) Exoforia - si nota un recupero verso l'interno,
c) Esoforia - si nota un recupero verso l'esterno,
d) Iperforia destra - l'occhio destro recupera verso il basso o il sinistro verso
l'alto,
e) Iperforia sinistra - l'occhio destro recupera verso l'alto o il sinistro verso il
basso.
Per osservare il movimento di recupero è consigliabile prendere come riferimento il
limbus, poichè la pupilla subisce delle variazioni nel momento in cui si toglie
l'occlusore che potrebbero trarre in inganno l'operatore.

13.5.3 Confronto tra Cover/Uncover Test e Cover Test Alternato

La differenza maggiore tra i due esami consiste nel fatto che nel cover/uncover test
passiamo da una fase in visione dissociata a una fase in visione binoculare, mentre
nel cover test alternato non abbiamo una fase di visione binoculare (se non per una
frazione di secondo, insufficiente ad attivare la fusione motoria)
Da questa differenza derivano delle considerazioni molto importanti:
1. nel Cover/Uncover Test il movimento di recupero serve a ripristinare il
corretto allineamento dell'occhio precedentemente occluso; questo movimento
è l'espressione del meccanismo della fusione motoria, il quale è finalizzato ad
ottenere la fusione sensoriale. Ne deriva che questo esame ci permette di dare
una valutazione qualitativa della fusione motoria: un movimento di recupero
veloce indica che il sistema motorio è in grado di compensare agevolmente la
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 206

foria, mentre un movimento faticoso e lento evidenzia la difficoltà a cui va


incontro il soggetto per compensare la deviazione presente,
2. con il Cover Test Alternato si evidenziano meglio le forie di bassa entità, in
quanto la fusione sensoriale è impedita per tutta la durate dell'esame e ciò
produce una buona dissociazione. Usando il Cover/Uncover Test si possono
ottenere gli stessi risultati prolungando l'occlusione per un certo tempo, in
modo da inibire lo stimolo alla fusione motoria, che invece viene
continuamente esercitato nelle condizioni visive normali.

13.6 Misura dell'entità delle forie

Viste le metodologie soggettive ed oggettive per l'evidenziazione della eteroforie,


non resta che affrontare le modalità con cui è possibile quantificare la deviazione
presente. Il sistema più usato è quello che prevede l'utilizzo di prismi, i quali
vengono messi di fronte ad uno dei due occhi per spostare l'immagine retinica, e
quindi l'immagine percepita dal soggetto, nella direzione desiderata.
Per vederne l'esatto funzionamento prendiamo il caso di un soggetto esoforico
durante il test di Schober (Fig.9).
In questa situazione l'immagine retinica dell'occhio destro, ad esempio la croce, si
formerà in una zona nasale di retina ed il soggetto dirà di vedere la croce alla destra
del cerchio; se vogliamo quantificare la deviazione dovremo inserire un prisma
base temporale che porti l'immagine esattamente sulla fovea dell'occhio destro. La
stimolazione di elementi retinici corrispondenti così ottenuta farà in modo che la
croce venga vista nella stessa direzione del cerchio e ciò consentirà al soggetto di
vedere la croce nel centro del cerchio. In altre parole, il prisma ci ha permesso di
allineare sul piano orizzontale le immagini percepite dai due occhi e la sua entità
corrisponderà all'ampiezza della deviazione. Analogo procedimento può essere
utilizzato in presenza di deviazioni verticali, anteponendo prismi a base alta o
bassa.

Fig.9: Misura della foria mediante l'uso di prismi in un soggetto esoforico

Questo sistema vale per tutti i test soggettivi visti in precedenza e si basa sempre
sulla determinazione del prisma che è in grado di fornire l'allineamento tra le
immagini viste dai due occhi: nel test col cilindro di Maddox la striscia dovrà
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 207

essere sovrapposta al punto luminoso, nel test di Von Graefe le due carte di Sheard
dovranno essere allineate e così di seguito.
La compensazione delle forie può essere ancor più soddisfacentemente e
precisamente ottenuta mediante un prisma rotante di Risley. Ovviamente, la
compensazione può essere combinata sia in senso orizzontale che verticale, qualora
la deviazione sia mista, il che è frequente. In caso di cicloforie, queste non sono
compensabili. Qualora questi test le facciano sospettare, è utile procedere ad
ulteriori approfondimenti, p.e. utilizzando un sinottoforo.Questi test non sono
infatti indicati per valutare con precisione una cicloforia, ma possono essere
utilizzati per sospettarle, quindi per ridurre i tempi dell’esame. Purtroppo, la loro
valutazione resta comunque totalmente soggettiva (e potremmo dire arbitraria),
molto dipendente dalla collaborazione del soggetto.
Una notazione a parte va fatta per il test di Maddox. Quest’ultimo consente,
mediante l’utilizzo di un quadrante a goniometro, una valutazione quantitativa
abbastanza precisa del grado di inclinazione della cicloforia. Infatti, se la luce di
mira è posta al centro di un gonioquadrante, la stria luminosa di diffrazione andrà a
collimare con un meridiano di detto quadrante, consentendo quindi di misurarla.
Nel cover test, invece, dovremo trovare il prisma che annulli il movimento di
recupero. Dal momento che con questo test non si riescono ad apprezzare forie
PLQRULGLǻTXDQGRVLQRWDXQPRYLPHQWRGLUHFXSHURqFRQVLJOLDELOHSURFHGHUH
nel seguente modo:
1. trovare il primo prisma che annulla il movimento di recupero e registrarne
l'entità,
2. aumentare il prisma fino ad ottenere un movimento di recupero contrario a
quello originario e registrarne l'entità,
3. si calcola la media aritmetica tra i due valori registrati ed il risultato
corrisponderà all'entità della foria.
Questa procedura non è quella più indicata per misurare una devizione, ma serve
quando si vuole aumentare la precisione nella misurazione delle forie con il cover
test oggettivo. A volte questo test è l’unico fattibile in soggetti poco collaboranti.

13.7 Importanza della valutazione delle forie

La valutazione della presenza di una eventuale eteroforia è molto importante,


poiché la compensazione che andiamo a prescrivere non deve modificare la foria
presente in maniera significativa.
In letteratura si trova scritto che per quanto riguarda la compensazione per lontano
la differenza di foria tra la condizione abituale e quella indotta non deve superare 1

fino a 3 '.
diottria prismatica, mentre, per quanto riguarda il vicino, la differenza può arrivare

Se i vari test soggettivi che sono stati descritti possono sembrare di non semplice
esecuzione, sarebbe opportuno effettuare, sia in fase preliminare che post
refrazione, almeno il cover test.
Nel caso in cui la foria presente assuma valori molto elevati è consigliabile
effettuare controlli più approfonditi della visione binoculare.
Una breve notazione per quanto riguarda la compensazione mediante prismi delle
forie (tale argomento sarà trattato in esteso in altra parte del volume).
Quasi mai è opportuno procedere ad una compensazione delle forie orizzontali. La
capacità di fusione in orizzontale è molto ampia e (tralasciando ovviamente il caso
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 208

di squilibri binoculari di tipo paretico) solitamente in grado di ottenere una


sufficiente compensazione con un affaticamento (e conseguente astenopia) molto
modesto. Totalmente diverso è il discorso per le forie verticali. La presenza di una
deviazione verticale anche modesta (a volte è sufficiente una deviazione di 2
diottrie) deve indurre a valutare l’opportunità di compensarla mediante un prisma.
Ma attenzione: tale correzione non può essere determinata a priori, ma va
attentamente calibrata inserendo prismi dapprima di bassissimo potere (anche 0,5
diottrie) nella montatura di prova, e aumentandola progressivamente. Ricordarsi
che il soggetto non riferirà quasi mai di vedere sdoppiato, ma solo più o meno
nitido. Come dato del tutto indicativo, generalmente il soggetto raggiunge il
miglior confort e la massima sensazione di nitidezza inserendo una correzione di
circa 1/3 della deviazione misurata. Sempre molto approssimativamente, quindi, se
è presente una deviazione verticale di 3 diottrie può essere utile partire da 1 diottria
di compensazione, diminuendola o aumentandola di 0,5 diottrie successivamente.
Un altro punto da tenere presente è che le forie verticali sono variabili nel tempo e
risentono molto dei più svariati fattori, dall’uso costante di una appropriata
correzione refrattiva a variazioni della postura, a trattamenti fisioterapici del collo,
a trattamenti ortodontici (o impianto di protesi dentali). Può quindi essere
consigliabile, come prima prescrizione, non utilizzare lenti prismatiche stabilmente
incorporate nella correzione, ma preferire invece anteporre dei prismi a press on.
Potrebbe sembrare sorprendente, ma a volte l’utilizzo di una compensazione
prismatica ha un effetto “curativo” (mediante stimolazione delle capacità di
fusione?), per cui col tempo il prisma può essere ridotto e, talora, tolto.
PARTE SECONDA
14. Acutezza visiva in età pediatrica 209

Capitolo 14 – L’acutezza visiva in età pediatrica


A. Piantanida
14.1 Introduzione

Quando parliamo di misurare l’acutezza visiva nell’età pediatrica dobbiamo sempre


ricordarci che solo in questa fascia d’età le differenze di acutezza visiva raggiunta sono
determinanti per controllare l’efficacia del trattamento e per prendere decisioni te-
rapeutiche. Non esiste nessun’altra fase della vita dove la determinazione dell’acu-
tezza visiva risulti così importante, ed è per questo che la scelta del metodo con cui
la determiniamo riveste un ruolo fondamentale: la standardizzazione del metodo è
necessaria per consentire uno scambio di informazioni scientifiche valide e l’utilizzo di
dati confrontabili. L’effettiva “guarigione dell’ambliopia” deve essere confermata da
metodologie che consentano la quantificazione anche di piccole differenze funzionali.
Nella pratica quotidiana per dare un paio di occhiali o misurare l’acutezza visiva si
può benissimo utilizzare un ottotipo decimale standard, è solo quando si rende neces-
sario quantificare la “vera variazione” dell’acutezza visiva per prendere decisioni tera-
peutiche che allora è necessario usare un metodo di misura che consenta di usare un
trattamento statistico dei dati raccolti. Verso la fine degli anni ‘70 primi anni ’80 sono
pertanto nate per tale scopo le tavole ETDRS a progressione logaritmica per la misura
dell’acutezza visiva nella gestione delle maculopatie, poi adottate anche nella determi-
nazione del visus in età pediatrica, ma un grosso ostacolo all’utilizzo di queste metodi-
che è stato causato per anni dall’assenza di strumenti tecnologici adeguati; attualmen-
te però l’industria commercializza sempre più frequentemente schermi computerizzati
con tavole logaritmiche e programmi di utilizzo delle stesse, con la conseguente sempli-
ficazione nei calcoli statistici necessari alla registrazione corretta dei dati.

14.2 Definizione e caratteristiche

Il concetto fondamentale da cui dobbiamo partire è definire che la quantificazione


dell’acutezza visiva è una misura psicofisica ossia la misura di una “sensazione”. In of-
talmologia nella pratica quotidiana vengono effettuate numerose misure psicofisiche:
il campo visivo, il senso luminoso, le ampiezze fusionali, la stereopsi, la soppressione,
l’estesiometria corneale e molte altre. I metodi psicofisici di misura dell’acutezza visi-
va utilizzano come risposte delle descrizioni verbali o gestuali mediante le quali il pa-
ziente segnala il riconoscimento degli ottotipi presentati siano essi simboli letterali o
figurati, tali risposte sono emesse volontariamente secondo le istruzioni ricevute. Gli
oggetti o i simboli presentati (ottotipi) devono essere riconosciuti nelle loro caratteri-
stiche e nel loro significato: si parla perciò di acuità visiva di ricognizione.
Quando parliamo di acutezza visiva non possiamo prescindere dalla conoscenza di
diverse tipologie della stessa in base al tipo di stimolo presentato da riconoscere:
1. Acutezza di visibilità che descrive la capacità di accertare od escludere la pre-
senza di un oggetto
2. Acutezza di risoluzione che corrisponde alla capacità di percepire i dettagli di un
oggetto
3. Acutezza di localizzazione che si identifica con la capacità di valutare la localiz-
zazione spaziale di un oggetto
4. Acutezza di ricognizione che indica la capacità di riconoscere le caratteristiche o
la forma di un oggetto
14. Acutezza visiva in età pediatrica 210

L’acutezza visiva risulta tanto migliore quanto più piccola è la dimensione dello sti-
molo che riusciamo a percepire, o meglio della sua dimensione angolare. L’inverso
del suo angolo visuale espresso in sessantesimi di grado o minuti primi, quantifica la
misura dell’acutezza visiva.
L’acutezza visiva di visibilità indica qual è il più piccolo angolo visuale che un oggetto
deve sottendere perché se ne possa percepire l’esistenza, senza che se ne riconosca-
no la forma o le caratteristiche. Affinché venga percepito qualcosa su di uno sfondo
bisogna che sia stimolata per lo meno una singola unità recettiva della retina in
maniera differente rispetto alla retina circostante, ossia nell’acutezza di visibilità
non sono tanto importanti le dimensioni del punto da percepire quanto la differen-
za di illuminazione dello stesso rispetto al resto dello sfondo e quindi della retina.
In sostanza vengono modificate contemporaneamente la dimensione angolare ed il
contrasto luminoso retinico: la visibilità di oggetti piccolissimi dipende non tanto
dalle dimensioni dell’immagine retinica che essi producono quanto dalla differenza
di illuminamento che essi sono in grado di produrre, ossia dipende dalla sensibilità
al contrasto. Quando consideriamo l’acutezza di visibilità dobbiamo differenziare la
capacità di stimolazione delle sensazioni luminose: una mira scura su sfondo chiaro
potrà essere definita da una soglia di dimensione angolare al di sotto della quale non
potrà più essere percepita anche aumentando al massimo il contrasto. Viceversa un
punto chiaro luminoso su sfondo scuro potrà essere sempre percepito indipendente-
mente dalle sue dimensioni angolari purché la sua intensità luminosa venga suffi-
cientemente aumentata; per comprendere meglio: questa è la ragione per cui siamo
in grado di percepire la luce delle stelle in un cielo notturno nonostante sottendano
dimensioni angolari infinitamente piccole.
Abbiamo perciò compreso come l’acutezza di visibilità dipenda specialmente dal
contrasto luminoso fotometrico esistente, se questo è molto elevato anche ogget-
ti di piccole dimensioni potranno essere sempre percepiti grazie alla differenza di
illuminamento retinico, al contrario se il contrasto risulta essere scarso un oggetto
anche di dimensioni relativamente grandi non potrà essere percepito in quanto non
produce sulla retina differenze di illuminamento sufficienti. Da ciò si deduce che
in presenza di ametropie lo sfuocamento influenza negativamente l’acutezza di vi-
sibilità. Da ultimo vale la pena ricordare che in condizioni fotopiche la sensibilità
al contrasto retinico è massima, per cui oggetti di piccole dimensioni che causano
piccole differenze di illuminamento retinico potranno essere percepiti abbastanza
bene, cosa che non avviene in condizioni scotopiche: l’acutezza di visibilità risulta
pertanto influenzata anche dall’adattamento retinico.
L’acutezza visiva di risoluzione corrisponde all’inverso dell’angolo minimo di risolu-
zione espresso in minuti primi, ossia sessantesimi di grado. La più piccola distanza
angolare alla quale due punti o due linee possono essere percepiti ancora come di-
stinti viene chiamata angolo minimo di risoluzione o minimal angle of resolution
(M.A.R.). L’acutezza visiva di risoluzione si basa sulla differenza di contrasto o lu-
minanza esistente nell’intervallo che separa i due punti o le due linee. Quando due
punti scuri su fondo chiaro vengono avvicinati progressivamente, la differenza di
illuminamento presente tra l’immagine retinica dei due punti e lo sfondo si attenua
sempre più fino a diventare talmente piccola da non consentire la percezione in
quanto inferiore alla soglia di sensibilità al contrasto presente nell’occhio dell’osser-
vatore: ossia la soglia differenziale di sensibilità non è più sufficiente da consentire
la percezione di due punti o di due linee come distinti. In sostanza è necessario che,
perché due punti siano percepiti come separati, le loro immagini stimolino due unità
ricettive retiniche differenti e che tra queste ultime esista almeno un’unità ricettiva
14. Acutezza visiva in età pediatrica 211

che possa percepire la differenza di luminanza esistente nell’intervallo che separa


i due punti. Nella fovea ogni cono è connesso singolarmente ai centri superiori per
cui costituisce una unità ricettiva singola. L’acutezza di risoluzione risulta pertanto
condizionata dagli effetti della diffrazione e dalle aberrazioni presenti nelle ametro-
pie o in tutte quelle condizioni che alterino la sensibilità al contrasto. Non da ultimo
anche situazioni cliniche che condizionino la densità delle unità recettive retiniche
sono responsabili di alterazioni dell’acutezza visiva di risoluzione.
L’acutezza visiva di localizzazione corrisponde alla più piccola variazione delle rela-
zioni spaziali fra due oggetti che possa essere riconosciuta. Essa corrisponde alla
capacità di percepire i disallineamenti tra due stimoli come si fa ad esempio nell’uso
dei calibri millimetrati. È un’acuità visiva molto raffinata che può percepire disalli-
neamenti inferiori a 1/360 di grado.
L’acutezza visiva di ricognizione corrisponde alle minime dimensioni angolari neces-
sarie al riconoscimento delle caratteristiche o della forma di una figura. È la forma
di acutezza visiva più raffinata che ci interessa nella pratica clinica quando ese-
guiamo un esame del visus presentando degli ottotipi, siano essi letterali o figurati.
Dipende dai tipi di acutezza visiva precedentemente descritti e coinvolge anche al-
cune funzioni superiori psichiche quali la capacità di distinguere le forme come le
lettere, i numeri, gli oggetti. L’esame della acutezza visiva di ricognizione ha lo scopo
di definire, con metodiche che abbiano una buona testabilità ed una precisione nota,
se il valore della misura è inferiore ad un determinato livello considerato normale,
se esistono differenze di acutezza visiva tra i due occhi, se il valore della misura
è cambiato o è rimasto lo stesso (controllo dell’effetto dei trattamenti o recidive
dell’ambliopia e dell’ipovisus), se il cambiamento della misura rispecchia un’effet-
tiva modificazione della visione spaziale o costituisce soltanto l’espressione della
variabilità della misura ed infine quale correzione ottica produce il massimo valore
ottenibile dalla misura.
Come si è detto sopra la determinazione di un’acutezza visiva il più possibile atten-
dibile riveste un ruolo fondamentale nell’oftalmologia pediatrica. Importante nel
trattamento dei vizi di refrazione e dell’ambliopia è rilevare piccole modificazioni
dell’acutezza visiva ed accertare se queste derivano dalla variabilità delle risposte,
tra l’altro maggiori negli occhi ambliopi, o da un’iniziale modificazione in meglio
od in peggio della visione spaziale. Solo nell’ambito del trattamento dell’ambliopia,
più o meno grave che sia, l’osservazione di piccole variazioni della misura dell’a-
cutezza visiva comporta l’assunzione di decisivi provvedimenti terapeutici. Per tali
motivi diviene necessario utilizzare uno o più metodi di misura dell’acutezza visiva
che quantificando le differenze consentano di prendere decisioni terapeuticamente
valide. Tali metodi comportano obbligatoriamente l’uso delle misure logaritmiche
(logM.A.R.) dell’acutezza visiva. Al fine di una corretta utilizzazione pratica dei dif-
ferenti metodi di misura dell’A.V. è indispensabile che vengano prese in considera-
zione alcune caratteristiche:
1. Precisione: riproducibilità e ripetibilità delle misure
2. Accuratezza: esprime il grado di accordo esistente fra il valore ottenuto con una
misurazione ed il vero valore della misura che viene valutata
3. Sensitività: capacità di evidenziare sistematicamente piccole differenze o varia-
zioni della grandezza da misurare
4. Validità: capacità di valutare il vero stato della visione spaziale monoculare

14.2.1 Precisione
La precisione o ripetibilità di un metodo di misura esprime il grado di accordo esi-
14. Acutezza visiva in età pediatrica 212

stente tra misure ripetute della stessa caratteristica che è rimasta (presumibilmen-
te!) invariata. La ripetizione di misurazioni molto minuziose di una lunghezza o di un
peso, producono sistematicamente dati di misura lievemente differenti: se eseguia-
mo ripetutamente delle misure in millimetri della lunghezza di una stanza siamo
preparati a constatare che i valori delle misure replicate non risultano sempre gli
stessi ma si mostrano “dispersi” entro certi limiti (senza che a nessuno venga in men-
te di pensare che la lunghezza della stanza continui a modificarsi sia pure in modo
quasi impercettibile!). Anche le misurazioni ripetute ad esempio della refrazione o
della tonometria o della pachimetria eccetera, producono sistematicamente dati di
misura lievemente differenti, pur essendo ragionevole pensare che la caratteristica
misurata (refrazione, tono oculare, pachimetria) sia rimasta invariata fra le differen-
ti misurazioni. Analogamente, il valore della misura di un’acutezza visiva può variare
anche quando la visione spaziale resta sicuramente invariata; viceversa la visione
spaziale può subire lievi variazioni senza che queste vengano necessariamente docu-
mentate da una modificazione della misura. Questa variabilità dei risultati di misure
ripetute costituisce una caratteristica più o meno evidente di tutti i metodi di misu-
ra: misurazioni ripetute della stessa grandezza (che si presume resti invariata!) for-
niscono sistematicamente valori diversi sebbene molto simili. La precisione di una
misura pertanto può essere valutata dalla dispersione dei valori misurati effettuati
dallo stesso soggetto nelle medesime condizioni. La determinazione della precisione
della misura dell’acutezza visiva riveste una grande importanza pratica in quanto
permette di stimare se la differenza fra due misure di un’acutezza visiva sia dovuta
ad una modificazione della visione spaziale, per effetto ad esempio di un agente
patogeno o di una terapia, o sia semplicemente espressione della imprecisione del
metodo di misura. Le decisioni cliniche si fondano su questa valutazione.

14.2.2 Accuratezza
L’accuratezza di una misura dovrebbe indicare il grado di corrispondenza esistente
fra i valori forniti dal metodo in questione e il vero valore della caratteristica misu-
rata. Nella pratica clinica viene accertata la corrispondenza con i valori ottenibili
da un metodo di misura che viene assunto come “misura campione” (gold standard).
Per comprendere meglio: l’accuratezza di una misura lineare ad esempio deve ne-
cessariamente corrispondere a quella fornita dal metro campione di riferimento del
sistema metrico decimale, ossia il gold standard, conservato a Parigi, cioè la misura
rilevata deve coincidere necessariamente con quella fornita dal metodo standard.
Nella determinazione dell’acutezza visiva il grado di accuratezza del metodo utiliz-
zato può essere calcolato valutando la media e le differenze tra le misure ottenute
col metodo in questione ed il gold standard di riferimento. Nella determinazione
dell’acutezza visiva nei bambini l’impossibilità di applicare un metodo standard non
consente l’accertamento dell’accuratezza dei vari metodi di misura comunemente
utilizzati che pertanto sono forieri di errori di sopra o sottovalutazione. Nella pratica
la definizione dell’accuratezza di una misura consente lo scambio di informazioni tra
operatori; l’analisi statistica di misure di diversa origine e la corretta e omogenea
applicazione di norme regolamentari.

14.2.3 Sensitività
La sensitività designa la capacità di un metodo di misura di evidenziare sistema-
ticamente anche piccole variazioni della grandezza da misurare e dipende dalla
graduazione dello strumento di misura impiegato. Nel caso della determinazione
della visione spaziale assume importanza la progressione adottata per definire i vari
14. Acutezza visiva in età pediatrica 213

“gradini” di una tavola ottotipica. Una sensitività elevata si ottiene adottando una
progressione geometrica delle dimensioni degli ottotipi con una “ragione di progres-
sione” molto bassa (es.: 1,5 - 1,15 - 1,30 e via dicendo). Nella pratica clinica però va
considerato che la possibilità di evidenziare piccole variazioni della visione spaziale
crea un aumento della dispersione delle misure ripetute e conseguente riduzione
della loro precisione, sarà pertanto indispensabile utilizzare una “ragione di progres-
sione” che consenta di determinare valori di acutezza visiva sufficientemente precisi
e riducendo al minimo la dispersione degli stessi.

14.2.4 Validità
La validità di una misura indica l’entità di concordanza tra i risultati ottenuti ed il
vero stato del valore che voglio misurare. Nel caso dell’acutezza visiva la validità di
un metodo di misura indica la sua capacità di valutare il vero stato funzionale della
visione spaziale monoculare, ad esempio l’esistenza di una vera isoacuità visiva.

14.3 Metodi oggettivi di misura dell’acutezza visiva

Nell’età pediatrica l’applicazione puntuale delle regole per la determinazione dell’a-


cutezza visiva risulta difficile se non impossibile nei primi anni di vita o per lo meno
prima dei tre anni. Si pone pertanto il problema del calcolo dell’acutezza visiva in
queste situazioni. L’utilizzo di alcuni metodi cosiddetti oggettivi, poiché non coinvol-
gono attivamente il paziente ma si limitano alla registrazione delle sue risposte agli
stimoli, consente di avere un’idea almeno approssimativa dell’acutezza visiva. Deve
essere chiaro fin da subito che i metodi oggettivi consentono la misura di un’acutezza
visiva di visibilità o di risoluzione (ad esempio coi reticoli), non consentono di regi-
strare i risultati con le frazioni di Snellen e che le misure non sono “equivalenti” a
quelle ottenute con le tavole ottotipiche, sono soltanto misure correlate. I metodi più
comunemente usati in età preverbale sono i movimenti di inseguimento, il nistagmo
optocinetico, le carte di acutezza, i potenziali evocati visivi ecc.
La presentazione di oggetti in movimento scatena nel bambino movimenti di inse-
guimento che servono per tenere stabile l’immagine sulla retina. La registrazione
dell’acutezza visiva avviene osservando la minima dimensione angolare degli stimoli
visivi capace di produrre movimenti di inseguimento (es.: Graded Ball Vision Test).
Nessuno dei metodi di misura basati su tale principio riveste un’importanza clinica
in quanto imprecisi ed inaccurati nella registrazione dell’acutezza visiva. Il nistagmo
optocinetico è un nistagmo a scosse che vengono stimolate da oggetti in movimento.
È caratterizzato da una fase lenta di inseguimento ed una fase rapida di movimen-
to saccadico in senso opposto. La determinazione dell’acutezza visiva si basa sulla
presentazione di reticoli o scacchiere di differenti grandezze angolari fino a trovare
la più piccola dimensione in grado di scatenare un nistagmo. L’acutezza visiva corri-
sponde al reciproco del M.A.R. del reticolo o della scacchiera. Una semplice alterna-
tiva, oggi poco usata, è l’utilizzo di un tamburo rotante a strisce con una determinata
frequenza spaziale. Le carte di acutezza utilizzate nel preferential looking struttu-
rate con una serie di reticoli di differenti frequenze spaziali consentono di deter-
minare l’acutezza visiva in base all’angolo di risoluzione a maggior frequenza che il
bambino ha mostrato di riconoscere dirigendo lo sguardo. Di tutti i metodi utilizzati
forse il più attendibile risulta essere la registrazione dei potenziali evocati visivi o
P.E.V. Per la misura dell’acutezza visiva viene utilizzata la registrazione dell’incre-
mento dell’attività elettrica della corteccia visiva alla presentazione di stimoli solo
14. Acutezza visiva in età pediatrica 214

luminosi (P.E.V. da flash) o strutturati (P.E.V. da pattern) tali risposte dipendono


dall’attività dei coni presenti nella fovea. La quantificazione della funzione visiva
verrà calcolata in base all’ampiezza del segnale registrato ed alla misura del tempo
intercorrente tra la stimolazione e la comparsa delle modificazioni elettriche (laten-
za). Tutti i metodi sopra descritti rimangono comunque dei metodi estremamente
approssimativi nella misurazione dell’acutezza visiva in quanto privi di precisione
ed accuratezza.

14.4 Le scale di misura:


ottotipo decimale ed ottotipo logaritmico a confronto

Quando vogliamo determinare la misura dell’acutezza visiva come si è già detto al-
trove i metodi di misura psicofisici usati dipendono direttamente dal tipo di risposte
utilizzate. Gli stimoli visivi utilizzati sono generalmente dei simboli o ottotipi di va-
ria dimensione e forma queste ultime determinate come standard per convenzioni
internazionali. Generalmente nella pratica clinica quotidiana viene registrata l’acu-
tezza visiva di ricognizione, che corrisponde al tipo di acutezza visiva più raffinata
comprendente essa stessa gli altri tipi di acutezze visive già descritte.
Gli ottotipi e i simboli utilizzati sono differenti e ciascuna tipologia è caratterizzata
da dettagli particolari che debbono essere riconosciuti. Reticoli o scacchiere: sem-
plici e standardizzabili perché l’angolo di risoluzione può essere definito con la mas-
sima accuratezza. Lettere dell’alfabeto: le più usate per la loro facilità di impiego; si
utilizzano generalmente lettere di media difficoltà con leggibilità equivalente e la
cui altezza e larghezza siano pari a 5 volte lo spessore dei tratti. Numeri: presentano
le stesse caratteristiche delle lettere ma meno raccomandabili come impiego. Figure
astratte con componente direzionale quali le “E di Snellen” e le “C di Landolt”:
presentano anch’essi dimensioni globali pari a 5 volte quella del loro dettaglio cri-
tico. È utile ricordare che gli anelli di Landolt vengono generalmente raccomandati
come ottotipi di riferimento per tarare le dimensioni degli altri ottotipi impiegati
nell’esame dell’acutezza visiva. Nei bambini ci troviamo spesso nell’impossibilità di
sottoporre alla loro attenzione specie nei primi anni di vita ottotipi letterali, pertan-
to si sono proposte delle alternative quali le figure geometriche, che però presentano
spesso difficoltà di interpretazione, o le immagini di oggetti ed animali, la cui ricono-
scibilità dipende dal contesto culturale e dal tipo di stilizzazione utilizzata. Sicura-
mente l’ottotipo pediatrico più utilizzato consiste nelle E di Snellen presentate con
le aste perpendicolari orientate nelle quattro direzioni dello spazio e che il bambino
deve indicare girando la propria mano nella direzione corrispondente.

14.4.1 Il logMAR
Ma indipendentemente dal tipo di ottotipo utilizzato nella determinazione della mi-
sura dell’acutezza visiva di ricognizione, va sempre considerato il cosiddetto “detta-
glio critico”. Esso corrisponde all’angolo visuale sotteso da quei dettagli che dovreb-
bero essere percepiti o risolti per consentire il riconoscimento delle caratteristiche o
delle forme dell’ottotipo; tale angolo viene definito anche come angolo di risoluzione
e si misura in sessantesimi di grado. Il dettaglio critico nei reticoli corrisponde allo
spessore delle bande chiare e scure, il dettaglio critico delle E di Snellen risiede nel-
lo spessore dei tratti e degli spazi che li separano, mentre il dettaglio critico delle C
di Landolt risiede nell’apertura dell’anello, nelle lettere e nei numeri per convenzio-
ne si definisce come dettaglio critico lo spessore dei tratti che li delineano (si asse-
14. Acutezza visiva in età pediatrica 215

gna una altezza ed una larghezza pari a 5 volte lo spessore dei tratti). Comunemente,
commettendo però un grave errore, si esprime la dimensione degli ottotipi con il
valore dell’acutezza visiva corrispondente espressa in valori decimali, ad esempio ot-
totipi dei quattro decimi, ottotipi dei sei decimi e via dicendo. In realtà il vero valore
della dimensione degli ottotipi riconosciuti deve essere espresso dall’angolo visuale,
in minuti primi o sessantesimi di grado, sotteso dal dettaglio caratteristico della
distanza a cui gli ottotipi debbono essere impiegati. La conoscenza della dimensione
degli ottotipi assume importanza nella misura dell’acutezza visiva in quanto dob-
biamo determinare quale sia la dimensione dei più piccoli ottotipi riconoscibili. Si
parla allora di minimo angolo di risoluzione o minimal angle of resolution o M.A.R.
che corrisponde pertanto all’angolo visuale sotteso dal “dettaglio caratteristico” del
più piccolo ottotipo riconosciuto, misurato in minuti primi: sessantesimi di grado.
Le dimensioni degli ottotipi dovrebbero essere definiti con il logaritmo (decimale
o naturale) del MAR ossia logMAR. L’adozione del logaritmo dell’angolo minimo di
risoluzione consente di indicare indirettamente la percentuale di differenza della
dimensione nella progressione degli ottotipi utilizzati per la determinazione dell’a-
cutezza visiva. L’acutezza visiva di risoluzione e di ricognizione è definita come l’in-
verso del MAR che consente comunque una notazione decimale dell’acutezza visiva,
ma che si badi bene non corrisponde affatto alla notazione in frazioni decimali che
viene normalmente utilizzata!
Quando utilizziamo una scala ottotipica per definire la più piccola dimensione degli
ottotipi che consente il loro riconoscimento è necessario modificarne le dimensioni.
Ma di quanto dobbiamo modificare tali dimensioni per percepire un cambiamento
o meglio qual è la misura percentuale di modifica dei dettagli minimi di un ottotipo
affinché ne possiamo apprezzare il cambiamento? In psicofisica secondo la legge
di Weber il rapporto tra la differenza appena apprezzabile ed il valore basale dello
stimolo è uguale ad una costante, in altre parole per ottenere la stessa modificazione
di una sensazione dobbiamo variare l’entità dello stimolo di una quantità propor-
zionale allo stimolo stesso. Solamente mediante l’utilizzo di una progressione geo-
metrica ossia percentualmente proporzionale, la scala di misura diventa coerente
con il fenomeno che si vuole misurare in quanto ad ogni intervallo presente nella
scala si produce una uguale differenza di sensazione (ad esempio il 10%, il 25 % e
così via). Fin dalla standardizzazione delle tavole ottotipiche si era notato che la ra-
gione della progressione geometrica ideale della differenza della dimensione degli
ottotipi era del 25%. Oggi per semplicità si indica come ragione della progressione
geometrica il logMAR 0,1, pari alla radice decima di 10 che in numeri corrisponde al
valore 1,25892. Tale ragione della progressione è pari ad una modifica delle dimen-
sioni degli ottotipi del 26% in modo che la dimensione risulta raddoppiata ogni tre
gradazioni e decuplicata ogni dieci gradazioni: il logaritmo decimale dell’angolo di
risoluzione aumenta in progressione aritmetica con una ragione = 0,1 per cui nella
misura dell’acutezza visiva tra 0,3 e 1 corrisponde a 4 gradazioni di ottotipo, mentre
se utilizziamo altre ragioni di progressione potremo aumentare il numero di righe de-

1.0 0.8 0.63 0.5 0.4 0.3 0.25 0.2 0.16 0.126 0.1 A.V.
0.0 0.1 0.20 0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8 0.9 1.0 logMAR
1.0 1.26 1.58 1.99 2.51 3.16 3.98 5.0 6.3 7.94 10.0 MAR
Tabella 1. Progressione geometrica degli ottotipi con “ragione di progressione” di 0,1 log, aumento del
MAR di circa il 26% ad ogni riga.
14. Acutezza visiva in età pediatrica 216

terminando quindi in maniera sempre più raffinata le differenze dell’acutezza visiva


raggiunta ad esempio dopo una terapia antiambliopica. (Tabella 1)
Per concludere questa trattazione va sottolineato che il vantaggio della progres-
sione geometrica, ossia percentualmente proporzionale, delle dimensioni degli
ottotipi sta nel fatto che i logaritmi degli angoli di risoluzione realizzano una pro-
gressione aritmetica e costituiscono una scala di misura metrica ad intervalli che
consente i calcoli statistici, cosa che invece non ci è assolutamente consentita con
progressioni non percentualmente costanti come ad esempio la ben nota progres-
sione decimale.
Esistono anche altre caratteristiche di presentazione degli ottotipi che influenzano
la possibilità di riconoscimento, oltre all’angolo visuale sotteso: il contrasto, la lu-
minanza, la distanza interottotipica e l’illuminazione ambientale.
Il contrasto: l’acutezza visiva risulta tanto maggiore quanto migliore è il contrasto
degli ottotipi che non deve essere mai al di sotto dell’85%. Un ottotipo non è più
riconosciuto quando il suo contrasto è ridotto al di sotto di un dato valore in quan-
to la differenza di luminanza tra un oggetto e lo sfondo diventa così modesta da
non essere più percepibile. Qualsiasi illuminazione delle tavole ottotipiche lascia
inalterato il contrasto che dipende direttamente dal coefficiente di riflessione, il
contrasto si modificherà allorquando i coefficienti di riflessione dello sfondo e del-
le lettere siano consistenti.
La luminanza: il livello di luminanza deve realizzare condizioni fotopiche che con-
sentano il funzionamento ottimale dei coni. La visibilità degli ottotipi si riduce in
condizioni di scarsa luminanza per cui l’acutezza visiva è direttamente proporzio-
nale alla luminanza delle tavole; la variazione dell’acutezza visiva è da considerarsi
irrilevante al di sopra di 50/60 candele, e nulla sopra le 300/500 candele, valore
presente nei comuni proiettori ancora in uso in molti ambulatori. I video compute-
rizzati hanno il vantaggio di poter calibrare la luminanza a piacimento ricordando
però che una luminanza eccessiva può mascherare un deficit dell’acutezza visiva
causato da un’ametropia di lieve entità per la miosi indotta con conseguente au-
mento della profondità di fuoco.
La distanza interottotipica: il riconoscimento degli ottotipi è influenzato dalla am-
piezza che li separa, quanto è più ampio lo spazio tra simboli tanto più facile sarà
il riconoscimento degli stessi. Tale fenomeno è definito con il termine di Crowding
phenomenon o fenomeno dell’affollamento o dell’interazione dei contorni. Se si
presentano ottotipi molto distanziati tra di loro o addirittura in forma isolata la
capacità di riconoscimento appare facilitata in quanto esente dall’interazione dei
contorni. L’acutezza visiva misurata con interazione dei contorni si presenta sem-
pre inferiore rispetto a quella misurata senza interazione di un valore di circa il
20% corrispondente suppergiù ad una riga della tavola ottotipica a progressione
geometrica. Tale fenomeno si accentua negli ambliopi: in tali casi è raccomandabi-
le l’utilizzo di tavole con distanze interottotipiche ridotte per evidenziare amblio-
pie monolaterali non perfettamente guarite dopo i trattamenti riabilitativi.
L’illuminazione ambientale: influenza il valore dell’acutezza visiva in quanto con-
tribuisce a migliorare le condizioni di visione fotopica ossia della funzione dei coni.
La luce ambientale lascia invariato il contrasto delle tavole e riduce il contrasto
degli ottotipi presentati, compensato dal miglioramento della “sensibilità al con-
trasto”. Va ricordato che quando misuro l’acutezza visiva a scopo refrattivo devo
eseguire tale misura diminuendo l’illuminazione ambientale al fine di evitare che
la miosi pupillare mascheri eventuali difetti rifrattivi presenti.
Se lo scopo della misura dell’acutezza visiva è la determinazione di eventuali di-
14. Acutezza visiva in età pediatrica 217

fetti rifrattivi presenti come ad esempio avviene negli screening pediatrici, oc-
corre ricordare che la luminanza eccessiva delle tavole ottotipiche ed una forte
illuminazione ambientale possono consentire in presenza di difetti di lieve entità
di eseguire una performance ottimale nascondendo di fatto la presenza del difetto
eventualmente presente, vanificando la sensibilità del test eseguito.

14.4.2 Le scale di misura


Uno dei maggiori problemi che si riscontrano nella pratica quotidiana è capire
il motivo per il quale nella determinazione dell’acutezza visiva, per percepire e
registrare delle variazioni significative del visus che ci consentano di prendere
decisioni terapeutiche, sia necessario utilizzare la progressione logaritmica degli
ottotipi e non considerare attendibile la scala a progressione decimale. Le scale
metriche di misura servono per segnalare una differenza od una relazione tra di-
verse misure, ma anche specificare l’entità della differenza esistente e sono carat-
terizzate da un’unità di misura per mezzo della quale viene definita la grandezza
della caratteristica (ad esempio i mmHg per il tono oculare, i gradi di deviazione
per i movimenti oculari). Risulta molto semplice capire questo concetto se ci ap-
procciamo a misure conosciute come quelle citate ad esempio, ma quando siamo
di fronte alla necessità di quantificare la differenza di acutezza visiva con un’u-
nità di misura dobbiamo tenere presente che necessariamente ad ogni riga adia-
cente si deve produrre un aumento od una diminuzione delle dimensioni angolari
del dettaglio critico degli ottotipi che sia sempre della stessa proporzione, ossia
come si è detto precedentemente una progressione geometrica. Come sappiamo
dalla psicofisica la legge di Weber ci ricorda che per ottenere la stessa modifica-
zione di una sensazione dobbiamo variare l’entità dello stimolo di una quantità
proporzionale allo stimolo stesso. Il logaritmo dell’angolo minimo di risoluzione
(logMAR) costituisce una scala metrica quando la progressione delle dimensioni
degli ottotipi realizza una progressione geometrica (aumento percentuale). Alla
luce di quanto detto risulta semplice capire che la scala decimale non è una scala
metrica: tra 0,1 e 0,2 e tra 0,9 ed 1,0 non corrisponde la stessa differenza di funzio-
ne visiva pur essendoci la stessa differenza numerica: tra 0,1 e 0,2 decimi l’acutez-
za visiva raddoppia, mentre tra 0,9 ed 1,0 l’acutezza visiva aumenta dell’11%. In
sostanza la scala decimale è una scala a progressione armonica che ha enormi dif-
ferenze di incremento percentuale delle dimensioni degli ottotipi ai due estremi
della scala, le dimensioni angolari degli ottotipi vengono dimezzate nel passaggio
tra le prime due righe mentre diminuiscono solo di una piccola percentuale (11%)
tra le ultime due righe generalmente utilizzate, per cui mi trovo con un numero
elevato di righe verso valori di acutezza visiva elevati ed un numero esiguo verso
valori di acutezza visiva bassi: esattamente il contrario di quello che serve nelle
ambliopie e nell’ipovisione. L’utilizzo invece di scale metriche a progressione geo-
metrica o a progressione percentualmente costante consente l’utilizzo di numeri i
cui logaritmi danno una progressione aritmetica (0,125, 0,63, 0,84 ecc.), fornendo
perciò delle misure che consentono di calcolare le medie, la Deviazione Standard
ed i limiti di confidenza. L’utilizzo di una determinata ragione geometrica della
progressione consente di incrementare il numero di righe in maniera tale da con-
sentire di registrare minime variazioni dell’acutezza visiva utili ai fini terapeutici,
al contrario se adotto una progressione armonica (decimale) l’acutezza visiva ad
esempio tra 0,1 e 0,2 esprime un intervallo così ampio che il miglioramento even-
tualmente presente non può essere registrato finché l’acutezza visiva non risulti
raddoppiata.
14. Acutezza visiva in età pediatrica 218

Percentuale
Numero di Numero di Percentuale di
Numero di ottotipi di “veri”
presentazioni risposte errate risposte esatte
riconoscimenti
4 4 1 75% 66%
4 5 1 80% 73%
4 5 2 60% 46%
4 6 2 66% 55%
4 7 2 71% 62%
10 5 2 60% 55%
10 7 2 71% 68%
Tabella 2. La formula di Abbot permette di calcolare nell’ambito della percentuale di risposte esatte, la
percentuale di riconoscimenti “veri” in base al numero di ottotipi presentati, al numero di presentazioni
effettuate ed al numero di risposte errate

14.5 Soglie ed indovinamento

Le misure psicofisiche misurano delle soglie, cioè quelle dimensioni di uno stimolo
alle quali questo comincia ad essere percepito o smette di essere percepito oppure
produce una percezione differente. In psicofisica vengono considerati diversi tipi di
soglie. La soglia assoluta corrisponde al minimo valore che uno stimolo deve avere
per produrre una sensazione, tale concetto è ben comprensibile se ricordiamo come
i punti luminosi visualizzati durante l’esecuzione del campo visivo computerizzato
vengano presentati con delle differenti intensità luminose via via decrescenti per
studiarne la loro percezione, oppure in caso di determinazione dell’acutezza visiva la
soglia assoluta è rappresentata dalle più piccole dimensioni degli ottotipi al di sotto
delle quali i simboli non possano essere rilevati. La sensibilità ad uno stimolo lumino-
so viene indicata con l’inverso della soglia assoluta di intensità luminosa (sensibilità
assoluta) mentre la sensibilità ad un stimolo strutturato quale l’angolo visuale degli
ottotipi viene indicata con il suo reciproco (acutezza). La soglia differenziale indica la
più piccola variazione di uno stimolo capace di produrre una variazione della sensibi-
lità tale da essere percepita. La sensibilità differenziale è l’inverso della soglia diffe-
renziale. Nel caso della misura dell’acutezza visiva risulta evidente che le differenze
di luminanza giochino un ruolo fondamentale nel riconoscimento degli ottotipi. Un
esempio standardizzato di tale situazione è la misura della sensibilità al contrasto.
Quando si effettua l’esame del visus specie in età pediatrica non bisogna scordare
che il riconoscimento di un ottotipo potrebbe essere effettuato casualmente ossia
per indovinamento. Uno dei maggiori problemi consiste nel calcolo della percentua-
le di indovinamento durante l’esecuzione dell’esame del visus. Se vengono utilizzati
ottotipi come le E di Snellen con quattro differenti orientamenti la percentuale di
indovinamento è ovviamente pari al 25%, se addirittura utilizziamo i reticoli del
“preferential looking” che presentano solo due possibilità di collocazione per essere
captati (destra o sinistra) la percentuale di indovinamento sale al 50%. Se vengono
utilizzate 10 lettere dell’alfabeto come avviene nelle tavole ottotipiche standard la
percentuale è del 10%. Per questi motivi è bene che il numero di presentazioni sia
elevato al fine di abbattere la probabilità di indovinamento.
Il calcolo della probabilità che le risposte date dal paziente corrispondano all’effetti-
vo riconoscimento degli ottotipi (veri riconoscimenti) si ottiene con la formula di Ab-
14. Acutezza visiva in età pediatrica 219

bot che considera il numero di ottotipi usati, il numero di presentazioni ed il numero


di risposte sbagliate; più è elevato il numero di presentazioni più la percentuale di
risposte vere si avvicina a quella delle risposte giuste. (Tabella 2)

14.6 Metodi di utilizzo degli ottotipi a progressione logaritmica

L’utilizzo delle tavole logaritmiche si è semplificato sempre più nel corso degli anni
grazie alla presenza sul mercato di schermi computerizzati che contengono dei para-
metri di calcolo automatici delle varie misure necessarie, ma tali tecniche non sono
sempre applicabili in tutte le situazioni cliniche. È necessario quindi conoscere tutti
i metodi di calcolo da applicare alla scala logaritmica:
– Metodo degli stimoli costanti
– Metodo dei limiti
– Metodo staircase.
Gli ultimi due consentono il calcolo dei parametri statistici quali la media, la devia-
zione standard, i limiti di confidenza, valori indispensabili per la determinazione
della “Vera Acutezza Visiva”.

14.6.1 Metodo degli stimoli costanti


L’applicazione delle regole canoniche utilizzate in psicofisica per la determinazione
dell’acutezza visiva con tale metodologia rende l’esame stesso di difficile esecuzione,
ad esempio per la necessità di presentare almeno un centinaio di ottotipi al fine di
evitare il più possibile risposte per indovinamento e potersi assicurare che le rispo-
ste giuste siano precise e descrivano in modo attendibile la misura psicometrica.
Un altro problema è rappresentato dalla necessità di dover presentare stimoli sia
sopraliminari sia sottoliminari, non consentendo questi ultimi una facile raccolta dei
dati per la difficoltà ad indurre il paziente ad osservare stimoli che “non riescono a
vedere”. Pertanto nella pratica clinica l’applicazione del metodo interpolato ha su-
bito alcune variazioni tecnico applicative, ma si sono ugualmente stabiliti dei criteri
cosiddetti “minimi” al fine di rendere attendibile l’esame stesso. In primo luogo il
numero di ottotipi presentato deve essere costante per ogni livello dimensionale,
l’ordine di presentazione deve essere casuale e la probabilità di riconoscimento deve
essere dello stesso ordine di grandezza. A questo scopo è bene usare un numero
limitato di lettere la cui leggibilità sia equivalente. La progressione degli ottotipi
deve essere geometrica e va scelta la ragione di progressione a seconda delle neces-
sità diagnostiche: normalmente il 26% (0,1 Log), se necessito di avere un numero
maggiore di ottotipi per rilievi raffinati dell’acutezza visiva potrò avere una ragione
di progressione del 16% (0,15 Log. naturale), in caso infine di bambini piccoli posso
decidere una ragione di progressione del 35% (0,3 Log. naturale). L’estensione delle
dimensioni degli ottotipi deve essere compresa almeno tra un M.A.R. di 10 minuti
primi corrispondente ad una acutezza visiva di 0,1 decimi, ad un M.A.R. di 0,66 cor-
rispondente ad un visus di 1,5 decimi. Le distanze interottotipiche devono escludere
l’interazione dei contorni e la soglia di riconoscimento degli ottotipi deve essere col-
locata nella cosiddetta zona di transizione (al di sopra del 50% dei riconoscimenti).
È indispensabile applicare a formula di Abbot per ricavare la percentuale di risposte
giuste dovute ad un reale riconoscimento dell’ottotipo e non ad un indovinamento.
A questo punto possiamo procedere nella determinazione dell’acutezza visiva. Va
considerato come valore corrispondente alla misura dell’acutezza visiva la riga in
cui si siano verificati due errori su 5/7 presentazioni (non fermarsi al primo errore
in quanto otterrei misure di acutezza visiva meno ripetibili) Per ogni riga devono
14. Acutezza visiva in età pediatrica 220

esserci almeno 5 ottotipi se si tratta di lettere e 6 ottotipi se si tratta di E di Snellen


o C di Landolt. Quando si utilizzano ottotipi definiti con il logaritmo del M.A.R. o
LogMAR la misura dell’acutezza visiva si ottiene dalla sottrazione dalla riga dove
siano stati riconosciuti tutti gli ottotipi, dei valori riconosciuti alla riga successiva.
Ad esempio se ho riconosciuto tutti gli ottotipi di una riga corrispondente ad un va-
lore 0,5 logMAR (0,32 decimi) e tre valori della riga successiva caratterizzata da un
valore di 0,4 logMAR, otterrò (0,5 – 3 /5 ottotipi riconosciuti (0,1) = 0,44 logMar pari
ad un’acutezza visiva finale di 0,36 decimi.

Figura 1. Esempio di tavola ottotipica utilizzata per l’esame del visus con il
“Metodo dei limiti”.

Figura 2. Schema su cui annotare le risposte del paziente durante l’esame del
visus con il “Metodo dei limiti”.
Notare che in basso sono segnati i coefficienti per i quali vanno moltiplicati i
valori di Deviazione Standard ottenuti al fine di ricavare i limiti di confidenza
al 95% in base al numero di presentazioni effettuate.
14. Acutezza visiva in età pediatrica 221

La formula per trasformare il valore logMAR in decimale è la seguente:


AV(dec) = 10-avlog

14.6.2 Metodo dei limiti


In questo metodo gli ottotipi vengono presentati in serie discendente seguendo l’an-
damento delle colonne e ci si ferma alla prima risposta sbagliata. Le presentazioni si
ripetono sempre in maniera discendente per tutte le colonne presenti con la stessa
modalità. (Figura 1) I dati vengono registrati su un apposito formulario (Figura 2) La
misura dell’acutezza visiva corrisponde alla media dei valori delle ultime risposte
corrette fornite dal paziente in ogni colonna (punti di transizione); in alternativa si
può calcolare la mediana delle ultime risposte corrette. Una volta calcolata la de-
viazione standard (DS) di tali valori con una calcolatrice tascabile si moltiplica tale
valore per un coefficiente K già segnato sul formulario ed il risultato ottenuto viene
sommato e sottratto al valore della media dei valori dell’acutezza visiva ottenendo
una coppia di numeri corrispondenti ai limiti di confidenza

14.6.3 Metodo “Staircase”


È una variante del metodo dei limiti ed è il metodo comunemente usato negli scher-
mi computerizzati. Si compone di due fasi distinte eseguite automaticamente dal
programma computerizzato una fase di ricerca ed una fase di misura.
Fase di ricerca: determina la zona di transizione nella quale si colloca la soglia dell’a-
cutezza visiva (si presentano ottotipi in serie discendente, alla prima risposta sba-
gliata la serie diventa ascendente, in seguito si continua ad invertire la direzione
delle presentazioni seguendo la regola di aumentare le dimensioni con risposte sba-
gliate e viceversa). L’entità di aumento o diminuzione è ovviamente a progressione
geometrica e la ragione della progressione può essere determinata a seconda delle
nostre esigenze. La fase di ricerca termina dopo 2 risposte sbagliate anche non con-
secutive.

Figura 3. Videata finale del “metodo Staircase” in uno schermo computerizzato.


14. Acutezza visiva in età pediatrica 222

Fase di misura: si raccolgono i dati necessari al computo dell’acutezza visiva (è


caratterizzata da successive inversioni della direzione in cui la grandezza degli
ottotipi viene modificata). La fase di misura termina dopo un numero predetermi-
nato di ottotipi o di presentazioni. L’acutezza visiva determinata corrisponde alla
media od alla mediana delle dimensioni degli ottotipi presentati in fase di misura e
sullo schermo viene già espresso in valore logMAR e nel suo corrispondente valore
decimale. Il programma computerizzato segnala inoltre il valore della deviazione
standard, che risulta necessario ai fini dell’attendibilità dell’esame ed un valore
numerico corrispondente al valore da aggiungere e sottrarre alla media per calco-
lare i limiti di confidenza. Il calcolo automatico di tutti i valori consente oramai
di potersi esimere dall’affrontare calcoli numerici che possono apparire ostici e
complessi. (Figura 3)

14.7 Le analisi statistiche della misura dell’acutezza visiva

L’idea di utilizzare la statistica per misurare l’acutezza visiva spaventa non poco ma
in realtà si tratta solo di saper interpretare i valori che devono essere applicati nel
calcolo dell’acutezza visiva in quanto, specie nella determinazione dell’acutezza vi-
siva con i metodi utilizzati nei bambini, i programmi computerizzati ci consentono
la registrazione a calcoli già eseguiti. Non è possibile però per il personale medico
e per gli ortottisti che in realtà sono degli “specialisti delle misure oftalmologiche”
esimersi dal conoscere il significato della media, della deviazione standard e dei
limiti di confidenza.

14.7.1 La media
Corrisponde alla somma di tutte le misure divisa per il numero di prestazioni. Indica
in sostanza la misura tendenzialmente presente nel nostro campione e può esse-
re calcolata solo da un campione di misure metriche. Alla luce di questo concetto
appare evidente che non si possono calcolare “medie” di misure di acutezza visiva
quantificate in decimi o con frazioni di Snellen. Si possono invece calcolare “medie”
di misure logMAR di acutezza visiva ottenute utilizzando tavole logMAR (e non “vol-
tando” in logMAR misure decimali ottenute con tavole “decimali”!!!). Si può calco-
lare una media geometrica di misure “decimali” ottenute utilizzando tavole logarit-
miche. Non è assolutamente lecito rilevare l’acutezza visiva con tavole “decimali”
(impiegando regole personalizzate di “terminazione” delle presentazioni e di calcolo del
valore di AV), voltare in logMAR le misure così ottenute e utilizzare queste misure de-
cimali convertite (“travestite”) in logMAR per calcolare medie, deviazioni standard
o altre statistiche “parametriche”.

14.7.2 La deviazione standard


La deviazione standard può essere definita come una media delle differenze tra la
media e ogni singola misura del campione. La deviazione standard andrebbe sempre
contrassegnata con un acronimo: DS o s. Se la distribuzione delle misure del cam-
pione che sto esaminando può essere considerata una distribuzione normale (curva
gaussiana), ossia che il campione di misure sia stato prelevato da una popolazione
distribuita normalmente, entro i due valori che si ottengono sommando e sottraendo
alla media una deviazione standard sono compresi il 68% delle misure, mentre entro
due deviazioni standard sono comprese il 95% delle misure effettuate. L’enorme
importanza della distribuzione normale o curva gaussiana delle misure deriva dal
fatto che utilizzando la deviazione standard è possibile calcolare la proporzione di
14. Acutezza visiva in età pediatrica 223

Figura 5. Fattori per il calcolo dei limiti


di confidenza al 95% di una media
Figura 4. I limiti di confidenza se si (N: n° di misure dalle quali è stata
sovrappongono per meno del 25% o non si ricavata la media. DS: deviazione
sovrappongono affatto ci dicono che qualcosa si standard)
è modificato veramente. Se invece gli intervalli L.C. 95%: media +- kDS
si sovrappongono per più del 25% allora
significa che non abbiamo alcuna modificazione
nel nostro protocollo terapeutico.

misure che si trovano entro determinati intervalli di valori misurati. Tali valori nel
calcolo dell’acutezza visiva con scala logaritmica consentono di esprimere in manie-
ra indiretta il grado di attendibilità delle risposte, ossia maggiore è il valore della
deviazione standard più grande sarà l’intervallo delle misure rispetto alla media
delle risposte, minore sarà la deviazione standard più piccolo sarà l’intervallo delle
misure rispetto alla media delle risposte.

14.7.3 I limiti di confidenza


I limiti di confidenza di una statistica (percentuale, media, ecc.) ci indicano entro
quali valori può trovarsi, con una predeterminata probabilità (es. 95 o 99%), il va-
lore del parametro che sto considerando (es.: della media o della percentuale della
popolazione dalla quale è stato estratto il campione). Più semplicemente ci indicano
entro quali limiti possiamo collocare il “vero valore” delle statistiche che sto ese-
guendo con la probabilità di avere ragione al 95% o al 99%. Quando analizziamo
delle misure su un campione e ne estraiamo dei valori ad esempio una media, come
facciamo ad essere sicuri che tale valore corrisponda alla media presente nella po-
polazione? Utilizzando i limiti di confidenza di una statistica (di una media, di un
percentuale, di una differenza tra due medie o tra due percentuali o di una qualsiasi
altra statistica) possiamo affermare con una certa probabilità (95% o 99%) che se
venisse ripetuta una serie sufficientemente lunga di misure del nostro dato conside-
rato (ad esempio la media) su campioni estratti dalla medesima popolazione il 95%
od il 99% delle differenti medie si troverebbe compreso nell’intervallo dei limiti di
confidenza al 95% od al 99% calcolati nella prima misurazione. Essi sono quindi un
indice preciso delle possibili variazioni dei valori delle misure che sto calcolando:
infatti i limiti o intervalli di confidenza di una statistica calcolata in due gruppi di
confronto ci consentono di valutare agevolmente anche se qualcosa è cambiato tra i
due gruppi presi in esame. Ciò lo si ottiene confrontando gli intervalli (le coppie di
numeri) dei limiti, che se si sovrappongono per meno del 25% o non si sovrappongo-
no affatto ci dicono che qualcosa si è modificato veramente. Se invece gli intervalli si
14. Acutezza visiva in età pediatrica 224

sovrappongono per più del 25% allora significa che non è cambiato nulla e che perciò
non abbiamo ad esempio alcuna modificazione nel nostro protocollo terapeutico.(Fi-
gura 4) Nel caso dell’acutezza visiva i limiti di confidenza delle misure ci consentono
di renderci conto se fra due misure rilevate nello stesso occhio in tempi differenti
esiste una differenza statisticamente significativa di acutezza visiva, ossia se è cam-
biato qualcosa veramente, oppure se i due valori registrati rientrano nella normale
variabilità della media delle risposte senza che nulla si sia modificato. I limiti di
confidenza di una media si ottengono o moltiplicando la DS per un coefficiente K che
dipende dal numero dei rilevamenti effettuati (Figura 5), oppure nel caso del meto-
do staircase sommando e sottraendo il valore calcolato direttamente dal computer
alla media decimale delle risposte.
Alla luce di quanto esposto appare ora chiaro come solo un metodo come quelli
descritti consenta un calcolo realistico ed attendibile della cosiddetta vera acutezza
visiva.
Tale misura viene considerata dal punto di vista della sua precisione e della sua
accuratezza, concetti che, come abbiamo visto in precedenza, rendono l’esame alta-
mente attendibile. Il vero valore dell’acutezza visiva viene espresso dalla media o
dalla mediana delle risposte correlate ai limiti di confidenza al 95% od al 99%, che
indicano entro quali limiti noi possiamo calcolare il vero valore di queste statistiche
con una predeterminata probabilità di avere ragione. È solo quando si rende neces-
sario quantificare la “vera variazione” dell’acutezza visiva per prendere decisioni
terapeutiche che allora è necessario usare un metodo di misura che consenta di usa-
re un trattamento statistico dei dati (ambliopia, anisometropia, cataratta congenita
eccetera).
15. La refrazione in età pediatrica 225

Capitolo 15 – La refrazione in età pediatrica


A. Piantanida
L’esame della refrazione in età pediatrica si basa prevalentemente su tecniche og-
gettive. La peculiarità positiva delle tecniche oggettive risiede nel fatto che esse non
richiedono una partecipazione attiva da parte del soggetto esaminato, fornendo così
un dato non dipendente dal suo atteggiamento e dalle sue risposte. Il dato oggetti-
vo a volte può però essere l’unico rilevabile (bambini piccoli, persone con ritardo
mentale, individui scarsamente collaboranti, soggetti ospedalizzati e/o non traspor-
tabili...), da qui la necessità di applicare delle tecniche sufficientemente precise ed
accurate al fine di individuare in maniera la più corretta possibile la misura della
refrazione.
Le tecniche rifrattive oggettive sono prevalentemente due: l’esame del riflesso rosso
e la schiascopia statica. Sia l’analisi del riflesso rosso sia la schiascopia, per esse-
re attendibile e valida, devono essere eseguiti seguendo una metodologia precisa.
Qualsiasi misura si rilevi è necessario, sempre e comunque, fare i conti con una cer-
ta quantità di errore; l’adozione di un metodo ben definito e la consapevolezza dei
possibili errori nei quali si può incorrere nel corso dell’esecuzione è una premes-
sa indispensabile per poter attribuire validità alle misure rilevate ed efficacia alle
scelte compensative che ne conseguono. Da tenere presente che stiamo esaminando
soggetti piccoli di età e che spesso nella clinica quotidiana molti di noi si trovano a
dovere fare diagnosi anche senza la cicloplegia.

15.1 Validità

Non possiamo applicare una tecnica di misura prescindendo dal concetto di validità
della misura stessa. La validità di un metodo di misura designa la sua capacità di
valutare il vero stato della caratteristica che stiamo valutando, nel nostro caso la
misura del difetto visivo presente. Il concetto di validità si estrinseca in alcune pre-
cisazioni della validità stessa.

15.1.1 Validità di criterio


La validità di criterio indica genericamente la possibilità di usare un criterio esterno
per saggiare la validità del test rispetto ad esso. Nell’analisi della refrazione possia-
mo ad esempio considerare come criterio esterno da correlare la capacità di alter-
nare in un paziente strabico, o la capacità di fissazione in un paziente con ametropia
elevata o ambliopia.
La validità di criterio poi si divide a sua volta in validità predittiva (usa la probabi-
lità di un comportamento futuro come criterio) e validità concorrente (usa la somi-
glianza con altri test come criterio).

15.1.2 Validità predittiva


La validità predittiva indica quanto un risultato a un test è correlato a un partico-
lare comportamento o evento futuro (connessi in linea teorica col test) riguardante
il soggetto. L’utilizzatore del test può quindi ipotizzare uno o più comportamenti
futuri che secondo lui hanno a che vedere col risultato al test e fare delle ricerche
per confermarne la validità predittiva riferita a quei comportamenti. Per esempio,
se un test serve a selezionare personale per un particolare ruolo lavorativo, ha senso
indagare se, a distanza di tempo, il personale scelto grazie al test ha avuto effettiva-
15. La refrazione in età pediatrica 226

mente successo in quel ruolo, caso in cui viene confermata un’alta validità predittiva
del test per quel particolare ruolo. Riguardo a un test d’intelligenza, se ne può per
esempio verificare la validità predittiva riferita al futuro successo scolastico, o rife-
rita al futuro successo lavorativo o in ambito sentimentale. Nella determinazione del
difetto refrattivo può ad esempio avere senso considerare il guadagno nell’acutezza
visiva in un paziente ambliope che ha risolto il problema grazie all’analisi effettuata
col test stesso.

15.1.3 Validità concorrente


La validità concorrente indica la correlazione tra risultati al test in esame e risul-
tati ad altri test che misurano lo stesso costrutto (ad esempio si possono correlare i
risultati ottenuti con l’analisi del riflesso rosso del fundus per la quantificazione dei
difetti rifrattivi e la cicloplegia) e o costrutti diversi (ad esempio la mancanza di fis-
sazione o della capacità di alternare in un paziente strabico la cui misura del difetto
visivo risulta uguale nei due occhi). Nel primo caso si parla di validità convergente e
ci si aspetta una correlazione alta, mentre nel secondo caso si parla di validità discri-
minante e ci si aspetta una correlazione la più bassa possibile.
Per specificare meglio si parla di validità concorrente quando sia la misura sia l’ac-
certamento dello stato di cose avvengono contemporaneamente, si parla di validità
concorrente convergente quando due test ottengono un risultato simile della misura
che sto esaminando, mentre si definisce validità concorrente discriminante se non
posso correlare il risultato della misura che sto esaminando con il vero stato di cose
che sto osservando.
La validità del metodo che stiamo usando risulta pertanto un aspetto estremamente
importante nella diagnosi dei difetti visivi presenti poiché l’esame della refrazione
si propone differenti obiettivi:
1. l’accertamento dell’esistenza di un’ametropia unilaterale o bilaterale e valutarne
l’entità, anche se a volte in modo approssimativo, allo scopo di poter inferire da
questi dati l’esistenza di un’ambliopia possibile e di poterne stimare la probabile
gravità
2. la determinazione di una correzione del difetto refrattivo ed eventualmente effet-
tuare una misura dell’acutezza visiva con correzione, per consentire l’accertamen-
to di un’ambliopia e di stabilirne l’entità
3. la prescrizione della correzione esatta dell’ametropia presente indispensabile per
il corretto trattamento dell’eventuale ambliopia presente

15.2 Accomodazione

Uno dei problemi che ci si deve porre nell’analisi refrattiva è la presenza dell’ac-
comodazione. Essa consiste nella funzione che modifica il potere del cristallino
in modo da consentire la messa a fuoco sulla retina di oggetti situati a differenti
distanze dall’occhio e di conseguenza adeguare il diottro oculare alla vergenza dei
raggi luminosi che lo attraversano. La contrazione del muscolo ciliare cui è collega-
to il cristallino determina un aumento del potere di quest’ultimo (accomodazione
positiva), mentre un rilasciamento del muscolo ciliare determina una diminuzione
del potere del cristallino (accomodazione negativa). Tali movimenti del muscolo
ciliare sono su base riflessa e difficilmente possono essere gestiti volontariamen-
te. Il meccanismo dell’accomodazione pertanto è prevalentemente influenzato da
stimoli esterni presenti nella quotidianità di ciascuno di noi. Lo sfuocamento delle
15. La refrazione in età pediatrica 227

immagini determina un cambio di curvatura del cristallino e quindi del suo potere
per ottenere un’immagine nitida sulla retina e consentire una visione distinta. La
convergenza o la divergenza sono capaci di mettere in atto l’accomodazione: la con-
vergenza aumenta il potere diottrico del cristallino (accomodazione positiva) men-
tre la divergenza ottiene una diminuzione del potere diottrico dello stesso (acco-
modazione negativa). Infine la vicinanza apparentemente prossimale di un oggetto
induce la necessità riflessa di una accomodazione positiva nonostante l’immagine
non si presenti sfuocata o non sia stata messa in gioco la convergenza.
In ultimo va considerata la presenza del cosiddetto tono accomodativo. In assenza di
stimoli visivi il muscolo ciliare si trova in stato di contrazione “tonica” di un valore
diottrico superiore di circa 1 / 1,5 diottrie rispetto a quello ottenibile in massima
accomodazione negativa. Tale situazione viene inibita dall’effetto dei cicloplegici
che annullano il valore diottrico tonico di 1 / 1,5 diottrie il quale a sua volta viene
ripristinato una volta terminato l’effetto del cicloplegico.

15.2.1 Accomodazione binoculare


A meno che non sussistano condizioni anormali l’accomodazione risulta uguale nei
due occhi. Solo nei casi di anisometropia invece l’occhio dominante determina la
quantità di accomodazione presente che viene distribuita in egual misura anche
nell’occhio dominato in caso di visione binoculare. Differente sarà invece la situazio-
ne in visione monoculare dove possiamo aspettarci un’ampiezza accomodativa anche
differente tra i due occhi qualora la trasmissione degli stimoli avvenga meno bene
da un lato rispetto all’altro o quando sussistano in un occhio condizioni anomale
legate al cristallino od al muscolo ciliare che impediscono l’attuarsi di una accomo-
dazione proporzionale all’impulso ricevuto. Prima però di diagnosticare una diffe-
renza accomodativa tra i due occhi è bene ricordarsi di eseguire la misura con una
correzione ottica che sia stata bilanciata e che consenta una perfetta compensazione
del difetto refrattivo eventualmente presente.
Che importanza ha il tono accomodativo nella pratica clinica quotidiana ai fini dell’e-
same dei difetti rifrattivi? Se non si considera la necessità di eliminare o per lo meno
di ridurre ai minimi termini tale tono accomodativo, l’analisi della misura dei difetti
rifrattivi risulterà alquanto imprecisa e poco accurata. È noto infatti come il tono acco-
modativo sia di lieve entità negli anziani e nei miopi specie se miopi elevati, al contrario
esso è presente in quantità discreta negli ipermetropi ed ancora in maggiore entità nei
giovani e nei bambini. L’evitare il blocco dell’accomodazione per la pigrizia di utilizzare
i cicloplegici può indurre il medico oculista in gravi e grossolani errori di valutazione
del difetto visivo presente specie nell’età pediatrica: non è giustificabile pertanto una
prescrizione di lenti correttive senza cicloplegia quando ci si trovi di fronte ai bambini
o a giovani pazienti con difetti rifrattivi ipermetropici ed astigmatici.

15.2.2 Ampiezza accomodativa


Il punto prossimo di un occhio rappresenta la distanza minima a cui un soggetto
percepisce immagini nitide utilizzando tutta l’accomodazione di cui dispone e corri-
sponde al fuoco coniugato della macula dell’occhio stesso in condizioni di massima
accomodazione.
Il punto remoto di un occhio rappresenta la distanza massima sul quale conver-
gono i raggi provenienti dalla macula dopo avere attraversato il diottro oculare.
Nell’occhio emmetrope il punto remoto corrisponde all’infinito in quanto il fuoco
principale del diottro oculare corrisponde esattamente alla posizione della regio-
ne maculare retinica, ed i raggi che escono dal diottro oculare risultano paralleli.
15. La refrazione in età pediatrica 228

Figura 1. Andamento dell’ampiezza accomodativa media nell’infanzia

Nell’occhio miope la distanza che separa la macula dal diottro oculare risulta in-
vece maggiore della distanza focale di questo, per cui i raggi che provengono dalla
zona maculare arrivano al diottro oculare con una vergenza negativa inferiore al
potere positivo del sistema diottrico cornea-cristallino per cui escono con una ver-
genza positiva. Tale meccanismo farà convergere i raggi ad una distanza inferiore a
quella dell’occhio emmetrope, per cui non avremo più un punto remoto posizionato
all’infinito, bensì il punto remoto sarà situato ad una distanza reale situata di fron-
te al bulbo oculare. Nella miopia per cui il punto remoto è reale e si trova tanto più
vicino all’occhio tanto più elevato è il difetto miopico. Nell’occhio ipermetrope al
contrario avremo che i raggi maculari escono dal bulbo divergenti poiché la loro
vergenza negativa sarà maggiore del potere positivo del sistema diottrico cornea-
cristallino per cui non riesce ad essere totalmente compensata ed è quindi come
se insorgessero da un punto situato dietro alla regione maculare. Da ciò si deduce
come il punto remoto nell’ipermetropia sia virtuale e posizionato al di dietro del
bulbo oculare stesso.
Sia il punto prossimo sia il punto remoto possono essere misurati con una misura li-
neare che indica la distanza che lo separa dal bulbo
oculare, o con le diottrie che equivalgono all’inverso di ETÀ A.A. MEDIA
tale distanza espressa in metri. La differenza del valore 5 16,82
diottrico del punto prossimo e del punto remoto rappre- 6 17,25
senta l’ampiezza accomodativa, ossia la variazione di po-
7 15,79090909
tere che il cristallino è capace di attuare. Sappiamo bene
come l’ampiezza accomodativa si riduca progressivamen- 8 15,90909091
te con l’età. Essa è di circa 14 diottrie verso i 10 anni per 9 14,78333333
poi decrescere progressivamente fino ad annullarsi verso 10 14,93846154
i 65 anni. Pochi studi sono presenti sull’ampiezza accomo- 11 16,49166667
dativa nei bambini in età scolare ma si può evincere dai 12 13,86363636
dati attualmente presenti in letteratura che l’ampiezza
13 12,47272727
accomodativa media in età pediatrica risulta subire una
progressiva diminuzione (Figura 1) fino ai 10 anni per poi 14 12,91666667
attestarsi su valori di poco superiori alle 14 diottrie con 15 13,8
un andamento caratterizzato da lievi variazioni (Tabella 16 14,8
1), mentre nessun dato è riferibile ai bambini della pri- Tabella 1. Ampiezza
ma infanzia. accomodativa media per età
15. La refrazione in età pediatrica 229

Per evitare che l’accomodazione intervenga a viziare i risultati degli esami della
refrazione è consigliabile utilizzare i cicloplegici.

15.3 Cicloplegia

È noto come l’attività dell’accomodazione influenzi la situazione refrattiva modifi-


candola anche significativamente causando un aumento del potere del cristallino
con conseguente neutralizzazione e/o diminuzione delle ipermetropie ed aumento
delle miopie.
L’utilizzo dei cicloplegici consente di eliminare questo inconveniente. È necessario
ricordare come tutti i cicloplegici siano dei midriatici ma non tutti i midriatici siano
dei cicloplegici. La midriasi si instaura prima della cicloplegia e dura più a lungo di
quest’ultima per cui il diametro pupillare non è indice della situazione accomodati-
va raggiunta in seguito all’instillazione del cicloplegico.
Quando si instilla un collirio cicloplegico l’ampiezza accomodativa si riduce progres-
sivamente fino ad arrivare a valori minimi. Le tempistiche e la durata del blocco
cicloplegico variano a seconda del tipo di molecola che viene utilizzata. È opinione
comune che l’atropina ottenga risultati molto migliori rispetto alle altre molecole
sintetiche attualmente in commercio, ma ciò non corrisponde al vero, almeno nella
pratica quotidiana; l’utilizzo del ciclopentolato o della tropicamide può benissimo
sostituire i dati ottenuti con l’atropina. È infatti oramai quasi del tutto abbandonato
l’utilizzo dell’atropina sia per motivi di maneggevolezza sia per gli effetti collaterali
che essa può causare. Comunque sia solo raramente i cicloplegici riescono a pro-
vocare una paralisi totale del muscolo ciliare bensì ne riducono al livello minimo
l’attività in modo da consentire una certa quota di accomodazione residua altrimenti
detta ampiezza accomodativa residua che può arrivare anche a valori discretamente
elevati, circa 3- 4 diottrie, e di cui bisogna tenerne conto, quando la cicloplegia non
viene eseguita in maniera ottimale.
Generalmente l’utilizzo dei colliri cicloplegici determina, se ben utilizzati secondo
degli schemi standardizzati, un ampiezza accomodativa residua di circa 1 diottria,
1 diottria e mezza. Differente è l’effetto sul tono accommodativo. Purtroppo non
esiste nessun metodo per controllare al momento dell’esame in cicloplegia come
sia il tono accomodativo. Si può solo inferire tale dato dall’ampiezza accomodativa
residua considerando che se l’accomodazione è in qualche modo ancora in grado
di funzionare deve essere presente anche il tono accomodativo, proporzionalmente
a quest’ultima.
La quantificazione della quota di ampiezza accomodativa in età pediatrica può
essere eseguita solo in maniera indiretta. Dopo aver trovato in schiascopia la cor-
rezione che neutralizza l’ombra pupillare si attrae l’attenzione del piccolo paziente
su una mira lontana: la comparsa di un’ombra diretta indica che il paziente ha
rilasciato una certa quota di accomodazione residua che aveva esercitato, lo stesso
dicasi se si attrae l’attenzione su una mira vicina. La comparsa di un’ombra inversa
dimostra che il paziente ha esercitato un certo grado di accomodazione. La quota di
accomodazione residua si evince dal calcolo della differenza tra le lenti che neutra-
lizzano le ombre per lontano e per vicino con il metodo testè descritto.
Al fine di evitare che tale situazione possa compromettere la prescrizione è consi-
gliabile aggiustare di 1 D la correzione cicloplegica in atropina e di 0,5 D in ciclopen-
tolato e tropicamide
Infine vale la pena ricordare che prima di intraprendere l’esame della refrazione
è importante controllare che il cicloplegico abbia fatto il suo effetto considerando,
15. La refrazione in età pediatrica 230

oltre a quanto detto poco sopra, anche l’entità della midriasi, pur essendo quest’ul-
tima un segno relativamente poco congruente con l’entità della cicloplegia, la di-
namica pupillare residua eventualmente presente, indice di una cicloplegia ancora
insufficiente e ricordarsi che i pazienti con iride molto pigmentate rispondono meno
efficacemente ai cicloplegici, per cui in questi casi vale la pena considerare di au-
mentarne dosaggio
Le molecole che più vengono impiegate possono essere riassunte nello schema se-
guente:
– Ciclopentolato: instillare una goccia per occhio a distanza di 5 minuti l’una dall’al-
tra per due volte; effetto massimo dopo 30 minuti e dura circa 60 minuti. Eseguire
misura della refrazione tra 30 e 60 minuti dall’ultima instillazione. Accomodazione
residua 1D (sempre < 2D).
– Tropicamide: instillare una goccia per occhio a distanza di 10 minuti l’una dall’al-
tra per tre volte, ha un’efficacia minore del precedente, effetto massimo dopo 20
minuti e dura circa 15 minuti. Eseguire misura della refrazione tra 20 e 30 minuti
dall’ultima instillazione. Accomodazione residua 2D, midriasi molto marcata.
– Atropina: instillare una goccia per occhio a distanza di 10 minuti l’una dall’altra
per due volte al dì per tre giorni precedenti la visita; è il più efficace ma oramai il
meno usato, effetto massimo dopo 1-3 ore e dura 12-24 ore, recupero della accomo-
dazione in 10-15 giorni. Accomodazione residua < 1D.
L’esame della refrazione eseguito in cicloplegia presenta sia dei vantaggi sia de-
gli svantaggi. Ogni qual volta si applica l’esame in cicloplegia bisogna conside-
rare attentamente entrambe le cose per non incorrere in banali errori di valuta-
zione che possono compromettere la prescrizione corretta, ma non bisogna mai
dimenticare che la cicloplegia risulta il punto cardine nella prescrizione degli
occhiali nei bambini, senza la quale difficilmente si potranno risolvere adegua-
tamente i problemi rifrattivi e tutto ciò che ne consegue in termini di recupero
dell’ambliopia.

Vantaggi della cicloplegia


1. elimina cause di errore dovute alla accomodazione (aggiustare di 1D la correzio-
ne cicloplegica in atropina e di 0,5D in ciclopentolato o tropicamide)
2. consente l’esame schiascopico della regione maculare (osservare le ombre entro
4 mm di diametro)
3. è l’unico mezzo per valutare la refrazione fino a 4-5 anni
4. consente la valutazione dell’entità del tono accomodativo basale

Svantaggi
1. la cicloplegia è una condizione anomala, il ripristinarsi del tono accomodativo
basale può essere causa di errore nella valutazione dell’entità e dell’asse dei
piccoli astigmatismi
2. una cicloplegia incompleta determina errori di valutazione e conseguentemente
errori di prescrizione
3. la midriasi indotta rende più difficile la schiascopia per l’intervento di aberra-
zioni periferiche ed ombre che disturbano l’esecuzione dell’esame, per cui vanno
sempre e solo osservate le ombre entro i 4 mm centrali
4. può creare disturbi soggettivi.

13.3.1 Effetti collaterali dei cicloplegici


I colliri e le pomate utilizzate per la cicloplegia non sono scevri da possibili effetti
15. La refrazione in età pediatrica 231

collaterali anche se le pomate presentano minori possibili effetti collaterali. L’ap-


plicazione di un cicloplegico può dar origine ad una reazione allergica locale che si
manifesta con le caratteristiche di una dermato-congiuntivite allergica. Possono an-
che verificarsi sintomi legati ad una intossicazione sistemica, pur se quasi sempre di
lieve entità: arrossamento del volto, secchezza delle fauci,tosse stizzosa, tachicardia,
febbricola. I sintomi testè descritti sono tipici della somministrazione di atropina e
non richiedono trattamento, ma solo la sospensione della somministrazione. La com-
parsa di tali sintomi consente comunque l’esecuzione dell’esame della refrazione in
quanto sono un segno indiretto di un’efficace cicloplegia che si accompagna ad una
intossicazione generale.
Raramente possono presentarsi anche sintomi di natura psichica: il più lieve è la
sonnolenza associata a rush cutaneo. Molto di rado si può osservare agitazione moto-
ria, incoordinazione dei movimenti, delirio ed allucinazioni visive; il paziente fatica
a stare in piedi ed appare molto intontito. Tali disturbi sono più tipici degli alcaloidi
naturali quali l’atropina ma possono comparire anche con l’utilizzo del ciclopento-
lato, molecola che può passare la barriera ematoencefalica. Poiché i piccoli pazienti
hanno una barriera incompleta si sconsiglia l’uso del ciclopentolato sia nei bambini
al di sotto dei 3 anni sia nei soggetti cerebropatici o con storia di epilessia o semplici
convulsioni febbrili, o nei casi in cui l’anamnesi non sia raccoglibile. Si sconsiglia
l’uso del ciclopentolato anche nei bambini affetti da trisomia 21 dove è preferibile
utilizzare la tropicamide 1% collirio. In genere i disturbi regrediscono spontanea-
mente nel giro di 24 ore, ma se ne può accelerare la risoluzione somministrando
un sedativo. Raramente e solo nei casi di grave intossicazione si può somministrare
quale antidoto un parasimpaticomimetico, ad esempio fisiostigmina salicilato fiale.
La fisostigmina salicilato può essere somministrata sia per via endovenosa sia per
via intramuscolare. La dose iniziale di 0,5-1,2 mg può essere seguita da una seconda
dose qualora non si osservi nessuna risposta dopo 30 minuti. La velocità di sommini-
strazione non dovrebbe essere superiore a 1mg/min.
16. Il riflesso rosso del fundus e la rifrazione in età pediatrica 233

Capitolo 16 – Il riflesso rosso del fundus e la refrazione


in età pediatrica
A. Piantanida, R. Nobili

Tra i test che vanno effettuati dal pediatra entro i primi sei mesi di vita particolar-
mente importante è l’analisi del riflesso rosso pupillare, noto anche come red reflex
(Test di Bruckner). Con questo semplice esame è possibile diagnosticare precoce-
mente patologie oculari che, se scoperte tardivamente, possono essere causa di gravi
danni visivi permanenti: cataratta congenita, glaucoma congenito, retinoblastoma,
anomalie retiniche e difetti di refrazione. Per effettuare questo test è necessario
utilizzare un oftalmoscopio o in alternativa un buon otoscopio, escludendo durante
l’osservazione la lente di ingrandimento, l’esaminatore si pone a circa 80 cm dal
bimbo con l’oftalmoscopio davanti un occhio in una stanza poco illuminata; la luce
dello strumento viene prima proiettata su un occhio del bimbo e successivamente
nell’altro. In condizioni normali la luce proveniente dall’oftalmoscopio attraversa
le parti trasparenti dell’occhio (film lacrimale, cornea, cristallino e umore acqueo);
una volta raggiunto il fundus oculi, viene riflessa attraverso i mezzi trasparenti e l’a-
pertura dell’oftalmoscopio per poi raggiungere l’occhio dell’esaminatore. (Figura 1)
L’oftalmoscopio originale di Helmotz era di difficile uso essendo necessario che en-
trambi gli occhi, quelli del soggetto e quelli dell’osservatore, fossero esenti da difetti
di refrazione e capaci di mantenere durante l’osservazione la messa a fuoco su un im-
maginario punto lontano. Per ovviare a questi inconvenienti era necessario ricorrere
a particolari lenti correttive. Gli oftalmoscopi moderni continuano ad essere basati
sul principio di Helmotz e cioè che l’osservazione della retina è possibile solo se
l’occhio dell’osservatore e la sorgente luminosa sono posti sullo stesso asse. Gli oftal-
moscopi hanno una fonte di illuminazione propria, che crea un fascio luminoso che,
dall’interno dell’apparecchio, un sistema di prismi o specchi, proietta sulla stessa
linea di visione dell’osservatore.(Figura 2) Nella testa dell’apparecchio è contenuto
un intero “set” di lenti (circa 14) detto disco di Rekoss, che possono essere interposte
sull’asse di osservazione in modo da correggere i difetti refrattivi dell’esaminatore e
del soggetto. La manovra da effettuare per passare da una lente all’altra è rapidissi-
ma (basta ruotare una rotellina) e può essere effettuata con un dito anche durante
l’osservazione della retina. In una piccola finestrella compaiono dei numeri che cor-

Figura 1. Il riflesso rosso nel bambino


privo di patologia si presenta uniforme
su tutto l’ambito pupillare

Figura 2. Principi di ottica dell’oftalmoscopio


diretto
16. Il riflesso rosso del fundus e la rifrazione in età pediatrica 234

Figura 3. Oftalmoscopio diretto

rispondono alle diottrie della lente inserita: i numeri scritti in rosso si riferiscono
a lenti negative (divergenti) utilizzate per correggere la miopia. I numeri scritti in
nero si riferiscono a lenti positive (convergenti) utilizzate per correggere l’iperme-
tropia. (Figura 3)
L’oftalmoscopio possiede anche un’altra rotella posizionata sul retro dell’oftalmosco-
pio (lato paziente), che ci permetterà di scegliere differenti tipi di aperture come stel-
lina di fissazione, diverse dimensioni piatte, semicerchio, fenditura e filtro verde e blu.

Grazie a questi miglioramenti tecnologici l’oftalmoscopio è diventato uno strumen-


to pratico e adatto all’uso quotidiano, in talune situazioni diventa addirittura uno
strumento tascabile e sempre pronto all’uso. Il modo migliore per imparare ad usare
l’oftalmoscopio è di esercitarsi ripetutamente. Per utilizzare l’oftalmoscopio è essen-
ziale che lo sguardo del soggetto osservato sia rivolto su un oggetto lontano ed è pre-
feribile osservare il paziente da seduto. La prima operazione da effettuare, quindi,
sarà quella di correggere lo strumento per l’eventuale difetto refrattivo dell’osserva-
tore ed esaminare il paziente in una stanza scarsamente illuminata. Anche quando
l’oftalmoscopio non è ancora perfettamente a fuoco osservando il foro pupillare da
una distanza di 20 cm si vedrà una luminescenza rossa emergere dall’occhio del sog-
16. Il riflesso rosso del fundus e la rifrazione in età pediatrica 235

getto normale. Questo riflesso rosso origina


dai capillari della coroide e torna indietro
passando attraverso la retina ed i mezzi diot-
trici dell’occhio. Ogni riduzione di questo Figura 4. Nella cataratta congenita in riflesso
rosso sarà assente, mentre nel caso in cui la
riflesso rosso suggerisce l’opacizzazione dei cataratta fosse polare posteriore (puntiforme)
mezzi diottrici. (Figura 4, Figura 5) al test del riflesso rosso sarà ben evidente un
Riguardo al test di Bruckner viene riferita puntino nero più o meno al centro del riflesso.
in letteratura una sensibilità del 91% ed
una specificità del 72,8%, questo test con-
sente quindi una valutazione rapida ed ef-
ficace dei difetti rifrattivi e del rischio di
ambliopia ad essi correlato.
La specificità di un test indica la sua capa-
cità di diagnosticare i pazienti normali ap-
plicando il test, mentre la sensibilità indica
Figura 5. Il retinobalstoma si presenta al test
la capacità di diagnosticare i pazienti affetti del riflesso rosso con una leucocoria o riflesso
dalla malattia applicando il test. Data l’ele- bianco riflettente (tipo occhio di gatto).
vata sensibilità e specificità del test si avrà
un basso rischio di falsi positivi e falsi nega-
tivi, ed un valore predittivo positivo e negativo elevati. Ricordiamo che il valore pre-
dittivo positivo indica la probabilità di avere una patologia in caso di un test positivo,
mentre il valore predittivo negativo indica la probabilità di avere un paziente non
affetto in caso di un test negativo.
È chiaro che un test sensibile e specifico al 100% non lascerebbe dubbi ma il test del
riflesso rosso è comunque un validissimo aiuto in sede di visita oculistica o ancor me-
glio durante l’esecuzione degli screening visivi in età pediatrica. Possiamo affermare
con sicurezza che il test del riflesso rosso ha un efficacia elevata in quanto produce
risultati diagnostici certi sia in condizioni ideali sia nella pratica clinica quotidiana.
Nel momento in cui il test del riflesso rosso risulta positivo per difetti refrattivi le
situazioni che possono presentarsi sono numerose: dobbiamo quindi valutare la di-
mensione, la posizione, la direzione e il movimento dell’ombra presente nel riflesso
rosso (Tabella 1). Ogni caratteristica che andremo ad osservare ci indicherà il tipo di
difetto refrattivo e tramite la schiascopia a striscia potremo in un secondo momento
calcolare la sua entità. È importante ricordare che la larghezza della banda lumino-
sa dello schiascopio a striscia dipende dall’entità dell’ametropia che risulta tanto

Posizione crescente Dimensioni crescente Interpretazione


Assente - Emmetropia
Inferiore < 10% Miopia lievissima <1D
Inferiore 10% / 20% Miopia lieve (1D-2D)
Inferiore 20% / 50% Miopia moderata (2D-5D)
Inferiore > 50% Miopia elevata ( >5D)
Superiore < 10% Ipermetropia lievissima <1D
Superiore 10% / 20% Ipermetropia lieve (1D-2D)
Superiore 20% / 50% Ipermetropia moderata (2D-5D)
Superiore > 50% Ipermetropia elevata (>5D)
Tabella 1
16. Il riflesso rosso del fundus e la rifrazione in età pediatrica 236

più elevata quanto più la banda luminosa


sarà stretta, anche il colorito della banda
luminosa ci può indicare l’entità del difet-
to tanto più è pallido tanto più il difetto
Figura 6
sarà elevato.

16.1 Quadri clinici del riflesso rosso

In presenza di emmetropia non verranno


osservate ombre e quindi non dovranno es-
serci differenze tra i due occhi. (Figura 6)
Nelle ametropie maggiori di due diottrie
Figura 7
il riflesso bianco giallastro presente ci in-
dicherà il tipo di difetto refrattivo preva-
lentemente in base al suo posizionamen-
to.(Figura 7) Nell’ipermetropia il riflesso
bianco giallastro sarà posizionato in alto
mentre in presenza di miopia il riflesso
sarà posizionato in basso.
Per quanto riguarda l’astigmatismo il ri- Figura 8
flesso bianco giallastro si potrà presenta-
re lateralmente o inclinato obliquamente.
(Figura 8)
In presenza invece di anisometropia e an-
timetropia il riflesso bianco giallastro che
ci si presenterà sarà evidentemente diver-
so tra i due occhi, un riflesso in basso e
uno in alto, un riflesso obliquo e l’altro in
basso e cosi via dicendo. (Figura 9)
Tramite l’ofalmoscopio si può valutare
orientativamente l’entità del difetto re- Figura 9
frattivo per avere una rapida quantifica-
zione dello stato della refrazione anche
nei casi in cui si abbia una scarsa collaborazione da parte del paziente. Tramite que-
sta tecnica, che si basa sui principi della schiascopia statica di Strampelli, ponendo
l’oftalmoscopio ad una distanza di circa 50 cm dal paziente l’ombra che ci apparirà
superiormente alla banda luminosa indicherà che il meridiano verticale è miope di
circa 2 diottrie, se invece l’ombra apparirà inferiormente indicherà che il meridiano
verticale è ipermetrope di circa 2 diottrie. Questo metodo permette valutazioni poco
precise sull’entità del vizio refrattivo ma è molto utile se viene utilizzato ad una di-
stanza tale da illuminare entrambi gli occhi cosi da andare a valutare i riflessi rossi
che potrebbero evidenziare rapidamente l’esistenza di anisometropie anche di lieve
entità. In casi di particolare necessità risulta possibile ottenere una quantificazione
più precisa del difetto refrattivo utilizzando le lenti poste sul disco di Rekoss che
permettono di focalizzare un’immagine nitida del fondo oculare: si può ottenere una
valutazione approssimativa del difetto visivo sferico o del suo equivalente sferico,
che è tanto più accurata quanto più emmetrope e meno attiva è l’accomodazione
dell’osservatore, calcolando il potere delle lenti necessarie per focalizzare il fondo
dell’occhio. La presenza di un astigmatismo può essere determinata dalla necessità
di modificare le lenti del disco di Rekoss per mettere a fuoco vasi retinici ortogonali.
17. La Schiascopia in età pediatrica 237

Capitolo 17 – La Schiascopia in età pediatrica


A. Piantanida
È il metodo obbiettivo più pratico e più semplice per la determinazione della refra-
zione. Fu ideato nel 1873 da Cuignet. È una tecnica precisa ed abbastanza accurata
che consente delle buone valutazioni della refrazione anche nei pazienti poco col-
laboranti e che non mette in gioco l’accomodazione prossimale. Oggigiorno viene
eseguita con uno strumento detto schiascopio a striscia, gli specchi piani e concavi
ricoprono oramai solo un significato storico. Con questo metodo l’esame della re-
frazione si ottiene tenendo conto dell’ombra che compare al margine della pupilla
quando viene illuminato il fondo dell’occhio e si fanno fare piccoli movimenti allo
schiascopio. La luce che è presente nel campo pupillare corrisponde alla porzione di
fondo dell’occhio che viene illuminata e viene definita come riflesso pupillare.
Lo schiascopio è uno strumento composto da una sorgente luminosa, una lente con-
densatrice e uno specchio che può presentare un foro nella parte centrale oppure
essere uno specchio semitrasparente, in modo che l’esaminatore possa controllare la
luce riflessa dall’occhio esaminato lungo la direzione del fascio luminoso prodotto
dallo schiascopio stesso. La radiazione luminosa emessa dallo schiascopio a striscia è
una fessura prodotta da una lampadina a filamento, che ha spessore regolabile e può
essere ruotata attorno all’asse dello strumento; la striscia luminosa, ruotata oppor-
tunamente, permette di determinare con maggior precisione l’asse dell’eventuale
astigmatismo presente. (Figura 1)
L’utilizzo degli schiascopi a striscia ha sicuramente semplificato la tecnica dell’esa-
me ma non si può prescindere dalla conoscenza del significato delle ombre e dai me-
todi di controllo dei risultati ottenuti al fine di ridurre al minimo gli eventuali errori
di valutazione della misura del difetto refrattivo. Esistono inoltre delle regole ben
precise di esecuzione dell’esame che vanno sempre
rispettate al fine di ottenere buoni risultati.
La distanza cui viene eseguito l’esame schiascopico
influenza il calcolo diottrico finale legato all’acco-
modazione dell’operatore (Tabella 1), ossia bisogna
tenere presente che se le lenti anteposte sono len-
ti negative bisogna aumentare il valore ottenuto al
punto neutro in base al valore diottrico influenzato
dalla distanza paziente esaminatore; se invece le
lenti anteposte sono lenti positive bisogna diminuire
il valore ottenuto al punto neutro in base al valore
diottrico influenzato dalla distanza paziente esami-
natore.
L’esame va eseguito in un ambiente con scarsa illu-
minazione, il diametro pupillare dovrebbe essere di
circa 3/5 mm., la distanza di esecuzione tra occhio

Valore diottrico distanza paziente esaminatore


1. 50 cm = 2 diottrie
2. 67 cm = 1,5 diottrie
3. 1 metro = 1 diottria
Tabella 1 Figura 1. Schiascopio a striscia
17. La Schiascopia in età pediatrica 238

del paziente ed occhio dell’osservatore dovrebbe essere compresa tra 40 cm ed 1


metro. Distanze minori rendono difficile la schiascopia, distanze maggiori invece
non consentono una posizione comoda per l’esaminatore. Normalmente non si ese-
gue la schiascopia al di sotto dei 50 cm. Le distanze minori consentono un cambio
più agevole delle lenti sulla montatura di prova o la rotazione dei cilindri in caso
di astigmatismo, evidenziano una luce pupillare più intensa e permettono di con-
seguenza più ampie escursioni dello schiascopio. Le distanze ravvicinate però non
consentono grandi modifiche da parte dell’esecutore della distanza dal paziente: a
50 cm di distanza basta spostarsi di 6/7 cm per avere variazioni di 0,25 diottrie del
potere misurato, mentre ad 1 metro occorrono movimenti di 25/30 cm per avere la
stessa entità di variazione. Come in tutte le cose la situazione migliore la si ottiene
ad una distanza intermedia. È a circa 67 cm dall’occhio del paziente che ho il minimo
di inconvenienti. Poiché la distanza di osservazione dall’occhio del paziente condizio-
na le modificazioni da apportare alla correzione ottenuta che neutralizza il riflesso
pupillare, detta punto neutro, ogni errore di distanza influenza il dato sferico finale
mentre ciò non si può dire del dato astigmatico.

17.1 La schiascopia a striscia

Per prima cosa osserviamo comparire una striscia luminosa sul campo pupillare dove
è presente il riflesso rosso del fundus. Lo schiascopio o retinoscopio a striscia forni-
sce un riflesso caratteristico costituito da una banda luminosa delimitata ai lati da
due zone d’ombra. Muovendo la striscia su meridiani orizzontale e verticale osservo
un movimento della luce che può essere concorde, ossia segue la stessa direzione del
movimento del retinoscopio oppure discorde (Figura 2) cioè si evidenzia su un meri-
diano differente dalla direzione del movimento del retinoscopio; tale situazione è
tipica della presenza di un astigmatismo. Il movimento della banda luminosa inoltre
è accompagnato da un’ombra che può essere diretta (Figura 3), ossia segue il movi-
mento della banda luminosa nella stessa direzione (movimento diretto) oppure inver-
sa (Figura 4) ossia compare all’opposto del movimento della banda luminosa (mo-
vimento inverso). Nel movimento diretto il punto coniugato retinico si trova dietro
all’occhio dell’esaminatore per cui c’è bisogno di lenti positive per portarlo a livello
dell’occhio dell’esaminatore. Nel movimento inverso il punto coniugato retinico si
trova davanti all’occhio dell’esaminatore per cui c’è bisogno di lenti negative per
portarlo a livello dell’occhio dell’esaminatore. L’orientamento della striscia può es-
sere variato facendo ruotare il manicotto su se stesso: la striscia esplora la refrazione
del meridiano perpendicolare al suo asse, per cui il movimento del retinoscopio deve
essere effettuato sul meridiano perpendicolare alla striscia stessa. Da notare però

Figura 2. Movimento discorde Figura 3. Movimento Figura 4. Movimento


concorde ed Ombra diretta concorde ed Ombra inversa
17. La Schiascopia in età pediatrica 239

come la presenza di una striscia o banda luminosa di per


sé non indichi la presenza di un astigmatismo, che invece
è evidenziato dalla congruità tra banda luminosa e stri-
scia dello schiascopio. La schiascopia a striscia consente
un’ottima osservazione dei movimenti diretti del riflesso
pupillare mentre quelli inversi risultano di più difficile
evidenziazione, è consigliabile pertanto in questi casi fo-
calizzare l’attenzione sulla periferia del campo pupillare
dove è più facile vedere comparire l’ombra inversa. L’ob- Figura 5. Punto neutro,
biettivo finale è la ricerca del punto neutro. notare l’assenza di ombre
Il punto neutro rappresenta la zona di intervallo com-
presa tra il primo segno di movimento diretto dell’ombra schiascopica ed il primo
segno di movimento inverso della stessa, tale zona è caratterizzata dalla completa
assenza di movimento. Il punto neutro pertanto non corrisponde al punto di inver-
sione del movimento dell’ombra schiascopica. La difficoltà nella determinazione del
punto neutro comporta spesso come conseguenza una sovrastima delle ipermetro-
pie, in quanto per ottenere l’inversione dell’ombra si è costretti a superare la “zona
neutra”aumentando il valore delle lenti sferiche positive, determinando pertanto un
valore diottrico finale superiore a quello reale. Nelle miopie se si attende l’inversio-
ne dell’ombra da inversa a diretta per stimare il punto neutro, si viene a determinare
la creazione di una miopia artificiale inferiore al valore della distanza paziente esa-
minatore in quanto si è spostato il punto neutro dietro di sé di fatto ipermetropizzan-
do il paziente; la correzione finale negativa a questo punto dovrà essere aumentata
di un valore inferiore al valore della distanza esaminatore paziente per ottenere il
risultato corretto pena una eccesso di correzione del difetto miopico. Nelle miopie,
dove è più difficile evidenziare l’ombra inversa, conviene sempre partire dall’ombra
diretta e diminuire il valore fino alla comparsa dell’ombra inversa. In generale è sem-
pre consigliabile arrivare all’ombra inversa da un’ombra diretta, specie nei difetti
rifrattivi di lieve entità.
La neutralizzazione di un meridiano si ottiene mantenendo il fascio luminoso di rag-
gi divergenti ed una striscia larga (manicotto del retinoscopio in basso): l’assenza
della banda pupillare e l’illuminazione diffusa del campo pupillare che non consente
di evidenziare alcun movimento segnalano il punto neutro. (Figura 5) La difficoltà di
determinare il punto neutro può essere superata muovendosi molto avvicinandosi ed
allontanandosi dal paziente: ciò ci consentirà di entrare nella zona ad ombra diretta,
avvicinandosi, e nella zona ad ombra inversa allontanandosi.
La schiascopia a striscia consente di rilevare facilmente la presenza di astigmatismi
anche di lieve entità determinando i meridiani principali ed il potere con una pre-
cisione superiore a qualsiasi altro metodo (ad es. con lo specchio piano e concavo).
L’esame dell’astigmatismo diventa facile e preciso: si deve innanzitutto neutralizzare
con lente sferica il meridiano più miope o meno ipermetrope ottenendo una banda
luminosa con movimento diretto sul meridiano perpendicolare. Si antepongono ci-
lindri positivi il cui asse deve corrispondere alla direzione della banda luminosa;
la striscia e la banda luminosa formano una linea continua solo quando la striscia
corrisponde esattamente al meridiano su cui va posto il cilindro positivo. Una volta
ottenuto tale allineamento si assottiglia la striscia luminosa per avere indicazione
dell’asse dell’astigmatismo osservando il meridiano sul portalenti su cui va posizio-
nata la lente cilindrica positiva.
A questo punto ottenuta la neutralizzazione del secondo meridiano dobbiamo con-
trollare la correttezza della posizione dell’asse del cilindro ed il potere del cilindro
stesso.
17. La Schiascopia in età pediatrica 240

Controllo dell’asse del cilindro


• valuto la refrazione sui meridiani a 45° dal mio asse. Si riduce distanza dal pa-
ziente per avere un’ombra diretta su entrambi i meridiani, quindi ci si allontana,
alternando il movimento della striscia su entrambi i meridiani posti a 45°;
• se la neutralizzazione di questi meridiani avviene contemporaneamente l’asse è
corretto;
• se la neutralizzazione avviene solo su un meridiano e sull’altro ho un’ombra di-
retta è necessario correggere la posizione del cilindro ruotando l’asse di qualche
grado dalla parte dell’ombra diretta.

Controllo del potere del cilindro


• si riduce la distanza di osservazione come in precedenza fino ad ottenere un’ombra
diretta su entrambi i meridiani principali, poi ci si allontana progressivamente
esplorando i meridiani per controllare se l’estinzione dell’ombra diretta avviene
contemporaneamente in entrambi;
• quando il potere del cilindro è insufficiente o eccessivo, l’astigmatismo non cor-
retto o quello creato dal cilindro in eccesso, fa sì che su uno dei due meridiani
compaia un’ombra neutra mentre sull’altro un’ombra diretta;
• aggiustare quindi il potere aggiungendo lenti cilindriche di potere positivo fino ad
ottenere un’ombra neutra anche su questo meridiano.

17.2 La schiascopia sferica

È sicuramente da considerare la tecni-


ca più semplice da eseguire e conside-
ra l’utilizzo delle sole lenti con potere
sferico. In sostanza lo scopo è quello
di neutralizzare l’ombra schiascopica
su tutti i meridiani contemporanea-
mente in presenza di una ametropia
sferica, oppure in caso di ametropia
astigmatica, prima su un meridiano e
successivamente sul meridiano oppo-
sto: nella pratica clinica si utilizzano
le stecche di lenti (Figura 6). Posto Figura 6. Stecche per sciascopia sferica
lo schiascopio in posizione standard
esamino i meridiani orizzontale e ver-
ticale e gli obliqui (90°, 180°, 45°, 135°). Se non si osservano segni della presenza di
difetti astigmatici (un movimento diretto su un meridiano ed un movimento inverso
sull’altro, una banda luminosa con l’asse discorde rispetto all’asse della striscia, un
margine più netto e rettilineo su un meridiano) si antepongono lenti sferiche pro-
gressivamente maggiori per portare il punto neutro sull’occhio dell’esaminatore. In
caso di ipermetropie ed emmetropie le lenti positive portano i raggi dall’occhio esa-
minato convergenti sull’occhio

Trucchi per semplificare la schiascopia


• Larghezza banda: tanto è più elevata l’ametropia tanto più stretta è la banda lumi-
nosa; se la larghezza è diversa su i due meridiani ortogonali è presente astigmati-
smo
17. La Schiascopia in età pediatrica 241

• Colorito: in ametropie elevate è pallido


• Margini: tanto più rettilinei quanto più ametrope è la refrazione del meridiano
perpendicolare alla striscia
• Orientamento: quando non c’è astigmatismo corrisponde esattamente all’orienta-
mento della striscia, se non coincide (movimento discorde) c’è astigmatismo
• Usare l’occhio omologo a quello esaminato: si valuta la refrazione foveale senza
intralciare la fissazione
• Eseguire l’esame in ambiente con illuminazione scarsa
• Diametro pupillare deve essere di circa 3/5 mm
• Distanza utile dal paziente 67 cm = 1,50D (più piccola è la distanza > è la luce in
campo pupillare; handicap: variazioni di 6/7 cm cambiano il valore di +- 0,25D a 50
cm di distanza)
• Cercare punto neutro
• Osservazione ombra centrale: non osservare ombre periferiche da aberrazione

17.3 Cause di errore nella schiascopia

Una schiascopia eseguita in modo corretto dovrebbe essere effettuata solo sula re-
gione foveale. Se ne deduce che pertanto dovrebbe essere eseguita sempre in ciclo-
plegia, la miosi ottenuta dall’abbagliamento della mira luminosa del retinoscopio di
fatto ne impedisce l’esecuzione. Nella pratica clinica quotidiana la schiascopia va ef-
fettuata lungo un asse vicino all’asse visivo ma non su di esso, così facendo i risultati
ottenibili non sono differenti da quelli registrabili qualora venisse effettuata sull’as-
se visivo, purchè l’obliquità di esecuzione non superi certi limiti. La schiascopia va
eseguita tra il bordo nasale della papilla e la regione foveale con un’obliquità che
non deve superare i 5°-6°. Gli errori di misura indotti da una osservazione obliqua
acquistano importanza al di là di 10° di obliquità rispetto all’asse visivo. Quando po-
sizioniamo una lente sferica obliquamente essa aumenta il suo valore sferico ed ac-
quista un valore cilindrico proporzionale all’entità dell’obliquità ed al potere della
lente, il cui asse corrisponde all’asse di rotazione della lente stessa. Nell’esecuzione
della schiascopia nella posizione temporale all’asse visivo il diottro oculare, che va
considerato come una lente sferica, risulta come se fosse ruotato nasalmente su di
un asse verticale, per cui risulta facile comprendere che l’obliquità introduce il valo-
re di un cilindro positivo ad asse verticale che diminuisce l’entità degli astigmatismi
secondo regola ed aumenta quella degli astigmatismi contro regola.
La schiascopia per cui se effettuata obliquamente può segnalare la presenza di astig-
matismi inesistenti o modificare l’asse ed il potere di quelli realmente presenti, ed
anche modificare il potere della refrazione sferica, oltre a creare ombre anomale.
Come regola eseguendo l’esame alla distanza standard di 67 cm. dal paziente va
ricordato che spostamenti laterali obliqui di esecuzione entro i 5 cm. non alterano il
risultato mentre gli errori diventano sempre più frequenti oltre i 15 cm.
Un’ulteriore causa di errore nella schiascopia è rappresentata dall’accomodazione
presente. Essa rende i risultati estremamente approssimativi in quanto nel corso
dell’esame si succedono livelli differenti di accomodazione dovuti al variare della
messa a fuoco del paziente. Ciò accade in maniera estremamente cospicua nei bam-
bini pertanto per evitare errori risulta essenziale, specie in età pediatrica eseguire
l’esame in cicloplegia. Qualora fossimo impossibilitati a ciò va ricordato che è ne-
cessario mettere in atto alcuni accorgimenti per evitare il più possibile l ‘interfe-
renza dell’accomodazione. Un’illuminazione ambientale moderata, il porre la mira
17. La Schiascopia in età pediatrica 242

di fissazione ad almeno 5 metri di distanza, una mira di fissazione sufficientemente


grande da essere distinta in maniera agevole così da non richiedere una messa a fuo-
co precisa, un ambiente tranquillo potranno contribuire ad eseguire la schiascopia
riducendo al minimo gli errori.
Da ricordare come sia necessario nell’esecuzione dell’esame usare sempre l’occhio
omologo a quello esaminato, ossia l’occhio destro quando esamino l’occhio destro
del paziente, e l’occhio sinistro quando esamino l’occhio sinistro del paziente sia per
evitare errori di parallasse sia per non frapporsi lungo la linea di osservazione della
mira di fissazione.
In presenza di un diametro pupillare ampio si possono rendere visibili delle ano-
malie della banda luminosa pupillare causate da aberrazioni sferiche indotte dalle
porzioni periferiche del diottro oculare. Quando osserviamo il riflesso pupillare esso
risulta costituito da due zone principali, una centrale ed una periferica divise da
un anello d’ombra; spesso il riflesso della periferia si muove in direzione opposta
a quello della zona centrale specie quando si esegue la schiascopia in cicloplegia
con midriasi massima. In queste situazioni è bene porre attenzione all’ombra ed ai
movimenti della zona centrale ignorando di fatto la zona periferica, ed inoltre è pos-
sibile in molti casi abolire le anomalie del riflesso pupillare cambiando la distanza o
l’obliquità di osservazione. Solo in casi particolari come la presenza di astigmatismi
irregolari o patologie della cornea quali il cheratocono non è possibile eseguire la
schiascopia per la comparsa di movimenti anomali dell’ombra pupillare detti mo-
vimenti a forbice, in quanto il riflesso appare diviso in due bande luminose che si
muovono in direzione opposta.

17.4 La schiascopia cilindrica

È una tecnica di esame abbastanza complessa ma anche molto sofisticata che con-
sente di ottenere informazioni sia sull’asse dell’astigmatismo sia sul potere di esso.
L’utilizzo dei retinoscopi ha di fatto semplificato la tecnica della schiascopia consen-
tendo una sufficiente precisione ed accuratezza utilizzando le combinazioni sfero-
cilindriche. Molte regole però, che servono per il controllo dell’asse e del potere
dell’astigmatismo determinato dalla schiascopia a striscia, non possono prescindere
dalla conoscenza della schiascopia cilindrica: se siamo di fronte ad una ametropia
astigmatica il metodo più preciso ed accurato è proprio la schiascopia cilindrica.
Quando è presente un astigmatismo come si è già detto precedentemente possia-
mo osservare sui meridiani esplorati (90°, 180°, 45°, 135°) un movimento diretto ed
uno inverso dell’ombra schiascopica, una larghezza della banda luminosa differente
sui vari meridiani ed un movimento discorde della stessa. Mentre nelle ametropie
sferiche la medesima lente sferica neutralizza tutti i meridiani, negli astigmatismi
occorre anteporre all’occhio in due tempi successivi due lenti di potere differente:
– due sfere
– due cilindri
– una combinazione sfero cilindrica.
Se uso due lenti sferiche la lente che neutralizza un meridiano crea sul meridiano
opposto un’ombra di senso contrario che disturba l’osservazione del meridiano esa-
minato, se invece uso lenti cilindriche non ho questa interferenza e ciò mi consente
un calcolo più accurato del potere dell’astigmatismo da correggere.
Per comprendere appieno la tecnica di esame della schiascopia cilindrica è di fonda-
mentale importanza capire alcune regole fondamentali.
17. La Schiascopia in età pediatrica 243

Quando inserisco una lente


cilindrica allo scopo di neutra-
lizzare un astigmatismo su un
meridiano non corrispondente
a quello corretto si crea una
combinazione di due cilindri
di segno contrario che possono
avere potere uguale o diffe-
rente. Qualsiasi combinazione
di cilindri ad assi obliqui dà
origine ad una combinazione
sfero-cilindrica i cui assi sono
perpendicolari ed occupano
meridiani differenti da quelli
dei due cilindri originali. L’an-
golo che equivale alla distan-
za degli assi dei due cilindri
originali viene detto angolo di Figura 7. Angolo cilindri
incrociamento.
Quando 2 cilindri che si incrociano obliquamente hanno potere uguale:
– l’intervallo che separa l’asse di uno dei cilindri della combinazione originaria
dall’asse del cilindro di ugual segno della combinazione risultante è sempre
45°+1/2 dell’angolo di incrociamento, mentre dall’asse del cilindro di segno oppo-
sto è sempre 45°-1/2 dell’angolo di incrociamento.
Quando 2 cilindri che si incrociano obliquamente hanno potere differente:
– l’intervallo che separa l’asse di uno dei cilindri della combinazione originaria
dall’asse del cilindro di ugual segno della combinazione risultante è sempre diffe-
rente da 45°+1/2 o 45°-1/2 dell’angolo di incrociamento ossia può essere maggiore
o minore di tale valore.
Nel caso i 2 cilindri siano di potere uguale l’asse del cilindro risultante si trova equi-
distante dalla bisettrice dell’angolo di incrociamento, mentre se si incrociano 2 ci-
lindri di potere differente l’asse del cilindro risultante è spostato verso l’asse del
cilindro originario di potere maggiore.
Per semplificare la schiascopia cilindrica è sempre consigliabile cercare di eviden-
ziare ed utilizzare l’ombra diretta, per ottenerla bisogna portare al punto neutro il
meridiano principale più miope o meno ipermetrope cosicché l’altro meridiano resti
ipermetrope od artificialmente ipermetrope rispetto all’occhio dell’osservatore.
(Figura 7)

17.4.1 Controllo dell’asse


L’angolo formato dal cilindro positivo e dall’asse dell’ombra diretta viene chiamato
angolo di direzione: tale angolo serve per indicare il senso di rotazione della nostra
lente cilindrica, ossia la posizione dell’asse dell’ombra diretta ci indica la direzione
verso la quale dobbiamo ruotare il cilindro per portarlo nella posizione esatta. Fac-
ciamo un esempio: se ho un ombra diretta su un meridiano a 100° di circa 2 diottrie
e inserisco una lente cilindrica sull’asse corrispondente all’ombra diretta. Se colloco
la lente esattamente sull’asse corretto l’ombra si estingue e si osserverà un ombra
neutra su tutti i meridiani, se invece inserisco il cilindro in una posizione scorretta
ad esempio 80° si formerà una combinazione di due cilindri ossia un angolo di incro-
ciamento. A questo punto cosa può succedere?
17. La Schiascopia in età pediatrica 244

Abbiamo detto che nel caso i 2 cilindri siano di potere uguale (ossia il mio cilindro ha
lo stesso potere diottrico dell’astigmatismo che devo correggere) l’asse del cilindro
risultante si trova equidistante dalla bisettrice dell’angolo di incrociamento, mentre
se si incrociano 2 cilindri di potere differente (ossia il mio cilindro non ha lo stesso
potere diottrico dell’astigmatismo che devo correggere) l’asse del cilindro risultante
è spostato verso l’asse del cilindro originario di potere maggiore.
Vediamo comparire un’ombra diretta con l’asse su un meridiano che dista più di 45°
da quello su cui si trova il cilindro che abbiamo inserito ed un’ombra inversa sul me-
ridiano perpendicolare a quello ottenuto. La posizione dell’asse dell’ombra diretta ci
indica la direzione verso la quale occorre ruotare il cilindro di inserito per portarlo
nella posizione esatta. Tale tecnica pertanto ci consente il controllo dell’asse dell’a-
stigmatismo rilevato. In numeri: se ho messo cil +2 ad 80° ho un angolo di incrocia-
mento di 20° (tra l’astigmatismo a 100° ed il mio cilindro a 80°) quindi osserverò un
ombra diretta sull’asse risultante dalla somma 80° + 55° = 135°. (55° deriva da 45° +
10°, ossia metà angolo incrociamento, = 55°) vedrò un’ombra inversa perpendicolare
ad esso vale a dire dalla parte opposta rispetto all’ombra che vedo girata di 90°ossia
a 45° (135° - 90° = 45°) Se invece voglio attenermi alla regola matematica posso trova-
re il meridiano opposto eseguendo il calcolo come prima e ritrovo lo stesso risultato
80°- 35° = 45° (35° deriva da 45°- 10°, ossia metà angolo incrociamento, = 35°) Se quin-
di l’ombra diretta dista dall’asse del cilindro di 2 diottrie di un angolo di direzione
ampiamente maggiore di 45° significa che esso dista di un ampio intervallo dall’asse
corretto, un angolo di direzione invece di poco superiore a 45° indica che il cilindro
di 2 diottrie si trova molto vicino all’asse corretto. L’entità dell’angolo di direzione
quindi indica l’ampiezza dello spostamento che devo far compiere al mio cilindro di
2 diottrie per arrivare al meridiano esatto.
Per riassumere in breve i passaggi sopra descritti:
• Anteporre lenti sferiche per estinguere movimento su meridiano meno iperme-
trope o più miope. Ottengo ombra diretta sul meridiano opposto che è l’asse della
banda pupillare (se astigmatismo elevato restringere striscia dello schiascopio per
evidenziare meglio la banda)
• Inserire lente cilindrica (potere si evince da larghezza banda e da differenza sui 2
meridiani) coincidente con asse della banda: si ottiene movimento concorde.
• Si legge sul portalenti il meridiano (asse principale dell’astigmatismo) e si control-
la posizione dei meridiani che si trovano a 45° da una parte e dall’altra dell’asse
rilevato. Se non compare l’ombra diretta significa che ho messo un cilindro di pote-
re corretto e sull’asse esatto. Se invece l’ombra diretta dista dall’asse del cilindro
inserito di un angolo di direzione ampiamente maggiore di 45° significa che il no-
stro cilindro dista di un ampio intervallo dall’asse corretto, un angolo di direzione
invece di poco superiore a 45° indica che il cilindro inserito si trova molto vicino
all’asse corretto.

17.4.2 Controllo del potere


Ma non basta devo rilevare anche il potere dell’astigmatismo che ho corretto per
poter conoscere se ho utilizzato una lente cilindrica con potere differente dall’a-
stigmatismo effettivo. L’angolo di rotazione è l’angolo che formo spostando il mio
cilindro dall’asse che ho trovato per controllare il potere. Le piccole oscillazioni
pendolari del cilindro intorno al meridiano su cui la lente viene collocata, oltre a
permettere un costante controllo dell’esattezza dell’asse, consentono ragguagli im-
portanti sull’esattezza del potere di astigmatismo già corretto e della quota che resta
da correggere. Una volta inserito un cilindro di potere lievemente inferiore a quello
17. La Schiascopia in età pediatrica 245

presunto, per controllare la situazione, aumento gradualmente il potere del cilindro


e ruoto di circa 5° da una parte e dall’altra del meridiano che si suppone esatto e si
deve osservare un ombra diretta dalla parte opposta che forma con l’asse del cilindro
un angolo di direzione uguale sui due lati. Con quanto si è spiegato precedentemen-
te si riesce a controllare sia l’asse sia il potere dell’astigmatismo in maniera agevole.
Basta ricordare queste poche semplici regole:
• asse del cilindro: se l’ombra diretta compare da un solo lato, è maggiore da un lato,
oppure l’angolo di direzione è disuguale, correggere la posizione spostando il cilin-
dro verso l’ombra diretta o dove è più evidente, o dove l’angolo è maggiore
• potere del cilindro: se l’angolo di direzione prodotto dalle piccole oscillazioni è mi-
nore di 45° la lente è insufficiente, se invece è uguale a 45° la lente è quasi corretta
(aumentare solo di 0,25D alla volta).
L’estinzione dell’ombra anche sul meridiano perpendicolare all’asse indica che la
lente è corretta!
Il vantaggio della schiascopia cilindrica risiede non solo nel determinare esattamen-
te l’asse del cilindro ma anche nel contempo, nel controllo del suo potere. Una volta
raggiunto il punto neutro su tutti i meridiani, ho ottenuto il corretto calcolo del difet-
to refrattivo presente e della sua correzione e per essere certi del risultato raggiunto
posso controllarlo nei seguenti modi:
• Variando distanza di osservazione
Se il cilindro è corretto avvicinandosi ed allontanandosi dal paziente si potranno
osservare rispettivamente ombre dirette ed ombre inverse contemporaneamente
sui 2 meridiani. Se il cilindro è scorretto le ombre compaiono prima su un meridia-
no che su quello perpendicolare:
Cilindro debole = avvicinandosi l’ombra diretta compare prima sul meridiano del
potere, allontanandosi l’ombra inversa compare prima sul meridiano dell’asse
Cilindro eccessivo = avvicinandosi l’ombra diretta compare prima sul meridiano
dell’asse, allontanandosi l’ombra inversa compare prima sul meridiano del potere
• Prova della rotazione
Un cilindro che corregge totalmente l’astigmatismo ma che viene collocato su un
meridiano inesatto determina la comparsa di un’ombra diretta che forma con l’as-
se del cilindro l’angolo di direzione corrispondente a 45° + ½ angolo di rotazione. Per
effettuare la prova della rotazione è consigliabile usare angoli di rotazione piccoli
con cilindri grandi ed angoli di rotazione grandi con cilindri piccoli, si suggerisce
di usare angoli di rotazione compresi tra i 5° ed i 20°. La comparsa di un angolo di
direzione inferiore a 45° + ½ angolo di rotazione indica che il cilindro è più debole
di quello necessario, invece un angolo di direzione superiore a questo valore se-
gnala un cilindro troppo forte.

Angolo di rotazione Angolo di direzione ESEMPIO: Voglio controllare se cilindro di +2,00 D


1. 5° 1. 47,5° a 90°è astigmatismo corretto.

2. 10 2. 50° Sposto cilindro su meridiano 80° (angolo di


3. 20° 3. 55° rotazione 10°) per cui devo avere l’angolo di
direzione = 45+1/2 angolo di rotazione: 45+5=
50. Devo osservare perciò un’ombra diretta sul
meridiano posto a 50° rispetto a 80° cioè 130°
(80°+50°). Se l’angolo di direzione è < 50° il cilindro
è troppo debole, se è > 50° è troppo forte, se
invece corrisponde a 50° cilindro è corretto
18. La motilità oculare e la rifrazione 247

Capitolo 18 – La motilità oculare e la refrazione


A. Piantanida, M. Spera
18.1 Anatomia della motilità oculare

L’occhio è simile a una sfera e può tendine muscoloretto


compiere movimenti rotatori at- lente
iride
torno al proprio centro di rotazio- ora serrata
ne, situato 13,5 mm dietro la su-
congiuntiva fibre zonulari
perficie corneale anteriore, e 10,5
umor vitreo

macula lutea
cornea
mm davanti al polo posteriore.
La linea che congiunge la fovea asse ottico fovea

umor acqueo
con l’oggetto fissato, passando
papilla
per i punti nodali dell’occhio, è asse ottico ottica guaina
definita asse visivo ed è l’asse
nerv
di maggiore interesse nella pra- o ott
ico
tica clinica. (Figura 1) corpo ciliare
Ogni occhio è dotato di sei mu- retina
scoli estrinseci di tipo striato, lamina cribrosa
coroide
quattro muscoli retti (superiore, epitelio pigmentato
sclera
inferiore, mediale e laterale), e
due muscoli obliqui (superiore Figura 1. Sezione sagittale dell’occhio umano
e inferiore).
Tutti i muscoli retti traggono origine da un’unica formazione tendinea posta sul fon-
do dell’orbita: l’anello tendineo comune di Zinn.
Si tratta di un anello imbutiforme che contorna il tratto mediale e superiore del
margine del forame ottico e lateralmente si attacca ad una sporgenza della faccia
orbitaria della grande ala dello sfenoide. È intimamente unito alla guaina durale
del nervo ottico ed alla membrana resistente, formata dall’unione della dura madre
con la periorbita (periostio della cavità orbitaria). Il margine anteriore dell’anello,
svasato, si prolunga nei tendini di origine dei muscoli retti.
I muscoli retti hanno anche altri caratteri in comune. Sono allungati, nastriformi, più
stretti in dietro e più larghi in avanti. Scorrendo in prossimità delle pareti dell’orbita,
si portano in avanti divergendo fino all’equatore dell’occhio; poi si incurvano sul seg-
mento anteriore di questo e, per mezzo di un tendine lungo, appiattito, sottile, più largo
del corpo muscolare, si attaccano alla sclera, a breve distanza dalla cornea. (Figura 2)

muscolo obliquo superiore dell’occhio


muscolo elevatore della palpebra superiore troclea o puleggia

muscolo retto superiore dell’occhio


nervo ottico
muscolo retto mediale dell’occhio

anello rendineo comune muscolo retto laterale dell’occhio

muscolo retto laterale dell’occhio

muscolo retto inferiore dell’occhio muscolo obliquo inferiore dell’occhio

Figura 2. Sezione laterale cavità orbitaria


18. La motilità oculare e la rifrazione 248

Le inserzioni si distanziano progressivamente dal limbus con un andamento spirali-


forme chiamata Spirale di Tillaux:l’inserzione più vicina al limbus è quella del retto
mediale (5,5 mm), seguito poi dal retto inferiore (6,5), retto laterale (6,9) e infine la
più distante è quella del retto superiore (7,7). (Figura 3)
Il muscolo obliquo superiore è il più lungo e sottile dei muscoli oculari. Nasce, per
mezzo di un breve tendine, sul contorno mediale del forame ottico, si porta col suo
ventre, leggermente appiattito, in avanti, occupando l’angolo supero-mediale dell’or-
bita. In prossimità della base dell’orbita, si trasforma in un tendine cilindrico che si
immette subito in un anello fibrocartilagineo, chiamato troclea, fissato alla fossetta
trocleare dell’osso frontale. Il tendine attraversa la troclea, si riflette su di essa e si
dirige lateralmente e indietro verso il bulbo oculare, slargandosi a ventaglio man
mano che vi si accosta. Termina inserendosi sulla sclera, nella parte supero-laterale
dell’emisfero posteriore dell’occhio. La linea di inserzione rimane 4mm dietro l’in-
serzione del muscolo retto superiore.
Il muscolo obliquo inferiore è il più corto fra i muscoli dell’occhio. Nasce dalla parte
antero-mediale della parete inferiore dell’orbita, sull’osso mascellare, subito sotto
la fossa del sacco lacrimale. Si dirige lateralmente e nello stesso tempo indietro ed
in alto, seguendo il contorno inferiore del bulbo. A livello della sua inserzione, è
coperto dal muscolo retto laterale, mentre, nel descrivere la sua curva sotto al globo
oculare, incrocia obliquamente e dal di sotto il muscolo retto inferiore, tanto che le
due guaine aderiscono intimamente.
L’innervazione dei muscoli estrinseci dell’occhio è fornita da tre paia di nervi cra-
nici: il nervo oculomotore comune (III), il nervo trocleare o patetico (IV) ed il nervo
abducente (VI).
Il Nervo oculomotore comune o terzo nervo cranico, è un nervo motore somatico,
per l’elevatore della palpebra superiore e tutti i muscoli estrinseci ad esclusione
dell’obliquo superiore e del retto laterale, e viscerale, per la muscolatura intrinseca
del muscolo ciliare e dello sfintere della pupilla. Attraversata la fessura orbitaria
superiore e l’anello di Zinn, il nervo oculomotore penetra nella cavità orbitaria, dove
si risolve nei suoi rami terminali: uno superiore (per il retto superiore e l’elevatore
della palpebra superiore) ed uno inferiore, quest’ultimo, a sua volta, suddiviso in tre
ramoscelli (per il retto mediale, l’inferiore e l’obliquo inferiore).
Il Nervo trocleare e il Nervo abducente sono nervi motore somatici puri che innervano
rispettivamente il muscolo obliquo superiore e il muscolo retto laterale. (Figura 4)
Ciascun muscolo orienta l’occhio in una precisa direzione, conseguente sia all’ango-

muscolo retto superiore muscolo obliquo superiore

spirale di Tillaux

muscolo retto laterale muscolo retto mediale

muscolo obliquo inferiore muscolo retto inferiore

Figura 3. Inserzione muscoli extra-oculari


18. La motilità oculare e la rifrazione 249

Figura 4. Innervazione dei muscoli extra-oculari

lazione del muscolo rispetto all’asse anteroposteriore dell’occhio che al suo punto
di inserzione.
I movimenti oculari presuppongono l’esistenza di un centro di rotazione che può con-
siderarsi corrispondente al centro del bulbo oculare, ed a 3 assi di rotazione chiamati
assi di Fick (X, Y e Z) nelle seguenti modalità:
– Z o asse orizzontale: una rotazione dell’occhio attorno all’asse Z provoca un’eleva-
zione o una depressione; il polo posteriore dell’occhio ha un movimento in direzio-
ne opposta;
– X o asse verticale: una rotazione dell’occhio attorno all’asse X provoca un movi-
mento verso l’esterno (abduzione) o verso l’interno (adduzione);
– Y o asse antero-posteriore,perpendicolare al piano di Listing (corrisponde all’as-
se visivo): una rotazione
dell’occhio attorno all’asse
Y implica un movimento
di torsione del bulbo ocu-
lare. (Figura 5)
L’azione dei muscoli non è
identica intorno a tutti gli
assi di rotazione.
Definiremo quindi primaria,
secondaria e terziaria ciascu-
na delle azioni in rapporto
con la sua importanza rela-
tiva per quel dato muscolo,
come rappresentato in tabel-
la 1.
La motilità oculare è un pro-
cesso estremamente com-
plesso e regolare, governato
da quattro leggi fondamen- Figura 5. Assi di Fick
18. La motilità oculare e la rifrazione 250

Muscolo Azione primaria Azione secondaria Azione Terziaria


Retto Mediale Adduzione pura DEBOLE AZIONE /
SECONDARIA
Guardando in
Retto Laterale Abduzione pura alto: sopraduzione /
Guardando in basso:
infraduzione
Retto Superiore Elevazione Incicloduzione Adduzione
Retto Inferiore Abbassamento Excicloduzione Adduzione
Obliquo Superiore
Incicloduzione Abbassamento Abduzione
(Grande Obliquo)
Obliquo Inferiore
Excicloduzione Elevazione Abduzione
(Piccolo Obliquo)
Tabella 1. Azione primaria, secondaria e terziaria dei muscoli extraoculari

tali. La prima è la legge di Sherrington (legge dell’innervazione reciproca) e prevede


che alla contrazione di un determinato muscolo, corrisponda il rilasciamento propor-
zionale del suo antagonista omolaterale. L’antagonista è il muscolo che ha un’azione
opposta. Le coppie muscolari antagoniste di ciascun occhio sono:
• Retto Laterale (RL) – Retto Mediale (RM)
• Retto Superiore (RS) – Obliquo Superiore (OS)
• Retto Inferiore (RI) – Obliquo Inferiore (OI)
• Obliquo Inferiore (OI) – Obliquo Superiore (OS)
La seconda, conosciuta come legge di Hering o legge della corrispondenza motoria,
stabilisce che all’invio di un impulso nervoso che provoca la contrazione (o rilascia-
mento) di un muscolo di un occhio, corrisponda un’analoga innervazione del muscolo
sinergista controlaterale. Questo vuol dire che gli impulsi motori arrivano ai due
occhi in modo identico, sia nel caso inducano una contrazione, sia nel caso inducano
un rilassamento. I due muscoli vengono detti sinergisti controlaterali.
Possiamo vedere le coppie sinergiste binoculari riportate nella tabella 2.
La terza legge è la legge di Donders, la quale prevede che per ogni posizione dell’oc-
chio, e quindi per ogni posizione dell’asse dello sguardo, sia possibile un unico orien-
tamento dei meridiani della retina, in modo che non siano possibili orientamenti
casuali dell’occhio intorno all’asse di sguardo.
L’ultima legge è conosciuta come legge di Listing, che è una ripresa della legge di
Donders. Essa afferma che ogni movimento oculare che sposti il bulbo dalla posizio-
ne iniziale deve avvenire secondo i meridiani retinici, senza torsione.
Esistono cinque diversi sistemi per il movimenti degli occhi, tre di essi portano la
fovea su un bersaglio visivo, mentre gli altri due stabilizzano la posizione degli occhi
durante il movimento del capo e del corpo.

RL OD – RM OS: sguardo a dx RM OD – RL OS: sguardo a sx


RS OD – OI OS: sguardo in alto a dx OI OD – RS OS: sguardo in alto a sx
RI OD – OS OS: sguardo in basso a dx OS OD –RI OS: sguardo in basso a sx
OI OD –OS OS: ciclotorsione dx OS OD –OI OS: ciclotorsionesx
RM OD –RM OS: convergenza
Tabella 2. Azione delle coppie sinergiste
18. La motilità oculare e la rifrazione 251

Del primo gruppo fanno parte:


– le saccadi, movimenti oculari rapidi che portano la fovea verso un bersaglio visivo;
– i movimenti di inseguimento lento (smooth pursuit) che mantengono sulla fovea
l’immagine di uno stimolo in lento spostamento;
– i movimenti di vergenza che permettono di mantenere sulla fovea stimoli visivi che
si avvicinano o si allontanano.
Del secondo gruppo fanno parte:
– movimenti vestibolo-oculari, mantengono gli occhi diretti verso un oggetto durante
i movimenti del capo. Come risposta alla stimolazione labirintica gli occhi compio-
no un movimento in direzione opposta a quello della testa;
– nistagmo optocinetico, stabilizza la fissazione durante movimenti prolungati del
capo e consente di osservare oggetti in movimento continuo. È caratterizzato da
una fase rapida, che sposta l’asse visivo verso l’oggetto che si presenta successiva-
mente, e una fase lenta, che lo mantiene sul nuovo oggetto fissato.
Esiste infine un sesto sistema di controllo, detto sistema di fissazione, che, a testa
ferma, inibisce i movimenti oculari e fa sì che lo sguardo non cambi direzione, in
modo da mantenere le immagini di oggetti fermi stabili sulla fovea.

18.2 Duzioni, versioni e vergenze

I movimenti monoculari dell’occhio sono chiamati duzioni, quelli realizzati in condi-


zioni binoculari sono invece denominati versioni, movimenti binoculari coniugati, in
cui gli assi visivi si muovono nella stessa direzione; oppure vergenze, movimenti bi-
noculari disgiunti, ossia quelli in cui gli occhi si muovono in direzioni opposte, come
la convergenza e la divergenza.
Lo scopo dei movimenti di vergenza è quello di consentire la fissazione di un bersa-
glio che si muove sull’asse visivo antero-posteriore, movimenti di convergenza per
bersagli che si avvicinano, movimenti di divergenza per bersagli che si allontanano.
Gli stimoli ai movimenti di vergenza sono rappresentati dallo sfuocamento e dalla
disparità retinica, essi evocano rispettivamente la vergenza accomodativa e la ver-
genza fusionale.
La vergenza accomodativa serve per la focalizzazione di oggetti che si avvicinano ed
è caratterizzata da un sinergismo che unisce l’accomodazione, la convergenza e la
costrizione pupillare (riflesso per vicino).
La vergenza fusionale viene stimolata quando le immagini cadono su punti retinici
non corrispondenti1 ed ha lo scopo di correggere i piccoli difetti di allineamento
degli occhi al fine di eliminare la diplopia.
Da ciò risulta evidente come lo stimolo per la fusione sia sensoriale, perché è costi-
tuito dalla stimolazione di punti retinici disparati che sono al di fuori dell’area di
Panum; il meccanismo che elimina la diplopia è invece motorio.

1. I punti retinici che hanno un’identica localizzazione spaziale nei due occhi vengono chiamati corrispondenti.
A punti retinici corrispondenti, corrisponde nell’ambiente una superficie curva del tutto immaginaria nello
spazio chiamato oroptero, il cui centro è rappresentato dall’oggetto fissato. Soltanto i punti che si trovano sul
piano dell’oroptero stimolano punti retinici corrispondenti. Vi è però una ristretta area al di qua e al di là
dell’oroptero, in cui giacciono i punti-oggetto che, pur stimolando punti retinici lievemente disparati, sono
comunque visti singoli: è questa l’area di Panum. Questi punti in merito alla loro lieve disparità sostengono il
senso stereoscopico. I punti situati al davanti o al di dietro della superficie dell’oroptero, e quindi dell’area di
Panum, causano diplopia.
18. La motilità oculare e la rifrazione 252

18.3 Disallineamento oculare: strabismo

È importante rilevare che i movimenti dei due bulbi oculari, al fine di assicurare una
normale visione, devono essere solidali e perfettamente sincroni; la mancanza di
tale condizione provoca uno strabismo.
Lo strabismo, infatti, è una condizione clinica caratterizzata dal mancato allinea-
mento degli assi visivi dei due occhi sull’oggetto fissato.
Gli strabismi possono essere suddivisi in 3 raggruppamenti principali:
– Strabismi concomitanti: la deviazione non si modifica nelle varie direzioni di
sguardo;
– Strabismi paralitici: è presente una paralisi o una paresi di uno o più muscoli di un
occhio, la deviazione si modifica a seconda della direzione di sguardo;
– Sindromi da restrizione: l’esistenza di un ostacolo meccanico che impedisce o ridu-
ce l’escursione dell’occhio in una o più direzioni di sguardo.
Gli strabismi concomitanti costituiscono la grande maggioranza delle deviazioni ocu-
lari che compaiono nell’infanzia
A seconda del momento di insorgenza gli strabismi possono essere suddivisi in:
– Congeniti,
– Acquisiti
Lo strabismo può essere classificato anche riferendosi alla deviazione degli assi visi-
vi; in questo caso la suddivisione è la seguente:
– Strabismo Convergente ESODEVIAZIONE
– Strabismo Divergente EXODEVIAZIONE
– Strabismo Verticale IPERDEVIAZIONE O IPODEVIAZIONE
Quando lo strabismo è sempre presente (strabismo manifesto) si parla di eteroTRO-
PIA, in questo caso viene a mancare la visione binoculare, un occhio appare deviato,
mentre l’altro è allineato con l’oggetto che si sta osservando.
Si parla invece di eteroFORIA (strabismo latente) quando la deviazione è mantenuta
celata dal meccanismo di fusione e compare solo quando questo viene interrotto (es.
durante il cover/cover-uncover test2).
In condizioni normali di visione gli assi visivi dei due occhi vengono diretti su uno
stesso punto dello spazio e partendo dalle immagini fornite separatamente dai due
occhi si forma a livello corticale un’unica immagine.
Quando al contrario, le immagini dello stesso oggetto cadono su punti retinici non
corrispondenti, lo stesso oggetto è individuato dal nostro sistema visivo come se fos-
sero due immagini differenti da cui ne consegue la presenza di una visione doppia
o diplopia. Quando invece su punti retinici corrispondenti cadono immagini di due
oggetti differenti dello spazio, essi sono percepiti come sovrapposti determinando la
cosiddetta confusione. Nello strabismo congenito, presente fin dai primi mesi di vita,
non si ha l’insorgenza di tali fenomeni perché il bambino mette in atto un meccani-
smo di difesa detto soppressione, ovvero il cervello ha la capacità di eliminare l’im-
magine proveniente dall’occhio deviato al fine di evitare la diplopia e la confusione.
Quando lo strabismo insorge in età adulta invece, come ad esempio dopo scompen-
so di un’eteroforia, o nel caso di strabismi paralitici, il disallineamento degli assi
visivi induce diplopia. In questi casi per annullare la diplopia conseguente a tale
disallineamento oculare possiamo utilizzare delle lenti prismatiche che permettono
la sovrapposizione delle 2 immagini. L’unità di misura di queste lenti è la diottria

2. Cover test: è uno dei test fondamentali per valutare la presenza di un angolo di strabismo. Il fenomeno che si
cerca di evocare è la saccade di rifissazione che l’occhio deviato deve compiere per riprendere la fissazione.
18. La motilità oculare e la rifrazione 253

prismatica (Dp, Δ) che è l’equivalente della deviazione dei raggi luminosi pari ad un
centimetro a un metro di distanza dal prisma stesso su una superficie piana: la misu-
ra della deviazione può essere espressa quindi in diottrie prismatiche.

18.4 Il prisma

Il Prisma è un dispositivo ottico a refrazione, delimitato da facce piane non parallele.


Il prisma più tradizionale è quello a base “triangolare”.
Un raggio di luce a contatto con il prisma subisce 2 rifrazioni, il raggio incidente
entra nella faccia di sinistra, subisce una deviazione per refrazione, esce dalla faccia
di destra subendo un’altra refrazione (raggio emergente).
La deviazione totale del raggio di luce che passa attraverso il prisma è data dalla
somma delle 2 deviazioni parziali
δ = δ 1 + δ2 δ=i+e–α
dove α è l’angolo al vertice chiamato angolo di rifrangenza. (Figura 6)
Partendo da questo risultato si può dimostrare, in approssimazione di Gauss, che
esiste una semplice relazione che lega la deviazione prismatica “δ” all’angolo rifran-
gente “α”. Indicando con l’indice di refrazione del prisma. La relazione è la seguente:
δ = α · (n-1)
Questa relazione ci informa sul fatto che l’ampiezza angolare della dispersione pro-
dotta da un prisma, è funzione delle caratteristiche ottiche del prisma.
I raggi luminosi che attraversano un prisma vengono deviati verso la sua base, la
posizione apparente di una sorgente luminosa risulta spostata verso l’apice, di con-
seguenza anche l’occhio deve ruotare verso l’apice del prisma. I prismi a base tem-
porale sollecitano un movimento di convergenza, mentre quelli a base nasale indu-
cono una divergenza orizzontale, un prisma a base in basso sollecita un movimento
dell’occhio dietro il prisma verso l’alto, se il prisma è a base in alto l’occhio ruoterà
verso il basso.
Nel caso di uno strabismo convergente, con diplopia (omonima), l’immagine dell’oc-
chio deviato cadrà sulla retina nasale, quindi occorre anteporre un prisma a base
temporale il quale, portando sulla macula i raggi luminosi, sovrappone le 2 immagini
eliminando la diplopia.
Quindi un’anomalia di posizione dei bulbi oculari può venire corretta con un prisma

Figura 6. Angolo di deviazione prismatica


18. La motilità oculare e la rifrazione 254

il cui apice si trova nel senso della deviazione oculare. Così strabismi convergenti
(esotropia/foria) vengono corretti con prismi ad apice nasale e quindi a base tempo-
rale (BT), strabismi divergenti (exotropia/foria) vengono corretti con prismi ad apice
temporale e quindi a base nasale (BN), strabismi verticali in cui l’occhio è deviato
verso l’alto (ipertropia/foria) verranno corretti con prismi ad apice in alto e quindi
a base bassa (BB), e quelli in cui l’occhio è deviato verso il basso (ipotropia/foria)
verranno corretti con prismi ad apice in basso e quindi a base in alto (BA). (Figura 7)

Figura 7. Tipi di strabismo e direzione del prisma

18.5 Influenza delle lenti oftalmiche sulla motilità oculare

Le lenti oftalmiche negative (per la correzione della miopia) possono essere para-
gonate a 2 prismi sottili uniti per l’apice, mentre quelle positive (per la correzione
dell’ipermetropia) possono essere paragonate a 2 prismi uniti per la base. Alla luce
di ciò si può ben comprendere come anche le centrature delle lenti oftalmiche pos-
sano influenzare i movimenti oculari.
La deviazione di una lente è zero quando il raggio passa per il centro ottico, allon-
tanandosi dal centro ottico, la lente produce un effetto prismatico che determina lo
spostamento della posizione apparente di un oggetto e di conseguenza una modifica-
zione della posizione che l’occhio deve assumere per fissarlo.
Si dice che le lenti sono decentrate quando gli assi visivi non passano per il centro
ottico delle lenti.
18. La motilità oculare e la rifrazione 255

Figura 9. Se la distanza tra il centro


ottico e il punto Q è di 8 mm e la
lente ha un potere P=-4.00 D allora
l’effetto prismatico in quel punto è:
Figura 8. Effetto prismatico delle lenti positive e negative 0.8X4.00=3.2 Δ base bassa

Quando le lenti positive si trovano decentrate all’esterno rispetto all’asse visivo


il loro effetto prismatico è a base temporale e tale da sollecitare la convergenza;
quando il decentramento è all’interno l’effetto prismatico è a base nasale e ne
deriva una sollecitazione abnorme della divergenza o un minor impegno della con-
vergenza.
Le lenti negative decentrate all’esterno realizzano un effetto prismatico a base
nasale e quindi un rilasciamento della convergenza o un impegno eccessivo della
divergenza, il loro decentramento all’interno determina un effetto prismatico a
base temporale e una conseguente sollecitazione della convergenza. (Figura 8)
Il decentramento orizzontale delle lenti fa sì che gli occhi, quando guardano un og-
getto posto in lontananza, non possano restare paralleli ma debbano assumere una
posizione di convergenza o divergenza tale da compensare l’effetto prismatico. Que-
sta posizione è sostenuta dall’attività dei riflessi fusionali.
L’effetto prismatico delle lenti prodotto dal decentramento delle lenti può essere
utilizzato per il compenso di eteroforie, allo scopo di alleviare il lavoro dei riflessi
fusionali che in uno strabismo latente sono sempre “al lavoro” per cercare di mante-
nere un allineamento degli assi visivi.
L’entità dell’effetto prismatico espresso in P.D. (Diottrie Prismatiche) è rappresen-
tato dal rapporto tra lo spostamento del centro ottico, calcolato in centimetri, e il
potere diottrico della lente (D) (Figura 9):
Legge di Prentice Δ = hcm · FD

18.6 Strabismo e vizi refrattivi

Esistono alcune forme di strabismo che traggono grossi vantaggi dall’utilizzo della
correzione refrattiva, di queste ci occuperemo in particolare alla luce del significato
di questo testo.
Una causa frequente di esoforia o tropia è data dalla stretta relazione tra accomoda-
zione e convergenza.
Quando viene esercitata una certa quantità di accomodazione, si associa ad essa
18. La motilità oculare e la rifrazione 256

una ben definita quantità di convergenza, detta convergenza accomodativa3. Un’ac-


comodazione eccessiva, richiesta per rendere nitida l’immagine retinica ad una certa
distanza di fissazione, dà origine ad una quantità eccessiva di convergenza accomo-
dativa.
Questo si verifica solitamente nell’ipermetrope non corretto.
Se l’ampiezza fusionale è adeguata a mantenere gli occhi allineati non si va incontro
ad una esotropia, ma se i meccanismi di fusione sono compromessi, si può instaurare
una deviazione oculare inizialmente intermittente in cui si alternano fasi di bino-
cularità normale a fasi di corrispondenza retinica anomala, che con il tempo può
diventare manifesta.
Questo è il caso dell’Esotropia da scompenso di esoforia. Nelle fasi di strabizzazione
o tropia, il soggetto adulto riferisce diplopia e/o confusione4. Anche il bambino può
riferire diplopia, ma se questa è una condizione presente “da sempre”, impara a
sopprimere l’immagine proveniente dall’occhio deviato5.
I sintomi, oltre alla diplopia, sono principalmente astenopici, caratterizzati da ce-
falea soprattutto frontale e orbitale, senso di tensione retrobulbare e arrossamento
oculare.
Il principio del trattamento dell’esotropia da scompenso di esoforia è quello di cre-
are le condizioni che permettano al paziente di godere di una visione binoculare
confortevole e funzionalmente completa:
– Correggere totalmente il difetto ipermetropico determinato con l’esame della re-
frazione in ciclopegia
– Trattamenti ortottici: riabilitazione delle vergenze fusionali, il cui scopo non è
quello di modificare l’angolo di deviazione, ma quello di creare condizioni che
renderanno il paziente capace di vivere confortevolmente con l’esoforia/tropia.
– Nei bambini evitare, dove è possibile, la correzione prismatica. L’uso di prismi
porterà ad aumento dell’esoforia/tropia e di conseguenza un aumento della cor-
rezione prismatica. Togliendo i prismi il paziente si troverà con una deviazione
costantemente manifesta associata a diplopia, necessitando così di un intervento
chirurgico tempestivo per ripristinare una visione binoculare normale.
Esotropia accomodativa pura: si manifesta tra i due e i tre anni di vita, ma non fre-
quenti sono quelli che si manifestano nell’adolescenza, e perfino in età adulta. La
deviazione è generalmente variabile ed è maggiore nello sguardo per vicino. La va-
riabilità dell’angolo di deviazione dipende dalla quantità di accomodazione eserci-
tata in quel dato momento.
L’unica terapia necessaria è data dalla correzione totale del difetto ipermetropico
ciclopegico. Tolto l’occhiale il soggetto riprenderà a strabizzare: mai ricorrere alla
chirurgia!
È consigliabile ripetere la seconda ciclopegia, successiva alla prescrizione dell’oc-
chiale, dopo 6 mesi in modo da permettere la decontrazione del muscolo ciliare e la

3. Convergenza accomodativa: la quantità di convergenza evocata dallo stimolo accomodativo.


4. Confusione: oggetti differenti fanno cadere la propria immagine su aree corrispondenti (sulle due fovee) e
pertanto sono visti nella stessa direzione visiva e sovrapposti. La confusione non è riferita spontaneamente
dai pazienti. Al contrario la diplopia è un sintomo lamentato frequentemente nel caso di deviazioni oculari
improvvise. Nella diplopia oggetti identici fanno cadere la loro immagine su aree retiniche disparate pertanto
sono visti in direzioni visive diverse, cioè doppi.
5. Soppressione: meccanismo sensoriale per evitare i disturbi di confusione e diplopia. Il cervello elimina la
doppia immagine proveniente dall’occhio deviato e in questo modo si avrà una visione monoculare. Negli
strabismi congeniti un cui il paziente impara fin da subito a sopprimere, questa diventa la causa di ambliopia
dell’occhio deviato.
18. La motilità oculare e la rifrazione 257

correzione del difetto refrattivo residuo eventualmente ancora presente.


Un’esotropia accomodativa pura non adeguatamente corretta, o corretta tardivamen-
te, può andare incontro, nel tempo, ad un deterioramento della visione binoculare.
In questi soggetti la correzione totale del difetto porta ad una riduzione dell’angolo
di strabismo, ma non ad annullarlo. Si parla in questi casi di esotropia parzialmente
accomodativa.
La correzione totale del difetto ipermetropico è spesso accompagnata dalla chirur-
gia per eliminare la parte di strabismo che le lenti non riescono a correggere.
Nel caso in cui la deviazione oculare è eliminata per lontano con l’uso degli occhiali,
e ridotta nella fissazione da vicino, siamo di fronte ad un’esotropia accomodativa con
rapporto AC/A6 elevato, lo sforzo accomodativo evoca una risposta in convergenza ac-
comodativa abnormemente elevata.
Se la fusione motoria riesce a far fronte all’aumento di convergenza nella fissazione
da vicino, ne risulterà un’esoforia più o meno ampia, diversamente avremo un’eso-
tropia parzialmente accomodativa.
Nei casi di esotropia accomodativa con elevato rapporto AC/A, è indicato l’uso di
lenti bifocali tipo e-line, ovvero con margine rettilineo, in modo che il centro ottico
del segmento bifocale si trovi subito sotto al centro ottico del segmento superiore. Lo
scopo delle lenti bifocali è quello di bloccare lo stimolo accomodativo (normalmente
evocato nella fissazione da vicino), e di conseguenza annullare o ridurre l’abnorme
risposta di convergenza.
Per il potere delle lenti bifocali, noi preferiamo utilizzare direttamente l’addizione
+ 3,00 sf (correzione massima) a meno che questa non induca una exodeviazione.
A partire dall’età di 10 anni l’addizione della bifocale viene gradualmente ridotta
con step di 0.25 o 0.50 D (a seconda della risposta motoria del paziente), noteremo
una diminuzione della deviazione oculare al punto che le lenti bifocali possono esse-
re sospese, solitamente nell’adolescenza.
Se questo non accade si ricorre alla chirurgia e più precisamente alla faden-opera-
tion od alle “recessioni aumentate” (augmented recession).
Nel paziente ipermetropico non corretto, con rapporto AC/A basso o nullo, si può
sviluppare una exodeviazione.
La correzione ottica diminuirà la richiesta di accomodazione e quindi di convergenza
con un aumento conseguente dell’exodeviazione
Nelle exodeviazioni la refrazione ha una valenza minore rispetto alle forme con-
vergenti. I vizi di refrazione fra gli strabismi divergenti sono distribuiti come nella
popolazione normale.
I pazienti con exoforia/tropia o exotropia intermittente lamentano molto spesso diplo-
pia, astenopia e soprattutto fotofobia (tendono a chiudere un occhio alla luce intensa).
Le exodeviazioni intermittenti sono spesso accompagnate da un sistema di vergenze
fusionali molto scarso. Questi soggetti giovano soprattutto dei trattamenti ortottici
attui alla riabilitazione delle vergenze.
I vizi di refrazione significativi dovrebbero essere corretti nei pazienti con exodevia-
zioni intermittenti in modo da creare immagini retiniche nitide che aumentino lo
stimolo della fusione.
Sia le exoforie compensate o scompensate, sia le exotropie intermittenti giovano del-
la correzione totale del difetto visivo miopico. L’effetto prismatico convergente delle

6. Rapporto AC/A: rapporto tra l’accomodazione richiesta per vedere ad una certa distanza e la convergenza
necessaria. L’intervallo di normalità è compreso tra 3 e 5.
18. La motilità oculare e la rifrazione 258

lenti e l’eccesso di accomodazione che la correzione totale determina, consentono al


paziente di esercitare una convergenza che compensa la deviazione oculare.
Tuttavia il ruolo della miopia nell’eziologia delle exodeviazioni è meno pronunciato
di quello dell’ipermetropia nelle esodeviazioni.
Negli ipermetropi, bisognerebbe prescrivere la correzione più bassa che consenta
una buona acutezza visiva.
I pazienti con miopia non corretta compiono uno sforzo accomodativo inferiore al
normale nella visione per vicino, determinando così una diminuzione della conver-
genza accomodativa. Questa ipostimolazione costante della convergenza può deter-
minare l’insorgenza di una exodeviazione.
Casi di anisometropia importante, afachia unilaterale, ed una compromissione visiva
monolaterale dovute a cause organiche sono spesso accompagnate da un’exotropia
dell’occhio ambliopico. In questi casi l’unica terapia è la chirurgia.
Il paziente exoforico con iniziale presbiopia presenta un problema particolare. La
presbiopia e la correzione della stessa produce un aumento della exodeviazione. In
questo caso, se il paziente riferisce diplopia, si possono prescrivere dei prismi a base
interna per la visione da vicino, ma si deve ricordare di correggere con i prismi solo
la metà dell’exodeviazione per stimolare il rilascio della convergenza accomodativa.
PARTE TERZA
19. La Montatura nell’adulto 259

Capitolo 19 – La Montatura nell’adulto


L. Mele, M. Casini
Prima di iniziare un qualsivoglia studio riguardante la “montatura” è opportuno de-
finire l’oggetto della ricerca tenendo ben presente il settore specifico in cui il suo
impiego è prevalente: l’ottica oftalmica.
Nel parlare comune, la parola occhiale viene usata indifferentemente al posto di
montatura, anche se i termini indicano due oggetti ben distinti con usi completamen-
te diversi. Occhiale quindi non è sinonimo di montatura.

19.1 Definizioni

Montatura: ha la funzione di supportare davanti all’occhio, in modo stabile nel tem-


po, una lente oftalmica, un filtro solare, strumenti tecnologici. La montatura è ora-
mai considerata una parte fondamentale dell’aspetto di ogni persona che, indossan-
do questo accessorio, comunica la personalità del portatore durante il suo svolgere
la vita di relazione.
Occhiale: l’insieme della montatura e di un filtro solare o una lente oftalmica.
Occhiale da vista: montatura + lente oftalmica. In questo caso la montatura ha lo
scopo di tenere a una precisa distanza, in posizione fissa e predeterminata davanti
all’occhio, nel tempo, la lente oftalmica.
Occhiale da sole: montatura + filtro solare. In questo caso la montatura serve a tenere
stabilmente davanti all’occhio il filtro solare (lente da sole) che svolge una duplice
funzione:
1. proteggere l’organo della visione dalle radiazioni nocive (UV, IR)
2. ottimizzare la visione in ambienti di spiccata luminanza
3. utilizzare lenti graduate ed al tempo stesso per la protezione di raggi flessibili.
Marcatura CE: marcatura apposta sull’asta della montatura; è lo strumento attraver-
so il quale il fabbricante comunica al compratore la sicurezza dell’uso del prodotto
acquistato.
La sicurezza del prodotto è certificata da un istituto terzo che sottopone il prodotto
a tutta una serie di prove richieste dalla Normativa di riferimento e specificate dalle
Norme attinenti al prodotto in questione.

19.2 Parti fondamentali


della Montatura

Le parti fondamentali di una montatura


sono illustrate nella figura 1. È oramai estre-
mamente difficile classificare e descrivere
correttamente ed esaurientemente la loro
varietà dato, fra l’altro, il numero illimitato
di materiali offerti dalla tecnologia moderna
per la loro realizzazione. Ci limiteremo a dare
una descrizione generale ma puntuale dei
singoli componenti sopra elencati.
Figura 1. Descrizione delle parti fondamentali
Il frontale è la parte anteriore della monta- di una montatura (Adriana Fiorentini, Occhi e
tura. È composto da due anelli entro i quali Occhiali, Giunti Barbera, 1967)
19. La Montatura nell’adulto 260

sono inserite le lenti oftalmiche o i filtri solari. Per poter effettuare correttamente
questa operazione, gli anelli presentano una scanalatura interna nella quale viene
inserito l’orlo della lente molata a forma di cuneo (bisello). A seconda della forma
della montatura, due alette situate nel lato interno degli anelli permettono l’appog-
gio della montatura sul naso. Praticamente la montatura ha un triplice appoggio: sul
naso e sulle orecchie.
La forma degli Anelli detti anche Cerchi costituisce uno degli aspetti essenziali del
progetto formale dell’occhiale. Se l’occhiale è da vista, alcuni vincoli sono imposti
dal tipo di lente che si deve montare.
Il Ponte o Naso è quella parte del frontale che unisce i due anelli: esso non ha la fun-
zione di supportare la montatura perché questo complete alle placchette.
Le Placchette o Nasello o Alette sono i veri appoggi della montatura sul naso. Nelle
montature in plastica, spesso esse sono ricavate dai cerchi. L’appoggio sul naso deve
essere stabile affinché la montatura non scivoli di lato neppure di pochi millimetri.
Per questo motivo le placchette sono inclinate sia rispetto al piano del frontale sia
rispetto al piano di simmetria della montatura, perpendicolare al piano del frontale
(piano mediano). Nelle montature di metallo o con anelli metallici, le placchette
sono rivestite in materiale plastico e sono sostenute da un piccolo braccio di metallo
saldato all’anello. Il materiale a contatto con la pelle deve essere anallergico: attual-
mente le placchette sono realizzate in materiale siliconico. A seconda del modo in
cui le placchette sono collegate al cerchio prendono il nome di fisse, semimobili o
mobili.
Le Aste sono due lunghi rettangoli sagomati in varie maniere e collegate al frontale
in modo tale da mantenerlo in posizione fissa davanti agli occhi. Da ciò consegue
la formazione di una serie di angoli che influenzano il potere correttivo della lente
oftalmica. Hanno il compito di avvolgere l’orecchio in modo anatomico per tenere
fisso l’occhiale.
La Cerniera è la “minuteria” con cui si unisce l’asta al cerchio. Generalmente sono
costituite con un’inclinazione di 0-6 gradi. Questo valore viene definito dal fabbri-
cante. La scelta di questa minuteria condiziona, insieme alla meniscatura, gli angoli
della montatura.
Permettono inoltre alle aste, quando l’occhiale non è in uso, di piegarsi verso l’inter-
no, riducendo lo spazio occupato dalla montatura. Il corretto sovrapporsi reciproco
delle aste nella posizione sopra descritta prende il nome di “battuta” ed è indice di
corretto assetto dell’occhiale.

19.3 Sistemi di misura

19.3.1 Frontale
La valutazione quantitativa dei parametri di una montatura si esegue con la misura
lineare dei vari elementi costituenti l’oggetto in questione. Dalla rilevazione di que-
sti dati si ricava:
1. valutazione della corrispondenza della montatura scelta alle ossa del cranio
dell’ametrope;
2. nel caso si debba confezionare un occhiale da vista si può scegliere correttamente
i diametro della lente oftalmica da impiegare per ottenere un perfetto centraggio.
Nel 1961 l’American Optical Manufacturer Association mise a punto un sistema per
la misura dei parametri del frontale denominato “Sistema quadro o Boxing”.
Nel 1991 tale sistema venne accettato anche in Inghilterra e recepito nei British
Standard col numero 3521 facendo di fatto cessare l’uso del sistema Datum. Attual-
19. La Montatura nell’adulto 261

Figura 2. Tabella riassuntiva del sistema Quadro

mente il sistema è universalmente accettato dai costruttori di montature e di lenti


di tutto il mondo e viene visivamente indicato specificatamente sull’asta, dove fisi-
camente possibile, con un quadratino:
Rappresentato il frontale della montatura in modo completo, dopo aver tracciato
le opportune tangenti e stabilito il centro geometrico del “quadrato” e disegnato
la linea boxing del sistema, la linea che passa per i due centri è parallela alle due
tangenti superiore e inferiore, possiamo definite ulteriori parametri:
– Calibro è la distanza tra le due tangenti verticali, mentre la distanza tra le tangenti
orizzontali si indica come “altezza del calibro”;
– Centro geometrico: il punto in cui si intersecano le diagonali del quadrato formato
dalle tangenti alle lenti;
– Scartamento è la distanza tra due centri geometrici delle due lenti, chiamata anche
distanza interpupillare, oppure si considera la somma algebrica della misura del
calibro e del ponte.
Se facciamo riferimento alla figura 2, si percepisce che il disegno rappresenta il
frontale di una montatura “indossata” da un ametrope che si sta osservando. Questo
evidenzia che alla sinistra di chi guarda il disegno si trova la lente destra, mentre alla
destra sempre per chi osserva, si trova la lente sinistra.
Questa considerazione è importante perché alcuni tipi di lenti progressive sono co-
struite proprio su misura delle necessità visive dei singoli occhi. Per quanto riguarda
le lenti astigmatiche c’è la necessità di un sistema di riferimento in modo che si
possa orientare in modo univoco l’asse del cilindro. Anche se i sistemi a cui si fa rife-
rimento sono due: il sistema internazionale e il TABO, è oramai universalmente ac-
cettato l’uso del TABO. Nel 1973, Paolo Seminara, capovolge una tradizione consoli-
data di mercato che prevedeva la costruzione di un tipo di montatura con un numero
elevato di calibri, riducendo quest’ultimi solo a tre. La conseguenza fu l’irruzione nei
campionari di un numero elevato di montature colorate nelle più disparate tonalità
con solo tre calibri, semplificando notevolmente la produzione.

19.4 Sistemi di riferimento

L’astigmatismo di un occhio è definito quando si conosca il suo valore e la posizione


delle sezioni principali fra di loro perpendicolari. Per definire questa posizione ci si ser-
ve di un semicerchio graduato. I sistemi che indicano la posizione dello zero sono due.
19. La Montatura nell’adulto 262

La notazione standard è stata introdotta per uso internazionale dalla Optical So-
ciety Committee nel 1904. Successivamente una commissione tedesca, Technischer
Ausschuss für Brillenoptik, TABO, si espresse favorevolmente a quanto stabilito dal-
la Commissione nel 1904. Il sistema fu definitivamente adottato nel 1921 dalla Bri-
tish Ophthalmological Society.
Il Sistema Internazionale fu proposto nel 1909 durante il Congresso internazionale
di Oftalmologia che si teneva a Napoli. Attualmente viene usato sempre meno nella
pratica quotidiana.
Estremamente importanti infine, per un corretto approntamento di un occhiale da
vista sono l’angolo pantoscopico e l’angolo di avvolgimento di una montatura.

19.5 Angolo pantoscopico

Si definisce “angolo pantoscopi-


co” quello formato dal piano del
frontale e il piano perpendicola-
re dell’asta (Figura 3).
Nel caso in cui la parte bassa
del frontale sia inclinata verso
l’ametrope, l’inclinazione si dice
pantoscopica, mentre se si allon-
tana dal volto del portatore l’in- Figura 3. Rappresentazione grafica dell’angolo pantoscopico
clinazione è detta retroscopica
(Figura 4).
Al fine di ottimizzare la visione, l’asse ottico della lente deve passare attraverso il
centro di rotazione dell’occhio. Se così è, l’asse visivo coinciderà con l’asse ottico.
Una lente fornisce una visione ottimale se il centro ottico si trova leggermente spo-
stato sotto la pupilla dell’occhio perché generalmente si guarda un pò verso il basso
con un piccolo valore di inclinazione naturale.
Un piccolo valore di tale angolo permette un’accurata corrispondenza alla struttura
anatomica del testa dell’ametrope. Nella realtà il rapporto frontale – asta è stabilito
dal costruttore che sceglie il tipo di cerniera, ovvero il tipo di unione frontale – cen-
tro. Per quanto riguarda le montature in materiale di sintesi, queste sono costruite
generalmente con un’inclinazione di 0 - 6, mentre per gli occhiali in metallo a cerchio
chiuso è funzione della posizione del tubetto. Nelle montature tre pezzi è sempre il
fabbricante che indica il metodo di montaggio e quindi l’inclinazione delle aste.

Figura 4. Possibili posizione del frontale rispetto al piano dell’asta. Nel secondo caso, il frontale si allontana
dal viso dell’ametrope l’angolo è detto “retroscopico”
19. La Montatura nell’adulto 263

Figura 5. Angolo di avvolgimento

“0 - 6” sono i valori di angolo pantoscopico comuni alla maggior parte delle montatu-
re presenti sul mercato. L’ottico può intervenire sulla montatura in materiale di sin-
tesi (forzando la cerniera), sugli occhiali montati a giorno, cambiando l’inserimento
dei fori. Non può modificare alcunché nelle montature in titanio o acciaio.
Le considerazioni sopra riportate ci portano a formulare una semplice regola: duran-
te il montaggio conviene posizionare il centro ottico da 3 a 4 mm. sotto la pupilla.
Nel caso in cui l’asse ottico della lente non intersechi il centro di rotazione dell’oc-
chio, l’inclinazione della lente introduce un valore di astigmatismo, variando così
l’effetto correttivo della lente. Questo valore di astigmatismo indotto causa due ef-
fetti che sono direttamente proporzionali al valore della lente:
1. aumento dell’effetto correttivo della sfera;
2. potere del cilindro indotto, di segno uguale a quello della sfera (+/-) sull’asse a 180.

19.6 Angolo di avvolgimento

Si definisce “angolo di avvolgimento” l’angolo che misura la curvatura del frontale


della montatura. Esso è funzione del valore della meniscatura (Figura 5).
Generalmente non è opportuno superare i 15/18 gradi. Come abbiamo visto per l’an-
golo pantoscopico anche per l’angolo di avvolgimento la non coincidenza dell’asse
visivo con il centro di rotazione dell’occhio, introduce un valore di cilindro indeside-
rato ma a 90 gradi.

19.6.1 Caratteristiche dall’angolo di avvolgimento


1. indica l’inclinazione del bordo temporale di ogni lente in riferimento alla faccia
dell’ametrope
2. assicura che il frontale della montatura scelta segua la curva naturale delle ossa
facciali della fronte
3. avvicina la zona periferica della lente più vicino all’occhio e aumenta il campo di
visione nella zona per lontano della lente.
19. La Montatura nell’adulto 264

19.7 Montature in materiale di sintesi

19.7.1 Definizioni
Le differenze esistenti tra una montatura realizzata in materiale di sintesi e quel-
le in metallo, sono molte, diverse e presentano caratteristiche di realizzazione ben
precise.

19.7.2 Frontale
È la parte centrale della montatura:
ha il compito di alloggiare le lenti
per la correzione del vizio refrattivo
o il filtro solare. Esso è composto da
due cerchi di varia forma uniti tra
di loro da un ponte, mentre la fun-
zione di far poggiare saldamente e
comodamente l’occhiale sul naso è
Figura 6. Parti fondamentali di una montatura in
affidata alle alette; l’appoggio sul- materiale di sintesi: A=asta; B=occhio; C=muso D=ponte;
le orecchie è assicurato dalla parte E=frontale; F=cerchio; G=alette
terminale delle aste che forniscono
la stabilità della distanza della par-
te posteriore della lente oftalmica
dall’apice corneale.

19.7.3 Cerchi
Questa parte della montatura è la
più soggetta a variazioni di forma
essendo condizionata dalle scelte
dei designers che nel tempo hanno
elaborato una serie infinita di for-
me stimolati dalla moda.
Nonostante ciò la forma degli anelli
può essere ricondotta a 4 forme ca-
noniche come si vede nella figura 7.
Al fine di tenere saldamente la lente
oftalmica o il filtro solare ben fissa a. rotonda; b. pantos; c. perimetrica; d. mefisto.
nella posizione voluta, il cerchio ha
al suo interno un canalino che assol-
ve perfettamente allo scopo in quanto la lente viene modellata al bordo con una forma
uguale e contraria del canalino, bisello, nel quale va perfettamente a inserirsi.
Le aste vengono unite al frontale tramite il muso con l’uso di una cerniera, che per-
mette anche alle aste di chiudersi sul retro fornendo un risparmio notevole di spazio
quando non in uso.

19.7.4 Ponte
Due sono i tipi canonici: ponte a sella e ponte a chiave (Figura 8).
– Ponte a sella (A): la superficie di contatto di questa parte della montatura che pog-
gia interamente sul naso assicura il massimo comfort; esteticamente fa sembrare il
naso più corto;
– Ponte a chiave (B): questa forma classica copre buona parte della base del naso,
facendolo sembrare più corto e in evidenza.
19. La Montatura nell’adulto 265

19.7.5 Muso
È quella parte della montatura in
cui l’asta si unisce al frontale. Cin-
que sono i modi di unione:
1. muso dritto;
2. muso a battente;
3. muso piegato;
4. muso curvato;
5. muso applicato.
Aste
Hanno il compito di ancorare il
Figura 7. A = ponte a sella; B = ponte a chiave
frontale di fronte agli occhi in una
precisa posizione che deve rimanere
inalterata nel tempo. In figura 3 sono riportate le forme canoniche mentre in figura
9 la morfologia.

19.8 Materiali di sintesi

I polimeri sono sostanze ottenute


per sintesi di monomeri e carat-
terizzate da un’elevata struttura
macromolecolare che, in determi-
nate condizioni di temperatura e
pressione, possono subire variazioni
più o meno permanenti di forma.
Esse si dividono in termoplastiche,
termoindurenti ed elastomeriche
(gomme).
– Termoplasti: sono materie che
sono altamente lavorabili, cioè
rammolliscono, sotto l’azione del
calore; in questa fase, esse posso-
no essere modellate o formate in
oggetti finiti per mezzo di stampi
e, per raffreddamento, tornano
Figura 8. Forme delle aste più diffuse
ad essere rigide. Almeno teori-
camente, esse sono reversibili
perché il processo può essere ri-
petuto più volte in base alle loro
qualità e dei plastificanti impie-
gati.
– Termoindurenti: i polimeri ter-
moindurenti hanno bassi pesi mo-
lecolari a temperatura ambiente,
mentre a temperature più alte si
formano tra le catene veri e pro- Figura 9. Elementi morfologici dell’asta. G lunghezza
pri legami chimici che produco- nominale; H lunghezza totale
no un aumento esponenziale dei
valori del peso molecolare. Tale processo è detto di reticolazione. A causa delle
19. La Montatura nell’adulto 266

loro caratteristiche fisiche molto diverse i polimeri termoplastici e termoindurenti


devono essere lavorati diversamente e vengono impiegati in applicazioni molto
diverse.
– Elastomeri: sono sostanze di sintesi le cui caratteristiche principali sono una gran-
de elasticità e deformabilità; esse possono essere sia del tipo termoplastico che
termoindurente.
In generale si può comunque dire che le materie plastiche sono costituite da catene,
anche molto lunghe, di molecole base (monomeri) in seguito ad un processo detto
di polimerizzazione. Si parla di “omopolimeri” se il monomero di partenza è unico;
di “copolimeri” se essi sono ottenuti da due o più monomeri diversi e di “leghe poli-
meriche” se il materiale ottenuto è il risultato della miscelazione di monomeri che
polimerizzano senza però combinarsi chimicamente. Attualmente si calcola che la
produzione di montature in materiale di sintesi rappresenti circa il 70% di quella
totale.

Nitrato di cellulosa, celluloide


Il primissimo polimero sintetico fu ottenuto da uno scienziato (Alexander Parkes)
che fece reagire la cellulosa pura (il frutto del fiocco di cotone) con l’acido nitrico.
Come si sa, la cellulosa è uno dei tanti polimeri presenti in natura; legno, carta e co-
tone ne contengono percentuali più o meno elevate fino quasi al 100%. La cellulosa
è costituita da unità ripetute del monomero di glucosio, uno zucchero.
Il nitrato di cellulosa è un termoplastico facile da produrre ma pericoloso da lavorare
perché fortemente infiammabile.
Vale la pena di ricordare che il nitrato di cellulosa è stato anche utilizzato per realiz-
zare uno dei primi “materiali compositi”: il vetro di sicurezza. Si trattava di un san-
dwich composto da due strati di vetro con interposto un film di nitrato di cellulosa.
Quando il vetro si rompeva, il film di nitrato di cellulosa teneva insieme i vetri e le
schegge. Per il settore automobilistico si trattò di una grande scoperta.

Acetato (di cellulosa)


Per molti versi, questo materiale è stato inventato per sopperire ai difetti presentati
dalla celluloide: soprattutto alla sua pericolosa infiammabilità. Si tratta di un termo-
plastico ottenuto dalla reazione fra la cellulosa e l’acido acetico invece che l’acido
nitrico.
A partire dalla fine dell’800, tanto con la celluloide che con l’acetato sono stati pro-
dotti gli oggetti più diversi e, fra questi, le montature considerando che, trattandosi
di un materiale originariamente trasparente, grazie all’uso di pigmenti e a seguito
di lavorazioni particolari, si potevano ottenere succedanei molto simili ai principali
materiali naturali in via di estinzione (tartaruga, avorio, corno, ecc.) oltreché, ovvia-

Caratteristiche Vantaggi
Facilità nel registro della montatura e
Ottima adattabilità
nell’inserimento delle lenti
Lucentezza del materiale e ampie possibilità di
Possibilità di ottenere tutti i modelli
combinazioni di colori
L’occhiale mantiene nel tempo le sue
Buona resistenza meccanica e chimica
caratteristiche sia di forma che chimico fisiche
Unico materiale plastico ricavato da una fibra
Minimizza il fenomeno di eventuali allergie
vegetale (cotone)
19. La Montatura nell’adulto 267

mente, una grande quantità di decori particolarmente originali.


Ancora oggi l’acetato di cellulosa, detto familiarmente “acetato”, è il materiale ter-
moplastico più usato nella realizzazione (sostanzialmente per fresatura di lastre) di
montature per occhiali.
Rhodoid è il nome brevettato di un prodotto commerciale originariamente di pro-
prietà della francese Rhône-Poulenc con il quale oggi viene venduto l’acetato pro-
dotto da un’azienda italiana (la Mazzucchelli che ne ha acquisito il brevetto) in
un’infinita varietà di colori e di textures ottenute grazie all’impiego di un’alta tecno-
logia coniugata con straordinarie utilità artigiane nel formulare i differenti modelli
ornamentali e nel produrli.

Poliammidi
Agli inizi degli anni ’30 i chimici della E.I. DuPoint de Nemour & Company iniziarono
una ricerca fondamentale sulle reazioni degli acidi dicarbossilici con la diammina
per formare poliammidi. Nel 1934 essi sintetizzarono la prima fibra completamente
di sintesi, il nylon 66, così chiamato perché viene sintetizzato da due differenti mo-
nomeri ciascuno contenente sei atomi di carbonio.

Questo polimero è il capostipite di tutti quei materiali che in occhialeria vanno sotto
il nome di nylon. I più importanti sono SPX, la famiglia del Trogamid CX e Grillamid
TR. Va da sè che i polimeri sono coperti da segreto industriale.

MXP7
Questo materiale è una miscela di nylon ed è impiegato nel processo di iniezione. È
un materiale resistente, leggero, e mantiene la sua forma a meno che non si riscaldi.

SPX
È una poliammide, polimero che permette di creare un design multifunzionale e con-
ferisce alla montatura comfort notevole. È stato sviluppato da Micheal Selcott e le tre
lettere della sigla stanno per S=Silhouette, P=Polymer, X=I vari impieghi dell’azienda.

Trogamid CX
Trogamid CX è una poliammide microcristallina trasparente che racchiude in sè le
caratteristiche chimico fisiche delle poliammidi amorfe insieme ad una elevata resi-
stenza alla rottura e agli agenti chimici, caratteristiche tipiche dei polimeri microcri-
stallini. È inoltre particolarmente resistente all’azione della radiazione UV, possiede
un ridotto assorbimento di umidità. Facilità di colorazione.

Trogamid ISO 1874 nomenclatura Monomeri


Diaminacicloalifatica e acido
CX gradi PAPACM12
dodeconedioico
Tabella 1. Esempio
19. La Montatura nell’adulto 268

Si possono infatti ottenere colori molto brillanti e marcatura con il laser. Queste pro-
prietà rendono il polimero adatto alla produzione di montature e lenti.
I polimeri della famiglia dei Trogamid sono sintetizzati usando dei polimeri base e
dei polimeri che si distinguono per la loro ottima trasparenza e l’alta resistenza agli
agenti chimici.
Le poliammidi impiegate in occhialeria sono individuate dalla sigla CX seguita da
quattro numeri che stanno ad indicare il valore della viscosità della composizione
(Tabella 1).
In occhialeria si usa la poliammide con la sigla CX7323. È una poliammide traspa-
rente e di media viscosità particolarmente indicata per la produzione di montature
da occhiali sia per iniezione e stampaggio, che per estrusione. Generalmente questo
particolare polimero può essere colorato facilmente.
Questo è un polimero in cui sono stati sostituiti i componenti aromatici con monome-
ri alifatici per aumentare la stabilità delle poliammidi trasparenti quando sottopo-
sto all’azione dei raggi UV. Esso si ottiene usando per la sintesi monomeri specifici
fino a ottenere una poliammide cristallina e trasparente. I cristalli sono però infini-
tesimi per cui la luce non viene diffusa dal polimero.
Le principali caratteristiche di questo polimero sono:
1. Polimero cristallino trasparente
2. Alta trasmissibilità della radiazione ottica
3. Elevata resistenza alla radiazione UV
4. Basso assorbimento di acqua con riferimento a molte poliammidi
5. Alta stabilità dimensionale
6. Alta resistenza agli urti anche a basse temperature
7. Elevata resistenza ai graffi
8. Facile da lavorare.

Grilamid TR
Con questo nome commerciale si indicano una serie di poliammidi amorfe e traspa-
renti. Questi prodotti possono essere lavorati usando metodologie termoplastiche
e che traggono la loro base su monomeri aromatici e cicloalifatici ottenendo così
polimeri che hanno una grande quantità di proprietà.
La famiglia di polimeri che va sotto questa sigla appartiene ad un gruppo di omo
poliammidi e polimeri amorfi.
Rispetto alle poliammidi semi cristalline, a questo polimero si perviene scegliendo

Polimero Applicazioni
TR 55 LX Dove si richiedono prodotti trasparenti come montature per occhiali
Costruzione di parti per iniezione e stampaggio in cui si richiede particolare durezza
TR 55 LY
e resistenza alle piegature
TR 90
Costruzione di montature particolarmente resistenti
TR 90 LS
TR 90 UV Particolarmente adatto a prodotti usati all’aria aperta
TR 90 LXS Prodotti che richiedono una buona resistenza alla piegatura come occhiali da vista
TR 90 NZ Particolarmente stabile e resistente agli urti. Indicato per gli occhiali protettivi
TR 55/90 LX Ha elevata stabilità e resistenza nel tempo
Tabella 2
19. La Montatura nell’adulto 269

opportuni monomeri in fase di sintesi, ottenendo così un polimero amorfo che origi-
na un prodotto di elevata trasparenza.
Questa famiglia di polimeri ha la peculiarità di combinare le proprietà delle poliam-
midi semicristalline con quelle dei polimeri amorfi.
In occhialeria vengono impiegati i seguenti polimeri di questa famiglia: TR 55 LX,
TR 55 LY, TR 90/90 LS, TR 90 LXS, TR 90 NZ.
Nella tabella 2 le proprietà di questi polimeri.
La famiglia TX 55, ha le proprietà sopra descritte distribuite in modo omogeneo,
mentre TR 90, è un composto cicloalifatico.

Optyl
L’Optyl è un materiale brevettato da Carrera e attualmente prodotto e utilizzato in
esclusiva dal Gruppo Safilo.
È commercializzato dal 1964.
È un materiale plastico termoindurente della famiglia delle resine epossidiche che,
oltre ad avere eccezionali qualità fisico-chimiche, garantisce un’ottima finitura della
superficie ed una resistenza superiore a quella dei convenzionali materiali termopla-
stici (acetato, propionato, ecc.). Gli occhiali con questo materiale si producono per
iniezione. (Tabella 3)
Nato da una speciale combinazione di sostanze, è un materiale plastico termoindu-
rente, leggerissimo ed estremamente confortevole in quanto adattabile a ogni volto.
Resistente nel tempo, risulta essere anallergico in quanto privo di plastificanti ed è
trattato con uno speciale rivestimento della superficie che permette di non rovinarsi
con sudore e prodotti cosmetici.
Una caratteristica dell’Optyl è l’“effetto-memoria”. Scaldato a 80-120°C, questo ma-
teriale può essere adattato all’anatomia facciale e il successivo raffreddamento com-
porta che la forma modificata rimanga nel tempo. Riscaldato poi nuovamente fino
alla “temperatura di memoria” riprende la sua forma originale. Di conseguenza la
forma originale dell’occhiale viene mantenuta in qualsiasi situazione.
L’Optyl garantisce un’ottima finitura della superficie ed una resistenza superiore

Caratteristiche Vantaggi
Peso ridotto (20% in meno rispetto ai materiali Leggerezza e comfort
termoplastici)
Flessibilità Comfort, adattabilità alla forma del viso
Resistenza al calore e agli sforzi meccanici Indeformabilità: la forma originale dell'occhiale
viene mantenuta in qualsiasi situazione
Effetto memoria Scaldato a 80-120°C, l'Optyl può essere
adottato all'anatomia facciale e il successivo
raffreddamento comporta che la forma modificata
rimanga nel tempo. Riscaldato nuovamente fino
alla "temperatura di memoria" riprende la sua
forma originale
Resistenza alla corrosione Resistenza al sudore e ai prodotti cosmetici
Non contiene plastificanti Ipoallergenico e non irritante
Ottenuto attraverso la tecnologia di fusione sotto Design tridimensionale ed effetti di colore unici
vuoto
Tabella 3
19. La Montatura nell’adulto 270

agli sforzi meccanici rispetto a quella dei normali termoplastici (acetato, propinato,
ecc), ottenuto attraverso la tecnologia di ‘colata sotto vuoto’. Le montature sono otte-
nute per stampaggio in colata a stella o per iniezione. Permette un design tridimen-
sionale con effetti di colori unici, lucidi e finemente sabbiati. Queste caratteristiche
lo rendono un prodotto unico ed innovativo.
Qualità delle montature in Optyl:
• grande resistenza e stabilità
• molto elastiche e praticamente indeformabili
• resistente agli agenti atmosferici
• 1/3 più leggero dell’acetato
• resistono ad alte temperature (250° - 300°)
Non si possono saldare con solventi, ma solo incollare con collanti di tipo epossidico
a due componenti, a caldo.
Per il montaggio occorre superare gli 80°, il raffreddamento fissa le eventuali modi-
fiche, ma per un effetto “memory” un nuovo riscaldamento oltre gli 80° fa ritornare
la montatura alla forma originale.

Poliuretano elastomerico (Kuramiron)


È il nome commerciale di un elastomero termoplastico della famiglia dei poliuretani
e viene usato insieme alla Grilamid.
Viene inserito all’interno della montatura conferendo una maggiore resistenza e una
piacevole sensazione sulla pelle.

Polimetilmetacrilato, PMMA
Questo materiale, presente sul mercato con molti nomi commerciali (come perspex,
plexiglass, vedril, ecc.), è chiamato familiarmente metacrilato e la sua introduzione
nel mondo dell’ottica è legata specialmente al mondo delle lenti a contatto.
Nell’occhialeria viene usato per la sua resistenza e per la possibilità di ricevere de-
corazioni.

Megol
La grande famiglia dei Megol rappresenta il perfetto connubio tra l’elasticità, la
morbidezza e l’aspetto degli elastomeri e l’economicità di trasformazione dei mate-
riali termoplastici. La matrice dominante di questi compounds elastomerici è l’SEBS
(Stirene - Etilene - Butilene - Stirene). L’assenza di doppi legami nella struttura po-
limerica dell’SEBS è l’origine delle ottime resistenze all’invecchiamento dei com-
pounds che ne derivano. La versatilità formulativa di questo polimero permette di
realizzare prodotti di una gamma molto estesa di durezze, adatti a molteplici appli-
cazioni in vari settori.
Morbida gomma anallergica usata per aste e naselli; offre un elevato grado di ela-
sticità per il massimo comfort. I megol rappresentano un’ottima combinazione tra
elasticità, morbidezza e aspetto delle gomme e l’economicità di trasformazione dei
materiali termoplastici.
La sua versatilità formulativa permette di realizzare prodotti di una gamma molto
estesa di durezze, adatti a molteplici applicazioni. Idonei per stampaggio ad iniezio-
ne ed estrusione, sono disponibili anche in gradi atossici e/o conformi al contatto ali-
mentare. La matrice dominante di questi compounds elastomerici è rappresentata
dai copolimeri termoplastici a blocchi appartenenti a diverse famiglie polimeriche.
Tipicamente i Megol appartengono alla classe dei copolimeri a blocchi di natura
stirenica (SEBS, SEPS), che presentano midblock idrogenati.
19. La Montatura nell’adulto 271

Esistono tuttavia versioni del prodotto che si basano su blocchi polimeri di altra
natura. L’idrogenazione conferisce alla struttura del materiale l’assenza dei doppi
legami e questa è l’origine delle ottime prestazioni dei compounds, quali l’eccel-
lente resistenza alla luce UV e all’invecchiamento. Particolarmente adatti al sovra-
stampaggio ed all’estrusione presentano al substrato rigido apprezzate proprietà di
soft-touch ed un pregevole aspetto estetico gommoso.

19.9 Metodi di costruzione di una montatura in materiale di sintesi

La costruzione di una montatura in materiale di sintesi prevede l’impiego dei se-


guenti processi:
1. Processo di Pantografatura
a. Produzione di lastre con processo a blocco
b. Produzione di lastre col processo di estrusione o profilazione
c. Costruzione della montatura per pantografatura delle lastre
2. Processo di stampaggio per iniezione

1.a Produzione di lastre con processo a blocco


Gran parte degli occhiali realizzati in materiale di sintesi (polimeri) ha come ele-
mento base la pianta del Cotone.
Il percorso per cui da questo componente base si possa ottenere il componente per
costruire le montature, ovvero il materiale fra i più usati nell’industria dell’occhiale-
ria, in gergo indicato come “cello” (acetato di cellulosa), è il seguente:
– Fase 1: la lavorazione inizia selezionando polpe di legno adatto o dei batuffoli (lin-
ters) di cotone. Dopo aver sottoposto questi componenti al processo di sbiancatura
e successive purificazioni per filtrazione (il processo è simile a quello di produzio-
ne della carta) si ottiene la cellulosa pura sotto forma di fine polvere bianca.
– Fase 2: acetilazione; la polvere di cellulosa così ottenuta viene fatta reagire con
l’anidride acetica. Si ottiene così l’acetato di cellulosa.
– Fase 3: inizio del processo così detto “a blocco” che porterà alla realizzazione di la-
stre colorate di straordinaria bellezza colorate “su misura”, ovvero su indicazione
del committente, vedi figura 13.
Processo a blocco:
1. Si omogeneizza la polvere con appositi solventi e plastificanti fino ad ottenere
una massa omogenea e plasmabile
2. Acquisizione della materia prima proveniente da polpa di legno selezionata o da
balle di batuffoli di cotone che
sono costituiti da cellulosa qua-
si pura
3. Sbiancatura e purificazione per
filtrazione analogamente ai pro-
cessi per produrre la carta; alla
fine di questa operazione si ot-
tiene una polvere bianca
4. La pasta viene lasciata inco-
lore o viene colorata (con pig-
menti di vario tipo - sintetici,
vegetali, minerali - in funzio-
ne del disegno da realizzare) Figura 10. Tipico foglio di cotone
19. La Montatura nell’adulto 272

Figura 11. Alcune fasi della lavorazione delle lastre col processo a blocco

su calandre e successivamente compattata in presse riscaldate


5. In questo modo si ottengono blocchi di acetato monocolore dello spessore deside-
rato
6. Monoblocchi di colori diversi, vengono tagliati e ricomposti
7. Singoli fogli o frammenti di essi combinati tra di loro vengono pressati entro un
nuovo stampo in modo da ottenere un blocco con un nuovo disegno la cui massa
è organizzata secondo la ricetta cromatica voluta
8. Se occorre, per ottenere un decoro particolarmente complesso, il blocco così otte-
nuto viene nuovamente tagliato in lastre o frammenti e il processo continua fino
a quando si ottiene un blocco con il disegno voluto (generalmente i passaggi non
superano i cinque)
9. Il blocco viene tagliato in lastre sottili di spessore costante
10. Si procede all’essiccazione per eliminazione dei solventi: questa fase è molto
delicata e richiede un controllo accurato della loro evaporazione. Per ottenere
lastre adatte alla costruzione di montature il tempo di essiccamento varia dalle
due alle quattro settimane ed è funzione dello spessore della lastra. Una cattiva
essiccazione delle lastre potrebbe determinare la formazione di bolle o di crepe
nella lastra stessa e la tendenza a imbarcarsi.
Il processo descritto consente di ottenere effetti cromatici e tridimensionali sorpren-
denti, non riscontrabili con altre tecniche.

1.b Produzione di lastre col processo di estrusione o profilazione


L’estrusione è un processo di produzione industriale di trasformazione della plastica
che consente di produrre pezzi a sezione costante. L’estrusione consiste essenzial-
19. La Montatura nell’adulto 273

Figura 12. Processo di produzione a blocco

mente nel forzare per compressione il materiale allo stato pastoso a passare attra-
verso una sagoma che riproduce la forma esterna del pezzo che si vuole ottenere.
Nel caso delle materie plastiche il materiale viene introdotto sotto forma di granuli o
polvere; con il calore prodotto dall’attrito con le pareti dell’estrusore o con resisten-
ze elettriche si ottiene la fusione.
Nel caso di una montatura, si ottiene una lastra uniforme del colore voluto, colore
uniforme.
Ottenuta il tipo di lastra desiderato si passa alla costruzione.

1.c Costruzione della montatura per pantografatura delle lastre


La realizzazione delle montature da lastra in acetato o di altro materiale prevede
una serie di passaggi che richiedono tecnologie estremamente sofisticate e necessi-
tano di una mano d’opera particolarmente qualificata. Lo schema generale è ripor-
tato nella figura 12.
Fase 1: il primo passaggio consiste nel taglio della lastra scelta in rettangoli corri-
spondenti alle dimensioni del frontale e delle aste della montatura. Il rettangolo da
cui si ricava il frontale si chiama “mattonella”.
Fase 2: si procede quindi alla fase di curvatura della lastra.
Fase 3: dopo le fasi di piegatura si passa alla realizzazione della geometria del mo-
dello mediante la fresatura della mattonella in due fasi principali. La prima consiste
nella fresatura della parte interna del frontale e del canalino (bisello) che allogge-
rirà la lente. La seconda prevede la lavorazione della parte esterna del frontale e
dei musi. Entrambe le fasi utilizzano esclusivamente macchine a controllo numerico
Fase 4: una volta realizzata la geometria del modello, sul frontale viene inserita la
cerniera che permette la successiva unione con l’asta; l’inserimento avviene in corri-
spondenza delle “sede cerniera” dopo che il materiale è stato riscaldato localmente
mediante l’utilizzo degli ultrasuoni.
19. La Montatura nell’adulto 274

Fase 5: i listelli ricavati dalle


aste vengono inviati all’anima-
tura, operazione che prevede
l’inserimento di una struttura
metallica (anima) al loro inter-
no. Questo processo prevede
due momenti:
a. riscaldamento dell’asta gra-
zie al passaggio di corrente al
suo interno. La corrente viene
applicata tramite elettrodi di-
sposti sopra e sotto il listello
b. inserimento della lamina
Fase 6: Quando escono dalle fre-
se, i componenti della montatu-
ra presentano degli spigoli vivi
che devono essere raccordati.
Quando previsto, è necessario
preparare la superficie dei com-
ponenti per il trattamento di
verniciatura o di brillantatura.
La rifinitura della superficie si
ottiene con la “burattatura”
Fase 7: Affinché l’occhiale avvol-
ga correttamente la testa di chi
lo indossa occorre la meniscatu-
ra che è l’appropriata curvatura
del frontale. Questo entra in un
forno ad aria calda, e una volta
riscaldato, viene inserito in uno
stampo che gli conferisce la giu- Figura 13.
sta forma
Fase 8: Una volta assemblati i
pezzi si passa all’abbellimento ovvero alla decorazione delle aste secondo quanto
stabilito dal progetto
Fase 9: Terminati tutti i processi il prodotto finito viene testato e serigrafato.

2. Processo di stampaggio per iniezione


Questo processo si fonda sull’utilizzo di stampi che “producono” componenti semi-
lavorati: questi si ottengono introducendo granuli di materiale plastico in un pressa
che, a elevata pressione e alla temperatura richiesta dal polimero fluidifica e riem-
pie le cavità dello stampo grazie al processo di iniezione; estratti dallo stampo anco-
ra caldi, i componenti assumono la necessaria rigidità in seguito a raffreddamento.
I materiali impiegati in questo processo sono principalmente il Grilamid e l’Optyl.
Attualmente si sperimentano anche bio materiali come legno liquido ed oli vegetali
particolari.
19. La Montatura nell’adulto 275

19.10 Montature in metallo

Rispetto alle montature realizzate con materiale di sintesi, le montature in metallo


sono più complesse nella loro realizzazione e di conseguenza anche più costose per
l‘utente finale.

19.11 Classificazione

Anche in questo caso la tipologia e le forme messe in commercio sono praticamente


infinite; qui di seguito si tenta una classificazione che, pur non avendo carattere
esaustivo, cerca, con l’ausilio delle norme ISO di dare una sistemazione alla suddetta
tipologia.
È da tenere presente che tale classificazione nasce dall’esame dei modelli presenti
sul mercato e dopo aver sottoposto ad analisi il linguaggio comune in cui spesso si
confonde la tecnica di montaggio con il tipo di montatura.
Montature in metallo propriamente dette: montature in cui gli anelli del frontale
racchiudono in modo completo o incompleto la lente o il filtro. I sistemi di bloccaggio
della lente alla montatura sono peculiari alle singole aziende produttrici. Elemento
qualificante di questa famiglia di montature nel caso siano “a occhio o cerchio chiu-
so” è il tubetto.
Es: la dizione “montatura in nilor” usata nel linguaggio comune, si esplicita nel se-
guente modo: “montatura in metallo in cui il modo di bloccare la lente nei”cerchi”
usa una tecnica particolare, chiamata nylor dal filo di nylon che viene usato e dalla
ditta che per prima lo ha introdotto.
Montature in cello-metallo: quando una delle componenti fondamentali della mon-
tatura, frontale o aste, è in materiale di sintesi.
Occhiale “tre pezzi”: ultimamente al posto del frontale, come elemento portante
delle aste, è stata adottata la lente stessa, dando luogo a un particolare di occhiale/
montatura.

19.12 Parti fondamentali della montatura in metallo

In figura 14 sono riportate le principali parti di un occhiale in metallo mentre nella


figura 15 si riporta un “esploso” dello stesso.

Tubetto
È quella parte della montatura in metallo che serve a rendere stabile la chiusura del
cerchio, dopo che si è inserito la lente sagomata correttamente.
L’unione del tubetto al cerchio avviene per saldatura. Viste le temperature con cui
si esegue tale processo, il tubetto si può leggermente deformare. Per il suo corretto
funzionamento si deve ripassare il filetto interno con una maschiatrice. Se questa
operazione non viene eseguita correttamente, l’utensile crea una doppia filettatura
la cui conseguenza è l’usura del filetto, della vite e del tubetto, danneggiando le filet-
tature. Una volta che la vite si è spanata, si blocca, impedendo l’apertura del cerchio
oppure può fuoriuscire.
Altro inconveniente che si può originare è che dopo che il tubetto è stato saldato al
cerchio, si deve eseguire una fresatura a “V” per permettere l’apertura del cerchio
stesso. È a questo punto che si deve introdurre la lente e la vite di chiusura. Se la fre-
19. La Montatura nell’adulto 276

Figura 14. Parti fondamentali della montatura in metallo. 1 Frontale; 2 Terminale dell’asta; 3 Zona di
regolazione placchetta; 4 Nasello a sella o anatomico; 5 Canalino o bisello; 6 Asta; 7 Cerniera, 8 Musetto; 9
Naso o ponte; 10 Cerchio; 11 Sagoma del cerchio; 12 Vite

Figura 15. Componenti di un occhiale in metallo. 1 Lenti di presentazione. 2 Lenti solari. 3 Porta placchetta.
4 Placchette. 5 Naso flessibile nichel titanio. 6. Naso coniato. 7 Frontale coniato. 8 Frontale fresato da lastra
in metallo. 9 Frontale fototranciato. 10 Frontale tranciato laser. 11 Cerchi. 12 cerniera flex. 13 Cerniera. 14
Tubetto chiudi cerchio. 15 Vite 16 Muso monoblocco. 17 Componente mim. 18 Componente da microfusione.
19 Abbellitore in acetato. 20 Asta da filo sagomato CNC. 21 Asta a Riccio. 22 Asta tagliata Laser. 23 Asta
fototranciata. 24 Asta Coniata. 25 Asta ricavata flex. 26 Asta flessibile nichel titanio. 27 Asta tornita CNC.
28 Terminale in acetato. 29 Terminale iniettato
19. La Montatura nell’adulto 277

satura non è stata eseguita a rego-


la d’arte, nell’interno del tubetto
si creerà un doppio asse che dopo
che si è avvitata la lente, fa sì che
questa possa rompersi.
Da quanto detto in modo succinto
si evince come negli occhiali in
metallo in cui è presente questo
elemento esso sia, se non corretta-
mente realizzato e montato, fonte
di problemi per l’ottico.

Placchette
Le placchette hanno la funzione di
fare poggiare l’occhiale sul naso.
La caratteristica fondamentale di
una placchetta è quella di essere
confortevole e di distribuire sulla Figura 16. I principali tipi di placchetta con i tipici attacchi:
sua superficie in modo uniforme il 1. bottone (Button); 2. pressione (Click); 3. baionetta (Plug
peso dell’occhiale. Non deve pro- in); 4. vite (Screw)
vocare sulla radice del naso quel-
le fossette rosse che creano tanto
disturbo all’ametrope; deve anche
impedire all’occhiale di scivolare,
una volta indossato, ovvero non
deve alterarne l’assetto.
Importante è anche la forma
dell’attacco della placchetta, ol-
tre alla caratteristica di poter es-
sere “modellato” ovvero adattato
correttamente sul naso dell’ame-
trope. Deve essere l’artefice del
comfort. È la rigidezza del colle-
gamento tra porta placchetta e
placchetta a rendere possibile un
esatto funzionamento della base
d’appoggio del nasello, e di conse-
guenza, la massima ottimizzazione
delle sue caratteristiche.

I metalli e le leghe Figura 17. A. Esempio di placchetta e attacco a pressione.


Prima di descrivere sinteticamen- È particolarmente importante curare questo particolare
te i principali metalli usati in oc- della montatura perché si condiziona il comfort e l’uso
dell’occhiale da parte dell’ametrope. B. Ultimamente
chialeria è opportuno ricordare è invalso l’uso di personalizzare le placchete. Qui se ne
che, con il termine “lega metalli- riporta un esempio oltre alla schematizzazione delle
ca” si intende una miscela solida dimensioni
(mono o polifasica) composta da
due o più elementi di cui uno, il principale, è metallico come, ad esempio, nell’accia-
io, nella ghisa o nell’ottone.
I componenti della lega sono indivisibili e non sono visibili singolarmente.
19. La Montatura nell’adulto 278

L’alluminio e le sue leghe


Attualmente trova sempre maggiore impiego in occhialeria grazie a tutta una serie
di brevetti messi a punto dall’industria italiana che hanno brillantemente superato
tutti quegli ostacoli tecnici che in passato ne hanno ostacolato l’impego.

Leghe metalliche ferrose


Tra le leghe ferrose costituite sostanzialmente dal “metallo” ferro e dal “non metal-
lo” carbonio, quelle contenenti dallo 0,06 al 2,06% di carbonio sono dette “acciai” e
si caratterizzano per esprimere un’elevata resistenza a trazione e compressione, buo-
na resilienza, discreta colorabilità, ottima lavorabilità alle macchine utensili, ottima
plasticità e ottima saldabilità.
Le proprietà di un acciaio dipendono peraltro da molti fattori quali la percentuale
di altri elementi e i trattamenti termici subiti. Molti tipi di acciaio sono progettati e
prodotti per uno scopo preciso (frontali, viti, ecc.).

Acciaio inossidabile
Si tratta di una famiglia di leghe costituite principalmente di ferro, nickel, cromo,
carbonio e altre sostanze in varie proporzioni: il nickel e il cromo rendono queste
leghe particolarmente inattaccabili dagli agenti chimici comuni.
Gli occhiali in acciaio inossidabile sono leggeri, hanno una lunga durata; questa lega,
infatti, si usa per fabbricare montature ultra sottili a causa della sua eccellente re-
sistenza alla trazione.
Grazie al peso ridotto, alla loro resistenza e versatilità di progettazione, i profili in
acciaio inossidabile sono particolarmente adatti alla costruzione di montature.
Le montature in acciaio non sono particolarmente costose e, pertanto, un prodotto
anche di qualità eccellente spesso non manifesta un prezzo eccessivo.
Alcune leghe di acciaio impiegate in occhialeria sono:
− AISI 316 L: usata per i cerchi degli occhiali;
− ANSI 302: usata per componenti sottili ed elastici come molle, aste, ecc.;
− acciaio armonico: contenente silicio e manganese questa lega è malleabile e flessi-
bile e facilita l’inserimento dei ClipOn RX.

Leghe di rame e di altri metalli


Per la realizzazione di occhiali in metallo si utilizzano anche altre leghe particolari,
quali l’alpacca, il monel, il rame/ berillio; grazie a certe loro caratteristiche specifi-
che, queste leghe risultano particolarmente adatte alla produzione di montature o
componenti per montature.

Il cobalto
Usato generalmente come componente di leghe metalliche, si usa in montature di
alta qualità alle quali conferisce una estrema leggerezza, durabilità, flessibilità e
sottigliezza. Si può anche rivestire con una grande quantità di colori ma è molto caro
e quindi di uso limitato.

Il titanio e le sue leghe


Il titanio è un elemento piuttosto abbondante sul nostro pianeta: per quantità occu-
pa il nono posto, di fatto costituisce il 6% della crosta terrestre.
Questo metallo evidenzia caratteristiche prestazionali assai simili all’acciaio ma
pesa il 40% in meno; il titanio mantiene le sue caratteristiche alle temperature più
19. La Montatura nell’adulto 279

Leghe Caratteristiche Vantaggi


Alpacca o argentone Robusta ed elastica, consente Evidenzia durevolezza e
rame: 62% finiture superficiali brillanti affidabilità. Si usa per i blocchi
zinco: 20% di chiusura delle cerniere e per
nickel: 13% i frontali
Rame Berillio Resiste alla corrosione; presenta Consente di ottenere
rame: 98% buone caratteristiche metalliche componenti molto decorati con
berillio: 2% spessori molto variabili
Bronzo Indicata per il processo di Consente di ottenere aste
rame: 83,5% microfusione flessibili. Impiegato in alternativa
stagno: 6,5% al Blanca Z
Bronzi speciali Materiale elastico e finitura Consente spessori contenuti;
rame: 83% superficiale brillante; non mostra flessibilità. Viene
stagno: 6% contiene nickel utilizzato nella fabbricazione
nickel: 11% di aste
Bronzo al fosforo Materiale con caratteristiche Ideale per le aste
bronzo: 95% meccaniche elevate ottenute
fosforo: 5% attraverso un processo termico
di indurimento (tempra)
Blanca Z È una lega estremamente Adatta a realizzare ponti, aste,
rame, nickel, zinco, stagno flessibile placche per cerniera e porta
naselli
Cuproberillio Lega amagnetica. Si usa per Adatto a realizzare cerchi, ponti,
rame: 77% parti con caratteristiche di aste e placche per cerniere
berillio: 23% grande elasticità; resistenti a
sollecitazioni frequenti
Kynetium Caratteristiche meccaniche
magnesio, silicio, titanio molto elevate
Trilam Lega nota per applicazioni L’aggiustamento dell’assetto è
aerospaziali che evidenzia una reso difficile dalla memoria di
sofisticata miscela di leggerezza forma
(Mg), forza (Ti) ed elasticità (Si)
Nickel-Argento Estremamente leggero, È più fragile di altri metalli ed è
manifesta notevole memoria di meno adatto ai telai sottili (oggi
forma così diffusi)
Leghe di rame e di altri metalli

estreme.
Resistente alla corrosione, esso è anallergico e biocompatibile in quanto presenta
una porosità superficiale analoga a quella dei tessuti umani (rispetto ai quali, peral-
tro, risulta fisiologicamente inerte). In considerazione del fatto che il 10% della po-
polazione mondiale è allergica al nickel accusando asma, sinusiti, eruzioni cutanee,
eczemi e dermatiti, le montature in titanio, non contenendo nickel, sono indicate per
coloro che soffrono di allergie cutanee. Per questo stesso motivo le leghe di titanio
sono utilizzate nelle componenti protesiche di anca, ginocchio e impianti dentali.
Grazie alle suddette caratteristiche si calcola che il 30% degli occhiali prodotti al
mondo sia in titanio; si stima che nei prossimi anni, questa quota tenderà a crescere
in tutti i mercati.
19. La Montatura nell’adulto 280

Leghe Caratteristiche Vantaggi


Pure Titanium Pesa la metà del Monel e Leggero
99,2% titanio + elementi presenta una malleabilità due Resistente alla corrosione
aggiuntivi come ossigeno, volte superiore alla sua. Ipoallergenico
carbone e ossido di ferro 1987 Facile da lavorare Duraturo Biocompatibile
Beta Titanio Lega leggera molto flessibile; Stessi benefici del Pure
1991 (high tech titanio) resistente agli sforzi e alla Titanium: flessibile e leggero;
75% titanio corrosione può essere lucidato più
25% alluminio e vanadio finemente del Pure Titanium
Z-Titanio 2008 Lega ad alta resistenza Nessun rischio per il corpo
titanio + zirconio ed elevata elasticità. umano: leggero, flessibile e
Non contiene vanadio, ferro, Completamente sicura per ogni facile da adattare
rame, zinco o nickel tipo di pelle: leggera
Excellence Titanio 2009 Lega che evidenzia alta Altamente flessibile; anallergico
Non contiene nickel flessibilità; completamente e leggero; elevata plasmabilità
sicura per ogni tipo di pelle;
leggera. Manifesta una speciale
memoria di forma
Flexon 7 Possiede una elevata memoria Gli occhiali sono molto robusti,
Lega a base di titanio di forma durevoli e più leggeri dei
tradizionali occhiali in metallo
Titanium Ti-227 È una lega circa il 50% più Ipoallergenico; ideale per
Lega a base di titanio leggera dei normali metalli per l’impiego in occhialeria
occhiali. Un terzo più resistente
dell’acciaio
Il titanio e le sue leghe

Le sue caratteristiche corrispondono perfettamente alle esigenze dei produttori e


dei portatori di montature; in condizioni di uso normale, il titanio resiste alla rottura
più di qualsiasi altro materiale. Oltre a ciò, gli occhiali in titanio sono resistenti alla
corrosione, al sudore e all’acqua del mare mentre i tradizionali occhiali in metallo
sono soggetti all’ossidazione che si verifica nel tempo per il contatto con l’aria aperta
e per la presenza di umidità.
La formulazione di sempre nuove leghe a base di titanio apre interessanti scenari
nello sviluppo di nuovi prodotti legati al mondo dell’occhialeria.
Il costo delle montature in titanio è superiore a quello delle montature realizzate con
altri materiali e ciò è dovuto a diversi fattori:
− elevato costo della materia prima: pur essendo così diffuso sulla terra esso è dispo-
nibile solo in basse concentrazioni, per cui occorre molta energia per produrlo;
− costo elevato e più rapida usura delle attrezzature utilizzate per la lavorazione;
− utilizzo di procedure particolari per la saldatura;
− necessità di un elevato livello di specializzazione degli operai;
− utilizzo di tecniche complesse per la finitura, la coloritura e l’applicazione delle
guarnizioni.

Cromatura e altri trattamenti superficiali


Il cromo è un elemento di eccezionale durezza e di colore bianco. Normalmente vie-
ne depositato per via galvanica su uno strato di nickel puro quale protezione contro
la corrosione.
19. La Montatura nell’adulto 281

Per ottenere una cromatura “nera” vengono depositati cromo metallico ed ossido di
cromo VI in un rapporto preciso.
Nel trattamento di montature metalliche, altri elementi impiegati sono il palladio, il
rutenio, ecc. Dopo l’elettrodeposizione, il metallo viene protetto da una verniciatura
trasparente.

19.13 Metodo di costruzione di una Montatura in titanio

Fase 1 - Taglio ad acqua della lamiera per la realizzazione del frontale


In questa fase vengono tagliati, uno ad uno, gli sbozzi dei frontali. Partendo da una
singola lastra di puro Titanio con spessore 2 mm, viene eseguito il taglio per ogni
singolo pezzo tramite una macchina a controllo numerico dotata di taglio ad acqua. Il
getto ad altissima pressione, permette di tagliare velocemente e senza stress termico
la lamiera di puro Titanio con sufficiente precisione.

Fase 2 - Fresatura dei frontali


Ogni frontale dal taglio ad acqua passa alla fresatura di precisione. Ciascun pezzo
viene caricato su un apposito telaio che permette alla fresa a controllo numerico di
lavorare con precisione centesimale. In questa fase vengono creati:
- bordo esterno
- abbassamenti nella zona naso e musetti
- canalino per l’inserimento della lente
- eventuali incisioni e forature.

Fase 3 - Burattatura dei frontali


La burattatura è una fase molto importante e, in questo caso viene eseguita con
buratto circolare vibrante. I frontali in metallo, immersi in un conglomerato di ma-
teriali ceramici ed acqua, vengono fatti ruotare e vibrare, consumandone così la su-
perficie.
La burattatura serve per conseguire vari obiettivi meccanici ed estetici:
– eliminare completamente bave e limature di Titanio dovute al processo di fresatura
– eliminare pericolosi bordi taglienti
– smussare gli spigoli per una miglior tenuta dell’eventuale vernice
– rendere più piacevole alla vista ed al tatto il frontale.

Fase 4 - Tranciatura della lamiera per la realizzazione delle aste


La sottile lamiera di beta-titanio, spessa solamente 0,5 mm, tramite un ferro di tran-
cia, viene letteralmente tagliata con la sagoma dell’asta desiderata. È un processo
cruento e veloce che necessita, contrariamente alle operazioni precedenti, di una
attrezzatura specifica per ogni tipo di asta. Uno stampo di trancia genera infatti una
sagoma specifica, per cambiare sagoma è necessaria una nuova attrezzatura.

Fase 5 - Tranciatura foro sull’asta


Sempre tramite tranciatura viene ricavato un ulteriore foro nel corpo dell’asta. Men-
tre nel passaggio precedente si sono ricavati i bordi esterni, in questo caso la tran-
ciatura serve per ricavare un foro dentro il perimetro dell’asta. Le forature possono
avere funzioni sia estetiche che meccaniche e funzionali, in questo caso la foratura
ha una sola funzione estetica e rappresenta parte del logo dell’azienda produttrice.
19. La Montatura nell’adulto 282

Fase 6 - Taglio a filo dell’asta per ricavare il “pettine” di piega terminale


Per far si che l’occhiale possa adattarsi al volto di ogni individuo è necessario che
l’asta possa piegarsi in varie posizioni dietro l’orecchio.
Per ottenere questo risultato, tramite una fresa a filo, si ricava sulla parte terminale
dell’asta un “pettine” che ha la funzione di indebolire e rendere deformabile ma-
nualmente il metallo. In questo modo la forma del terminale può essere modificata
secondo le necessità di ogni persona.
La fresatura in questo caso viene eseguita in modo molto lento e preciso ma su cen-
tinaia di pezzi contemporaneamente.

Fase 7 - Burattatura delle aste


Come i frontali anche le aste finite vengono burattate per eliminare bave e bordi
taglienti utilizzando sempre il buratto vibrante a materiali ceramici e acqua.

Fase 8 - Controlli di qualità e dimensionali


Ogni lavorazione industriale non è esente da errori ed imperfezioni che possono
verificarsi durante le varie fasi di lavoro. I controlli di qualità intermedi durante la
lavorazione sono pertanto fondamentali per evitare che avanzino, nel flusso produt-
tivo, elementi di scarto.
In questo caso quindi, prima delle operazioni successive di saldatura, frontali ed
aste vengono sottoposti ad un controllo visivo e dimensionale tramite strumenti di
misura per:
- verificare la corretta calibratura dei fori che accoglieranno le lenti
- verificare se ci sono stati errori o problemi durante le operazioni di taglio/fresatura/
tranciatura
- verificare la presenza di imperfezioni superficiali del metallo.

Fase 9 - Decapaggio
Per preparare il metallo ad una corretta saldatura è necessario eliminare, tramite
un’operazione di decapaggio, lo strato di ossido superficiale che naturalmente si for-
ma sui componenti esposti all’aria. Lo strato di ossido è invisibile e interessa solo
uno spessore di pochi micron del metallo. Questa operazione viene eseguita veloce-
mente immergendo tutti i componenti metallici per breve tempo in un cocktail di
acidi corrosivi che asportano il velo di ossido superficiale.

Fase 10 - Saldatura del chiudi-cerchio sul frontale


Una volta decapati, i componenti, possono essere saldati con maggior successo.
La saldatura del Titanio è una fase molto difficile e critica del procedimento indu-
striale e viene eseguita a temperature molto elevate portando i componenti vicino al
punto di fusione. Il tutto viene compiuto inoltre in una atmosfera satura di Argon, un
gas inerte che inibisce la propensione del metallo a legarsi velocemente con l’ossige-
no e l’idrogeno presenti nell’atmosfera. In questa fase vengono saldati i due chiudi-
cerchio sulla parte interna del frontale, ovvero quei componenti, uno a destra e uno
a sinistra, che successivamente permetteranno all’ottico di aprire i cerchi metallici
per inserirvi le lenti. La saldatura è compiuta quando i due componenti si fondono
tra loro con l’aiuto di una minima quantità di materiale d’apporto.

Fase 11 - Saldatura della cerniera femmina sul frontale


Sempre sul lato posteriore del frontale ma nella zona dei musetti vengono saldate le
19. La Montatura nell’adulto 283

due cerniere femmina che, successivamente, fungeranno da collegamento e cardini


per le aste.
Le cerniere, come i chiudi-cerchio, sono elementi di minuteria metallica preparate
ad hoc separatamente.

Fase 12 - Intestatura dei musetti


Per evitare errori di allineamento tra l’asse di rotazione delle cerniere e i piani di
battuta tra aste e musi si procede alla cosiddetta intestatura: il lato di battuta dei
due musi viene rettificato tramite una fresa a disco rotante prendendo come riferi-
mento unicamente all’asse di rotazione della cerniera precedentemente saldata. In
questo modo la precisione è assicurata e gli errori scongiurati.

Fase 13 - Lavaggio
Tra una fase e l’altra spesso si rende necessario il lavaggio dei semilavorati per evi-
tare sporcizia e contaminazioni tra le varie fasi e attrezzature.
Il lavaggio viene eseguito ad immersione utilizzando appositi prodotti sgrassanti
diluiti in acqua, resi ulteriormente efficaci dall’utilizzo di vasche ad ultrasuoni. Il
processo si conclude con l’asciugatura tramite aria calda in appositi forni.

Fase 14 - Sbavatura dell’intestatura


Dopo il taglio ogni musetto viene controllato e sbavato a mano per eliminare ogni
possibile residuo del taglio.

Fase 15 - Controllo della qualità dimensionale.


A campione, tramite calibro, viene controllato il posizionamento esatto della cernie-
ra rispetto alla battuta.

Fase 16 - Meniscatura del cerchio


La meniscatura viene eseguita su ognuno dei due cerchi componenti il frontale ed
è necessaria per permettere alla montatura di accogliere le lenti. Ogni lente è rica-
vata da una porzione di sfera chiamata “base”, anche l’occhiale quindi deve essere
conformato secondo questa “base” per poterla accogliere. Ogni diversa sagoma im-
plica quindi un diverso stampo di piega formato da un punzone centrale, sagomato
come la lente, e una calotta e contro-calotta sferica aventi il raggio adatto alla base
desiderata.

Fase 17 - Divisione del cerchio e chiudi-cerchio


Tramite una fresa a disco rotante con lo spessore di soli 0.3 mm si pratica contempo-
raneamente, in modo molto preciso, il taglio dei cerchi e chiudi-cerchi in corrispon-
denza della metà di questi ultimi. Questa operazione renderà possibile all’ottico il
facile inserimento della lente all’interno del cerchio. Durante l’operazione viene in-
serito un liquido refrigerante per diminuire al massimo la temperatura generata dal
fortissimo attrito tra fresa e Titanio ed evitare così danni alle attrezzature e problemi
di qualità sul prodotto.

Fase 18 - Lavaggio

Fase 19 - Avvitatura dei chiudi-cerchio


Dopo la divisione tramite una vite vengono chiusi i due chiudi-cerchi. La vite, al bi-
sogno, potrà essere allentata per aprirli.
19. La Montatura nell’adulto 284

Fase 20 - Piegatura dei musi


Con precisione i musi vengono piegati con una piegatrice pneumatica. L’operazione
è molto delicata poiché, anche un piccolo errore, potrebbe compromettere la preci-
sione dell’angolo pantoscopico e l’angolo di chiusura delle aste.

Fase 21 - Saldatura dei porta alette


Con la tecnica di saldatura già conosciuta in precedenza vengono saldati i porta
alette nella zona centrale del frontale. La loro funzione sarà quella di accogliere, in
fase di finitura, i cuscinetti plastici protettivi atti all’appoggio dell’occhiale sul naso.

Fase 22 - Saldatura della cerniera maschio sull’asta


Come sul frontale, sul lato anteriore di ciascuna asta vengono saldate le due cerniere
maschio.

Fase 23 - Intestatura delle aste


Come per i due musetti del frontale anche sulle aste, per evitare errori di allinea-
mento tra l’asse di rotazione delle cerniere e i piani di battuta si procede all’inte-
statura: il lato di battuta di ciascuna asta viene rettificato tramite una fresa a disco
rotante prendendo come riferimento l’asse di rotazione della cerniera.

Fase 24 - Lavaggio

Fase 25 - Rondelle anti grippaggio


Su ogni cerniera maschio presente sulle aste si inseriscono due rondelle anti grip-
paggio.
Servono per agevolare il movimento della cerniera ed impedire il contatto tra Tita-
nio e Titanio che, a causa del forte attrito, impedirebbe alla cerniera di funzionare
correttamente.

Fase 26 - Assemblaggio
Tramite viti nelle cerniere il frontale viene definitivamente fissato alle due aste.

Fase 27 - Raccordature con ruota gommata


L’occhiale così assemblato presenterà delle piccole imperfezioni dovute ai naturali
errori delle lavorazioni e ai possibili contrasti che avvengono durante le molte mo-
vimentazione delle fasi precedenti. Tramite ruota gommata vengono raccordate ed
eliminati tutte le imperfezioni.

Fase 28 - Pulitura con ruota in tessuto


Tramite pulitura con ruota in tessuto viene ulteriormente affinato il risultato otte-
nuto con la ruota in gomma.

Fase 29 - Lavaggio

Fase 30 - Burattatura di levigatura


Tramite un buratto di tipo rotativo-satellitare, riempito con materiale vegetale e
paste abrasive, l’occhiale finito viene ulteriormente levigato per uniformare in modo
totale le superfici. Il processo può durare anche molte ore a seconda del grado di
levigatura che si vuole conferire al prodotto.
19. La Montatura nell’adulto 285

Fase 31 - Lavaggio

Fase 32 - Controllo di qualità pre-finitura


Dopo l’omogeneizzazione della superficie dovuta alla burattatura di finitura è parti-
colarmente facile individuare ulteriori piccole imperfezioni. Viene eseguito pertan-
to un controllo di qualità totale sulla montatura prima della verniciatura. Eventuali
imperfezioni verranno corrette definitivamente.

Fase 33 - Sabbiatura
Per preparare le montature alla verniciatura viene eseguita una fine sabbiatura con
materiale vetroso. Questa operazione conferisce al metallo la ruvidezza necessaria
affinché la vernice possa meglio aderire alla superficie.

Fase 34 - Pulizia e lavaggio


Ogni residuo di sabbia vetrosa viene accuratamente eliminato tramite aria compres-
sa e successivi lavaggi. In questo caso è fondamentale pulire e sgrassare a fondo le
montature visto che la fase successiva sarà la verniciatura.

Fase 35 - Posizionamento su telai


Le operazioni di verniciatura iniziano con il posizionare ogni singolo pezzo su degli
appositi telai per evitare il contatto diretto con le mani e agevolare le operazioni di
movimentazione durante la verniciatura.

Fase 36 - Verniciatura primo passaggio


Pezzo per pezzo, singolarmente, ogni occhiale riceve il primo velo di vernice. A secon-
da del modello e del risultato finale che si vuole ottenere potrebbe anche rimanere
l’unico.

Fase 37 - Cottura
In un apposito forno le montature stazionano il tempo necessario affinché la vernice
sia completamente asciutta e stabilizzata.

Fase 38 - Verniciatura secondo passaggio


Anche in questo caso, pezzo per pezzo, singolarmente, ogni occhiale riceverà il se-
condo velo di vernice.

Fase 39 - Precottura
Il secondo velo di vernice in parte dovrà essere asportato per ottenere il risultato
estetico voluto. In questa fase quindi la vernice viene semplicemente asciugata in
modo che l’occhiale possa essere toccato e movimentato ma senza raggiunge la cot-
tura completa.

Fase 40 - Pulitura della vernice


Il pigmento in eccesso verrà eliminato manualmente in modo delicato e preciso la-
sciando il prodotto finale con bordi netti e ben delineati.

Fase 41 - Cottura definitiva


Una volta eseguita la pulitura il prodotto viene cotto definitivamente per conferire
alla vernice il grado di resistenza e durezza finale.
19. La Montatura nell’adulto 286

Fase 42 - Controllo di qualità superficiale


Ogni singolo pezzo viene sottoposto ad un attento e scrupoloso controllo delle su-
perfici:
- verifica presenza imperfezioni geometriche del colore
- verifica presenza di impurità nel velo di vernice superficiale
- verifica della corrispondenza della tonalità cromatiche
- verifica della funzionalità generale
- verifica della componentistica.

Fase 43 - Laseratura decori e personalizzazioni


Se il modello lo prevede vengono eseguiti eventuali decori e personalizzazioni sull’e-
sterno della montatura tramite raggio laser. Per ottenere il disegno la vernice super-
ficiale viene asportata lasciando scoperta la superficie sottostante.

Fase 44 - Laseratura delle diciture interne


Sulla parte interna delle aste vengono incise tutte le indicazioni tecniche obbligato-
rie e non come, ad esempio, il logo aziendale, il logo CE e le dimensioni caratteristi-
che della montatura necessarie all’ottico.

Fase 45 - Terminale per l’appoggio sull’orecchio


Per evitare il contatto diretto dell’orecchio con il metallo dell’asta, viene inserito
sulla parte posteriore di quest’ultima un terminale. È realizzato generalmente in
materiale plastico e, nel caso particolare della fotografia, viene realizzato con una
guaina in gomma termoretraibile.
Per evitare il contatto diretto del naso con il metallo dei porta alette, vengono inse-
rite su questi ultimi un paio di alette in materiale plastico.

Fase 46 - Taglio lenti


Ogni montatura da vista è dotata di lenti di presentazione riportanti, di solito, il logo
aziendale ed altre informazioni ritenute importanti per la commercializzazione. Esse
vengono tagliate con apposite macchine taglia lenti che, partendo da un menisco
di forma circolare, fresano la giusta sagoma. Le lenti utilizzate avranno come base
sferica la stessa della meniscatura dell’occhiale.

Fase 47 - Montaggio lenti


Le lenti vengono montate sull’occhiale aprendone leggermente o completamente i
cerchi agendo sulle viti dei chiudi-cerchi.

Fase 48 - Piegatura dei terminali


Con un’apposita piegatrice ai terminali delle aste viene data una curvatura stan-
dard. Essa potrà essere eventualmente modificata dall’ottico in base alle esigenze
del cliente.

Fase 49 – Registratura
Con l’utilizzo delle mani e qualche strumento di piega e ritenzione, l’occhiale viene
sottoposto alla “registratura”, una serie di verifiche e calibrature atte a perfezionar-
ne la calzata, ovvero l’ergonomia e la comodità per l’utilizzatore. Durante le fasi di
registratura di norma si verificano anche una serie di parametri tecnici
e dimensionali come l’angolo pantoscopico e il raggio di curvatura.
19. La Montatura nell’adulto 287

Fase 50 - Personalizzazioni
È possibile personalizzare il prodotto per il cliente finale incidendo ad esempio, su
un’asta o dietro il ponte del naso, un disegno o un logo particolari o magari sempli-
cemente un nome, come nel caso visualizzato nell’immagine.

19.14 La montatura per lenti progressive

La montatura per lenti progressive rappresenta la situazione in cui la montatura ha


una influenza decisiva sulla interazione tra lente oftalmica e visione dell’ametrope.

Considerazioni preliminari
Si deve considerare che la parte utile per la visione nelle lenti progressive è un
corridoio verticale, chiamato convenzionalmente canale, definito da due parametri
principali:
– la lunghezza del “canale” (alto-basso) che è variabile in funzione di altri parame-
tri, quali;
– l’altezza della montatura
19. La Montatura nell’adulto 288

– la progressione più o meno rapida che si vuole dare al passaggio dalla correzione
per lontano a quella per vicino.
– la larghezza del “canale” (destra-sinistra) che è a sua volta determinata da altri
elementi tecnici:
– il potere diottrico della lente e la base di progettazione della lente
– si introduce in tal modo un’altra variabile: se la superficie “progressiva” sia rica-
vata all’interno o all’esterno della lente e se la lente sia positiva o negativa
– l’addizione per la visione da vicino.
La scelta della montatura più adatta per il montaggio di lenti progressive, è funzione
dei seguenti elementi:
1. la Correzione (sfera, cilindro, asse) e l’Addizione necessarie alla giusta compensa-
zione del difetto visivo;
2. la Grandezza (calibro e ponte), la Forma dell’occhiale ed il Materiale di cui è fatta
la montatura
3. l’Inclinazione del frontale (angolo pantoscopico)
4. la Distanza apice corneale - superficie posteriore della lente
5. le necessità dell’ametrope (l’uso cioè che ne dovrà fare ed in quali condizioni)
6. l’aspetto estetico.

1. La Correzione (sfera, cilindro, asse) e l’Addizione necessarie alla giusta compen-


sazione del difetto visivo
I parametri strettamente tecnici relativi alla progettazione ed alla realizzazione del-
la lente, ne condizionano pesantemente l’uso, ma vi è un altro parametro che inter-
viene sulla “larghezza” del “canale”, l’Astigmatismo (quantità e direzione).
Un forte astigmatismo ed un asse obliquo condizioneranno pesantemente la larghez-
za del canale.
Anche l’addizione finirà per introdurre un altro parametro di valutazione: la varia-
zione dell’effetto correttivo del cilindro nella parte per vicino.

2. La Grandezza (calibro e ponte) la Forma ed il materiale della montatura


Le dimensioni della montatura sono un altro elemento di valutazione di cui tener
conto. Dimensioni errate (specialmente troppo grandi) affascinano spesso gli ame-
tropi, ma questo finisce per generare una quantità di problemi nella realizzazione
delle lenti stesse.
Anche il materiale di cui è fatta la montatura potrà essere di aiuto o di ostacolo: la
montatura in materiale di sintesi aiuta “a mascherare” possibili spessori.

Figura 18. Montatura per Lenti Progressive


19. La Montatura nell’adulto 289

3. La posizione (inclinazione) del frontale (angolo pantoscopico)


Si tratta di considerazioni fattibili solo ponendo sul viso dell’ametrope la montatura
scelta.
In particolar modo si verifica la posizione dell’occhio rispetto al centro della monta-
tura facendo particolare attenzione alla posizione della pupilla nelle due posizioni
principali: visione per lontano e visione per vicino.
Ciò per valutare la lunghezza del canale.
Per la larghezza (vincolati come siamo dal potere della lente) sarà necessario “inse-
gnare” all’ametrope l’uso corretto di questo tipo di occhiale.

4. La distanza apice corneale nella superficie posteriore della lente.


Altro elemento molto importante è la valutazione della distanza apice-corneale nella
superficie posteriore della lente, parametro che andrà correlato correttamente con
l’inclinazione del frontale e la lunghezza delle aste.

5. L’uso prevalente dell’occhiale progressivo ed in quali condizioni


Le necessità e l’uso specifico che l’ametrope dovrà fare di questo occhiale avranno il
loro peso sulle scelte dell’Ottico. Gli occhiali progressivi troveranno il loro impiego
elettivo per chi lavora ad un computer o faccia un lavoro di ufficio.

6. L’aspetto estetico
Anche questo è un aspetto da non sottovalutare; oggi ci sono montature in commer-
cio che coniugano felicemente aspetto tecnico ed aspetto estetico.
Spesso accade che questo non avvenga ad un prezzo “molto economico”, ed ancora
più spesso accade che montature “troppo economiche” non siano adatte per ottene-
re una buona riuscita per un occhiale progressivo. Sarà compito del professionista
trovare la via giusta.
20. Le lenti oftalmiche 291

Capitolo 20 – Le lenti oftalmiche


L. Mele, G. Gesmundo

20.1 La costruzione delle lenti

Le tecniche di produzione delle lenti sono svariate, e differenti, a seconda del mate-
riale utilizzato. Di seguito si farà riferimento, in modo molto sintetico, ai materiali di
maggior utilizzo quali il materiale organico e il vetro minerale.

20.1.1 Materiali organici


Le tecniche produttive sono diverse. Per tutti i prodotti il punto di partenza è la
polimerizzazione del materiale che presenta sostanziali differenze a seconda del mo-
nomero utilizzato.
CR-39: il monomero allo stato liquido viene inserito all’interno di uno stampo in ve-
tro temperato liscio e levigato. Contestualmente vengono immessi dei catalizzatori
che, portati ad una temperatura compresa tra i 40° ed 80°, si legano al monomero
polimerizzandolo e rendendolo particolarmente duro. Il ciclo termina con l’apertura
dello stampo da cui verrà estratta la lente perfettamente trasparente e levigata.
Policarbonato: il monomero allo stato granulare viene riscaldato ad alte temperatu-
re. Quando raggiunge uno stato gelatinoso, viene inserito all’interno di stampi me-
tallici dove, sottoposto ad alta pressione si raffredderà, solidificandosi nella lente
finita.

20.1.2 Vetro minerale


Tali lenti vengono realizzate con la tecnica dello stampaggio. Il punto di partenza è
costituito dal vetro fuso raffinato in forni rivestiti di platino, additivato con anidride
arseniosa o nitrato sodico. La miscela viene iniettata in vasche dove sarà polimeriz-
zata con altre sostanze (da cui il termine vetro minerale). La matrice vetrosa, così ot-
tenuta, viene inserita in stampi dove verrà pressata e raffreddata al fine di produrre
dei bottoni pronti per essere foggiati (sbozzatura) con metodiche diverse a seconda
della purezza richiesta, quali lucidatura, sgrossatura e smerigliatura.

20.2 Materiali costitutivi delle lenti oftalmiche

La scelta del materiale adatto ad una lente costituisce un momento cardine


della realizzazione di un occhiale da vista. Spesso il paziente, maggiormente
attento alla ricerca della montatura che si addica alla sua personalità, presta
scarsa attenzione al tipo ed alla qualità della lente da applicare, rischiando
di inficiare la qualità della visione e, di conseguenza, il grado di soddisfazio-
ne dell’occhiale prodotto. È pertanto compito dello specialista della visione
indirizzare il paziente nella scelta della lente maggiormente adatta alle sue
esigenze.
Esistono numerosi materiali di produzione per lenti oftalmiche, ciascuno con
proprietà differenti e specifiche per la singola circostanza di prescrizione.
Per garantire la piena comprensione delle differenze dei singoli materiali
costituenti i mezzi diottrici dell’occhiale, occorre soffermarsi sulle principali
caratteristiche che ne permettono il raffronto, dunque la refrazione, la disper-
sione e la trasparenza.
20. Le lenti oftalmiche 292

20.2.1 La refrazione
La caratteristica fondamentale di un mezzo ottico è l’indice di refrazione. Esso
consta di un valore numerico che indica quanto efficientemente un materiale
rifrange la luce, valore che dipende da quanto velocemente la luce attraver-
sa il materiale in esame. In particolare, l’indice di refrazione n esprime il
rapporto tra la velocità c della luce nel vuoto e la velocità v della luce nel
mezzo considerato, ovvero:

Nei materiali la velocità della luce è sempre minore che nel vuoto ed è influen-
zata dai seguenti fattori:
• natura del mezzo
• temperatura (soprattutto per sostanze liquide e gassose)
• pressione (sostanze gassose)
• lunghezza d’onda della radiazione (la lunghezza d’onda minore è più lenta
della luce di lunghezza d’onda maggiore).
Normalmente i valori dell’indice di refrazione vengono dati per una tempera-
tura di 20 °C e una pressione di 1 atm (760 torr = 101,325 kPa).
L’indice di refrazione viene riferito al valore delle singole lunghezze d’onda
della luce, pertanto all’indice n viene affiancata un’ulteriore lettera, in rife-
rimento alla lunghezza d’onda. Vengono dunque utilizzate normalmente:
• ne che, nell’ambito dello spettro della luce solare, si riferisce alla riga verde
alla lunghezza d’onda λ= 546,07 nm;
• nC’ che si riferisce alla riga rossa alla lunghezza d’onda λ= 643,85 nm;
• nF’ che si riferisce alla riga blu alla lunghezza d’onda λ= 479,99 nm.
L’indice di refrazione n e riferito alla riga verde si dice indice di refrazione
principale.
L’utilizzo di un materiale ad alto indice di refrazione permette di ottenere, a
parità di potere, lenti di ridotto spessore. Tale dato non deve però trarre in
inganno, in quanto l’uso di materiali ad alto indice di refrazione può compor-
tare il peggioramento di altre caratteristiche.

20.2.2 La dispersione
Ponendo su un grafico l’indice di refrazione n di una sostanza in funzione
della lunghezza d’onda, si potrà osservare come tale indice diminuisca con
l’aumentare della lunghezza d’onda λ (Figura 1).
In ottica la dispersione è un fenomeno fisico che causa la separazione di un’on-
da (nel nostro caso la luminosa) in componenti spettrali con diverse lunghez-
ze d’onda, a causa della dipendenza della velocità dell’onda dalla lunghezza
d’onda nel mezzo attraversato.
Più semplicemente la dispersione è la grandezza che indica quanto i raggi di
luce di diversi colori vengono dispersi nel passaggio attraverso un mezzo ottico.
Prendendo in esame un raggio di luce bianca, risultante dunque dalla compo-
sizione di tutti i colori spettrali, incidente su un prisma a sezione triangolare,
nelle due rifrazioni subite dai raggi luminosi nell’attraversare il prisma i diversi
colori verranno deviati in misura differente, emergendo dalla faccia opposta
del prisma separati uno dall’altro, con diversi angoli di refrazione (Figura 2).
È possibile distinguere le seguenti grandezze:
– dispersione principale, ossia la differenza fra gli indici di refrazione nF’ e nC’
per la luce blu (λ = 479,99 nm) e la luce rossa (λ = 643,85 nm);
20. Le lenti oftalmiche 293


/DQWKDQXPGHQVHIOLQW/D6)


,QGLFHGLULIUD]LRQHQ

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%DULXPFURZQ%D.
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Figura 1. Rapporto tra refrazione e lunghezza d’onda Figura 2. Deviazione spettrale dei differenti
in riferimento a differenti materiali. colori in relazione alla dispersione del
materiale.

– dispersione parziale, la differenza fra gli indici di refrazione per altre lun-
ghezze d’onda;
– dispersione parziale relativa, rapporto tra una dispersione parziale e la disper-
sione principale;
– numero di Abbe o costringenza, che indica il rapporto di dispersione cromatica di un
materiale trasparente alle lunghezze d’onda del visibile. Esso viene espresso come:

– Il numero di Abbe, riferito al materiale che costituisce una lente, rappresenta


un indice oggettivo di quanto la lente disperde le diverse lunghezze d’onda
della luce, ossia di come la luce passa attraverso di essa. Materiali con basso
numero di Abbe presentano alta dispersione, condizione che può causare
aberrazione cromatica (fastidioso errore ottico lamentato dal paziente come
la presenza di aloni colorati intorno agli oggetti, soprattutto le luci). Tale
errore, se presente, è più evidente quando si guarda attraverso la periferia
delle lenti, meno guardando attraverso la zona ottica.
Il numero di Abbe, in riferimento alle lenti oftalmiche, va da un massimo di 59
ad un minimo di 30; minore è il numero di Abbe di un materiale, maggiore sarà
la sua dispersione, con maggior probabilità di provocare l’aberrazione cromatica.

20.2.3 La trasparenza
La trasparenza di un mezzo ottico indica la sua capacità di lasciarsi attra-
versare dalla luce. I fenomeni che possono influire sulla quantità di luce che
riesce ad attraversare una lamina di materiale trasparente sono l’assorbimento
all’interno del materiale e le riflessioni su ogni superficie attraversata. Le
grandezze fisiche che misurano l’assorbimento all’interno del materiale sono
la trasmittanza e l’assorbanza. Il valore della trasmittanza T, per ciascun tipo
di materiale e per uno specifico spessore, è dato dal rapporto tra l’intensità
della radiazione trasmessa I e l’intensità I0 della radiazione incidente:
20. Le lenti oftalmiche 294

L’assorbanza A, in passato detta densità ottica, è data invece dal logaritmo


decimale del reciproco della trasmittanza (Figura 3):

Nel caso andassimo a sovrapporre due strati di materiale trasparente, la tra-


smittanza risultante sarà data dal prodotto delle trasmittanze dei due strati;
l’assorbanza risultante invece sarà data dalla somma delle loro due assorbanze.
Quando un fascio di luce incide sulla superficie di separazione di due mezzi,
una quota del fascio si riflette, e un’altra penetra nel secondo mezzo. La
percentuale di radiazione riflessa dipende dall’angolo d’incidenza; quando il
fascio è molto radente, ossia l’angolo di incidenza si avvicina a 90°, aumenta
notevolmente la quantità di radiazione riflessa. Il fattore di riflessione ρ, ossia
la percentuale della radiazione riflessa dalla superficie di separazione fra due
mezzi con indice di refrazione n’ e n”, è espresso da:

Quindi nel caso in cui un mate-


riale con n’=1,5 sia immerso in
aria, dunque sia in rapporto con
n”=1, si avrà che:
ρ = (0,5/2,5)2 = 0,04 = 4%
Tale valore aumenta con l’aumen-
tare dell’indice di refrazione del
materiale in esame. Siccome di
ogni lente dobbiamo prendere
in considerazione entrambe le
superfici, una di entrata e una
di emergenza, e siccome si ha il
medesimo tipo di riflessione su
entrambe le superfici, la quanti-
tà di radiazione riflessa da una
lente è pari all’incirca al doppio Figura 3. Trasmittanza ed assorbanza di radiazione
luminosa attraverso un materiale trasparente.
di quanto indicato sopra. Tali
riflessioni possono essere ridot-
te o addirittura eliminate con
opportuni trattamenti, denomi- Assorbimento
nati appunto antiriflesso (Figura
4). Illustrate dunque le proprietà
caratterizzanti i mezzi ottici, pas- Riflettanza
siamo alla valutazione dei prin-
cipali materiali utilizzati per la
costruzione di lenti oftalmiche, in 100% Trasmittanza
particolare le lenti in vetro, pla-
stica, organiche e ad alto indice.
Riflettanza
Assorbimento
e Trasmittanza
20.2.4 Vetro minerale
Da un punto di vista strutturale Figura 4. Rappresentazione delle proprietà fisiche delle
il vetro è un solido omogeneo e lenti oftalmiche.
20. Le lenti oftalmiche 295

trasparente ottenuto dalla fusione ad alta temperatura di biossido di silicio


(SiO2) e altre sostanze.
La principale peculiarità del vetro è quella di avere una struttura amorfa,
non cristallina, contrariamente alle altre sostanze solide, in cui gli atomi sono
disposti secondo strutture regolari. Nel vetro invece gli atomi sono disposti
disordinatamente, senza nessuna struttura particolare. Lo stato vetroso può
pertanto essere considerato come uno stato liquido ad altissima viscosità,
tale cioè da assumere l’aspetto e la rigidità propria delle sostanze solide.
Comprendiamo dunque come nel vetro la velocità di propagazione delle onde
possa essere la stessa in tutte le direzioni, essendo la disposizione atomica
disordinata. Al contrario, in un cristallo in una certa direzione la velocità di
propagazione può essere diversa che in un’altra, proprio perché la disposizio-
ne ordinata degli atomi lascerà esclusivamente delle vie per la propagazione
dell’onda (Figura 5).
In campo ottico il vetro utilizzato per la costruzione di lenti viene differen-
ziato in vetro crown (vetro ordinario) e vetro flint, con proprietà diverse: il
primo (crown) ha indice di refrazione intorno a 1,5 (un valore tipico è ne =
1,523), la sua densità è pari a circa 2,5 g/cm3 e disperde poco la luce avendo
numero di Abbe pari a circa 60; il vetro flint invece, ottenuto aggiungendo
piombo ai componenti del vetro, ha un indice di refrazione maggiore (fino a
circa 1,7), ma presenta anche un aumento della densità, fino a 4 g/cm3, e della
dispersione, con numero di Abbe che può arrivare fino a 30. Oltre al piombo,
per aumentare l’indice di refrazione viene utilizzato il titanio, ottenendo lenti
con indice di refrazione pari a 1,70 e densità di 3,0 g/cm3, valori di refrazione
ancora maggiori nel caso di vetri al lantanio. A parità di potere, lo spessore
e il peso di queste lenti risulta inferiore a quello di lenti in vetro crown o
in vetro flint al piombo.
Generalmente il vetro ottico è quasi perfettamente trasparente alle radiazio-
ni visibili, con valori della trasmittanza del 99% per uno spessore di 1 cm,
mentre all’ultravioletto le radiazioni subiscono un assorbimento di intensità
crescente. Per i vetri flint con indice di refrazione più elevato la banda di
assorbimento si avvicina alla radiazione visibile, assorbendo poco nella parte
blu-violetta della banda visibile, così da apparire di colore giallastro. In rife-
rimento alla resistenza, il vetro è uno dei materiali meno suscettibili ai graffi
ma che potrebbe scalfirsi facilmente, soprattutto nella varietà flint, che per
tale motivo non ha trovato larga applicazione in occhialeria. Altro svantaggio
la pesantezza della lente, che non può essere costruita con spessori ridotti, e
la bassa o nulla possibilità di protezione dai raggi UV.

Figura 5. Differenza strutturale tra cristallo (immagine di sinistra) e vetro (immagine di destra).
20. Le lenti oftalmiche 296

20.2.5 Vetri organici


Con l’espressione “vetri organici” vengono definiti quei mezzi ottici trasparenti
realizzati mediante polimeri del carbonio. Hanno visto una diffusione crescente
in ottica oftalmica presentando molte proprietà vantaggiose rispetto ai vetri
minerali e plastici propriamente detti. Il polimero organico maggiormente
impiegato per la realizzazione di lenti ottiche è il policarbonato, materiale
termoplastico che presenta la peculiare caratteristica di avere una struttura
molecolare completamente amorfa. Ciò rende tale mezzo molto resistente agli
urti, 50 volte superiore alla resistenza del CR-39 e circa 250 volte rispetto a
quella del vetro crown, ed è per questo motivo il materiale di elezione per
gli occhiali dei bambini.
Le sue caratteristiche sono le seguenti:
– Indice di refrazione n = 1,587
– Densità ρ = 1,20 g/cm3
– Numero di Abbe n = 29.
È inoltre un materiale completamente opaco ai raggi UV, con trasmittanza
zero a circa 40 nm.
Tali caratteristiche rendono una lente in policarbonato, a parità di potere,
decisamente più leggera di una lente in CR-39 o in vetro minerale. Le qualità
ottiche del policarbonato sono però mediocri, dato che a causa del suo nume-
ro di Abbe, il più basso tra quelli dei materiali utilizzati in ottica oftalmica,
soffrono di aberrazione cromatica.

20.2.6 CR-39
Il materiale che ha soppiantato quasi completamente il vetro, almeno fino
alla fine degli anni ’90, è stato il CR-39. Ancora oggi le lenti in CR-39 sono
le maggiormente prodotte, grazie alla loro relativa sicurezza, al basso costo,
alla facilità di produzione ed all’alta qualità ottica.
Il CR-39 è un polimero sintetico termoindurente appartenente alla classe dei
poliesteri (carbonato di dialliglicole). La sigla indica la trentanovesima formula
sviluppata nel 1940 nell’ambito del progetto “Columbia Resins”, portato avanti
dalla Columbia Chemical (Figura 6). Le sue caratteristiche sono le seguenti:
– Indice di refrazione n = 1,498, valore relativamente modesto che comporta, a
parità di potere diottrico, uno spessore maggiore della corrispondente lente
in vetro minerale;
– Densità ρ= 1,32 g/cm3, circa la metà di quello del vetro crown (2,54 g/cm3),
che conferisce a tale lente una leggerezza decisamente superiore;
– Numero di Abbe n = 57,8.
Il CR-39 presenta inoltre una buona protezione UV in quanto taglia completa-
mente la radiazione UV-B al di sotto di 320 nm e buona parte della radiazione
UV-A tra 380 nm e 320 nm. Per contro il CR-39 è un materiale più morbido

Figura 6. Struttura chimica del poliallil-diglicol-carbonato o CR-39.


20. Le lenti oftalmiche 297

del vetro, condizione che lo rende maggiormente suscettibile ai graffi, incon-


veniente a cui si ovvia con opportuni trattamenti antigraffio, il più diffuso
dei quali è il coating organico.

20.2.7 Materiali ad alto indice di refrazione

Alcuni produttori offrono polimeri con indice di refrazione pari a 1,60, 1,66
o anche 1,70. Della maggior parte di essi non sono note le formule chimiche
perché non sono state divulgate dalle aziende produttrici che li contraddistin-
guono con nomi commerciali. Con questi materiali è possibile realizzare lenti
che, a parità di potere, sono meno curve e più sottili di quelle ottenute con
materiali a indice di refrazione inferiore, ma non per questo meno pesanti.
I materiali ad alto indice di refrazione tendono però ad avere un numero di
Abbe inferiore rispetto a lenti realizzate con materiali più convenzionali, e
soffrono maggiormente quindi di aberrazione cromatica. Una lente organica
con indice di refrazione 1,66, per esempio, ha un numero di Abbe pari a 32 e
una densità di 1,35 g/cm3. Un altro problema che si presenta con materiali ad
alto indice di refrazione è la maggiore riflettività. Un materiale con indice di
refrazione 1,66 riflette il 6,3% della luce incidente su ogni superficie, rispetto
al 4,0% del CR-39. Per questo motivo, e anche per la minore curvatura delle
superfici, si possono avere con queste lenti riflessi fastidiosi.
Tra tali materiali, il Trivex, un prepolimero a base di uretano sviluppato nel
2001 originariamente per l’esercito come armatura visiva, unisce la resisten-
za meccanica del policarbonato con una grande qualità ottica e una grande
leggerezza. Il nome infatti si riferisce alle tre proprietà che lo caratterizzano,
ossia ottiche superiori, peso ultraleggero e forza estrema.
Le sue caratteristiche sono:
– Indice di refrazione 1,53 simile a quello del CR-39 e del vetro crown;
– Numero di Abbe 46, sufficientemente elevato da non dare problemi di aber-
razione cromatica;
– Densità 1,11g/cm3, che lo rendono il materiale più leggero disponibile per
la produzione di lenti oftalmiche.
Inoltre tale materiale è completamente opaco ai raggi UV (Tabella 1).

Vetro crown Vetro flint CR-39 Policarbonato Trivex


Refrazione n 1,5 1,7 1,49 1,58 1,53
3 3 3 3
Densità 2,5 g/cm 3-4 g/cm 1,32 g/cm 1,20 g/cm 1,11 g/cm3
N. Abbe 60 30 57,8 29 46
Schermo UV nullo scarso UVB-UVA Totale Totale
Tabella 1. Principali proprietà dei materiali di produzione delle lenti oftalmiche.
20. Le lenti oftalmiche 298

20.3 Geometria delle lenti oftalmiche

Le lenti tradizionalmente utilizzate nella costruzione di occhiali presentano


una geometria sferica, sono realizzate in modo che una o entrambe le superfici
della lente siano idealmente assimilabili ad una sezione di sfera. Tale tipologia
di lente ha costituito l’unica possibilità di fabbricazione per molti anni, fino a
che le moderne tecnologie di progettazione ottica hanno permesso di costruire
lenti con medesimo potere diottrico ma con raggio di curvatura minore, quindi
considerevolmente più sottili, soprattutto per le correzioni elevate.
Andremo dunque ad analizzare le possibili geometrie di costituzione di lenti
oftalmiche, in particolare le lenti sferiche, le lenti asferiche e le lenti toriche.

20.3.1 Lenti sferiche


Costituisce il tipo di geometria più comunemente impiegato per la costruzione
di lenti. Le sferiche sono in genere lenti semplici, composte perciò da sole
due superfici, ciascuna con un suo potere diottrico così definito:

Dove n’ è l’indice di refrazione del mezzo nel quale la luce sta entrando, n
l’indice di refrazione del mezzo da cui la luce sta uscendo ed r il raggio di
curvatura.
Per la costruzione di una lente con un determinato potere diottrico in cui:
D1 =(n-1)/r1 e D2=(1-n)/r2,
il potere finale della lente risulterà dalla seguente formula:
D = D1 + D2.
A scopo esemplificativo se si volesse una lente con un potere diottrico D =
+8.00 diottrie sferiche (DS) si potrebbe ottenerla in più modi, come ad esempio:
1. D1= +4.00 DS D2= +4.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS lente equiconvessa
2. D1= +6.00 DS D2= +2.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS biconvessa
3. D1= +8.00 DS D2= 0 Dtot = D1+ D2= +8.00 DS piano convessa
4. D1= +10.00 DS D2= -2.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS menisco
5. D1= +12.00 DS D2= -4.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS menisco.
La superficie con potere diottrico più basso è definita come curva di base.
Quando la curva di base ha D = ± 1.25 DS la lente si dice periscopica.
Il medesimo discorso vale per la costruzione di una lente con potere diottrico
negativo, le cui combinazioni sarebbero equiconcava, biconcava, pianoconcava,
menisco (Figura 7). La combinazione che minimizza le aberrazioni, detta best
form, è di solito il menisco, nel qual caso la qualità e lo spessore della lente
differisce in relazione all’ampiezza della curva di base. Sia in casi di lenti positive
che negative infatti riducendo la
curva di base si riducono spessore
dal centro, peso e altezza della
lente misurata rispetto ad un
piano orizzontale, il cosiddetto
plateheight. Quest’ultimo
parametro è importante per
la stabilità della lente sulla
montatura, perché minore è
l’altezza della lente minore sarà Figura 7. Differenti possibili forme per lenti sferiche.
20. Le lenti oftalmiche 299

il rischio di fuoriuscita dalla montatura.


Un altro criterio è quello riguardante le prestazioni ottiche: le curve di base
vengono scelte per garantire un ampio campo di vista non influenzato dalle
aberrazioni. Infatti l’aberrazione delle lenti che più infastidisce il portatore
d’occhiali è rappresentata indubbiamente dall’astigmatismo dei raggi obliqui,
ossia la differenza tra il potere tangenziale e il potere sagittale che nasce quando
l’occhio gira intorno al suo centro di rotazione. Sono state pertanto create lenti
le cui superfici fossero scelte in modo tale da compensare l’astigmatismo tramite
neutralizzazione: in pratica la tecnica consiste nell’eliminare l’astigmatismo
prodotto dalla superficie anteriore con quello della superficie posteriore. Questa
serie di lenti viene chiamata periscopica perché garantisce una buona visione
periferica. Trattandosi però di lenti poco adatte ad essere montate su occhiali,
si è reso necessario creare lenti oftalmiche con la massima qualità ottica ed
il miglior risultato estetico.

20.3.2 Lenti asferiche


Una lente asferica è una lente la cui superficie ha un profilo che non è né una
porzione di sfera né un cilindro a base circolare, ma presenta una superficie
a curvatura variabile che tende ad appiattirsi verso il bordo. Tale complesso
profilo asferico può ridurre fino ad eliminare completamente le aberrazioni
ottiche rispetto alle lenti semplici, risultando più piccola e leggera, garantendo
una distorsione minore dell’occhio dell’utilizzatore e con un conseguente
miglioramento estetico (Figura 8).
Nella maggior parte del casi le lenti asferiche sono lenti ad alto indice,
combinazione che crea una lente notevolmente più sottile e più leggera di
lenti convenzionali in vetro o in CR-39.
Queste caratteristiche le rendono lenti favorevoli per quasi tutte le prescrizioni,
ma la differenza è particolarmente evidente nelle lenti per ipermetropia elevata,
normalmente più spesse al centro e più sottili
ai loro bordi. Le lenti asferiche positive possono CURVATURE SFERICHE
essere realizzate con curve molto più piatte, con
evidente riduzione del rigonfiamento centrale
della lente, molto meno protrundente dalla
montatura, permettendo inoltre al paziente di
scegliere la montatura tra una selezione più
ampia senza preoccuparsi che le lenti siano
troppo spesse.
Lenti miopiche invece hanno la forma opposta,
più sottili al centro e più spesse ai bordi
dunque, anche se il difetto estetico è meno
marcato nelle lenti negative, fornisce una
sensibile riduzione di spessore del bordo rispetto
alle lenti convenzionali per la correzione della
miopia.
Altra caratteristica importante delle lenti
asferiche è rappresentato dalle migliori qualità
ottiche. Nelle lenti convenzionali infatti si CURVATURE ASFERICHE
osserva una leggera distorsione quando si guarda
Figura 8. Differente profilo delle lenti
al di fuori della zona ottica centrale, se ad asferiche rispetto alla sferica di ugual
esempio lo sguardo è diretto verso la periferia. potere (tratteggio).
20. Le lenti oftalmiche 300

La geometria asferica invece


riduce fino anche ad eliminare
queste distorsioni, garantendo
un campo visivo più ampio e una
migliore visione periferica.
Creare le complicate curve
utilizzate nelle lenti asferiche
re n d e q u e s t e l e n t i u n p o ’
più costose rispetto alle lenti
convenzionali. Ma gli eccezionali
benefici estetici e soprattutto
visivi di queste lenti sottili e
leggere, le rendeno un buon
investimento.

20.3.3 Lenti toriche Figura 9. Sezione di toro.


La migliore correzione per i vizi
astigmatici si ottiene con lenti
toriche, queste lenti sono ricavate da una sezione di toro, garantendo alla
lente differenti curvature sui due meridiani (Figura 9).
La figura geometrica da cui si parte è il toro, un corpo spaziale risultante
dalla rotazione di un cerchio di raggio r intorno ad un asse giacente nello
stesso piano del cerchio, ad una distanza R dal centro del cerchio (Figura 10).
La differente curvatura nei due meridiani si configura nel meridiano verticale
più curvo di quello orizzontale, cui consegue che la luce rifratta dal meridiano
verticale andrà a fuoco prima della luce rifratta da quello orizzontale.
Nel caso della lente torica il massimo raggio di curvatura, R, corrisponde alla
minima potenza di refrazione,

dove n è l’indice di refrazione del materiale della lente, mentre il raggio


minimo di curvatura, r, corrispondente alla massima potenza di refrazione,

Figura 10. Rappresentazione geometrica del toro.


20. Le lenti oftalmiche 301

La lente si comporta approssimativamente come una combinazione di una lente


sferica con potenza ottica s ed una lente cilindrica con potenza s - S, ossia il
relativo potere cilindrico. La particolare geometria delle lenti toriche si riflette
nel peculiare meccanismo di applicazione. I raggi luminosi che incidono sull’asse
di rotazione del toro vengono rifratti secondo il massimo raggio di curvatura,
R, ossia la più piccola potenza di refrazione, S. I raggi che invece impattano
e decorrono attraverso l’asse di rivoluzione del toro vengono rifratti secondo
il più piccolo raggio di curvatura, r, cioè, il più grande potere di refrazione, s.
Ne consegue che ci sono due differenti potenze di refrazione ad orientamenti
perpendicolari tra loro che, agli orientamenti intermedi, vedono una graduale
variazione del potere di refrazione, compensando così l’aberrazione astigmatica
dell’occhio.

20.4 Ottica delle lenti oftalmiche

Le lenti oftalmiche sono sistemi atti a compensare i vizi di refrazione quali


miopia, ipermetropia, astigmatismo e presbiopia attraverso la divergenza, o
vergenza, dei raggi luminosi che le attraversano.
Tecnicamente sono costituite da due superfici, una anteriore e una posteriore,
ognuna con il proprio potere diottrico.
In virtù della loro forma e curvatura possono essere suddivise in:
– Positive o convergenti: dove la superficie anteriore è più convessa di quella
posteriore. Correggono l’ipermetropia e la presbiopia.
– Negative o divergenti: dove la superficie anteriore è meno convessa di quella
anteriore. Correggono la miopia.
– Toriche o cilindriche: dove una delle superfici presenta una curvatura su un
solo meridiano. Correggono l’astigmatismo.
– Prismatiche: dove è presente un prisma, sulla superficie anteriore, che ha
la capacità di deviare i raggi luminosi verso la sua base. Correggono le
deviazioni degli assi visivi, cioè lo strabismo.
Strutturalmente sono costituite da due menischi; soltanto in caso di poteri
elevati si utilizzano le lenti pianoconvesse e pianoconcave, mentre molto raro
è l’utilizzo di lenti biconvesse e biconcave.
I parametri principali sono:
– il diametro totale
– il centro geometrico, punto centrale della lente equidistante dal bordo
– il centro ottico, zona attraverso la quale i raggi luminosi non vengono deviati
– la zona ottica, parte di lente dotata del potere correttivo indicato.
Una stessa lente può presentare diversa forma e curvatura, con conseguente
diverso potere diottrico, in diverse zone a seconda delle finalità di utilizzo.
In virtù di ciò potremo avere:

20.4.1 Lenti Monofocali


Le lenti monofocali hanno un unico potere diottrico e la loro superficie è
caratterizzata da un singolo raggio di curvatura.
Lenti monofocali personalizzate: il software di gestione del processo produttivo
interviene sul diametro della lente ancora in fase di semi-lavorato, consentendo
una sensibile diminuzione degli spessori della lente in caso di forti poteri.
Si effettua un ricalcolo dei poteri su tutta la superficie della lente al fine di
20. Le lenti oftalmiche 302

eliminare astigmatismi ed aberrazioni residue tipiche delle lenti monofocali


industriali.
Ciò determina una migliore visione notturna e periferica dovuta alla precisione
della superficie e del potere diottrico su tutta la superficie della lente.

20.4.2 Lenti Bifocali


Le lenti bifocali hanno due poteri diottrici. La loro superficie è caratterizzata
da due porzioni di differente potere: una per la visione remota ed una per
la visione prossimale. La zona per la visione remota è posizionata sopra la
lunetta ed è ad essa raccordata con un gradino che induce un salto d’immagine
e costituisce una visibile e antiestetica linea di demarcazione.
L’inconveniente da rilevare, per la natura stessa delle lenti, è quello per cui le
distanze intermedie, non essendo contemplate, sono penalizzate nella visione;
inoltre, le lenti bifocali introducono il cosiddetto salto d’immagine che si
verifica ogniqualvolta la visione attraversa la linea di separazione in virtù sia
del cambio repentino di potere e sia del diverso effetto prismatico introdotto
dalle due diverse aree della lente.
È molto importante determinare il corretto posizionamento della lunetta
(segmento) all’interno della montatura. La distanza da rilevare è quella che
intercorre fra la rima palpebrale inferiore ed il bordo interno della montatura
che è preferibile non sia inferiore ai 18 millimetri.

20.4.3 Lenti da interno o Indoor


Le lenti da interno sono progettate per essere utilizzate nella visione a distanze
intermedie per consentire l’ efficienza visiva nelle attività a breve e media
distanza. Tra la zona superiore (per la visione a distanza) e la zona inferiore
(per la visione prossimale) è realizzato un ampio corridoio visivo adatto alla
visione nella porzione intermedia dello spazio.
La digressione è personalizzata da 0,75 a 1,25 in funzione delle necessità
d’uso. Il ricalcolo della curvatura interna permette una visione ottimale alle
distanze intermedie e per vicino.
Sono indicate per quei soggetti presbiti videoterminalisti che non necessitano
di correzione per lontano ma hanno bisogno di qualità visiva nelle attività
svolte in spazi ravvicinati, da 30 cm a 2 metri circa.
Non hanno bisogno di adattamento e sono confortevoli già dal primo utilizzo.
Consentono di aumentare lo spazio di visione nitida da vicino, evitando che
piccoli spostamenti del piano di lettura provochino la sfocatura dell’immagine.
Personalizzabili, scegliendo l’opportuna altezza e lunghezza del canale di
digressione e l’inset ideale, abituano ad una dinamica visiva che renderà più
semplice un adattamento futuro del soggetto alle lenti progressive.

20.4.4 Lenti Progressive


Le lenti progressive presentano molteplici zone funzionali, in cui la zona per
la visione da lontano (oltre i 2-3 metri) è collegata a quella per vicino (30-40
centimetri) da una zona di transizione, detto canale di progressione, grazie
alla quale si realizza una variazione del potere diottrico tale da garantire la
visione nell’intermedio, cioè dai 3 metri ai 50 cm circa.
Geometricamente il profilo superficiale può presentarsi come Hard o Soft.
La Geometria Hard permette un’ampia visione da lontano è indicata per le
persone che hanno priorità visiva a tale distanza (guida, uso sportivo) e non
20. Le lenti oftalmiche 303

vogliono limitare le zone di visione laterale mentre si muovono nello spazio.


La Geometria Soft permette un’ampia visione delle zone prossimali, con ridotti
effetti di ondeggiamento dovute alle aberrazioni ed è indicata a soggetti che
hanno priorità visiva nell’attività prossimale prolungata e necessitano di un
canale ampio per la visione da vicino.
La lente progressiva implica alcuni accorgimenti nella scelta della montatura
e per il corretto montaggio:
la forma della montatura non deve limitare il canale di progressione e particolare
attenzione deve essere riposta nella zona nasale dedicata alla zona di lettura.
la scelta della montatura deve garantire una corretta distanza apice corneale
lente ed una corretta inclinazione. Tali precauzioni garantiscono una visione
confortevole per tutte le distanze.
Fondamentale la regolazione delle astine sul viso sia in fase di scelta che in
fase di consegna.
La lente progressiva è un prodotto altamente tecnologico risultato di anni di
ricerca e costituisce una soluzione capace di ripristinare una visione senza
interruzioni dal punto più vicino all’infinito.
La lente progressiva è quindi un prodotto idoneo per tutte le distanze di
visione e per qualsiasi contesto sia lavorativo che nel tempo libero utilizzando
sempre lo stesso paio di occhiali.

20.4.5 Lenti Oftalmiche Personalizzate: la tecnologia Free Form


La recente introduzione nel settore oftalmico di macchine a controllo numerico
di rettifica e lucidatura per la lavorazione di geometrie a forma libera ha
contribuito ad un nuovo concetto di progettazione e di produzione di lenti
oftalmiche.
Da qui l’introduzione di lenti oftalmiche di ultima generazione denominate
lenti personalizzate, o a geometria interna, realizzate con il supporto della
tecnologia Free Form e che costituiscono la migliore soluzione alle problematiche
visive individuali.
La tecnologia Free Form è basata infatti sull’impiego di software per la
modellazione della superficie e lavorazione della superficie posteriore della
lente con operazioni di asportazione di truciolo.
Il grande vantaggio della tecnologia Free Form, nel rispetto dei parametri
ottici prescritti, è quello di portare le aberrazioni pressoché allo zero.
Se una lente tradizionale viene costruita con interventi limitati alla sfera o
al cilindro, con la tecnologia Free Form queste limitazioni vengono meno in
quanto il software di calcolo dei poteri lavora la lente su oltre 40.000 punti
distinti concentrandosi esclusivamente sulla superficie interna della lente.
La personalizzazione è dovuta al fatto che si considerano parametri oggettivi e
soggettivi nella realizzazione della lente che portano un algoritmo a calcolare
e selezionare la lente tra oltre 800 milioni di combinazioni.
I Parametri oggettivi considerati sono la distanza interpupillare, l’altezza di
montaggio, la distanza apice-corneale, l’angolo pantoscopico ed il grado di
avvolgimento della montatura.
I Parametri soggettivi considerati sono lo stile di vita, le abitudini quotidiane
e l’eventuale grado di soddisfazione con le lenti precedenti.
La differenza rispetto ad una progressiva tradizionale è basata sul fatto
che le lenti realizzate con la tecnologia Free Form presentano il canale di
progressione sulla superficie interna, a differenza di quelle tradizionali nelle
20. Le lenti oftalmiche 304

Figura 11. Lenti progressive tradizionali e di Free Form

quali la progressione di potere viene realizzata sulla superficie anteriore.


Questa variazione fa sì che la variazione di potere venga più a trovarsi vicino
all’apice corneale e ciò riduce le aberrazioni e consente, a parità di materiale
e di costruzione, un campo di visione più ampio e puntuale.
La tecnologia Free Form infine, permette di realizzare un inset, non solo variabile
con l’addizione ma anche in funzione di parametri individuali.
L’inset considererà infatti:
– le distanze monocuali degli assi visuali
– l’angolo di avvolgimento del frontale
– l’angolo pantoscopico del frontale in posizione d’uso
– la distanza tra apice corneale e lente.
L’inset variabile permette quindi la personalizzazione del canale di progressione
in funzione delle distanze e delle altezze di centratura.
In tal modo si ottimizzano i parametri di progressione in funzione dell’addizione
di potere necessaria da vicino, eliminando qualsiasi effetto di ingrandimento.
La lavorazione può anche essere atorica in presenza di correzioni cilindriche
per l’astigmatismo.
Rispetto ad una lente progressiva tradizionale, tutto ciò, permette un rapido
adattamento del paziente e una visione ottimale attraverso l’intera superficie
della lente con un ampio campo visivo privo di distorsioni ed immagini fantasma
(Figura 11).

20.5 I filtri delle lenti oftalmiche

Oltre al fondamentale compito di correggere i vizi di refrazione, le lenti assumono


un ruolo importantissimo sia nel modulare la sensibilità luminosa, il contrasto e la
percezione colorimetrica, oltre che nel proteggere l’occhio dalle radiazioni elettro-
magnetiche potenzialmente dannose.
Particolari tipi di lenti, quindi, hanno la capacità di agire da filtro nei confronti del-
la radiazione solare ovvero di discriminare qualitativamente e quantitativamente le
radiazioni elettromagnetiche che le attraversano.
La discriminazione quantitativa è strettamente legata alla trasmittanza, ovvero la
frazione di radiazione incidente ad una data lunghezza d’onda che attraversa la lente
stessa.
Viene misurata facendo un rapporto tra l’intensità della radiazione che incide e
quella della radiazione che attraversa esprimendola come %.
20. Le lenti oftalmiche 305

Dipende, principalmente, dalla categoria del filtro: in funzione al tipo e allo spessore
del materiale di cui è costituito.
La discriminazione qualitativa, invece, è strettamente legata allo spettro di radiazioni
elettromagnetiche che attraversa la lente stessa, misurata attraverso la spettometria.
Dipende, principalmente, dal tipo di filtro: in funzione dalla colorazione e della fi-
nitura.
Alla luce di quanto esposto, quindi, compito dei filtri delle lenti è quello di modulare
l’arrivo della luce alle strutture oculari attraverso il “taglio” di una o più lunghezze
d’onda che costituiscono le diverse radiazioni elettromagnetiche.
In base alla qualità e alla quantità di radiazione modulata i filtri verranno suddivisi
in:
– filtri non selettivi: filtri solari e fotocromatici
– filtri selettivi a nanomeri controllati
– filtri polarizzanti.
Quando questi filtri vengono applicati alle lenti si parlerà di lenti filtranti in cui
troveremo:
– lenti a filtraggio non selettivo
– lenti da sole
– lenti fotocromatiche
– lenti a filtro selettivo
– lenti polarizzanti.

20.4.1 Lenti da sole


Costituite da filtri solari che sono selettivi solo per i raggi U.V. mentre si lasciano
attraversare dalle radiazioni del visibile.
Sono di colore grigio o marrone raramente, verde e sono detti, infatti, filtri colorica-
mente neutri perché si lasciano attraversare allo stesso modo da tutte le radiazioni
dello spettro, riducendone l’intensità in egual modo.
Rappresentano quindi un valido ausilio nel ridurre l’abbagliamento ma, per contro-
partita, riducono la percezione cromatica (Figura 12).
La loro capacità di bloccare gli U.V. rende merito di elevate proprietà protettive nei
confronti delle strutture oculari, seppur con differenze legate alla natura del mate-
riale ed alla colorazione:
– Vetro crown n=1,5: bassa protezione U.V.
– Resina organica CR-39: alta protezione U.V.
– Policarbonato: altissima protezione U.V.

Figura 12. Diversa visione con filtri


20. Le lenti oftalmiche 306

La normativa europea EN
1836:1997 distingue i vari tipi
di filtri solari in base alle ca-
ratteristiche di trasmittanza
nella fascia UV-A e UV-B.

20.4.2 Lenti Fotocromatiche


Sono costituite da filtri foto-
cromatici i quali hanno la ca-
ratteristica di modificare la
loro colorazione (stato croma-
tico) a seconda della radiazio-
ne elettromagnetica incidente Figura 13. Diversa visione con filtri
attraverso un processo chimico
reversibile in presenza di calo-
re (Figura 13).
I materiali costitutivi, oggi disponibili, delle lenti fotocromatiche sono il vetro mine-
rale e il materiale organico.

Lenti fotocromatiche in vetro


Sono costituite da vetro borosilicato complessato con una miscela di sali e micro-
cristalli di alogenuro d’argento e/o cloruro d’argento.
La radiazione elettromagnetica, incidente sulla lente, determina la dissociazione
dell’alogenuro di argento (AgCl) in argento ed alogeno (Ag e Cl).
L’atomo d’argento così sottoposto all’energia della radiazione si riduce chimicamen-
te conferendo il tipico colore scuro alla lente.
Alla sospensione della irradiazione, sfruttando il calore atmosferico, si osserva la ri-
conversione dell’argento in alogenuro di argento con totale reversibilità del processo
che dona, nuovamente, chiarezza alla lente.
Nelle lenti di prima generazione il processo veniva attivato dalle radiazioni blu,
mentre nelle lenti di seconda generazione, le radiazioni elettromagnetiche in grado
di attivare il processo sopra descritto sono le radiazioni ultraviolette (350nm) e il
processo di schiarimento avviene quando sottoposte a radiazioni tra il rosso e l’in-
frarosso (650nm).
Nelle lenti in vetro il materiale fotocromatico è distribuito dentro tutta la lente e
per tutto il suo spessore determinando che lenti con diverso spessore abbiano delle
leggere differenze di oscuramento e velocità di reazione. Questo fenomeno può es-
sere fastidioso qualora si debba montare su un occhiale lenti di gradazione diottrica
diversa e quindi di spessore diverso, e sarà tanto più evidente quanto maggiore sarà
la differenza fra le due lenti.
Il processo di scurimento richiede un tempo di attivazione relativamente lungo, così
come risulta lento il processo di schiarimento. Ad ogni buon conto, a completamento
del processo di attivazione, si realizzerà un passaggio di trasmittanza dal 95% (stato
chiaro) al 33% (stato scuro).

Lenti fotocromatiche in materiale organico


Il processo fotocromatico dei pigmenti presenti nei materiali organici è ben diverso
dal processo dei pigmenti presenti nei materiali in vetro minerale.
Attualmente esistono due tipologie di lenti fotocromatiche in materiale organico:
Lenti tradizionali: in cui il pigmento fotocromatico viene applicato immergendo la
lente in soluzione di Spyropyran, composto organico a base di ISN (indolinospironaf-
20. Le lenti oftalmiche 307

tossazina) ed altri componenti fotoattivi che, a seconda delle percentuali, donano


una colorazione marrone o grigia. Tale processo prende il nome di laccatura e la
lente, finita, verrà definita lente laccata.
Questa procedura permette di ottenere uno strato fotocromatico costante su tutta la
superficie, rendendo merito di una colorazione uniforme di tutta la lente.
Per contro, è da rilevare la delicatezza del trattamento stesso dato l’esiguo spessore.
Altro fattore negativo risiede nel fatto che se la laccatura non avviene a regola d’ar-
te, si osserveranno delle sfumature di colore che doneranno un effetto arcobaleno
sulla superficie della lente (effetto camaleonte).
Lenti fotocromatiche organiche additivate in pasta: in cui il polimero che costituisce
la lente viene complessato “in pasta” con uno o più composti fotocromatici organici
appartenenti alla classe delle spirossazine o degli spiropirani.
La colorazione potrà essere grigia, marrone o verde.
Una recente evoluzione di questo tipo di lenti prevede l’aggiunta di una sospensione
colloidale di carbone ossidato, il quale conferisce un’attività di filtraggio della ra-
diazione nettamente maggiore di quella effettuata da una lente organica, di uguale
composizione, ma non additivata con la sospensione di carbone ossidato.
La presenza delle particelle del carbone esplicano un effetto protettivo, nei con-
fronti delle radiazioni, di maggiore intensità anche a temperature elevate in quanto
utilizzano sia l’azione schermante esercitata sia le proprietà cinetiche costanti ad
elevate temperature dal carbone stesso.
Lenti fotocromatiche organiche ad impregnazione termica: in cui il pigmento di cui
sopra non viene complessato in pasta, ma distribuito uniformemente sulla superficie
della lente e fatto penetrare in profondità sotto l’azione termo-barometrica esercita-
ta all’interno di una camera.
Indipendentemente dal tipo, le lenti fotocromatiche organiche, sono caratterizzate
da un tempo di scurimento/schiarimento, più lungo rispetto a quello delle lenti in
vetro minerale.
Altra differenza consiste nel fatto che una lente di vetro fotocromatico dopo un uso
prolungato si scurirà normalmente ma non ritornerà completamente al suo stato
chiaro originario; una lente fotocromatica organica, invece, ritornerà normalmente
allo stato chiaro, ma, dopo un uso prolungato non tornerà a scurirsi al livello iniziale
(fenomeno dell’affaticamento ripetitivo).
Al fine di eliminare i sopracitati difetti, le aziende producono continuamente nuovi
materiali organici fotocromatici in cui restano costanti i procedimenti di additiva-
zione in pasta ed impregnazione termica, ma vengono introdotti nuovi pigmenti fo-
tocromatici che hanno notevolmente ridotto il tempo di scurimento/schiarimento, la
trasmittanza, la stabilità del colore, l’indipendenza termica e la tinta residua.
Tali lenti vengono definite lenti fotocromatiche di III generazione.

20.4.3 Lenti a filtro selettivo


Dette anche lenti filtranti, lenti a nonomeri controllati o, più impropriamente, filtri
medicali, sono l’insieme dei “presidi ottici” atti a modulare l’arrivo della luce sulle
strutture oculari attraverso il “taglio” di una o più lunghezze d’onda che costituisco-
no lo spettro del visibile.
Questa tipologia di filtri differisce dalle altre per la caratteristica principale di se-
lezionare le radiazioni del visibile in modo da farsi attraversare solo da lunghezze
d’onda medio-alte, >450nm.
La capacità di assorbire, in modo selettivo, una o più radiazioni di differente lun-
ghezza d’onda risiede nella loro diversa colorazione (Figura 14).
Salvo che per motivi estetici e di moda, queste lenti trovano un razionale di utiliz-
20. Le lenti oftalmiche 308

Figura 14. Diversa colorazione dei filtri.

Figura 15. Colori dei filtri più utilizzati

450 nm Degenerazione maculare, atrofia del nervo ottico


511 nm Degenerazione maculare, atrofia del nervo ottico, glaucoma, cataratta, retinite pigmentosa
527 nm Glaucoma, cataratta, retinopatia diabetica
550 nm Retinite pigmentosa
Figura 16. Possibile utilizzo del filtro in base al colore

zo in quelle condizioni cliniche in cui alterazioni dello strato recettoriale retinico,


conseguente a svariate patologie degenerative, alterano la percezione dei colori e le
capacità discriminative dello spazio.
Sono largamente usate, infatti, nel campo dell’ipovisione.
Non esiste una standardizzazione relativa all’utilizzo in base alle singole patologie;
tanto che la scelta di uno o altro filtro viene fatta in modo “empirico”, basando-
si sulle impressioni soggettive del
paziente dopo averli indossati e
provati.
I colori più usati sono quelli rela-
tivi al giallo ed all’ocra (Figura 15,
16).
Appare chiaro che in un soggetto
normale l’uso di uno o più filtri
avrà come risultato un’alterazione
del senso cromatico e un aumento
dell’abbagliamento con perdita del
potere discriminante (Figura 17). Figura 17. Effetto di un filtro giallo a 570 nm.
20. Le lenti oftalmiche 309

20.4.4 Lenti polarizzanti


Le radiazioni elettromagnetiche si propagano nello spazio con un moto sinuoidale/
oscillatorio. Questo movimento genera un campo elettromagnetico il quale, a sua
volta, si propagherà nello spazio in direzione (vettore) ortogonale rispetto alla di-
rezione dell’onda elettromagnetica. La direzione che assumerà il vettore del campo
elettromagnetico viene definita polarizzazione.
In base alla direzione del vettore nello spazio si avrà una polarizzazione verticale,
una polarizzazione orizzontale e una polarizzazione circolare.
Proiettando questi concetti nel campo dell’ottica, appare chiaro che le radiazioni
dello spettro del visibile, cioè la luce, se si propagano secondo uno dei vettori di
polarizzazione sopra descritti daranno origine ad una luce caratterizzata da un solo
tipo di polarizzazione. Si parlerà in questi casi di luce polarizzata.
Potremo definire, quindi, la luce polarizzata come quella forma di energia radiante
in cui l’oscillazione vettoriale è costante e definita.
Nella luce naturale, che è la sovrapposizione di onde luminose emesse in modo ca-
suale da un grande numero di atomi, le direzioni dei vettori, pur sempre perpendico-
lari alla direzione di propagazione, si distribuiscono in qualunque modo.
Si parlerà quindi di luce non polarizzata.
Una luce così strutturata penetrerà nell’occhio in modo caotico e stimolerà le strut-
ture recettoriali in modo “anarchico”, determinando l’insorgenza di abbagliamento
e interferendo negativamente sulla discriminazione spaziale.
Esistono particolari filtri, detti polarizzatori, che contengono al loro interno delle
fibre conduttrici allineate tra loro. Quando la luce incide sul filtro, la componente
del campo elettrico parallelo alle fibre viene assorbito; mentre quella proveniente in
senso trasversale viene rifratta. Detti filtri, quindi, permettono il passaggio soltanto
della luce proveniente da una sola direzione, bloccando tutte le altre. In questo modo
la luce incidente, non polarizzata, verrà trasformata in luce emergente polarizzata.
Quando questi filtri polarizzatori vengono incorporati all’interno delle lenti median-
te diversi processi quali laminazione, “drop forming” o fusione a liquido, si otterran-
no le cosiddette lenti polarizzanti.
In virtù dei principi fisici sopraesposti queste lenti permetteranno il passaggio delle
radiazioni che oscilleranno in direzione perpendicolare alle fibre e, così, la luce che
attraverserà le strutture oculari risulterà polarizzata.
In tal modo verrà eliminato il riverbero delle superfici riflettenti quali acqua, neve o
asfalto con conseguente riduzione dell’abbagliamento e miglioramento del contrasto
(Figura 18, 19).

20.4.5 Lenti a filtro blu


Le radiazioni luminose (o luce visibile) sono solo una parte di tutte le radiazioni
elettromagnetiche presenti in natura e presentano una lunghezza d’onda compresa
tra i 400 nm (ciano) e i 700 nm (rosso).
Gli oggetti presenti in natura, che non emettono luce propria, assorbono solo deter-
minate lunghezze d’onda delle radiazioni luminose, riflettendone il resto. Tale mec-
canismo nel suo complesso definisce il colore degli oggetti stessi.
La luce blu rappresenta una particolare forma di radiazione elettromagnetica, dello
spettro del visibile, a corta lunghezza d’onda compresa tra i 430 nm e i 475 nm.
La maggior parte delle fonti luminose emette luce blu (lampade ad incandescenza,
lampade ad arco, lampade fluorescenti, lampade a scarica in gas).
Da alcuni anni sono state immessi in commercio sistemi di illuminazione molto so-
fisticati e altamente efficienti quali i LED caratterizzati, principalmente, da bassi
20. Le lenti oftalmiche 310

Figura 18. Guida senza lenti polarizzanti Figura 19. Guida con lenti polarizzanti

consumi, basso voltaggio ed alta efficienza luminosa.


L’acronimo LED sta per “Light Emitting Diode”, ovvero “diodo che emette luce”,
un dispositivo che sfrutta l’elettroluminescenza cioè le capacità di alcuni materiali
semiconduttori di produrre fotoni. I fotoni non sono prodotti dal surriscaldamento di
un materiale, come avviene per i neon (dove a scaldarsi è un gas) o per le classiche
lampadine a incandescenza (dove è il filamento di tungsteno che raggiunge elevate
temperature), bensì dal passaggio di corrente. Il chip semiconduttore contenuto nel
sistema LED emette luce quando è attraversato da corrente elettrica. Una bassa ten-
sione elettrica applicata al chip attraverso i conduttori del LED causa l’eccitamento
degli elettroni ad un certo livello energetico. Siccome gli elettroni si eccitano e ritor-
nano poi al loro stato originale non eccitato, emettono luce. A seconda della natura
del conduttore i LED potranno emettere luce gialla (Fosfuro di Gallio-GAP), luce ros-
sa o infrarossa (Arsenurio di Gallio- AlGaAs), luce verde (Alluminio di Gallio-GaAIP)
oppure luce blu (Carburo di Silicio- SiC, con picco a 430 nm o Gallio Azoto- GaN, con
picco a 470 nm).
I LED sono presenti nei sistemi di illuminazione ambientale, nei monitor PC, nei
monitor TV, negli smartphones e nei tablets.
Nei LED dei monitor PC, monitor TV, smartphones e tablets ci sarà una miscela di di-
versi semiconduttori, che daranno i caratteristici aspetti colorati al display; mentre
nell’illuminazione ambientale vi è una maggiore preponderanza dei semiconduttori
emettenti luce blu.
La letteratura scientifica più aggiornata ha messo in evidenza una correlazione tra
gli effetti della luce blu e l’occhio.
Gli studi evidenziano l’induzione di uno stress ossidativo delle cellule dell’epitelio
corneale quando irradiate da luce blu con conseguente alterazione della superficie
oculare; tutto ciò è responsabile dell’aggravamento dei sintomi di disconfort oculare
(secchezza, pesantezza, prurito e bruciore) già presenti in soggetti esposti all’uso di
videoterminale per più di 6/8 ore al dì.
Si è messa in evidenza anche una possibile interferenza con l’attività mitocondriale
delle cellule ganglionari retiniche dopo esposizione a radiazione blu.
20. Le lenti oftalmiche 311

Altri studi, inoltre, hanno ipotizzato un’interferenza sul ciclo sonno veglia in soggetti
esposti alla luce blu.
Le risultanze scientifiche danno merito della necessità di una protezione dell’occhio
dalla luce blu; principalmente nei confronti di videoterminalisti e di soggetti la cui
attività lavorativa si svolge in ambienti confinati, dove sia presente una illuminazio-
ne forzata.
Tale protezione viene offerta da lenti con filtro blu che incorporano un fotopigmento
che, quando irradiato dalla luce blu, si attiva donando una tonalità blu/violetta alla
lente; ciò permette la schermatura delle radiazioni e ne impedisce l’interazione con
le strutture oculari.

20.5 I trattamenti superficiali

Come fin qui emerso, le lenti oftalmiche presentano differenti peculiarità in


relazione soprattutto a materiali e geometria, configurandosi quadri variabili di
qualità visiva. Ciascuna lente però, presa nella sua naturalità, riuscirebbe a sod-
disfare solo alcune delle caratteristiche positive per la corretta visione a danno di
altre che mancherebbero: una lente in vetro, ad esempio, è caratterizzata da bassa
dispersione luminosa (quindi buona qualità visiva) ma elevata densità (quindi
alto peso) e bassa resistenza ai graffi, mentre una lente organica presenta bas-
sissima densità (quindi molto leggera) e elevata resistenza ai graffi, ma elevata
dispersione luminosa (quindi scarsa qualità visiva). Per sopperire a tali discre-
panze, le lenti oftalmiche possono essere dotate di trattamenti speciali finalizzati
alla risoluzione degli specifici “difetti” allo scopo di ottenere la lente perfetta.
I trattamenti superficiali, che nello specifico caso potrebbero essere considerati
essenziali, sono l’antiriflesso, l’indurente e l’idrorepellente.

20.5.1 Trattamento antiriflesso


Il trattamento antiriflesso (AR) consiste in una procedura atta all’applicazione
di un rivestimento ottico alla superficie di lenti e altri dispositivi ottici per
ridurre la riflessione. La necessità di apportare un trattamento tale ad una lente
oftalmica scaturisce dal fatto che la radiazione luminosa incidente su di una
lente viene riflessa dalla superficie per una quota che non concorre a formare
l’immagine finale, che per tale motivo risulta meno luminosa. Tali riflessioni
si realizzano sia sulla superficie anteriore che su quella posteriore della lente;
la radiazione riflessa dalla superficie anteriore determina la generazione di un
bagliore superficiale alla lente che rende dall’esterno meno visibili gli occhi
di chi le indossa, quella riflessa dalla posteriore invece penetra nel forame
pupillare provocando un decadimento del contrasto e portando alla formazione
di immagini fantasma che inficiano fortemente la qualità visiva, soprattutto
nella visione notturna e prossimale. Tale disturbo è ancora più manifesto nelle
circostanze in cui la sorgente luminosa si pone alle spalle dell’osservatore,
nella qual condizione la luce riflette immediatamente nell’occhio del paziente,
con importanti disturbi visivi.
L’entità di tale difetto dipende dalla riflettanza del mezzo attraversato, deri-
vante a sua volta dall’indice di refrazione del materiale, secondo la regola per
cui, nel caso di materiali immersi in aria, maggiore è l’indice di refrazione
del mezzo maggiore sarà l’entità della riflettanza.
I trattamenti antiriflesso vengono applicati allo scopo di annullare i processi
20. Le lenti oftalmiche 312

di riflessione luminosa aumentando di fatto la trasmittanza della lente.


Per comprendere il meccanismo con cui tale trattamento raggiunge questo fine,
assimiliamo l’antiriflesso ad un sottile film di materiale posto sulla superficie
della lente. Da un punto di vista ottico, la radiazione luminosa dovrà a tal
punto attraversare due strati di materiale, dunque vengono a crearsi due tipi
differenti di interfacce tra materiali, rispettivamente l’interfaccia aria-film e
quella film-lente. Nel momento in cui il raggio luminoso impatta con la prima
interfaccia, una quota della radiazione attraversa il tessuto ed una piccola
parte viene già riflessa; successivamente la porzione di radiazione rifratta,
impattando con la seconda interfaccia, in parte penetrerà la lente ed in parte
verrà ulteriormente riflessa. Ci troviamo di fronte a due raggi riflessi che
percorrono vie differenti, instaurandosi così una differenza di cammino ottico
Δ. Il risultato ottico finale dipenderà dal rapporto tra le due onde riflesse
relativamente alla differenza di fase δ: se tale differenza è zero le due onde
si sommano generando luce, se la differenza è positiva invece si avrà l’inter-
ferenza distruttiva che produrrà complessivamente buio.
Tale concetto va corroborato dal rapporto tra le formule delle variabili su
indicate, in particolare:

dove nt è l’indice di refrazione e d lo spessore del mezzo, e

da cui

Semplificando l’espressione otteniamo che

Dunque per eliminare la radiazione riflessa, relativamente ad una lunghezza


d’onda, è necessario che lo strato di trattamento antiriflesso abbia uno spessore
d pari ad un quarto della lunghezza d’onda, ma allo stesso tempo reciprocamen-
te dipendente dall’indice di refrazione del materiale antiriflesso (Figura 20).
Il trattamento antiriflesso può essere prodotto in monostrato o multistrato, in
relazione al materiale della lente.
Il trattamento monostrato, applicato a lenti in vetro, è costituito generalmen-
te da floruro di magnesio, indice di refrazione di 1.38, la cui pellicola viene
sottoposta a indurimento dopo la deposizione sulla lente a circa 300°C, diven-
tando dura come lo stesso vetro. Utilizzando fluoruro di magnesio su una
lente in vetro crown con indice di refrazione 1.5, la condizione di interferenza
distruttiva viene soddisfatta quando lo spessore ottico del film è la quarta
parte della principale lunghezza d’onda da eliminare, ovvero 555 nm, a cui
l’occhio umano è maggiormente sensibile; dunque lo spessore finale del film
sarà di 138.75 nm.
Nel caso in cui il trattamento debba essere realizzato su lenti in plastica, il
fluoruro di magnesio non aderirebbe alla superficie. Per tale ragione vengo-
no alternati materiali con indici differenti, in particolare si pone a contatto
con la lente uno strato di quarzo, con indice di refrazione di 1,46, su cui va
20. Le lenti oftalmiche 313

Il film di rivestimento ha uno spessore pari a un quarto di lughezza d’onda

λ/4

λ/4

rivestimento substrato

Figura 20. Rappresentazione del principio di interferenza e del rapporto antiriflesso/lente.

posto uno strato di ossido di zinconio, con indice di refrazione di 2,0. Con
tale associazione riusciamo ad interferire con la medesima lunghezza d’onda
a 555 nm; volendo però ridurre ulteriormente la riflettanza su un numero
maggiore di lunghezze d’onda, si ricorre a trattamenti multistrato, in cui ogni
componente interferisce con una specifica lunghezza d’onda. Il risultato fina-
le sarà una qualità di immagine migliore, a danno però di una colorazione
iridescente conferita alla lente, caratteristica discriminativa di una lente con
trattamento antiriflesso.
Nel caso però di trattamenti multistrato, causa la sovrapposizione di più mate-
riali differenti, si rendono necessari ulteriori trattamenti specifici per la lente,
rappresentati dall’indurente e l’idrorepellente.

20.5.2 Trattamento indurente


I vetri minerali utilizzati per la realizzazione di lenti offrono una particolare
resistenza ai graffi ed alle abrasioni; le lenti organiche invece sono molto più
morbide del vetro, pertanto maggiormente suscettibili a danni. Per tale motivo
risulta necessario un trattamento che renda questi materiali maggiormente
resistenti, così da poterne sfruttare appieno le vantaggiose proprietà ottiche.
Il trattamento indurente viene applicato su lenti organiche allo scopo di aumen-
tare la loro resistenza alle abrasioni e prolungarne la durata nel tempo.
Tale trattamento può essere applicato mediante due tecnologie: la verniciatura
o la deposizione sottovuoto.
La tecnica della verniciatura prevede l’applicazione di una vernice organica,
detta lacca, sulla superficie della lente così da creare un sottile strato che,
aderendo tenacemente alla lente, ne aumenta la resistenza. Le vernici impiegate
si differenziano in tradizionali e speciali. Le tradizionali, prima generazione di
indurenti, sono lacche a base di polisilossano, composto organico del silicio;
quelle speciali sono delle lacche nanocomposite nella cui struttura sono inse-
20. Le lenti oftalmiche 314

rite piccole particelle minerali,


invisibili ad occhio nudo, che con-
feriscono ulteriore compattezza
allo strato e maggior resistenza
alla lente.
Le tecniche con cui l’indurente
può essere applicato alla lente
sono la verniciatura ad immer-
sione, in cui la stessa, venendo
immersa in una vasca contenente
la lacca allo stato liquido, si ver-
nicia contemporaneamente sulle
due facce, e a rotazione, in cui la
lente viene posta su un suppor-
to rotante e per gocciolamento Figura 2. Applicazione dell’indurente con la tecnica
dell’immersione (a sinistra) e della rotazione (a destra).
e sfruttando la forza centrifuga
l’indurente si dispone omogene-
amente su tutta la superficie, benché possa esserne rivestita una soltanto
(Figura 21).
La tecnica della deposizione sottovuoto prevede invece l’applicazione sulla
lente, posta in una camera sottovuoto, di un materiale indurente portato allo
stato di sublimazione (per calore o bombardamento) che si deposita sulle
superfici della lente generando uno strato di materiale duro antiabrasione
di spessore di circa 1,4 µm. Questo tipo di tecnica è sicuramente più costoso
rispetto alla verniciatura classica, ma conferisce una rigidità sorprendente alla
lente applicando uno strato di materiali sottilissimo, pertanto maggiormente
resistente alle sollecitazioni elastiche.

20.5.3 Trattamento idrorepellente


Una lente che garantisca una qualità visiva ottimale dovrà, oltre a soddisfare
tutti i criteri fin qui enunciati, essere soprattutto pulita. Residui oleosi o idrici
infatti possono non soltanto interferire con la propagazione della radiazione
luminosa, costituendo di fatto un ulteriore mezzo da attraversare, ma possono
inficiare la qualità anche dei trattamenti applicati alle lenti, primo fra tutti
l’antiriflesso, causa la riduzione della trasmittanza.
A tale problematica si può ovviare applicando alla lente oftalmica un trattamento
idrorepellente. Si tratta di un ulteriore strato applicato in genere all’antiriflesso
che ha capacità repulsive all’acqua ed alle sostanze oleose, riducendone la depo-
sizione senza alterare la resa dell’antiriflesso stesso. Tale rivestimento agisce in
due modi: in primo luogo annulla le irregolarità di superficie della lente organica,
riducendo così l’adesività di acqua e olio; in secondo luogo modifica direttamente
la forma delle gocce del liquido, andando a modificare le tensioni superficiali.
Tutto questo trattamento permette una più facile pulizia della lente, anche con
un semplice panno asciutto, e dota la stessa anche di un potere antiappannante.

20.5.4 La tempera
È un particolare tipo di trattamento a cui vengono sottoposte le lenti al fine
di aumentarne la resistenza rendendole, quindi, infrangibili.
Principalmente rivolto alle lenti in vetro minerale, può essere applicato anche
alle lenti in policarbonato.
20. Le lenti oftalmiche 315

Il processo può essere realizzato attraverso due metodiche:


– tempera termica
– tempera chimica.
La tempera termica: in cui la lente viene sottoposta, per pochi minuti, ad
altissima temperatura (circa 600°) per poi essere raffreddata, in modo molto
rapido. È una procedura a basso costo e di facile realizzazione.
La tempera chimica: in cui la lente viene immersa in una miscela ad alta tem-
peratura di K+ ed altri elettroliti. L’elevata temperatura (circa 400°) permette
il legame chimico, e quindi permanente, del K+ alle molecole della pasta
polimerica che costituisce la lente donando altissima resistenza, decisamente
superiore a quella che si otterrebbe con la tempera termica. È una procedura
che richiede strumenti sofisticati e ha un costo elevato.
21. L’occhiale in età pediatrica 317

Capitolo 21 – L’occhiale in età pediatrica


A. Piantanida

21.1 Caratteristiche generali di una montatura

Ogni montatura, sia essa pediatrica o da


adulto, si compone principalmente di
due parti: la porzione frontale, che serve
a contenere le lenti, e le aste laterali che,
poggiando sui padiglioni auricolari, con-
sentono alla parte frontale un appoggio
stabile sul naso.
La porzione frontale è caratterizzata da- Figura 1. Montatura pediatrica: le placchette
gli anelli, in cui si collocano le lenti, e dal spesso sono sostituite da un ispessimento della
montatura al di sotto del ponte
ponte che li unisce, sul quale sono poste
due placchette, nelle montature cosiddette “anatomiche” le placchette sono sosti-
tuite da un ispessimento della montatura al di sotto del ponte; tale caratteristica
viene spesso utilizzata nella montatura pediatrica. Ciascun anello deve contenere
una scanalatura per l’inserimento della lente. Le aste, inserite al frontale per mezzo
di piccole viti od ad incastro, sono richiudibili nel caso in cui l’occhiale non venga
utilizzato. (Figura 1)
La scelta di una montatura deve necessariamente tenere in conto i tratti somatici e
le caratteristiche del volto della persona che la indossa: soltanto su una montatura
appropriata le lenti eserciteranno a pieno il loro effetto garantendo non solo un
comfort nell’utilizzo ma anche la migliore qualità di visione possibile.
A tal fine, la linea basale dovrebbe collocarsi regolarmente sul piano oculare e il ca-
libro dell’anello essere adeguato alle dimensioni del viso di chi le indossa, così come
l’altezza e la larghezza del ponte che hanno una grande responsabilità sulla stabilità
dell’occhiale sul naso. A tal proposito, in fase di prescrizione, nei soggetti pediatrici è
sempre raccomandabile una montatura con ponte basso, in quanto i bambini possie-
dono una proiezione ponte-naso negativa o addirittura assente nei neonati che non
consente loro di utilizzare correttamente montature differenti, con cui guarderebbe-
ro attraverso parti periferiche della lente che non hanno lo stesso potere di quella
centrale. Tale proiezione ponte-naso diventa positiva con il passare degli anni fino
diventare simile a quella degli adulti verso la prima adolescenza.

21.2 Le montature pediatriche:


conformazione, materiali e caratteristiche morfologiche

La scelta di una montatura in un soggetto ai primi anni di età è da ritenersi fonda-


mentale da tutti gli specialisti che ruotano intorno al suo benessere visivo, siano essi
oculisti, ortottisti e ottici: l’adeguatezza di una montatura è sinonimo di funzionalità
delle lenti utilizzate, in quanto la montatura costituisce la struttura portante dell’au-
silio ottico e deve pertanto avere precise caratteristiche.
Per essere funzionale, essa dovrà essere calibrata sui parametri di sviluppo cranio-
facciale del bambino: in primo luogo occorre considerare le dimensioni della base
della piramide nasale, sostanzialmente piatta in tutti i neonati e che diviene più
pronunciata soltanto col passare del tempo, completandosi intorno ai 13 anni di età,
21. L’occhiale in età pediatrica 318

quando i ragazzi assumono una conformazione del volto simile a quella degli adulti.
Allo stesso tempo, il massiccio temporale si estende e si allarga con la crescita, pro-
vocando cambiamenti che si ripercuotono frequentemente su una lunghezza insuffi-
ciente delle aste o negli anelli della porzioni frontale, divenuti piccoli in fretta.
L’oggetto occhiale deve essere concepito con un’architettura strutturale organizzata
su tre livelli: il calibro, l’avvolgimento del frontale e le aste.
Il principale aspetto connesso al calibro dell’occhiale è la limitazione del campo
visivo, che una montatura non dovrebbe mai ridurre eccessivamente. A tale scopo
è bene che essa sia direttamente proporzionale al viso del bambino, senza eccedere
in grandezza, anche perché è corretto insistere sul presupposto che il centro ottico
sia coincidente con l’asse visivo. Pertanto, gli occhi dovrebbero trovarsi ben centrati
nei due oculari del frontale e la porzione superiore di quest’ultimo dovrebbe coprire
le due arcate sopraciliari, anche in considerazione del fatto che il mondo visivo del
bambino è di sovente “dal basso verso l’alto”.
Una corretta centratura, che eviti sia gli effetti prismatici sia l’aumento o la dimi-
nuzione del potere correttivo delle lenti, viene realizzata anche per mezzo del ponte
che poggia sul naso, scaricando su di esso gran parte del peso della montatura. Il
ponte in mezzo e la leggerezza dell’occhiale contribuiscono in maniera determinante
ad evitare che l’occhiale scivoli sul naso, così come le aste non devono essere troppo
lunghe ma la loro curvatura deve iniziare sul punto in cui si delinea la parte alta
dell’orecchio seguendone indicativamente i tratti discendenti.
Montature con un ponte troppo piccolo stringono sulla piramide nasale del bambino
viziandone il corretto sviluppo, mentre aste troppo corte premono l’occhiale contro
le ciglia, sporcando le lenti molto più frequentemente.
Poiché i bambini sono costantemente in movimento, per la loro comodità e sicurezza conver-
rà utilizzare un cordino in silicone o una fascia elastica che tengano la montatura stabile e
ben centrata di fronte agli occhi ed attenersi all’utilizzo di una montatura priva di viti, parti
metalliche e saldature che, in caso di rottura, potrebbero provocare gravi traumi oculari.
Fino all’età di 5-6 anni e per le attività sportive è pertanto consigliabile prescrivere sem-
pre montature flessibili in gomma, o polimeri sintetici, che non siano da ostacolo nelle
comuni pratiche quotidiane né possano causare danni in caso di urti. L’oculista farà la sua
parte specificando, nella prescrizione, l’uso di lenti infrangibili. L’ottico dovrà sincerarsi
di bisellare le lenti in maniera corretta per inserire il margine delle lenti nell’apposita
scanalatura onde evitare la fuoriuscita e la rotazione delle stesse specie nelle elevate
ametropie. Il margine della lente infatti non dovrebbe mai sbordare dalla montatura.
Il materiale della montatura dovrebbe essere anallergico e delicato per la pelle del
bambino, in quanto reazioni che possono presentarsi sulla cute rappresentano un
motivo per togliere gli occhiali e farli cadere in disuso. Questo non dovrebbe mai
avvenire poiché oltre al loro scopo correttivo, le lenti contribuiscono a sviluppare
il sistema visivo durante il periodo di plasticità cerebrale, garantendo la migliore
qualità visiva e servendo da supporto fondamentale per avviare trattamenti antiam-
bliopici laddove occorra contrastare una
pigrizia oculare.
A partire dai 7 fino ai 10 anni ci si potrà
orientare verso altri materiali, come la
plastica, il nylon o l’acetato. In questa
fascia di età è un classico la prescrizione
di montature modello “ovalino”, che cal-
zano correttamente sul naso e avvolgono
bene il volto del bambino. (Figura 2) Figura 2. Montatura pediatrica modello ovalino
21. L’occhiale in età pediatrica 319

È giusto che l’estetica faccia la sua parte, in quanto essa rappresenta un buon incen-
tivo all’utilizzo dell’ausilio ottico, pertanto il bambino può scegliere il tipo di monta-
tura che percepisce come propria e più confacente al suo modo di essere, di piacere
e piacersi, purché la scelta sia guidata coscienziosamente dai consigli dell’ottico e
rispetti i dettami scritti sulla ricetta dall’oculista e dall’ortottista che lo hanno preso
in carico. Il bambino che uscirà soddisfatto dal negozio dopo essersi guardato allo
specchio e con una qualità visiva migliore rispetto a quella avvertita in precedenza
userà, senza alcun dubbio, i suoi occhiali in modo permanente e corretto.

21.3 Le montature in gomma o polimeri biocompatibili

Sul finire degli anni ’70 ed all’inizio de-


gli anni ’80 entrarono in commercio delle
montature rivolte al solo pubblico pedia-
trico strutturate in maniera corretta per
il volto del bambino: le montature in gom-
ma o meglio in polimeri sintetici morbidi.
(Figura 3) Tali montature sono studiate in Figura 3. Montatura in polimero morbido
modo da rispettare le caratteristiche ana-
tomiche del volto pediatrico fin dai primi
mesi di vita. Il posizionamento del ponte
infatti al centro degli anelli del tempiale
e la costruzione della montatura con un
aspetto a sella, ha consentito di superare
il problema dell’assenza della proiezione
ponte-naso. (Figura 4) L’utilizzo di un ma-
teriale anallergico, infrangibile, leggero Figura 4. Montatura in polimero morbido
e privo di parti metalliche ha consentito
il superamento della pericolosità dell’oc-
chiale indossato in età pediatrica. Il posi-
zionamento di un foro alla fine delle aste
allo scopo di consentire l’inserimento di
un cordino di cotone nei primissimi anni
di vita o di una fascetta elastica succes-
sivamente, consolida le caratteristiche
di stabilità che l’occhiale deve avere sul
volto del bambino. Negli anni recenti si
è sviluppata una gamma di calibri e mo- Figura 5. Montatura con naselli ispessiti
delli tendenti a coprire non solo i primi
anni di vita del bambino ma accompagnandolo anche in età più avanzate. L’appoggio
della montatura su una glabella nasale piccola o assente è stato studiato, come si
diceva, sia posizionando il ponte in mezzo agli anelli, sia più recentemente ispes-
sendo i naselli di appoggio per mantenere il ponte più in alto e venire incontro alle
esigenze estetiche della società attuale. (Figura 5) L’utilizzo poi di differenti calibri
e modelli consente di utilizzare tale materiale anche in bambini grandicelli per esi-
genze sportive.
Attenzione dovrà essere posta da parte del medico oculista, dell’ortottista e da parte
dell’ottico su come vengono montate le lenti in tali montature. I telai in polimero
sintetico morbido infatti necessitano di una particolare bisellatura delle lenti cor-
21. L’occhiale in età pediatrica 320

Figura 6. Bisellatura “a coltello” delle lenti

rettive definita a coltello (Figura 6) al fine di impedire la fuoriuscita accidentale ed


in alcuni casi sollecitata volontariamente dal piccolo paziente, delle lenti dal telaio.
L’inserimento della lente in maniera corretta nel solco della montatura stessa impe-
disce inoltre alla lente astigmatica di ruotare su se stessa cambiando di fatto l’asse
del cilindro prescritto, cosa che può comportare seri deficit visivi specie nei difetti
astigmatici elevati, vanificando anche l’esito delle terapie antiambliopiche.

21.4 Montature per lo sport

Un problema comune nella nostra società è l’utilizzo della correzione ottica nell’atti-
vità sportiva, in età pediatrica e non. Risulta evidente come le montature in queste
situazioni estreme debbano assolvere i compiti di sicurezza e comodità. I materiali
infrangibili ed i polimeri morbidi in special modo, assolvono ad entrambi i compiti
essendo tali materiali privi di parti metalliche e caratterizzati dall’essere monopez-
zo. Quest’ultima caratteristica impedisce che le parti assemblate, seppur in plastica,
provochino traumatismi. Da considerare come diventi indispensabile l’utilizzo di una
fascia elastica che consente di tenere ben centrata ed in sede la montatura stessa.
Un altro vantaggio della montatura per sport in materiale gommoso risiede nel fatto
che possono essere utilizzate nelle situazioni più disparate: dalle attività ludiche e
sportive marine alle attività sportive invernali quali lo sci o l’hokey su ghiaccio. Que-
ste montature infatti possono agevolmente essere indossate sotto il casco per sport.
Da sconsigliare invece le montature avvolgenti a mascherina, in quanto presentano
diverse problematiche. La prima riguarda la sicurezza, essendo nella maggior parte
21. L’occhiale in età pediatrica 321

Figura 7. Mascherina per sport senza aste Figura 8. Montatura per sport pediatrica in
polimero morbido

Figura 9. Montatura per sport pediatrica in


polimero morbido

dei casi montature assemblate in più pezzi di materiale rigido (seppur infrangibile);
meglio l’utilizzo eventuale di mascherine prive di aste ma solo dotate di fasce ela-
stiche direttamente unite al tempiale (Figura 7) Un altro problema riguarda invece
l’effetto prismatico delle lenti specie nelle ametropie elevate e negli astigmatismi
essendo queste montate su montature avvolgenti curve. L’aberrazione risultante dal-
la curvatura della montatura e, di conseguenza, delle lenti determina una distorsio-
ne dell’immagine che si forma in quanto non solo cambia il potere della lente al di
fuori del centro ottico ma anche il fuoco dei raggi che cadono sulla retina. Va quindi
sottolineato ancora una volta come sia necessario non solo utilizzare montature sicu-
re ma che rispettino doverosamente anche le regole di ottica fisica al fine di evitare
inconvenienti visivi (diplopia, distorsione delle immagini, effetto prismatico, ecc.)
(Figura 8, Figura 9).

21.5 Lenti: potere, distanza, ingrandimento ed effetti derivanti


dal loro utilizzo proprio e improprio

Quando si sceglie una montatura non si può prescindere dagli effetti che hanno le
lenti montate e che si possono riassumere in quattro punti:
– Potere
– Distanza
– Ingrandimento
– Centratura
Le lenti, soprattutto sferiche ma anche cilindriche, non hanno il medesimo potere
sull’intera superficie che le costituisce: guardare attraverso una porzione periferica
della lente piuttosto che attraverso il suo centro ottico non è la stessa cosa. Ci si
accorge facilmente di questo fenomeno osservando la conformazione di lenti con
potere assai elevato: se si osserva una lente negativa si noterà facilmente come ten-
da ad ispessirsi ai bordi, mentre una lente positiva appare maggiormente bombata
al centro. Ne consegue che quanto più alto è il potere della lente tanto più occorre
21. L’occhiale in età pediatrica 322

far coincidere il centro ottico con l’asse visivo, in caso contrario è facile incorrere in
alterazioni del potere e fenomeni di aberrazione. Tali fenomeni sono causa di un’im-
magine distorta che si forma perché insieme al potere della lente cambia anche il
fuoco dei raggi che cadono sulla retina.
L’aberrazione sferica è provocata dal fatto che la sfera non è la superficie ideale per
realizzare una lente, ma è comunemente usata per semplicità costruttiva: i raggi di-
stanti dall’asse ottico, posti in periferia (raggi marginali), vengono focalizzati ad una
distanza differente dalla lente rispetto a quelli più centrali (raggi parassiali).
A tal proposito, nei bambini diventa fondamentale fare ricorso a montature con pon-
te basso per consentire una corretta centratura delle lenti ovvero la perfetta coinci-
denza dell’asse ottico con l’asse visivo, come sopra menzionato.
Un altro problema è rappresentato dalla distanza cui la lente si trova rispetto all’a-
pice corneale. Scrive il prof. G.P. Paliaga nel testo I Vizi di Refrazione: “Quando si
corregge un’ametropia con lenti, occhio e lenti correttive realizzano un sistema diottrico
composto il cui fuoco principale posteriore cade sulla retina. Il potere del sistema diottrico
composto, e l’ingrandimento che esso fornisce di un oggetto, non dipendono soltanto dal
potere delle lenti che compongono il sistema ma altresì dalla distanza che intercorre tra
i diottri che lo costituiscono. Ne consegue che nella correzione dei vizi di refrazione la
distanza che separa la lente dall’occhio ha grande importanza in quanto influenza sia la
messa a fuoco delle immagini sulla retina che la loro dimensione”.
Nel caso degli occhiali è proprio la cura del dettaglio a fare la differenza, pertanto
occorre dedicare la massima attenzione alla distanza tra occhio e lente che, cambian-
do, modifica anche l’effettivo potere della correzione ottica; e alla sua centratura,
onde evitare effetti prismatici ed astigmatismi da incidenza obliqua.
La variazione di potere della lente in relazione alla distanza è direttamente propor-
zionale al potere della lente stessa: quanto più elevato è il numero di diottrie da
correggere, tanto maggiori sono le variazioni prodotte dallo spostamento.
Una lente positiva aumenta di potere con l’aumentare della distanza dagli occhi, una
lente negativa esercita invece un potere più forte se avvicinata alla superficie cor-
neale: questo è il principale motivo per cui i bambini miopi, facendo fatica a vedere
quando peggiora il loro difetto, tendono a schiacciare gli occhiali contro la radice del
naso. Solitamente, la distanza di una lente dall’occhio cambia nell’ordine di qualche
millimetro, pertanto se il difetto da correggere è inferiore a 5 D essa non influisce
significativamente sulla variazione del potere.
Oltre alla distanza, il potere di una lente cambia l’ingrandimento delle immagini
che si osservano: è risaputo che una lente da miope rimpicciolisce l’oggetto fissato,
mentre una lente da ipermetrope tende ad ingrandirlo. Quasi mai le ametropie sono
esattamente uguali tra i due occhi e, in caso di anisometropie o antimetropie, le lenti
prescritte possono essere mal tollerate dal paziente. Sebbene i bambini siano dotati
di una plasticità cerebrale che consenta loro di adattarsi con maggiore facilità a cor-
rezioni ottiche di differente entità, nell’applicazione di lenti correttive è sempre uti-
le considerare la regola di Knapp, secondo la quale “se il centro ottico della lente viene
posto a livello del fuoco principale anteriore dell’occhio, che nelle ametropie puramente
assiali si trova a circa 15 mm dall’apice corneale, le dimensioni dell’immagine a fuoco
sono uguali a quelle dell’immagine che si forma nell’occhio schematico emmetrope”.
Il rispetto di tale postulato consente al prescrittore di evitare fastidiosi effetti da va-
riazione dell’ingrandimento e produrre un’immagine retinica molto simile a quella
che si forma in un occhio normale se le lenti degli occhiali vengono correttamente
montate ad una distanza di circa 15 mm per correggere un’ametropia assiale, soprat-
tutto unilaterale.
21. L’occhiale in età pediatrica 323

Figura 10a. Effetto sulla convergenza del decentramento di lenti


positive: per fissare l’oggetto O gli occhi sono costretti ad un aumento
della convergenza dall’effetto prismatico indotto dal decentramento
temporale (A) mentre il decentramento nasale produce l’effetto
contrario (B)

Figura 10b. Effetto sulla convergenza del decentramento di lenti


negative: per fissare l’oggetto O gli occhi possono effettuare una
convergenza inferiore grazie all’effetto prismatico indotto dal
decentramento temporale (A) mentre il decentramento nasale
produce l’effetto contrario (B)

Da non trascurare, infine, è l’effetto prismatico prodotto dalla porzione periferica


delle lenti: poiché gli occhi sono in continuo movimento, essi non guardano sempre
attraverso il centro ottico.
Non potendo realizzare una centratura delle lenti valida per tutte le posizioni di
sguardo e per tutte le distanze, ci si deve limitare a far sì che gli assi visivi passino
per i centri ottici almeno nelle due più frequenti modalità d’uso degli occhiali: la
visione a distanza e il lavoro per vicino.
Per realizzare correttamente la centratura ci si deve basare sulla distanza interpupil-
lare che, nei casi più comuni, si può tranquillamente effettuare per mezzo di un regolo
millimetrato, nonostante esistano tanti strumenti in commercio impiegati a tale scopo.
In casi particolari, si può fare ricorso al decentramento delle lenti per compensare
strabismi latenti che tendono a scompensarsi: quando gli occhi guardano attraverso
una parte della lente che è localizzata lateralmente rispetto al centro ottico, l’effetto
prismatico, a base temporale o nasale, che ne deriva può giocare un proprio ruolo nel
controllo dell’angolo di deviazione.
21. L’occhiale in età pediatrica 324

Nei bambini che fanno fatica a mantenere un allineamento costante degli assi vi-
sivi, dopo aver opportunamente calcolato la distanza interpupillare, si consiglia un
decentramento temporale in caso di miopia associata ad esoforia o ipermetropia
associata ad exoforia; ed un decentramento nasale in caso di miopia associata ad
exoforia e ipermetropia associata ad esoforia onde avere un effetto di rafforzamento
sulla convergenza o sulla divergenza a seconda del quesito clinico. (Figura 10)
In conclusione, l’effetto prismatico prodotto dal decentramento delle lenti può esse-
re utilizzato nelle eteroforie per arginare le insufficienze di convergenza o facilitare
l’attivazione dei riflessi fusionali, mantenendo così un perfetto stato di binocularità.

21.6 Occhiali con lenti bifocali nei bambini:


tipologie e indicazioni per l’impiego

Esistono alcune forme di strabismo in cui


l’uso degli occhiali bifocali consente ai
pazienti di mantenere un buon controllo
sulla deviazione oculare. Nelle esotropie
accomodative pure con rapporto accomo-
dazione/convergenza elevato, l’uso della
lente bifocale è resa necessaria e dà come
risultati il ripristino della visione bino-
culare e l’acquisizione della stereopsi. Figura 11. Lenti bifocali tipo Executive
Inutile dire che trascurare strabismi del
genere innesca, nell’arco di poco tempo,
una componente muscolare che si somma
a quella refrattiva non lasciando altra
scelta che la chirurgia.
Nelle esotropie ipoaccomodative il punto
prossimo di accomodazione è posto più
lontano e l’accomodazione risulta per- Figura 12. Lenti tipo executive angolo per vicino
tanto più debole del normale. Per vedere sopra linea e-line
bene, il paziente deve accomodare più di
quanto farebbe normalmente e questo de-
termina anche una convergenza eccessiva
in rapporto alla distanza di osservazione:
l’addizione positiva annulla o riduce mol-
to la differenza tra l’angolo di strabismo
per lontano e per vicino.
Figura 13. Lenti tipo executive: angolo per vicino
Per queste forme la lente bifocale rappre- compensato dalla lente bifocale
senta la soluzione ideale, ma per avere
un effetto risolutivo è molto importante che le lenti siano collocate su una montatura
adeguata e abbiano precise caratteristiche di montaggio.
Nella prescrizione della bifocale, l’indicazione riguarderà prevalentemente lenti
“Executive e-line” meglio se precalibrate, in maniera che il segmento addizionale
risulti più sottile. La porzione addizionale deve passare lungo l’orletto pupillare in-
feriore. Tale lente ha come caratteristica il posizionamento del centro ottico della
porzione inferiore, che risulta esattamente al di sotto di quello per lontano in pros-
simità della linea di separazione dei due segmenti. Questa collocazione consente un
controllo dello spasmo accomodativo del piccolo paziente ed evita o riduce la stra-
21. L’occhiale in età pediatrica 325

bizzazione sia per lontano sia per vicino.


(Figura 11, Figura 12, Figura 13)
Una delle più recenti innovazioni è rap-
presentata dalla lente Excelit AS C40,
una bifocale specifica per lo strabismo
accomodativo con eccesso di convergen-
za da vicino, e che copre anche ametropie Figura 14. Lenti bifocali tipo Excelite AS
maggiori di 6 diottrie. In molti di questi
casi, l’accomodazione può continuare ad esercitare un proprio ruolo residuando in
un’esoforia: le Excelit, esercitano un effetto prismatico che si deve al decentramento
temporale di 2 mm nella porzione che serve a vedere da vicino e riescono con una
buona percentuale di successo a migliorare i problemi che affliggono gli occhi del
piccolo paziente. L’utilizzo di nuovi materiali ha consentito di ridurre notevolmente
lo spessore ed il peso di queste lenti bifocali. Unica accortezza sta nell’utilizzare
montature non eccessivamente ampie in modo di consentire l’utilizzo della parte
addizionale su tutto il campo della montatura; montature troppo grandi infatti com-
portano la mancanza di presenza dell’addizione per vicino nelle parti periferiche
dell’occhiale, per meri motivi tecnici di costruzione dello sbozzo della lente stessa.
(Figura 14)
Il montaggio deve sempre considerare, orizzontalmente, il centro ottico da lontano
che corrisponde alla distanza interpupillare monoculare per lontano e, verticalmen-
te, l’altezza del limite superiore del segmento addizionale tangente al centro pupil-
lare mentre il bambino guarda dritto davanti. (Figura 15, Figura 16)
Un’altra forma di più difficile gestione per strabologi e ortottisti è l’esotropia iper-
cinetica, in cui l’accomodazione è normale ma la risposta motoria in convergenza è
eccessiva: in questi casi l’effetto dell’addizione è nullo o molto scarso ma il numero
di falsi positivi nei test che dovrebbero smascherare le forme ipercinetiche è parti-
colarmente elevato. Di fronte a tali situazioni cliniche, la diagnosi deve essere cauta
e conviene prescrivere per un periodo di 2-3 mesi dei press-on bifocali di +3,00 tipo
Fresnel: in questo lasso di tempo è possibile che molte forme apparentemente iper-
cinetiche si rivelino come ipoaccomodative.
Nel prescrivere una lente bifocale per bambino, l’oculista e l’ortottista potranno
scegliere tra due possibili strategie di correzione: l’impiego di un +3,00 sferico bila-
terale, che metta totalmente a riposo l’ac-
comodazione e sia ridotto in seguito gra-
dualmente; oppure l’addizione minima
capace di annullare l’incomitanza e sol-
lecitare ancora in parte l’accomodazione.
Nelle forme di esoforia-tropia non si do-
vranno prescrivere lenti bifocali al di là
Figura 15. Lente excelit AS: angolo per vicino
dei 10-11 anni: adottarle dopo questa età sopra linea bifocale
scardina l’accomodazione nel soggetto
giovanissimo e rende il bambino dipen-
dente da un occhiale per vicino. Il rischio
maggiore in cui è possibile incorrere in
queste situazioni è quello della diplopia,
che potrebbe verificarsi quando il bambi-
no toglie gli occhiali.
Assolutamente da proscrivere nei bambi-
Figura 16. Lente Excelit AS: angolo per vicino
ni sono le lenti bifocali con lunetta che, compensato dalla lente bifocale
21. L’occhiale in età pediatrica 326

seppur caratterizzate da due poteri diottrici differenti, uno per lontano e uno per
vicino, non attraversano la parte inferiore dell’orletto pupillare e non sortiscono l’ef-
fetto desiderato, ovvero il controllo degli spasmi muscolari o dell’angolo di deviazio-
ne oculare scompensato dall’accomodazione. Da sottolineare come il meccanismo
di controllo dello spasmo accomodativo per vicino non risiede solo nella semplice
addizione sferica del potere ma anche e soprattutto nel posizionamento del centro
ottico, che coincide ovviamente per quanto si è detto con il potere totale della lente
stessa, senza aberrazioni periferiche dell’immagine od effetti prismatici. Nelle lenti
bifocali per lettura il centro ottico risulta nasalizzato per evidenti motivi di comodità
della funzione visiva per vicino, ma tale posizionamento contraddice il controllo del-
la deviazione strabica per vicino nelle esotropie con alterato rapporto accomodativo,
come descritto sopra.

21.7 Occhiali con lenti da sole e fotocromatiche nel bambino

Gli effetti nocivi del sole rappresentano per gli occhi dei bambini un pericolo che
può essere tenuto sotto controllo per mezzo di occhiali da sole o lenti fotocromatiche.
Non si deve essere indotti a pensare che la giovane età dei soggetti preservi l’organo
visivo contro le radiazioni emesse dai raggi ultravioletti che si propagano nell’atmo-
sfera; al contrario, abbassare la guardia in situazioni di rischio come una vacanza al
mare o in montagna può causare problemi a breve e a lungo termine.
Nella maggior parte dei casi si consiglia l’applicazione di lenti infrangibili e scure,
filtranti i raggi UVA e UVB al 100% ma attraversabili dalle radiazioni del visibile e
collocate su una montatura in gomma, tale da garantire sicurezza e comfort adeguato.
La loro capacità di bloccare gli U.V. rende merito di elevate proprietà protettive
nei confronti delle strutture oculari. Non dimentichiamoci, infatti, che il principale
motivo per cui queste lenti vengono acquistate è quello di saper discriminare quan-
titativamente e qualitativamente le radiazioni elettromagnetiche che attraversano la
loro superficie, pur facendo permanere il senso del contrasto e la sensibilità lumino-
sa. La riduzione dell’abbagliamento da un lato, riduce anche la percezione cromatica
dall’altro.
Conviene prescrivere un trattamento fotocromatico sulle lenti che il bambino usa
abitualmente, in quanto si evita in questo modo un cambio frequente di montatura

LENTE/ TOP TO LUNGHEZZA LUNGHEZZA


MODELLO ETÀ
PONTE BOTTON DIAGONALE ASTE
Baby 35-13 26 35 < 6 mesi
37-13 27 37 < 12 mesi
Kids 37-14 28 37 100 12-24 mesi
40-14 28 40 100 2-3 anni
43-15 29 43 110 4-5 anni
45-16 30 45 110-115 6-7 anni
Junior 47-17 29 48 110-115 8-9 anni
49-17 30 50 110-125 10-11 anni
51-17 31 52 110-125 12-13 anni
Caratteristiche delle montature pediatriche in rapporto all’età
21. L’occhiale in età pediatrica 327

nel passaggio da locali interni all’esterno e viceversa.


Queste lenti, costituite da filtri fotocromatici, hanno la caratteristica di modificare la loro
colorazione a seconda della radiazione elettromagnetica incidente attraverso un proces-
so chimico reversibile in presenza di calore. Lo strato fotocromatico presente su tutta la
lente, le renderà una colorazione uniforme quando questa si scurirà alla luce del sole.
Per quanto concerne la struttura, le montature da sole pediatriche devono essere
resistenti e, al tempo stesso, leggere e maneggevoli, possibilmente senza parti metal-
liche che possano causare traumi oculari in caso di rottura. È necessario rispettare le
regole già espresse nei paragrafi precedenti, vale a dire un ponte basso e un frontale
con anelli ben centrati, tale da assicurare un campo visivo ampio e uniforme, con co-
pertura pressoché globale dell’occhio e una lunghezza delle aste che deve essere ade-
guata al volto, onde evitare che l’occhiale scivoli sul naso o prema contro le tempie.
Il materiale deve preservare la pelle del bambino dalle allergie e non deformarsi col
calore del sole.

21.8 Conclusioni

Quanto scritto in questa breve trattazione sulla prescrizione dell’occhiale in età pe-
diatrica costituisce un supporto per oculisti, ortottisti e ottici riguardante la pre-
scrizione e l’uso di montature e lenti pediatriche ma si caratterizza altresì come un
presupposto fondamentale da cui dover partire.
Dopo la prescrizione, infatti, si situa la scelta ed infine l’applicazione per la qua-
le risulta determinante la compliance del paziente ed il monitoraggio da parte dei
genitori dell’uso che il bambino fa degli occhiali, soprattutto se i vizi di refrazione
da correggere sono di lieve entità e possono essere compensati accomodando. Ricor-
diamo a tal proposito che un occhiale può essere prescritto anche a scopo ortottico
e non soltanto visivo e il suo utilizzo, in questi casi, è connesso alla cura di disturbi
sensoriali, ossia alla preservazione della binocularità o di una cooperazione, seppur
anomala, tra i due occhi per contrastare i meccanismi di soppressione nel bambino
in età plastica e di diplopia nel soggetto pediatrico ormai fuori dai confini dell’età
plastica.
È molto importante che tutte le figure professionali che ruotano attorno al piccolo
paziente siano abili nello spiegare sia ai genitori sia al diretto interessato l’importan-
za dell’utilizzo dell’occhiale, facendo capire innanzi tutto il motivo per il quale l’oc-
chiale viene prescritto e i benefici che se ne possono trarre da un corretto utilizzo.
È necessario guardare principalmente alla funzione visiva oggettiva piuttosto che
alla soggettività estetica e prescrivere occhiali considerando che, in problematiche
complesse come certe forme di strabismo o nelle ambliopie, un occhiale prescritto
dopo un’attenta cicloplegia e ben calzato sul volto può fare la differenza aiutando un
recupero visivo che altrimenti risulterebbe più difficoltoso o un controllo dell’angolo
di deviazione che tenderebbe a scompensarsi.
Per questi ed altri motivi, i precetti precedentemente esposti non devono essere con-
siderati come consigli da seguire orientativamente bensì come parametri tesi alla
salvaguardia della salute di tutti i bambini che indossino un paio di occhiali.
Al contempo, pur facendo capo a punti di riferimento fermi, la ricerca nel campo
dell’ottica non dovrà esimersi dallo svolgere un ruolo predominante nelle strategie
di mercato ideando, per mezzo di menti e mani esperte, lenti e montature capaci di
andare incontro alle esigenze più disparate, allo scopo di rendere più facilmente
risolvibile ogni problematica legata ai processi di sviluppo visivo per gli specialisti
della visione e per coloro che vi si affidano con convinzione.
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 329

Capitolo 22 – La prescrizione delle lenti a contatto


in età pediatrica
A. Piantanida, I. Muzza

La prescrizione e la gestione delle lenti a contatto (L.A.C.) è considerata a torto un


ostacolo insormontabile, il medico oculista e l’ortottista preferiscono non occuparse-
ne e demandare all’ottico (professione ausiliaria dell’arte sanitaria) la gestione ed
anche la prescrizione. È bene però prima di procedere alla descrizione delle varie
tipologie di lenti a contatto, dei materiali e delle varie applicazioni cliniche, cono-
scere almeno per sommi capi la normativa italiana e la normativa europea, dove
è ben descritto come sia il solo personale sanitario abilitato il responsabile della
prescrizione applicazione e gestione delle lenti a contatto. Non è più possibile per i
medici oculisti e per gli ortottisti assistenti in oftalmologia esimersi dalla conoscen-
za almeno per sommi capi sia delle caratteristiche sia dei materiali oggi presenti
sul mercato, nonché le diverse possibilità applicative che le lenti a contatto hanno
nell’ambito dell’oftalmologia pediatrica. La legge italiana deve farsi risalire al R.D.
del 1928 e successive modificazioni, all’allegato IX del DLgs 46/97 e successive mo-
dificazioni. Le L.A.C sono considerate dal legislatore: “presidio medico chirurgico di
classe II A” per cui invasivo e come tale dovrebbe essere gestito solo da personale
sanitario abilitato (D.M. Pubblicato su G.U.18/03/03, art.1 comma 3)

R.D. 31 maggio 1928, n. 1334.


Regolamento per l'esecuzione della legge 23 giugno 1927, n. 1264, sulla disciplina delle arti
ausiliarie delle professioni sanitarie.

Art. 12.

¾ Gli ottici possono confezionare, apprestare e vendere direttamente al pubblico occhiali


e lenti, soltanto su prescrizione del medico, a meno che si tratti di occhiali protettivi o
correttivi dei difetti semplici di miopia e presbiopia, esclusa l'ipermetropia, l'astigmatismo
e l'afachia.

¾ E' in ogni caso consentito ai suddetti esercenti di fornire direttamente al pubblico e


riparare, anche senza prescrizione medica, lenti ed occhiali, quando la persona che ne dà
la commissione presenti loro le lenti o le parti delle medesime di cui chiede il ricambio o la
riparazione.

¾ E' del pari consentito ai suddetti esercenti di ripetere la vendita al pubblico di lenti od
occhiali in base a precedenti prescrizioni mediche che siano conservate dall'esercente
stesso, oppure esibite dall'acquirente

¾ Per l’acquirente delle lenti a contatto necessita sempre, prescindendo dal grado di
difetto visivo, la prescrizione del medico oculista, ai fini dell’accertamento, tra l’altro, dello
stato di recettività della congiuntiva e di particolari condizioni anatomiche corneo-
congiuntivali.

¾ L’optometrista - non essendo tale figura riconosciuta nel nostro ordinamento – non può
svolgere compiti diversi da quelli consentiti all’ottico

Dalla lettura ed analisi delle leggi e normative italiane si evince chiaramente come
il medico oculista e l’ortottista assistente in oftalmologia non possono esimersi dalla
conoscenza della contattologia, e che solo il personale sanitario abilitato può e deve
gestire la prescrizione e le fasi cliniche dell’utilizzo delle L.A.C. Le lenti a contatto
sono un ottimo ausilio terapeutico ed ortottico in molte situazioni cliniche che ri-
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 330

GUIDA AL CORRETTO UTILIZZO DELLE LENTI A CONTATTO


AVVERTENZE, PRECAUZIONI E RISCHI COLLEGATI ALL’USO
(Come da Decreto Ministeriale pubblicato sulla G.U. n. 64 del 18/03/03, Art. 1 comma 3)

¾ L’applicazione e l’uso delle lenti a contatto possono essere eseguiti solo quando le condizioni
anatomo-funzionali dell’occhio del paziente lo consentono. Esistono infatti alcuni fattori di
rischio, rilevabili dallo specialista, che possono risultare responsabili di complicanze o
dell’insorgenza di fenomeni di intolleranza.

¾ Il medico specialista e l’ottico applicatore della lente sono consapevoli di tali problematiche
e solo dopo un accurato esame del soggetto possono consigliare o meno l’uso delle lenti a
contatto.

¾ Omissis…………….

¾ Al fine di evitare danni agli occhi è importante verificare l’assenza di controindicazioni dal
medico oculista e sottoporsi a controlli periodici.

¾ Omissis………….

¾ Consultare il medico per le modalità di utilizzo durante le attività sportive.

Direttiva CEE 93/42

Nell’articolo 1 vengono date definizioni utili a facilitare la classificazione dei vari dispositivi medici:

¾ Dispositivo medico: «qualsiasi strumento, apparecchio, impianto, sostanza o altro


prodotto, utilizzato da solo o in combinazione, compreso il software informatico
impiegato per il corretto funzionamento e destinato dal fabbricante ad essere impiegato
nell'uomo a scopo di:

9 diagnosi, prevenzione, controllo, terapia o attenuazione di una malattia;

9 diagnosi, controllo, terapia, attenuazione o compensazione di una ferita o di un


handicap;

9 studio, sostituzione o modifica dell'anatomia o di un processo fisiologico;

9 intervento sul concepimento;

9 la cui azione principale voluta nel o sul corpo umano non sia conseguita con mezzi
farmacologici né immunologi.

¾ Accessorio: «prodotto destinato [...] ad essere utilizzato con un dispositivo per


consentirne l’utilizzazione prevista dal fabbricante».

Tra le definizioni presenti nell'allegato IX:

¾ Dispositivo invasivo: dispositivo che penetra totalmente o parzialmente nel corpo


attraverso un orifizio o una superficie corporea.

¾ Orifizio del corpo: qualsiasi apertura naturale del corpo (anche la superficie esterna del
bulbo oculare, quindi le lenti a contatto sono un dispositivo invasivo) o artificiale e
permanente (come uno stoma).

¾ Dispositivo medico attivo: «DM dipendente, per il suo funzionamento, da una fonte di
energia elettrica o di altro tipo di energia, diversa da quella generata direttamente dal
corpo umano o dalla gravità e che agisce convertendo tale energia. Un dispositivo medico
destinato a trasmettere, senza modificazioni di rilievo, l’energia, le sostanze o altri
elementi tra un dispositivo medico attivo e il paziente non è considerato un dispositivo
medico attivo» (dall’allegato IX).

guardano sia la riabilitazione visiva sia i disturbi della motilità oculare. È compito
ed obbligo morale sia del medico sia dell’ortottista imparare a gestire ed affrontare
la contattologia. L’approccio di base alla contattologia richiede solo la conoscenza di
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 331

pochi concetti semplici: già saper “guardare” una L.A.C. alla lampada a fessura può
considerarsi un successo ed un passo avanti.
La normativa europea risulta essere più severa di quella italiana e si basa sulla Di-
rettiva CEE 93/42 sui dispositivi medici. La Direttiva CEE 93/42 sui dispositivi medi-
ci (abbreviata in DDM 93/42), pubblicata sulla GUCE (Gazzetta Ufficiale Comunità
Europea) nel giugno del 1993, è un documento che riporta i criteri generali da uti-
lizzare nella progettazione e realizzazione di alcune categorie di dispositivi medici,
vigente negli stati dell’Unione Europea.

Gli attori principali che entrano in gioco nell’applicazione di lenti a contatto sono
principalmente il medico oculista che diagnostica uno status e lo referta, il contat-
tologo, che dovrebbe identificarsi con una figura sanitaria completa quale l’ortotti-
sta assistente in oftalmologia, preposto all’espletamento della pratica applicativa di
lenti a contatto ed il costruttore che deve poter fornire sempre tecnologia e soluzioni
per le più disparate situazioni di compensazione ottica con lenti a contatto. Il con-
tattologo studia una specifica circostanza applicativa sulla base di una determinata
necessità correttiva di un’ametropia semplice, di una situazione patologica che possa
influire sullo sviluppo del sistema visivo specie nell’età pediatrica, di un disturbo
della motilità oculare, di patologie corneali o postumi di chirurgia refrattiva, mentre
il costruttore prevede uno studio di fattibilità di uno specifico progetto-lente, anche
fuori da schemi predefiniti standardizzati. È possibile cioè ottenere la costruzione
di lenti a contatto personalizzate in base alle differenti esigenze della patologia da
gestire.
Esistono quattro casi canonici dove ha un senso proporre l’uso delle L.A.C. in età
pediatrica ai fini riabilitativi:
– Cataratta congenita operata, afachia
– Malformazioni congenite (es. aniridia, coloboma irideo, albinismo, nistagmo)
– Anisometropia elevata (es. miopia unilaterale elevata) o difetti rifrattivi elevati od
irregolari (es cheratocono)
– Ambliopia (laddove non è gestibile l’occlusione per mancata compliance o per
impossibilità fisica o psicologica del paziente).
Non esiste un’età nella quale non si possano indossare le lenti a contatto: è possibile
fin dai primi giorni di vita. Nella gestione delle diverse situazioni cliniche cui ci tro-
viamo di fronte risulta fondamentale il ruolo dei genitori che devono contribuire at-
tivamente in tutte le fasi applicative, i bambini infatti hanno un’ottima compliance
nei confronti delle lenti a contatto se sono rassicurati dalla figura genitoriale. Ruo-
lo fondamentale è anche quello del personale sanitario sia del medico oculista sia
dell’ortottista nell’applicazione delle lenti a contatto. Essi devono saper conoscere i
vari materiali, le manovre di igiene, le manovre corrette di manipolazione e gestione
delle lenti a contatto, la conoscenza di base delle patologie e delle conseguenze di
errato utilizzo e fitting delle lenti a contatto.

22.1 Quando le lenti a contatto nei bambini

Nei primi 6/8 mesi di vita la visione si modifica da “bioculare” a binoculare, con la
possibilità di vedere gli oggetti come solidi e tridimensionali. In presenza di anisome-
tropie o ametropie elevate l’applicazione di lenti a contatto può risultare l’unico ausi-
lio utile per garantire lo sviluppo binoculare senza creare confusione ed aniseconia.
Nei casi di differenze notevoli nella correzione tra i due occhi il recupero della parità
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 332

visiva, quando la anisometropia è refrattiva, può brillantemente attuarsi con lenti a


contatto. Esse sono in grado di minimizzare le differenze d’ingrandimento retinico
che possono, in questo tipo di circostanze, attuarsi con lenti oftalmiche. Ciò come
abbiamo descritto anche altrove non si attua invece se l’ametropia è di tipo assile. In
questi casi infatti è utile ricordare che secondo la regola di Knapp se il centro ottico
della lente a tempiale viene posto a livello del fuoco principale anteriore dell’oc-
chio, che nelle ametropie assiali si trova a 15 mm dall’apice corneale, le dimensioni
dell’immagine a fuoco sono uguali a quelle dell’immagine che si forma nell’occhio
emmetrope, non generando pertanto aniseiconia.
Correzioni inadeguate o non correzioni favorirebbero deprivazioni sensoriali e cre-
erebbero uno sviluppo dell’ambliopia. In casi di elevato astigmatismo, le possibilità
di compensazione sono efficaci sia con lenti a contatto rigide gas-permeabili sia con
lenti a contatto morbide: queste ultime consentono, al contrario di quanto si crede
comunemente, correzioni fino a 10 D di cilindro. Ovviamente, quando si parla di com-
pensazione ottica di cilindri così importanti non si parla più di lenti a contatto a ri-
cambio frequente (L.A.C. disposables) ma di prodotti che vanno prescritti su misura
in base alle caratteristiche anatomico funzionali del piccolo paziente. Le lenti a con-
tatto aiutano molto anche nei casi di aniridia congenita, albinismo, coloboma irideo:
il recupero visivo funzionale può avvenire con grande efficacia con lenti a contatto
morbide, poiché estremamente confortevoli. Nel recupero funzionale da ambliopia è
possibile produrre annebbiamento con una lente a contatto morbida di potenza diot-
trica molto elevata, stimolando di conseguenza l’attività dell’occhio pigro. Tale tecni-
ca viene riservata a quei casi dove la compliance risulta deludente o sia impossibile
ottenerla per impossibilità fisica o psicologica del piccolo paziente. Laddove non sia
possibile gestire la riabilitazione dell’occhio pigro con l’occlusione mediante bendi-
ne o con i filtri di Bangerter, l’ambliopia presente può essere gestita con una L.A.C
morbida penalizzante od occlusiva esattamente come si fa con l’occlusione classica.
Nello strabismo non esistono lenti a contatto specifiche ma nel caso questo disturbo
sia collegato ad un difetto refrattivo che influenzi la motilità oculare si può ricorrere
all’uso delle lenti a contatto. Ogni qualvolta la correzione a tempiale, specie nelle
elevate ametropie, influenzi in maniera negativa la posizione dei bulbi oculari per
i noti effetti prismatici delle lenti è consigliabile ricorrere all’utilizzo delle lenti a
contatto. Queste ultime infatti non esercitano l’effetto prismatico tipico delle lenti
tradizionali, di fatto aiutando a controllare una eventuale aumento della deviazio-
ne oculare presente per effetto della correzione del vizio refrattivo. Per essere più
chiari l’utilizzo delle lenti a contatto nei pazienti strabici è consigliabile nei pazienti
esotropici miopi o che diventano miopi con la crescita, nei pazienti esoforici miopi o
che diventano miopi con la crescita in quanto le L.A.C. consentono di evitare l’effet-
to prismatico convergente delle lenti a tempiale qualora il decentramento temporale
delle stesse non sortisca l’effetto sperato. Lo stesso dicasi nei pazienti exotropici
ipermetropi o nei pazienti exoforici ipermetropi dove le L.A.C. consentono di evitare
o ridurre l’effetto prismatico divergente delle lenti a tempiale qualora il decentra-
mento temporale delle stesse non sortisca l’effetto sperato.
Le lenti a contatto risultano anche particolarmente indicate nel caso di nistagmo sia
oscillatorio che rotatorio. In questi casi si utilizza una lente morbida poiché solida-
le ai movimenti del bulbo. Esse permettono di aumentare sensibilmente il numero
delle foveazioni (il paziente riferisce di vedere “di più”) ed in parallelo consento-
no di migliorare la qualità di ciascuna foveazione (il paziente riferisce di vedere
“meglio”). Anche una lente a foro stenopeico può risultare estremamente efficace
nel migliorare le foveazioni migliorando la capacità di fissazione. Il paziente con
nistagmo che utilizzi le lenti a contatto ha l’opportunità di utilizzare molto di più
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 333

il centro ottico della correzione, con la conseguente diminuzione delle aberrazioni


prismatiche e delle distorsioni che caratterizzano l’immagine percepita. È stato di-
mostrato che esiste una componente propriocettiva (feedback propriocettivi) che
influisce sulla regolamentazione dei movimenti oculari migliorando ulteriormente i
processi di foveazione. In questi casi specifici un ruolo di fondamentale importanza
viene rivestito dalla progettazione personalizzata della LAC, ed in particolare dalla
valutazione della sua dinamica.
Il controllo della progressione miopica è un termine di recente specializzazione che
vede nella lente a contatto un valido partner per contrastarne l’aspetto evolutivo. Il
metodo di contrasto alla progressione della miopia è condotto con lenti a contatto
morbide tradizionali. Esistono molte teorie non ancora certificate da un numero di
studi sufficienti, sull’utilizzo di lenti a contatto multifocali centro-lontano per il con-
trollo della progressione miopica. Lo scopo è di generare una maggior coerenza di
fuoco sulla curvatura retinica contenendone, in questo modo, lo shift ipermetropico
periferico.
Dalla diagnosi patologica o post-chirurgica si passa alla progettazione; questo tipo
di approccio potrebbe essere definito “contattologia specialistica”. Il percorso appli-
cativo prevede il recupero visivo attraverso la regolarizzazione del cammino ottico
secondo il principio della corneo conformità in ottemperanza ad una coerenza di
forma con la topografia corneale, perseguendo il fine di allineare perfettamente una
lente a contatto con la cornea, ossia ottenendo un rispetto morfo-metabolico cornea-
le. La contattologia è una disciplina caratterizzata dalla costante ricerca scientifica
per poter creare sempre una migliore biocompatibilità e miglior comfort. I materiali
impiegati costituiscono l’elemento centrale attorno a cui ruotano gli studi dei ricer-
catori e sono in continua e rapida evoluzione.
In oftalmologia pediatrica la classica patologia dove risulta indispensabile l’utilizzo
delle lenti a contatto è l’afachia chirurgica post intervento di cataratta congenita per
consentire un buon recupero funzionale visivo. Solitamente vengono impiegate lenti
a contatto morbide positive lenticolari a porto esteso o su base giornaliera. Nei casi
ove è necessario un porto esteso della lente a contatto viene utilizzato un polimero in
silicone hydrogel. È anche possibile ripristinare artificialmente la funzionalità acco-
modativa con lenti a contatto multifocali nei casi di afachia da cataratta congenita:
multifocali a visione simultanea o multifocali a traslazione.

22.2 Le multifocali a visione simultanea

Questo tipo di lente a contatto rientra nella categoria delle lenti a contatto morbide
grazie alla garanzia di maggior stabilizzazione. Nell’osservazione distale la porzione
periferica della lente attua la perfetta messa a fuoco a livello retinico. Contempora-
neamente, i raggi luminosi provenienti dall’infinito incidono anche sull’area centra-
le della lente, preposta per una focalità prossimale; in questo caso il fuoco immagine
si forma molto prima della retina ed il segnale dell’immagine è talmente sfuocato,
una volta raggiunta la retina, da essere soppresso a livello cerebrale. Nell’osservazio-
ne prossimale, la porzione centrale della lente che, come abbiamo detto è preposta
a soddisfare la capacità visiva per vicino, focalizza perfettamente sulla retina. Nel
contempo i raggi luminosi incidendo sulla periferia della lente incontrano una fo-
cale di minore entità producendo un’immagine oltre la retina, salvo incontrare uno
sbarramento attuato dal forame pupillare che si chiude grazie alla miosi dovuta al
riflesso accomodativo. (Figura 1, Figura 2, Figura 3)
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 334

Figura 1. Struttura delle lenti a contatto a visione simultanea

Visione per lontano

Figura 2. Lenti a contatto a visione simultanea, visione per lontano

Visione per vicino

Figura 3. Lenti a contatto a visione simultanea, visione per vicino

22.3 Multifocali a traslazione

Nella visione alternata, il centro della lente è sempre preposto per la visione al pun-
to remoto, in sguardo primario, mentre il passaggio all’area per vicino, ubicata nella
periferia della lente, avviene in funzione della traslazione dal basso verso l’alto della
stessa conseguentemente alla rotazione del bulbo verso il basso, nell’osservazione al
punto prossimo. (Figura 4, Figura 5)
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 335

Visione per lontano

Figura 4. Lenti a contatto a traslazione. Visione per lontano

Visione per vicino

Figura 5. Lenti a contatto a traslazione. Visione per vicino

22.4 I materiali delle lenti a contatto

In generale, i materiali adottati in contattologia possono essere suddivisi in duri o


rigidi, morbidi o flessibili ed ibridi.
Nella contattologia pediatrica i materiali morbidi sono i più indicati e sono distinti
in hydrogel (a bassa o media idrofilia) elastomeri o biopolimeri, quali il silicone
hydrogel, il glicerolo metalcrilato e la fosforicolina.
All’hydrogel vengono spesso aggiunti agenti umettanti con lo scopo di rendere le
lenti a contatto biomimetiche in modo che mantengano l’idratazione corneale con
l’ammiccamento. Purtroppo però tali lenti a contatto richiamano molta acqua e non
controllano il rilascio in ambiente oculare in maniera graduata.
Il silicone hydrogel ha permesso alle lenti a contatto non solo la maggior confortevolez-
za, ma anche la capacità di lasciar passare elevate quantità di ossigeno. Questo con-
tribuisce a ridurre i segni indotti della carenza di ossigeno permettendo un elevato
numero di ore di porto. Materiale nato nel 1999, aumenta il DK ossia la permeabilità
all’ossigeno, riduce l’idrofobicità del solo silicone, permettendo un adeguato passag-
gio di fluidi e possiede una buona resistenza alla disidratazione. Tali lenti a contatto
attenuano sintomi di secchezza ma aumentano il rischio di erosioni epiteliali arcuate
superiori per elasticità del materiale, ora in parte diminuite con nuovi materiali. Da
ultimo va ricordato che il silicone hydrogel aumenta i depositi lipidi per idrofobicità,
per cui è necessaria un’attenta pulizia per la quale viene impiegato il perossido di
idrogeno. Esistono tre grandi categorie di lenti a contatto in silicone hydrogel.
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 336

Il silicone hydrogel di prima generazione: tali lenti a contatto vengono sottoposte ad un


trattamento superficiale al plasma. Tale materiale migliora la bagnabilità della lente
e la resistenza alla formazione di depositi ed una minor tendenza alla disidratazione.
Questa tipologia di lenti a contatto viene percepita maggiormente a causa della ridot-
ta elasticità creando un maggior disconfort. Le lenti a contatto con trattamento al pla-
sma inoltre creano tendenzialmente un accumulo di depositi nell’arco della giornata.
Il silicone hydrogel di seconda generazione: le lenti a contatto in questo materiale na-
scono per migliorare la permeabilità all’ossigeno e garantire un miglior confort. Que-
ste lenti presentano incorporato all’interno un agente a permeabilità permanente
(tecnologia Hydraclear) per migliorarne la flessibilità ed il potere lubrificante senza
la necessità di un trattamento di superficie.
Il silicone hydrogel di terza generazione: queste lenti a contatto non presentano né
trattamenti di superficie, né agenti umettanti. Sono materiali naturalmente bagna-
bili capaci di mantenere la componente acquosa della lente a contatto (tecnologia
Aquaform). Il silicone hydrogel lega l’ossigeno presente nelle molecole d’acqua, ed
è caratterizzato da catene in silicone più lunghe, con minor impiego di silicone, au-
mentando con ciò la trasmissibilità all’ossigeno e rendendo la lente più morbida e
flessibile. Tali lenti a contatto si caratterizzano per una migliore resistenza alla for-
mazione di depositi ed alla disidratazione.
Il silicone viene utilizzato soltanto in situazioni particolari, quali l’afachia chirurgi-
ca specie nella primissima infanzia. La lente a contatto più utilizzata nei neonati
afachici è la lente Silsoft. È una lente estremamente morbida, ottima per l’uso pro-
lungato, fatta al 100% di polimeri di silicone. Il suo vantaggio risiede soprattutto
nell’elevata trasmissibilità di ossigeno, ma l’elevata aderenza all’epitelio corneale
impedisce al film lacrimale di sostituire rapidamente e efficacemente quello evapo-
rato attraverso la lente, penetrando soltanto attraverso i bordi della lente a contatto
stessa. Tendono a formare depositi lipidici facilmente e possono essere le uniche
sicure a porto prolungato.
Il glicerolo metacrilato ha la caratteristica di mantenere un buon bilanciamento idri-
co, si disidrata lentamente nell’utilizzo e si reidrata velocemente durante l’ammic-
camento.
La fosforicolina è una sostanza biomimetica (principale fosfolipide di membrana de-
gli eritrociti), che rientra nei materiali con “inerzia chimica” simili alla superficie
oculare per poter ostacolare la formazione di depositi e consentire un’idratazione
costante. Venne incorporata nell’hydrogel nel 1995. Consente un’idrofilia costante
ed elevata, una maggiore resistenza alla disidratazione, una minor sensibilità alle
variazioni di temperatura, e rende le lenti a contatto più resistenti alla formazione
del biofilm batterico.
Le proprietà dei materiali utilizzati in contattologia sono fondamentali per una cor-
retta applicazione che rispetti la corneo conformità. Le caratteristiche morfologiche
e strutturali delle lenti a contatto infatti devono adattarsi alle caratteristiche dina-
miche e fisiologiche dell’occhio.
La permeabilità all’ossigeno o DK risulta essere fondamentale per una buona tollera-
bilità della lente a contatto, poiché la presenza di ossigeno è un fattore indispensabi-
le per il metabolismo corneale. La capacità di trasmettere ossigeno o trasmissibilità
viene indicata come valore DK/t, dove D corrisponde al coefficiente di diffusione del
gas attraverso il materiale, K è la costante che indica la quantità di ossigeno presen-
te nel materiale stesso, e t indica lo spessore della lente a contatto.
La bagnabilità è la capacità di un liquido di ricoprire una superficie solida, è fonda-
mentale per il mantenimento del film lacrimale, condizione necessaria per la com-
patibilità tra occhio e lente.
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 337

Infine la biocompatibilità è la mancanza assoluta di reazioni avverse da parte dell’or-


ganismo verso un materiale.
Le lenti a contatto gas permeabili, note anche come lenti semirigide, hanno una
durata maggiore rispetto a quelle morbide, ma rivestono un ruolo pressocchè nullo
nell’applicazione contattologica pediatrica per motivi sia di disconfort oculare, spe-
cie nelle prime applicazioni, sia di maneggevolezza, pur garantendo all’occhio una
costante ossigenazione. Grazie a questa caratteristica possono essere indossate per
un numero di ore più elevato rispetto alle lenti morbide. I continui sviluppi della con-
tattologia con lenti a contatto semirigide o RGP (Rigide Gas Permeabili), orientati
verso nuovi polimeri, geometrie ed innovativi trattamenti di superficie, consentono
di esaminare interessanti opportunità per incrementare le performance di queste
lenti a contatto. I principali materiali sono il fluoro-silicone acrilato ad elevatissima
permeabilità (DK 100, Boston XO), il fluoro-silicone acrilato con matrice polimerica
Aercor (DK 18, Boston ES), il fluoro-silicone acrilato ad elevata permeabilità (DK 61,
Paragon-fluoroperm 92), ed il fluoro-silicone acrilato a media permeabilità (DK 65,
Contamac optimum comfort).
Concludendo possiamo affermare che la prescrizione di lenti a contatto in età pe-
diatrica dovrebbe essere utilizzata più diffusamente. Come abbiamo visto esistono
situazioni cliniche fin dalla più tenera età che necessitano dell’utilizzo delle lenti a
contatto per consentire un corretto sviluppo del sistema visivo del bambino. Ma a
partire dalla pre-adolescenza l’utilizzo delle lenti a contatto non deve spaventare,
anzi vi sono risvolti positivi nel miglioramento della qualità della vita, oltre ad otte-
nere una maggiore libertà nelle attività sportive ed outdoor. Le lenti a contatto sono
importanti anche sotto il profilo psicologico soprattutto nelle delicate fasi adolescen-
ziali dove l’aspetto almeno estetico di un occhiale può generare un “handicap psico-
logico”. In un bambino l’adattamento è più rapido di un adulto nei confronti sia di un
disconfort fisico sia visivo, apprende molto velocemente la modalità di inserimento
e rimozione e le istruzioni impartite. La letteratura scientifica ha dimostrato infatti
che il tempo di apprendimento nell’inserimento / rimozione tra bambini e “teen-
agers”, questi ultimi considerati soggetti più consapevoli, sono pressoché similari.

22.5 L’occhio ed i parametri pediatrici

Fondamentale per poter applicare in maniera corretta una lente a contatto in età
pediatrica è conoscere le misure delle varie parti del bulbo oculare per poi poter
valutare i parametri delle lenti corneali idonee. In età pediatrica la parte di bulbo
oculare esposta rispetto a quella dell’adulto è molto minore poiché la rima palpe-
brale risulta più piccola consentendo una minor esposizione corneale che si riduce
ulteriormente in presenza di epicanto marcato o inverso. Tale morfologia della zona
palpebrale aumenta le difficoltà di applicazione delle lenti a contatto per un minor
spazio disponibile alle manovre di inserzione, in considerazione anche del fatto che
le dimensioni del bulbo raggiungono proporzioni molto simili a quelle dell’adulto
già tra il secondo ed il terzo anno di vita, creando la necessità di applicare lenti a
contatto con parametri simili a quelli dell’adulto.
L’incremento della lunghezza assiale del bulbo oculare avviene in modo molto rapi-
do nei primi mesi di vita e prosegue abbastanza velocemente fino ai 2 anni di età.
Segue una fase di crescita costante che mano a mano rallenta fino a raggiungere una
lunghezza assiale inferiore di circa 1 mm rispetto a quella dell’adulto ai 6 anni di
vita. Anche la curvatura corneale ha un incremento costante nell’infanzia fino a rag-
giungere dimensioni simili a quelle dell’adulto verso i 3 anni (Tabella 1, Tabella 2).
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 338

Il diametro corneale, parametro utile per l’applicazione delle lenti a contatto parte
da una dimensione media di circa 9 mm. alla nascita per poi raggiungere 10,2 mm.
all’anno, 11,5 mm. ai due anni e 12 mm. ai tre anni.

ETÀ VALORI CHERATOMETRICI


Pretermine da 51,75 D a 63,30 D
Nascita a termine da 47,59 D a 49,01 D
1 mese 46,98 D
Da 4 a 6 mesi da 44,00 D a 46,30 D
1 anno 45,56 D
Da 2 a quattro anni da 42,69 a 43,69 D
Tabella 1. Valori oftalmometrici nei primi anni di vita

Media dei valori di curvatura corneale in età pediatrica


ETA’ IN MESI MEDIA DEI VALORI OFTALMOMETRICI IN MM
1 6,75
3 7,00
6 7,55
12 7,62
24 7,67
36 7,71
48 7,74
Adulto 7,80
Tabella 2. Valori di curvatura corneale nei primi anni in confronto a quella in età adulta
23. La compilazione della ricetta 339

Capitolo 23 – La compilazione della ricetta


M. Bifani

Al termine di tutto il percorso si giunge alla fase della compilazione della ricetta,
in cui tutto ciò che si è fatto, annotato e testato, viene messo nero su bianco, trasfor-
mando l’incontro con il paziente in un documento ufficiale.
La chiarezza e la fluidità con cui tale documento sarà redatto costituiranno la linea
guida su cui l’ottico potrà costruire la lente perfetta per il paziente, rappresentando
oltretutto, per noi stessi al prossimo controllo, la traccia di ciò che si è evinto alla
visita precedente.
Nella redazione della ricetta spesso ci avvaliamo di ricettari prestampati in formato
A5, minime dimensioni quindi e scarsissima versatilità della registrazione di dati e
test effettuati.
Dal punto di vista grafico la ricetta dovrà riportare in alto i riferimenti del medico
chirurgo oculista, la data della visita, il nome e cognome del paziente nonché la
sua età. Nella zona centrale sarà presente una tabella divisa in due settori, una per
l’occhio destro ed una per l’occhio sinistro con annessa scala graduata, da 0° a 180°,
relativa all’asse del cilindro. In ogni settore la tabella sarà costituita da tre colonne,
relative alla lente sferica, alla lente cilindrica ed all’asse del cilindro; nonché da
quattro righe relative alla specifica dell’utilizzo per lontano, a permanenza, per vicino

Riferimenti del medico chirurgo oculista


23. La compilazione della ricetta 340

e del prisma, quest’ultima non sempre presente. La riga per lontano farà riferimen-
to all’uso di lenti da utilizzare dai 3m fino ai 60 m e dovrà essere contestualmente
associata alla registrazione della lente per vicino la quale garantirà una visione dai
30 cm ai 60 cm, riportandone il valore nella riga per vicino. Nel caso in cui non fosse
presente presbiopia si provvederà a registrare i dati nella sola riga a permanenza
relativa ad un utilizzo omnicomprensivo.
Operativamente si riporteranno i valori diottrici della migliore correzione, ottenuta
con i diversi test refrattivi, nei singoli campi di riferimento quali sfera, cilindro e asse
del cilindro.
È molto importante indicare chiaramente, ed in modo leggibile, il segno +/- ante-
posto al valore diottrico della lente sferica e/o cilindrica così come va posta molta
attenzione alla sezione dell’asse della lente cilindrica.
Tale valore viene espresso in gradi e deve essere contestualmente confermato attra-
verso una linea/freccia disegnata sulla scala graduata. Il sistema di posizionamento
dell’asse del cilindro viene oggi universalmente definito secondo il sistema TABO
(Technischer Ausschuss fur Brillenoptik), che consiste nell’indicare l’angolo in gradi
che l’asse della lente cilindrica forma con il meridiano orizzontale nella metà supe-
riore di una circonferenza ideale; questo angolo va da 0° a 180°, collocando, quindi, il
valore 0° sul meridiano orizzontale in corrispondenza dell’orecchio sinistro.
Praticamente lo 0° sarà posizionato alla destra dell’esaminatore e la registrazione
dell’angolo avverrà in senso antiorario.
L’universalità del sistema TABO deriva dal fato che tutte le apparecchiature diagno-
stiche atte a rilevare l’astigmatismo (autorefrattometri, autocheratometri, topografi
ecc.) utilizzano tale sistema rendendo merito della inutilizzabilità del vecchio siste-
ma di rilevazione, in uso peraltro solo in Italia, quale il sistema internazionale.
Andranno inoltre registrate tutte le informazioni utili all’ottico al fine di confeziona-
re la lente più adatta al paziente indicandone la tipologia.
Oltre a ciò dobbiamo ricordare che la nostra ricetta dovrà illustrare all’ottico quale
sia non solo la lente da realizzare ma anche l’occhiale. Infatti se un paziente dovesse
presentare asimmetrie facciali o atteggiamenti viziati del capo, sarà opportuno indi-
care che la montatura dovrà essere dotata di maggior duttilità, tale da poter essere
meglio modellata su quell’habitus che abbiamo identificato.
Altro valore importante da verificare e registrare è la distanza interpupillare, pa-
rametro fondamentale, soprattutto nel caso in cui si voglia prevedere l’acquisto di
lenti multifocali o progressive. Questo parametro, reperibile con interpulillometro o
semplicemente con un righello durante il test di Hirschberg, va sempre calcolato e
registrato, nonostante spesso sia l’ottico a provvedere nuovamente al rilevamento di
questo importante dato.
In ultimo, ma non per questo banale, la storia clinica del paziente, la sua anamnesi,
possono dire tanto sul paziente e ulteriormente confermare quelle che sono state le
scelte ottiche da noi disposte.
In riferimento a quelle che sono le disposizioni normative, c’è da sottolineare che
una ricetta medica è un atto pubblico redatto da un esercente servizio di pubblica
necessità. Pertanto anche la semplice prescrizione lenti va datata, firmata e timbra-
ta, in modo da rendere identificabile il medico e salvaguardare lui stesso da proble-
mi che possano in qualsiasi momento occorrere.
Sarebbe opportuno però che ciascun professionista provvedesse alla redazione di
una propria matrice di ricetta, dando il giusto spazio ad ogni esame oggettivo e sog-
gettivo che egli, nella sua pratica ed esperienza clinica, ritenga opportuno eseguire
routinariamente su ogni paziente.
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