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288C
Fabiano Gruppo Editoriale
Copyright 2017
FGE srl – Fabiano Gruppo Editoriale
Gli Autori e l’Editore declinano ogni responsabilità per eventuali errori contenuti nel testo.
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione totale o parziale
ISBN 978-88-97929-70-3
Luigi Mele
Autori
Luigi Mele
Medico Chirurgo Oculista
Andrea Piantanida
Medico Chirurgo Oculista
Mario Bifani
Medico Chirurgo Oculista
Contributors
Introduzione
Luigi Mele
Andrea Piantanida
Mario Bifani
VI
Indice
PARTE PRIMA
CAPITOLO 1 – Le radiazioni elettromagnetiche (L. Mele, C. Caruso) pag. 1
Le caratteristiche fisiche
La polarizzazione
Lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche
La radiazione del visibile
La spettrofotometria
L’astigmatismo oculare
Classificazione dell’astigmatismo
Sintomi dell’astigmatismo
Cheratocono e microambiente
CAPITOLO 7 – Cassetta lenti di prova e forottero (M. Bifani, D. Capobianco) pag. 121
Descrizione cassetta di lenti
Il posizionamento del portalenti
La centratura delle lenti di prova
Forottero
Lenti accessorie del forottero
Vantaggi nell’uso del forottero
Svantaggi nell’uso del forottero
Oftalmometria
CAPITOLO 8 – Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo (M. Bifani, B. Kusa) pag. 133
Anamnesi
Valutazione dell’acuità visiva
Foro stenopeico
Punto prossimo di accomodazione
Occhio dominante
Test del filtro rosso (dominanza sensoriale)
Test del foro (dominanza motoria)
La schiascopia o retinoscopia
Esecuzione dell’esame
Schiascopia statica: i movimenti
Ricerca della lente corretrice
Schema riassuntivo
Ametropia astigmatica
Fonti d’errore nella schiascopia
Autorefrattometro
CAPITOLO 13 – Deviazioni oculari latenti: le forie (L. Mele, C. Bianchi) pag. 197
Il sistema motorio e le sue anomalie
Gli squilibri del sistema motorio: forie e tropie
Classificazione degli squilibri muscolari latenti
Esame dello stato eteroforico
Tecniche soggettive per l’evidenziazione delle forie
Test di Schober
Test di Hering
Tecnica con cilindro di Maddox
Metodo di Von Graefe
Tecniche oggettive per l’evidenziazione delle forie: cover test
Cover/Uncover Test
Cover Test Alternato
Confronto tra Cover/Uncover Test e Cover Test Alternato
IX
PARTE SECONDA
CAPITOLO 14 – Acutezza visiva in età pediatrica (A. Piantanida) pag. 209
Introduzione
Definizione e caratteristiche
Metodi oggettivi di misurazione dell’acutezza visiva
Le scale di misura: ottotipo decimale ed ottotipo logaritmico
Soglie ed indovinamento
Metodi di utilizzo degli ottotipi a progressione logaritmica
Le analisi statistiche della misura dell’ acutezza visiva
CAPITOLO 16 – Il Riflesso rosso del fundus e la refrazione in età pediatrica pag. 233
(A. Piantanida, R. Nobili)
Quadri clinici del riflesso rosso
PARTE TERZA
CAPITOLO 19 – La montatura nell’adulto (L. Mele, M. Casini) pag. 259
Definizioni
Parti fondamentali della montatura
Sistemi di misura
Sistemi di riferimento
Angolo pantoscopico
Angolo di avvolgimento
Montature in materiali di sintesi
Materiali di Sintesi
Metodi di costruzione di una montatura in materiali di sintesi
Montature in metallo
Classificazioni
X
Alcuni fenomeni fisici possono essere spiegati assumendo che l’energia luminosa sia
costituita da onde, mentre altri fenomeni vengono spiegati accettando che, la stessa,
sia costituita da particelle discrete (fotoni), ciascuna dotata di una energia E legata
alla frequenza della radiazione dalla relazione di Einstein del 1905.
Oggi con il termine radiazione s’intende ogni forma di energia che si propaga me-
diante onde e particelle in moto.
La materia è formata da atomi costituiti da un nucleo, dotato di carica elettrica po-
sitiva, e da elettroni dotati di carica elettrica negativa.
Un elettrone immobile genera, a causa della sua carica, una forza elettrica nello spa-
zio circostante, il campo elettrico. Questo campo elettrico, generato dall’elettrone,
viene perturbato dal cambiamento di distanza, dall’elettrone stesso, durante la sua
oscillazione attorno al nucleo.
La variazione del campo elettrico genera un campo magnetico.
La radiazione elettromagnetica, quindi, è un fenomeno ondulatorio dovuto alla pro-
pagazione di perturbazioni periodiche di un campo elettrico e di un campo magneti-
co, oscillanti in piani tra di loro ortogonali.
Essa viaggia nel vuoto alla velocità di 2.99x108 m/s, mentre nell’acqua (mari, oce-
ani...) si riduce a circa 2.2x108 m/s, e può essere descritta matematicamente dalle
equazioni di Maxwell, in base alla quale: “…ogni qual volta si verifica una variazione
di campo elettrico si genera un campo magnetico; viceversa, da un campo magnetico
variabile nel tempo si genera un campo elettrico. Una perturbazione elettromagnetica,
una volta che si è generata, si propaga nello spazio anche quando viene a cessare la causa
che l’ha originata…”.
I parametri che caratterizzano le radiazioni elettromagnetiche sono:
– Lunghezza d’onda (λ), ovvero lo spazio percorso da un’onda per compiere un’oscil-
lazione completa. Essa viene definita anche come distanza tra due creste o due
ventri vicini;
– Velocità di propagazione nel vuoto (c), ovvero la distanza percorsa da un’oscilla-
zione nell’unità di tempo e che, nel caso delle radiazioni elettromagnetiche, è la
velocità della luce che nel vuoto raggiunge il suo valore massimo e viene indicata
con co = 3x108 m/s; negli altri mezzi invece tale velocità è pari a co/n, dove n è una
costante tipica del mezzo nel quale si propaga l’onda ed è detta indice di refrazio-
ne assoluto del mezzo. Non esistono mezzi nei quali n sia minore di uno, cioè la luce
nel vuoto si propaga con la massima velocità possibile;
– Frequenza (ν), ovvero il numero di oscillazioni nell’unità di tempo. Essa è espressa
in Hertz (Hz, dove 1 Hz = 1s-1);
– Periodo (T), ovvero l’intervallo di tempo che intercorre tra due passaggi consecuti-
vi della cresta in uno stesso punto.
Tutti questi elementi caratteristici delle onde elettromagnetiche sono legati tra loro
dalle seguenti relazioni:
1. Le radiazioni elettromagnetiche 2
1.3 La polarizzazione
Il campo elettromagnetico, la cui variazione nel tempo e nello spazio provoca le onde
elettromagnetiche, è un vettore caratterizzato da una vibrazione, cioè da un modulo
di direzione e verso. La direzione del vettore campo elettrico è denominata “direzio-
ne di polarizzazione”.
Le onde elettromagnetiche sono trasversali, il che sta ad indicare che il vettore cam-
po elettrico giace sempre in un piano perpendicolare alla direzione di propagazione,
detto piano di vibrazione.
Quando il campo elettrico-magnetico oscilla su una linea retta si parlerà di polarizza-
zione lineare, ma se la direzione di polarizzazione cambia nel tempo, il vettore campo
elettrico potrà vibrare lungo una circonferenza, polarizzazione circolare, oppure su
una ellissi, polarizzazione ellittica. In natura è presente la radiazione non polariz-
zata, cioè quella radiazione la cui polarizzazione varia continuamente in maniera
casuale. Per ottenere una radiazione polarizzata si usano i polarizzatori, dispositivi
che, investiti da una radiazione priva di una ben precisa direzione di polarizzazione
danno luogo a luce completamente o parzialmente polarizzata.
Un esempio tipico di polarizzatore della luce visibile è il materiale Polaroid, che
consiste di un sottile strato di piccoli cristalli di herapatite (un sale di iodio e chini-
no) tutti allineati con i loro assi paralleli. Questi cristalli assorbono la luce quando
le oscillazioni sono in una direzione, mentre non l’assorbono quando le oscillazioni
sono in un’altra direzione. Gli occhiali muniti di lenti Polaroid sono quindi partico-
larmente adatti a ridurre la luce non polarizzata, quale è quella che si ottiene per
riflessione su superfici come acqua, asfalto e neve.
Le radioonde, onde invisibili del tipo generato e rivelato per la prima volta da Hertz,
hanno frequenza compresa tra 103 Hertz e circa 109 Hertz. I segnali televisivi, le
onde corte, le onde radar, i segnali radio AM (amplitude modulation, modulazione di
ampiezza) e FM (frequency modulation, modulazione di frequenza) sono particolari
tipi di radioonde. Vengono generati da circuiti elettronici che fanno oscillare cariche
elettriche le quali, quando vengono accelerate, emettono energia.
Le onde radio sono impiegate in radiotelegrafia, nelle trasmissioni radiofoniche, te-
lefoniche, televisive, radar, nei sistemi di navigazione e nelle comunicazioni spaziali.
Le microonde hanno frequenze comprese tra 109Hz e alcune unità di 1011Hz e lun-
ghezza d’onda compresa tra 0,3x109 nm e 0,3x106 nm e sono generate da dispositivi
meccanici (cavità risonanti, guide d’onda). Le microonde attraversano l’atmosfera
terrestre senza subire interferenze, come accade invece per le onde radio, e possono
penetrare attraverso nubi e foschia, a differenza della radiazione visibile e infrarossa
(che hanno lunghezza d’onda inferiore).
Sono usate nella ricerca (studi atomici e molecolari) e in telecomunicazioni (radar e
GPS). Vengono inoltre facilmente assorbite dalle molecole d’acqua contenute negli
alimenti, facendoli riscaldare rapidamente (forno a microonde).
La radiazione infrarossa (IR) occupa l’intervallo di lunghezze d’onda (frequenza)
compreso tra 1mm e 750 nm (300 GHz e 400 THz). La banda dell’infrarosso è comu-
nemente divisa in tre parti: FAR, MID, NEAR. La regione FAR è vicina alla banda
delle microonde, la NEAR è vicina alla banda della luce visibile.
Circa il 50% della radiazione solare è emessa nella regione infrarossa (NEAR, vicina
al visibile), il resto è emesso nel visibile e, in piccola parte, nell’ultravioletto. La ter-
ra, a una temperatura media di circa 15°C, emette nell’infrarosso.
La radiazione infrarossa viene spontaneamente emessa dai corpi caldi, in cui gli
atomi vengono eccitati tramite gli urti causati dall’agitazione termica. Se assorbiti
da una molecola, i quanti hanno un’energia sufficiente a provocare un moto vibrazio-
nale, che si traduce in un aumento di temperatura. L’emissione infrarossa è utilizzata
in medicina per terapie fisiche e, nella ricerca, per lo studio dei livelli energetici
vibrazionali.
Molti animali, come i serpenti, sono sensibili all’infrarosso. Il vetro è opaco all’infra-
1. Le radiazioni elettromagnetiche 4
rosso, il che spiega il cosiddetto effetto serra. Infatti la luce che attraversa il vetro di
una serra viene assorbita dalle piante e riemessa sotto forma di infrarosso, il quale
rimane intrappolato provocando l’aumento di temperatura all’interno della serra.
La radiazione visibile (o semplicemente luce) (Figura 2) ha frequenza compresa tra
3,8x1014 Hz e 7,9x1014 e lunghezza d’onda compresa tra 380 nm e 780 nm. Il campo
della luce del visibile è molto ristretto rispetto all’intero spettro delle radiazioni, ma
è estremamente importante per gli organismi viventi poiché l’occhio della maggior
parte di essi è sensibile a queste radiazioni. La luce viene emessa da atomi e mole-
cole quando i relativi elettroni compiono transizioni da uno stato metastabile o in-
stabile alla stato fondamentale, o da cariche microscopiche in movimento per agita-
zione termica a temperature molto elevate. In particolare il Sole (la cui temperatura
superficiale è prossima a 6000 gradi) emette uno spettro di radiazioni il cui massimo
è centrato intorno ad una lunghezza d’onda di circa 5000 U.A. (1 U.A.=10-7mm) e si
estende dall’ultravioletto al vicino infrarosso.
I raggi ultravioletti (UV) (Figura 3) occupano l’intervallo di lunghezza d’onda com-
preso tra la luce visibile e i raggi X, ossia tra: 400 nm e 10 nm (750 THz e 30000 THz)
ed energie tra 3 eV e 124 eV. In fisica la radiazione ultravioletta è divisa in quattro
regioni: Near (400-300 nm), Middle (300-200 nm), Far (200-100 nm), Extreme (sotto
i 100 nm).
Quando si considera l’impatto dei raggi UV sull’ambiente e sulla salute umana, sono
evidenziate tre regioni dello spettro UV: UV-A (400-315 nm), UV-B (315-280 nm) e
UV-C (280-100 nm). La sorgente naturale più importante di radiazione UV è il sole.
La radiazione UV che raggiun-
ge la superfice terrestre è circa
il 9% (circa 120 W/m2) della ra-
diazione solare al top dell’atmo-
sfera. L’atmosfera terrestre, tra-
mite processi di assorbimento e
diffusione, agisce come un filtro
rispetto alle radiazioni prove-
nienti dal sole.
In particolare:
– la radiazione UV- C (la più dan-
nosa per la vita a causa del suo
alto contenuto energetico) vie- Figura 2. La radiazione del visibile
ne completamente assorbita
dall’ozono e dall’ossigeno degli
strati più alti dell’atmosfera;
– la radiazione UV-B viene
anch’essa in buona parte as-
sorbita, ma una non trascura-
bile percentuale (circa il 15-
20%) riesce a raggiungere la
superficie terrestre; è respon-
sabile di bruciature solari e di
cancro alla pelle.
– la radiazione UVA riesce in
buona parte (circa il 55-60%)
a raggiungere la superficie
terrestre. Figura 3. Lo spettro dell’ultravioletto
1. Le radiazioni elettromagnetiche 5
Figura 4. Lo spettro della luce visibile è solo una piccola porzione dell’intero spettro elettromagnetico
1. Le radiazioni elettromagnetiche 6
a cui l’occhio umano è sensibile e che sono alla base della percezione dei colori.
Le differenze individuali possono far variare leggermente l’ampiezza dello spettro
visibile. In linea di massima, comunque, esso si situa tra i 380 e i 780 nanometri:
alla lunghezza d’onda minore corrisponde la gamma cromatica del blu-violetto, alla
lunghezza d’onda maggiore corrisponde invece la gamma dei rossi.
Il termine luce (dal latino lux) si riferisce, quindi, alla porzione dello spettro elettro-
magnetico visibile dall’occhio umano, ed è approssimativamente compresa tra 400
e 700 nanometri di lunghezza d’onda. Questo intervallo coincide con il centro della
regione spettrale della luce emessa dal sole che riesce ad arrivare al suolo attraverso
l’atmosfera. I limiti dello spettro visibile all’occhio umano non sono uguali per tutte
le persone, ma variano soggettivamente e possono raggiungere i 720 nanometri, avvi-
cinandosi agli infrarossi, e i 380 nanometri avvicinandosi agli ultravioletti.
La presenza contemporanea di tutte le lunghezze d’onda visibili, in quantità propor-
zionali a quelle della luce solare, forma la luce bianca. La luce, come tutte le onde
elettromagnetiche, interagisce con la materia.
I fenomeni che più comunemente influenzano o impediscono la trasmissione della
luce attraverso la materia sono: l’assorbimento, la diffusione (scattering), la riflessio-
ne speculare o diffusa, la refrazione e la diffrazione. La riflessione diffusa da parte
delle superfici, da sola o combinata con l’assorbimento, è il principale meccanismo
attraverso il quale gli oggetti si rivelano ai nostri occhi, mentre la diffusione da parte
dell’atmosfera è responsabile della luminosità del cielo.
La refrazione (Figura 5) è la deviazione subita da un’onda che ha luogo quando que-
sta passa da un mezzo ad un altro
nel quale la sua velocità di propaga-
zione cambia. Quando l’onda passa
in un materiale che ne aumenta la
velocità la nuova direzione forma
un angolo meno ampio mentre se
passa in un materiale che ne ridu-
ce la velocità la direzione forma un
angolo più ampio. È responsabile
delle distorsioni ottiche.
La riflessione è il fenomeno per cui
un’onda cambia di direzione a causa
di un impatto con un materiale riflet-
Figura 5. La refrazione
tente. Se il materiale ha una super-
ficie levigata e regolare si parlerà di
riflessione lineare, il cd. effetto spec-
chio. Mentre quando la superficie è
irregolare si parlerà di riflessione
diffusa responsabile dello scattering
della luce, il cd. abbagliamento.
La dispersione è la separazione di
un’onda in componenti spettrali con
diverse lunghezze d’onda, a causa
della interazione con il mezzo attra-
versato, il cd. effetto arcobaleno.
In seguito ai suddetti processi fisici,
la luce monocromatica (bianca) che
attraversa un prisma di cristallo Figura 6. Bande spettrali della radiazione visibile
1. Le radiazioni elettromagnetiche 7
trasparente (come dimostrato da Newton nel 1966) viene suddivisa in bande colo-
rimetriche (bande spettrali) nelle quali viene, classicamente suddiviso, lo spettro
della luce visibile (Figura 6).
Una cosa simile accade nell’arcobaleno: la luce che passa attraverso le piccole gocce
d’acqua, sospese nell’aria dopo una pioggia, si scompone nei sette colori dello spet-
tro (con tutte le relative gradazioni intermedie).
1.6 La spettrofotometria
La spettrofotometria (o spet-
trometria) UV-visibile si basa
sull’assorbimento di radiazioni
elettromagnetiche dell’interval-
lo del visibile e del vicino ultra-
violetto da parte di atomi o di
molecole. Questa tecnica trova
applicazione nella determinazio-
ne qualitativa e quantitativa di
numerose sostanze sia organiche
che inorganiche nel campo am-
bientale, farmaceutico e alimen-
tare. Quantificare l’interazione Figura 7. Spettrometria vetro minerale
della radiazione visibile con un
campione chimico, di varia na-
tura, permette ad esempio la
determinazione della concentra-
zione di un campione incognito
o di seguire l’andamento di una
reazione in funzione del tempo.
Le tecniche spettroscopiche sono
basate sullo scambio di energia
che si verifica fra l’energia ra-
diante e la materia.
Il principio si basa sulla registra-
zione dell’intensità della radia-
zione trasmessa da un campione Figura 8. Spettrometria lenti in carbonio CR39
(IT) in funzione dell’intensità del-
la radiazione incidente (I0) al variare della lunghezza d’onda incidente(λ).
Il rapporto tra la radiazione incidente sul campione e quella trasmessa determina la
trasmittanza (T) del campione stesso (T=IT/I0).
La trasmittanza viene visualizzata attraverso un grafico dove sull’asse delle ascisse è ri-
portata la λ e su quello delle ordinate la percentuale di energia, relativa alla λ, trasmessa.
In particolare, la spettrofotometria di assorbimento è interessata ai fenomeni di assor-
bimento delle radiazioni luminose della regione dello spettro elettromagnetico appar-
tenenti al campo del visibile (350 – 700 nm) e del vicino ultravioletto (200 – 350 nm).
Viene interessato anche l’UV lontano (10 – 200 nm), anche se in questo caso si opera
sotto vuoto o in atmosfera di gas inerte, perché l’ossigeno atmosferico copre i segnali
delle altre sostanze.
In campo ottico la spettrofotometria è fondamentale per valutare l’assorbimento
1. Le radiazioni elettromagnetiche 8
delle diverse radiazioni elettromagnetiche da parte dei diversi materiali che costitu-
iscono le lenti (Figure 7 e 8).
È interessante notare come le lenti in policarbonato bloccano (T=0) tutte le radiazio-
ni UV cosa che non accade con le lenti in vetro minerale.
2. Ottica geometrica 9
Il ramo della fisica che studia i fenomeni luminosi nelle loro varie manifestazioni
(emissione, propagazione, assorbimento o interazione con altri mezzi) costituisce la
scienza chiamata OTTICA.
Lo studio di questa disciplina può essere eseguito da vari punti di vista ed allora
avremo:
1) l’OTTICA GEOMETRICA quando l’interesse principale è rivolto al cammino, o
traiettoria, della luce, valutandone l’aspetto geometrico senza porsi domande su
quale sia la sua natura;
2) l’OTTICA FISICA quando il fine è studiare la natura della radiazione ottica, inda-
gando sulla sua origine e sul suo sistema di propagazione;
3) l’OTTICA QUANTISTICA quando l’oggetto delle indagini sono le interazioni del-
la radiazione ottica con le entità atomiche della natura; tale studio richiede la
conoscenza della meccanica quantistica e pertanto esula dalle finalità di questo
capitolo del libro.
In queste note tratteremo l’Ottica dal punto di vista geometrico e quindi studiere-
mo principalmente quale è la traiettoria del raggio luminoso (vedi par. 2.1) quando
questo si propaga in determinati ambienti e soprattutto osserveremo le variazioni
di cammino che il raggio subisce quando attraversa uno o più elementi fisici che
definiremo “mezzi ottici”.
2.3 La riflessione
2.4 La refrazione
La refrazione si ha quando un
raggio luminoso proveniente da
un mezzo ottico (M.O.1) incon-
tra un diottro, lo attraversa e si
propaga nel mezzo ottico suc-
cessivo (M.O.2), pertanto nel fe-
nomeno della refrazione si stu-
dia il cammino del raggio che si
propaga in quest’ultimo mezzo;
a questo raggio si dà il nome di
raggio rifratto (nella figura 1 è il
raggio colorato di verde).
Nell’ipotesi che il raggio inci- Figura 3. Refrazione attraverso un diottro
dente sia monocromatico, aven-
te cioè una sola lunghezza d’onda (più avanti, nel par. 2.5.2, chiariremo meglio questo
aspetto) la situazione si presenta come raffigurata in figura 3; dove si indica con:
i = angolo di incidenza del raggio sul diottro
i’ = angolo di refrazione del raggio che attraversa il diottro
(N.B. come nella riflessione, anche nel fenomeno della refrazione gli angoli sono
misurati a partire dalla normale).
La figura 3 non inganni il lettore: il raggio rifratto prenderà una sola delle due di-
rezioni indicate in figura, saranno le caratteristiche ottiche dei due mezzi a dirci se
sarà quella rossa o la blu.
Inoltre si indica con δ l’angolo formato tra la direzione del raggio rifratto ed il pro-
lungamento della direzione del raggio incidente: a tale angolo si dà il nome di angolo
di deviazione.
Come nel caso della riflessione, le leggi che regolano il fenomeno della refrazione
sono due:
1) il raggio incidente, la normale al punto di incidenza ed il raggio rifratto giacciono
nello stesso piano (legge di complanarità)
2) il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e quello di refrazione è costante
ovvero in formula
oppure
oppure
pertanto l’indice di refrazione assoluto di un mezzo ottico è dato dal rapporto tra il
seno dell’angolo di incidenza ed il seno dell’angolo di refrazione (o dal rapporto diretto
degli angoli se essi sono minori di 30°) quando la radiazione incidente proviene dal vuoto.
Tale indice è un numero puro, sempre positivo e, salvo un unico caso che vedremo più
avanti, anche > 1.
Per chiarire meglio il significato dell’indice di refrazione assoluto di un materiale
facciamo il seguente esempio: consideriamo il vetro Crown (materiale molto utilizza-
to in ottica) il cui indice di refrazione assoluto è 1,523; questo numero indica che per
qualsiasi angolo di incidenza sulla superficie del vetro, ovviamente compreso tra 0°
2. Ottica geometrica 13
e 90°, avremo un angolo di refrazione di valore tale che il rapporto tra i seni dei due
angoli è sempre uguale a 1,523. Inoltre l’indice di refrazione assoluto di un materiale
permette di chiarire meglio il concetto di mezzo isotropo: in ottica un materiale è
isotropo quando ha l’indice di refrazione assoluto uguale in tutte le direzioni consi-
derate all’interno di esso.
Ripetendo il procedimento precedente per tutti i materiali esistenti in natura, o per
lo meno per tutti quelli che hanno importanza dal punto di vista ottico, sono stati
ricavati i loro indici di refrazione assoluti i cui risultati possono essere così riassunti:
– per i materiali liquidi nl ≅ 1,33…
(le cifre decimali dalla terza in poi variano a seconda del liquido, per l’acqua si
assume n = 1,333; tra i liquidi fa eccezione il solfuro di carbonio che ha n = 1,63 che
è tipico dell’indice dei solidi)
– per i materiali solidi ns ≅ 1,39 ÷ 1,9
(anche per tali valori esiste un’eccezione rappresentata dal diamante il quale ha
un indice di refrazione assoluto n = 2,4 ÷ 2,5).
– per il vuoto nv = 1
(valore facilmente ricavabile quando, nell’esperimento con il quale si ricava l’indi-
ce di refrazione assoluto, il secondo mezzo sia ancora il vuoto)
– per l’aria na = 1,000293 ≅ 1
(quindi per gli studi di ottica oftalmica si assume che aria e vuoto siano mezzi
assimilabili, anche se fisicamente non è così).
L’indice di refrazione assoluto di un materiale è molto importante in ottica oftalmica
perché serve a valutare lo spessore di una lente; infatti più alto è l’indice e più picco-
lo sarà lo spessore, ma di solito aumenta il peso specifico del mezzo.
Nella pratica considereremo il mezzo ottico (la lente) circondato da aria, che in otti-
ca significa dire immerso in aria, quindi parleremo di indice di refrazione assoluto.
Aver definito l’indice di refrazione assoluto di un materiale consente la risposta alla
domanda, postaci in precedenza, di quale sia la direzione presa dal raggio rifratto
dopo aver attraversato il diottro.
Considerando due materiali a contatto (separati dal diottro), essi saranno caratte-
rizzati da due indici di refrazione assoluti n1 ed n’1 rispettivamente, ovvero data la
seguente situazione:
se un raggio incide sulla superficie del diottro e poi si propaga nel mezzo 2 avremo
che:
il rapporto n’1 / n1 si chiama indice di refrazione relativo dei due mezzi ottici e si indica
con il simbolo nr, cioè:
pertanto dati due mezzi ottici qualunque, a contatto tra loro e separati da un diottro
di forma qualsiasi, la legge di Snell-Cartesio si traduce nel dire che:
il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e quello di refrazione è costante e tale co-
stante è uguale al rapporto tra l’indice di refrazione assoluto del mezzo in cui si rifrange
il raggio e l’indice di refrazione assoluto del mezzo da cui proviene il raggio, ossia più
brevemente è uguale all’indice di refrazione relativo dei due materiali.
2. Ottica geometrica 14
È opportuno far notare che anche l’indice di refrazione relativo è un numero puro,
poiché scaturisce dal rapporto di due numeri puri, quali sono gli indici di refrazione
assoluti n1 ed n’1.
Inoltre la conoscenza degli indici di refrazione dei due materiali permette anche di
stabilire il cammino geometrico del raggio rifratto nel mezzo 2; infatti se n’1 > n1 la
legge di Snell-Cartesio dice che
da cui
e quindi anche
pertanto, considerato sempre l’intervallo di angoli 0°÷90°, segue che i < i’ e perciò
il raggio rifratto si allontana dalla normale perché l’angolo di refrazione è maggiore
dell’angolo di incidenza.
Chiariamo quanto detto con due esempi, nei quali supporremo di operare con
angoli < 30°.
Esempio 1. Supposto n1 = 1,3 ed n’1 = 1,6 (vetro) la legge di Snell-Cartesio (approssi-
mata) dice pertanto:
pertanto i = 1,23 ⋅ i’, cioè i > i’ e quindi nell’attraversare il diottro il raggio rifratto si
avvicina alla normale, come illustrato nella figura 5.
pertanto i = 0,81 ⋅ i’, cioè i < i’ e quindi nell’attraversare il diottro il raggio rifratto
si allontana dalla normale, come
illustrato nella figura 6.
Per quanto concerne l’angolo di
deviazione δ, precedentemente
definito, possiamo asserire che
il suo valore dipende dall’angolo
di incidenza e dagli indici di re-
frazione assoluti dei due mezzi;
è definita “salto d’indice” la dif-
ferenza tra gli indici di refrazio-
ne assoluti dei due mezzi ottici,
pertanto si può affermare che, a
parità di angolo di incidenza i,
l’angolo di deviazione δ aumenta Figura 5. Refrazione attraverso un diottro con passaggio
all’aumentare del salto d’indice e del raggio da un indice di refrazione minore a maggiore
2. Ottica geometrica 15
Lo studio dell’Ottica, secondo l’approccio fisico, ci dice che i raggi luminosi sono
in realtà delle radiazioni elettromagnetiche caratterizzate da una certa gamma di
lunghezze d’onda.
Riguardo alla lunghezza d’onda (λ), le radiazioni elettromagnetiche vengono classifi-
cate nel modo indicato in figura 7.
Come è evidenziato nello schema di figura 7, la radiazione compresa tra le lunghezze
d’onda dell’UV-A, VISIBILE ed INFRAROSSO (I.R.) VICINO costituisce la radiazio-
ne più importante per l’Ottica
geometrica perché è quella che
viene maggiormente impiegata
nelle applicazioni strumentali,
compreso l’occhio umano, ed è
detta radiazione ottica.
All’interno di questo ampio
rango di lunghezze d’onda si
trova la radiazione visibile che
è di fondamentale importanza
per il meccanismo della visio-
ne umana, perché è verso tali
frequenze che il nostro occhio è
sensibile; vediamola quindi più
in dettaglio.
sione dell’occhio
umano, perché ad
esso è associata
la percezione cro-
matica; infatti ad
ogni lunghezza
d’onda l’occhio
associa un deter-
minato colore.
(figura 8, dove λ è
riportata in nano-
metri nm).
Se usiamo come
unità di misura il
µm (micron) pos-
siamo asserire
che lo spettro del
visibile è compre- Figura 8. Spettro elettromagnetico della luce visibile e lunghezze d’onda di
so tra le lunghez- Fraunhofer
ze d’onda che
vanno da 0,4 µm a 0,8 µm circa. Nelle ultime due colonne di destra di questo schema
si è anche riportata la sensibilità relativa dell’occhio umano ai colori, o meglio alle
lunghezze d’onda che l’occhio traduce in quei colori.
maggiore e minore, cioè n’F – n’C detta dispersione del mezzo ottico ed il suo significato
geometrico può essere così definito:
ricordando che
ed
2.6 Il prisma
Nel caso particolare in cui il prisma è immerso in aria (n1 = n’2 = 1) la formula divie-
ne:
(formula della deviazione del prisma quando n1 = n’2 = 1)
Si ricorda, ancora una volta, che con n’1 si fa riferimento all’indice di refrazione del
prisma.
Sottolineiamo che la validità delle precedenti relazioni è dovuta a due ipotesi sem-
plificatrici: la prima presuppone angoli minori di 30°, la seconda presuppone che il
prisma sia immerso nello stesso mezzo ottico (aria od altro mezzo).
di figura 15, nella quale l’angolo ϕ avrà ampiezza di 1 diottria prismatica (simbolo Δ)
quando alla lunghezza del raggio di 1 m (un metro) corrisponde un arco di circonfe-
renza (l) di lunghezza 1 cm (un centimetro); in formula
Alla luce di queste due definizioni possiamo concludere che, avendo un prisma con
angolo α di nota ampiezza espressa in gradi, possiamo calcolarne la deviazione in
diottrie prismatiche trasformando l’angolo di deviazione δ prima in milliradianti
(moltiplicandolo per 17,45) e poi dividendo per 10; oppure, senza passare attraverso
i milliradianti, moltiplicando direttamente per 1,745.
Vediamo alcuni esempi di quanto sopra affermato:
a) dato un prisma con n’1 =1,5 ed α = 5° ed immerso in aria
avremo δ = 2,5° per cui δ = 2,5° ⋅ 1,745 ≅ 4,362 Δ
b) dato un prisma con n’1 =1,6 ed α = 5° ed immerso in aria
avremo δ = 3° per cui δ = 3° ⋅ 1,745 ≅ 5,235 Δ
Figura 15. Definizione analitica della Figura 16. Definizione optometrica della diottria prismatica
diottria prismatica
2. Ottica geometrica 24
Proseguendo con gli esempi noteremmo che, per valori dell’indice di refrazione com-
presi tra 1,5 ed 1,6, l’angolo di deviazione δ, espresso in diottrie prismatiche, ha
ampiezza circa uguale all’angolo di rifrangenza α espresso in gradi; con valori dell’in-
dice di refrazione al di fuori di questo intervallo (n’1 > 1,6 e n’1 < 1,5) tale singolarità
non vale più.
Se due mezzi ottici differenti sono separati da una superficie avente forma di calotta
sferica allora tale superficie prende il nome di diottro sferico.
Si ricorda che la calotta sferica è una superficie ottenuta sezionando una sfera con
un piano avente inclinazione qualunque, anche non passante dal centro della sfera.
Si fa notare, inoltre, come il diottro sia una superficie ideale, in quanto tale superfi-
cie può essere pensata come appartenente ad ognuno dei mezzi ottici in questione;
in base a tali considerazioni il diottro sferico può essere rappresentato come in fi-
gura 17, in cui si evidenzia l’asse ottico del diottro sferico come l’asse di simmetria
della calotta sferica, passante per il centro C e che incontra la calotta nel punto V,
detto vertice; ogni altro asse passante per C ma che non è asse di simmetria è detto
asse secondario del diottro.
Figura 21. Diottro convesso con centro di curvatura Figura 22. Diottro convesso con centro di curvatura
C a destra del vertice C a sinistra del vertice
Ricordiamo al lettore che, per una nota proprietà della geometria del cerchio, il
raggio condotto in un punto della circonferenza costituisce la normale alla circonfe-
renza in quel punto.
Il percorso del raggio rifratto è determinato dalla legge di Snell-Cartesio
e se il rapporto n’1 / n1 > 1 (in quanto n’1 > n1 diottro convesso) segue che pure
sen i / sen i’ > 1 e quindi i > i’.
In questo caso il raggio rifratto, avvicinandosi alla normale, descrive un angolo di
refrazione i’ più piccolo di quello di incidenza e pertanto subisce una rotazione verso
l’asse ottico, tale comportamento di rotazione verso l’asse ottico viene detto conver-
genza del raggio rifratto rispetto a quello incidente.
Vediamo ora la situazione, sempre al riguardo di un diottro sferico convesso, rappre-
sentata in figura 22; il percorso del raggio rifratto segue la legge di Snell-Cartesio
e se il rapporto n’1 / n1 < 1 (in quanto n’1 < n1 diottro convesso) segue che
sen i / sen i’ < 1 e quindi i < i’.
In questo caso il raggio rifratto, allontanandosi dalla normale, descrive un
angolo di refrazione i’ più grande di quello di incidenza e pertanto subisce anche
questa volta una rotazione verso l’asse ottico, tale comportamento di rotazione ver-
so l’asse ottico viene detto ancora convergenza del raggio rifratto rispetto a quello
incidente.
Dalle figure 21 e 22 si deduce che il raggio rifratto, esaminato nei due casi, subisce
una rotazione verso l’asse ottico del diottro e pertanto converge verso di esso; si con-
clude quindi che il diottro convesso è un diottro convergente.
Consideriamo adesso, nella figura 23, il percorso geometrico di un raggio provenien-
te da un oggetto all’infinito, incidente su un diottro concavo; il percorso del raggio
rifratto è determinato dalla legge di Snell-Cartesio
se il rapporto n’1 / n1 < 1 (in quanto n’1 < n1 diottro concavo) segue che anche
sen i / sen i’ < 1 e quindi i < i’.
In questo caso il raggio rifratto, allontanandosi dalla normale, descrive un angolo di
refrazione i’ più grande di quello di incidenza e pertanto subisce una rotazione allon-
2. Ottica geometrica 27
Figura 23. Diottro concavo con centro di curvatura Figura 24. Diottro concavo con centro di curvatura
C a destra del vertice C a sinistra del vertice
e se il rapporto n’1 / n1 > 1 (in quanto n’1 > n1 diottro concavo) segue che anche
sen i / sen i’ > 1 e quindi i > i’
In questo caso il raggio rifratto, avvicinandosi alla normale, descrive un angolo di
refrazione i’ più piccolo di quello di incidenza e pertanto subisce una rotazione al-
lontanandosi dall’asse ottico; tale comportamento di rotazione, ancora opposta alla
posizione dell’asse ottico, viene detto divergenza del raggio rifratto rispetto a quello
incidente.
Considerando il comportamento del raggio rifratto esaminato nelle figure 23 e 24,
possiamo affermare che la radiazione che attraversa un diottro sferico concavo subi-
sce una rotazione che la allontana dall’asse ottico del diottro e quindi diverge da esso,
si conclude quindi che il diottro concavo è un diottro divergente.
Figura 25. Fuoco immagine di un diottro convesso Figura 26. Fuoco immagine di un diottro concavo
Nella figura 27 si è voluto evidenziare che, all’avvicinarsi del punto al vertice del
diottro, aumenta l’angolo di incidenza del raggio e quindi, per il rispetto della legge
di Snell-Cartesio, aumenta anche quello di refrazione. Per questo motivo il raggio
rifratto forma con l’asse ottico un angolo sempre più piccolo dunque, nell’avvicinarsi
al diottro, ci sarà un punto sul suo asse dal quale partirà un raggio incidente il cui
raggio rifratto formerà con l’asse un angolo tendente a zero, ossia la sua direzione
sarà parallela a quella dell’asse ottico. A tale punto si dà il nome di fuoco oggetto F del
diottro sferico e viene detto reale, come nel caso in esame, quando la sua posizione è
individuata dall’intersezione del raggio incidente con l’asse.
Il fuoco oggetto rappresenta l’altro punto cardinale cercato del diottro sferico.
La distanza del fuoco oggetto dal vertice del diottro (FV = f ) viene chiamata distanza
focale oggetto.
Se anche in questa situazione consideriamo come secondo raggio quello avente la
direzione coincidente con l’asse ottico, che non subisce deviazione attraversando il
diottro in quanto i=0 e quindi anche i’=0, possiamo interpretare il fuoco oggetto F
come quel punto oggetto la cui immagine è all’infinito; in figura 27 il punto D coinci-
de con il fuoco oggetto F (D≡F) e quindi la sua immagine D’ è all’infinito.
Si possono inoltre confermare le stesse conclusioni se avessimo disegnato il diottro
convesso avente centro in n1 (con n1 > n’1).
Ora consideriamo un diottro concavo ed immaginiamo di condurre ad esso dei raggi
luminosi nelle ipotesi gaussiane, relativi a punti oggetto che si trovano a destra del
diottro, quindi nello spazio opposto a quello in cui si propagano i raggi incidenti (in
seguito tali punti verranno chiamati virtuali).
Nella figura 28 si è voluto evidenziare che, all’aumentare dell’angolo di incidenza
del raggio aumenta, per il rispetto della legge di Snell-Cartesio, anche quello di re-
frazione e pertanto il raggio rifratto forma con l’asse ottico un angolo sempre più
piccolo. Ci sarà un punto sull’asse ottico nel quale arriva il prolungamento di un rag-
gio incidente il cui raggio rifratto formerà con l’asse un angolo tendente a zero, ossia
la sua direzione sarà parallela a quella dell’asse ottico: a tale punto si dà il nome di
fuoco oggetto F del diottro sferico e questa volta viene detto virtuale, in quanto la sua
posizione è individuata dall’intersezione del prolungamento del raggio incidente con
l’asse ottico.
Il fuoco oggetto rappresenta, anche in questa situazione, l’altro punto cardinale cer-
cato del diottro sferico.
La distanza del fuoco oggetto dal vertice del diottro (FV = f ) viene di nuovo chiama-
ta distanza focale oggetto.
Se in questa situazione consideriamo come secondo raggio quello avente la direzione
coincidente con l’asse ottico, che non subisce deviazione attraversando il diottro in
quanto i=0 e quindi anche i’=0, possiamo interpretare il fuoco oggetto F come quel
punto oggetto la cui immagine è
all’infinito. In figura 28 il punto
B coincide con il fuoco oggetto
F (B≡F) e la sua immagine B’ è
all’infinito.
Si possono inoltre confermare
le stesse conclusioni se avessi-
mo disegnato il diottro concavo
avente centro in n1 (con n1 < n’1).
Riassumendo queste prime con-
siderazioni, possiamo affermare Figura 28. Fuoco oggetto di un diottro concavo
2. Ottica geometrica 30
che il diottro convesso ha fuochi (oggetto ed immagine) entrambi reali; il diottro con-
cavo ha invece i fuochi entrambi virtuali.
Non riteniamo opportuno in questa sede entrare nel merito delle relazioni anali-
tiche che regolano il comportamento ottico del diottro, anche perché tali relazioni
si ritrovano, in modo abbastanza similare, nello studio della lente e pertanto ci sof-
fermeremo su di esse quando parleremo di tale mezzo ottico; in questo frangente ci
limiteremo ad introdurre il potere F del diottro sferico, definito dalla relazione:
dove n’1 è l’indice dello spazio immagine, n1 quello dello spazio oggetto, r il raggio
di curvatura del diottro sferico, che viene assunto positivo se a destra del vertice
V, negativo se a sinistra.
Siccome n1 ed n’1 sono due indici di refrazione assoluti sono dei numeri puri mentre r
è una distanza: se la esprimiamo per convenzione in metri allora avremo che il potere
F del diottro avrà come unità di misura la Diottria.
Questa è una convenzione molto importante perché stabilisce che le distanze che
compaiono nelle formule con le quali si calcola il potere di superfici rifrangenti (len-
ti, sistemi ottici ecc.) debbano essere espresse in metri perché si possa esprimere
il potere F in diottrie; la diottria (simbolo D) è un parametro che ha quindi come
dimensione l’inverso di una distanza espressa in metri, cioè
Il potere di un diottro sferico e più in generale quello di una superficie curva, rap-
presenta la capacità della superficie di deviare il percorso del raggio rifratto rispetto
alla direzione di quello incidente; più il potere è alto tanto più grande sarà la capa-
cità di far convergere i raggi se il diottro è convesso, di farli divergere se concavo;
più il potere è piccolo tanto più piccola sarà la capacità di convergenza o divergenza.
Si fa notare infine come il potere F aumenti se aumenta la differenza tra l’indice del-
lo spazio immagine n’1 e quello dello spazio oggetto n1 (salto d’indice) e/o diminuisce
il raggio di curvatura r del diottro; viceversa se il salto d’indice si riduce e/o il raggio
aumenta il potere diminuisce.
2.8 La lente
Una lente è formata dalla combinazione di due diottri, che possono essere entrambi
sferici, oppure uno sferico e l’altro asferico oppure uno sferico e l’altro piano ecc.,
pertanto la sua definizione (geometrica) sarà: dicesi lente un mezzo ottico delimitato
da due superfici (diottri) delle quali almeno una curva.
Quando entrambi i diottri
della lente sono sferici que-
sta si dice sferica, se uno è
asferico la lente si dice asferi-
ca, se tutti e due sono asferici
è detta biasferica (in questo
contesto prenderemo in esa-
me solo le lenti sferiche); i
diottri vengono anche detti
facce attive della lente (ante-
riore e posteriore). Figura 29. Parametri ottici e geometrici della lente
2. Ottica geometrica 31
fine del par. 2.7.4, la faccia convessa ha raggio minore e quindi potere positivo mag-
giore di quella concava, cioè quella con potere negativo.
Riassumendo quindi sono positive le lenti: Biconvesse non isosceli, Biconvesse isosceli,
Pianoconvesse, Menisco positive.
Si noterà dalle figure precedenti che le lenti positive sono più spesse al centro e più
sottili ai bordi (questa osservazione costituisce uno dei metodi per il riconoscimento
di una lente positiva).
Prendiamo ora in esame la figura 34, in cui sono rappresentate due lenti Biconcave
non isosceli, che essendo formate da due diottri concavi, pertanto di potere negativo,
costituiscono l’esempio di due lenti negative.
La lente in figura 35 è detta Biconcava isoscele, avendo due superfici concave di ugual
raggio; il suo potere sarà pertanto negativo.
Le lenti di figura 36 si dicono invece Pianoconcave, in quanto hanno una faccia conca-
va e l’altra piana, il loro potere sarà ancora negativo. Il potere della lente coinciderà
con quello della faccia curva, poiché il potere della faccia piana è zero.
Infine le lenti in figura 37 sono dette invece Menisco negative, perché la faccia conca-
va ha raggio minore, e quindi potere negativo maggiore (par. 2.7.4) di quella conves-
sa, la quale ha invece potere positivo.
Riassumendo quindi sono negative le lenti: Biconcave non isosceli, Biconcave isosceli,
Pianoconcave, Menisco negative.
Si noterà dalle figure precedenti che le lenti negative sono più spesse al bordo e più
sottili al centro (questa osservazione costituisce uno dei metodi per il riconoscimen-
to di una lente negativa).
esulano dallo scopo di queste brevi note di ottica geometrica, vengono considerate,
nella quasi totalità dei casi, lenti sottili.
In prima ipotesi possiamo considerare sottile una lente in cui lo spessore tende a
zero (anche se in realtà la giustificazione è un po’ più articolata) e pertanto la sua
rappresentazione grafica è illustrata in figura 38.
La simbologia grafica di figura 38 rappresenta l’asse ottico della lente come suo
asse di simmetria e pertanto su di esso si troveranno i centri di curvatura delle sue
superfici curve.
Una lente sottile positiva viene rappresentata con una linea, alle cui estremità ci
sono due frecce dirette in senso opposto all’asse ottico, mentre nella negativa all’e-
stremità della linea ci sono due frecce dirette verso l’asse ottico.
Non bisogna però dimenticare che la lente, anche se sottile, è sempre formata dall’unione
di due diottri e quindi il suo potere scaturirà dalla somma algebrica dei poteri dei diottri
che la compongono; con ciò si intende dire che: se la lente è biconvessa la sua potenza sarà
data dalla somma dei poteri delle facce, se pianoconcava coinciderà con il potere della
faccia concava, se menisco il potere sarà la differenza tra i poteri delle facce ecc.
Da queste considerazioni, tralasciandone la dimostrazione matematica, ricaviamo
che il potere di una lente sottile, detto potere nominale Fn, è dato dall’espressione:
Fn = F1 + F2 (potere nominale di una lente sottile)
dove F1 ed F2, potenze del diottro anteriore e posteriore rispettivamente, sono calco-
late con l’espressione di par. 2.7.4 e precisamente
ed
Adottando la stessa convenzione per i segni dei raggi, possiamo dire che la faccia anteriore
della lente ha raggio positivo, quindi il suo centro di curvatura è a destra del vertice, nel
mezzo con indice di refrazione assoluto maggiore. Quando si considera la prima faccia
della lente bisogna trascurare la seconda ed immaginare che lo spazio a destra di V1 sia
illimitato, ecco perché il centro della prima superficie cade nell’indice maggiore. La faccia
è convessa e pertanto la sua potenza è positiva.
La seconda superficie ha invece raggio di curvatura negativo, quindi il suo centro è a sini-
stra del vertice. Applichiamo nuovamente il ragionamento usato per la prima superficie
ma, questa volta, bisogna estendere il mezzo a sinistra del vertice V2, considerandolo illi-
mitato; quindi anche il centro della seconda faccia cade nel mezzo con indice di refrazione
assoluto maggiore: anche questa faccia è convessa e la sua potenza positiva. La lente è
quindi Biconvessa ed ha la forma di quella rappresentata in figura 30a.
Utilizziamo la formula del potere di un diottro sferico riportata nel par. 2.7.4 per calcola-
re le potenze delle facce della lente.
Calcolo della potenza della faccia anteriore, F1:
Esempio 2) Calcolare il potere nominale di una lente (sottile) immersa in aria, avente
n’1 = 1,5; r1 = +10 cm; r2 = +20 cm.
Osservazione: Procedendo con analogo ragionamento a quello fatto per l’esempio 1, per la
faccia anteriore della lente valgono le stesse considerazioni fatte per la faccia anteriore del-
la lente del primo esempio, quindi la faccia è convessa e pertanto la sua potenza è positiva.
La seconda superficie ha pure raggio di curvatura positivo, quindi il suo centro è a destra
del vertice, nel mezzo con indice di refrazione assoluto minore: questa faccia è concava e
la sua potenza negativa. La lente è quindi Menisco e la sua forma è quella di figura 33f.
Utilizziamo la formula del potere di un diottro sferico riportata nel par. 2.7.4 per calcola-
re le potenze delle facce della lente.
Calcolo della potenza della faccia anteriore, F1:
nello stesso mezzo ottico, quindi anche quando è immersa in aria; vedremo più avanti
la spiegazione di quanto affermato.
La distanza dei fuochi dalla lente si chiama distanza focale effettiva. La focale effet-
tiva si indica con fe e rappresenta la focale oggetto f e la focale immagine f’ della len-
te che, come si è detto prima, sono uguali se la lente è immersa nello stesso mezzo. La
convenzione vuole, però, che la focale effettiva venga fatta coincidere con la focale
immagine (fe ≡ f’), quindi le due focali hanno stessa lunghezza ma anche stesso segno.
Consideriamo ora (per semplicità) una lente positiva immersa in aria ed un oggetto
esteso AB, situato prima del suo fuoco oggetto F; costruiamo mediante il traccia-
mento dei raggi cardinali l’immagine che ne fornirà la lente; graficamente avremo
quanto rappresentato in figura 40.
Vediamo di illustrare quanto è disegnato nella figura 40: dall’estremità B dell’ogget-
to (reale) facciamo passare il raggio (di colore rosso) proveniente dall’infinito, che
pertanto sarà parallelo all’asse ottico della lente. Dopo essere stato rifratto dalla
lente, il raggio convergerà (lente positiva) verso l’asse per passare dal fuoco imma-
gine F’ (reale); dall’estremità B dell’oggetto tracciamo poi il raggio che passa dal
fuoco oggetto F della lente (raggio di colore blu). Dopo la refrazione il raggio uscirà
parallelo all’asse ottico ed incontrerà il raggio rifratto precedente nel punto B’, che è
Concludiamo con alcuni esempi che illustrino come si applicano le formule prece-
dentemente esposte.
Esempio 1) Data una lente sottile di potere nominale Fn = +5,00 D, calcolare le sue
focali.
Per la focale oggetto avremo
(c.v.d.)
Esempio 2) Data una lente sottile di potere nominale Fn = -4,00 D, calcolare le sue
focali.
Per la focale oggetto avremo
(c.v.d.)
Esempio 3) È data una lente sottile immersa in aria. Un oggetto reale si trova a 20 cm
dalla lente e questa ne forma una immagine reale che si localizza ad una distanza di
20 cm dalla lente; calcolare il potere nominale della lente e l’ingrandimento trasversa-
le da essa fornito. (L’esercizio è riassunto nel grafico di figura 40.)
Osservazione: L’oggetto è reale, quindi a sinistra della lente, pertanto la distanza da essa
sarà negativa: l = –20 cm, l’immagine è reale, quindi a destra della lente, allora la distan-
za da essa sarà positiva: l’ = +20 cm.
Dall’equazione dei punti coniugati, riportata in questo paragrafo, abbiamo
(focale oggetto)
pertanto, trovandosi l’oggetto tra il fuoco oggetto e la lente, avremo la formazione di una
immagine virtuale.
Dall’equazione dei punti coniugati, riportata in questo paragrafo, abbiamo
da cui si ha
e quindi
per cui
(il segno negativo della distanza indica che l’immagine si trova a sinistra della lente,
quindi è virtuale). Il risultato, peraltro già previsto nell’Osservazione, è generalizzabile a
tutte le lenti positive: se l’oggetto reale è posto tra F (fuoco oggetto) e lente, la lente posi-
tiva fornirà di esso una immagine virtuale.
il risultato conferma che essa è uguale, come valore numerico, ma di segno opposto alla
focale oggetto.
2. Ottica geometrica 41
Per una migliore comprensione delle lenti astigmatiche è opportuno prima ritornare
sulle lenti assosimmetriche (vedi par. 2.8.1) ed illustrare meglio l’effetto ottico da
esse prodotto.
Sturm, si avrà un punto in cui detto cono presenta una sezione di diametro minimo
che si dice disco di minima confusione: è questa la migliore immagine che la lente
astigmatica può dare di un oggetto puntiforme.
È altresì opportuno far presente che la situazione rappresentata in figura 44 è pura-
mente indicativa, nella realtà possiamo avere il potere maggiore sul meridiano ver-
ticale oppure i due meridiani principali possono non essere verticale ed orizzontale
ma, rimanendo sempre ortogonali tra loro, possono avere inclinazione qualunque
rispetto all’orizzontale.
Figura 45. Sezioni di una lente Pianocilindrica convessa Figura 46. Rappresentazione grafico simbolica
della lente Pianocilindrica di ricetta cil +3,50
ax 35°
2. Ottica geometrica 45
una lente Pianocilindrica, nella sua formulazione generale, sarà del tipo Cil (1) ax
(2) dove in (1) è indicato il potere del cilindro (Fcil ) e in (2) la direzione del suo asse.
Consideriamo ad esempio una lente Pianocilindrica di ricetta: cil +3,50 ax 35°; tale
scrittura indica che nella direzione 35°, quella dell’asse del cilindro, la lente ha pote-
re zero, mentre nella direzione 125°, quella ortogonale all’asse del cilindro, il potere
è +3,50 D.
Quanto detto in precedenza può essere illustrato anche mediante un disegno sche-
matico, detto rappresentazione grafico simbolica, così come mostrato in figura 46.
Il disegno di figura 46 dice che il potere della lente nel meridiano con direzione 35°
è zero (F35° = 0 D) e dunque in quella direzione vi è l’asse del cilindro, invece nel
meridiano con direzione 125° il potere è +3,50 D (F125° = +3,50 D) e dunque quello è
il Fcil; pertanto, partendo dalla rappresentazione grafico simbolica, possiamo risalire
alla ricetta della lente Pianocilindrica prendendo come orientamento dell’asse del
cilindro la direzione in cui la lente ha potere nullo; come Fcil il potere espresso
sull’altro meridiano principale della lente; quindi in definitiva otterremo la ricetta
cil +3,50 ax 35°, che è quella da cui siamo partiti.
L’astigmatismo della lente sarà: Ast = | +3,50 – 0 | = | 0 – (+3,50) | = +3,50 D deducendo
quindi, e questa è regola generale, che nella lente Pianocilindrica l’astigmatismo
coincide sempre con il potere del cilindro (Fcil) preso in valore assoluto, ossia:
Ast ≡ | Fcil |.
te Pianocilindrica non è sufficiente allo scopo; possiamo ricorrere allora alla lente
Sferocilindrica; come si vede dalla figura 47, essa può essere ottenuta idealmente
dall’unione di una lente Pianosferica (sezione di una sfera ottenuta con un piano
qualunque, anche non passante per il suo centro, detta anche calotta sferica) ed una
lente Pianocilindrica.
Dalla figura 47 si deduce che i meridiani principali di questa lente sono:
– il meridiano avente la direzione dell’asse del cilindro
– il meridiano avente la direzione ortogonale all’asse del cilindro.
Ricordando quanto detto al riguardo della ricetta di una lente sferica
(par. 2.9.1) e di un cilindro puro (par. 2.9.3), la ricetta di una lente Sferocilindrica
avrà pertanto la seguente forma Sf (1) cil (2) ax (3) dove in (1) è riportato il potere
della lente Pianosferica (Fs), in (2) il potere della lente Pianocilindrica (Fcil) ed in (3)
la direzione dell’asse di quest’ultima.
Appare quindi chiaro che nel meridiano parallelo all’asse del cilindro questa lente
ha potere uguale al potere della sfera (Fs) e, nel meridiano ortogonale all’asse del
cilindro, il potere della lente sarà dato dalla somma algebrica del potere della sfera e
di quello del cilindro (Fs + Fcil). Facciamo notare che somma algebrica vuol dire tener
conto del segno di Fs e Fcil, che può essere positivo o negativo.
L’astigmatismo di questa lente sarà dato dalla somma degli astigmatismi delle lenti
che la compongono; quello della lente Pianosferica è nullo in quanto essa ha poteri
uguali su tutti i meridiani, quello della Pianocilindrica, come si è già detto, è dato
dal valore assoluto del Fcil; in definitiva è regola generale identificare l’astigmati-
smo della lente Sferocilindrica con il valore assoluto del potere del cilindro, ossia:
Ast ≡ | Fcil |.
Se consideriamo una ricetta Sferocilindrica iniziale, chiamata primitiva (P), a questa
possiamo associare un’altra ricetta Sferocilindrica, detta trasposta (T), equivalente
alla primitiva (due o più ricette di lenti astigmatiche si dicono equivalenti quando le
lenti che esse rappresentano hanno i meridiani principali con lo stesso orientamento
e potere, ossia hanno la stessa rappresentazione grafico simbolica).
La ricetta trasposta può essere scritta con la seguente regola pratica:
– il potere della sfera è dato dalla somma algebrica di sfera e cilindro della
primitiva;
– il potere del cilindro si ottiene cambiando il segno alla potenza del cilindro della
primitiva;
– la direzione dell’asse nella trasposta si ottiene ruotando l’asse della primitiva di
90°.
A titolo di esempio consideriamo una lente Sferocilindrica primitiva di ricetta:
P) Sf +3,00 cil –2,00 ax 75°; essa avrà Ast = 2,00 D; la sua ricetta trasposta sarà
Sf [+3,00 +(–2,00)] cil –(–2,00) ax (75° + 90°) e quindi in definitiva
T) Sf +1,00 cil +2,00 ax 165°.
La lente primitiva avrà un potere totale, nel meridiano principale con direzione 75°,
dato dalla somma del potere della sfera (Fs) e del cilindro (Fcil), che però avendo l’as-
se in quella direzione, è nullo; quindi in definitiva:
F75° = Fs + 0 = +3,00 + 0 = +3,00 D
Nel meridiano principale con direzione 165°, la lente avrà un potere totale dato dal
contributo algebrico dei poteri sia della sfera (Fs) che del cilindro (Fcil), in quanto
questa è la direzione ortogonale al suo asse e quindi quella in cui la lente Pianocilin-
drica ha una sezione con potere diverso da zero; in definitiva:
F165° = Fs + Fcil = +3,00 + (–2,00) = +1,00 D.
La scrittura della ricetta trasposta è utile per i seguenti motivi:
– il potere della sfera della primitiva e quello della trasposta danno la potenza totale
2. Ottica geometrica 47
Figura 48. Rappresentazione grafico simbolica della lente Sferocilindrica di ricetta Sf +3,00 cil -2,00 ax 75°
della lente nei suoi meridiani principali, ovvero la sfera della primitiva è il potere
totale della lente nel meridiano che ha la stessa direzione dell’asse del cilindro
della primitiva; analogo discorso per la sfera della trasposta che indica il potere
totale della lente nel meridiano che ha la stessa direzione dell’asse del cilindro
della trasposta;
– stabilire il prezzo della lente; infatti le aziende creano i listini delle lenti astigma-
tiche usando la ricetta con cilindro positivo o negativo. Se la ricetta che abbiamo
a disposizione non ha il segno del cilindro coincidente con quello del catalogo
consultato, possiamo ricavare il prezzo della lente scrivendone la ricetta trasposta.
La figura 48 riproduce la rappresentazione grafico simbolica dell’esempio proposto
(primitiva).
Nel disegnare quanto riprodotto in figura 48 si è considerato che la lente Sferocilin-
drica assegnata fosse composta, idealmente, da due lenti: una Pianosferica ed una
Pianocilindrica, ossia
Sf +3,00 cil -2,00 ax 75°
lente Pianosferica lente Pianocilindrica
Anche per la lente Sferocilindrica, così come fatto per la Pianocilindrica alla fine
di par. 2.9.3, è possibile scriverne la ricetta partendo dalla rappresentazione grafico
simbolica, mediante le regole seguenti:
– Sf = il potere della sfera della ricetta si otterrà prendendo come valore diottrico il
potere totale che la lente ha in uno dei due meridiani principali;
– Fcil = il potere del cilindro sarà quel valore diottrico che consente di passare (al-
gebricamente) dal potere presente nel meridiano prescelto (e che, come visto nel
punto precedente, coincide con il valore della sfera) al potere presente sull’altro
meridiano principale;
– ax = l’asse del cilindro coinciderà con la direzione del meridiano principale, il cui
potere abbiamo preso come sfera.
(Si fa notare al lettore che scegliendo come potere della sfera il potere sull’altro me-
ridiano principale della lente, scriveremo la trasposta della ricetta iniziale).
A chiarimento di quanto detto, riprendiamo l’esempio riportato in figura 48; pren-
dendo come valore della sfera il potere sul meridiano a 75°, quindi Sf +3,00, il potere
del cilindro sarà tale da consentire il passaggio dal potere +3,00 al potere +1,00 che
si trova sul meridiano con direzione 165°, quindi cil –2,00; l’asse del cilindro avrà
direzione 75° perché in quella direzione il potere del cilindro deve essere nullo, in
quanto il potere totale della lente è già stato raggiunto con la sola sfera, pertanto
ax 75°; per cui la ricetta definitiva sarà: Sf +3,00 cil –2,00 ax 75°.
Prendendo invece come potere della sfera il potere sull’altro meridiano principale con
direzione 165°, otterremo Sf +1,00; il potere del cilindro sarà tale da consentire il pas-
2. Ottica geometrica 48
saggio dal potere +1,00 al potere +3,00 che si trova sul meridiano con direzione 75°,
quindi cil +2,00; l’asse del cilindro avrà direzione 165° perché in quella direzione il
potere del cilindro deve essere nullo, in quanto il potere totale della lente è già stato
raggiunto con la sfera, pertanto ax 165°; per cui la ricetta sarà: Sf +1,00 cil +2,00 ax 165°,
che è la trasposta dell’esempio proposto.
A conclusione del discorso sulle ricette delle lenti astigmatiche diremo che, tra le
altre tipologie, le Bicilindriche (ad assi perpendicolari) sono importanti perché la
loro ricetta rappresenta la sintesi analitica della lettura che si ha al frontifocometro
quando viene misurato il potere della lente astigmatica; le Pianotoriche non hanno
un riscontro pratico ma solo teorico (per capire la geometria della Sferotorica); le
Sferotoriche sono importanti perché è con questa geometria che si costruiscono og-
gigiorno le lenti astigmatiche.
Nei paragrafi precedenti, ogni volta che si è reso necessario riportare una direzione
(linea focale della lente, rappresentazione grafico simbolica, rappresentazione grafi-
ca effettiva ecc.) abbiamo sempre posizionato lo zero a destra.
Ciò è stato fatto per semplicità ma, nello scrivere la ricetta di una lente e in tutta
l’Ottica oftalmica in generale, la posizione dello zero varia in funzione del partico-
lare sistema di riferimento usato; in Ottica oftalmica si usano due sistemi di riferi-
mento:
il sistema T.A.B.O. (Technischer Ausschus fur Brillen Optik, proposto nel 1904 ed
adottato nel 1921 dal Council of British Ophthalmologists) ed il sistema INTERNA-
ZIONALE (proposto già dal 1874 ed adottato dal Congresso Internazionale di Napoli
nel 1911 e detto anche Axint per l’annotazione dell’asse dell’astigmatismo).
Gli schemi di entrambi i sistemi sono riportati in figura 49 (N.B.: lo schema si disegna
come se avessimo il paziente di fronte):
Nel sistema T.A.B.O. lo zero, per i due occhi, è posizionato a destra (quindi nasale per
O.D. e temporale per O.S.) e per andare da 0° a 180° si ruota in senso antiorario; nel
sistema INTERNAZIONALE lo zero è nasale e le rotazioni sono per l’O.S. in senso
orario e per l’O.D. in senso antiorario: è pertanto evidente che le differenze tra i due
sistemi si riscontrano solo per l’occhio sinistro.
Pertanto la frase: “Occhio Sinistro Sistema T.A.B.O.” si sintetizza con l’acronimo
Figura 50. Coincidenza del sistema T.A.B.O. e INTERNAZIONALE nelle direzioni 90° e 180°
Figura 51. Rappresentazione grafico simbolica di ricette Sferocilindriche nel sistema INTERNAZIONALE
e T.A.B.O.
2. Ottica geometrica 50
Nel par. 2.6.2 abbiamo appreso che un prisma immerso in aria è un deviatore di ver-
genza ossia un mezzo ottico che imprime, alla radiazione che lo attraversa, una rota-
zione o deviazione rispetto alla direzione di incidenza. Se poi il prisma è immerso in
un mezzo con indice di refrazione assoluto minore di quello del prisma stesso, allora
tale deviazione o rotazione è diretta verso la sua base; sempre nel par. 2.6.2 abbiamo
anche visto la formula con cui è possibile calcolare tale deviazione.
La conoscenza della sola deviazione non è però sufficiente a fornire una informazio-
ne completa del comportamento del prisma, in quanto essa si produrrà sul piano che
contiene l’asse del prisma (cioè il comportamento di un prisma con asse verticale
sarà ben diverso da quello che avrebbe se avesse l’asse orizzontale oppure obliquo)
e pertanto dovremo indicare la direzione di questo; ma pur con queste due indica-
zioni l’informazione non è ancora completa perché occorre anche stabilire in quale
posizione (o verso) si trova la base lungo la direzione dell’asse (ad esempio base alta
o bassa, oppure temporale o nasale).
Quindi la ricetta di una prescrizione prismatica dovrà tener conto di:
– deviazione prodotta: detta talvolta anche potenza del prisma, espressa in diottrie
prismatiche (simbolo Δ); corrisponde al modulo o entità della prescrizione; ricor-
diamo che si definisce diottria prismatica l’angolo al centro di una circonferenza
Figura 53. Rappresentazione della Figura 54. a) Possibili posizioni della base del prisma nel caso
prescrizione prismatica O.D. 4 Δ a di ricetta 2 Δ a 90°. b) Possibili posizioni della base del prisma
40° B.T. nel caso di ricetta O.D. 2 Δ a 140°
2. Ottica geometrica 51
utilizza tutto l’angolo giro e quindi tutti i quattro quadranti del goniometro (e non
solo i primi due come nel T.A.B.O. e nell’INTERNAZIONALE) pertanto la posizione
della base cade esattamente laddove termina l’angolo indicato nella ricetta.
In questo sistema si riprende la convenzione del sistema T.A.B.O. circa la posizione
dello 0° nei due occhi e quindi lo 0° si pone a destra.
Nell’esempio di figura 55a si ha una ricetta prismatica per occhio sinistro in sistema
TABO: O.S.S.T. 4 Δ a 30° B.N. Per completezza è stata scritta anche la ricetta equiva-
lente nel sistema INTERNAZIONALE ma l’immagine in figura 55a si riferisce alla
ricetta nel sistema T.A.B.O.; si è ottenuta poi la corrispondente ricetta nel sistema
“360° protractor”, figura 55b, ricavando la direzione 30° + 180° = 210°. Infatti la stes-
sa ricetta nel sistema “360° protractor” sarà O.S. 4 Δ a 210°.
Se la ricetta iniziale fosse stata: O.S.S.T. 4 Δ a 30° B.T.; allora la ricetta nel nuovo
sistema “360° protractor” sarebbe stata semplicemente O.S. 4 Δ a 30°.
Come ulteriore esempio riportiamo la ricetta O.S.S.I. 3 Δ a 125° B.N. essa avrà come
ricette equivalenti negli altri sistemi O.S.S.T. 3 Δ a 55° B.N. ; 3 Δ a 235° (360° pro-
tractor)
e quindi
ricordando che
Se però vogliamo misurare l’angolo in diottrie prismatiche (Δ), unità di misura più
consueta in Ottica Oftalmica, dobbiamo esprimere il decentramento h in millimetri
(mm) e dividere tutta l’espressione per 10, cioè:
(formula di Prentice)
La formula di Prentice indica che l’effetto prismatico indotto da una lente è diretta-
mente proporzionale alla distanza del raggio incidente rispetto all’asse ottico (quin-
di rispetto al decentramento h tra centro pupillare e centro ottico) ed alla potenza Fn
della lente, misurata in diottrie D. La potenza della lente viene considerata in valore
assoluto per non avere un effetto prismatico di segno negativo quando la lente ha
potere negativo.
Invece il decentramento h è direttamente proporzionale all’effetto prismatico da
introdurre ed inversamente proporzionale alla potenza della lente.
La legge di Prentice testimonia il fatto che la lente introduca una deviazione ai raggi
che la attraversano fuori dal suo asse ottico; tale deviazione determina uno sposta-
mento dell’immagine rispetto alla direzione dell’asse visuale dell’occhio che osserva
lo stesso oggetto ad occhio nudo. Lo spostamento dell’immagine (verso l’alto o verso
il basso) dipende dal segno del potere della lente e dalla provenienza dei raggi, che
possono incontrare la lente sopra o sotto il suo asse ottico.
Se ricordiamo quanto asserito nel par. 2.6.2 a riguardo del prisma, definito come de-
viatore di vergenza, possiamo rappresentare una lente con un insieme di due prismi,
2. Ottica geometrica 54
Figura 57. a) Lente positiva come insieme di due Figura 58. a) Lente prismatica positiva per
prismi abbinati base-base. b) Lente negativa costruzione. b) Lente prismatica negativa per
come insieme di prismi abbinati spigolo-spigolo costruzione
Come si è detto nel par. 2.13 le lenti prismatiche possono essere realizzate in due
modi; in quelle realizzate “per costruzione” l’effetto prismatico è inserito nella len-
te direttamente nella fase di costruzione, realizzando uno stampo in cui gli spessori
siano differenziati, anche in punti simmetrici della lente, in maniera da “creare” la
presenza fisica di un prisma in essa, posteriormente se la lente è positiva, caso a) di
figura 58, anteriormente se negativa, caso b).
Nella figura 58 si vede che, nella lente per costruzione, l’effetto prismatico è deter-
minato da una componente fissa δp, dovuta al prisma (calcolabile con l’espressione
δp = α (n’1 - 1), con n’1 indice del prisma, cui va a sommarsi il contributo variabile
dovuto alla lente, che si calcola con la relazione di Prentice.
Con una lente così fatta il portatore percepirà sempre un effetto prismatico,
quando il suo asse visivo passerà per il centro ottico O della lente; inoltre la realiz-
zazione di una lente di questo tipo è compito esclusivo dell’Azienda costruttrice,
all’Ottico spetta montarla correttamente sull’occhiale.
A parità di diametro, potere ed effetto prismatico, la presenza materiale del prisma
rende questa lente molto meno estetica e funzionale (a causa del maggior spessore
e peso) della lente per decentramento (che vedremo successivamente), ma il ricorso
alla lente prismatica per costruzione è obbligatorio quando:
– il decentramento è eccessivo; si è visto che il decentramento h è direttamente pro-
porzionale all’effetto prismatico da introdurre ed inversamente proporzionale alla
2. Ottica geometrica 55
potenza della lente; inoltre si dimostra che per effettuare un decentramento pari
ad h, tra centro ottico e centro pupillare, occorre ridurre il diametro della lente
iniziale di una quantità uguale a 2h (vedremo la dimostrazione, puramente geome-
trica, nel par. 2.15, quello dedicato alle lenti prismatiche per decentramento).
Se volessimo quindi realizzare con il decentramento un forte effetto prismatico, in
una lente di bassa potenza, dovremmo decentrare molto la lente (h molto grande)
e quindi ridurre il diametro della lente di partenza di una quantità 2h molto ele-
vata, che renderebbe il diametro della lente finita troppo piccolo peché essa possa
essere inserita in una montatura normale (o tradizionale);
– la lente non ha potere nella direzione in cui vogliamo realizzare l’effetto prisma-
tico; in questo caso è impossibile applicare la formula di Prentice; ad esempio la
lente: cil +2,00 ax 90° (cilindro puro) non permette di realizzare una compensazio-
ne prismatica a 90° per decentramento, essendo presente su tale meridiano potere
nullo;
– la lente è asferica; in tal caso, mancando un centro ottico fisso, è impossibile valu-
tare con esattezza h e quindi non è applicabile la legge di Prentice in modo univo-
co.
Figura 59. Osservazione attraverso il centro ottico di una lente positiva e negativa
della lente ed il portatore non percepirà nessun effetto prismatico in quanto, dalla
formula di Prentice, h = 0.
Quanto esposto può riassumersi nella figura 59.
Nella parte sinistra della figura 59 è rappresentata la lente di forma circolare, dopo
la sua costruzione, con i centri O ed O’ coincidenti per rispetto della Normativa
(in realtà è ammesso un piccolo errore nella coincidenza ma si tratta di uno scarto
dell’ordine dei decimi di millimetro); nella parte destra la sezione di una lente posi-
tiva, caso a) supponendola Pianoconvessa, e di una lente negativa, caso b) supposta
Biconcava.
In entrambi i casi comunque non abbiamo effetto prismatico perché l’asse visivo,
passando per O, non incontra i prismi che rappresentano la lente (o meglio li incon-
tra in una zona in cui i prismi non producono nessun effetto e cioè: la base comune
nel caso della lente positiva, il vertice comune nel caso della lente negativa).
Se moliamo la lente precedente, asportandone una parte di spessore costante lungo
tutta la sua circonferenza (molatura concentrica), otterremo sicuramente una lente
di diametro più piccolo ma con ancora O ed O’ coincidenti per cui l’osservatore, al
quale si faccia coincidere il suo centro pupillare con O’, non percepirà nessun effetto
prismatico in quanto utilizza la lente nelle stesse condizioni della figura precedente.
Adesso consideriamo una lente sferica positiva (circonferenza tratteggiata nella fi-
gura 60) nelle tre sezioni a) Pianoconvessa; b) Biconvessa isoscele; c) Menisco po-
sitiva e riduciamone il diametro, mediante molatura su tutta la sua circonferenza,
facendo però in modo che la parte asportata passi da un valore nullo ad un valore
massimo, che viene raggiunto nel punto della lente diametralmente opposto a quello
in cui è iniziata la molatura; successivamente l’entità della molatura decresce per
ritornare a zero nel punto di partenza (molatura eccentrica). Così facendo il centro
della nuova lente molata O’ (circonferenza non tratteggiata di figura 60) non coinci-
derà più con il centro ottico O della lente iniziale, ma anzi questi saranno distanziati
di una quantità h detta appunto decentramento.
Nella figura 60 abbiamo indicato rispettivamente con O il centro ottico e con O’
il centro geometrico della lente, quest’ultimo coincide con il centro pupillare del
soggetto.
Se nella lente molata facciamo passare l’asse visivo del portatore dal punto O’, ossia
se facciamo coincidere il centro pupillare del soggetto con tale punto, avremo intro-
dotto nel portatore di questa lente un effetto prismatico perché adesso il suo asse
visivo attraversa un prisma e non più le basi o i vertici dei prismi che rappresentano
le lenti; in altre parole si può dire che, nelle lenti prismatiche per decentramento, la
compensazione prismatica si ottiene decentrando la lente (il suo centro ottico O) ri-
spetto all’asse visivo del soggetto, ovvero decentrando il centro pupillare O’ rispetto
al centro ottico O di una quantità h, detta decentramento.
L’entità dell’effetto prismatico introdotto è calcolabile con la già illustrata formula
di Prentice
to, misurato in mm, verrà calcolata utilizzando la seconda delle precedenti espres-
sioni.
Ripetiamo adesso la stessa operazione di molatura eccentrica su una lente sferica
negativa (circonferenza tratteggiata nella figura 61) nelle tre sezioni a) Pianoconca-
va; b) Biconcava isoscele; c) Menisco negativa.
Anche in figura 61 il significato di O ed O’ è lo stesso di figura 60 ed anche in questo
caso si sottolinea come siano valide ancora le considerazioni fatte sull’effetto pri-
smatico introdotto al portatore con la molatura eccentrica. Infatti pure stavolta egli
avrà il suo centro pupillare (considerare la circonferenza non tratteggiata di figura
61) non più coincidente con il centro ottico della lente (circonferenza tratteggiata
di figura 61); analogamente sono altresì valide le formule per il calcolo dell’effetto
prismatico e del decentramento viste in precedenza.
È fondamentale notare che la conseguenza della molatura eccentrica si differenzia a
seconda che la lente sia positiva o negativa:
– in lenti positive, l’effetto prismatico (il prisma) introdotto ha la base dalla parte
della molatura (dove la molatura è maggiore), quindi l’immagine percepita, spo-
standosi verso l’apice del prisma, verrà deviata dalla parte opposta a quella dove
è stata molata la lente;
– in lenti negative, l’effetto prismatico introdotto ha la base dalla parte opposta a
quella della molatura (dove la molatura è maggiore), quindi l’immagine percepita,
spostandosi verso l’apice del prisma, verrà deviata dalla parte in cui è stata molata
la lente.
Se ad esempio molassimo temporalmente una lente positiva otterremmo un prisma
con base temporale e le immagini sarebbero deviate nasalmente, mentre se la lente
è negativa otterremmo un prisma con la base nasale e l’immagine sarebbe deviata
temporalmente; analogamente molando nasalmente una lente positiva otterremo un
prisma con la base nasale con immagine spostata temporalmente mentre se la lente è
negativa otterremo un prisma con base temporale ed immagine spostata nasalmente.
Soffermiamo ulteriormente l’attenzione sulle figure 60 e 61, che riguardano la mo-
latura eccentrica.
Abbiamo detto che, nel caso di lente positiva, la base dell’effetto prismatico si collo-
ca dalla parte della molatura e quindi, dal momento che nell’esempio la molatura è
stata eseguita a 90° in basso, l’effetto prismatico ha asse verticale con base bassa; nel
caso di lente negativa la base dell’effetto prismatico si posiziona dalla parte opposta
a quella della molatura e quindi, dal momento che nell’esempio la molatura è stata
eseguita a 90° in basso, l’effetto prismatico ha asse verticale con base alta. Possiamo
riassumere tutto quanto detto nella figura 62.
Se consideriamo convenzionalmente O’, centro pupillare, come punto fisso, mentre
il centro ottico O si sposta rispetto ad esso, allora i casi a), b), c), relativi alla lente
positiva, della figura 62, evidenziano la considerazione che: nella lente positiva il
centro ottico O si “sposta”, rispetto ad O’, verso la base dell’effetto prismatico introdotto
nella lente; i casi a’), b’), c’), della lente negativa, ci illustrano invece che nella lente
negativa il centro ottico O si “sposta”, rispetto ad O’, verso il vertice dell’effetto prismati-
co introdotto (oppure dalla parte opposta alla base).
Ripetiamo che quanto affermato è un criterio puramente convenzionale, determi-
nato dalla consuetudine di considerare il punto O’ come punto di riferimento; nella
realtà è il centro ottico che non si sposta nella lente, quando questa viene molata
eccentricamente.
Da quanto sopra esposto, il lettore avrà capito che, a differenza di quello che si è
detto per le lenti prismatiche per costruzione in cui l’effetto è inserito in fase di
costruzione della lente escludendo l’intervento dell’Ottico, la molatura eccentrica
è una operazione di pura pertinenza professionale dell’Ottico, il quale, avvalendosi
della tecnologia tradizionale (mola manuale) o più evoluta (mola automatica), ese-
guirà questo particolare tipo di lavorazione nella lente.
Concludiamo il paragrafo fornendo la dimostrazione di quanto asserito sul rapporto
tra decentramento ed entità di molatura maggiore.
Consideriamo la figura 63, dove con linea tratteggiata si è indicata la lente iniziale
(prima della molatura), con tratto continuo quella finale (dopo la molatura) e con O’ i
rispettivi centri geometrici (prima e dopo la molatura).
Inoltre nella figura 63 abbiamo indicato con:
– O’i = centro geometrico della lente iniziale (prima
della molatura); esso coincide con il centro ottico
della lente
– O’f = centro geometrico della lente finale (dopo la
molatura); esso coincide con il centro pupillare del
portatore, vale a dire da lì passerà l’asse visivo di
quest’ultimo
– h = decentramento, ossia spostamento tra O’i(O) ed O’f
– AO’i = r = raggio della lente iniziale Figura 63. Decentramento (h) e
– AB = φi= 2r = diametro lente iniziale relativa molatura (BB’)
2. Ottica geometrica 59
Completando il paragrafo sulla teoria delle lenti prismatiche, forniamo adesso alcu-
ni esempi relativi a lenti prismatiche, suddividendo i vari casi che si possono presen-
tare in relazione alla correzione ottica del paziente:
a) correzione prismatica in lente monofocale (sferica)
sia data la seguente prescrizione O.S.S.T. Sf +4,00 D
1 Δ a 45° B.N.
calcolare il decentramento necessario per ottenere l’effetto prismatico richiesto.
Il decentramento è grandezza vettoriale (par. 2.15) per cui, per determinarlo in modo
univoco, dobbiamo individuarne modulo, direzione e verso.
Per quanto concerne il modulo, dalla formula inversa della relazione di Prentice (par.
2.15 ), si ha:
Figura 64.
a) Molatura eccentrica di una lente di ricetta O.S.S.T. Sf +4,00; 1Δ a 45° B.N.
b) Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.S.S.T. Sf +4,00; 1Δ a 45° B.N.
2. Ottica geometrica 61
Figura 66. a) Molatura eccentrica di una lente di ricetta O.S.S.I. Sf +5,00 cil -6,50 ax 35°;
4mm a 35° lato temporale. b) Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.S.S.I. Sf
+5,00 cil -6,50 ax 35°; 4mm a 35° lato temporale
Figura 67. a) Molatura eccentrica di una lente di ricetta O.S.S.I. Sf +5,00 cil -6,50 ax
35°; 2Δ a 125° B.T. b) Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.S.S.I. Sf +5,00
cil -6,50 ax 35°; 2Δ a 125° B.T.
Figura 68. Lettura al frontifocometro della lente di ricetta O.D. Sf +3,00 cil -2,00 ax 50°;
2Δ a 80° B.N.
tramento non è nota, in quanto si tratta di una direzione qualunque (non principale);
pertanto l’uso diretto della relazione di Prentice non è possibile.
Questa volta la metodologia di risoluzione richiede la scomposizione del vettore dato
(effetto prismatico o decentramento) lungo le direzioni principali della lente (in cui
si conosce il potere) e successivamente applicare la legge di Prentice due volte, una
per ciascuna direzione principale.
Il metodo è però complesso e richiede conoscenze di trigonometria che esulano dallo
scopo di questo testo.
Nell’esempio che segue, che rientra nel caso c), non sarà effettuato quindi lo svolgi-
mento analitico ma sarà riportata semplicemente la lettura al frontifocometro della
lente (figura 68).
– è data la seguente prescrizione O.D. Sf +3,00 cil -2,00 ax 50°
2 Δ a 80° base nasale (B.N.)
2. Ottica geometrica 64
In precedenza, per esprimere il potere nominale di una lente sottile immersa in aria,
abbiamo calcolato il potere dei diottri sferici che la costituiscono, utilizzando la con-
venzione gaussiana, vedi par. 2.8.4.
Con questa convenzione, lo ricordiamo, il potere F di una superficie rifrangente di
forma sferica si valuta con la formula
Nella realtà però, soprattutto nell’ambito delle lenti oftalmiche, viene adottata una
convenzione diversa, detta convenzione delle lenti o convenzione degli Ottici.
In questa nuova convenzione, partendo dal presupposto che la lente è immersa in
aria, nella frazione che esprime il potere del diottro, al numeratore scriveremo sem-
pre per primo l’indice di refrazione assoluto della lente n’1, ossia useremo l’espres-
sione:
per calcolare il potere sia della prima che della seconda faccia (n’1 è l’indice della
lente); al denominatore, come ovvio, c’è il raggio, il cui segno questa volta viene at-
tribuito secondo il seguente criterio:
– r > 0 (positivo) quando la superficie è convessa
– r < 0 (negativo) quando la superficie è concava.
Riportiamo un esempio per chiarire meglio quanto detto al riguardo delle due con-
venzioni; consideriamo la lente biconvessa di figura 69 immersa in aria e di indice di
refrazione assoluto n’1 = 1,5 ed i cui i raggi delle facce (diottri) hanno rispettivamen-
te i valori assoluti, | r1 | = 10 cm ed | r2 | = 20 cm.
3.1 Introduzione
L’acuità visiva, genericamente, viene intesa come la capacità del sistema visivo
legato alla funzionalità della retina centrale (fovea) di distinguere delle lettere più o
meno piccole su una tavola ottotipica. Considerando occhi privi di qualsiasi tipo di
patologia, la misura dell’acuità visiva ci può indirettamente informare sulla qualità
dell’immagine retinica ed è per questo motivo che normalmente per misurarla
vengono utilizzati degli stimoli bidimensionali (lettere, numeri, figure ecc.) che
presentano un alto contrasto rispetto allo sfondo. L'acuità visiva è inversamente
proporzionale alla dimensione angolare del più piccolo stimolo percepito e viene
abitualmente quantificata dall'inverso dell'angolo visuale considerato. Gli scopi per
Fig.2: Punto nero su sfondo chiaro per la valutazione del minimo visibile
MAR
dettaglio
caratteristico
E
H D 8 6 E
E
Iperacuità: è il minimo spostamento spaziale percepibile tra due linee (Fig.5) o per
meglio dire tra due figure, cioè rappresenta la capacità di allineare due linee tra di
loro.
Fig.5: Iperacuità
Per quanto riguarda la progressione nei valori angolari e quindi nelle dimensioni
x notazione decimale
dei simboli vengono utilizzati vari criteri:
x scala di Monoyer
3. Acuità visiva 70
Con questo sistema l’acuità visiva si esprime mediante il reciproco del minimo
angolo di risoluzione (MAR) HVSUHVVR LQ SULPL G¶DUFR Į'); il risultato di tale
inverso prende il nome di “Notazione Decimale”. Vediamo un esempio:
1
Į
1’ AV 1 => AV espressa in notazione decimale (AVnd)
1
Į' = 1’ AVnd = 1 Į' = 1,1’ AVnd = 0,9 Į' = 1,25’ AVnd = 0,8
Į' = 1,42’ AVnd = 0,7 Į' = 1,66’ AVnd = 0,6 Į' = 2’ AVnd = 0,5
Į
¶$9nd = 0,4 Į' = 3,33’ AVnd = 0,3 Į' = 5’ AVnd = 0,2
1
10
AV 10 / 10 => AV espressa in frazione decimale (AVfd)
10
AVnd =1 AVfd =10/10 AVnd=0,9 AVfd =9/10 AVnd = 0,8 AVfd =8/10
AVnd =0,7 AVfd =7/10 AVnd =0,6 AVfd =6/10 AVnd = 0,5 AVfd =5/10
AVnd =0,4 AVfd =4/10 AVnd = 0,3 AVfd =3/10 AVnd = 0,2 AVfd =2/10
AVnd = 0,1 AVfd =1/10
La tavola ottotipica decimale più utilizzata fino a poco tempo fa seguiva la “Scala
Monoyer”, dove i caratteri più grandi sono dieci volte maggiori dei più piccoli; in
tal modo si definiscono dieci righe, in ciascuna delle quali le lettere hanno la stessa
determinata grandezza, o decimi attraverso i quali è possibile quantizzare il visus.
Le righe intermedie, tra quelle contenenti i simboli di grandezza maggiore e quella
contenente quelli di grandezza inferiore, sono di grandezze che rispettano una scala
decimale. In altre parole, vi troviamo 1/10, 2/10, 3/10 e così di seguito fino ad
arrivare a 10/10. La scelta di questi valori non permette un’analisi dell’acuità visiva
3. Acuità visiva 71
con la stessa precisione a tutti i livelli; abbiamo un valutazione molto precisa per
valori di acuità visiva elevata, ma un rilevamento grossolano alle basse acuità
visive. Ad esempio, per leggere la riga successiva a quella di 1/10 il minimo angolo
di risoluzione si deve dimezzare (1/10 = MAR 10’; 2/10 = MAR 5’; la variazione
quindi è del 50%), mentre per leggere la fila successiva a quella di 9/10 è
sufficiente che il MAR si riduca di circa il 10 % (9/10 = MAR 1,1’; 10/10 = MAR
1’).
Nelle tabelle con progressione parageometrica il visus è espresso con una frazione
che segue la legge di Snellen, cioè V=d/D, dove V è il visus, d è la distanza alla
quale viene visto l’oggetto e D è la distanza alla quale lo stesso oggetto viene visto
da un occhio con visus normale. Secondo Snellen un occhio ha una “visione
normale” se è in grado di riconoscere un ottotipo quando questo sottende 5 minuti
d’arco e quindi distingue un singolo tratto della dimensione di 1 minuto d’arco.
Questa unità di misura è uguale alla distanza a cui il test viene eseguito (d) diviso la
distanza a cui il dettaglio della lettera sottende un angolo di 1’ (D) (Fig.4).
d
Frazione di Snellen =
D
x 6 x 20
Scala Metrica Scala Imperiale
10 y 10 y
3. Acuità visiva 72
Una delle percentuali di progressione più utilizzate negli ottotipo con scala
logaritmica è quella nella quale si ha una variazione delle dimensioni del simbolo
del 26 % tra una riga e quella successiva. Sfruttando la proprietà secondo la quale i
logaritmi di una progressione geometrica formano una progressione aritmetica, i
valori di acuità visiva sono stati indicati attraverso il LogMAR, ossia il logaritmo in
base 10 del minimo angolo di risoluzione corrispondente ai livelli inseriti nella
progressione. Considerando valori di MAR compresi tra 1’ e 10’, il LogMAR sarà
compreso tra 0 (Log 1’) ed 1 (Log 10’); come si può vedere in tabella 2, dalla
progressione scelta (ragione 1.26) risultano intervalli di 0,1 unità logaritmiche tra
un livello e l’altro. Si può notare che a valori maggiori di acuità visiva si associano
valori numerici inferiori, fino ad arrivare a LogMAR 0 che sta ad indicare un potere
risolutivo considerato normale; questo inconveniente rende tale unità di misura
poco intuitiva e ne limita la diffusione nella pratica clinica. Per ovviare a questo
inconveniente, la maggior parte dei proiettori di ottotipi di recente costruzione
presentano una progressione di ottotipi che segue le regole della scala LogMAR e
l’acuità visiva continua ad essere indicata in notazione decimale (Tabella 2).
3. Acuità visiva 73
Con questi reticoli andiamo a valutare il potere risolutivo, in quanto per poter
“risolvere” il reticolo (ad es. per indicare l'orientamento delle barre) la distanza tra
due bande nere deve essere maggiore od uguale al minimo separabile. A questo
punto possiamo dire che l’acuità visiva espressa in cicli per grado indica il numero
di cicli massimo che un soggetto può risolvere in una superficie di ampiezza
angolare di un grado. Il collegamento tra i reticoli ed i normali ottotipi si può fare
assegnando al dettaglio caratteristico l’ampiezza di una banda, ossia di metà ciclo.
Ne risulta, ad esempio, che una lettera sarà costituita da 2,5 cicli (Fig.6).
Più alta sarà la frequenza spaziale in cicli per grado minore sarà la dimensione della
letterina e quindi maggiori saranno i cicli per grado più alta sarà l’acuità visiva.
Vediamo ora di stabilire la relazione che lega l’acuità visiva espressa in decimi e
quella in cicli per grado. Per prima cosa dobbiamo sottolineare che un ciclo ha
un’ampiezza pari a due volte quella del dettaglio caratteristico (una striscia nera o
bianca) (Fig. 7).
di 10’; la dimensione angolare del ciclo più piccolo che potrà risolvere sarà D ciclo
Consideriamo ora un soggetto che presenta un’acuità visiva di 1/10, ossia un MAR
Per saper il numero di cicli che può risolvere sarà sufficiente calcolare quanti cicli
da 20’ primi saranno contenuti nello schermo di riferimento (di ampiezza angolare
D schermo
pari a 60’).
D ciclo
60'
Numero cicli per grado = 3c / g
20'
Quindi ogni decimo corrisponde a 3 cicli per grado, per cui dato il valore in decimi
è sufficiente moltiplicarlo per 3 e si ottiene l’acuità visiva in cicli per grado. Al
contrario, dato il numero di cicli per grado basterà dividerlo per 3 e si otterrà
l’acuità visiva espressa in decimi.
Gli stimoli impiegati per l’esame dell’acuità visiva sono numerosi e vengono
chiamati ottotipi; essi possono essere utilizzati per il calcolo del minimo angolo di
risoluzione. Per questo scopo, soprattutto nei bambini, vengono utilizzati ottotipi
facilmente standardizzabili, cioè reticoli e scacchiere oppure figure astratte con una
componente direzionale, come gli anelli di Landolt e le E di Albini (Fig. 8).
I più numerosi sono gli ottotipi che ci permettono di valutare l’acuità visiva
morfoscopica e per questo scopo sono utilizzate lettere dell’alfabeto, numeri e
disegni vari. Questi ottotipi sono molto semplici, anche se richiedono un piccolo
grado di istruzione da parte dell’esaminato. Una cosa da ricordare è che a parità di
grandezza angolare non tutti i simboli dell’ottotipo presentano le stesse difficoltà
(Tabelle 3,4 e 5).
3. Acuità visiva 76
È quindi opportuno che per ogni riga dell’ottotipo ci sia un assortimento di lettere
che comporti in media lo stesso grado di difficoltà, per evitare errori di valutazione
dell’acuità visiva. Le lettere possono essere suddivise in quattro gruppi in funzione
della crescente difficoltà di riconoscimento (Tabella 6).
Fig.10: Lettera in una griglia 5x5, che quindi sottende un angolo visivo di 5D alla distanza d.
Į
C
B
Dalla tangente si potrà poi risalire facilmente all’angolo stesso con l’apposita
tavola trigonometrica o con una calcolatrice (AB/BC e, successivamente, arctg del
risultato ottenuto). In questo modo facendo il rapporto tra l’altezza della lettera e la
sua distanza dall’occhio abbiamo espresso una grandezza angolare in modo lineare.
Poiché l’altezza e la distanza dei simboli, per un certo valore di AV (AV1), sono
direttamente proporzionali se l’ottotipo non è utilizzato alla distanza corretta (D1);
si può, quindi, ricavare il valore effettivo di AV (AV2), ad una distanza diversa
(D2), tramite una semplice proporzione:
AV1 : D1 = AV2 : D2
3. Acuità visiva 78
Esempio:
AV = 8/10, con un ottotipo costruito per 6 metri, ma posto a 3 metri. A quale reale
AV corrisponde (AV2)?
0,8 : 6 = AV2 : 3
Quindi AV2 = 0,4 o meglio 4/10.
H/5 = h
KG Į
DUFWJKG Į
Į. Į¶
Į¶ $9
Più precisamente:
1
§ h·
AV
¨ arctg 60
© d ¹̧
Esempio:
H = 75 mm, quindi h = 15 mm
d = 5 metri => 5000 mm
$9 Į¶
Į¶ Į
K WJĮ. d
H=5.h
§ 1 ·½
In generale:
®tg ¨ ¾d 5
¯ © AV 60 ¹̧¿
H
Esempio:
AV = 10/10
d = 5 metri quindi 5000 mm
3. Acuità visiva 79
§ ·½
°° ¨ 1 ¸°°
H ®tg ¨ ¸¾ 5000 5 H § 1 ·½
®tg ¨ ¾ 5000 5 H ^tg 0.01666` 5000 5
° ¨¨ 10 60 ¸¸° ¯ © 1 60 ¹̧¿
¯° © 10 ¹¿°
H a 7,5 mm.
Tanti sono i fattori che, come già accennato, influenzano l’acutezza visiva e alcuni
di essi vale la pena conoscerli.
Alfabetizzazione: innanzi tutto, siccome normalmente le tavole ottotipiche
riportano lettere dell’alfabeto, interviene il livello culturale e intuitivo
dell’osservatore; ad un letterato sarà più facile, infatti, distinguere e riconoscere le
lettere dell’ottotipo anche se non viste perfettamente, poiché la sua esperienza
visiva facilita l’intuizione del simbolo grafico in base alla sua forma. Un ottotipo
con lettere arabe o ideogrammi cinesi, a parità di grandezza angolare degli elementi
caratteristici, per un paziente occidentale è meno "facile" di un ottotipo con lettere
dell'alfabeto latino.
Luminanza: è un altro fattore di notevole importanza; L'acutezza visiva è
tipicamente legata alla attività dei coni. Se la illuminazione dell'ottotipo non è
adeguata, l'AV risulterà progressivamente peggiore.
Diametro pupillare: influisce sull’acutezza visiva quando esso è esageratamente
grande o piccolo; se troppo grande, infatti facendo entrare un fascio di luce troppo
grande, indurrà una maggiore influenza delle aberrazioni ottiche dei mezzi oculari;
se invece il diametro pupillare è inferiore a 1.5 mm, i fenomeni di diffrazione
indotti dal bordo pupillare deterioreranno sensibilmente la percezione degli ottotipi.
Inoltre, l'immagine che arriva alla retina potrebbe non essere sufficientemente
luminosa (vedi punto precedente).
Movimenti oculari: come già detto gli occhi non sono mai immobili durante
l’attività visiva. Se i movimenti oculari sono però eccessivi, essi influiscono
sull’acutezza riducendo la nitidezza della visione, come potrebbe succedere
nell’impressionare una foto di un oggetto in movimento.
Trasparenza e qualità dei mezzi diottrici dell’occhio: sono ulteriori caratteristiche
che influenzano l’acutezza visiva; Mezzi poco trasparenti riducono la luminosità
dell'immagine e il suo contrasto (vedi sopra).
Soglia di contrasto: valutando l’acutezza visiva attraverso l’uso di disegni o lettere
diventa molto importante anche il contrasto che tali simboli hanno con lo sfondo;
maggiore sarà il contrasto, migliore sarà l’acutezza visiva. Negli ottotipi
normalmente in uso il contrasto è altissimo, almeno 95%. Ma esistono anche
ottotipi a basso contrasto, utilizzati per misurare il visus in condizioni di scarsa
illuminazione (guida notturna). Indirettamente in questo aspetto rientra quindi
anche il corretto utilizzo delle tavole ottotipiche retroilluminate o degli ottotipi a
proiezione che debbono essere sempre mantenuti in ordine e in efficienza nel
rispetto delle caratteristiche ottiche sotto le quali sono stati progettati.
Caratteristiche ottiche delle lenti utilizzate in un occhiale: trovano a ragione una
loro collocazione tra i fattori che influenzano la qualità e talvolta la quantità
dell’acutezza visiva. Come ben sappiamo, infatti, le lenti da occhiali hanno diverse
caratteristiche ottico-geometriche legate alla loro trasparenza, al loro assorbimento
3. Acuità visiva 80
3.6 Curiosità
Nelle prime fasi della vita, l'acutezza visiva aumenta con il progredire dell’età.
Sotto le sei settimane il visus è limitato al solo riconoscimento di semplici punti o
angoli; a 10 settimane il bimbo inizia a riconoscere gli occhi della persona che gli
sta davanti e ad una distanza ravvicinata; a 12 settimane inizia a percepire oltre gli
occhi anche i lineamenti del viso; a 20 settimane aggiunge alla sua percezione
visiva anche la bocca altrui; a 24 settimane definisce meglio i dettagli dei visi, ma
non riesce ancora a distinguere gli uni dagli altri, cosa che inizia a fare a 30
settimane. Nei primi 6 mesi si completano proprietà importanti del sistema;
l’esperienza visiva è particolarmente delicata. In questa fase i danni maggiori
possono, per esempio, derivare da vizi di refrazione come la miopia elevata
monolaterale, l’astigmatismo o l’ipermetropia, non individuati quindi non corretti,
e che dunque non permettono al bambino una normale esperienza visiva. Al di
sotto dei 3 anni, 3 anni e mezzo il visus monoculare raramente supera i 5/10
quando si usano stimoli come simboli o figure. Nella tabella n.7 vengono riportate
schematicamente le fasi più importanti dello sviluppo visivo del bambino dalla
nascita ai 4 anni.
4. Occhio schematico 81
L’occhio è costituito da una serie di diottri con raggi di curvatura non del tutto
uguali sui vari meridiani, oltre a questo gli indici di refrazione possono essere
diversi da persona a persona e può capitare che variano col passare dell’età anche
nello stesso individuo. Considerando un occhio come un sistema di diottri sferici
centrati su un unico asse, è conveniente avere la possibilità di rappresentarlo in una
forma grafica semplice, in modo da semplificare eventuali calcoli riguardanti
l'occhio stesso.
A B
R4 -5,33 mm
R3 10,00 mm R3 5,33 mm
R4 -6,00 mm
R2 6,8 mm R2 6,8 mm
R1 7,7 mm R5 7,91 mm R1 7,7 mm R5 2,65 mm
vitreo vitreo
spessore cornea n = 1,336 spessore cornea n = 1,336
0,5 mm 3,1 mm 0,5 mm 2,7 mm
3,6 mm 4,00 mm
R6 -5,76 mm
cornea cornea R6 -2,65 mm
n = 1,376 n = 1,376
cristallino cristallino
acqueo n = 1,41 acqueo n = 1,41
n = 1,336 n = 1,336
24,2 mm 24,2 mm
In figura 1A e B:
R1(A) => raggio curvatura faccia anteriore cornea
R2(A) => raggio curvatura faccia posteriore cornea
R3(A) => raggio curvatura faccia anteriore della corticale cristallino
R4(A) => raggio curvatura faccia posteriore della corticale cristallino
R5(A) => raggio curvatura faccia anteriore del nucleo cristallino
R6(A) => raggio curvatura faccia posteriore del nucleo cristallino
1,3375
R1 R2 R3 R4
1,3333 1,416 1,3333
A A’ B B’ F
Disaccomodato Accomodato
Raggi curvatura (mm)
R1 7.80 7.80
R2 6.60 6.60
R3 10.00 6.00
R4 -6.00 -5.50
Distanza/spessore (mm)
A'B 3,60 mm 3,60 mm
AA' 0,50 mm 0,50 mm
BB' 3,60 mm 3,60 mm
AF 24.00 mm 24.00 mm
n2 n1
P(dt )
R ( m)
La cornea fornisce circa i 2/3 del potere complessivo al sistema diottrico oculare; il
suo indice di refrazione è rappresentato dallo stroma, n = 1,3375, ed i suoi raggi di
curvatura sono per la faccia anteriore 7,80 mm e per la faccia posteriore 6,60 mm;
oltre a questo ricordiamo che la superficie posteriore della cornea è a contatto con
l’umor acqueo che presenta un indice di refrazione pari a 1,3333. Applicando la
formula alle superfici refrattive della cornea risulta che:
§e·
P P1 P2 ¨ P1 P2
© n ¹̧
dove e è lo spessore della lente al centro e n è il suo indice di refrazione.
Quindi, considerando lo spessore corneale centrale 0,5 mm, avremo:
Il cristallino risulta essere molto simile ad una lente biconvessa anche se le due
facce che lo compongono non sono perfettamente uguali, avendo quella anteriore
un raggio di curvatura di 10,00 mm e quella posteriore di 6,00 mm; il suo indice di
refrazione non è costante dal centro alla periferia, ma per i nostri scopi verrà
considerato 1,416, mentre lo spessore al centro è di 3,6mm. In funzione di tali
valori per il potere del cristallino avremo:
§ 0,0036 ·
Pcristal. 8,27 13,78 ¨ 8,27 13,78
© 1,416 ¹̧
21,76dt
60,40dt # 60,00dt
§ 0,005746 ·
42,64 21,76 ¨ 42,64 21,76
© 1,333 ¹̧
Pocchio
Se invece che considerare i due piani principali prima citati consideriamo un unico
piano principale a distanza intermedia tra i due, questo si troverà ad una distanza di
circa 1,8 mm dalla superficie anteriore della cornea e ad una distanza di circa 22,2
mm dal polo posteriore. Se calcoliamo la focale oggetto e la focale immagine del
nostro occhio vedremo che la seconda corrisponde, considerate le dovute
approssimazioni, alla distanza piano principale-retina (dpp/r).
4. Occhio schematico 84
0,01667 m 16,67 mm
n1 1
f ( f .oggetto)
P 60
n2 1,3333
f ' ( f .immagine) 0,0222m 22,2mm
P 60
PP
n=1,000
n=1,333
F F’
f=-16,67mm f’=dppr=22,22mm
60,00 dt
Per un occhio emmetrope quindi più il bulbo sarà corto maggiore sarà la sua
potenza e viceversa.
Esempio:
Quanto deve essere la dpp/r di un occhio con P=62,00 dt affinché possa essere
emmetrope?
4. Occhio schematico 85
n2 1,3333
f ' ( f .immagine) 0,0215m 21,5mm
P 62
f’ z d pp/r
Un occhio ametrope presenta un errore refrattivo o vizio refrattivo, che può essere
sferico o astigmatico. L’ametropia sferica si ha quando il sistema refrattivo oculare
presenta simmetria di rivoluzione attorno al suo asse, mentre quella astigmatica
quando il sistema non presenta simmetria di rivoluzione. In questa fase
x
potenza dell’occhio è 60 dt.
Rifrattive: quando la dpp/r è 22,2 mm, cioè uguale all’occhio schematico, e la
lunghezza focale è diversa da 22,2 mm, cioè la potenza dell’occhio è diversa
da 60 dt.
x
diottrici oculari,
da curvatura: cornea e cristallino possono avere delle curvature tali da far
variare il potere del sistema occhio.
g
:D h:d
2
da cui:
§g·
¨ d
h © 2 ¹̧
D
Esempio (1): un soggetto con una ametropia di +4,00 dt (miopia) presenterà una
potenza totale dell’occhio di 64 dt. Se consideriamo un diametro pupillare pari a 6
mm, quanto sarà il disco di diffusione sulla retina?
Per prima cosa dobbiamo calcolare la focale dell’occhio (f’) che sarà uguale a 20,8
mm poiché:
n2 1,3333
f ' ( f .immagine) 0,0208m 20,8mm
P 64
quindi h
3 1,4 0,22mm
19
d = dpp/r - f’ => 22,2 – 23,8 = -1,6 mm per il calcolo possiamo utilizzare questo
valore come positivo
g/2 = 3 mm
4. Occhio schematico 88
quindi h
3 1,6 0,218mm
22
5.1 Introduzione
In caso di ametropie sferiche l’occhio presenta un eccesso o un difetto di potere.
Come abbiamo calcolato nel quarto capitolo, l’occhio emmetrope con una distanza
piano principale/retina di 22,2 mm ha un potere di 60,00 dt, mentre il potere di un
occhio ametrope si può calcolare con la seguente formula:
P. occhio ametrope = P. occhio emmetrope + Ametropia
n2 n2
Poiché f ' => Po.e. e quindi:
P f'
A
n2
P.o.a.
f'
“Miopia” deriva dalla parola greca che significa "occhio strizzato, contratto", in
quanto il soggetto miope tende a strizzare gli occhi nel tentativo di mettere a fuoco
le immagini sulla retina. Affinché l’occhio miope possa avere l’immagine nitida
sulla retina è necessario che la radiazione ottica non provenga dall’infinito, ma da
una distanza finita che varia al variare dell’entità della miopia. Questo concetto
trova spiegazione nel fatto che l’oggetto e l’immagine relativa sono punti
coniugati. La miopia è l’ametropia più studiata, probabilmente perché riveste
un’importanza sociale rilevante, in quanto, anche valori bassi (ad es. Am. = +0,50
dt) limita la visione. Generalmente può insorgere nelle varie fasi della vita,
sebbene con eziologia diversa. Tuttora non se ne conosce con certezza il
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 90
COL 1A1(Collagen Type I Alpha 1)localizzato sul braccio lungo del cromosoma
17q21.3-22.1, genera istruzioni per la produzione di collagene tipo I, che provvede
a rinforzare e sostenere molti tessuti umani, cartilagine, osso, tendini, pelle e
sclera; le molecole di procollagene vengono processate da enzimi della matrice per
creare collagene maturo, riarrangiandosi in lunghe e sottili fibrille che formano
interazioni stabili di cross-linking negli spazi extracellulari, realizzando fibre molto
resistenti.
RaSGRF1rs 2969336 (CC vs CG+GG, p = 0.03) è associato a miopia elevata nei
modelli recessivi in eterozigosi (CG vs GG, p = 0.04), ma non in altri modelli.
RaSGRF1, studiato al Kings College di Londra e confermato all’Erasmus Medical
Center di Rotterdam su oltre 13.000 soggetti, è un Ra specific guanine e
nucleotide-releasing factor 1, presente nella retina e nei neuroni dell’ippocampo,
fondamentale per la funzione retinica e per la memorizzazione delle immagini,
agisce con una cascata di reazioni bilanciate dello switch del complesso rasGTP
(attiva i segnali a valle) e rasGDP (inibisce i segnali a valle) e correla con lo
sviluppo miopico.
Secondo Peduzzi (2000) la miopia semplice è trasmessa soprattutto con modalità
autosomica dominante, fortemente condizionata da fattori ambientali (prolungato
sforzo accomodativo, particolarmente in ambiente mesopico), come adattamento
migliorativo per l’aumentata richiesta di performance per vicino correlato alla
scolarizzazione: correla infatti con un incremento miopico da 0% nella generazione
‘’wild’’ analfabeta al 30% in F 3 alfabetizzata, un tempo troppo breve per un
possibile ruolo di variazione genetica, pur in presenza di significative variazioni
etniche, ma esprime un vantaggio per la visione per vicino perché permette di
economizzare in termini di energia e migliorare in termini di rendimento; la miopia
patologica viene trasmessa con modalità autosomica recessiva, meno influenzata
da fattori ambientali. Balacco Gabrieli ha individuato nel cross-talk retina/asse
diencefalo-ipofisario una possibile componente neuroendocrina.
x miopia stazionaria: generalmente di tipo lieve (1.50 - 2.00 dt) che non
1. in base alle modalità della progressione della miopia (F.C. Donders, 1864)
aumentare nel corso della vita (es: 3.00 dt a 10 anni, 7.00 dt a 20 anni, 9.00 dt
a 70 anni)
2. in base alle alterazioni indotte dalla miopia (Duke - Elder, 1949)
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 92
x miopia semplice: ametropia nella quale non vengono riscontrate alterazioni del
fondo oculare; di solito insorge entro i 4 e 7 anni d’età e la sua progressione
sistema diottrico oculare anomalo; questa a sua volta può essere ulteriormente
suddivisa in:
I. da indice: quando è dovuta ad una alterazione dell’indice di refrazione di
uno o più mezzi diottrici oculari (es. cataratta nucleare)
II. da curvatura: quando è dovuta ad una alterazione della curvatura di uno o
più mezzi diottrici oculari
III. da posizione: causata principalmente dalla profondità della camera
anteriore, la quale dipende dalla posizione del cristallino rspetto agli altri
mezzi diottrici oculari
correlazione tra potenza del sistema e lunghezza del bulbo, pur avendo
entrambi i parametri valori nella normalità; fanno parte di questa categoria
risulta molto lontana dai valori medi (> 32 mm) associata a tutta una serie di
complicazioni patologiche del fondo oculare
x
normale variazione biologica di una componente fisiologica
teoria dell’uso-abuso: la miopia è vista come un adattamento ad una situazione
x
di uso eccessivo della visione da vicino
teoria dell’emmetropizzazione: quando il processo di emmetropizzazione è
disturbato da un feedback negativo che influenza il processo di messa a fuoco,
può manifestarsi miopia
x
6. in base all’età di insorgenza della miopia (Grosvenor, 1987)
miopia congenita: nonostante molti bambini nascano miopi questa
classificazione include solo quelli in cui la miopia persiste durante l’infanzia
x
ed è presente all’inizio della scuola (circa il 2%)
miopia ad insorgenza precoce o giovanile (youth onset): si evidenzia durante il
periodo di tempo compreso tra i 6 anni e tutta l’adolescenza (20 anni); durante
x
questo periodo la percentuale cresce dal 2% a 6 anni fino al 20% a 20 anni
miopia ad insorgenza adulta precoce (early adult onset): fa la sua comparsa nel
x
periodo che va dai 20 ai 40 anni e la percentuale sale al 30%
miopia ad insorgenza adulta tardiva (late adult onset): si presenta dopo i 40
anni e la percentuale tende ad aumentare durante gli ultimi anni di vita.
Invece l’operatore come segni può notare la tendenza del soggetto a strizzare le
palpebre, una certa midriasi e, nei casi di miopia più elevata, esoftalmo (eccessiva
sporgenza dell’occhio verso l’esterno). Altresì, in caso di miopia elevata e di
eccessivo allungamento assiale, possono essere più facilmente presenti alterazioni
del fondo oculare, evidenziabili con un esame oftalmoscopico.
f’ > d pp/r
F’
x congenita,
L’ipermetropia può essere suddivisa in:
x acquisita,
x fisiologica (massimo 0,50 dt).
L’ipermetropia congenita è presente fin dalla nascita e generalmente perdura
durante i primi 6-7 anni di vita, successivamente invece può manifestarsi una
riduzione del difetto grazie all’allungamento assiale del bulbo dovuto
all’accrescimento, che addirittura può andare a sfociare in miopizzazione.
L’ipermetropia acquisita invece si può manifestare in qualunque momento
nell’arco della vita, in particolare dopo i 45 anni, a causa della riduzione
dell’accomodazione. Il soggetto ipermetrope non corretto compie costantemente un
determinato sforzo accomodativo che gli occorre per mettere a fuoco gli oggetti
all’infinito. Inoltre, nella visione a distanza finita (all’interno dei 6 metri), lo sforzo
accomodativo risulta essere maggiore rispetto al soggetto coetaneo emmetrope
della quantità dell’ametropia stessa; quindi tale sforzo aumenta in proporzione
diretta con l’ipermetropia da compensare e la distanza dell’oggetto osservato. A
causa di questa eccessiva attività il muscolo ciliare del giovane ipermetrope
acquista un determinato tono fisiologico il quale fa si che una certa quantità di
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 95
x
L’ipermetropia può essere classificata, in base alla sua entità, in:
x
bassa, fino alle 3,00 dt
x
media, tra le 3,25 e le 5,00 dt
elevata, maggiore alle 5,00 dt.
nella quale i meridiani principali non sono ortogonali tra loro; sarebbe più
preciso parlare di situazione in cui il sistema diottrico oculare presenta delle
irregolarità di curvatura o di distribuzione di indice (non omogeneità). A volte
le irregolarità sono così marcate, come nel cheratocono avanzato, che non
possiamo neanche parlare di meridiani principali; in questi casi non sono
presenti due linee focali ed ovunque si sezioni il fascio rifratto si trovano
figure di diffusione irregolari. Mancando di regolarità l’unica possibilità per
compensare in modo soddisfacente questo tipo di astigmatismo è l’utilizzo
delle lenti a contatto fisicamente rigide, le quali fanno si che si formi un
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 98
curvo di quello orizzontale; in questo caso la focale orizzontale sarà più vicina
x cefalea,
x bruciore agli occhi e lacrimazione,
Profilo enzimatico.
MMPs, coinvolte nella degradazione di fibrille collagene denaturate, sono
iperespresse in tutte le strutture corneali in CC. MMP-1, iperespresso insieme ad
induttore di matrice extracellulare CD147(EMMPRIN), glicoproteina di superficie
cellulare nota per la capacità di indurre produzione di MMP nei fibroblasti a
seguito di interazione epitelio-stroma, degradano la fibronectina, le glicoproteine
di membrana ed il collagene I e III; la gelatinasi MMP-9 degrada le fibrille
collagene denaturate nelle patologie con componente infiammatoria. L’incremento
di MMP-14 in epitelio e stroma condiziona l’iperespressione di gelatinasi A
(MMP-2) che attiva la digestione delle lamelle di collagene IV e di MMP-14: la
presenza di questi enzimi è interpretata come segno di deficit di cicatrizzazione.
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 101
Stress ossidativo.
Neutralizzare i radicali liberi dell’ossigeno (ROS) e gli ossidanti continuamente
prodotti dagli ultravioletti ed i cataboliti cellulari è un compito rilevante del
‘sistema cornea’; i fattori protettivi sono rappresentati dalla superossidodismutasi
(SOD), antiossidanti a basso peso molecolare come l’acido ascorbico, la ferritina,
il glutatione e ad alto peso molecolare come catalasi e glutatione perossidasi. La
valutatione delle componenti totali consente di stabilire l’indice di stress
ossidativo, che, qualora aumentato, risulta fattore predisponente al CC ed alla sua
progressione. Nel CC il contenuto di glutatione è ridotto, ciò che induce accumulo
di aldeidi e perossinitriti con effetto citotossico; la iperregolazione di IL1-alpha
riduce la sintesi di SOD, alterando la barriera antiossidante, mentre
l’iperespressione di catepsina induce produzione di perossido di idrogeno (H2O2).
L’architettura stromale è destrutturata da un basso livello di inibitori tessutali delle
MMP (TIMP), TIMP-1che ha azione antiapoptotica e da alti livelli di TIMP-3 che
ha azione proapoptotica. Lo squilibrio verso TIMP-3 comporta incremento della
apoptosi dei cheratociti. Una correlazione tra progressione del CC e lo stato di
infiammazione sistemica può essere evidenziata valutando il rapporto
neutrofili/linfociti (NLR), maggiore nei casi con progressione rispetto ai casi
stazionari o frusti.
Una intensa attività proteolitica con denaturazione del collagene è un fattore di
accelerazione della progressione: se ne può trovare riscontro nelle lacrime di CC
evolutivo, insieme a incremento di catepsina B, proteasi lisosomiale che degrada le
proteine della matrice e a decremento di cistatine (gruppo di inibitori della cisteina
proteasi, espresso dal gene CST3).
Si può concludere che ci sono evidenze sufficienti per confermare che tra i fattori
ambientali lo sbilanciamento tra citochine infiammatorie, proteasi e loro inibitori,
come anche radicali liberi e ossidanti gioca un ruolo chiave nella patogenesi del
CC.
Considerazioni genetiche.
Benchè l’etiologia rimanga ambigua e multifattoriale con influenze ambientali,
soltanto recentemente ha visto sciogliere alcuni enigmi genetici ed emergere
invece l’evidenza dell’iperespressione di mediatori infiammatori nelle lacrime
(Gordon-Shaag et al. 2015), ciò che riporta all’attenzione la sindrome di Lodato
(Frezzotti – Guerra 2006).
Sono documentate sia la trasmissione autosomica dominante che recessiva, con 19
loci di possibili mutazioni, ciò che indica la eterogeneità genetica della patogenesi
del CC.
Tra questi, gli studi di linkage hanno evidenziato loci in cromosoma 5q21.2 e
5q32-33; 14q11.2; 16q22.3-q23; 1p36.23-36.21 e 8q13.1-q21: ma non sono state
identificate mutazioni nei 6 geni candidati espressi nella cornea. Una mutazione di
15q22-q25, in microRNA (miR-184) associa CC e cataratta congenita e secondo
Gordon-Schaag potenzialmente correla piuttosto con quest’ultima. In un modello
5. Ametropie sferiche ed astigmatismo 102
Fig.1: Variazione dell’angolo tra gli assi visivi con un oggetto in avvicinamento
Questi due processi sono conosciuti come accomodazione, variazione del potere
refrattivo degli occhi, e convergenza, aumento dell’angolo formato tra gli assi
visivi (se l’angolo tra gli assi visivi diminuisce il processo prende il nome di
divergenza). La sinergia che si crea tra accomodazione e convergenza, oltre al
restringimento del diametro pupillare, nella visione per vicino è stato definito
“complesso della visione da vicino”. L’accomodazione è il meccanismo autonomo
dell’apparato visivo che consiste nella capacità del cristallino di modificare il suo
potere refrattivo tramite il muscolo ciliare che determina un cambiamento nella
forma della lente, in modo da adeguare la propria visione alle varie distanze di
fissazione dall’infinito, alle distanze intermedie fino a quelle molto ravvicinate.
Queste variazioni permettono all’occhio di mantenere l’immagine retinica nitida
quando l’oggetto fissato si sposta tra Punto Prossimo e Punto Remoto di visione
nitida (Fig.2). Lo stimolo all’accomodazione è l’immagine retinica sfuocata.
È comunemente accettato che l’organo visivo si è evoluto più di una volta, a partire
dal semplice percettore di onda elettromagnetica del Trilobitanel Cambriano
Inferiore (400–500 milioni di anni), occluso da calcite semitrasparente e dal
percettore della Fenestraria rhoparophylla, sepolta nella sabbia desertica per
risparmio termico con “l’occhio vegetale” capace di sintesi clorofilliana, poi
nell’occhio “semplice” dei molluschi e dei vertebrati e nell’occhio composto degli
artropodi, benché la base monofiletica nei metazoi siano il comune uso della
rodopsina come molecola fotorecettoriale e la presenza del “master control gene
Pax 6” che regola lo sviluppo dell’occhio. Che lo sviluppo strutturale dell’organo
visivo sia mono- o poli–filetico non modifica il fascino della scoperta
dell’esistenza di soluzioni comuni a comuni problemi ottici nell’ambito
dell’evoluzione.
Esempi ne sono il tapetum lucidum, strato riflettente della coroide o l’epitelio
pigmentato della retina, presente in specie notturne per aumentare la possibilità che
l’energia luminosa raggiunga il livello utile di stimolazione dei fotorecettori. È
proprio la familiarità tra l’occhio dei cefalopodi e dei vertebrati che è stata
identificata come evidente esempio di “evoluzione convergente”. In particolare la
presenza di lente sferica/quasi sferica per focalizzare la luce sulla retina.
Il cristallino dei vertebrati è ectodermico, cresce per tutta la vita dall’equatore per
l’attività mitotica che mantiene centralmente il tessuto più anziano, creando una
lente con gradiente di indice refrattivo, ove l’indice aumenta dalla periferia verso il
centro. Nei vertebrati acquatici, come i pesci, il cristallino è l’unico elemento
refrattivo: nei Teleostei ha una relativa lunghezza focale costante, nota come
Matthyssen ratio, di 2.55 (raggio laterale/lunghezza focale); la pupilla è immobile,
l’occhio lavora costantemente a bassi livelli, l’aberrazione sferica non può essere
neutralizzata da opposta aberrazione corneale e poiché i pesci accomodano per
spostamento dell’intero cristallino e non per modifica della sua forma,
l’accomodazione sferica non è interessata. Nei Cefalopodi il cristallino si sviluppa
da due separate metà germinative ectodermiche di differenti dimensioni:
l’anteriore incapsula la primordiale metà posteriore; nella seppia la lente è
composta da proteina solubile S-cristallina e le qualità ottiche del cristallino sono
inferiori a quelle dei Teleostei; la pupilla dei cefalopodi si modifica e in condizioni
fotopiche può proteggere la retina dalla aberrazione della periferia del cristallino.
Nei Teleostei, l’accomodazione è gestita dal muscolo liscio Retractor lentis
innervato da fibre parasimpatiche postganglioniche che sposta il cristallino verso
la retina; la qualità e direzione del movimento sono correlate con l’ambiente
alimentare delle varie specie. Nell’Astronotus ocellatus (Oscar) la lente ruota con
movimenti nasale-temporale e mediale-laterale, separatamente o contemporanei,
per il doppio orientamento delle fibre del Retractor lentis.
Soluzioni estreme di filogenesi accomodativa sono state sviluppate nei pesci di
superficie e di profondità. L’Anableps anableps che nuota a filo d’acqua nelle foci
6. Accomodazione e convergenza 107
Anableps a.
Il punto prossimo (P.P.) è il punto più vicino che l’occhio riesce a vedere nitido ad
accomodazione completamente esercitata. E’ quindi il punto in cui si forma
l’immagine reale oppure virtuale di un oggetto puntiforme monocromatico, posto
idealmente sull’asse ottico e sulla retina in visione fotopica e accomodazione
completamente esercitata.
1
P. A. Am.
P.P.
dove:
P.A. => potere accomodativo Am. => ametropia
Esempio: dati tre soggetti con P.A. = 10,00 dt; 1) emmetrope 2) miope di 4,00 dt
3) ipermetrope di 4,00 dt, a che distanza avranno il punto prossimo?
1
10 0
1) P.P. 0,1metri 10cm
1
10 4
2) P.P. 0,07 metri 7cm
10 4
1
3) P.P. 0,17 metri 17cm
Il punto remoto (P.R.) è il punto più lontano che l’occhio riesce a mettere a fuoco
ad accomodazione completamente rilassata. E’ quindi il punto in cui si forma
l’immagine reale oppure virtuale di un oggetto puntiforme monocromatico posto
idealmente sull’asse ottico e sulla retina in visione fotopica e ad accomodazione
completamente rilassata. Nell’occhio emmetrope il punto remoto si trova
all’infinito (Fig.2A), sempre considerando l’occhio con accomodazione rilassata,
nell’occhio miope si trova a distanza finita davanti l’occhio (Fig.2B), mentre
nell’ipermetrope si trova a distanza finita dietro l’occhio (Fig.2C) (oggetto
virtuale).
Fig.2: Punto remoto di un occhio emmetrope (A), di un occhio miope (B) e di un occhio
ipermetrope (C)
6. Accomodazione e convergenza 111
1
P.R. in metri =
A
Esempi:
0 o PR f
1 1
Ametropia
A 0
2.00dt o PR
1 1
Ametropia 0,5metri
A 2
2.00dt o PR 0,5metri
1 1
2
Ametropia
A
x accomodazione da sfuocamento
Le tre tipologie di accomodazione sono:
x accomodazione prossimale
x accomodazione da vergenze orizzontali.
6. Accomodazione e convergenza 112
Quando l’immagine retinica risulta sfuocata viene sollecitato il cristallino per far sì
che modifichi il proprio potere in modo da determinare un’ottimizzazione della
messa a fuoco e consentire quindi una visione chiara e distinta. La richiesta
accomodativa per una certa distanza può essere così calcolata:
1
ACCdt
xm
dove: Xm => distanza di fissazione in metri.
E
1 dove: E => profondità di fuoco
ACC.effettivadt
xm
Fig.3: Profondità di campo: 1) l’occhio è messo a fuoco sul punto o; 2) la profondità di campo si
estende da A a B, in quanto tra questi due punti il cerchio di diffusione non supera le dimensioni
massime che consentono la formazione di un’immagine riconoscibile.
6. Accomodazione e convergenza 113
ª§ 0,75 · º
r «¨¨ ¸¸ 0,08»
¬© g ¹ ¼
E
g = diametro pupillare.
6.7 Accomodazione prossimale
sull’oggetto da fissare.
La sinergia di accomodazione, convergenza e miosi realizza quella che viene
chiamata la “reazione per vicino”.
Per quanto riguarda la misura del potere accomodativo riportiamo tre metodologie:
1. formula di Hoffstetter, che scaturisce dalle curve standard di Duane,
2. push-up/down,
3. metodo delle lenti negative.
x ottotipo posizionato a 33 cm
Esempio:
6.12 Convergenza
Grado (°)
Il grado è un’unità di misura poco utilizzata, anche se esistono ancora strumenti
con la scala in gradi e cassette di prova che hanno le lenti prismatiche con i valori
in gradi; 1° = 1.75 diottrie prismatiche.
1. Convergenza Tonica
La convergenza tonica (Fig.8) è quella parte di convergenza totale che porta gli
occhi dalla “posizione anatomica di riposo”, generalmente in divergenza, causata
da assenza di stimoli innervativi, alla posizione di foria nella visione da lontano
passando per la “posizione fisiologica di riposo”, posizione di leggera divergenza
che assumono gli occhi in assenza di qualsiasi stimolo visivo che si ha in soggetti
nel sonno profondo. L’entità di questa componente è molto difficile da misurare, in
quanto non si conosce la posizione anatomica di riposo. Il suo livello dipende dal
tono dei muscoli extraoculari.
6. Accomodazione e convergenza 118
2. Convergenza Accomodativa
Quando un soggetto deve accomodare, oltre a questa richiama una certa quantità di
convergenza; tale convergenza prende il nome di convergenza accomodativa
(Fig.9). Il parametro che esprime questa correlazione tra accomodazione e
convergenza prende il nome di rapporto AC/A, cioè quanto il sistema visivo
converge per ogni diottria che accomoda.
4. Convergenza Fusionale
La convergenza fusionale è quella parte di convergenza (o divergenza) che
provvede a correggere gli errori di allineamento degli assi visivi in presenza di uno
squilibrio motorio. La convergenza fusionale è detta anche fusione motoria; è
stimolata dalla disparità delle immagini retiniche ed ha il compito di portare gli assi
visivi dalla posizione di foria al corretto allineamento.
DAVcm DAVcm AM
1
x metri
Esempio:
x Dav = 68 mm / d = 40 cm
Convergenza totale o sforzo in convergenza totale = 6.8 . ǻ
7. Cassetta lenti di prova e forottero 121
La cassetta lenti di prova riunisce una serie di lenti sferiche negative e positive
(generalmente da sf ± 0,25 a sf ± 20 dt), una serie di lenti cilindriche negative e
positive (generalmente da cil ± 0,25 a cil ± 5 dt) (Fig.3), prismi con passi di 1ǻ
JHQHUDOPHQWH ILQL D ǻ e lenti accessorie. Le lenti di prova sono racchiuse in
cerchi di materiale plastico oppure metallico e possono così essere agevolmente
inserite nella montatura di prova. Possono avere superfici pianoconvesse e piano-
concave, bi-convesse e biconcave oppure a menisco. Le lenti oftalmiche utilizzate
per realizzare la maggior parte degli occhiali in commercio sono lenti a menisco e,
7. Cassetta lenti di prova e forottero 122
Accessori a corredo:
Provveduto a questo siamo pronti alla fase vera della rifrazione, visus per lontano e
per vicino, tenendo a mente che negli occhiali di prova le lenti sferiche vanno
posizionate nelle scanalature poste dietro all’anello di montatura, così da riprodurre
la distanza a cui la maggior parte delle ditte produttrici lavorano, misurata nei 12-
14 mm, mentre le lenti cilindriche vanno poste anteriormente, dunque nelle
scanalature dell’anello, così da permettere, attraverso la rotazione dello stesso, di
individuare l’asse esatto di correzione.
7.4 Forottero
Il forottero (Fig.7) fu brevettato nel 1908 con il nome di "Lens System Measuring
the refraction of the eye". I primi esemplari erano composti da una struttura
comprendente quattro dischi dotati di non più di otto lenti ciascuno, che
consentivano un'escursione diottrica da sf -20,00 a sf +15,00 diottrie. In un secondo
tempo vennero inserite al suo interno lenti cilindriche, i cilindri di Maddox
orientabili come asse ed una coppia di prismi di Risley.
Questi ultimi sono due prismi di uguale potere montati su appositi supporti per cui
possono ruotare passando dalla posizione base-base alla posizione base-spigolo.
Oggi il forottero è uno strumento più complesso, dotato di lenti sferiche, lenti
astigmatiche, prismi e lenti accessorie assemblate in un'unica struttura, tenuta
sospesa dinanzi agli occhi del soggetto esaminato. La struttura che contiene le lenti
può essere allontanata ed avvicinata in base alla DAV del soggetto esaminato da 50
a circa 76 mm ad intervalli di 1 mm; un’ulteriore manopola è invece adibita alla
distanza apice-corneale lente (Fig.8).
7. Cassetta lenti di prova e forottero 126
Oltre a questo nei forotteri è presente una livella a bolla che permette, tramite
un’apposita manopola, di mettere lo strumento in posizione perfettamente verticale
e senza rotazioni. A volte però è necessario compensare con una rotazione della
testa dello strumento eventuali vizi di posizione del capo. Normalmente lo
strumento è composto da diversi dischi che contengono lenti:
1. Il primo disco contiene lenti sferiche di valore elevato da +16,75 a -19,00 dt;
2. Il secondo disco contiene anch’esso lenti sferiche positive e negative, ma di
valore più piccolo, da 0,25 a 0,75 dt;
3. Il terzo disco contiene lenti cilindriche negative da 0,25 a 6,00 dt con la
possibilità di essere ruotate per quanto riguarda l’asse;
4. Il quarto disco contiene le lenti accessorie.
manuale, con il vantaggio che l’asse correttore della lente cilindrica ruota insieme
al cilindro crociato stesso.
x
x
nella sua capacità di velocizzare il cambio delle lenti (e quindi l'esame visivo),
nella sua comodità, presentando sempre in ordine e protetti dalla polvere i vari
x
dispositivi ottici di cui è dotato,
nella sua precisione (l'asse e il potere delle lenti astigmatiche possono essere
verificati con particolare esattezza con i cilindri crociati fissati al forottero;
l'asse dei cilindri crociati è collegato, attraverso ingranaggi, alla manopola di
regolazione dell'asse delle lenti astigmatiche inserite, cosicché, durante l'esame
visivo, la rotazione della lente astigmatica inserita provoca automaticamente
x
una rotazione del cilindro crociato posto davanti all'occhio),
nella sua stabilità (il potere prismatico introdotto per quantificare forie e
vergenze attraverso il prisma di Risley è stabile, in quanto è fissato allo
x
strumento; la misura può quindi essere rilevata con maggiore accuratezza),
nella ripetibilità delle modalità di presentazione dei test, che ha indotto vari
autori (Donders, Sheard, Percival, Hofstetter, Fry, Morgan, ecc..) a predisporre
specifiche sequenze standardizzate dell'esame visivo.
x nella forma dello strumento, che nasconde il volto del soggetto esaminato,
impedendo al professionista di osservarne la mimica,
7. Cassetta lenti di prova e forottero 129
x nel limitato diametro dei fori per la visione e nel conseguente ridotto campo
visivo, che riduce significativamente la visione periferica, e spesso induce un
x
"effetto cannocchiale",
nell'impossibilità di verificare con il forottero l'effettivo potere frontale
posteriore della combinazione di lenti realizzata attraverso l'esame visivo nella
sua indipendenza dalla postura del soggetto esaminato (se egli piega
lievemente la testa da un lato durante l'esame la correzione cilindrica risulterà
x
prescritta con un asse errato),
nell’impossibilità di far provare dinamicamente al soggetto la correzione
trovata.
7.8 Oftalmometria
Fig. 12
Si ruota quindi l’arco di 90° rispetto alla prima misurazione, si ricollimano le due
mire facendo in modo che la linea di fede della prima si continui nella seconda e si
procederà quindi alla rilevazione della seconda lettura. Si possono osservare
almeno tre possibilità:
1) le mire restano collimate (Fig. 13): la cornea in esame è sferica (non c’è
astigmatismo fisiologico); la curvatura corneale avrà lo stesso valore sui
due meridiani principali;
Fig. 13
Fig. 14
Fig. 15
Fig 16
In medicina, l'anamnesi è la raccolta dalla voce diretta del paziente e/o dei suoi
familiari (per esempio i genitori nel caso di un lattante o di un bambino) di tutte
quelle informazioni, notizie e sensazioni che possono aiutare il medico a
indirizzarsi verso una diagnosi.
Normalmente si esegue prima il visus per lontano e poi quello per vicino. Si
consiglia l’utilizzo di ottotipi standard formati da lettere o numeri (Fig.1) e di
indicare se è stata eseguita senza correzione, con correzione a tempiale o con lenti a
contatto. Indicare l’occhio esaminato, poichè prima valutiamo monocularmente OD
e OS e poi facciamo un controllo binoculare. Invitiamo il soggetto a leggere la riga
più piccola di simboli che riesce a riconoscere, raccomandandoci di non stringere le
palpebre. Indicare in scheda quanti simboli sono stati riconosciuti sul totale da
riconoscere (es. 4/5 degli 8/10 oppure 8/10- ) e se sono stati riconosciuti alcuni
simboli della linea successiva indicare quanti in più (es. +2 degli 8/10 oppure
8/10++).
Il foro stenopeico (lente con piccolo foro al centro di circa 1,5 mm) viene
normalmente utilizzato, in fase preliminare, per scongiurare una eventuale
patologia, in quanto è stato osservato che, quando una persona con problemi
rifrattivi come la miopia, l’astigmatismo o l’ipermetropia guarda attraverso un
piccolo foro vede meglio, in quanto si riduce il disco di confusione a livello
retinico. Quando questo non succede è segno che la persona esaminata può essere
affetta da patologie quali cataratta, glaucoma, ambliopia o problemi retinici.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 134
Il punto prossimo di accomodazione viene definito come il punto più vicino agli
occhi in cui un oggetto può essere distinto in maniera chiara. Per l’esecuzione del
test si utilizza una mira strutturata (es. il numero che si trova scritto sulle lenti della
cassetta di prova) avvicinandola all’occhio esaminato (“push up”) fino a quando il
soggetto non riferisce di vederla sfuocata (punto prossimo di accomodazione).
Come visto nel cap. 3 il punto prossimo è influenzato sia dal potere accomodativo
che dall’ametropia, quindi, svolgendo il test del “push up” monocularmente si
potrebbero avere indicazioni sull’ametropia presente nell’occhio. Ad esempio se
esaminando tre soggetti di 20 anni, che dovrebbero presentare un potere
accomodativo di 10,00 dt (derivante da: PA = 15-età/4) e quindi un P.P.A. a 10 cm
troviamo i seguenti risultati:
x
x
Sogg. (1) – P.P.A. = 10 cm => emmetropia
x
Sogg. (2) – P.P.A. = 8 cm => miopia (circa 2,00 dt)
Sogg. (3) – P.P.A. = 12,5 cm => ipermetropia (circa 2,00 dt)
La maggior parte degli organi dell’uomo sono doppi: uno a destra e l’altro a
sinistra; abbiamo due braccia, due mani, due gambe, due occhi e due orecchie.
Questi organi sono speculari, ma non sono identici, e ciascuno di noi usa di
preferenza uno di essi, quello cosiddetto dominante. Quando fissiamo un oggetto,
solo uno dei due occhi sarà realmente allineato a questo, proprio l’occhio
dominante, mentre l’altro completerà l’immagine garantendoci la tridimensionalità.
Il mancato rispetto della dominanza naturale del soggetto lo espone ad una serie di
sintomi visivi e non visivi e ad un’intolleranza più o meno evidente al porto della
correzione visiva. Lo studio della dominanza oculare può essere fatto sia da un
punto di vista motorio che sensoriale. I test per l’evidenziazione della dominanza
del soggetto sono:
1. Test del filtro rosso (sensoriale)
2. Test del foro (motoria).
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 135
Fig.3: Test del filtro rosso: A) visualizzazione spot luminoso B) filtro rosso su OD ed il soggetto
vede lo spot rosso; C) filtro rosso su OS ed il soggetto riferisce di vedere lo spot bianco => occhio
dominante Dx
Anche questo test si effettua con entrambi gli occhi aperti e tenendo le braccia tese.
Si chiede al soggetto di formare una specie di cerchio con i pollici e gli indici delle
mani ed osservare attraverso di esso lo spot luminoso sul proiettore; a questo punto
chiediamo all’esaminato di avvicinare le mani agli occhi mantenendo lo spot
all’interno del foro. Le mani andranno a posizionarsi davanti ad uno dei due occhi,
cioè il dominante (motorio). Lo stesso test può essere fatto con un cartoncino al
quale è stato praticato un foro di circa 1,5 cm. In questo caso invitiamo l’esaminato
a sorreggere il cartoncino con entrambe le mani ad una certa distanza dalla faccia;
l’operatore prova a chiudere un occhio e poi l’altro in modo tale che quello con cui
vede ancora lo spot è l’occhio dominante (Fig.4)
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 136
Quest’ultima procedura può essere effettuata anche facendo il foro con le mani,
così come la prima, quella dell’avvicinamento, con il cartoncino forato.
Oltre a questo in fase di test preliminari è consigliabile fare un cover test per la
valutazione dello stato eteroforico (vedi cap. 13) e dei test di stereopsi come il lang
stereotest od il titmus fly stereotest (vedi cap. 12).
L’unico suo svantaggio è che la tecnica richiede una certa abilità. Gli schiascopi
commercializzati si distinguono in funzione dello stimolo utilizzato (filamento
x
x
d = 50 cm => lente di neutralizzazione 2.00 dt
x
d = 57 cm => lente di neutralizzazione 1.75 dt
x
d = 66 cm => lente di neutralizzazione 1.50 dt
x
d = 80 cm => lente di neutralizzazione 1.25 dt
d = 100 cm => lente di neutralizzazione 1.00 dt.
x
soggetto mentre fissa la mira proposta, allo scopo si consiglia:
x
non oscurare completamente l’ambiente,
x
proporre mire riconoscibili,
x
evitare oggetti interposti tra il soggetto e la mira,
in caso di ipermetropia porre una adeguata lente positiva davanti all’occhio
x
non esaminato,
dopo avere esaminato il secondo occhio riesaminare il primo e, se la
situazione è cambiata, riesaminare il secondo fino alla stabilità refrattiva.
La valutazione dei movimenti può essere riassunta con il seguente schema (Fig.10):
Nel caso in cui venga visto movimento concorde, sempre lavorando a 66 cm, per
arrivare al punto neutro saranno state aggiunte lenti positive e supponiamo sia stato
trovato il punto neutro con una sola lente di +2,50; la lente correttrice sarà: Lc = +
2,50 – 1,50 = + 1,00 dt. Se troviamo invece punto neutro senza dover aggiungere
lenti, sempre a 66 cm, la lente correttrice sarà: Lc = 0,00 – 1,50 = - 1,50 dt.
Fig.11: a) Ametropia sferica, il riflesso retinoscopico ha sempre lo stesso orientamento della striscia
in ogni meridiano; b) ametropia astigmatica, il riflesso retinoscopico ha lo stesso orientamento della
striscia solo nei meridiani principali
Ricordiamo che la direzione della striscia dello schiascopio indica l’asse del
cilindro correttore.
8. Test preliminari ed esame refrattivo oggettivo 144
Esempio:
5.6 Autorefrattometro
Come possiamo vedere dalla figura nella schermata può essere visualizzato:
1. valore sferico (S)
2. valore cilindrico (C)
3. asse del cilindro (A)
4. distanza apice corneale lente (VD)
5. distanza assi visuali (PD)
9. Refrazione monoculare 147
1. Sfuocamento
Lo sfuocamento è un metodo refrattivo monoculare. Si miopizza il soggetto
esaminato ponendogli davanti una lente positiva, ad esempio un soggetto
emmetropizzato con una lente di +1,00 dt possiamo miopizzarlo con una lente di
9. Refrazione monoculare 148
+3,50 dt, comunque si metterà una lente positiva tale che l’acuità visiva scenda a 2-
3/10. A questo punto iniziamo a diminuire la potenza della lente chiedendo ogni
volta al soggetto esaminato di leggere l’ottotipo e inducendo così un rilassamento
forzato del cristallino; ovviamente l’occhio non va mai lasciato senza lente,
altrimenti rientra in gioco tutta l’accomodazione, quindi prima si inserisce la nuova
lente, di gradazione inferiore, e poi si toglie quella precedente. Se esiste un
ipermetropia latente troveremo un visus massimo con una lente di valore più alto di
quella usata per gli occhiali. Nella maggior parte dei casi il valore trovato non può
essere utilizzato per correggere l’ametropia, in quanto scaturito da una
disaccomodazione forzata del cristallino.
2. Recessione
La recessione è una metodica refrattiva binoculare. Si pone il soggetto ad 1m
dall’ottotipo e gli mettiamo delle lenti positive che gli permettano di vedere le
lettere corrispondenti ad una AV di 10/10. Si fa poi allontanare l’esaminato
dall’ottotipo finché non vede più le lettere, quindi diminuiamo il potere della lente
stessa a passi di 0,25 in 0,25dt fino a quando non rivede le lettere; si continua
questo procedimento raggiungendo i 6 metri di distanza con il massimo visus.
3. Sfuocamento inverso
Lo sfuocamento inverso è un metodo refrattivo monoculare che viene utilizzato in
quei soggetti che hanno un potere accomodativo limitato. Iniziamo aumentando il
potere positivo della lente di 0,25 in 0,25dt fino a raggiungere il massimo visus.
Esempio:
AV naturale 5/10
Sf. +0,25 dt 6/10 Sf. +1,00 dt 9/10
Sf. +0,50 dt 7/10 Sf. +1,25 dt 10/10
Sf. +0,75 dt 8/10 Sf. +1,50 dt 9/10.
Fig.2: Quadrante per astigmatici con relativa specularità o proiezione nello spazio dei vari meridiani
dei due occhi
Il test viene svolto in visione monoculare, con la BVS inserita; viene invitato il
soggetto a riferire quale sia, se c’è, la riga vista meglio e le possibili risposte
possono essere tre:
1. tutte le linee sono viste nitide allo stesso modo,
2. tutte le linee sono viste sfuocate allo stesso modo,
3. una linea viene vista più nitida rispetto alle altre.
9. Refrazione monoculare 150
Fig.4: Visione schematica di un soggetto davanti al quadrante per astigmatismo. Il soggetto riferisce
di vedere in maniera nitida la linea a 60°, cioè la numero 11
Riprendendo ciò che abbiamo detto in precedenza, siamo nel terzo caso, quindi a
questo punto, lavorando con un occhiale di prova o con il forottero, iniziamo ad
inserire gradualmente lenti cilindriche negative con asse in corrispondenza della
linea vista più annebbiata, fino a raggiungere l’uguaglianza di tutte le linee. Se, per
esempio, con la lente sferica di –2,50 dt e una lente cilindrica di –0,75 dt il soggetto
riferisce di vedere tutte le linee allo stesso modo, la sua refrazione sarà:
sf –2,50 cil –0,75 ax 150°.
Il cilindro crociato (c.c.) è una lente particolare che viene usata durante l’esame
refrattivo soggettivo per determinare l’entità e la direzione dell’astigmatismo
presente in un occhio. Il cilindro crociato è composto da una lente bicilindrica con
potenze, in valore assoluto, uguali, ma di segno opposto, ed una impugnatura che
permette facilmente di ruotare la lente e quindi di invertire la posizione dei due
cilindri davanti all’occhio (Fig.5).
Molto importanti sono anche i riferimenti presenti sulla lente, solitamente di colore
rosso in corrispondenza dell’asse del cilindro negativo e di colore bianco o nero o
verde in direzione dell’asse del cilindro positivo. Il cilindro crociato è molto
importante durante la refrazione, poiché permette di determinare l’entità
dell’astigmatismo e di valutare con elevata precisione l’asse. I cilindri crociati più
utilizzati sono quelli ± 0,25 dt e ± 0,50 dt, ma in commercio si possono trovare le
seguenti versioni:
± 0,12 con sferocilindrica sf + 0,12 cil - 0,25 e trasposta sf - 0,12 cil + 0,25
± 0,25 con sferocilindrica sf + 0,25 cil - 0,50 e trasposta sf - 0,25 cil + 0,50
± 0,50 con sferocilindrica sf + 0,50 cil - 1,00 e trasposta sf - 0,50 cil + 1,00
± 0,75 con sferocilindrica sf + 0,75 cil - 1,50 e trasposta sf - 0,75 cil + 1,50
± 1,00 con sferocilindrica sf + 1.00 cil - 2,00 e trasposta sf - 1.00 cil + 2,00
9.4.1 Utilizzo del cilindro crociato per l’evidenziazione del potere e dell’asse
del cilindro correttore
visiva (AV) che l’esaminato raggiunge con la BVS. Se l’AV è a5-6/10 si può
Per la scelta del cilindro crociato da utilizzare bisogna tenere conto dell’acuità
utilizzare il cilindro crociato di ± 0,25 dt, mentre se l’AV è minore si inizia con
quello di ± 0,50 dt e successivamente si passa a quello immediatamente inferiore.
La rifinitura finale eventualmente può anche essere fatta con il c.c. di ± 0,12 dt.
x lettere dell’ottotipo:
Le mire ottotipiche da utilizzare sono le seguenti (Fig.6):
si invita il soggetto a guardare una letterina
(preferibilmente rotondeggiante, come la O o la C o la D) corrispondente ad
una acuità visiva 2-3/10 inferiore a quella raggiunta con la BVS,
x mira a punti: questa mira è stata progettata appositamente per l’utilizzo del il
cilindro crociato; è composta da una serie di punti neri che sottendono un
angolo di 2’ disposti a griglia.
x si pone il cilindro crociato davanti all’occhio del soggetto con assi orientati a
procede nel seguente modo:
90° e 180° (Fig. 7a), poi verrà ruotato attorno al suo manico di 180°, in modo
da invertire il segno del cilindro presente sui due meridiani. Proponendo le due
posizioni del cilindro crociato il soggetto dovrà riferire con quale delle due
vede la mira meno deformata, cioè meglio. La posizione preferita dovrà essere
annotata tenendo in considerazione l’asse del cilindro negativo,
indipendentemente dal tipo di lente sferica, poiché, lavorando con cilindri
negativi, siamo in grado di tenere sotto controllo l’accomodazione.
x Si ripete la stessa azione precedente, posizionando, però gli assi del cilindro
crociato con assi 45° e 135° (fig. 7b), anziché 90° e 180°, e di nuovo si fa
scegliere una delle due posizioni.
Fig.7: Il cil. crociato verrà prima posizionato (a) con ax 90° e 180° e verrà ruotato attorno al suo
manico in modo che inverta il segno del cilindro presente nelle due direzioni, dopo si posizionerà
(b) con ax 45° e 135°
180°) e a 45° (tra 45° e 135°) => inserisco: cil – 0,25 ax 70°
9. Refrazione monoculare 154
x
180°) e a 135° (tra 45° e 135°) => inserisco: cil – 0,25 ax 160°
il soggetto preferisce la posizione dell’asse negativo prima a 180° (tra 90 e
180°) e a 45° (tra 45° e 135°) => inserisco: cil – 0,25 ax 20°.
Fig.8: Il controllo dell’asse si effettua posizionando il manico del cilindro crociato parallelo o
perpendicolare all’asse del cilindro correttore
Quindi:
1) si ruoterà il cilindro correttore di circa 10° in direzione dell’asse del cilindro
negativo del cilindro crociato (riferimento rosso o segno -) nella posizione
preferita dal soggetto. Se avessimo utilizzato un cilindro correttore positivo la
rotazione sarebbe stata fatta in direzione dei riferimenti bianchi o neri o del
segno +,
2) si ripeterà la stessa operazione spostando il manico del cilindro crociato in
corrispondenza del nuovo asse del cilindro correttore, fino a quando il soggetto
non apprezzerà differenze tra le due posizioni. Ovviamente avvicinandosi
all’esatta direzione dell’asse gli spostamenti saranno via via inferiori.
Una volta definito l’asse del cilindro correttore si va a ricercare l’esatta potenza nel
seguente modo:
- Si posizionerà il cilindro crociato con i riferimenti di uno dei due assi paralleli
all’asse del cilindro correttore (Fig. 9). In questo modo ruotando il cilindro
crociato si otterrà in una posizione l’aumento del cilindro correttore, mentre
nell’altra una riduzione.
9. Refrazione monoculare 155
Fig.2: Test bicromatico con sovrapposizione dello sfondo alle schermate di lettere
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 158
I colori dei due quadranti sono stati scelti affinché in un occhio emmetrope, il quale
in visione fotopica ha la massima sensibilità per una lunghezza d’onda di 555 nm
(colore giallo), l’immagine del quadrante verde si focalizza davanti alla retina,
mentre quella del rosso dietro la retina, quasi alla stessa distanza, valutabile in circa
0,25 dt (Fig.3).
Fig.4: Visione al test bicromatico: caratteri sfuocati sul verde, mentre perfettamente nitidi sul rosso
Fig.5: Visione al test bicromatico: caratteri sfuocati sul rosso, mentre perfettamente nitidi sul verde
Il test del reticolo a croce prende questo nome perché per effettuarlo viene
utilizzata come mira il reticolo a croce, costituito da varie linee (generalmente
cinque) verticali ed orizzontali incrociate tra loro, in modo da formare una croce
(da qui il nome di “reticolo a croce”); mira quasi sempre presente nei proiettori
(Fig. 6).
Sull’occhiale di prova, invece, viene posto un cilindro crociato di ±0,50dt con asse
negativo orientato a 90°. Tale cilindro crociato serve a creare un astigmatismo sulla
retina, in modo che, in un occhio emmetrope, le linee verticali vadano a fuoco
dietro la retina, mentre quelle orizzontali davanti, entrambe ad una distanza
corrispondente a 0,50 dt, per un intervallo totale di 1,00 dt (Fig. 7).
Fig.7: Test del reticolo a croce. (A Reticolo a croce, B Reticolo a croce + Cilindro crociato ± 0.50
ax - 90°) Il disco di minor confusione (B) mantiene la stessa posizione che ha l’immagine prima
dell’inserimento del cilindro crociato (A)
Ovviamente per eseguire questo test è necessario che sia compensato perfettamente
un eventuale astigmatismo. Il soggetto deve riferire se nota differenze di nitidezza
tra le linee orizzontali e verticali. Se le strisce nelle due direzioni vengono viste
ugualmente nitide significa che il valore della sfera precedentemente trovato è
corretto, se, invece, sono percepite meglio le linee verticali abbiamo di fronte un
occhio con una miopia sottocorretta o un’ipermetropia sovracorretta, dobbiamo
quindi inserire una lente di – 0,25 dt o più negativa fino a raggiungere
l’uguaglianza di nitidezza o comunque non passare alla preferenza delle linee
orizzontali (Fig.8).
Fig.8: Nel soggetto miope o miopizzato, le linee verticali vanno a fuoco più vicino alla retina (il
disco di minor confusione è davanti ad essa), quindi saranno viste più nitidamente
Fig.9: Nel soggetto ipermetrope o ipermetropizzato le linee orizzontali vanno a fuoco più vicino alla
retina (il disco di minor confusione è dietro ad essa), quindi saranno viste più nitidamente
x poniamo davanti alla compensazione trovata la lente di + 0,25 dt, per circa 3
La procedura da seguire è la seguente:
x sostituiamo la lente di + 0,25 dt con quella di – 0,25 dt, facendo attenzione che
secondi
il soggetto non osservi l’ottotipo senza lente, mantenendola non più di mezzo
secondo; ciò al fine di impedire che intervenga l’accomodazione per
compensare tale lente
A questo punto il soggetto deve riferire se ha una preferenza di visione con una
delle due lenti oppure nessuna preferenza. Se il soggetto non ha preferenze
significa che la compensazione precedentemente trovata è corretta. Nel caso in cui
il soggetto scelga una delle due lenti dobbiamo effettuare un’ulteriore prova, che
consiste nel far vedere all’esaminato se vede meglio con o senza lente. In
particolare tale ulteriore prova deve essere effettuata se la lente scelta è quella
negativa, chiedendo al soggetto se la lente fa vedere solamente le lettere più nitide
o anche più piccole, poiché se così, non va assolutamente considerata. Se con e
senza lente non viene riferita nessuna differenza, ci comporteremo nel seguente
x nel caso in cui la lente scelta è quella positiva non esitiamo a variare la
modo:
x nel caso in cui la lente scelta è quella negativa non variamo la compensazione.
l’ipermetrope)
l’alto; oltre a quanto detto questo test è più lungo da eseguire. La prova del ± 0,25
dt, invece, è sempre bene effettuarla, poiché è una vera e propria interpretazione
soggettiva dell’esaminato, relativa non solo alla maggior nitidezza, ma anche al
miglior comfort visivo.
R DF H N 4 30 6 7
P OE C H 7 63 2 9
Fig.11:Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati (OS per vedere nitido ha bisogno di
accomodare)
Fatto questo l’esaminato verrà penalizzato con due lenti di + 0,50 dt in entrambi gli
occhi, in modo da controllare un’eventuale accomodazione residua (Fig.12).
Fig.12: Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati, aggiunta di lenti di +0,50 dt in
entrambi gli occhi per miopizzare l’esaminato
A questo punto verrà chiesto al soggetto di riferirci su quale delle due linee vede
più nitidi i caratteri. In funzione della risposta saremo in grado di capire se
entrambi gli occhi vedono allo stesso modo oppure quale dei due vede meglio e
quale in maniera peggiore. Se la risposta è che la nitidezza delle due strisce è
identica la compensazione è già corretta, quindi i valori di sfera presenti nei due
occhi non devono essere variati. Se c’è una preferenza nella visione di un occhio
andremo a penalizzare quello che vede meglio con una lente di +0,25 dt e
porremmo di nuovo la stessa domanda (Fig.13).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 164
Fig.13: Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati, aggiunta di lenti di + 0,25 dt
sull’occhio che vede meglio
Fig.14: Test di bilanciamento con filtri ed ottotipi polarizzati, tolgo le lenti di + 0,50 dt in entrambi
gli occhi
R D F H N
Fig.17: Schermatura linea dei 5/10 (OD per vedere nitido ha bisogno di accomodare)
Aggiungiamo alla correzione trovata fino a questo punto, una sfera di +0,50 dt in
entrambi gli occhi (Fig.19).
Fig.20: Peggioriamo l'immagine vista meglio, aggiungendo sfere positive (+ 0,25 dt) fino a che
leggerà allo stesso modo con entrambi gli occhi (le immagini sono alla stessa distanza dalle retine)
Per concludere si tolgono i prismi e ciò che resta negli oculari non è altro che la
correzione bilanciata (Fig.22).
10. Bilanciamenti monoculari e bioculari 169
Capitolo 11 – Presbiopia
L. Mele, M. Piovella
Fig.1: Il cristallino
11.2 La presbiopia
Ciò accade, poiché con il passare degli anni la capacità del cristallino di assumere
la curvatura adatta affinché le immagini vadano a fuoco sulla retina guardando da
vicino diminuisce e conseguentemente risulta più difficile mettere a fuoco gli
oggetti vicini, infatti solitamente i primi problemi vengono avvertiti nella lettura.
La parola “presbiopia”, dal greco “occhio vecchio”, è un termine che è stato
coniato da F.C. Donders nel 1864 e sta ad indicare la situazione in cui l'ampiezza
accomodativa non è più sufficiente a permettere una visione nitida e confortevole
alla distanza ravvicinata abituale. Dal momento che la riduzione del potere
accomodativo è fisiologica, non possiamo includere la presbiopia tra le ametropie.
La definizione di presbiopia sopra scritta non fa riferimento ad un limite preciso
d’ampiezza accomodativa sotto alla quale si può veramente parlare di presbiopia.
Ciò è dovuto al fatto che le problematiche non dipendono solo dal valore
d’accomodazione disponibile, ma anche dalle esigenze visive della persona. Ad
ogni modo si può adottare una definizione clinica di presbiopia, considerando
presbiti tutti i soggetti che hanno un’ampiezza accomodativa inferiore alle 4,00 dt.
La scelta di questo limite non è arbitraria, ma si basa sulla considerazione che le
attività “da vicino” si svolgono di media ad una distanza di 40 cm (x), alla quale
occorre un’accomodazione (Acc.) così calcolabile:
o
xmetri
1 1
Acc. 2,50dt
0,4
Per avere una visione confortevole a tale distanza, il soggetto non potrà esercitare
tutto il potere accomodativo di cui dispone, ma al massimo potrà utilizzare il
“potere accomodativo confortevole” (P.A.conf), che può essere considerato pari ai
2/3 del potere accomodativo totale, quindi:
2
P. A.(conf .) P. A.
3
Affinché il potere accomodativo confortevole sia di 2,50 dt, l’ampiezza
accomodativa (P.A.) dovrà essere:
11. Presbiopia 173
P. A.(conf .) o 2,50
3 3
P. A. 3,75dt
2 2
In definitiva, il soggetto non presenterà problemi nella visione da vicino fino a
quando la sua ampiezza accomodativa non scenderà sotto le 4,00 dt.
Questo solitamente avviene tra 42 e 48 anni ed è in questa la fascia d’età che le
persone cominciano a lamentare disturbi nella visione a distanza ravvicinata.
Per superare queste difficoltà i soggetti presbiti necessitano di una addizione per
vicino, ossia di un’aggiunta di potere positivo, da sommare all’eventuale correzione
per lontano, che renda la visione da vicino nitida e confortevole.
Ci sono fattori che possono ritardare od anticipare la comparsa della presbiopia, tra
cui i principali sono:
- fattori geografico-ambientali; più alta è l’esposizione ai raggi ultravioletti più è
veloce il processo d’invecchiamento del cristallino.
- fattori nutrizionali e stato di salute
- errore refrattivo; in caso di ipermetropia non corretta o sottocorretta il punto
prossimo è più lontano rispetto al soggetto emmetrope, quindi i sintomi della
presbiopia compaiono in anticipo. Oltre a questo un soggetto ametrope
compensato con lenti oftalmiche quando guarda da vicino necessita di uno
§1 P d · § 1 ·
Sf .acc. ¨ ¨
© 1 P d ¹̧ © x ¹̧
x P: potere della lente correttrice
dove:
Questo calcolo trova una sua verità quando la lente oftalmica ha un potere
maggiore di ± 3.50dt.
Consideriamo la seguente correzione di un soggetto ipermetrope:
OD sf + 6,00
Distanza di lavoro = 33 cm
OS sf + 6,00
ª 1 6 0,013 º § 1 ·
Sf .acc. « » ¨
¬ 1 6 0,013 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di occhiali:
3,25dt
ª 1 6 0 º § 1 ·
Sf .acc. « » ¨
¬ 1 6 0 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di lenti a contatto: 3,00dt.
Consideriamo la seguente correzione di un soggetto miope:
OD sf - 6,00
Distanza di lavoro = 33 cm
OS sf - 6,00
ª 1 6 0,013 º § 1 ·
Sf .acc. « » ¨
¬ 1 6 0,013 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di occhiali:
2,59dt
ª 1 6 0 º § 1 ·
Sf .acc. « » ¨
¬ 1 6 0 ¼ © 0,33 ¹̧
In caso di lenti a contatto:
3,00dt.
x tabelle,
x minimo positivo e massimo positivo.
Lente necessaria 3,00 - 1,50 = +1,50 dt Lente necessaria 2,50 - 2,00 = +0,50 dt
Secondo Bennet invece deve essere calcolato l’inverso della distanza di visione
nitida per vicino e sottratto un valore corrispondente a 2/3 dell’accomodazione
totale:
Lente necessaria 3,00 - 2,00 = +1,00 dt Lente necessaria 2,50 - 2,50 = 0,00 dt
NO ADD
11. Presbiopia 178
11.7.3 Tabelle
Per determinare l’addizione con il metodo del minimo e del massimo positivo
Esempio: Distanza 33 cm
Min pos. +1,00 dt
Max pos. +1,50 dt --> Add. da prescrivere +1,25 dt.
x
cominciano a diventare sfuocati (rileviamo la distanza),
chiedere al soggetto di allontanare l’ottotipo fino al punto in cui vede sfuocato
(rileviamo la distanza) (Fig. 4).
Questo test ha una notevole rilevanza pratica: consente di verificare e dimostrare
l’intervallo di spazio in cui funzionerà l’occhiale che prescriveremo. Inoltre
possiamo, in base alla risposta soggettiva, effettuare gli opportuni ritocchi. La
possibilità di avvicinare l’ottotipo di qualche centimetro ci conferma la presenza di
una riserva accomodativa, condizione necessaria per avere visione confortevole.
Fig.4: Controllo dell’intervallo di visione nitida; A – add. corretta, B – add. scarsa, C – add. elevata
x se vede entrambe le linee allo stesso modo significa che l’addizione è ben
A questo punto si chiede al soggetto quali linee vede più nitide:
12.1 Introduzione
L’anisometropia è quella situazione in cui gli occhi presentano uno stato refrattivo
diverso, mentre la situazione in cui gli occhi presentano uno stato refrattivo uguale
prende il nome di isoametropia.
In caso di anisometropia essendo presente una diversa ametropia nei due occhi, la
maggior parte delle persone potrebbe essere considerata anisometrope, ma si
considerano tali solo quei soggetti in cui lo stato refrattivo differisce di una quantità
maggiore a 1.50 - 2.00 dt. Questo limite ha una spiegazione pratica: in presenza di
anisometropie di bassa entità non si verificano grossi problemi né in sede d’esame
né al momento della prescrizione.
2.il condizionamento dello sviluppo del sistema visivo nel caso in cui
l’anisometropia si presenti nel periodo plastico
3.gli effetti visivi disturbanti indotti dalla correzione dell’anisometropia con lenti
oftalmiche.
Come per tutti i soggetti che si presentano per sottoporsi a un esame della
refrazione è consigliabile iniziare con l’anamnesi ed in caso di anisometropia la
sintomatologia riferita cambia notevolmente in base al tipo e cioè:
anisoipermetropia, anisomiopia ed antiametropia.
Questa fase guida nella prescrizione dell’ausilio più idoneo.
Per l’esecuzione del test occorre impostare sull’ottotipo la mira delle 4 luci di
Worth (Fig. 2), far indossare al paziente l’occhiale con filtri rosso-verde e
l’eventuale correzione con l’illuminazione ambientale abbassata.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 186
La mira è formata da quattro luci dislocate a rombo. Le mire poste sulla diagonale
orizzontale sono di colore verde, quindi percepite dall’occhio con davanti il filtro
verde, mentre le mire situate sulla diagonale verticale sono una rossa, percepita
dall’occhio con davanti il filtro rosso, e l’altra bianca (solitamente quella in
basso) percepita da entrambi gli occhi, che rappresenta lo stimolo alla fusione. Il
test può essere eseguito sia per lontano che per vicino.
x Sono viste due mire rosse (Fig. 3): soppressione e visione monoculare,
Le risposte che il soggetto potrebbe riferire durante il test sono le seguenti:
xSono viste tre mire verdi (Fig. 4): soppressione e visione monoculare, l’occhio che
presenta visione è quello posteriore al filtro verde.
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 187
xSono viste quattro mire (Fig. 5): assenza di soppressione. Il soggetto presenta
visione binoculare, riferendo di vedere tutte e quattro le mire con la mira in
basso che appare di colore giallastro o rosacea, effetto dovuto alla fusione delle
due immagini monoculari.
xSono viste cinque mire, due rosse e tre verdi (Fig. 6): assenza di soppressione. Il
soggetto presenta diplopia a causa di una deviazione manifesta o latente (tropia
o foria), in quanto le immagini non vengono fuse.
Fig. 7: Lang stereotest 1, il quale presentà la seguente disparità: Macchina = 550” di arco, Stella =
600” di arco e Gatto = 1200” di arco
x
perpendicolare (ad angolo retto) a una distanza di circa 40 cm.
chiedere al soggetto se ha visto qualcosa sul test e guardare i suoi movimenti
oculari mirati alla ricerca dell’oggetto, una volta che il primo è stato
individuato chiedere di cercare gli altri e di descriverli.
Fig.8: Lang stereotest 2, il quale presentà la seguente disparità: Stella = visione monoculare, Luna =
200” di arco, Macchina = 400” di arco ed Elefante = 600” di arco
x
necessario nessun ulteriore esame della stereopsi.
Negativo: nessun oggetto viene riconosciuto e neanche i movimenti degli occhi
indicano il riconoscimento degli oggetti tridimensionali, gli occhi osservano il
x
test e poi guardano altrove; è preferibile un controllo più approfondito.
Dubbio: viene localizato e definito correttamente solo un oggetto nascosto, gli
occhi cercano gli altri oggetti; anche in questo caso è preferibile un controllo
più approfondito.
Nel titmus fly stereotest viene utilizzato il principio dei vettogrammi, infatti è
polarizzato e si esegue con gli occhiali polarizzati (Fig. 9).
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 190
12.4.4 Schiascopia
Fig.11: Vettogramma e filtri polarizzati. A) l'OD vede la parte alta, l'OS vede la parte bassa; la parte
centrale non polarizzata è vista da entrambi gli occhi (stimolo fusionale). B) l'OD vede la parte
sinistra, l'OS vede la parte destra; la parte centrale non polarizzata è vista da entrambi gli occhi
(stimolo fusionale).
avere un buon visus, secondo le modalità abituali, ossia si controlla l'asse e poi
il potere del cilindro correttore per poi passare alla sfera con l’utilizzo dell’HIC
test; tutto ciò si esegue prima in un occhio e poi nell'altro in condizioni di
visione binoculare.
Ovviamente se partiamo dai valori di schiascopia, l'esame servirà a verificare ed
eventualmente a ritoccare i dati dell'esame oggettivo.
Questa tecnica, a differenza delle altre, non richiede mire o attrezzature particolari
e la cosa importante da ricordare è che la lente positiva posta davanti all’occhio non
12. Anisoametropia e refrazione binoculare 196
x ipermetropia latente
casi di:
x pseudomiopia
x antiametropia
x anisometropia ipermetropica.
Per contro può avere dei limiti in caso di:
x visione binoculare instabile (il positivo può indurre diplopia o soppressione)
x spiccata dominanza (non riesce ad inibire la fovea dell’occhio dominante)
x bassi visus non dovuti ad ametropia non corretta.
Con la tecnica della sospensione foveale si può utilizzare l'HIC Test (HIC:
Humphriss Immediate Contrast) anche detto test del contrasto immediato. Questo
non è un test di bilanciamento, ma serve a determinare per quale valore di sfera
entra in gioco l'accomodazione; tutto ciò si esegue in visione binoculare, prima in
un occhio poi nel contro laterale, dopo aver già ottimizzato l’asse e il potere degli
eventuali cilindri.
Vediamo nei dettagli la procedura del test del contrasto immediato:
1) dopo aver svolto i soggettivi monoculari, abbiamo anteposto davanti all'occhio
sinistro una sfera di +0,75 o +1,00 diottria in modo da ridurre l'acuità visiva a
circa 5÷6/10, abbiamo cioè indotto la sospensione foveale e abbiamo controllato
il cilindro dell’occhio destro,
2) davanti all'occhio che stiamo controllando, in questo caso il destro, viene
anteposta prima una sfera di +0,25 diottria e lasciata in posizione un secondo
abbondante; viene poi rapidamente sostituita con una sfera negativa di -0,25
diottria, che sarà lasciata in posizione solo mezzo secondo, per poi essere
sostituita nuovamente con la lente positiva. Tale "altalena" sarà ripetuta alcune
volte, in modo da facilitare il giudizio dell'osservatore.
A tale presentazione il soggetto potrà fornire una delle seguenti risposte:
1.se non accomoda sarà scelta immediatamente la lente negativa, in quanto
migliora la nitidezza dell'immagine,
2. se il soggetto invece accomoda potremo avere le seguenti risposte:
2a - vede meglio con la sfera positiva,
2b - dopo una certa esitazione non sa scegliere quale fra le due lenti gli fornisca la
migliore nitidezza,
2c - vede leggermente meglio con la lente negativa, ma le lettere si
rimpiccioliscono.
Se la risposta è la numero 1 si aumenta il valore negativo o si diminuisce il valore
positivo della correzione in uso di 0,25 diottria e si ripete il test.
Se la risposta è la 2a: si aumenta il valore positivo o si diminuisce il valore
negativo della correzione in uso e poi si ripete il test.
Se la risposta è la 2b: la correzione è ben bilanciata; eventualmente si utilizza
un'altro metodo di verifica.
Se la risposta è la 2c: la lente negativa induce accomodazione; la correzione non è
da modificare.
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 197
Per ottenere una visione binoculare è necessario che le immagini degli oggetti
guardati stimolino elementi retinici corrispondenti. Questa condizione deve
verificarsi in ogni momento ed in qualsiasi posizione di sguardo, ossia gli occhi
devono assumere di volta in volta una posizione tale da avere visione binoculare.
Se l’allineamento dello stimolo su punti retinici corrispondenti è la condizione
affinché le due immagini possano essere fuse, è necessario che il sistema possieda
degli idonei strumenti che realizzino tale condizione. Essi sono:
1. la fusione sensoriale (fusione piatta)
2. la fusione motoria.
La fusione sensoriale riceve ed elabora tutte le informazioni del mondo esterno e le
trasmette alla componente motoria. Quest’ultima governa l’attività della
muscolatura estrinseca che attraverso complessi movimenti di vergenza consente di
mantenere gli assi visivi allineati correttamente. Non è detto, però, che ciò accada
sempre; alcune volte, una certa grossolanità dell’attività della muscolatura
estrinseca non consente un perfetto allineamento degli assi visivi sul punto di
fissazione, con la conseguenza che gli stimoli visivi non cadono su punti retinici
corrispondenti. Per evitare la diplopia la fusione sensoriale interviene una seconda
volta, sulla componente motoria, riuscendo nella maggior parte dei casi a
ripristinare il corretto allineamento che consente il compimento della fusione. Solo
in alcune situazioni, in cui l’errore di vergenza è particolarmente cospicuo, la
componente fusionale sensoriale può non riuscire a ripristinare il corretto
allineamento; in questo caso la diplopia è inevitabile e fastidiosa. Caso tipico sono
gli errori di vergenza verticale, in cui la componente fusionale sensoriale riesce a
compensare solo piccoli angoli di deviazione. Pertanto il sistema motorio ha
l'importante compito di portare e mantenere le immagini sulle fovee in ogni
direzione di sguardo, assicurando in questo modo la visione binoculare. È
necessario sottolineare che il meccanismo della fusione motoria è stimolato dalla
diplopia che si verifica quando gli occhi non fissano contemporaneamente l'oggetto
che si vuole guardare.
Gli squilibri che possono essere compensati dalla fusione motoria prendono il
nome di forie o deviazioni latenti, mentre quelli non compensabili dal meccanismo
fusionale si chiamano tropie o deviazioni manifeste. Che lo sbilancio della visione
binoculare si limiti ad una foria o diventi invece una tropia è legato alla relazione
che intercorre tra l'entità della deviazione e la capacità del sistema motorio di
compensarla. Una deviazione lieve può essere compensata dalla fusione motoria
senza grosse difficoltà, mentre, se lo squilibrio è più marcato, la sua
compensazione può indurre disturbi astenopici (visione binoculare non
confortevole), oppure assumere le caratteristiche di una tropia, cioè diventare una
deviazione manifesta. Le conseguenze della tropia dipendono dall'età in cui si
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 198
x esoforia: gli occhi convergono verso l'interno e gli assi visivi si incontrano
Forie orizzontali
x exoforia: gli occhi convergono verso l'esterno e gli assi visivi si incontrano
prima del punto di fissazione,
destro.
x incicloforia: rotazione della parte superiore degli occhi verso l'interno attorno
Forie torsionali
x excicloforia: rotazione della parte superiore degli occhi verso l'esterno attorno
all’asse visuale,
all’asse visuale.
Si tenga presente che le forie sono a carico di entrambi gli occhi, anche se
apparentemente i test clinici, soprattutto parlando di forie verticali, attribuiscono lo
squilibrio ad un occhio solo; nella terminologia corrente non sono previste le
ipoforie ed allora un’ipoforia destra, ad esempio, verrà indicata come iperforia
sinistra, dal momento che rappresenta lo stesso tipo di deviazione.
Si tenga anche presente che la capacità di fusione, mentre è molto ampia per le
deviazioni orizzontali, è molto ridotta per quelle verticali, per cui uno squilibrio
della binocularità verticale anche minimo genera facilmente fenomeni di astenopia,
soppressione o diplopia.
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 199
Alla base delle tecniche ortottiche usate per evidenziare lo stato eteroforico c'è
l'interruzione della fusione sensoriale, che serve ad ottenere una visione dissociata;
in questo modo si esclude il meccanismo correttivo della fusione motoria e gli
occhi assumono la loro posizione usuale di riposo (posizione di foria).
La visione dissociata può essere ottenuta in diversi modi:
a) fornendo immagini differenti nei due occhi – questo si può realizzare mediante
occhiali polarizzati o filtri rosso/verde,
b) escludendo un occhio dalla visione – si mette un occlusore davanti ad un
occhio,
c) utilizzando dei prismi dissocianti – ossia dislocando l'immagine retinica, in
uno o in entrambi gli occhi, di una quantità superiore alle capacità di recupero
del sistema motorio.
Se è presente una foria, durante la visione dissociata le immagini di un oggetto
fissato andranno a formarsi su punti retinici disparati generando diplopia. In caso di
esoforia le immagini cadranno sulla porzione nasale delle retine dando origine a
diplopia omonima, situazione in cui l'oggetto viene localizzato dallo stesso lato
dell'occhio che ne ha fornito l'immagine; in caso di exoforia invece verrà stimolata
la porzione temporale delle retine dando origine alla diplopia crociata, in cui
l'oggetto viene localizzato dal lato opposto dell'occhio che ne ha fornito
l'immagine.
Le procedure di esame si differenziano in tecniche soggettive ed oggettive: le prime
si basano sulle risposte del soggetto (che deve riferire dove percepisce una parte
dell’ottotipo presentato), mentre le seconde si basano sull'osservazione del soggetto
in esame da parte dell’operatore.
È inutile rilevare che la buona pratica clinica prevede che si utilizzino ambedue le
tecniche, per minimizzare il rischio di falsi positivi o falsi negativi. L’utilizzo
combinato consente altresì di evidenziare eventuali discrepanze tra dati soggettivi e
dati oggettivi, discrepanze che non raramente hanno una notevole importanza
diagnostica e terapeutica.
La mira è costituita da una croce di colore rosso posta nel centro di un cerchio
verde (o viceversa), la quale viene usata in associazione ai filtri rosso-verde, in
modo che l’occhio con il filtro rosso veda la croce e quello con il filtro verde veda
il cerchio. Si presenta la mira al soggetto, chiedendogli dove vede la croce rispetto
al cerchio: se al centro sarà ortoforico, se è spostata presenterà una foria. Una volta
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 200
stabilito quale occhio vede la croce e quale il cerchio, la posizione assunta dalla
croce rispetto al cerchio ci permetterà di stabilire il tipo di diplopia e quindi il tipo
di foria presente nel soggetto in esame (Fig.1).
Fig.2: Rappresentazione della visione al test di Hering polarizzato o rosso-verde (OD vede i bracci
verticali)
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 201
Fig.5: Rappresentazione della visione al test di Von Graefe con prisma verticale
2) Per la misura delle forie verticali viene presentata al soggetto in esame una
carta di Sheard orizzontale, dopo di ché si antepone ad uno dei suoi occhi un
prisma base nasale di potenza sufficiente ad interrompere la fusione sensoriale
FLUFDǻ,OVRJJHWWRULIHULUjGLYHGHUHGXHVWULVFHGLOHWWHUHXQDDGHVWUDHG
una a sinistra: se saranno allineate sarà presente ortoforia, mentre se saranno
disallineate sarà presente una foria che verrà classificata in funzione del tipo di
diplopia (Fig 6).
Fig.6: Rappresentazione della visione al test di Von Graefe con prisma orizzontale
Fig.7: Rappresentazione del Cover/Uncover Test in situazione di esoforia (A) ed exoforia (B)
Nelle prime due fasi la procedura del cover test alternato è uguale a quella del
cover/uncover test, dalla quale si differenzia per le modalità con cui si scopre
l'occhio occluso: nel cover test alternato, come dice la parola stessa, l'occlusione
viene passata velocemente da un occhio all'altro e deve essere osservato il
movimento di recupero dell’occhio che si va a scoprire.
La corretta procedura è quindi la seguente:
1. si invita il soggetto in esame a fissare la mira,
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 205
2. si occlude uno dei due occhi - l'occhio occluso assume la posizione di foria,
3. si sposta l'occlusore sull'occhio controlaterale - ciò provoca uno scambio di
fissazione e, se presente una foria, si potrà osservare il movimento di recupero
dell'occhio che diventa fissante,
4. si inverte ancora la posizione dell'occlusore - vi sarà un nuovo scambio di
fissazione e ciò permetterà l'osservazione dell’eventuale movimento di
recupero dell'occhio appena scoperto.
Fig.8: Rappresentazione delle fasi del Cover Test Alternato in una situazione di Exoforia
La differenza maggiore tra i due esami consiste nel fatto che nel cover/uncover test
passiamo da una fase in visione dissociata a una fase in visione binoculare, mentre
nel cover test alternato non abbiamo una fase di visione binoculare (se non per una
frazione di secondo, insufficiente ad attivare la fusione motoria)
Da questa differenza derivano delle considerazioni molto importanti:
1. nel Cover/Uncover Test il movimento di recupero serve a ripristinare il
corretto allineamento dell'occhio precedentemente occluso; questo movimento
è l'espressione del meccanismo della fusione motoria, il quale è finalizzato ad
ottenere la fusione sensoriale. Ne deriva che questo esame ci permette di dare
una valutazione qualitativa della fusione motoria: un movimento di recupero
veloce indica che il sistema motorio è in grado di compensare agevolmente la
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 206
Questo sistema vale per tutti i test soggettivi visti in precedenza e si basa sempre
sulla determinazione del prisma che è in grado di fornire l'allineamento tra le
immagini viste dai due occhi: nel test col cilindro di Maddox la striscia dovrà
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 207
essere sovrapposta al punto luminoso, nel test di Von Graefe le due carte di Sheard
dovranno essere allineate e così di seguito.
La compensazione delle forie può essere ancor più soddisfacentemente e
precisamente ottenuta mediante un prisma rotante di Risley. Ovviamente, la
compensazione può essere combinata sia in senso orizzontale che verticale, qualora
la deviazione sia mista, il che è frequente. In caso di cicloforie, queste non sono
compensabili. Qualora questi test le facciano sospettare, è utile procedere ad
ulteriori approfondimenti, p.e. utilizzando un sinottoforo.Questi test non sono
infatti indicati per valutare con precisione una cicloforia, ma possono essere
utilizzati per sospettarle, quindi per ridurre i tempi dell’esame. Purtroppo, la loro
valutazione resta comunque totalmente soggettiva (e potremmo dire arbitraria),
molto dipendente dalla collaborazione del soggetto.
Una notazione a parte va fatta per il test di Maddox. Quest’ultimo consente,
mediante l’utilizzo di un quadrante a goniometro, una valutazione quantitativa
abbastanza precisa del grado di inclinazione della cicloforia. Infatti, se la luce di
mira è posta al centro di un gonioquadrante, la stria luminosa di diffrazione andrà a
collimare con un meridiano di detto quadrante, consentendo quindi di misurarla.
Nel cover test, invece, dovremo trovare il prisma che annulli il movimento di
recupero. Dal momento che con questo test non si riescono ad apprezzare forie
PLQRULGLǻTXDQGRVLQRWDXQPRYLPHQWRGLUHFXSHURqFRQVLJOLDELOHSURFHGHUH
nel seguente modo:
1. trovare il primo prisma che annulla il movimento di recupero e registrarne
l'entità,
2. aumentare il prisma fino ad ottenere un movimento di recupero contrario a
quello originario e registrarne l'entità,
3. si calcola la media aritmetica tra i due valori registrati ed il risultato
corrisponderà all'entità della foria.
Questa procedura non è quella più indicata per misurare una devizione, ma serve
quando si vuole aumentare la precisione nella misurazione delle forie con il cover
test oggettivo. A volte questo test è l’unico fattibile in soggetti poco collaboranti.
fino a 3 '.
diottria prismatica, mentre, per quanto riguarda il vicino, la differenza può arrivare
Se i vari test soggettivi che sono stati descritti possono sembrare di non semplice
esecuzione, sarebbe opportuno effettuare, sia in fase preliminare che post
refrazione, almeno il cover test.
Nel caso in cui la foria presente assuma valori molto elevati è consigliabile
effettuare controlli più approfonditi della visione binoculare.
Una breve notazione per quanto riguarda la compensazione mediante prismi delle
forie (tale argomento sarà trattato in esteso in altra parte del volume).
Quasi mai è opportuno procedere ad una compensazione delle forie orizzontali. La
capacità di fusione in orizzontale è molto ampia e (tralasciando ovviamente il caso
13. Deviazioni oculari latenti: le forie 208
L’acutezza visiva risulta tanto migliore quanto più piccola è la dimensione dello sti-
molo che riusciamo a percepire, o meglio della sua dimensione angolare. L’inverso
del suo angolo visuale espresso in sessantesimi di grado o minuti primi, quantifica la
misura dell’acutezza visiva.
L’acutezza visiva di visibilità indica qual è il più piccolo angolo visuale che un oggetto
deve sottendere perché se ne possa percepire l’esistenza, senza che se ne riconosca-
no la forma o le caratteristiche. Affinché venga percepito qualcosa su di uno sfondo
bisogna che sia stimolata per lo meno una singola unità recettiva della retina in
maniera differente rispetto alla retina circostante, ossia nell’acutezza di visibilità
non sono tanto importanti le dimensioni del punto da percepire quanto la differen-
za di illuminazione dello stesso rispetto al resto dello sfondo e quindi della retina.
In sostanza vengono modificate contemporaneamente la dimensione angolare ed il
contrasto luminoso retinico: la visibilità di oggetti piccolissimi dipende non tanto
dalle dimensioni dell’immagine retinica che essi producono quanto dalla differenza
di illuminamento che essi sono in grado di produrre, ossia dipende dalla sensibilità
al contrasto. Quando consideriamo l’acutezza di visibilità dobbiamo differenziare la
capacità di stimolazione delle sensazioni luminose: una mira scura su sfondo chiaro
potrà essere definita da una soglia di dimensione angolare al di sotto della quale non
potrà più essere percepita anche aumentando al massimo il contrasto. Viceversa un
punto chiaro luminoso su sfondo scuro potrà essere sempre percepito indipendente-
mente dalle sue dimensioni angolari purché la sua intensità luminosa venga suffi-
cientemente aumentata; per comprendere meglio: questa è la ragione per cui siamo
in grado di percepire la luce delle stelle in un cielo notturno nonostante sottendano
dimensioni angolari infinitamente piccole.
Abbiamo perciò compreso come l’acutezza di visibilità dipenda specialmente dal
contrasto luminoso fotometrico esistente, se questo è molto elevato anche ogget-
ti di piccole dimensioni potranno essere sempre percepiti grazie alla differenza di
illuminamento retinico, al contrario se il contrasto risulta essere scarso un oggetto
anche di dimensioni relativamente grandi non potrà essere percepito in quanto non
produce sulla retina differenze di illuminamento sufficienti. Da ciò si deduce che
in presenza di ametropie lo sfuocamento influenza negativamente l’acutezza di vi-
sibilità. Da ultimo vale la pena ricordare che in condizioni fotopiche la sensibilità
al contrasto retinico è massima, per cui oggetti di piccole dimensioni che causano
piccole differenze di illuminamento retinico potranno essere percepiti abbastanza
bene, cosa che non avviene in condizioni scotopiche: l’acutezza di visibilità risulta
pertanto influenzata anche dall’adattamento retinico.
L’acutezza visiva di risoluzione corrisponde all’inverso dell’angolo minimo di risolu-
zione espresso in minuti primi, ossia sessantesimi di grado. La più piccola distanza
angolare alla quale due punti o due linee possono essere percepiti ancora come di-
stinti viene chiamata angolo minimo di risoluzione o minimal angle of resolution
(M.A.R.). L’acutezza visiva di risoluzione si basa sulla differenza di contrasto o lu-
minanza esistente nell’intervallo che separa i due punti o le due linee. Quando due
punti scuri su fondo chiaro vengono avvicinati progressivamente, la differenza di
illuminamento presente tra l’immagine retinica dei due punti e lo sfondo si attenua
sempre più fino a diventare talmente piccola da non consentire la percezione in
quanto inferiore alla soglia di sensibilità al contrasto presente nell’occhio dell’osser-
vatore: ossia la soglia differenziale di sensibilità non è più sufficiente da consentire
la percezione di due punti o di due linee come distinti. In sostanza è necessario che,
perché due punti siano percepiti come separati, le loro immagini stimolino due unità
ricettive retiniche differenti e che tra queste ultime esista almeno un’unità ricettiva
14. Acutezza visiva in età pediatrica 211
14.2.1 Precisione
La precisione o ripetibilità di un metodo di misura esprime il grado di accordo esi-
14. Acutezza visiva in età pediatrica 212
stente tra misure ripetute della stessa caratteristica che è rimasta (presumibilmen-
te!) invariata. La ripetizione di misurazioni molto minuziose di una lunghezza o di un
peso, producono sistematicamente dati di misura lievemente differenti: se eseguia-
mo ripetutamente delle misure in millimetri della lunghezza di una stanza siamo
preparati a constatare che i valori delle misure replicate non risultano sempre gli
stessi ma si mostrano “dispersi” entro certi limiti (senza che a nessuno venga in men-
te di pensare che la lunghezza della stanza continui a modificarsi sia pure in modo
quasi impercettibile!). Anche le misurazioni ripetute ad esempio della refrazione o
della tonometria o della pachimetria eccetera, producono sistematicamente dati di
misura lievemente differenti, pur essendo ragionevole pensare che la caratteristica
misurata (refrazione, tono oculare, pachimetria) sia rimasta invariata fra le differen-
ti misurazioni. Analogamente, il valore della misura di un’acutezza visiva può variare
anche quando la visione spaziale resta sicuramente invariata; viceversa la visione
spaziale può subire lievi variazioni senza che queste vengano necessariamente docu-
mentate da una modificazione della misura. Questa variabilità dei risultati di misure
ripetute costituisce una caratteristica più o meno evidente di tutti i metodi di misu-
ra: misurazioni ripetute della stessa grandezza (che si presume resti invariata!) for-
niscono sistematicamente valori diversi sebbene molto simili. La precisione di una
misura pertanto può essere valutata dalla dispersione dei valori misurati effettuati
dallo stesso soggetto nelle medesime condizioni. La determinazione della precisione
della misura dell’acutezza visiva riveste una grande importanza pratica in quanto
permette di stimare se la differenza fra due misure di un’acutezza visiva sia dovuta
ad una modificazione della visione spaziale, per effetto ad esempio di un agente
patogeno o di una terapia, o sia semplicemente espressione della imprecisione del
metodo di misura. Le decisioni cliniche si fondano su questa valutazione.
14.2.2 Accuratezza
L’accuratezza di una misura dovrebbe indicare il grado di corrispondenza esistente
fra i valori forniti dal metodo in questione e il vero valore della caratteristica misu-
rata. Nella pratica clinica viene accertata la corrispondenza con i valori ottenibili
da un metodo di misura che viene assunto come “misura campione” (gold standard).
Per comprendere meglio: l’accuratezza di una misura lineare ad esempio deve ne-
cessariamente corrispondere a quella fornita dal metro campione di riferimento del
sistema metrico decimale, ossia il gold standard, conservato a Parigi, cioè la misura
rilevata deve coincidere necessariamente con quella fornita dal metodo standard.
Nella determinazione dell’acutezza visiva il grado di accuratezza del metodo utiliz-
zato può essere calcolato valutando la media e le differenze tra le misure ottenute
col metodo in questione ed il gold standard di riferimento. Nella determinazione
dell’acutezza visiva nei bambini l’impossibilità di applicare un metodo standard non
consente l’accertamento dell’accuratezza dei vari metodi di misura comunemente
utilizzati che pertanto sono forieri di errori di sopra o sottovalutazione. Nella pratica
la definizione dell’accuratezza di una misura consente lo scambio di informazioni tra
operatori; l’analisi statistica di misure di diversa origine e la corretta e omogenea
applicazione di norme regolamentari.
14.2.3 Sensitività
La sensitività designa la capacità di un metodo di misura di evidenziare sistema-
ticamente anche piccole variazioni della grandezza da misurare e dipende dalla
graduazione dello strumento di misura impiegato. Nel caso della determinazione
della visione spaziale assume importanza la progressione adottata per definire i vari
14. Acutezza visiva in età pediatrica 213
“gradini” di una tavola ottotipica. Una sensitività elevata si ottiene adottando una
progressione geometrica delle dimensioni degli ottotipi con una “ragione di progres-
sione” molto bassa (es.: 1,5 - 1,15 - 1,30 e via dicendo). Nella pratica clinica però va
considerato che la possibilità di evidenziare piccole variazioni della visione spaziale
crea un aumento della dispersione delle misure ripetute e conseguente riduzione
della loro precisione, sarà pertanto indispensabile utilizzare una “ragione di progres-
sione” che consenta di determinare valori di acutezza visiva sufficientemente precisi
e riducendo al minimo la dispersione degli stessi.
14.2.4 Validità
La validità di una misura indica l’entità di concordanza tra i risultati ottenuti ed il
vero stato del valore che voglio misurare. Nel caso dell’acutezza visiva la validità di
un metodo di misura indica la sua capacità di valutare il vero stato funzionale della
visione spaziale monoculare, ad esempio l’esistenza di una vera isoacuità visiva.
Quando vogliamo determinare la misura dell’acutezza visiva come si è già detto al-
trove i metodi di misura psicofisici usati dipendono direttamente dal tipo di risposte
utilizzate. Gli stimoli visivi utilizzati sono generalmente dei simboli o ottotipi di va-
ria dimensione e forma queste ultime determinate come standard per convenzioni
internazionali. Generalmente nella pratica clinica quotidiana viene registrata l’acu-
tezza visiva di ricognizione, che corrisponde al tipo di acutezza visiva più raffinata
comprendente essa stessa gli altri tipi di acutezze visive già descritte.
Gli ottotipi e i simboli utilizzati sono differenti e ciascuna tipologia è caratterizzata
da dettagli particolari che debbono essere riconosciuti. Reticoli o scacchiere: sem-
plici e standardizzabili perché l’angolo di risoluzione può essere definito con la mas-
sima accuratezza. Lettere dell’alfabeto: le più usate per la loro facilità di impiego; si
utilizzano generalmente lettere di media difficoltà con leggibilità equivalente e la
cui altezza e larghezza siano pari a 5 volte lo spessore dei tratti. Numeri: presentano
le stesse caratteristiche delle lettere ma meno raccomandabili come impiego. Figure
astratte con componente direzionale quali le “E di Snellen” e le “C di Landolt”:
presentano anch’essi dimensioni globali pari a 5 volte quella del loro dettaglio cri-
tico. È utile ricordare che gli anelli di Landolt vengono generalmente raccomandati
come ottotipi di riferimento per tarare le dimensioni degli altri ottotipi impiegati
nell’esame dell’acutezza visiva. Nei bambini ci troviamo spesso nell’impossibilità di
sottoporre alla loro attenzione specie nei primi anni di vita ottotipi letterali, pertan-
to si sono proposte delle alternative quali le figure geometriche, che però presentano
spesso difficoltà di interpretazione, o le immagini di oggetti ed animali, la cui ricono-
scibilità dipende dal contesto culturale e dal tipo di stilizzazione utilizzata. Sicura-
mente l’ottotipo pediatrico più utilizzato consiste nelle E di Snellen presentate con
le aste perpendicolari orientate nelle quattro direzioni dello spazio e che il bambino
deve indicare girando la propria mano nella direzione corrispondente.
14.4.1 Il logMAR
Ma indipendentemente dal tipo di ottotipo utilizzato nella determinazione della mi-
sura dell’acutezza visiva di ricognizione, va sempre considerato il cosiddetto “detta-
glio critico”. Esso corrisponde all’angolo visuale sotteso da quei dettagli che dovreb-
bero essere percepiti o risolti per consentire il riconoscimento delle caratteristiche o
delle forme dell’ottotipo; tale angolo viene definito anche come angolo di risoluzione
e si misura in sessantesimi di grado. Il dettaglio critico nei reticoli corrisponde allo
spessore delle bande chiare e scure, il dettaglio critico delle E di Snellen risiede nel-
lo spessore dei tratti e degli spazi che li separano, mentre il dettaglio critico delle C
di Landolt risiede nell’apertura dell’anello, nelle lettere e nei numeri per convenzio-
ne si definisce come dettaglio critico lo spessore dei tratti che li delineano (si asse-
14. Acutezza visiva in età pediatrica 215
gna una altezza ed una larghezza pari a 5 volte lo spessore dei tratti). Comunemente,
commettendo però un grave errore, si esprime la dimensione degli ottotipi con il
valore dell’acutezza visiva corrispondente espressa in valori decimali, ad esempio ot-
totipi dei quattro decimi, ottotipi dei sei decimi e via dicendo. In realtà il vero valore
della dimensione degli ottotipi riconosciuti deve essere espresso dall’angolo visuale,
in minuti primi o sessantesimi di grado, sotteso dal dettaglio caratteristico della
distanza a cui gli ottotipi debbono essere impiegati. La conoscenza della dimensione
degli ottotipi assume importanza nella misura dell’acutezza visiva in quanto dob-
biamo determinare quale sia la dimensione dei più piccoli ottotipi riconoscibili. Si
parla allora di minimo angolo di risoluzione o minimal angle of resolution o M.A.R.
che corrisponde pertanto all’angolo visuale sotteso dal “dettaglio caratteristico” del
più piccolo ottotipo riconosciuto, misurato in minuti primi: sessantesimi di grado.
Le dimensioni degli ottotipi dovrebbero essere definiti con il logaritmo (decimale
o naturale) del MAR ossia logMAR. L’adozione del logaritmo dell’angolo minimo di
risoluzione consente di indicare indirettamente la percentuale di differenza della
dimensione nella progressione degli ottotipi utilizzati per la determinazione dell’a-
cutezza visiva. L’acutezza visiva di risoluzione e di ricognizione è definita come l’in-
verso del MAR che consente comunque una notazione decimale dell’acutezza visiva,
ma che si badi bene non corrisponde affatto alla notazione in frazioni decimali che
viene normalmente utilizzata!
Quando utilizziamo una scala ottotipica per definire la più piccola dimensione degli
ottotipi che consente il loro riconoscimento è necessario modificarne le dimensioni.
Ma di quanto dobbiamo modificare tali dimensioni per percepire un cambiamento
o meglio qual è la misura percentuale di modifica dei dettagli minimi di un ottotipo
affinché ne possiamo apprezzare il cambiamento? In psicofisica secondo la legge
di Weber il rapporto tra la differenza appena apprezzabile ed il valore basale dello
stimolo è uguale ad una costante, in altre parole per ottenere la stessa modificazione
di una sensazione dobbiamo variare l’entità dello stimolo di una quantità propor-
zionale allo stimolo stesso. Solamente mediante l’utilizzo di una progressione geo-
metrica ossia percentualmente proporzionale, la scala di misura diventa coerente
con il fenomeno che si vuole misurare in quanto ad ogni intervallo presente nella
scala si produce una uguale differenza di sensazione (ad esempio il 10%, il 25 % e
così via). Fin dalla standardizzazione delle tavole ottotipiche si era notato che la ra-
gione della progressione geometrica ideale della differenza della dimensione degli
ottotipi era del 25%. Oggi per semplicità si indica come ragione della progressione
geometrica il logMAR 0,1, pari alla radice decima di 10 che in numeri corrisponde al
valore 1,25892. Tale ragione della progressione è pari ad una modifica delle dimen-
sioni degli ottotipi del 26% in modo che la dimensione risulta raddoppiata ogni tre
gradazioni e decuplicata ogni dieci gradazioni: il logaritmo decimale dell’angolo di
risoluzione aumenta in progressione aritmetica con una ragione = 0,1 per cui nella
misura dell’acutezza visiva tra 0,3 e 1 corrisponde a 4 gradazioni di ottotipo, mentre
se utilizziamo altre ragioni di progressione potremo aumentare il numero di righe de-
1.0 0.8 0.63 0.5 0.4 0.3 0.25 0.2 0.16 0.126 0.1 A.V.
0.0 0.1 0.20 0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8 0.9 1.0 logMAR
1.0 1.26 1.58 1.99 2.51 3.16 3.98 5.0 6.3 7.94 10.0 MAR
Tabella 1. Progressione geometrica degli ottotipi con “ragione di progressione” di 0,1 log, aumento del
MAR di circa il 26% ad ogni riga.
14. Acutezza visiva in età pediatrica 216
fetti rifrattivi presenti come ad esempio avviene negli screening pediatrici, oc-
corre ricordare che la luminanza eccessiva delle tavole ottotipiche ed una forte
illuminazione ambientale possono consentire in presenza di difetti di lieve entità
di eseguire una performance ottimale nascondendo di fatto la presenza del difetto
eventualmente presente, vanificando la sensibilità del test eseguito.
Percentuale
Numero di Numero di Percentuale di
Numero di ottotipi di “veri”
presentazioni risposte errate risposte esatte
riconoscimenti
4 4 1 75% 66%
4 5 1 80% 73%
4 5 2 60% 46%
4 6 2 66% 55%
4 7 2 71% 62%
10 5 2 60% 55%
10 7 2 71% 68%
Tabella 2. La formula di Abbot permette di calcolare nell’ambito della percentuale di risposte esatte, la
percentuale di riconoscimenti “veri” in base al numero di ottotipi presentati, al numero di presentazioni
effettuate ed al numero di risposte errate
Le misure psicofisiche misurano delle soglie, cioè quelle dimensioni di uno stimolo
alle quali questo comincia ad essere percepito o smette di essere percepito oppure
produce una percezione differente. In psicofisica vengono considerati diversi tipi di
soglie. La soglia assoluta corrisponde al minimo valore che uno stimolo deve avere
per produrre una sensazione, tale concetto è ben comprensibile se ricordiamo come
i punti luminosi visualizzati durante l’esecuzione del campo visivo computerizzato
vengano presentati con delle differenti intensità luminose via via decrescenti per
studiarne la loro percezione, oppure in caso di determinazione dell’acutezza visiva la
soglia assoluta è rappresentata dalle più piccole dimensioni degli ottotipi al di sotto
delle quali i simboli non possano essere rilevati. La sensibilità ad uno stimolo lumino-
so viene indicata con l’inverso della soglia assoluta di intensità luminosa (sensibilità
assoluta) mentre la sensibilità ad un stimolo strutturato quale l’angolo visuale degli
ottotipi viene indicata con il suo reciproco (acutezza). La soglia differenziale indica la
più piccola variazione di uno stimolo capace di produrre una variazione della sensibi-
lità tale da essere percepita. La sensibilità differenziale è l’inverso della soglia diffe-
renziale. Nel caso della misura dell’acutezza visiva risulta evidente che le differenze
di luminanza giochino un ruolo fondamentale nel riconoscimento degli ottotipi. Un
esempio standardizzato di tale situazione è la misura della sensibilità al contrasto.
Quando si effettua l’esame del visus specie in età pediatrica non bisogna scordare
che il riconoscimento di un ottotipo potrebbe essere effettuato casualmente ossia
per indovinamento. Uno dei maggiori problemi consiste nel calcolo della percentua-
le di indovinamento durante l’esecuzione dell’esame del visus. Se vengono utilizzati
ottotipi come le E di Snellen con quattro differenti orientamenti la percentuale di
indovinamento è ovviamente pari al 25%, se addirittura utilizziamo i reticoli del
“preferential looking” che presentano solo due possibilità di collocazione per essere
captati (destra o sinistra) la percentuale di indovinamento sale al 50%. Se vengono
utilizzate 10 lettere dell’alfabeto come avviene nelle tavole ottotipiche standard la
percentuale è del 10%. Per questi motivi è bene che il numero di presentazioni sia
elevato al fine di abbattere la probabilità di indovinamento.
Il calcolo della probabilità che le risposte date dal paziente corrispondano all’effetti-
vo riconoscimento degli ottotipi (veri riconoscimenti) si ottiene con la formula di Ab-
14. Acutezza visiva in età pediatrica 219
L’utilizzo delle tavole logaritmiche si è semplificato sempre più nel corso degli anni
grazie alla presenza sul mercato di schermi computerizzati che contengono dei para-
metri di calcolo automatici delle varie misure necessarie, ma tali tecniche non sono
sempre applicabili in tutte le situazioni cliniche. È necessario quindi conoscere tutti
i metodi di calcolo da applicare alla scala logaritmica:
– Metodo degli stimoli costanti
– Metodo dei limiti
– Metodo staircase.
Gli ultimi due consentono il calcolo dei parametri statistici quali la media, la devia-
zione standard, i limiti di confidenza, valori indispensabili per la determinazione
della “Vera Acutezza Visiva”.
Figura 1. Esempio di tavola ottotipica utilizzata per l’esame del visus con il
“Metodo dei limiti”.
Figura 2. Schema su cui annotare le risposte del paziente durante l’esame del
visus con il “Metodo dei limiti”.
Notare che in basso sono segnati i coefficienti per i quali vanno moltiplicati i
valori di Deviazione Standard ottenuti al fine di ricavare i limiti di confidenza
al 95% in base al numero di presentazioni effettuate.
14. Acutezza visiva in età pediatrica 221
L’idea di utilizzare la statistica per misurare l’acutezza visiva spaventa non poco ma
in realtà si tratta solo di saper interpretare i valori che devono essere applicati nel
calcolo dell’acutezza visiva in quanto, specie nella determinazione dell’acutezza vi-
siva con i metodi utilizzati nei bambini, i programmi computerizzati ci consentono
la registrazione a calcoli già eseguiti. Non è possibile però per il personale medico
e per gli ortottisti che in realtà sono degli “specialisti delle misure oftalmologiche”
esimersi dal conoscere il significato della media, della deviazione standard e dei
limiti di confidenza.
14.7.1 La media
Corrisponde alla somma di tutte le misure divisa per il numero di prestazioni. Indica
in sostanza la misura tendenzialmente presente nel nostro campione e può esse-
re calcolata solo da un campione di misure metriche. Alla luce di questo concetto
appare evidente che non si possono calcolare “medie” di misure di acutezza visiva
quantificate in decimi o con frazioni di Snellen. Si possono invece calcolare “medie”
di misure logMAR di acutezza visiva ottenute utilizzando tavole logMAR (e non “vol-
tando” in logMAR misure decimali ottenute con tavole “decimali”!!!). Si può calco-
lare una media geometrica di misure “decimali” ottenute utilizzando tavole logarit-
miche. Non è assolutamente lecito rilevare l’acutezza visiva con tavole “decimali”
(impiegando regole personalizzate di “terminazione” delle presentazioni e di calcolo del
valore di AV), voltare in logMAR le misure così ottenute e utilizzare queste misure de-
cimali convertite (“travestite”) in logMAR per calcolare medie, deviazioni standard
o altre statistiche “parametriche”.
misure che si trovano entro determinati intervalli di valori misurati. Tali valori nel
calcolo dell’acutezza visiva con scala logaritmica consentono di esprimere in manie-
ra indiretta il grado di attendibilità delle risposte, ossia maggiore è il valore della
deviazione standard più grande sarà l’intervallo delle misure rispetto alla media
delle risposte, minore sarà la deviazione standard più piccolo sarà l’intervallo delle
misure rispetto alla media delle risposte.
sovrappongono per più del 25% allora significa che non è cambiato nulla e che perciò
non abbiamo ad esempio alcuna modificazione nel nostro protocollo terapeutico.(Fi-
gura 4) Nel caso dell’acutezza visiva i limiti di confidenza delle misure ci consentono
di renderci conto se fra due misure rilevate nello stesso occhio in tempi differenti
esiste una differenza statisticamente significativa di acutezza visiva, ossia se è cam-
biato qualcosa veramente, oppure se i due valori registrati rientrano nella normale
variabilità della media delle risposte senza che nulla si sia modificato. I limiti di
confidenza di una media si ottengono o moltiplicando la DS per un coefficiente K che
dipende dal numero dei rilevamenti effettuati (Figura 5), oppure nel caso del meto-
do staircase sommando e sottraendo il valore calcolato direttamente dal computer
alla media decimale delle risposte.
Alla luce di quanto esposto appare ora chiaro come solo un metodo come quelli
descritti consenta un calcolo realistico ed attendibile della cosiddetta vera acutezza
visiva.
Tale misura viene considerata dal punto di vista della sua precisione e della sua
accuratezza, concetti che, come abbiamo visto in precedenza, rendono l’esame alta-
mente attendibile. Il vero valore dell’acutezza visiva viene espresso dalla media o
dalla mediana delle risposte correlate ai limiti di confidenza al 95% od al 99%, che
indicano entro quali limiti noi possiamo calcolare il vero valore di queste statistiche
con una predeterminata probabilità di avere ragione. È solo quando si rende neces-
sario quantificare la “vera variazione” dell’acutezza visiva per prendere decisioni
terapeutiche che allora è necessario usare un metodo di misura che consenta di usa-
re un trattamento statistico dei dati (ambliopia, anisometropia, cataratta congenita
eccetera).
15. La refrazione in età pediatrica 225
15.1 Validità
Non possiamo applicare una tecnica di misura prescindendo dal concetto di validità
della misura stessa. La validità di un metodo di misura designa la sua capacità di
valutare il vero stato della caratteristica che stiamo valutando, nel nostro caso la
misura del difetto visivo presente. Il concetto di validità si estrinseca in alcune pre-
cisazioni della validità stessa.
mente successo in quel ruolo, caso in cui viene confermata un’alta validità predittiva
del test per quel particolare ruolo. Riguardo a un test d’intelligenza, se ne può per
esempio verificare la validità predittiva riferita al futuro successo scolastico, o rife-
rita al futuro successo lavorativo o in ambito sentimentale. Nella determinazione del
difetto refrattivo può ad esempio avere senso considerare il guadagno nell’acutezza
visiva in un paziente ambliope che ha risolto il problema grazie all’analisi effettuata
col test stesso.
15.2 Accomodazione
Uno dei problemi che ci si deve porre nell’analisi refrattiva è la presenza dell’ac-
comodazione. Essa consiste nella funzione che modifica il potere del cristallino
in modo da consentire la messa a fuoco sulla retina di oggetti situati a differenti
distanze dall’occhio e di conseguenza adeguare il diottro oculare alla vergenza dei
raggi luminosi che lo attraversano. La contrazione del muscolo ciliare cui è collega-
to il cristallino determina un aumento del potere di quest’ultimo (accomodazione
positiva), mentre un rilasciamento del muscolo ciliare determina una diminuzione
del potere del cristallino (accomodazione negativa). Tali movimenti del muscolo
ciliare sono su base riflessa e difficilmente possono essere gestiti volontariamen-
te. Il meccanismo dell’accomodazione pertanto è prevalentemente influenzato da
stimoli esterni presenti nella quotidianità di ciascuno di noi. Lo sfuocamento delle
15. La refrazione in età pediatrica 227
immagini determina un cambio di curvatura del cristallino e quindi del suo potere
per ottenere un’immagine nitida sulla retina e consentire una visione distinta. La
convergenza o la divergenza sono capaci di mettere in atto l’accomodazione: la con-
vergenza aumenta il potere diottrico del cristallino (accomodazione positiva) men-
tre la divergenza ottiene una diminuzione del potere diottrico dello stesso (acco-
modazione negativa). Infine la vicinanza apparentemente prossimale di un oggetto
induce la necessità riflessa di una accomodazione positiva nonostante l’immagine
non si presenti sfuocata o non sia stata messa in gioco la convergenza.
In ultimo va considerata la presenza del cosiddetto tono accomodativo. In assenza di
stimoli visivi il muscolo ciliare si trova in stato di contrazione “tonica” di un valore
diottrico superiore di circa 1 / 1,5 diottrie rispetto a quello ottenibile in massima
accomodazione negativa. Tale situazione viene inibita dall’effetto dei cicloplegici
che annullano il valore diottrico tonico di 1 / 1,5 diottrie il quale a sua volta viene
ripristinato una volta terminato l’effetto del cicloplegico.
Nell’occhio miope la distanza che separa la macula dal diottro oculare risulta in-
vece maggiore della distanza focale di questo, per cui i raggi che provengono dalla
zona maculare arrivano al diottro oculare con una vergenza negativa inferiore al
potere positivo del sistema diottrico cornea-cristallino per cui escono con una ver-
genza positiva. Tale meccanismo farà convergere i raggi ad una distanza inferiore a
quella dell’occhio emmetrope, per cui non avremo più un punto remoto posizionato
all’infinito, bensì il punto remoto sarà situato ad una distanza reale situata di fron-
te al bulbo oculare. Nella miopia per cui il punto remoto è reale e si trova tanto più
vicino all’occhio tanto più elevato è il difetto miopico. Nell’occhio ipermetrope al
contrario avremo che i raggi maculari escono dal bulbo divergenti poiché la loro
vergenza negativa sarà maggiore del potere positivo del sistema diottrico cornea-
cristallino per cui non riesce ad essere totalmente compensata ed è quindi come
se insorgessero da un punto situato dietro alla regione maculare. Da ciò si deduce
come il punto remoto nell’ipermetropia sia virtuale e posizionato al di dietro del
bulbo oculare stesso.
Sia il punto prossimo sia il punto remoto possono essere misurati con una misura li-
neare che indica la distanza che lo separa dal bulbo
oculare, o con le diottrie che equivalgono all’inverso di ETÀ A.A. MEDIA
tale distanza espressa in metri. La differenza del valore 5 16,82
diottrico del punto prossimo e del punto remoto rappre- 6 17,25
senta l’ampiezza accomodativa, ossia la variazione di po-
7 15,79090909
tere che il cristallino è capace di attuare. Sappiamo bene
come l’ampiezza accomodativa si riduca progressivamen- 8 15,90909091
te con l’età. Essa è di circa 14 diottrie verso i 10 anni per 9 14,78333333
poi decrescere progressivamente fino ad annullarsi verso 10 14,93846154
i 65 anni. Pochi studi sono presenti sull’ampiezza accomo- 11 16,49166667
dativa nei bambini in età scolare ma si può evincere dai 12 13,86363636
dati attualmente presenti in letteratura che l’ampiezza
13 12,47272727
accomodativa media in età pediatrica risulta subire una
progressiva diminuzione (Figura 1) fino ai 10 anni per poi 14 12,91666667
attestarsi su valori di poco superiori alle 14 diottrie con 15 13,8
un andamento caratterizzato da lievi variazioni (Tabella 16 14,8
1), mentre nessun dato è riferibile ai bambini della pri- Tabella 1. Ampiezza
ma infanzia. accomodativa media per età
15. La refrazione in età pediatrica 229
Per evitare che l’accomodazione intervenga a viziare i risultati degli esami della
refrazione è consigliabile utilizzare i cicloplegici.
15.3 Cicloplegia
oltre a quanto detto poco sopra, anche l’entità della midriasi, pur essendo quest’ul-
tima un segno relativamente poco congruente con l’entità della cicloplegia, la di-
namica pupillare residua eventualmente presente, indice di una cicloplegia ancora
insufficiente e ricordarsi che i pazienti con iride molto pigmentate rispondono meno
efficacemente ai cicloplegici, per cui in questi casi vale la pena considerare di au-
mentarne dosaggio
Le molecole che più vengono impiegate possono essere riassunte nello schema se-
guente:
– Ciclopentolato: instillare una goccia per occhio a distanza di 5 minuti l’una dall’al-
tra per due volte; effetto massimo dopo 30 minuti e dura circa 60 minuti. Eseguire
misura della refrazione tra 30 e 60 minuti dall’ultima instillazione. Accomodazione
residua 1D (sempre < 2D).
– Tropicamide: instillare una goccia per occhio a distanza di 10 minuti l’una dall’al-
tra per tre volte, ha un’efficacia minore del precedente, effetto massimo dopo 20
minuti e dura circa 15 minuti. Eseguire misura della refrazione tra 20 e 30 minuti
dall’ultima instillazione. Accomodazione residua 2D, midriasi molto marcata.
– Atropina: instillare una goccia per occhio a distanza di 10 minuti l’una dall’altra
per due volte al dì per tre giorni precedenti la visita; è il più efficace ma oramai il
meno usato, effetto massimo dopo 1-3 ore e dura 12-24 ore, recupero della accomo-
dazione in 10-15 giorni. Accomodazione residua < 1D.
L’esame della refrazione eseguito in cicloplegia presenta sia dei vantaggi sia de-
gli svantaggi. Ogni qual volta si applica l’esame in cicloplegia bisogna conside-
rare attentamente entrambe le cose per non incorrere in banali errori di valuta-
zione che possono compromettere la prescrizione corretta, ma non bisogna mai
dimenticare che la cicloplegia risulta il punto cardine nella prescrizione degli
occhiali nei bambini, senza la quale difficilmente si potranno risolvere adegua-
tamente i problemi rifrattivi e tutto ciò che ne consegue in termini di recupero
dell’ambliopia.
Svantaggi
1. la cicloplegia è una condizione anomala, il ripristinarsi del tono accomodativo
basale può essere causa di errore nella valutazione dell’entità e dell’asse dei
piccoli astigmatismi
2. una cicloplegia incompleta determina errori di valutazione e conseguentemente
errori di prescrizione
3. la midriasi indotta rende più difficile la schiascopia per l’intervento di aberra-
zioni periferiche ed ombre che disturbano l’esecuzione dell’esame, per cui vanno
sempre e solo osservate le ombre entro i 4 mm centrali
4. può creare disturbi soggettivi.
Tra i test che vanno effettuati dal pediatra entro i primi sei mesi di vita particolar-
mente importante è l’analisi del riflesso rosso pupillare, noto anche come red reflex
(Test di Bruckner). Con questo semplice esame è possibile diagnosticare precoce-
mente patologie oculari che, se scoperte tardivamente, possono essere causa di gravi
danni visivi permanenti: cataratta congenita, glaucoma congenito, retinoblastoma,
anomalie retiniche e difetti di refrazione. Per effettuare questo test è necessario
utilizzare un oftalmoscopio o in alternativa un buon otoscopio, escludendo durante
l’osservazione la lente di ingrandimento, l’esaminatore si pone a circa 80 cm dal
bimbo con l’oftalmoscopio davanti un occhio in una stanza poco illuminata; la luce
dello strumento viene prima proiettata su un occhio del bimbo e successivamente
nell’altro. In condizioni normali la luce proveniente dall’oftalmoscopio attraversa
le parti trasparenti dell’occhio (film lacrimale, cornea, cristallino e umore acqueo);
una volta raggiunto il fundus oculi, viene riflessa attraverso i mezzi trasparenti e l’a-
pertura dell’oftalmoscopio per poi raggiungere l’occhio dell’esaminatore. (Figura 1)
L’oftalmoscopio originale di Helmotz era di difficile uso essendo necessario che en-
trambi gli occhi, quelli del soggetto e quelli dell’osservatore, fossero esenti da difetti
di refrazione e capaci di mantenere durante l’osservazione la messa a fuoco su un im-
maginario punto lontano. Per ovviare a questi inconvenienti era necessario ricorrere
a particolari lenti correttive. Gli oftalmoscopi moderni continuano ad essere basati
sul principio di Helmotz e cioè che l’osservazione della retina è possibile solo se
l’occhio dell’osservatore e la sorgente luminosa sono posti sullo stesso asse. Gli oftal-
moscopi hanno una fonte di illuminazione propria, che crea un fascio luminoso che,
dall’interno dell’apparecchio, un sistema di prismi o specchi, proietta sulla stessa
linea di visione dell’osservatore.(Figura 2) Nella testa dell’apparecchio è contenuto
un intero “set” di lenti (circa 14) detto disco di Rekoss, che possono essere interposte
sull’asse di osservazione in modo da correggere i difetti refrattivi dell’esaminatore e
del soggetto. La manovra da effettuare per passare da una lente all’altra è rapidissi-
ma (basta ruotare una rotellina) e può essere effettuata con un dito anche durante
l’osservazione della retina. In una piccola finestrella compaiono dei numeri che cor-
rispondono alle diottrie della lente inserita: i numeri scritti in rosso si riferiscono
a lenti negative (divergenti) utilizzate per correggere la miopia. I numeri scritti in
nero si riferiscono a lenti positive (convergenti) utilizzate per correggere l’iperme-
tropia. (Figura 3)
L’oftalmoscopio possiede anche un’altra rotella posizionata sul retro dell’oftalmosco-
pio (lato paziente), che ci permetterà di scegliere differenti tipi di aperture come stel-
lina di fissazione, diverse dimensioni piatte, semicerchio, fenditura e filtro verde e blu.
Per prima cosa osserviamo comparire una striscia luminosa sul campo pupillare dove
è presente il riflesso rosso del fundus. Lo schiascopio o retinoscopio a striscia forni-
sce un riflesso caratteristico costituito da una banda luminosa delimitata ai lati da
due zone d’ombra. Muovendo la striscia su meridiani orizzontale e verticale osservo
un movimento della luce che può essere concorde, ossia segue la stessa direzione del
movimento del retinoscopio oppure discorde (Figura 2) cioè si evidenzia su un meri-
diano differente dalla direzione del movimento del retinoscopio; tale situazione è
tipica della presenza di un astigmatismo. Il movimento della banda luminosa inoltre
è accompagnato da un’ombra che può essere diretta (Figura 3), ossia segue il movi-
mento della banda luminosa nella stessa direzione (movimento diretto) oppure inver-
sa (Figura 4) ossia compare all’opposto del movimento della banda luminosa (mo-
vimento inverso). Nel movimento diretto il punto coniugato retinico si trova dietro
all’occhio dell’esaminatore per cui c’è bisogno di lenti positive per portarlo a livello
dell’occhio dell’esaminatore. Nel movimento inverso il punto coniugato retinico si
trova davanti all’occhio dell’esaminatore per cui c’è bisogno di lenti negative per
portarlo a livello dell’occhio dell’esaminatore. L’orientamento della striscia può es-
sere variato facendo ruotare il manicotto su se stesso: la striscia esplora la refrazione
del meridiano perpendicolare al suo asse, per cui il movimento del retinoscopio deve
essere effettuato sul meridiano perpendicolare alla striscia stessa. Da notare però
Una schiascopia eseguita in modo corretto dovrebbe essere effettuata solo sula re-
gione foveale. Se ne deduce che pertanto dovrebbe essere eseguita sempre in ciclo-
plegia, la miosi ottenuta dall’abbagliamento della mira luminosa del retinoscopio di
fatto ne impedisce l’esecuzione. Nella pratica clinica quotidiana la schiascopia va ef-
fettuata lungo un asse vicino all’asse visivo ma non su di esso, così facendo i risultati
ottenibili non sono differenti da quelli registrabili qualora venisse effettuata sull’as-
se visivo, purchè l’obliquità di esecuzione non superi certi limiti. La schiascopia va
eseguita tra il bordo nasale della papilla e la regione foveale con un’obliquità che
non deve superare i 5°-6°. Gli errori di misura indotti da una osservazione obliqua
acquistano importanza al di là di 10° di obliquità rispetto all’asse visivo. Quando po-
sizioniamo una lente sferica obliquamente essa aumenta il suo valore sferico ed ac-
quista un valore cilindrico proporzionale all’entità dell’obliquità ed al potere della
lente, il cui asse corrisponde all’asse di rotazione della lente stessa. Nell’esecuzione
della schiascopia nella posizione temporale all’asse visivo il diottro oculare, che va
considerato come una lente sferica, risulta come se fosse ruotato nasalmente su di
un asse verticale, per cui risulta facile comprendere che l’obliquità introduce il valo-
re di un cilindro positivo ad asse verticale che diminuisce l’entità degli astigmatismi
secondo regola ed aumenta quella degli astigmatismi contro regola.
La schiascopia per cui se effettuata obliquamente può segnalare la presenza di astig-
matismi inesistenti o modificare l’asse ed il potere di quelli realmente presenti, ed
anche modificare il potere della refrazione sferica, oltre a creare ombre anomale.
Come regola eseguendo l’esame alla distanza standard di 67 cm. dal paziente va
ricordato che spostamenti laterali obliqui di esecuzione entro i 5 cm. non alterano il
risultato mentre gli errori diventano sempre più frequenti oltre i 15 cm.
Un’ulteriore causa di errore nella schiascopia è rappresentata dall’accomodazione
presente. Essa rende i risultati estremamente approssimativi in quanto nel corso
dell’esame si succedono livelli differenti di accomodazione dovuti al variare della
messa a fuoco del paziente. Ciò accade in maniera estremamente cospicua nei bam-
bini pertanto per evitare errori risulta essenziale, specie in età pediatrica eseguire
l’esame in cicloplegia. Qualora fossimo impossibilitati a ciò va ricordato che è ne-
cessario mettere in atto alcuni accorgimenti per evitare il più possibile l ‘interfe-
renza dell’accomodazione. Un’illuminazione ambientale moderata, il porre la mira
17. La Schiascopia in età pediatrica 242
È una tecnica di esame abbastanza complessa ma anche molto sofisticata che con-
sente di ottenere informazioni sia sull’asse dell’astigmatismo sia sul potere di esso.
L’utilizzo dei retinoscopi ha di fatto semplificato la tecnica della schiascopia consen-
tendo una sufficiente precisione ed accuratezza utilizzando le combinazioni sfero-
cilindriche. Molte regole però, che servono per il controllo dell’asse e del potere
dell’astigmatismo determinato dalla schiascopia a striscia, non possono prescindere
dalla conoscenza della schiascopia cilindrica: se siamo di fronte ad una ametropia
astigmatica il metodo più preciso ed accurato è proprio la schiascopia cilindrica.
Quando è presente un astigmatismo come si è già detto precedentemente possia-
mo osservare sui meridiani esplorati (90°, 180°, 45°, 135°) un movimento diretto ed
uno inverso dell’ombra schiascopica, una larghezza della banda luminosa differente
sui vari meridiani ed un movimento discorde della stessa. Mentre nelle ametropie
sferiche la medesima lente sferica neutralizza tutti i meridiani, negli astigmatismi
occorre anteporre all’occhio in due tempi successivi due lenti di potere differente:
– due sfere
– due cilindri
– una combinazione sfero cilindrica.
Se uso due lenti sferiche la lente che neutralizza un meridiano crea sul meridiano
opposto un’ombra di senso contrario che disturba l’osservazione del meridiano esa-
minato, se invece uso lenti cilindriche non ho questa interferenza e ciò mi consente
un calcolo più accurato del potere dell’astigmatismo da correggere.
Per comprendere appieno la tecnica di esame della schiascopia cilindrica è di fonda-
mentale importanza capire alcune regole fondamentali.
17. La Schiascopia in età pediatrica 243
Abbiamo detto che nel caso i 2 cilindri siano di potere uguale (ossia il mio cilindro ha
lo stesso potere diottrico dell’astigmatismo che devo correggere) l’asse del cilindro
risultante si trova equidistante dalla bisettrice dell’angolo di incrociamento, mentre
se si incrociano 2 cilindri di potere differente (ossia il mio cilindro non ha lo stesso
potere diottrico dell’astigmatismo che devo correggere) l’asse del cilindro risultante
è spostato verso l’asse del cilindro originario di potere maggiore.
Vediamo comparire un’ombra diretta con l’asse su un meridiano che dista più di 45°
da quello su cui si trova il cilindro che abbiamo inserito ed un’ombra inversa sul me-
ridiano perpendicolare a quello ottenuto. La posizione dell’asse dell’ombra diretta ci
indica la direzione verso la quale occorre ruotare il cilindro di inserito per portarlo
nella posizione esatta. Tale tecnica pertanto ci consente il controllo dell’asse dell’a-
stigmatismo rilevato. In numeri: se ho messo cil +2 ad 80° ho un angolo di incrocia-
mento di 20° (tra l’astigmatismo a 100° ed il mio cilindro a 80°) quindi osserverò un
ombra diretta sull’asse risultante dalla somma 80° + 55° = 135°. (55° deriva da 45° +
10°, ossia metà angolo incrociamento, = 55°) vedrò un’ombra inversa perpendicolare
ad esso vale a dire dalla parte opposta rispetto all’ombra che vedo girata di 90°ossia
a 45° (135° - 90° = 45°) Se invece voglio attenermi alla regola matematica posso trova-
re il meridiano opposto eseguendo il calcolo come prima e ritrovo lo stesso risultato
80°- 35° = 45° (35° deriva da 45°- 10°, ossia metà angolo incrociamento, = 35°) Se quin-
di l’ombra diretta dista dall’asse del cilindro di 2 diottrie di un angolo di direzione
ampiamente maggiore di 45° significa che esso dista di un ampio intervallo dall’asse
corretto, un angolo di direzione invece di poco superiore a 45° indica che il cilindro
di 2 diottrie si trova molto vicino all’asse corretto. L’entità dell’angolo di direzione
quindi indica l’ampiezza dello spostamento che devo far compiere al mio cilindro di
2 diottrie per arrivare al meridiano esatto.
Per riassumere in breve i passaggi sopra descritti:
• Anteporre lenti sferiche per estinguere movimento su meridiano meno iperme-
trope o più miope. Ottengo ombra diretta sul meridiano opposto che è l’asse della
banda pupillare (se astigmatismo elevato restringere striscia dello schiascopio per
evidenziare meglio la banda)
• Inserire lente cilindrica (potere si evince da larghezza banda e da differenza sui 2
meridiani) coincidente con asse della banda: si ottiene movimento concorde.
• Si legge sul portalenti il meridiano (asse principale dell’astigmatismo) e si control-
la posizione dei meridiani che si trovano a 45° da una parte e dall’altra dell’asse
rilevato. Se non compare l’ombra diretta significa che ho messo un cilindro di pote-
re corretto e sull’asse esatto. Se invece l’ombra diretta dista dall’asse del cilindro
inserito di un angolo di direzione ampiamente maggiore di 45° significa che il no-
stro cilindro dista di un ampio intervallo dall’asse corretto, un angolo di direzione
invece di poco superiore a 45° indica che il cilindro inserito si trova molto vicino
all’asse corretto.
macula lutea
cornea
mm davanti al polo posteriore.
La linea che congiunge la fovea asse ottico fovea
umor acqueo
con l’oggetto fissato, passando
papilla
per i punti nodali dell’occhio, è asse ottico ottica guaina
definita asse visivo ed è l’asse
nerv
di maggiore interesse nella pra- o ott
ico
tica clinica. (Figura 1) corpo ciliare
Ogni occhio è dotato di sei mu- retina
scoli estrinseci di tipo striato, lamina cribrosa
coroide
quattro muscoli retti (superiore, epitelio pigmentato
sclera
inferiore, mediale e laterale), e
due muscoli obliqui (superiore Figura 1. Sezione sagittale dell’occhio umano
e inferiore).
Tutti i muscoli retti traggono origine da un’unica formazione tendinea posta sul fon-
do dell’orbita: l’anello tendineo comune di Zinn.
Si tratta di un anello imbutiforme che contorna il tratto mediale e superiore del
margine del forame ottico e lateralmente si attacca ad una sporgenza della faccia
orbitaria della grande ala dello sfenoide. È intimamente unito alla guaina durale
del nervo ottico ed alla membrana resistente, formata dall’unione della dura madre
con la periorbita (periostio della cavità orbitaria). Il margine anteriore dell’anello,
svasato, si prolunga nei tendini di origine dei muscoli retti.
I muscoli retti hanno anche altri caratteri in comune. Sono allungati, nastriformi, più
stretti in dietro e più larghi in avanti. Scorrendo in prossimità delle pareti dell’orbita,
si portano in avanti divergendo fino all’equatore dell’occhio; poi si incurvano sul seg-
mento anteriore di questo e, per mezzo di un tendine lungo, appiattito, sottile, più largo
del corpo muscolare, si attaccano alla sclera, a breve distanza dalla cornea. (Figura 2)
spirale di Tillaux
lazione del muscolo rispetto all’asse anteroposteriore dell’occhio che al suo punto
di inserzione.
I movimenti oculari presuppongono l’esistenza di un centro di rotazione che può con-
siderarsi corrispondente al centro del bulbo oculare, ed a 3 assi di rotazione chiamati
assi di Fick (X, Y e Z) nelle seguenti modalità:
– Z o asse orizzontale: una rotazione dell’occhio attorno all’asse Z provoca un’eleva-
zione o una depressione; il polo posteriore dell’occhio ha un movimento in direzio-
ne opposta;
– X o asse verticale: una rotazione dell’occhio attorno all’asse X provoca un movi-
mento verso l’esterno (abduzione) o verso l’interno (adduzione);
– Y o asse antero-posteriore,perpendicolare al piano di Listing (corrisponde all’as-
se visivo): una rotazione
dell’occhio attorno all’asse
Y implica un movimento
di torsione del bulbo ocu-
lare. (Figura 5)
L’azione dei muscoli non è
identica intorno a tutti gli
assi di rotazione.
Definiremo quindi primaria,
secondaria e terziaria ciascu-
na delle azioni in rapporto
con la sua importanza rela-
tiva per quel dato muscolo,
come rappresentato in tabel-
la 1.
La motilità oculare è un pro-
cesso estremamente com-
plesso e regolare, governato
da quattro leggi fondamen- Figura 5. Assi di Fick
18. La motilità oculare e la rifrazione 250
1. I punti retinici che hanno un’identica localizzazione spaziale nei due occhi vengono chiamati corrispondenti.
A punti retinici corrispondenti, corrisponde nell’ambiente una superficie curva del tutto immaginaria nello
spazio chiamato oroptero, il cui centro è rappresentato dall’oggetto fissato. Soltanto i punti che si trovano sul
piano dell’oroptero stimolano punti retinici corrispondenti. Vi è però una ristretta area al di qua e al di là
dell’oroptero, in cui giacciono i punti-oggetto che, pur stimolando punti retinici lievemente disparati, sono
comunque visti singoli: è questa l’area di Panum. Questi punti in merito alla loro lieve disparità sostengono il
senso stereoscopico. I punti situati al davanti o al di dietro della superficie dell’oroptero, e quindi dell’area di
Panum, causano diplopia.
18. La motilità oculare e la rifrazione 252
È importante rilevare che i movimenti dei due bulbi oculari, al fine di assicurare una
normale visione, devono essere solidali e perfettamente sincroni; la mancanza di
tale condizione provoca uno strabismo.
Lo strabismo, infatti, è una condizione clinica caratterizzata dal mancato allinea-
mento degli assi visivi dei due occhi sull’oggetto fissato.
Gli strabismi possono essere suddivisi in 3 raggruppamenti principali:
– Strabismi concomitanti: la deviazione non si modifica nelle varie direzioni di
sguardo;
– Strabismi paralitici: è presente una paralisi o una paresi di uno o più muscoli di un
occhio, la deviazione si modifica a seconda della direzione di sguardo;
– Sindromi da restrizione: l’esistenza di un ostacolo meccanico che impedisce o ridu-
ce l’escursione dell’occhio in una o più direzioni di sguardo.
Gli strabismi concomitanti costituiscono la grande maggioranza delle deviazioni ocu-
lari che compaiono nell’infanzia
A seconda del momento di insorgenza gli strabismi possono essere suddivisi in:
– Congeniti,
– Acquisiti
Lo strabismo può essere classificato anche riferendosi alla deviazione degli assi visi-
vi; in questo caso la suddivisione è la seguente:
– Strabismo Convergente ESODEVIAZIONE
– Strabismo Divergente EXODEVIAZIONE
– Strabismo Verticale IPERDEVIAZIONE O IPODEVIAZIONE
Quando lo strabismo è sempre presente (strabismo manifesto) si parla di eteroTRO-
PIA, in questo caso viene a mancare la visione binoculare, un occhio appare deviato,
mentre l’altro è allineato con l’oggetto che si sta osservando.
Si parla invece di eteroFORIA (strabismo latente) quando la deviazione è mantenuta
celata dal meccanismo di fusione e compare solo quando questo viene interrotto (es.
durante il cover/cover-uncover test2).
In condizioni normali di visione gli assi visivi dei due occhi vengono diretti su uno
stesso punto dello spazio e partendo dalle immagini fornite separatamente dai due
occhi si forma a livello corticale un’unica immagine.
Quando al contrario, le immagini dello stesso oggetto cadono su punti retinici non
corrispondenti, lo stesso oggetto è individuato dal nostro sistema visivo come se fos-
sero due immagini differenti da cui ne consegue la presenza di una visione doppia
o diplopia. Quando invece su punti retinici corrispondenti cadono immagini di due
oggetti differenti dello spazio, essi sono percepiti come sovrapposti determinando la
cosiddetta confusione. Nello strabismo congenito, presente fin dai primi mesi di vita,
non si ha l’insorgenza di tali fenomeni perché il bambino mette in atto un meccani-
smo di difesa detto soppressione, ovvero il cervello ha la capacità di eliminare l’im-
magine proveniente dall’occhio deviato al fine di evitare la diplopia e la confusione.
Quando lo strabismo insorge in età adulta invece, come ad esempio dopo scompen-
so di un’eteroforia, o nel caso di strabismi paralitici, il disallineamento degli assi
visivi induce diplopia. In questi casi per annullare la diplopia conseguente a tale
disallineamento oculare possiamo utilizzare delle lenti prismatiche che permettono
la sovrapposizione delle 2 immagini. L’unità di misura di queste lenti è la diottria
2. Cover test: è uno dei test fondamentali per valutare la presenza di un angolo di strabismo. Il fenomeno che si
cerca di evocare è la saccade di rifissazione che l’occhio deviato deve compiere per riprendere la fissazione.
18. La motilità oculare e la rifrazione 253
prismatica (Dp, Δ) che è l’equivalente della deviazione dei raggi luminosi pari ad un
centimetro a un metro di distanza dal prisma stesso su una superficie piana: la misu-
ra della deviazione può essere espressa quindi in diottrie prismatiche.
18.4 Il prisma
il cui apice si trova nel senso della deviazione oculare. Così strabismi convergenti
(esotropia/foria) vengono corretti con prismi ad apice nasale e quindi a base tempo-
rale (BT), strabismi divergenti (exotropia/foria) vengono corretti con prismi ad apice
temporale e quindi a base nasale (BN), strabismi verticali in cui l’occhio è deviato
verso l’alto (ipertropia/foria) verranno corretti con prismi ad apice in alto e quindi
a base bassa (BB), e quelli in cui l’occhio è deviato verso il basso (ipotropia/foria)
verranno corretti con prismi ad apice in basso e quindi a base in alto (BA). (Figura 7)
Le lenti oftalmiche negative (per la correzione della miopia) possono essere para-
gonate a 2 prismi sottili uniti per l’apice, mentre quelle positive (per la correzione
dell’ipermetropia) possono essere paragonate a 2 prismi uniti per la base. Alla luce
di ciò si può ben comprendere come anche le centrature delle lenti oftalmiche pos-
sano influenzare i movimenti oculari.
La deviazione di una lente è zero quando il raggio passa per il centro ottico, allon-
tanandosi dal centro ottico, la lente produce un effetto prismatico che determina lo
spostamento della posizione apparente di un oggetto e di conseguenza una modifica-
zione della posizione che l’occhio deve assumere per fissarlo.
Si dice che le lenti sono decentrate quando gli assi visivi non passano per il centro
ottico delle lenti.
18. La motilità oculare e la rifrazione 255
Esistono alcune forme di strabismo che traggono grossi vantaggi dall’utilizzo della
correzione refrattiva, di queste ci occuperemo in particolare alla luce del significato
di questo testo.
Una causa frequente di esoforia o tropia è data dalla stretta relazione tra accomoda-
zione e convergenza.
Quando viene esercitata una certa quantità di accomodazione, si associa ad essa
18. La motilità oculare e la rifrazione 256
6. Rapporto AC/A: rapporto tra l’accomodazione richiesta per vedere ad una certa distanza e la convergenza
necessaria. L’intervallo di normalità è compreso tra 3 e 5.
18. La motilità oculare e la rifrazione 258
19.1 Definizioni
sono inserite le lenti oftalmiche o i filtri solari. Per poter effettuare correttamente
questa operazione, gli anelli presentano una scanalatura interna nella quale viene
inserito l’orlo della lente molata a forma di cuneo (bisello). A seconda della forma
della montatura, due alette situate nel lato interno degli anelli permettono l’appog-
gio della montatura sul naso. Praticamente la montatura ha un triplice appoggio: sul
naso e sulle orecchie.
La forma degli Anelli detti anche Cerchi costituisce uno degli aspetti essenziali del
progetto formale dell’occhiale. Se l’occhiale è da vista, alcuni vincoli sono imposti
dal tipo di lente che si deve montare.
Il Ponte o Naso è quella parte del frontale che unisce i due anelli: esso non ha la fun-
zione di supportare la montatura perché questo complete alle placchette.
Le Placchette o Nasello o Alette sono i veri appoggi della montatura sul naso. Nelle
montature in plastica, spesso esse sono ricavate dai cerchi. L’appoggio sul naso deve
essere stabile affinché la montatura non scivoli di lato neppure di pochi millimetri.
Per questo motivo le placchette sono inclinate sia rispetto al piano del frontale sia
rispetto al piano di simmetria della montatura, perpendicolare al piano del frontale
(piano mediano). Nelle montature di metallo o con anelli metallici, le placchette
sono rivestite in materiale plastico e sono sostenute da un piccolo braccio di metallo
saldato all’anello. Il materiale a contatto con la pelle deve essere anallergico: attual-
mente le placchette sono realizzate in materiale siliconico. A seconda del modo in
cui le placchette sono collegate al cerchio prendono il nome di fisse, semimobili o
mobili.
Le Aste sono due lunghi rettangoli sagomati in varie maniere e collegate al frontale
in modo tale da mantenerlo in posizione fissa davanti agli occhi. Da ciò consegue
la formazione di una serie di angoli che influenzano il potere correttivo della lente
oftalmica. Hanno il compito di avvolgere l’orecchio in modo anatomico per tenere
fisso l’occhiale.
La Cerniera è la “minuteria” con cui si unisce l’asta al cerchio. Generalmente sono
costituite con un’inclinazione di 0-6 gradi. Questo valore viene definito dal fabbri-
cante. La scelta di questa minuteria condiziona, insieme alla meniscatura, gli angoli
della montatura.
Permettono inoltre alle aste, quando l’occhiale non è in uso, di piegarsi verso l’inter-
no, riducendo lo spazio occupato dalla montatura. Il corretto sovrapporsi reciproco
delle aste nella posizione sopra descritta prende il nome di “battuta” ed è indice di
corretto assetto dell’occhiale.
19.3.1 Frontale
La valutazione quantitativa dei parametri di una montatura si esegue con la misura
lineare dei vari elementi costituenti l’oggetto in questione. Dalla rilevazione di que-
sti dati si ricava:
1. valutazione della corrispondenza della montatura scelta alle ossa del cranio
dell’ametrope;
2. nel caso si debba confezionare un occhiale da vista si può scegliere correttamente
i diametro della lente oftalmica da impiegare per ottenere un perfetto centraggio.
Nel 1961 l’American Optical Manufacturer Association mise a punto un sistema per
la misura dei parametri del frontale denominato “Sistema quadro o Boxing”.
Nel 1991 tale sistema venne accettato anche in Inghilterra e recepito nei British
Standard col numero 3521 facendo di fatto cessare l’uso del sistema Datum. Attual-
19. La Montatura nell’adulto 261
La notazione standard è stata introdotta per uso internazionale dalla Optical So-
ciety Committee nel 1904. Successivamente una commissione tedesca, Technischer
Ausschuss für Brillenoptik, TABO, si espresse favorevolmente a quanto stabilito dal-
la Commissione nel 1904. Il sistema fu definitivamente adottato nel 1921 dalla Bri-
tish Ophthalmological Society.
Il Sistema Internazionale fu proposto nel 1909 durante il Congresso internazionale
di Oftalmologia che si teneva a Napoli. Attualmente viene usato sempre meno nella
pratica quotidiana.
Estremamente importanti infine, per un corretto approntamento di un occhiale da
vista sono l’angolo pantoscopico e l’angolo di avvolgimento di una montatura.
Figura 4. Possibili posizione del frontale rispetto al piano dell’asta. Nel secondo caso, il frontale si allontana
dal viso dell’ametrope l’angolo è detto “retroscopico”
19. La Montatura nell’adulto 263
“0 - 6” sono i valori di angolo pantoscopico comuni alla maggior parte delle montatu-
re presenti sul mercato. L’ottico può intervenire sulla montatura in materiale di sin-
tesi (forzando la cerniera), sugli occhiali montati a giorno, cambiando l’inserimento
dei fori. Non può modificare alcunché nelle montature in titanio o acciaio.
Le considerazioni sopra riportate ci portano a formulare una semplice regola: duran-
te il montaggio conviene posizionare il centro ottico da 3 a 4 mm. sotto la pupilla.
Nel caso in cui l’asse ottico della lente non intersechi il centro di rotazione dell’oc-
chio, l’inclinazione della lente introduce un valore di astigmatismo, variando così
l’effetto correttivo della lente. Questo valore di astigmatismo indotto causa due ef-
fetti che sono direttamente proporzionali al valore della lente:
1. aumento dell’effetto correttivo della sfera;
2. potere del cilindro indotto, di segno uguale a quello della sfera (+/-) sull’asse a 180.
19.7.1 Definizioni
Le differenze esistenti tra una montatura realizzata in materiale di sintesi e quel-
le in metallo, sono molte, diverse e presentano caratteristiche di realizzazione ben
precise.
19.7.2 Frontale
È la parte centrale della montatura:
ha il compito di alloggiare le lenti
per la correzione del vizio refrattivo
o il filtro solare. Esso è composto da
due cerchi di varia forma uniti tra
di loro da un ponte, mentre la fun-
zione di far poggiare saldamente e
comodamente l’occhiale sul naso è
Figura 6. Parti fondamentali di una montatura in
affidata alle alette; l’appoggio sul- materiale di sintesi: A=asta; B=occhio; C=muso D=ponte;
le orecchie è assicurato dalla parte E=frontale; F=cerchio; G=alette
terminale delle aste che forniscono
la stabilità della distanza della par-
te posteriore della lente oftalmica
dall’apice corneale.
19.7.3 Cerchi
Questa parte della montatura è la
più soggetta a variazioni di forma
essendo condizionata dalle scelte
dei designers che nel tempo hanno
elaborato una serie infinita di for-
me stimolati dalla moda.
Nonostante ciò la forma degli anelli
può essere ricondotta a 4 forme ca-
noniche come si vede nella figura 7.
Al fine di tenere saldamente la lente
oftalmica o il filtro solare ben fissa a. rotonda; b. pantos; c. perimetrica; d. mefisto.
nella posizione voluta, il cerchio ha
al suo interno un canalino che assol-
ve perfettamente allo scopo in quanto la lente viene modellata al bordo con una forma
uguale e contraria del canalino, bisello, nel quale va perfettamente a inserirsi.
Le aste vengono unite al frontale tramite il muso con l’uso di una cerniera, che per-
mette anche alle aste di chiudersi sul retro fornendo un risparmio notevole di spazio
quando non in uso.
19.7.4 Ponte
Due sono i tipi canonici: ponte a sella e ponte a chiave (Figura 8).
– Ponte a sella (A): la superficie di contatto di questa parte della montatura che pog-
gia interamente sul naso assicura il massimo comfort; esteticamente fa sembrare il
naso più corto;
– Ponte a chiave (B): questa forma classica copre buona parte della base del naso,
facendolo sembrare più corto e in evidenza.
19. La Montatura nell’adulto 265
19.7.5 Muso
È quella parte della montatura in
cui l’asta si unisce al frontale. Cin-
que sono i modi di unione:
1. muso dritto;
2. muso a battente;
3. muso piegato;
4. muso curvato;
5. muso applicato.
Aste
Hanno il compito di ancorare il
Figura 7. A = ponte a sella; B = ponte a chiave
frontale di fronte agli occhi in una
precisa posizione che deve rimanere
inalterata nel tempo. In figura 3 sono riportate le forme canoniche mentre in figura
9 la morfologia.
Caratteristiche Vantaggi
Facilità nel registro della montatura e
Ottima adattabilità
nell’inserimento delle lenti
Lucentezza del materiale e ampie possibilità di
Possibilità di ottenere tutti i modelli
combinazioni di colori
L’occhiale mantiene nel tempo le sue
Buona resistenza meccanica e chimica
caratteristiche sia di forma che chimico fisiche
Unico materiale plastico ricavato da una fibra
Minimizza il fenomeno di eventuali allergie
vegetale (cotone)
19. La Montatura nell’adulto 267
Poliammidi
Agli inizi degli anni ’30 i chimici della E.I. DuPoint de Nemour & Company iniziarono
una ricerca fondamentale sulle reazioni degli acidi dicarbossilici con la diammina
per formare poliammidi. Nel 1934 essi sintetizzarono la prima fibra completamente
di sintesi, il nylon 66, così chiamato perché viene sintetizzato da due differenti mo-
nomeri ciascuno contenente sei atomi di carbonio.
Questo polimero è il capostipite di tutti quei materiali che in occhialeria vanno sotto
il nome di nylon. I più importanti sono SPX, la famiglia del Trogamid CX e Grillamid
TR. Va da sè che i polimeri sono coperti da segreto industriale.
MXP7
Questo materiale è una miscela di nylon ed è impiegato nel processo di iniezione. È
un materiale resistente, leggero, e mantiene la sua forma a meno che non si riscaldi.
SPX
È una poliammide, polimero che permette di creare un design multifunzionale e con-
ferisce alla montatura comfort notevole. È stato sviluppato da Micheal Selcott e le tre
lettere della sigla stanno per S=Silhouette, P=Polymer, X=I vari impieghi dell’azienda.
Trogamid CX
Trogamid CX è una poliammide microcristallina trasparente che racchiude in sè le
caratteristiche chimico fisiche delle poliammidi amorfe insieme ad una elevata resi-
stenza alla rottura e agli agenti chimici, caratteristiche tipiche dei polimeri microcri-
stallini. È inoltre particolarmente resistente all’azione della radiazione UV, possiede
un ridotto assorbimento di umidità. Facilità di colorazione.
Si possono infatti ottenere colori molto brillanti e marcatura con il laser. Queste pro-
prietà rendono il polimero adatto alla produzione di montature e lenti.
I polimeri della famiglia dei Trogamid sono sintetizzati usando dei polimeri base e
dei polimeri che si distinguono per la loro ottima trasparenza e l’alta resistenza agli
agenti chimici.
Le poliammidi impiegate in occhialeria sono individuate dalla sigla CX seguita da
quattro numeri che stanno ad indicare il valore della viscosità della composizione
(Tabella 1).
In occhialeria si usa la poliammide con la sigla CX7323. È una poliammide traspa-
rente e di media viscosità particolarmente indicata per la produzione di montature
da occhiali sia per iniezione e stampaggio, che per estrusione. Generalmente questo
particolare polimero può essere colorato facilmente.
Questo è un polimero in cui sono stati sostituiti i componenti aromatici con monome-
ri alifatici per aumentare la stabilità delle poliammidi trasparenti quando sottopo-
sto all’azione dei raggi UV. Esso si ottiene usando per la sintesi monomeri specifici
fino a ottenere una poliammide cristallina e trasparente. I cristalli sono però infini-
tesimi per cui la luce non viene diffusa dal polimero.
Le principali caratteristiche di questo polimero sono:
1. Polimero cristallino trasparente
2. Alta trasmissibilità della radiazione ottica
3. Elevata resistenza alla radiazione UV
4. Basso assorbimento di acqua con riferimento a molte poliammidi
5. Alta stabilità dimensionale
6. Alta resistenza agli urti anche a basse temperature
7. Elevata resistenza ai graffi
8. Facile da lavorare.
Grilamid TR
Con questo nome commerciale si indicano una serie di poliammidi amorfe e traspa-
renti. Questi prodotti possono essere lavorati usando metodologie termoplastiche
e che traggono la loro base su monomeri aromatici e cicloalifatici ottenendo così
polimeri che hanno una grande quantità di proprietà.
La famiglia di polimeri che va sotto questa sigla appartiene ad un gruppo di omo
poliammidi e polimeri amorfi.
Rispetto alle poliammidi semi cristalline, a questo polimero si perviene scegliendo
Polimero Applicazioni
TR 55 LX Dove si richiedono prodotti trasparenti come montature per occhiali
Costruzione di parti per iniezione e stampaggio in cui si richiede particolare durezza
TR 55 LY
e resistenza alle piegature
TR 90
Costruzione di montature particolarmente resistenti
TR 90 LS
TR 90 UV Particolarmente adatto a prodotti usati all’aria aperta
TR 90 LXS Prodotti che richiedono una buona resistenza alla piegatura come occhiali da vista
TR 90 NZ Particolarmente stabile e resistente agli urti. Indicato per gli occhiali protettivi
TR 55/90 LX Ha elevata stabilità e resistenza nel tempo
Tabella 2
19. La Montatura nell’adulto 269
opportuni monomeri in fase di sintesi, ottenendo così un polimero amorfo che origi-
na un prodotto di elevata trasparenza.
Questa famiglia di polimeri ha la peculiarità di combinare le proprietà delle poliam-
midi semicristalline con quelle dei polimeri amorfi.
In occhialeria vengono impiegati i seguenti polimeri di questa famiglia: TR 55 LX,
TR 55 LY, TR 90/90 LS, TR 90 LXS, TR 90 NZ.
Nella tabella 2 le proprietà di questi polimeri.
La famiglia TX 55, ha le proprietà sopra descritte distribuite in modo omogeneo,
mentre TR 90, è un composto cicloalifatico.
Optyl
L’Optyl è un materiale brevettato da Carrera e attualmente prodotto e utilizzato in
esclusiva dal Gruppo Safilo.
È commercializzato dal 1964.
È un materiale plastico termoindurente della famiglia delle resine epossidiche che,
oltre ad avere eccezionali qualità fisico-chimiche, garantisce un’ottima finitura della
superficie ed una resistenza superiore a quella dei convenzionali materiali termopla-
stici (acetato, propionato, ecc.). Gli occhiali con questo materiale si producono per
iniezione. (Tabella 3)
Nato da una speciale combinazione di sostanze, è un materiale plastico termoindu-
rente, leggerissimo ed estremamente confortevole in quanto adattabile a ogni volto.
Resistente nel tempo, risulta essere anallergico in quanto privo di plastificanti ed è
trattato con uno speciale rivestimento della superficie che permette di non rovinarsi
con sudore e prodotti cosmetici.
Una caratteristica dell’Optyl è l’“effetto-memoria”. Scaldato a 80-120°C, questo ma-
teriale può essere adattato all’anatomia facciale e il successivo raffreddamento com-
porta che la forma modificata rimanga nel tempo. Riscaldato poi nuovamente fino
alla “temperatura di memoria” riprende la sua forma originale. Di conseguenza la
forma originale dell’occhiale viene mantenuta in qualsiasi situazione.
L’Optyl garantisce un’ottima finitura della superficie ed una resistenza superiore
Caratteristiche Vantaggi
Peso ridotto (20% in meno rispetto ai materiali Leggerezza e comfort
termoplastici)
Flessibilità Comfort, adattabilità alla forma del viso
Resistenza al calore e agli sforzi meccanici Indeformabilità: la forma originale dell'occhiale
viene mantenuta in qualsiasi situazione
Effetto memoria Scaldato a 80-120°C, l'Optyl può essere
adottato all'anatomia facciale e il successivo
raffreddamento comporta che la forma modificata
rimanga nel tempo. Riscaldato nuovamente fino
alla "temperatura di memoria" riprende la sua
forma originale
Resistenza alla corrosione Resistenza al sudore e ai prodotti cosmetici
Non contiene plastificanti Ipoallergenico e non irritante
Ottenuto attraverso la tecnologia di fusione sotto Design tridimensionale ed effetti di colore unici
vuoto
Tabella 3
19. La Montatura nell’adulto 270
agli sforzi meccanici rispetto a quella dei normali termoplastici (acetato, propinato,
ecc), ottenuto attraverso la tecnologia di ‘colata sotto vuoto’. Le montature sono otte-
nute per stampaggio in colata a stella o per iniezione. Permette un design tridimen-
sionale con effetti di colori unici, lucidi e finemente sabbiati. Queste caratteristiche
lo rendono un prodotto unico ed innovativo.
Qualità delle montature in Optyl:
• grande resistenza e stabilità
• molto elastiche e praticamente indeformabili
• resistente agli agenti atmosferici
• 1/3 più leggero dell’acetato
• resistono ad alte temperature (250° - 300°)
Non si possono saldare con solventi, ma solo incollare con collanti di tipo epossidico
a due componenti, a caldo.
Per il montaggio occorre superare gli 80°, il raffreddamento fissa le eventuali modi-
fiche, ma per un effetto “memory” un nuovo riscaldamento oltre gli 80° fa ritornare
la montatura alla forma originale.
Polimetilmetacrilato, PMMA
Questo materiale, presente sul mercato con molti nomi commerciali (come perspex,
plexiglass, vedril, ecc.), è chiamato familiarmente metacrilato e la sua introduzione
nel mondo dell’ottica è legata specialmente al mondo delle lenti a contatto.
Nell’occhialeria viene usato per la sua resistenza e per la possibilità di ricevere de-
corazioni.
Megol
La grande famiglia dei Megol rappresenta il perfetto connubio tra l’elasticità, la
morbidezza e l’aspetto degli elastomeri e l’economicità di trasformazione dei mate-
riali termoplastici. La matrice dominante di questi compounds elastomerici è l’SEBS
(Stirene - Etilene - Butilene - Stirene). L’assenza di doppi legami nella struttura po-
limerica dell’SEBS è l’origine delle ottime resistenze all’invecchiamento dei com-
pounds che ne derivano. La versatilità formulativa di questo polimero permette di
realizzare prodotti di una gamma molto estesa di durezze, adatti a molteplici appli-
cazioni in vari settori.
Morbida gomma anallergica usata per aste e naselli; offre un elevato grado di ela-
sticità per il massimo comfort. I megol rappresentano un’ottima combinazione tra
elasticità, morbidezza e aspetto delle gomme e l’economicità di trasformazione dei
materiali termoplastici.
La sua versatilità formulativa permette di realizzare prodotti di una gamma molto
estesa di durezze, adatti a molteplici applicazioni. Idonei per stampaggio ad iniezio-
ne ed estrusione, sono disponibili anche in gradi atossici e/o conformi al contatto ali-
mentare. La matrice dominante di questi compounds elastomerici è rappresentata
dai copolimeri termoplastici a blocchi appartenenti a diverse famiglie polimeriche.
Tipicamente i Megol appartengono alla classe dei copolimeri a blocchi di natura
stirenica (SEBS, SEPS), che presentano midblock idrogenati.
19. La Montatura nell’adulto 271
Esistono tuttavia versioni del prodotto che si basano su blocchi polimeri di altra
natura. L’idrogenazione conferisce alla struttura del materiale l’assenza dei doppi
legami e questa è l’origine delle ottime prestazioni dei compounds, quali l’eccel-
lente resistenza alla luce UV e all’invecchiamento. Particolarmente adatti al sovra-
stampaggio ed all’estrusione presentano al substrato rigido apprezzate proprietà di
soft-touch ed un pregevole aspetto estetico gommoso.
Figura 11. Alcune fasi della lavorazione delle lastre col processo a blocco
mente nel forzare per compressione il materiale allo stato pastoso a passare attra-
verso una sagoma che riproduce la forma esterna del pezzo che si vuole ottenere.
Nel caso delle materie plastiche il materiale viene introdotto sotto forma di granuli o
polvere; con il calore prodotto dall’attrito con le pareti dell’estrusore o con resisten-
ze elettriche si ottiene la fusione.
Nel caso di una montatura, si ottiene una lastra uniforme del colore voluto, colore
uniforme.
Ottenuta il tipo di lastra desiderato si passa alla costruzione.
19.11 Classificazione
Tubetto
È quella parte della montatura in metallo che serve a rendere stabile la chiusura del
cerchio, dopo che si è inserito la lente sagomata correttamente.
L’unione del tubetto al cerchio avviene per saldatura. Viste le temperature con cui
si esegue tale processo, il tubetto si può leggermente deformare. Per il suo corretto
funzionamento si deve ripassare il filetto interno con una maschiatrice. Se questa
operazione non viene eseguita correttamente, l’utensile crea una doppia filettatura
la cui conseguenza è l’usura del filetto, della vite e del tubetto, danneggiando le filet-
tature. Una volta che la vite si è spanata, si blocca, impedendo l’apertura del cerchio
oppure può fuoriuscire.
Altro inconveniente che si può originare è che dopo che il tubetto è stato saldato al
cerchio, si deve eseguire una fresatura a “V” per permettere l’apertura del cerchio
stesso. È a questo punto che si deve introdurre la lente e la vite di chiusura. Se la fre-
19. La Montatura nell’adulto 276
Figura 14. Parti fondamentali della montatura in metallo. 1 Frontale; 2 Terminale dell’asta; 3 Zona di
regolazione placchetta; 4 Nasello a sella o anatomico; 5 Canalino o bisello; 6 Asta; 7 Cerniera, 8 Musetto; 9
Naso o ponte; 10 Cerchio; 11 Sagoma del cerchio; 12 Vite
Figura 15. Componenti di un occhiale in metallo. 1 Lenti di presentazione. 2 Lenti solari. 3 Porta placchetta.
4 Placchette. 5 Naso flessibile nichel titanio. 6. Naso coniato. 7 Frontale coniato. 8 Frontale fresato da lastra
in metallo. 9 Frontale fototranciato. 10 Frontale tranciato laser. 11 Cerchi. 12 cerniera flex. 13 Cerniera. 14
Tubetto chiudi cerchio. 15 Vite 16 Muso monoblocco. 17 Componente mim. 18 Componente da microfusione.
19 Abbellitore in acetato. 20 Asta da filo sagomato CNC. 21 Asta a Riccio. 22 Asta tagliata Laser. 23 Asta
fototranciata. 24 Asta Coniata. 25 Asta ricavata flex. 26 Asta flessibile nichel titanio. 27 Asta tornita CNC.
28 Terminale in acetato. 29 Terminale iniettato
19. La Montatura nell’adulto 277
Placchette
Le placchette hanno la funzione di
fare poggiare l’occhiale sul naso.
La caratteristica fondamentale di
una placchetta è quella di essere
confortevole e di distribuire sulla Figura 16. I principali tipi di placchetta con i tipici attacchi:
sua superficie in modo uniforme il 1. bottone (Button); 2. pressione (Click); 3. baionetta (Plug
peso dell’occhiale. Non deve pro- in); 4. vite (Screw)
vocare sulla radice del naso quel-
le fossette rosse che creano tanto
disturbo all’ametrope; deve anche
impedire all’occhiale di scivolare,
una volta indossato, ovvero non
deve alterarne l’assetto.
Importante è anche la forma
dell’attacco della placchetta, ol-
tre alla caratteristica di poter es-
sere “modellato” ovvero adattato
correttamente sul naso dell’ame-
trope. Deve essere l’artefice del
comfort. È la rigidezza del colle-
gamento tra porta placchetta e
placchetta a rendere possibile un
esatto funzionamento della base
d’appoggio del nasello, e di conse-
guenza, la massima ottimizzazione
delle sue caratteristiche.
Acciaio inossidabile
Si tratta di una famiglia di leghe costituite principalmente di ferro, nickel, cromo,
carbonio e altre sostanze in varie proporzioni: il nickel e il cromo rendono queste
leghe particolarmente inattaccabili dagli agenti chimici comuni.
Gli occhiali in acciaio inossidabile sono leggeri, hanno una lunga durata; questa lega,
infatti, si usa per fabbricare montature ultra sottili a causa della sua eccellente re-
sistenza alla trazione.
Grazie al peso ridotto, alla loro resistenza e versatilità di progettazione, i profili in
acciaio inossidabile sono particolarmente adatti alla costruzione di montature.
Le montature in acciaio non sono particolarmente costose e, pertanto, un prodotto
anche di qualità eccellente spesso non manifesta un prezzo eccessivo.
Alcune leghe di acciaio impiegate in occhialeria sono:
− AISI 316 L: usata per i cerchi degli occhiali;
− ANSI 302: usata per componenti sottili ed elastici come molle, aste, ecc.;
− acciaio armonico: contenente silicio e manganese questa lega è malleabile e flessi-
bile e facilita l’inserimento dei ClipOn RX.
Il cobalto
Usato generalmente come componente di leghe metalliche, si usa in montature di
alta qualità alle quali conferisce una estrema leggerezza, durabilità, flessibilità e
sottigliezza. Si può anche rivestire con una grande quantità di colori ma è molto caro
e quindi di uso limitato.
estreme.
Resistente alla corrosione, esso è anallergico e biocompatibile in quanto presenta
una porosità superficiale analoga a quella dei tessuti umani (rispetto ai quali, peral-
tro, risulta fisiologicamente inerte). In considerazione del fatto che il 10% della po-
polazione mondiale è allergica al nickel accusando asma, sinusiti, eruzioni cutanee,
eczemi e dermatiti, le montature in titanio, non contenendo nickel, sono indicate per
coloro che soffrono di allergie cutanee. Per questo stesso motivo le leghe di titanio
sono utilizzate nelle componenti protesiche di anca, ginocchio e impianti dentali.
Grazie alle suddette caratteristiche si calcola che il 30% degli occhiali prodotti al
mondo sia in titanio; si stima che nei prossimi anni, questa quota tenderà a crescere
in tutti i mercati.
19. La Montatura nell’adulto 280
Per ottenere una cromatura “nera” vengono depositati cromo metallico ed ossido di
cromo VI in un rapporto preciso.
Nel trattamento di montature metalliche, altri elementi impiegati sono il palladio, il
rutenio, ecc. Dopo l’elettrodeposizione, il metallo viene protetto da una verniciatura
trasparente.
Fase 9 - Decapaggio
Per preparare il metallo ad una corretta saldatura è necessario eliminare, tramite
un’operazione di decapaggio, lo strato di ossido superficiale che naturalmente si for-
ma sui componenti esposti all’aria. Lo strato di ossido è invisibile e interessa solo
uno spessore di pochi micron del metallo. Questa operazione viene eseguita veloce-
mente immergendo tutti i componenti metallici per breve tempo in un cocktail di
acidi corrosivi che asportano il velo di ossido superficiale.
Fase 13 - Lavaggio
Tra una fase e l’altra spesso si rende necessario il lavaggio dei semilavorati per evi-
tare sporcizia e contaminazioni tra le varie fasi e attrezzature.
Il lavaggio viene eseguito ad immersione utilizzando appositi prodotti sgrassanti
diluiti in acqua, resi ulteriormente efficaci dall’utilizzo di vasche ad ultrasuoni. Il
processo si conclude con l’asciugatura tramite aria calda in appositi forni.
Fase 18 - Lavaggio
Fase 24 - Lavaggio
Fase 26 - Assemblaggio
Tramite viti nelle cerniere il frontale viene definitivamente fissato alle due aste.
Fase 29 - Lavaggio
Fase 31 - Lavaggio
Fase 33 - Sabbiatura
Per preparare le montature alla verniciatura viene eseguita una fine sabbiatura con
materiale vetroso. Questa operazione conferisce al metallo la ruvidezza necessaria
affinché la vernice possa meglio aderire alla superficie.
Fase 37 - Cottura
In un apposito forno le montature stazionano il tempo necessario affinché la vernice
sia completamente asciutta e stabilizzata.
Fase 39 - Precottura
Il secondo velo di vernice in parte dovrà essere asportato per ottenere il risultato
estetico voluto. In questa fase quindi la vernice viene semplicemente asciugata in
modo che l’occhiale possa essere toccato e movimentato ma senza raggiunge la cot-
tura completa.
Fase 49 – Registratura
Con l’utilizzo delle mani e qualche strumento di piega e ritenzione, l’occhiale viene
sottoposto alla “registratura”, una serie di verifiche e calibrature atte a perfezionar-
ne la calzata, ovvero l’ergonomia e la comodità per l’utilizzatore. Durante le fasi di
registratura di norma si verificano anche una serie di parametri tecnici
e dimensionali come l’angolo pantoscopico e il raggio di curvatura.
19. La Montatura nell’adulto 287
Fase 50 - Personalizzazioni
È possibile personalizzare il prodotto per il cliente finale incidendo ad esempio, su
un’asta o dietro il ponte del naso, un disegno o un logo particolari o magari sempli-
cemente un nome, come nel caso visualizzato nell’immagine.
Considerazioni preliminari
Si deve considerare che la parte utile per la visione nelle lenti progressive è un
corridoio verticale, chiamato convenzionalmente canale, definito da due parametri
principali:
– la lunghezza del “canale” (alto-basso) che è variabile in funzione di altri parame-
tri, quali;
– l’altezza della montatura
19. La Montatura nell’adulto 288
– la progressione più o meno rapida che si vuole dare al passaggio dalla correzione
per lontano a quella per vicino.
– la larghezza del “canale” (destra-sinistra) che è a sua volta determinata da altri
elementi tecnici:
– il potere diottrico della lente e la base di progettazione della lente
– si introduce in tal modo un’altra variabile: se la superficie “progressiva” sia rica-
vata all’interno o all’esterno della lente e se la lente sia positiva o negativa
– l’addizione per la visione da vicino.
La scelta della montatura più adatta per il montaggio di lenti progressive, è funzione
dei seguenti elementi:
1. la Correzione (sfera, cilindro, asse) e l’Addizione necessarie alla giusta compensa-
zione del difetto visivo;
2. la Grandezza (calibro e ponte), la Forma dell’occhiale ed il Materiale di cui è fatta
la montatura
3. l’Inclinazione del frontale (angolo pantoscopico)
4. la Distanza apice corneale - superficie posteriore della lente
5. le necessità dell’ametrope (l’uso cioè che ne dovrà fare ed in quali condizioni)
6. l’aspetto estetico.
6. L’aspetto estetico
Anche questo è un aspetto da non sottovalutare; oggi ci sono montature in commer-
cio che coniugano felicemente aspetto tecnico ed aspetto estetico.
Spesso accade che questo non avvenga ad un prezzo “molto economico”, ed ancora
più spesso accade che montature “troppo economiche” non siano adatte per ottene-
re una buona riuscita per un occhiale progressivo. Sarà compito del professionista
trovare la via giusta.
20. Le lenti oftalmiche 291
Le tecniche di produzione delle lenti sono svariate, e differenti, a seconda del mate-
riale utilizzato. Di seguito si farà riferimento, in modo molto sintetico, ai materiali di
maggior utilizzo quali il materiale organico e il vetro minerale.
20.2.1 La refrazione
La caratteristica fondamentale di un mezzo ottico è l’indice di refrazione. Esso
consta di un valore numerico che indica quanto efficientemente un materiale
rifrange la luce, valore che dipende da quanto velocemente la luce attraver-
sa il materiale in esame. In particolare, l’indice di refrazione n esprime il
rapporto tra la velocità c della luce nel vuoto e la velocità v della luce nel
mezzo considerato, ovvero:
Nei materiali la velocità della luce è sempre minore che nel vuoto ed è influen-
zata dai seguenti fattori:
• natura del mezzo
• temperatura (soprattutto per sostanze liquide e gassose)
• pressione (sostanze gassose)
• lunghezza d’onda della radiazione (la lunghezza d’onda minore è più lenta
della luce di lunghezza d’onda maggiore).
Normalmente i valori dell’indice di refrazione vengono dati per una tempera-
tura di 20 °C e una pressione di 1 atm (760 torr = 101,325 kPa).
L’indice di refrazione viene riferito al valore delle singole lunghezze d’onda
della luce, pertanto all’indice n viene affiancata un’ulteriore lettera, in rife-
rimento alla lunghezza d’onda. Vengono dunque utilizzate normalmente:
• ne che, nell’ambito dello spettro della luce solare, si riferisce alla riga verde
alla lunghezza d’onda λ= 546,07 nm;
• nC’ che si riferisce alla riga rossa alla lunghezza d’onda λ= 643,85 nm;
• nF’ che si riferisce alla riga blu alla lunghezza d’onda λ= 479,99 nm.
L’indice di refrazione n e riferito alla riga verde si dice indice di refrazione
principale.
L’utilizzo di un materiale ad alto indice di refrazione permette di ottenere, a
parità di potere, lenti di ridotto spessore. Tale dato non deve però trarre in
inganno, in quanto l’uso di materiali ad alto indice di refrazione può compor-
tare il peggioramento di altre caratteristiche.
20.2.2 La dispersione
Ponendo su un grafico l’indice di refrazione n di una sostanza in funzione
della lunghezza d’onda, si potrà osservare come tale indice diminuisca con
l’aumentare della lunghezza d’onda λ (Figura 1).
In ottica la dispersione è un fenomeno fisico che causa la separazione di un’on-
da (nel nostro caso la luminosa) in componenti spettrali con diverse lunghez-
ze d’onda, a causa della dipendenza della velocità dell’onda dalla lunghezza
d’onda nel mezzo attraversato.
Più semplicemente la dispersione è la grandezza che indica quanto i raggi di
luce di diversi colori vengono dispersi nel passaggio attraverso un mezzo ottico.
Prendendo in esame un raggio di luce bianca, risultante dunque dalla compo-
sizione di tutti i colori spettrali, incidente su un prisma a sezione triangolare,
nelle due rifrazioni subite dai raggi luminosi nell’attraversare il prisma i diversi
colori verranno deviati in misura differente, emergendo dalla faccia opposta
del prisma separati uno dall’altro, con diversi angoli di refrazione (Figura 2).
È possibile distinguere le seguenti grandezze:
– dispersione principale, ossia la differenza fra gli indici di refrazione nF’ e nC’
per la luce blu (λ = 479,99 nm) e la luce rossa (λ = 643,85 nm);
20. Le lenti oftalmiche 293
/DQWKDQXPGHQVHIOLQW/D6)
,QGLFHGLULIUD]LRQHQ
'HQVHIOLQW6)
)OLQW)
%DULXPFURZQ%D.
%RURVLOLFDWHFURZQ%.
)OXRULWHFURZQ).$
/XQJKH]]DG·RQGDƪP
Figura 1. Rapporto tra refrazione e lunghezza d’onda Figura 2. Deviazione spettrale dei differenti
in riferimento a differenti materiali. colori in relazione alla dispersione del
materiale.
– dispersione parziale, la differenza fra gli indici di refrazione per altre lun-
ghezze d’onda;
– dispersione parziale relativa, rapporto tra una dispersione parziale e la disper-
sione principale;
– numero di Abbe o costringenza, che indica il rapporto di dispersione cromatica di un
materiale trasparente alle lunghezze d’onda del visibile. Esso viene espresso come:
20.2.3 La trasparenza
La trasparenza di un mezzo ottico indica la sua capacità di lasciarsi attra-
versare dalla luce. I fenomeni che possono influire sulla quantità di luce che
riesce ad attraversare una lamina di materiale trasparente sono l’assorbimento
all’interno del materiale e le riflessioni su ogni superficie attraversata. Le
grandezze fisiche che misurano l’assorbimento all’interno del materiale sono
la trasmittanza e l’assorbanza. Il valore della trasmittanza T, per ciascun tipo
di materiale e per uno specifico spessore, è dato dal rapporto tra l’intensità
della radiazione trasmessa I e l’intensità I0 della radiazione incidente:
20. Le lenti oftalmiche 294
Figura 5. Differenza strutturale tra cristallo (immagine di sinistra) e vetro (immagine di destra).
20. Le lenti oftalmiche 296
20.2.6 CR-39
Il materiale che ha soppiantato quasi completamente il vetro, almeno fino
alla fine degli anni ’90, è stato il CR-39. Ancora oggi le lenti in CR-39 sono
le maggiormente prodotte, grazie alla loro relativa sicurezza, al basso costo,
alla facilità di produzione ed all’alta qualità ottica.
Il CR-39 è un polimero sintetico termoindurente appartenente alla classe dei
poliesteri (carbonato di dialliglicole). La sigla indica la trentanovesima formula
sviluppata nel 1940 nell’ambito del progetto “Columbia Resins”, portato avanti
dalla Columbia Chemical (Figura 6). Le sue caratteristiche sono le seguenti:
– Indice di refrazione n = 1,498, valore relativamente modesto che comporta, a
parità di potere diottrico, uno spessore maggiore della corrispondente lente
in vetro minerale;
– Densità ρ= 1,32 g/cm3, circa la metà di quello del vetro crown (2,54 g/cm3),
che conferisce a tale lente una leggerezza decisamente superiore;
– Numero di Abbe n = 57,8.
Il CR-39 presenta inoltre una buona protezione UV in quanto taglia completa-
mente la radiazione UV-B al di sotto di 320 nm e buona parte della radiazione
UV-A tra 380 nm e 320 nm. Per contro il CR-39 è un materiale più morbido
Alcuni produttori offrono polimeri con indice di refrazione pari a 1,60, 1,66
o anche 1,70. Della maggior parte di essi non sono note le formule chimiche
perché non sono state divulgate dalle aziende produttrici che li contraddistin-
guono con nomi commerciali. Con questi materiali è possibile realizzare lenti
che, a parità di potere, sono meno curve e più sottili di quelle ottenute con
materiali a indice di refrazione inferiore, ma non per questo meno pesanti.
I materiali ad alto indice di refrazione tendono però ad avere un numero di
Abbe inferiore rispetto a lenti realizzate con materiali più convenzionali, e
soffrono maggiormente quindi di aberrazione cromatica. Una lente organica
con indice di refrazione 1,66, per esempio, ha un numero di Abbe pari a 32 e
una densità di 1,35 g/cm3. Un altro problema che si presenta con materiali ad
alto indice di refrazione è la maggiore riflettività. Un materiale con indice di
refrazione 1,66 riflette il 6,3% della luce incidente su ogni superficie, rispetto
al 4,0% del CR-39. Per questo motivo, e anche per la minore curvatura delle
superfici, si possono avere con queste lenti riflessi fastidiosi.
Tra tali materiali, il Trivex, un prepolimero a base di uretano sviluppato nel
2001 originariamente per l’esercito come armatura visiva, unisce la resisten-
za meccanica del policarbonato con una grande qualità ottica e una grande
leggerezza. Il nome infatti si riferisce alle tre proprietà che lo caratterizzano,
ossia ottiche superiori, peso ultraleggero e forza estrema.
Le sue caratteristiche sono:
– Indice di refrazione 1,53 simile a quello del CR-39 e del vetro crown;
– Numero di Abbe 46, sufficientemente elevato da non dare problemi di aber-
razione cromatica;
– Densità 1,11g/cm3, che lo rendono il materiale più leggero disponibile per
la produzione di lenti oftalmiche.
Inoltre tale materiale è completamente opaco ai raggi UV (Tabella 1).
Dove n’ è l’indice di refrazione del mezzo nel quale la luce sta entrando, n
l’indice di refrazione del mezzo da cui la luce sta uscendo ed r il raggio di
curvatura.
Per la costruzione di una lente con un determinato potere diottrico in cui:
D1 =(n-1)/r1 e D2=(1-n)/r2,
il potere finale della lente risulterà dalla seguente formula:
D = D1 + D2.
A scopo esemplificativo se si volesse una lente con un potere diottrico D =
+8.00 diottrie sferiche (DS) si potrebbe ottenerla in più modi, come ad esempio:
1. D1= +4.00 DS D2= +4.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS lente equiconvessa
2. D1= +6.00 DS D2= +2.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS biconvessa
3. D1= +8.00 DS D2= 0 Dtot = D1+ D2= +8.00 DS piano convessa
4. D1= +10.00 DS D2= -2.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS menisco
5. D1= +12.00 DS D2= -4.00 DS Dtot = D1+ D2= +8.00 DS menisco.
La superficie con potere diottrico più basso è definita come curva di base.
Quando la curva di base ha D = ± 1.25 DS la lente si dice periscopica.
Il medesimo discorso vale per la costruzione di una lente con potere diottrico
negativo, le cui combinazioni sarebbero equiconcava, biconcava, pianoconcava,
menisco (Figura 7). La combinazione che minimizza le aberrazioni, detta best
form, è di solito il menisco, nel qual caso la qualità e lo spessore della lente
differisce in relazione all’ampiezza della curva di base. Sia in casi di lenti positive
che negative infatti riducendo la
curva di base si riducono spessore
dal centro, peso e altezza della
lente misurata rispetto ad un
piano orizzontale, il cosiddetto
plateheight. Quest’ultimo
parametro è importante per
la stabilità della lente sulla
montatura, perché minore è
l’altezza della lente minore sarà Figura 7. Differenti possibili forme per lenti sferiche.
20. Le lenti oftalmiche 299
Dipende, principalmente, dalla categoria del filtro: in funzione al tipo e allo spessore
del materiale di cui è costituito.
La discriminazione qualitativa, invece, è strettamente legata allo spettro di radiazioni
elettromagnetiche che attraversa la lente stessa, misurata attraverso la spettometria.
Dipende, principalmente, dal tipo di filtro: in funzione dalla colorazione e della fi-
nitura.
Alla luce di quanto esposto, quindi, compito dei filtri delle lenti è quello di modulare
l’arrivo della luce alle strutture oculari attraverso il “taglio” di una o più lunghezze
d’onda che costituiscono le diverse radiazioni elettromagnetiche.
In base alla qualità e alla quantità di radiazione modulata i filtri verranno suddivisi
in:
– filtri non selettivi: filtri solari e fotocromatici
– filtri selettivi a nanomeri controllati
– filtri polarizzanti.
Quando questi filtri vengono applicati alle lenti si parlerà di lenti filtranti in cui
troveremo:
– lenti a filtraggio non selettivo
– lenti da sole
– lenti fotocromatiche
– lenti a filtro selettivo
– lenti polarizzanti.
La normativa europea EN
1836:1997 distingue i vari tipi
di filtri solari in base alle ca-
ratteristiche di trasmittanza
nella fascia UV-A e UV-B.
Figura 18. Guida senza lenti polarizzanti Figura 19. Guida con lenti polarizzanti
Altri studi, inoltre, hanno ipotizzato un’interferenza sul ciclo sonno veglia in soggetti
esposti alla luce blu.
Le risultanze scientifiche danno merito della necessità di una protezione dell’occhio
dalla luce blu; principalmente nei confronti di videoterminalisti e di soggetti la cui
attività lavorativa si svolge in ambienti confinati, dove sia presente una illuminazio-
ne forzata.
Tale protezione viene offerta da lenti con filtro blu che incorporano un fotopigmento
che, quando irradiato dalla luce blu, si attiva donando una tonalità blu/violetta alla
lente; ciò permette la schermatura delle radiazioni e ne impedisce l’interazione con
le strutture oculari.
da cui
λ/4
λ/4
rivestimento substrato
posto uno strato di ossido di zinconio, con indice di refrazione di 2,0. Con
tale associazione riusciamo ad interferire con la medesima lunghezza d’onda
a 555 nm; volendo però ridurre ulteriormente la riflettanza su un numero
maggiore di lunghezze d’onda, si ricorre a trattamenti multistrato, in cui ogni
componente interferisce con una specifica lunghezza d’onda. Il risultato fina-
le sarà una qualità di immagine migliore, a danno però di una colorazione
iridescente conferita alla lente, caratteristica discriminativa di una lente con
trattamento antiriflesso.
Nel caso però di trattamenti multistrato, causa la sovrapposizione di più mate-
riali differenti, si rendono necessari ulteriori trattamenti specifici per la lente,
rappresentati dall’indurente e l’idrorepellente.
20.5.4 La tempera
È un particolare tipo di trattamento a cui vengono sottoposte le lenti al fine
di aumentarne la resistenza rendendole, quindi, infrangibili.
Principalmente rivolto alle lenti in vetro minerale, può essere applicato anche
alle lenti in policarbonato.
20. Le lenti oftalmiche 315
quando i ragazzi assumono una conformazione del volto simile a quella degli adulti.
Allo stesso tempo, il massiccio temporale si estende e si allarga con la crescita, pro-
vocando cambiamenti che si ripercuotono frequentemente su una lunghezza insuffi-
ciente delle aste o negli anelli della porzioni frontale, divenuti piccoli in fretta.
L’oggetto occhiale deve essere concepito con un’architettura strutturale organizzata
su tre livelli: il calibro, l’avvolgimento del frontale e le aste.
Il principale aspetto connesso al calibro dell’occhiale è la limitazione del campo
visivo, che una montatura non dovrebbe mai ridurre eccessivamente. A tale scopo
è bene che essa sia direttamente proporzionale al viso del bambino, senza eccedere
in grandezza, anche perché è corretto insistere sul presupposto che il centro ottico
sia coincidente con l’asse visivo. Pertanto, gli occhi dovrebbero trovarsi ben centrati
nei due oculari del frontale e la porzione superiore di quest’ultimo dovrebbe coprire
le due arcate sopraciliari, anche in considerazione del fatto che il mondo visivo del
bambino è di sovente “dal basso verso l’alto”.
Una corretta centratura, che eviti sia gli effetti prismatici sia l’aumento o la dimi-
nuzione del potere correttivo delle lenti, viene realizzata anche per mezzo del ponte
che poggia sul naso, scaricando su di esso gran parte del peso della montatura. Il
ponte in mezzo e la leggerezza dell’occhiale contribuiscono in maniera determinante
ad evitare che l’occhiale scivoli sul naso, così come le aste non devono essere troppo
lunghe ma la loro curvatura deve iniziare sul punto in cui si delinea la parte alta
dell’orecchio seguendone indicativamente i tratti discendenti.
Montature con un ponte troppo piccolo stringono sulla piramide nasale del bambino
viziandone il corretto sviluppo, mentre aste troppo corte premono l’occhiale contro
le ciglia, sporcando le lenti molto più frequentemente.
Poiché i bambini sono costantemente in movimento, per la loro comodità e sicurezza conver-
rà utilizzare un cordino in silicone o una fascia elastica che tengano la montatura stabile e
ben centrata di fronte agli occhi ed attenersi all’utilizzo di una montatura priva di viti, parti
metalliche e saldature che, in caso di rottura, potrebbero provocare gravi traumi oculari.
Fino all’età di 5-6 anni e per le attività sportive è pertanto consigliabile prescrivere sem-
pre montature flessibili in gomma, o polimeri sintetici, che non siano da ostacolo nelle
comuni pratiche quotidiane né possano causare danni in caso di urti. L’oculista farà la sua
parte specificando, nella prescrizione, l’uso di lenti infrangibili. L’ottico dovrà sincerarsi
di bisellare le lenti in maniera corretta per inserire il margine delle lenti nell’apposita
scanalatura onde evitare la fuoriuscita e la rotazione delle stesse specie nelle elevate
ametropie. Il margine della lente infatti non dovrebbe mai sbordare dalla montatura.
Il materiale della montatura dovrebbe essere anallergico e delicato per la pelle del
bambino, in quanto reazioni che possono presentarsi sulla cute rappresentano un
motivo per togliere gli occhiali e farli cadere in disuso. Questo non dovrebbe mai
avvenire poiché oltre al loro scopo correttivo, le lenti contribuiscono a sviluppare
il sistema visivo durante il periodo di plasticità cerebrale, garantendo la migliore
qualità visiva e servendo da supporto fondamentale per avviare trattamenti antiam-
bliopici laddove occorra contrastare una
pigrizia oculare.
A partire dai 7 fino ai 10 anni ci si potrà
orientare verso altri materiali, come la
plastica, il nylon o l’acetato. In questa
fascia di età è un classico la prescrizione
di montature modello “ovalino”, che cal-
zano correttamente sul naso e avvolgono
bene il volto del bambino. (Figura 2) Figura 2. Montatura pediatrica modello ovalino
21. L’occhiale in età pediatrica 319
È giusto che l’estetica faccia la sua parte, in quanto essa rappresenta un buon incen-
tivo all’utilizzo dell’ausilio ottico, pertanto il bambino può scegliere il tipo di monta-
tura che percepisce come propria e più confacente al suo modo di essere, di piacere
e piacersi, purché la scelta sia guidata coscienziosamente dai consigli dell’ottico e
rispetti i dettami scritti sulla ricetta dall’oculista e dall’ortottista che lo hanno preso
in carico. Il bambino che uscirà soddisfatto dal negozio dopo essersi guardato allo
specchio e con una qualità visiva migliore rispetto a quella avvertita in precedenza
userà, senza alcun dubbio, i suoi occhiali in modo permanente e corretto.
Un problema comune nella nostra società è l’utilizzo della correzione ottica nell’atti-
vità sportiva, in età pediatrica e non. Risulta evidente come le montature in queste
situazioni estreme debbano assolvere i compiti di sicurezza e comodità. I materiali
infrangibili ed i polimeri morbidi in special modo, assolvono ad entrambi i compiti
essendo tali materiali privi di parti metalliche e caratterizzati dall’essere monopez-
zo. Quest’ultima caratteristica impedisce che le parti assemblate, seppur in plastica,
provochino traumatismi. Da considerare come diventi indispensabile l’utilizzo di una
fascia elastica che consente di tenere ben centrata ed in sede la montatura stessa.
Un altro vantaggio della montatura per sport in materiale gommoso risiede nel fatto
che possono essere utilizzate nelle situazioni più disparate: dalle attività ludiche e
sportive marine alle attività sportive invernali quali lo sci o l’hokey su ghiaccio. Que-
ste montature infatti possono agevolmente essere indossate sotto il casco per sport.
Da sconsigliare invece le montature avvolgenti a mascherina, in quanto presentano
diverse problematiche. La prima riguarda la sicurezza, essendo nella maggior parte
21. L’occhiale in età pediatrica 321
Figura 7. Mascherina per sport senza aste Figura 8. Montatura per sport pediatrica in
polimero morbido
dei casi montature assemblate in più pezzi di materiale rigido (seppur infrangibile);
meglio l’utilizzo eventuale di mascherine prive di aste ma solo dotate di fasce ela-
stiche direttamente unite al tempiale (Figura 7) Un altro problema riguarda invece
l’effetto prismatico delle lenti specie nelle ametropie elevate e negli astigmatismi
essendo queste montate su montature avvolgenti curve. L’aberrazione risultante dal-
la curvatura della montatura e, di conseguenza, delle lenti determina una distorsio-
ne dell’immagine che si forma in quanto non solo cambia il potere della lente al di
fuori del centro ottico ma anche il fuoco dei raggi che cadono sulla retina. Va quindi
sottolineato ancora una volta come sia necessario non solo utilizzare montature sicu-
re ma che rispettino doverosamente anche le regole di ottica fisica al fine di evitare
inconvenienti visivi (diplopia, distorsione delle immagini, effetto prismatico, ecc.)
(Figura 8, Figura 9).
Quando si sceglie una montatura non si può prescindere dagli effetti che hanno le
lenti montate e che si possono riassumere in quattro punti:
– Potere
– Distanza
– Ingrandimento
– Centratura
Le lenti, soprattutto sferiche ma anche cilindriche, non hanno il medesimo potere
sull’intera superficie che le costituisce: guardare attraverso una porzione periferica
della lente piuttosto che attraverso il suo centro ottico non è la stessa cosa. Ci si
accorge facilmente di questo fenomeno osservando la conformazione di lenti con
potere assai elevato: se si osserva una lente negativa si noterà facilmente come ten-
da ad ispessirsi ai bordi, mentre una lente positiva appare maggiormente bombata
al centro. Ne consegue che quanto più alto è il potere della lente tanto più occorre
21. L’occhiale in età pediatrica 322
far coincidere il centro ottico con l’asse visivo, in caso contrario è facile incorrere in
alterazioni del potere e fenomeni di aberrazione. Tali fenomeni sono causa di un’im-
magine distorta che si forma perché insieme al potere della lente cambia anche il
fuoco dei raggi che cadono sulla retina.
L’aberrazione sferica è provocata dal fatto che la sfera non è la superficie ideale per
realizzare una lente, ma è comunemente usata per semplicità costruttiva: i raggi di-
stanti dall’asse ottico, posti in periferia (raggi marginali), vengono focalizzati ad una
distanza differente dalla lente rispetto a quelli più centrali (raggi parassiali).
A tal proposito, nei bambini diventa fondamentale fare ricorso a montature con pon-
te basso per consentire una corretta centratura delle lenti ovvero la perfetta coinci-
denza dell’asse ottico con l’asse visivo, come sopra menzionato.
Un altro problema è rappresentato dalla distanza cui la lente si trova rispetto all’a-
pice corneale. Scrive il prof. G.P. Paliaga nel testo I Vizi di Refrazione: “Quando si
corregge un’ametropia con lenti, occhio e lenti correttive realizzano un sistema diottrico
composto il cui fuoco principale posteriore cade sulla retina. Il potere del sistema diottrico
composto, e l’ingrandimento che esso fornisce di un oggetto, non dipendono soltanto dal
potere delle lenti che compongono il sistema ma altresì dalla distanza che intercorre tra
i diottri che lo costituiscono. Ne consegue che nella correzione dei vizi di refrazione la
distanza che separa la lente dall’occhio ha grande importanza in quanto influenza sia la
messa a fuoco delle immagini sulla retina che la loro dimensione”.
Nel caso degli occhiali è proprio la cura del dettaglio a fare la differenza, pertanto
occorre dedicare la massima attenzione alla distanza tra occhio e lente che, cambian-
do, modifica anche l’effettivo potere della correzione ottica; e alla sua centratura,
onde evitare effetti prismatici ed astigmatismi da incidenza obliqua.
La variazione di potere della lente in relazione alla distanza è direttamente propor-
zionale al potere della lente stessa: quanto più elevato è il numero di diottrie da
correggere, tanto maggiori sono le variazioni prodotte dallo spostamento.
Una lente positiva aumenta di potere con l’aumentare della distanza dagli occhi, una
lente negativa esercita invece un potere più forte se avvicinata alla superficie cor-
neale: questo è il principale motivo per cui i bambini miopi, facendo fatica a vedere
quando peggiora il loro difetto, tendono a schiacciare gli occhiali contro la radice del
naso. Solitamente, la distanza di una lente dall’occhio cambia nell’ordine di qualche
millimetro, pertanto se il difetto da correggere è inferiore a 5 D essa non influisce
significativamente sulla variazione del potere.
Oltre alla distanza, il potere di una lente cambia l’ingrandimento delle immagini
che si osservano: è risaputo che una lente da miope rimpicciolisce l’oggetto fissato,
mentre una lente da ipermetrope tende ad ingrandirlo. Quasi mai le ametropie sono
esattamente uguali tra i due occhi e, in caso di anisometropie o antimetropie, le lenti
prescritte possono essere mal tollerate dal paziente. Sebbene i bambini siano dotati
di una plasticità cerebrale che consenta loro di adattarsi con maggiore facilità a cor-
rezioni ottiche di differente entità, nell’applicazione di lenti correttive è sempre uti-
le considerare la regola di Knapp, secondo la quale “se il centro ottico della lente viene
posto a livello del fuoco principale anteriore dell’occhio, che nelle ametropie puramente
assiali si trova a circa 15 mm dall’apice corneale, le dimensioni dell’immagine a fuoco
sono uguali a quelle dell’immagine che si forma nell’occhio schematico emmetrope”.
Il rispetto di tale postulato consente al prescrittore di evitare fastidiosi effetti da va-
riazione dell’ingrandimento e produrre un’immagine retinica molto simile a quella
che si forma in un occhio normale se le lenti degli occhiali vengono correttamente
montate ad una distanza di circa 15 mm per correggere un’ametropia assiale, soprat-
tutto unilaterale.
21. L’occhiale in età pediatrica 323
Nei bambini che fanno fatica a mantenere un allineamento costante degli assi vi-
sivi, dopo aver opportunamente calcolato la distanza interpupillare, si consiglia un
decentramento temporale in caso di miopia associata ad esoforia o ipermetropia
associata ad exoforia; ed un decentramento nasale in caso di miopia associata ad
exoforia e ipermetropia associata ad esoforia onde avere un effetto di rafforzamento
sulla convergenza o sulla divergenza a seconda del quesito clinico. (Figura 10)
In conclusione, l’effetto prismatico prodotto dal decentramento delle lenti può esse-
re utilizzato nelle eteroforie per arginare le insufficienze di convergenza o facilitare
l’attivazione dei riflessi fusionali, mantenendo così un perfetto stato di binocularità.
seppur caratterizzate da due poteri diottrici differenti, uno per lontano e uno per
vicino, non attraversano la parte inferiore dell’orletto pupillare e non sortiscono l’ef-
fetto desiderato, ovvero il controllo degli spasmi muscolari o dell’angolo di deviazio-
ne oculare scompensato dall’accomodazione. Da sottolineare come il meccanismo
di controllo dello spasmo accomodativo per vicino non risiede solo nella semplice
addizione sferica del potere ma anche e soprattutto nel posizionamento del centro
ottico, che coincide ovviamente per quanto si è detto con il potere totale della lente
stessa, senza aberrazioni periferiche dell’immagine od effetti prismatici. Nelle lenti
bifocali per lettura il centro ottico risulta nasalizzato per evidenti motivi di comodità
della funzione visiva per vicino, ma tale posizionamento contraddice il controllo del-
la deviazione strabica per vicino nelle esotropie con alterato rapporto accomodativo,
come descritto sopra.
Gli effetti nocivi del sole rappresentano per gli occhi dei bambini un pericolo che
può essere tenuto sotto controllo per mezzo di occhiali da sole o lenti fotocromatiche.
Non si deve essere indotti a pensare che la giovane età dei soggetti preservi l’organo
visivo contro le radiazioni emesse dai raggi ultravioletti che si propagano nell’atmo-
sfera; al contrario, abbassare la guardia in situazioni di rischio come una vacanza al
mare o in montagna può causare problemi a breve e a lungo termine.
Nella maggior parte dei casi si consiglia l’applicazione di lenti infrangibili e scure,
filtranti i raggi UVA e UVB al 100% ma attraversabili dalle radiazioni del visibile e
collocate su una montatura in gomma, tale da garantire sicurezza e comfort adeguato.
La loro capacità di bloccare gli U.V. rende merito di elevate proprietà protettive
nei confronti delle strutture oculari. Non dimentichiamoci, infatti, che il principale
motivo per cui queste lenti vengono acquistate è quello di saper discriminare quan-
titativamente e qualitativamente le radiazioni elettromagnetiche che attraversano la
loro superficie, pur facendo permanere il senso del contrasto e la sensibilità lumino-
sa. La riduzione dell’abbagliamento da un lato, riduce anche la percezione cromatica
dall’altro.
Conviene prescrivere un trattamento fotocromatico sulle lenti che il bambino usa
abitualmente, in quanto si evita in questo modo un cambio frequente di montatura
21.8 Conclusioni
Quanto scritto in questa breve trattazione sulla prescrizione dell’occhiale in età pe-
diatrica costituisce un supporto per oculisti, ortottisti e ottici riguardante la pre-
scrizione e l’uso di montature e lenti pediatriche ma si caratterizza altresì come un
presupposto fondamentale da cui dover partire.
Dopo la prescrizione, infatti, si situa la scelta ed infine l’applicazione per la qua-
le risulta determinante la compliance del paziente ed il monitoraggio da parte dei
genitori dell’uso che il bambino fa degli occhiali, soprattutto se i vizi di refrazione
da correggere sono di lieve entità e possono essere compensati accomodando. Ricor-
diamo a tal proposito che un occhiale può essere prescritto anche a scopo ortottico
e non soltanto visivo e il suo utilizzo, in questi casi, è connesso alla cura di disturbi
sensoriali, ossia alla preservazione della binocularità o di una cooperazione, seppur
anomala, tra i due occhi per contrastare i meccanismi di soppressione nel bambino
in età plastica e di diplopia nel soggetto pediatrico ormai fuori dai confini dell’età
plastica.
È molto importante che tutte le figure professionali che ruotano attorno al piccolo
paziente siano abili nello spiegare sia ai genitori sia al diretto interessato l’importan-
za dell’utilizzo dell’occhiale, facendo capire innanzi tutto il motivo per il quale l’oc-
chiale viene prescritto e i benefici che se ne possono trarre da un corretto utilizzo.
È necessario guardare principalmente alla funzione visiva oggettiva piuttosto che
alla soggettività estetica e prescrivere occhiali considerando che, in problematiche
complesse come certe forme di strabismo o nelle ambliopie, un occhiale prescritto
dopo un’attenta cicloplegia e ben calzato sul volto può fare la differenza aiutando un
recupero visivo che altrimenti risulterebbe più difficoltoso o un controllo dell’angolo
di deviazione che tenderebbe a scompensarsi.
Per questi ed altri motivi, i precetti precedentemente esposti non devono essere con-
siderati come consigli da seguire orientativamente bensì come parametri tesi alla
salvaguardia della salute di tutti i bambini che indossino un paio di occhiali.
Al contempo, pur facendo capo a punti di riferimento fermi, la ricerca nel campo
dell’ottica non dovrà esimersi dallo svolgere un ruolo predominante nelle strategie
di mercato ideando, per mezzo di menti e mani esperte, lenti e montature capaci di
andare incontro alle esigenze più disparate, allo scopo di rendere più facilmente
risolvibile ogni problematica legata ai processi di sviluppo visivo per gli specialisti
della visione e per coloro che vi si affidano con convinzione.
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 329
Art. 12.
¾ E' del pari consentito ai suddetti esercenti di ripetere la vendita al pubblico di lenti od
occhiali in base a precedenti prescrizioni mediche che siano conservate dall'esercente
stesso, oppure esibite dall'acquirente
¾ Per l’acquirente delle lenti a contatto necessita sempre, prescindendo dal grado di
difetto visivo, la prescrizione del medico oculista, ai fini dell’accertamento, tra l’altro, dello
stato di recettività della congiuntiva e di particolari condizioni anatomiche corneo-
congiuntivali.
¾ L’optometrista - non essendo tale figura riconosciuta nel nostro ordinamento – non può
svolgere compiti diversi da quelli consentiti all’ottico
Dalla lettura ed analisi delle leggi e normative italiane si evince chiaramente come
il medico oculista e l’ortottista assistente in oftalmologia non possono esimersi dalla
conoscenza della contattologia, e che solo il personale sanitario abilitato può e deve
gestire la prescrizione e le fasi cliniche dell’utilizzo delle L.A.C. Le lenti a contatto
sono un ottimo ausilio terapeutico ed ortottico in molte situazioni cliniche che ri-
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 330
¾ L’applicazione e l’uso delle lenti a contatto possono essere eseguiti solo quando le condizioni
anatomo-funzionali dell’occhio del paziente lo consentono. Esistono infatti alcuni fattori di
rischio, rilevabili dallo specialista, che possono risultare responsabili di complicanze o
dell’insorgenza di fenomeni di intolleranza.
¾ Il medico specialista e l’ottico applicatore della lente sono consapevoli di tali problematiche
e solo dopo un accurato esame del soggetto possono consigliare o meno l’uso delle lenti a
contatto.
¾ Omissis…………….
¾ Al fine di evitare danni agli occhi è importante verificare l’assenza di controindicazioni dal
medico oculista e sottoporsi a controlli periodici.
¾ Omissis………….
Nell’articolo 1 vengono date definizioni utili a facilitare la classificazione dei vari dispositivi medici:
9 la cui azione principale voluta nel o sul corpo umano non sia conseguita con mezzi
farmacologici né immunologi.
¾ Orifizio del corpo: qualsiasi apertura naturale del corpo (anche la superficie esterna del
bulbo oculare, quindi le lenti a contatto sono un dispositivo invasivo) o artificiale e
permanente (come uno stoma).
¾ Dispositivo medico attivo: «DM dipendente, per il suo funzionamento, da una fonte di
energia elettrica o di altro tipo di energia, diversa da quella generata direttamente dal
corpo umano o dalla gravità e che agisce convertendo tale energia. Un dispositivo medico
destinato a trasmettere, senza modificazioni di rilievo, l’energia, le sostanze o altri
elementi tra un dispositivo medico attivo e il paziente non è considerato un dispositivo
medico attivo» (dall’allegato IX).
guardano sia la riabilitazione visiva sia i disturbi della motilità oculare. È compito
ed obbligo morale sia del medico sia dell’ortottista imparare a gestire ed affrontare
la contattologia. L’approccio di base alla contattologia richiede solo la conoscenza di
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 331
pochi concetti semplici: già saper “guardare” una L.A.C. alla lampada a fessura può
considerarsi un successo ed un passo avanti.
La normativa europea risulta essere più severa di quella italiana e si basa sulla Di-
rettiva CEE 93/42 sui dispositivi medici. La Direttiva CEE 93/42 sui dispositivi medi-
ci (abbreviata in DDM 93/42), pubblicata sulla GUCE (Gazzetta Ufficiale Comunità
Europea) nel giugno del 1993, è un documento che riporta i criteri generali da uti-
lizzare nella progettazione e realizzazione di alcune categorie di dispositivi medici,
vigente negli stati dell’Unione Europea.
Gli attori principali che entrano in gioco nell’applicazione di lenti a contatto sono
principalmente il medico oculista che diagnostica uno status e lo referta, il contat-
tologo, che dovrebbe identificarsi con una figura sanitaria completa quale l’ortotti-
sta assistente in oftalmologia, preposto all’espletamento della pratica applicativa di
lenti a contatto ed il costruttore che deve poter fornire sempre tecnologia e soluzioni
per le più disparate situazioni di compensazione ottica con lenti a contatto. Il con-
tattologo studia una specifica circostanza applicativa sulla base di una determinata
necessità correttiva di un’ametropia semplice, di una situazione patologica che possa
influire sullo sviluppo del sistema visivo specie nell’età pediatrica, di un disturbo
della motilità oculare, di patologie corneali o postumi di chirurgia refrattiva, mentre
il costruttore prevede uno studio di fattibilità di uno specifico progetto-lente, anche
fuori da schemi predefiniti standardizzati. È possibile cioè ottenere la costruzione
di lenti a contatto personalizzate in base alle differenti esigenze della patologia da
gestire.
Esistono quattro casi canonici dove ha un senso proporre l’uso delle L.A.C. in età
pediatrica ai fini riabilitativi:
– Cataratta congenita operata, afachia
– Malformazioni congenite (es. aniridia, coloboma irideo, albinismo, nistagmo)
– Anisometropia elevata (es. miopia unilaterale elevata) o difetti rifrattivi elevati od
irregolari (es cheratocono)
– Ambliopia (laddove non è gestibile l’occlusione per mancata compliance o per
impossibilità fisica o psicologica del paziente).
Non esiste un’età nella quale non si possano indossare le lenti a contatto: è possibile
fin dai primi giorni di vita. Nella gestione delle diverse situazioni cliniche cui ci tro-
viamo di fronte risulta fondamentale il ruolo dei genitori che devono contribuire at-
tivamente in tutte le fasi applicative, i bambini infatti hanno un’ottima compliance
nei confronti delle lenti a contatto se sono rassicurati dalla figura genitoriale. Ruo-
lo fondamentale è anche quello del personale sanitario sia del medico oculista sia
dell’ortottista nell’applicazione delle lenti a contatto. Essi devono saper conoscere i
vari materiali, le manovre di igiene, le manovre corrette di manipolazione e gestione
delle lenti a contatto, la conoscenza di base delle patologie e delle conseguenze di
errato utilizzo e fitting delle lenti a contatto.
Nei primi 6/8 mesi di vita la visione si modifica da “bioculare” a binoculare, con la
possibilità di vedere gli oggetti come solidi e tridimensionali. In presenza di anisome-
tropie o ametropie elevate l’applicazione di lenti a contatto può risultare l’unico ausi-
lio utile per garantire lo sviluppo binoculare senza creare confusione ed aniseconia.
Nei casi di differenze notevoli nella correzione tra i due occhi il recupero della parità
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 332
Questo tipo di lente a contatto rientra nella categoria delle lenti a contatto morbide
grazie alla garanzia di maggior stabilizzazione. Nell’osservazione distale la porzione
periferica della lente attua la perfetta messa a fuoco a livello retinico. Contempora-
neamente, i raggi luminosi provenienti dall’infinito incidono anche sull’area centra-
le della lente, preposta per una focalità prossimale; in questo caso il fuoco immagine
si forma molto prima della retina ed il segnale dell’immagine è talmente sfuocato,
una volta raggiunta la retina, da essere soppresso a livello cerebrale. Nell’osservazio-
ne prossimale, la porzione centrale della lente che, come abbiamo detto è preposta
a soddisfare la capacità visiva per vicino, focalizza perfettamente sulla retina. Nel
contempo i raggi luminosi incidendo sulla periferia della lente incontrano una fo-
cale di minore entità producendo un’immagine oltre la retina, salvo incontrare uno
sbarramento attuato dal forame pupillare che si chiude grazie alla miosi dovuta al
riflesso accomodativo. (Figura 1, Figura 2, Figura 3)
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 334
Nella visione alternata, il centro della lente è sempre preposto per la visione al pun-
to remoto, in sguardo primario, mentre il passaggio all’area per vicino, ubicata nella
periferia della lente, avviene in funzione della traslazione dal basso verso l’alto della
stessa conseguentemente alla rotazione del bulbo verso il basso, nell’osservazione al
punto prossimo. (Figura 4, Figura 5)
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 335
Fondamentale per poter applicare in maniera corretta una lente a contatto in età
pediatrica è conoscere le misure delle varie parti del bulbo oculare per poi poter
valutare i parametri delle lenti corneali idonee. In età pediatrica la parte di bulbo
oculare esposta rispetto a quella dell’adulto è molto minore poiché la rima palpe-
brale risulta più piccola consentendo una minor esposizione corneale che si riduce
ulteriormente in presenza di epicanto marcato o inverso. Tale morfologia della zona
palpebrale aumenta le difficoltà di applicazione delle lenti a contatto per un minor
spazio disponibile alle manovre di inserzione, in considerazione anche del fatto che
le dimensioni del bulbo raggiungono proporzioni molto simili a quelle dell’adulto
già tra il secondo ed il terzo anno di vita, creando la necessità di applicare lenti a
contatto con parametri simili a quelli dell’adulto.
L’incremento della lunghezza assiale del bulbo oculare avviene in modo molto rapi-
do nei primi mesi di vita e prosegue abbastanza velocemente fino ai 2 anni di età.
Segue una fase di crescita costante che mano a mano rallenta fino a raggiungere una
lunghezza assiale inferiore di circa 1 mm rispetto a quella dell’adulto ai 6 anni di
vita. Anche la curvatura corneale ha un incremento costante nell’infanzia fino a rag-
giungere dimensioni simili a quelle dell’adulto verso i 3 anni (Tabella 1, Tabella 2).
22. La prescrizione delle lenti a contatto in età pediatrica 338
Il diametro corneale, parametro utile per l’applicazione delle lenti a contatto parte
da una dimensione media di circa 9 mm. alla nascita per poi raggiungere 10,2 mm.
all’anno, 11,5 mm. ai due anni e 12 mm. ai tre anni.
Al termine di tutto il percorso si giunge alla fase della compilazione della ricetta,
in cui tutto ciò che si è fatto, annotato e testato, viene messo nero su bianco, trasfor-
mando l’incontro con il paziente in un documento ufficiale.
La chiarezza e la fluidità con cui tale documento sarà redatto costituiranno la linea
guida su cui l’ottico potrà costruire la lente perfetta per il paziente, rappresentando
oltretutto, per noi stessi al prossimo controllo, la traccia di ciò che si è evinto alla
visita precedente.
Nella redazione della ricetta spesso ci avvaliamo di ricettari prestampati in formato
A5, minime dimensioni quindi e scarsissima versatilità della registrazione di dati e
test effettuati.
Dal punto di vista grafico la ricetta dovrà riportare in alto i riferimenti del medico
chirurgo oculista, la data della visita, il nome e cognome del paziente nonché la
sua età. Nella zona centrale sarà presente una tabella divisa in due settori, una per
l’occhio destro ed una per l’occhio sinistro con annessa scala graduata, da 0° a 180°,
relativa all’asse del cilindro. In ogni settore la tabella sarà costituita da tre colonne,
relative alla lente sferica, alla lente cilindrica ed all’asse del cilindro; nonché da
quattro righe relative alla specifica dell’utilizzo per lontano, a permanenza, per vicino
e del prisma, quest’ultima non sempre presente. La riga per lontano farà riferimen-
to all’uso di lenti da utilizzare dai 3m fino ai 60 m e dovrà essere contestualmente
associata alla registrazione della lente per vicino la quale garantirà una visione dai
30 cm ai 60 cm, riportandone il valore nella riga per vicino. Nel caso in cui non fosse
presente presbiopia si provvederà a registrare i dati nella sola riga a permanenza
relativa ad un utilizzo omnicomprensivo.
Operativamente si riporteranno i valori diottrici della migliore correzione, ottenuta
con i diversi test refrattivi, nei singoli campi di riferimento quali sfera, cilindro e asse
del cilindro.
È molto importante indicare chiaramente, ed in modo leggibile, il segno +/- ante-
posto al valore diottrico della lente sferica e/o cilindrica così come va posta molta
attenzione alla sezione dell’asse della lente cilindrica.
Tale valore viene espresso in gradi e deve essere contestualmente confermato attra-
verso una linea/freccia disegnata sulla scala graduata. Il sistema di posizionamento
dell’asse del cilindro viene oggi universalmente definito secondo il sistema TABO
(Technischer Ausschuss fur Brillenoptik), che consiste nell’indicare l’angolo in gradi
che l’asse della lente cilindrica forma con il meridiano orizzontale nella metà supe-
riore di una circonferenza ideale; questo angolo va da 0° a 180°, collocando, quindi, il
valore 0° sul meridiano orizzontale in corrispondenza dell’orecchio sinistro.
Praticamente lo 0° sarà posizionato alla destra dell’esaminatore e la registrazione
dell’angolo avverrà in senso antiorario.
L’universalità del sistema TABO deriva dal fato che tutte le apparecchiature diagno-
stiche atte a rilevare l’astigmatismo (autorefrattometri, autocheratometri, topografi
ecc.) utilizzano tale sistema rendendo merito della inutilizzabilità del vecchio siste-
ma di rilevazione, in uso peraltro solo in Italia, quale il sistema internazionale.
Andranno inoltre registrate tutte le informazioni utili all’ottico al fine di confeziona-
re la lente più adatta al paziente indicandone la tipologia.
Oltre a ciò dobbiamo ricordare che la nostra ricetta dovrà illustrare all’ottico quale
sia non solo la lente da realizzare ma anche l’occhiale. Infatti se un paziente dovesse
presentare asimmetrie facciali o atteggiamenti viziati del capo, sarà opportuno indi-
care che la montatura dovrà essere dotata di maggior duttilità, tale da poter essere
meglio modellata su quell’habitus che abbiamo identificato.
Altro valore importante da verificare e registrare è la distanza interpupillare, pa-
rametro fondamentale, soprattutto nel caso in cui si voglia prevedere l’acquisto di
lenti multifocali o progressive. Questo parametro, reperibile con interpulillometro o
semplicemente con un righello durante il test di Hirschberg, va sempre calcolato e
registrato, nonostante spesso sia l’ottico a provvedere nuovamente al rilevamento di
questo importante dato.
In ultimo, ma non per questo banale, la storia clinica del paziente, la sua anamnesi,
possono dire tanto sul paziente e ulteriormente confermare quelle che sono state le
scelte ottiche da noi disposte.
In riferimento a quelle che sono le disposizioni normative, c’è da sottolineare che
una ricetta medica è un atto pubblico redatto da un esercente servizio di pubblica
necessità. Pertanto anche la semplice prescrizione lenti va datata, firmata e timbra-
ta, in modo da rendere identificabile il medico e salvaguardare lui stesso da proble-
mi che possano in qualsiasi momento occorrere.
Sarebbe opportuno però che ciascun professionista provvedesse alla redazione di
una propria matrice di ricetta, dando il giusto spazio ad ogni esame oggettivo e sog-
gettivo che egli, nella sua pratica ed esperienza clinica, ritenga opportuno eseguire
routinariamente su ogni paziente.
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