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Tutte queste conoscenze della patologia sono importanti per un eventuale intervento farmacologico
razionale ed adeguato. Tuttavia, non di tutte le malattie oggi conosciamo la causa. In questo caso,
quindi, si cercherà di comprendere i meccanismi con cui questa malattia si sviluppa, cercando di
conseguenza di modificare ed ostacolare proprio questi ultimi (per esempio, nel caso del diabete
insulina dipendente e non). Le cellule β del pancreas vengono qui, infatti, distrutte e quindi non
viene prodotta insulina: per questo motivo somministriamo noi l’insulina mancante.
Tuttavia, è necessario porre molta attenzione a questi interventi farmacologici. Questo perché, a
volte, certi meccanismi non sono fisiologici per altre situazioni. Ad esempio, nel caso della
trombosi arteriosa, ossia della chiusura di una determinata arteria, che provoca un infarto del
miocardio. Come si forma il trombo? Uno dei meccanismi è un adenoma (deposito di grasso), che
provoca una aggregazione piastrinica. In questo caso si esegue una terapia preventiva con dei
farmaci antiaggreganti. Tuttavia, bisogna stare molto attenti, poiché queste sostanze riducono
l’aggregazione piastrinica, provocando magari emorragie in altri luoghi dell’organismo.
Che cos’è, quindi, una malattia? E’ una alterazione strutturale e funzionale di una cellula, di un
tessuto o di un organo, capace di ripercuotersi nell’economia dell’intero organismo. La malattia
provoca un’alterazione dell’omeostasi (equilibrio dell’organismo) in atto o in evoluzione.
La malattia, con le sue manifestazioni, risulta dalla somma fra il danno prodotto dall’agente
nocivo e la reazione del nostro stesso organismo.
Criteri classificativi
Le malattie possono essere classificate con:
1. Criteri topografici, in relazione a dove si sviluppano
2. Criteri anatomici, in relazione al tessuto o all’organo che colpiscono
3. Criteri funzionali, in relazione alla funzionalità su cui agiscono
4. Criteri eziologici, in relazione alle cause (infettivi, virali, genetiche)
5. Criteri clinici
6. Criteri patologici, in relazione alla natura del processo patologico
7. Criteri epidemiologici, in relazione a dati statistici
Facendo riferimento alla figura a lato, le cause di una malattia possono essere di:
1. Natura fisica (traumi, alterazioni della temperatura, radiazioni ionizzanti)
2. Natura chimica
3. Natura biologica (microrganismi, malattie genetiche somatiche o ereditarie)
L’immunità innata
E’ una risposta molto rapida nei confronti dei patogeni (nel giro di poche ore). Ha una bassa
specificità, non presenta memoria immunologica ed è un’immunità filogeneticamente antica
(presente già negli invertebrati).
La cute integra rappresenta la prima barriera fisica, che ci difende dall’esterno. La cute si rigenera
continuamente e, dallo strato più profondo, attraverso la desquamazione, impedisce a molti microbi
di penetrare all’interno. La cute, però, funge anche da barriera chimica, col sudore e il sebo.
Al livello delle mucose, si ha molto muco, il quale invischia i microrganismi e, attraverso ciglia,
espelle i patogeni all’esterno.
Altra barriera estremamente importante è la flora indigena (come la flora intestinale, la flora
vaginale, ecc.), ossia microrganismi residenti in un certo distretto che, di solito, non causano
malattia e che, per competizione, impediscono la colonizzazione da parte di germi patogeni.
Sempre facenti dell’immunità innata, abbiamo alcuni mediatori solubili presenti nei liquidi
biologici, come il lisozima (che si trova nelle lacrime degli occhi, nella saliva, ecc.), il quale riesce a
scompaginare la parete cellulare dei batteri. Abbiamo, poi, alcune proteine chelanti del ferro
(lattoferrina e transferrina), che legano il ferro, elemento indispensabile per il metabolismo
batterico.
Poi troviamo il cosiddetto sistema del complemento o, più semplicemente, complemento, ossia un
insieme di proteine del siero che, una volta attivate, possono portare alla lisi o alla fagocitosi di
alcuni batteri. Il sistema del complemento, infatti, è costituito da una ventina di proteine circolanti e
di membrana, capaci di interagire reciprocamente e con le membrane cellulari. L'attivazione
a cascata delle sue proteine solubili, che convenzionalmente vengono chiamate componenti,
permette a queste ultime di introdursi nelle membrane degli agenti patogeni, venendo a formare dei
pori, i quali portano necessariamente alla lisi del patogeno. Durante l'attivazione del complemento
si ha, inoltre, il reclutamento di varie cellule immunocompetenti, quali cellule fagocitarie
(monociti, macrofagi, polinucleati), linfociti B e linfociti T.
Sempre per quanto riguarda l’immunità innata, abbiamo anche le cosiddette defensine, con attività
antibatterica, antifungina e antivirale. Troviamo, poi, alcuni fattori cellulari, come le cellule ad
attività fagocitaria, tra le quali troviamo monociti (e i derivanti macrofagi), granulociti e cellule
dendritiche (hanno una forma stellata; si trovano sotto l’epidermide e creano una sorta di rete
mediante la quale intrappolano, fagocitano e digeriscono i microrganismi patogeni che penetrano
all’interno). Infine, ovviamente, tra i fattori cellulari, troviamo anche le cellule NK.
Dunque, la risposta naturale è innata, è non specifica ed è mediata da una serie di meccanismi
umorali (attivazione del complemento e di alcune citochine) e cellulari (attivazione dei macrofagi e
delle cellule NK) che, a seconda dei tempi di attuazione, possono essere raggruppati in:
1. Attuazione rapida (dai 4 minuti alle 4 ore): abbiamo l’attivazione del complemento per via
alternativa e l’attivazione die macrofagi.
2. Attuazione media e lenta (dalle 4 ore ai 4 giorni): abbiamo l’infiammazione, poi
l’attivazione delle cellule NK e la liberazione delle citochine.
La fagocitosi
La fagocitosi può essere mediata dai fagociti, dai macrofagi o dai granulociti neutrofili.
[PER RICORDARE: Le cellule fagocitarie (o fagociti) si distinguono in: macrofagi, che si
differenziano a seconda del tessuto in cui si trovano, monociti (sono i macrofagi che si trovano in
circolo ed assumono una conformazione diversa da quella che hanno nei tessuti) e granulociti
neutrofili (o polimorfonucleati), che aumentano notevolmente di numero nelle infezioni batteriche.
Tutti derivano dalle cellule staminali del midollo osseo, e poi migrano nei tessuti].
Un fagocita è dotato di recettori, che si legano al batterio, grazie al riconoscimento di pezzetti del
complemento, appena attaccatosi alla superficie del batterio. Questo legame favorisce la formazione
di un fagosoma, il quale si fonde con un lisosoma (che contiene enzimi che producono radicali
tossici dell’ossigeno). Il batterio, che risulta intrappolato nel fagolisosoma, viene digerito da
sostanze molto tossiche, come l’ipoclorito o alcuni radicali liberi di ossigeno: durante questi
processi, infatti, si ha una vera e propria esplosione ossidativa.
I granulociti neutrofili, appena terminata la fagocitosi, muoiono attraverso apoptosi.
I macrofagi sono altre cellule con capacità di fagocitosi, estremamente importanti. Questi, a
differenza dei granulociti neutrofili, sopravvivono alla digestione dei batteri. I macrofagi realizzano
funzioni di fagocitosi sia in modo diretto (immunità innata), sia attraverso i recettori che
riconoscono il C3b, legato sulla superficie dei batteri in seguito all’attivazione del complemento,
ma possono riconoscere i batteri anche dopo che c’è stata l’attivazione di una risposta specifica, con
produzione di anticorpi (in altre parole, gli anticorpi che si legano ai batteri, inducono l’attivazione
di macrofagi). I macrofagi, generalmente, cominciano anche a produrre citochine, come ad esempio
l’interferone, che stimolano a loro volta l’infiammazione e l’arrivo di anticorpi e di altri macrofagi.
Le citochine da ricordare sono assolutamente quelle pro-infiammatorie:
1. L’interleuchina-1, se prodotta in grande quantità, induce la febbre. Essa, attraverso il
circolo sanguigno, raggiunge al cervello, nel centro della termoregolazione (a livello
dell’ipotalamo). Qui, l’interleuchina-1 induce la produzione di prostaglandine: questa sposta
il setpoint del centro della termoregolazione, portandolo, per esempio, da 36 a 39. A questo
punto, il centro invia messaggi per produrre calore e far aumentare la temperatura periferica,
che risulta essere inferiore al nuovo setpoint.
2. La tubornecrosifactor-α (TNF-α), che induce la febbre (insieme all’IL-1).
3. L’interleuchina-6, che fa cambiare la sintesi delle proteine del fegato, promuovendo la
sintesi di quelle proteine utili per combattere il patogeno; anche l’IL-6 partecipa alla
promozione della febbre.
La tolleranza
Esistono due tipi di tolleranza:
1. Tolleranza centrale, che si verifica al momento dello sviluppo dei linfociti
(precedentemente spiegata). Consiste nella delezione clonale (mediante apoptosi) della
maggior parte dei linfociti T nel Timo e dei linfociti B nel Midollo: vengono eliminati quei
linfociti che potrebbero danneggiare le cellule self del nostro organismo.
2. Tolleranza periferica. Nel Timo o nel Midollo Osseo, la maggior parte delle cellule viene
eliminata, ma qualcuna può sfuggire a questo meccanismo. E’ necessario, quindi, che ci
siano una serie di controlli anche periferici, per bloccare l’insorgere di malattie autoimmuni.
Questi linfociti che vengono riconosciuti a livello periferico, possono andare incontro o ad
apoptosi o ad anergia (possono legare l’elemento antigenico, ma non ricevono il segnale di
attivazione: restano, quindi, incapaci di attivarsi e non possono proliferare).
La capacità di distinguere il proprio dall’estraneo è estremamente importante. In questa selezione
giocano un ruolo fondamentale i cosiddetti antigeni di istocompatibilità (come dice il nome stesso,
sono quelle molecole che distinguono un individuo dall’altro). A volte, tuttavia, possono verificarsi
errori nel sistema immunitario. Se questo non risponde a nessuna particella estranea, si ha la
tolleranza (se il sistema immunitario diviene tollerante nei confronti di un patogeno, non ci sarà né
produzione di anticorpi né di cellule della memoria e, di conseguenza, il patogeno potrà muoversi
liberamente). Se, invece, il sistema immunitario reagisce contro le sue stesse strutture, si definisce
autoimmunità.
Quindi, concludendo, cos’è che avviene quando si ha l’attivazione delle risposte specifiche?
Abbiamo la nostra cellula precursore dei linfociti (che si genera dalla cellula staminale del tessuto
emopoietico) e, successivamente, la maturazione nei vari gradi di differenziazione. Durante questo
processo di maturazione, fino ad arrivare al linfocita maturo, si generano i recettori. Al termine
avremo, quindi, il repertorio linfocitario (circa 1012). Successivamente si avrà la tolleranza centrale
e, subito dopo, quella periferica. A livello periferico, poi, quando entriamo in contatto con un
antigene, questo viene portato a livello degli organi linfoidi secondari. Qui, dove passano
quotidianamente tutti i linfociti del nostro corpo, il linfocita specifico si legherà al determinante
antigenico sull’antigene e si avrà l’espansione clonale. Vengono, dunque, prodotti gli anticorpi
contro l’antigene, che andranno in periferia a svolgere la loro funzione effettrice.
Tutte le volte che un linfocita deve essere attivato, sono necessari 2 segnali di attivazione:
1. Il legame fra l’antigene e il recettore
2. Un secondo segnale, che può essere di diversa natura (per esempio, possono essere alcuni
componenti del complemento, che intanto si sono già adesi alla superficie del patogeno; può
essere il rilascio di alcune citochine, ecc.).
Per esempio, i linfociti T avevamo detto essere quelli capaci di riconoscere le cellule infettate. Ma
come fanno? E’ assolutamente necessario che queste, una volta infettate, mostrino sulla loro
superficie alcuni epitopi del patogeno: le cellule infettate prendono i determinanti antigenici del
patogeno e li associano a delle particolari molecole, dette molecole del complesso maggiore di
istocompatibilità. In altre parole, il peptide antigenico viene inserito in queste molecole, che lo
espongono sulla superficie: i linfociti T, attraverso il loro recettore, possono così comprendere quali
cellule sono infettate (primo segnale). E’ necessario, però, il secondo segnale che, per quanto
riguarda i linfociti T, è il legame di due recettori, il CD28 del linfocita T e il B7 della cellula
infettata. Quando si ha anche questo legame, allora si ha il segnale per la proliferazione clonale.
La scoperta dell’anticorpo
Ma gli scienziati come hanno fatto a capire quali erano le parti che legavano l’antigene e quali
davano le proprietà effettrici dell’anticorpo? Hanno preso degli anticorpi e li hanno trattati con degli
enzimi (papaina o pepsina), che tagliavano queste molecole in punti precisi e si sapevano quali
erano i frammenti che si formavano. La papaina taglia gli anticorpi sopra la zona cerniera,
determinando la formazione di 3 frammenti: due frammenti Fab (che è stato dimostrato essere i due
frammenti che legano l’antigene) e un frammento costituito prevalentemente dalla parte costante
dalle catene pesanti, detto frammento Fc o frammento cristallizzabile (si è visto che era la parte
dell’anticorpo con meccanismo effettore).
La parte variabile Fab differisce, ovviamente, nei diversi anticorpi; la struttura molecolare degli
epitopi si adatta al sito di legame nella parte Fab dell’anticorpo proprio come una chiave nella
serratura. I legami che si vengono a formare non sono mai forti (covalenti), ma deboli (Van Der
Waals).
Gli anticorpi possono esistere come recettori di linfociti B, ma anche (come sappiamo) sotto forma
di molecole secrete dalle plasmacellule, nella fase effettrice. Che cosa differenzia i due tipi di
anticorpo? Sono identici per struttura e per specificità: si differenziano perché quelli che devono
funzionare da recettori verranno dotati, al momento della loro sintesi, di un piccolo segmento, che
vincola gli anticorpi alla superficie dei linfociti B. Quando, invece, il linfocita B è stato attivato e
diventa plasmacellula, questo segmento non viene più attaccato, ma addirittura viene attaccato un
piccolo frammento che consente l’attraversamento della membrana cellulare e, dunque, la
secrezione di anticorpi negli spazi interstiziali e nel sangue.
Come già detto, in funzione della struttura delle regioni costanti (C) delle catena pesante si
differenziano 5 classi di isotipi:
1. IgG, secreta in forma monomerica
2. IgD, secreta in forma monomerica
3. IgE, secreta in forma monomerica
4. IgA, secreta in forma polimerica (quasi sempre in forma di dimeri o trimeri: significa che si
assoceranno almeno 2 o 3 unità base)
5. IgM, secreta in forma polimerica (quasi sempre formato da 5 unità base ripetute).
IgM
Sono i primi a comparire nel sangue, in risposta ad antigeni: è l’isotipo
predominante nella risposta primaria. Hanno un potere agglutinante,
possiedono la capacità di attivare il complemento e, essendo anticorpi
di grandi dimensioni, non attraversano la placenta (non hanno, quindi,
funzione di immunità passiva per il feto). Gli IgM sono
particolarmente attivi contro un gran numero di batteri Gram-negativi
e possono anche neutralizzare agenti virali, prima che questi penetrino
all’interno delle cellule.
IgG
Sono coinvolti nella risposta umorale (rappresentano il 70% delle Ig sieriche). Sono gli anticorpi
più prodotti, durante il secondo o terzo contatto con l’antigene.
Gli IgG possono opsonizzare, neutralizzare microbi e tossine, attivare il
complemento per via classica e attraversare la placenta: questi danno,
quindi, la immunità innata al feto.
L’IgG, a causa delle sue piccole dimensioni, può facilmente lasciare il
torrente circolatorio ed installarsi a livello tissutale dove svolge un
importante ruolo di difesa.
Nelle IgG, esistono 4 sottoclassi: le IgG1, le IgG2, le IgG3 e le IgG4; queste
differiscono soprattutto per la sequenza amminoacidica a livello della
cerniera (la IgG4 non può attivare il complemento).
IgA
Sono Ig dimeriche. Vengono sintetizzate dai linfociti B dei tessuti linfoidi
associati alle mucose. Sono presenti nelle secrezioni, nel latte, nella saliva, nelle
lacrime, ecc. Impediscono, infatti, l’aderenza di microrganismi. Presentano,
invece, una scarsa attività opsonizzante e una scasa attivazione del complemento.
Anche nelle IgA, sono state riconosciute due sottoclassi, le IgA1 e le IgA2.
IgE
Vengono prodotte in casi di infezioni da parassiti, in particolare le parassitosi da
elminti (vermi), favorendo l’attività citotossica degli eosinofili: questi, infatti,
sono in grado di ledere la superficie di questi parassiti.
Quindi, le IgE riconoscono il parassita e favoriscono l’attività citotossica da parte
dei granulociti eosinofili. Le IgE vengono prodotte, erroneamente, anche nel caso
di un soggetto allergico. Per esempio, se si ha un contatto col polline, una parte
delle IgE andranno a legarsi col polline, distruggendolo, ma una parte andrà a
legarsi a dei mastociti. Dunque, quando si avrà un secondo contatto con
l’allergene, il polline verrà immediatamente riconosciuto da queste IgE dei mastociti, si legherà
sulla superficie del mastocita e quest’ultimo eseguirà il suo lavoro, ossia degranula: butta fuori il
contenuto dei granuli, ricchi di istamina, instaurando un processo infiammatorio locale.
IgD
Funzionano soprattutto come recettori per i linfociti B (come le IgM). Il ruolo non è molto chiarito.
Gli anticorpi sono quindi importanti per la neutralizzazione dei microbi e delle tossine.
La presenza degli anticorpi sulle mucose, ad esempio, favorisce la
neutralizzazione dei vari microbi presenti all’interno di esse. Abbiamo inoltre
una neutralizzazione dei microbi rilasciati dalle cellule tessutali infettate nel
nostro organismo. Un’altra attività è quella non solo di bloccare ma anche di
evitare l’effetto tossico delle tossine.
Ma cos’è questo MHC? L’MHC è il locus, dove troviamo tanti geni che codificano per le molecole
di questo complesso, che ha come prima funzione quella di presentare l’antigene ai linfociti T. Gli
MHC dell’uomo sono anche chiamati HLA (antigeni leucocitari umani), perché identificati per la
prima volta nel sangue. Questi MHC sono costituiti da geni estremamente polimorfici (hanno più
forme: esistono, nella popolazione, una grande quantità di forme alleliche; ognuno di noi ha una
diversa forma allelica di MHC. Se fossimo 1000 in una stessa stanza, sarebbe ancora difficile
trovare due individui con lo stesso MHC).
E’ l’associazione dell’antigene con il tipo di MHC (classe I o II) che determina il tipo di linfocita T
coinvolto nella risposta immunitaria (cioè o CD8 o CD4).
I geni MHC sono espressi in ogni individuo in maniera codominante. Ma perché è importante
questo fatto che vengano espressi in maniera codominante? Per aumentare le possibilità di poter
presentare una più vasta gamma di peptidi antigenici. Il polimorfismo stesso, infatti, garantisce la
sopravvivenza della specie: se arriva un virus stranissimo e modificato, grazie all’enorme variabilità
genetica, è possibile che una persona in tutto il mondo abbia la capacità di attivare il suo sistema
immunitario e sopravvivere alla pandemia. Ogni individuo possiede un patrimonio di molecole di
MHC che sono derivate metà dal padre e metà dalla madre e espressi tutti su una stessa cellula.
L’insieme di tutte queste molecole è definito aplotipo.
Abbiamo detto che l’MHC è un locus in cui si trovano diversi geni.
Dell’MHC-I esistono 3 geni diversi: HLA-A; HLA-B; HLA-C. Ogni individuo, quindi, manifesterà
2 HLA-A; 2 HLA-B; 2 HLA-C (2, perché una deriva dal padre e una dalla madre ed entrambe
vengono espresse). Quindi, sulle cellule nucleate, in tutto, troveremo 6 molecole di MHC-I (ossia 2
HLA-A; 2 HLA-B e 2 HLA-C).
Dell’MHC-II esistono altri 3 geni diversi: HLA-DP; HLA-DQ; HLA-DR. Ogni individuo, quindi,
manifesterà 2 HLA-DP; 2 HLA-DQ; 2 HLA-DR. E’ stato scoperto, nel caso dell’MHC-II, che le
molecole che si possono venire a formare sono più di 6, perché può accadere che, per la loro
struttura, ci sia uno scambio genetico durante la sintesi di catene.
L’infiammazione
E’ la risposta di un tessuto vivente e vascolarizzato ad un danno subito. Un’azione dannosa
comporta la produzione di mediatori chimici, che agiscono sul microcircolo, facendo in modo che
questo venga alterato. Dal microcircolo fuoriescono poi delle sostanze, contenute nel plasma, che
formeranno una raccolta negli spazi extracellulari, chiamata essudato. Questo servirà a far fronte al
danno, per ripararlo e ripristinare la situazione precedente all’evento lesivo.
Ma di che natura possono essere questi agenti dannosi?
1. Agenti fisici, come radiazioni, tagli o contusioni.
2. Agenti chimici, come acidi e sostanze tossiche.
3. Agenti infettivi e tossine microbiche.
4. Necrosi tissutali (qualsiasi causa), ossia la morte a livello dei tessuti.
5. Corpi estranei, come una spina di rosa, un punto di sutura.
6. Reazioni immunitarie.
L’infiammazione dura tutto il tempo necessario per eliminare la causa e riparare il tessuto
danneggiato. Mira a distruggere e confinare l’agente lesivo e, contemporaneamente, a riparare il
tessuto. Si tratta di un risposta con significato difensivo. In genere ne distinguiamo due tipi:
1. Infiammazione (o flogosi) acuta: è una risposta stereotipata (sempre identica, qualsiasi sia
la causa), di tipologia innata, aspecifica. Ha una durata abbastanza breve: parte
immediatamente e dura alcuni giorni. E’ caratterizzata da modificazioni di fenomeni
vascolo-ematici; è coinvolto soprattutto il microcircolo (arteriole, venule e capillari). Questa
infiammazione dà sempre essudato, costituito da liquido, proteine plasmatiche e leucociti (in
particolare i granulociti neutrofili).
2. Infiammazione (o flogosi) cronica: è di lunga durata (può durare mesi o anni). La risposta
vascolare è praticamente assente (cioè non viene toccato il microcircolo); abbiamo, invece,
la comparsa e presenza di linfociti macrofagi e un grande sistema di riparazione del danno
(neo angiogenesi e deposito di tessuto connettivo, al fine di ricreare il tessuto leso).
La flogosi acuta
L’infiammazione rappresenta la reazione di un tessuto e del suo microcircolo a un insulto
patogenetico. Essa è caratterizzata dalla generazione di mediatori dell’infiammazione e dal
movimento di liquido e leucociti dal sangue ai tessuti extravascolari. Diverse caratterizzano
l’infiammazione:
1. Iniziazione. Abbiamo il danno e la stimolazione da parte del danno, che provoca i
cambiamenti del microcircolo e la migrazione di globuli bianchi nella sede del danno.
2. Amplificazione. I mediatori solubili vengono prodotti e aumentati di numero Questi
mediatori, poi, amplificano anche la risposta infiammatoria.
3. Terminazione, accompagnata da un’inibizione della produzione dei mediatori chimici, per
bloccare la risposta dell’organismo, una volta che l’infiammazione non serve più.
Per i processi infiammatori si usa la desinenza “-ite”; si prendono i prefissi anatomici e si aggiunge
la desinenza. Per esempio, l’infiammazione di un’arteria, sarà un’arterite.
Le infiammazioni, poi, possono essere:
1. A focolaio, ossia in un’unica area
2. Multifocale, cioè con più focolai distribuiti in parti diverse nel nostro organismo, con ogni
focolaio separato dall’altro
3. Diffusa, quando l’infiammazione coinvolge tutto il tessuto: è, quindi, generalizzata su tutto
l’organo.
L’infiammazione acuta è caratterizzata da alcuni segni cardinali:
1. Rossore (rubor)
2. Tumefazione (tumor)
3. Calore (calor)
4. Dolore (dolor)
5. Perdita della funzionalità (functio laesa)
Questi segni clinici si manifestano perché i mediatori chimici vanno ad alterare il microcircolo. Il
rossore lo abbiamo perché i vasi si dilatano e, quindi, arriva più sangue. L’aumento del flusso
sanguigno, poi, provoca l’aumento della temperatura, poiché il sangue è sempre più caldo della
superficie corporea. Il gonfiore (o edema infiammatorio) viene determinato dai mediatori solubili,
che vanno infatti a modificare anche la permeabilità dell’endotelio vascolare, provocando quindi
una fuoriuscita di liquido dai vasi. L’ultimo segno è il dolore: la pressione del liquido fuori dai vasi
determina, poi, dolore. In più, vengono prodotti, in risposta all’agente dannoso, dei mediatori
chiamati algogeni (che generano il dolore).
I direttori dell’infiammazione
I direttori dell’infiammazione sono i cosiddetti mediatori chimici. Questi sono un gruppo di
sostanze generate nel focolaio infiammatorio, che causano la risposta flogistica, causando
vasodilatazione, aumento della permeabilità vascolare, migrazione e chemiotassi dei leucociti.
Questi mediatori sono di varia natura, come le citochine, ma anche sostanze. Ogni molecola
presenta uno specifico inibitore che ne blocca l’effetto.
I mediatori sono suddivisi in:
1. Mediatori di derivazione cellulare. Possono essere proteine preformate già preseti nei
granuli cellulari (istamina o serotonina, per esempio), fosfolipidi di membrana (come i
derivati dell’acido arachidonico, citochine), amine vasoattive (rilasciate da mastociti e
piastrine)
2. Mediatori presenti come precursori inattivi nel plasma, come le proteine della cascata del
complemento (C3a, C5a) e tutte le proteine della coagulazione, la cui attivazione è iniziata
dal fattore di Hageman. Tutte queste proteine, ovviamente, sono sintetizzate dal fegato.
Ma quali sono gli effetti?
1. Le amine vasoattive, come istamina o serotonina, producono dilatazione degli sfinteri
arteriolari pre-capillari e aumento della permeabilità venulare per contrazione delle cellule
endoteliali. Le piastrine sono normalmente attivate da un fattori cosiddetto fattore attivante
le piastrine (PAF): ha moltissimi effetti, tra cui la vasodilatazione e l’aumento della
permeabilità vascolare con una forza di 100-10.000 volte maggiore rispetto all’istamina. Il
PAF serve anche ad attivare la serotonina, poiché il PAF attiva l’aggregazione piastrinica e
la serotonina si attiva dopo quest’ultima.
2. Derivati dell’acido arachidonico, sintetizzati dai fosfolipidi di membrana, attraverso
l’attivazione di fosfolipasi (i corticosteroidi bloccano il rilascio di acido arachidonico nelle
cellule infiammatorie, riducendo quindi l’effetto infiammatorio quando eccessivo).
Tra questi derivati troviamo i leucotrieni, che agiscono sulla muscolatura liscia,
costringendo i bronchioli e rendendo difficile la respirazione. Altri derivati sono le
prostaglandine e i trombossani A2, che favorisce l’aggregazione piastrinica.
3. Citochine, come le interleuchine (prodotte dai macrofagi), che attivano le cellule
infiammatorie; l’interleuchina 1, per esempio, cambia la regolazione corporea,
provocandoci la febbre. L’interleuchina-6, che attiva alcune cellule infiammatorie. Altre
citochine sono i fattori di crescita, che vanno ad agire a livello del midollo osseo,
aumentando la produzione dei granulociti neutrofili (se questi, infatti, muoiono
nell’essudato, è necessario produrne di più). Infine, la TNF-α, produce febbre, anoressia,
shock, citotossicità e attivazione di cellule endoteliali e tessutali. In particolare,
l’interleuchin-1, l’interleuchina-6 e la TNF-α sono estremamente importanti per i loro effetti
sistemici (soprattutto febbre): gli effetti sistemi prendono il nome di fase acuta.
4. Ossido Nitrico (NO), prodotto dai macrofagi e dalle cellule endoteliali. Queste cellule sono
dotato dell’enzima ossido nitrico sintetasi, che hanno la capacità di produrre l’NO. Questo
gas è un potentissimo vaso dilatatore (viene prodotto, però, dopo l’istamina), tanto che è
coinvolto nel cosiddetto shock settico (quando i batteri sono penetrati nel circolo ematico e,
dunque, raggiungono tutto l’organismo).
5. C3a e C5a. Questi si trovano, come già detto, nel plasma sanguigno. La formazione del C3 è
di cruciale importanza, perché
questo componente interagisce
con entrambe le vie di
attivazione. Queste due molecole
(c3a e c5a, che vengono
prodotte, durante l’attivazione
del complemento; nel momento
della divisione, infatti, alcune
c3a e c5a solubili restano nel
plasma sanguigno) sono
conosciute come anafilotossine e
sono in grado di indurre il
rilascio di istamina; il c5a ha
invece una potente proprietà
chemiotattica. Il complesso di attacco alla membrana, alla fine, provoca la produzione di un
canale cilindrico transmembrana che porta alla lisi cellulare.
La via classica comincia quando sulla superficie del patogeno si ha una serie di anticorpi.
Alcune classi di anticorpi finalizzate all’attivazione del complemento sono le IgM e le IgG.
6. Proteasi plasmatiche, sono legate alla cosiddetta cascata delle chinine; ossia peptidi
vasoattivi che si generano alla fine della cascata, dove vengono attivate per scissione delle
proteasi. Le proteasi che si generano in questa cascata, sono dette callicreine (chininogeno è
la stessa molecola in forma inattiva). Importante è anche il fattore di Hageman o fattore XII,
che può essere attivato una volta che viene prodotta la callicreina.
Il prodotto finale di questa cascata è la bradichinina, un mediatore responsabile del dolore;
la molecola algogena per eccellenza.
Altri due prodotti sempre appartenenti alle proteasi plasmatiche sono: il sistema della
coagulazione ed il sistema fibrinolitico, che si completano e si controbilanciano. Questi
sono attivati dal fattore di Hageman (che si trova in forma inattiva del plasma). Questa via di
attivazione del fattore si chiama via intrinseca. Ne esiste un’altra detta via estrinseca.
Il fattore si attiva una volta che l’endotelio modifica la sua conformazione, favorendo la
permeabilità. Le molecole presenti nel plasma a questo punto si trovano in contatto con le
parti sottostanti all’endotelio, è proprio in questo momento che si attiva il fattore di
Hageman. In quest’attivazione della cascata coagulativa e fibrinolitica sono importanti:
fibrinogeno (trasformato in
fibrina) e plasminogeno e
plasmina.
Fagocitosi
E’ la funzione che permettere di rimuovere agenti patogeni e/o detriti cellulari ad opera di fagociti
professionali (granulociti neurofili, macrofagi).
Le prime cellule che arrivano al focolaio infettivo, subito dopo l’edema, sono i neutrofili; solo
successivamente arrivano anche i macrofagi e i monociti.
Nel processo di fagocitosi distinguiamo 3 fasi:
1. Captazione, ossia l’adesione delle particelle alla superficie del fagocita, attraverso alcuni
recettori. Qui, sono presenti le opsonine che, nel momento in cui rivestono un
microrganismo, aumentano enormemente l'efficienza della fagocitosi in quanto esse sono
riconosciute da recettori espressi sulla membrana dei fagociti.
2. Inglobamento del materiale da parte del fagocita, con conseguente formazione dello
pseudopode e poi del fagosoma
3. Demolizione del materiale fagocitario, con la successiva fusione del fagosoma - lisosoma.
I meccanismi degradativi sono favoriti da diversi fattori: pH acido, lisozimi, lattoferrina,
proteine cationiche (alterano la membrana dei batteri), idrolasi acide lisosomiali (tagliano e
digeriscono grazie alle proteasi, fosfatasi, nucleasi).
Altri fattori sono le componenti ossigeno - dipendenti, capaci di degradare ulteriormente ciò
che è stato fagocitato. Nei granulociti queste sono le mieloperopsidasi. Questi meccanismi
ossigeno - dipendenti, vengono attivati attraverso l’azione dei mediatori solubili, generando
il cosiddetto “scoppio respiratorio”.
Questo ha due tipologie di effetti:
1. Benefici, che si dividono a sua volta in intracellulari, grazie alla potente azione
microbicida; ed extracellulari, attraverso la modulazione e l’amplificazione della reazione
infiammatoria.
2. Dannosi, che consistono dal punto di vista intracellulare nell’effetto citotossico sul
fagocita e quindi la sua distruzione con conseguente liberazione di componenti tossiche per i
tessuti. Dal punto di vista extracellulare si ha invece la diffusione di sostanze (come il
superossido) al di fuori della cellula fagocitaria. Si ha quindi un effetto tossico sui tessuti.
NB: Fu Lewis Thomas a studiare la lesione tissutale indotta dallo scoppio respiratorio dei leucociti.
Thomas affermò che: “L’attività dei leucociti polimorfonucleati e dei macrofagi porta all’uccisione
dei microrganismi e all’eventuale danno dell’ospite attraverso il rilascio extracellulare di enzimi e
di specie reattive dell’ossigeno. Il nostro arsenale per eliminare i batteri è così potente e consta di
numerosi e differenti meccanismi di difesa che siamo più in pericolo dal sistema stesso che dagli
“invasori”. Viviamo in mezzo ad un congegno esplosivo; siamo “minati”.
Ma cosa si intende esattamente per fase acuta? Si intende una vasta e complessa serie di risposte
fisiologiche aspecifiche, che iniziano immediatamente dopo che l’organismo è stato colpito da un
trauma, un’infezione o qualunque causa che produca danno.
Anche se la risposta inizia ed è più evidente a livello locale, la risposta acuta deve essere
considerata un processo dinamico che altera l’omeostasi e coinvolge quasi tutti gli organi, mediante
meccanismi di auto mantenimento e di amplificazione la risposta infiammatoria si può accentuare,
producendo uno stato patologico generalizzato.
Nella fase acuta, è possibile che il TNF-α, oltre a produrre febbre, diminuisca notevolmente
l’appetito, con conseguente possibile anoressia.
Nella fase acuta vengono coinvolti una grande quantità di organi (effetto sistemico):
1. Ipotalamo (febbre e fattori liberanti ormoni ipofisari)
2. Ipofisi (liberazione di tropine, come ACTH, GH e ADH)
3. Ghiandole endocrine, che secernono insulina, glucagone, T3, T4, aldosterone, catecolamine
4. Midollo osseo (per la leucocitosi)
5. Sistema immunitario (proliferazione linfocitaria)
6. Sangue (aumento delle immunoglobuline e della VES)
7. Fegato (proteine della fase acuta). Il fegato umano in condizioni fisiologiche sintetizza oltre
20 gr di proteine al giorno, riversate nel plasma e utilizzate come fattori di crescita, proteine
di trasporto, proteine che intervengono nei processi di difesa dell’organismo. Durante
l’infiammazione acuta si verifica un cambiamento del profilo biosintetico del fegato, che
risponde con un’aumentata sintesi delle proteine della fase acuta e contemporaneamente
riduce la sintesi e la concentrazione nel plasma di altre proteine, dette perciò proteine
“negative” della fase acuta. Dunque, le proteine positive della fase acuta saranno quelle
prodotte maggiormente, mentre quelle negative sono quelle prodotte in maniera ridotta.
Ripetendo, quindi, durante la fase acuta aumentano le proteine plasmatiche dei fattori del
complemento e si ha la loro attivazione. Si ha un aumento dei fattori di coagulazione (promuove la
guarigione delle ferite). Aumentano inoltre gli inibitori delle proteasi, limitando la fase dannosa
dell’infiammazione.
Aumentano la sintesi di proteine leganti metalli (come ad esempio il ferro), alcuni batteri infatti
utilizzano i metalli per crescere.
La proteina PCR attiva si lega alla superficie dei patogeni e attiva il complemento per via classica;
in più modula l’attivazione delle piastrine, aumenta la chemiotassi e la fagocitosi, aumenta l’attività
dei NK, e favorisce l’opsonizzazione.
La febbre
La febbre è un aumento della temperatura corporea al di sopra dei valori normali, causata da uno
spostamento a valori patologici della temperatura di riferimento (“set point”) del termostato
ipotalamico, per azione di mediatori chimici endogeni: le citochine pirogene.
Ma quali sono le cause della febbre?
1. I batteri Gram-negativi esercitano la loro azione pirogena, liberando alcune endotossine, i
più potenti agenti pirogeni esogeni. La liberazione di endotossine avviene in seguito a
disgregazione del corpo batterico;
2. I batteri Gram-negativi possono liberare, inoltre, senza perdita della loro integrità
strutturale, un’endotossina corrispondente a una ben definita struttura lipo-polisaccaridica
(LPS) della loro membrana, che induce la febbre.
3. I batteri Gram-positivi esercitano la loro azione pirogena come conseguenza della
fagocitosi del corpo batterico da parte dei macrofagi, ma anche della liberazione di
esotossine.
4. I virus. L’effetto scatenante è soprattutto da riportare alla loro azione citopatogena e citocida
sulle cellule dell’organismo.
L’aumento di quest’ultima agisce sul set point del centro termoregolatorio, che si sposta su
temperature più alte.
Ma a cosa serve la febbre?
Si tratta di una risposta (molto costosa in termini energetici) mantenuta durante tutta l’evoluzione
quindi deve certamente servire a qualcosa!
1. Alcuni microrganismi muoiono a temperature raggiunte durante la febbre (spirochete >
41°C; pneumococchi 40°C), quindi almeno nelle infezioni sembra essere utile;
2. La funzionalità dei leucociti è fortemente aumentata (mobilità) dall’aumento della
temperatura;
3. L’efficacia del TNF nell’uccidere le cellule tumorali è aumentata.
Conseguenze dell’infiammazione:
1. Guarigione:
Restituzione o rigenerazione: le cellule rigenerate sono del tipo originale
Riparazione o organizzazione fibrosa: rimozione dell’essudato infiammatorio e sua
sostituzione con tessuto cicatriziale
2. Permanenza:
Come angioflogosi (permangono i fenomeni vasculo-essudativi)
Come evoluzione in istoflogosi: i fenomeni vascolari ed essudativi diminuiscono
fino a cessare. Sono esaltati i fenomeni proliferativi dei monociti, fibroblasti ed
endoteli
Ma quali sono le differenze fra una flogosi acuta (o angioflogosi) e una flogosi cronica (o
istoflogosi)?
1. Mentre nella prima abbiamo una prevalenza di fenomeni vascolo essudativi (essudato), nella
seconda questi processi sono molto scarsi
2. Mentre nella prima abbiamo una prevalenza di granulociti, nella seconda troviamo una
grande quantità di linfociti e monociti.
3. Mentre nella prima abbiamo una grandissima secrezione di mediatori chimici, nella seconda
questa diminuisce notevolmente.
4. Nell’istoflogosi abbiamo fenomeni proliferativi di linfociti, monociti e macrofagi (cosa
impossibile nell’angioflogosi)
5. Nell’istoflogosi troviamo una proliferazione connettivale molto elevata (con fibroblasti e
endoteli: cellule deputate alla cicatrizzazione)
6. Mentre l’angioflogosi dura un tempo ben determinato, l’istoflogosi può durare vari anni o
anche tutta la vita; inoltre, l’istoflogosi termina sempre con fenomeni riparativi.
Quando si ha l’incontro col patogeno abbiamo, come prima cosa, un’infezione acuta, che ha il
compito di eliminare il patogeno. Se questo processo funziona, si va incontro ad una guarigione.
Tuttavia, se il patogeno non viene eliminato del tutto, l’organismo risponde con una flogosi acuta
cronicizzata. In questo caso, cosa accade? Scompaiono tutte le cellule di un’infezione acuta classica
e compaiono nuove cellule, dette infiltrati parvicellulari, che si insinuano in mezzo alle fibre del
tessuto (sono i responsabili della flogosi acuta cronicizzata): non abbiamo più fenomeni di essudato.
Nel caso, invece, che il patogeno sia ad alta resistenza (molto resistente, cioè, all’infiammazione
acuta), si viene a formare una cosiddetta flogosi cronica ab inito. In questi casi, si vengono a
formare degli ammassi cellulari discreti, formati o da granulomi non immunitari o da granulomi
immunitari.
Come già detto, i macrofagi sono le principali cellule responsabili della flogosi cronica. Questi sono
cellule derivate dal midollo osseo, circolano nel sangue sotto forma di monociti e, arrivati ai tessuti,
si differenziano nei macrofagi (assumono diversi nomi, a seconda di dove si trovano):
1. Istiociti, del tessuto connettivo lasso
2. Macrofagi alveolari
3. Macrofagi peritoneali
4. Cellule di Kupfer
5. Osteoclasti
6. Microglia
7. Istiociti specializzati (come le cellule epitelioidi)
8. Cellule giganti
I macrofagi sono cellule di dimensioni notevoli, hanno un’emivita lunga, svolgono anche la
funzione di APC (cellule presentanti l’antigene) ed eseguono l’attività di fagocitosi. Questi sono
attivati dai linfociti, che potenziano le loro capacità fagocitiche e citotossiche. Infine, i macrofagi
possono dare vita ai granulomi, proprio sotto l’effetto potenziante dei linfociti.
Ma come si reclutano queste i macrofagi e i linfociti? Si richiamano attraverso la secrezione di
molecole di adesione e attraverso processi chemiotattici (i linfociti e i macrofagi si muovono verso
il focolaio infettivo).
Una volta reclutate, queste cellule cominciano a proliferare, stimolate dalle citochine e si
localizzano nel luogo dell’infiammazione.
Le interazioni macrofago-linfocita sono alla base del meccanismo che procura, poi,
l’infiammazione cronica: macrofagi e linfociti, infatti, si attivano a vicenda, tramite la produzione di
citochine (IL-1, TNF). Una volta attivati, entrambi producono altri mediatori chimici, come l’NO
(una specie estremamente reattiva dell’ossigeno) o alcune proteasi, che provocano danni tissutali,
citochine, fattori chemiotattici e alcuni fattori di crescita.
Infiammazione granulomatosa
Il granuloma è un’aggregazione di macrofagi che assumono un aspetto di cellula epiteliale (cellule
epitelioidi) e formano noduli, che possono essere grandi fino a numero millimetri. Quasi sempre, le
cellule epitelioidi sono circondate dai linfociti.
Frequentemente, le cellule epitelioidi si fondono in cellule giganti multinucleate (fino a 20 nuclei),
le cosiddette cellule di Langhans, che si localizzano alla periferia o al centro del granuloma.
Le aree di infiammazione granulomatosa possono andare incontro a necrosi (che può essere di tipo
caseosa).
Ma quali sono le cause dei granulomi?
1. A causa dell’entrata di corpi estranei, non digeribili dai macrofagi (schegge, spine, punti
di sutura, ecc.). Dunque, al centro troveremo il corpo estraneo e, attorno, tutti i macrofagi e i
linfociti, che tentano di digerirlo, avvolgendolo (ma non ci riescono). Non abbiamo mai la
presenza di necrosi.
2. A causa di sostanze tossiche. Tra queste, abbiamo le pneumoconiosi che, una volta inalate,
possono stimolare la formazione dei granulomi.
3. A causa di una risposta immunitaria patologica (per esempio, nel caso del granuloma di
Aschoff, che si presenta nel reumatismo articolare acuto).
4. Per cause sconosciute. Per esempio, nel caso della sarcoidosi: si formano una serie di
granulomi, ma non conosciamo la causa.
5. Una particolare causa, molto importante, è la tubercolosi.
L’immunopatologia
Molte volte, il sistema immunitario può attivarsi in maniera scorretta, portando a diverse
immunopatologie (ipersensibilità o immunodeficienze).
Le reazioni di ipersensibilità sono reazioni immuni, che provocano la comparsa di manifestazioni
patologiche, localizzate o sistemiche.
Esistono 4 tipologie di ipersensibilità, differenziate per il meccanismo alla base: i primi 3 tipi
coinvolgono sempre la produzione di anticorpi, mentre quella del quarto tipo è cellulo-mediata.
1. Tipo 1: Sono anche chiamate “ipersensibilità immediate” o “allergie”. In questa situazione
vengono prodotti una speciale classe di anticorpi, che sono le IgE;
2. Tipo 2: Qui vengono prodotte o le IgG o le IgM. In questo caso, però, questi anticorpi sono
diretti verso antigeni corpuscolati, cioè che si trovano o sulla superficie di cellule o sulle
membrane basali di alcuni tessuti. Queste sensibilità sono chiamate anche citotossiche o
citolitiche.
3. Tipo 3: chiamate anche “malattie mediate da immunocomplessi”. Anche in questo caso
vengono prodotti degli anticorpi (IgG o IgM), diretti però verso antigeni solubili (cioè non
vincolati alla superficie di strutture cellulari: per questo motivo, si vengono a formare, in
circolo, degli immunocomplessi, che restano disciolti nel plasma e che possono, in
opportune condizione, precipitare e sedimentare in particolari porzioni dell’organismo,
alterando la funzionalità dell’organo).
4. Tipo 4: Malattie mediate dalla produzione dei linfociti T (CD4 o CD8).
Primo tipo
E’ chiamata anche reazione di ipersensibilità anafilattica o allergica. Qui vengono reclutate
moltissime IgE. “Allergia” significa “reattività diversa”. Nei soggetti allergici, l’antigene provoca
la produzione di IgE, al posto delle IgM o delle IgG. Gli allergici sono, infatti, atopici, poiché hanno
la capacità abnorme di sviluppare un’ipersensibilità.
Questa reazione di ipersensibilità, viene chiamata anche anafilassi, poiché, al secondo contatto,
anziché rafforzare la risposta, si ha una manifestazione gravissima, che provoca una infiammazione
esagerata.
Ciò che provoca l’allergia è detto allergene: ogni allergene presenta, sulla superficie, una grande
quantità di epitopi ripetuti.
Ma cosa accade? Un individuo allergico incontra per la prima volta un allergene: il sistema
immunitario produce una grande quantità di IgE (che sostituiscono da subito le IgM, che
normalmente dovrebbero essere prodotte): questo primo contatto è detto di sensibilizzazione. Tutte
queste IgE si vanno a legare ai mastociti. Al secondo contatto, appena arriva l’allergene, questo
viene immediatamente riconosciuto dalle IgE specifiche, legate sui mastociti, provocando la
degranulazione. I mastociti, infatti, liberano istamina, proteasi ed alcuni derivati dell’acido
arachidonico, dando vita ad un’infiammazione eccessiva.
Ma perché questi soggetti producono le IgE in maniera eccessiva? Perché hanno una
predisposizione genetica a rispondere agli allergeni, con una risposta di tipo Th2, favorendo il
cambiamento di classe verso le IgE.
Avevamo detto che gli allergeni dovevano presentare necessariamente degli epitopi ripetuti poiché,
alla fine di attivare i mastociti, sono necessari almeno due legami con due IgE.
L’ipersensibilità di primo tipo possono provocare diverse sindromi:
1. Rinite allergica, congiuntivite: aumento della secrezione mucosa e infiammazione delle
prime vie respiratorie;
2. Allergie alimentari, con un aumento della peristalsi, dovuta a contrazioni eccessive
dell’intestino.
3. Asma bronchiale: esaltata risposta bronchiale con broncocostrizione. In questo caso,
vengono utilizzati i corticosteroidi, poiché riducono l’infiammazione e inducono un
rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale.
4. Shock anafilattico, quando abbiamo una caduta della pressione sanguigna (shock), causata
dalla dilatazione vascolare, con conseguente ostruzione delle vie aeree. In questi casi viene
utilizzata l’adrenalina, poiché aumenta la gittata cardiaca, controbattendo lo shock.
Ma quali sono i meccanismi patogenetici che sono alla base dell’ipersensibilità mediata da
anticorpi? Sono 3:
1. Opsonizzazione di cellule da parte di anticorpi e componenti del complemento e ingestione
da parte di fagociti. Se una cellula viene rivestita da anticorpi IgG, per esempio, si avrà
subito l’attivazione dei fagociti. Se, invece, si legheranno delle IgM, si avrà anche
l’attivazione del complemento, per via classica.
2. Lisi indotta dal complemento che viene attivato per via classica
3. Infiammazione indotta da anticorpi che si legano ai recettori Fc di leucociti e dai
componenti della cascata del complemento
Nelle ipersensibilità di II tipo possono essere incluse altre due malattie autoimmuni, in cui si ha un
cambiamento nella funzione del tessuto attaccato:
1. Malattia di Graves, una malattia autoimmune, in cui vengono prodotti degli autoanticorpi,
che si vanno a legare a dei recettori per l’ormone TSH. Questo autoanticorpo mima, di fatto,
la funzione dell’ormone TSH (come se l’ipotalamo producesse grandi quantità di TSH): di
conseguenza, la tiroide produrrà tanto T3 e T4 e il soggetto diviene ipertiroideo. In questo
caso, quindi, non abbiamo una lisi di cellule.
2. Miastenia grave. Qui, abbiamo la produzione di autoanticorpi contro il recettore per
l’acetilcolina, impedendo la contrazione dei muscoli (paralisi).
Esistono, tuttavia, altri esempi, come il diabete mellito insulino-resistente, provocato da anticorpi
che mascherano il recettore per l’insulina. Al contrario, esiste anche una forma di ipoglicemia
provocata da anticorpi che si legano e stimolano il recettore per l’insulina.
Un’ipersensibilità di II tipo, mediata da alloanticorpi, è la malattia emolitica del neonato, che può
colpire il feto di madre Rh negativa e padre Rh positivo, se il feto è Rh positivo.
È detta anche malattia emolitica anti-D, per la presenza nel circolo di anticorpi anti-D di origine
materna, sviluppatisi in seguito ad una prima gravidanza. Infatti, se per il sistema AB0 esistono
anticorpi naturali (nel senso che la loro comparsa non è legata ad una stimolazione antigenica)
contro gli antigeni presenti sulla membrana degli eritrociti, per il gruppo Rh invece gli anticorpi anti
D si vengono a creare in seguito al contatto con l'antigene.
Questa si caratterizza per la distruzione dei globuli rossi fetali, a causa del passaggio transplacentare
dei corrispondenti alloanticorpi di tipo IgG prodotti dalla madre.
Avremo che nel parto, il passaggio di sangue del figlio alla madre causerà una risposta immunitaria
della madre stessa. Questa risposta, o meglio gli anticorpi implicati, saranno ripassati al figlio
tramite la placenta e andranno ad attaccare proprio i globuli rossi del bambino, che non essendo
della madre vengono visti come not-self. Più sono gli anticorpi immessi nella placenta dalla madre,
più sono i globuli rossi demoliti nel figlio. In casi estremi, questa situazione può portare alla morte
del neonato.
NB: per la risoluzione del problema, causato dall’antigene D presente nel sangue del neonato, si
procede immediatamente con l’immissione nella madre di IgM estranee, in modo che il suo
organismo sia già pronto a distruggere quel sangue, senza attivare il proprio sistema immunitario.
Reazioni di ipersensibilità di III tipo o da immunocomplessi
Anche in questo caso abbiamo anticorpi indirizzati verso antigeni solubili. Questi anticorpi legano
l’antigene e formano un immunocomplesso. Questi possono avere diverse grandezze, che
dipendono dalla quantità di anticorpi e antigeni presenti nella formazione dell’immunocomplesso.
Gli immunocomplessi di grandi dimensioni sono quelli eliminati con maggiore facilità. Questi
formano un grosso reticolo, che gli permette di legarsi agli eritrociti, che poi li porterà a distruggersi
nella milza (eritrocateresi). I piccoli immunocomplessi tendono invece a precipitare nei punti in cui
si ha una grande filtrazione (pareti vasali e glomerulo renale). Una volta lì si attivano i processi di
difesa, e quindi l’attivazione del processo infiammatorio, tramite il complemento o l’attivazione di
macrofagi. In questo caso si attivano sia le IgG che le IgM.
Esistono 3 situazioni, in cui si può avere la formazione di un immunocomplesso:
1. Infezione cronica, per esempio nella lebbra, nella malaria, nella febbre emorragica.
2. Patologie autoimmuni, quando il sistema immunitario riconosce degli agenti self come
estranei. In questa situazione si formano immunocomplessi che vanno in circolo, vengono
rimossi dagli eritrociti o dai fagociti mononucleati. Ma quando la formazione di
immunocomplessi supera la capacità di rimozione, questi si depositano nei tessuti.
3. Inalazione di agenti antigenici.
I processi riparativi
I meccanismi riparativi riguardano quelle cellule che possono eseguire il ciclo cellulare. Esistono
diversi tipi di cellule:
1. Cellule labili, soggette cioè a continuo rinnovamento per replicazione costante (per esempio,
gli eritrociti, le cellule del midollo osseo o dell’epidermide);
2. Cellule stabili, che normalmente non replicano ma possono farlo in caso di necessità (per
esempio, le cellule del fegato: epatociti). Qui, alcune cellule ferme alla fase G0, di
quiescenza, vengono richiamate nel ciclo cellulare, al fine di completare la maturazione;
3. Cellule perenni, con vita lunghissima, che non riescono ad entrare nel ciclo cellulare: non
possono dividersi o moltiplicarsi. Un loro danno provoca necessariamente la sostituzione di
queste cellule con un tessuto fibroso
e cicatriziale.
La normale omeostasi è bilanciata da un
continuo equilibrio fra proliferazione ed
apoptosi. Quando si ha, invece, un danno (di
qualsiasi origine), possiamo avere:
1. Rigenerazione franca, se parliamo
di cellule labili
2. Rigenerazione con ipertrofia, se
l’organo è costituito da cellule
stabili
3. Riparazione, quando abbiamo
cellule perenni, con la sostituzione
del tessuto mancante con cellule
cicatriziali
4. Infiammazione cronica, con la
formazione di fibrosi
E’ importante ricordare come, nel caso delle cellule perenni, il tessuto originale viene sostituito con
tessuto connettivo.
Il danno a carico di tessuti diversi determina il coinvolgimento di tipi cellulari specifici del tessuto
interessato. Contemporaneamente, però, le cellule endoteliali e i fibroblasti, in qualità di
componenti strutturali ubiquitari, le cellule dell’infiammazione e le piastrine intervengono in
qualunque processo riparativo.
Vediamo, ora, alcuni termini fondamentali:
1. Rigenerazione: proliferazione delle cellule del tessuto danneggiato, con sostituzione delle
cellule morte. Il tessuto riassume, sia strutturalmente che funzionalmente, la sua integrità.
2. Riparazione: si ha quando il tessuto non può rigenerarsi. Il tessuto distrutto viene sostituito
con tessuto connettivo (cicatrice). C’è un ritorno all’integrità strutturale, ma non viene
ricostituita la completa funzionalità del tessuto.
3. Cicatrice: è un tessuto fibroso denso, che colma e ripara una perdita di tessuto. Si presenta
come un tessuto liscio, lucido, con poche cellule (qualche fibroblasto) e per niente
vascolarizzato.
4. Organizzazione: sostituzione con tessuto connettivo. Questa l’avevamo già trovata parlando
degli ascessi. Significa che si attivano dei processi riparativi con lo scopo di eliminare
l’agente danneggiante e riparare il danno tramite la deposizione di tessuto connettivo.
5. Sclerosi/fibrosi: aumento del tessuto connettivo fibroso denso in un determinato distretto. E’
diverso dalla cicatrice, in quanto si tratta di un aumento patologico. Questo provoca lo
scompaginamento di un organo, per sostituzione con tessuto connettivo. Ciò porta
necessariamente all’insufficienza stessa dell’organo.
6. Cheloide: cicatrice esuberante sulla cute. La quantità di connettivo depositata è maggiore a
quella necessaria per chiudere la ferita.
7. Aderenza: porzioni di fibrina che uniscono zone della superficie degli organi, rivestiti da
sierose.
In tutti i tipi di ferite, si ha sempre una formazione di un coagulo, seguita da una fase infiammatoria,
alla quale succede una riepitelizzazione (in cui la ferita viene chiusa velocemente con un nuovo
epitelio). In seguito, si ha la formazione del tessuto di granulazione (che appara, appunto, con dei
piccoli puntini rossi, che sono proprio i nuovi vasi sanguigni, dovute alla neoangiogenesi). Infine,
abbiamo la contrazione della ferita.
1. Un primo evento riguarda la cascata coagulativa: i componenti, che si trovano in forma
inattiva nel sangue, vengono a contatto con la membrana basale, dando vita alla cascata, allo
scopo di formare un tappo emostatico, che blocca la fuoriuscita di sangue dai vasi lesionati.
Si viene, dunque, a creare una crosta, che rappresenta proprio la disidratazione del coagulo,
importantissima poiché tappa e protegge la ferita dall’ambiente esterno, limitando così
l’ingresso di patogeni. Il processo è molto veloce: inizia subito e dura solo qualche minuto.
1. Abbiamo ora la migrazione di neutrofili (infiammazione acuta). Nella ferita sono presenti
molti detriti cellulari e infiammatori. Di conseguenza, i fagociti residenti cominciano a
fagocitare; questi, tuttavia, sappiamo essere delle molecole molto attive nel produrre
sostanze pro-infiammatorie: viene indotto un processo infiammatorio, col quale vengono
richiamati i neutrofili e i macrofagi. Questi ultimi producono fattori di neoangiogenesi, al
fine di formare nuovi vasi sanguigni, che vanno a convogliarsi verso la zona che deve essere
riparata. Questa fase si verifica nel giro di qualche ora dalla ferita.
2. La ferita, a questo punto, deve essere completamente ripristinata e chiusa (riepitelizzazione).
Sotto l’effetto di fattori di crescita, abbiamo la stimolazione di cellule epiteliali, che
cominciano a chiudere la ferita: queste crescono ai bordi del taglio, insinuandosi sotto la
crosta. Comincia anche la gemmazione dei vasi che erano stati generati. Se la ferita è poco
profonda e interessa solo l’epidermide, la guarigione si può dire conclusa.
3. A questo punto, giungono dei macrofagi, attraverso il sangue, col compito di ripulire la
ferita, eliminando anche i granulociti neutrofili (che, una volta effettuata la loro funzione,
muoiono). Si viene a formare il tessuto di granulazione, formato dai vasi neoangiogenesi,
dai fibroblasti (richiamati grazie ad alcuni fattori chemiotattici), da alcune cellule
infiammatorie e dal connettivo, ricco di collagene.
I fibroblasti
Sono cellule del tessuto connettivo (cellule mesenchimali) col compito di
depositare il collagene. Queste cellule vengono richiamate da quasi tutte le
cellule coinvolte nei processi infiammatori e immunitari.
Le arterie sono costituite da 3 tonache: tunica intima, quella più interna (verso il lume del vaso),
una tunica media, costituita prevalentemente da tessuto muscolare liscio, tunica avventizia, in cui
troviamo tutti i vasa vasorum (per la nutrizione delle cellule costituenti le arterie) e tutti i nervi.
1. La tunica intima è costituita, nella parte diretta verso il lume, dagli endociti, che formano
l’endotelio: questo serve ad impedire la coagulazione del sangue: questi, continuamente
producono sostanze favorenti la fluidità sanguigna. L’endotelio è molto importante, anche
perché separa il sangue dagli altri strati, che sono trombogenici (stimolano l’aggregazione
piastrinica).
2. La lamina elastica è uno strato di
fibre elastiche disperse e disposte in
direzione longitudinale. Questo strato
non è continuo, bensì fenestrato:
attraverso questi spazi, soprattutto
nelle arterie di medio calibro, le
cellule muscolari lisce possono
penetrare nell’intima.
3. La tunica media (o strato
muscolare). E’ composto da un’alternanza di strati di cellule muscolari lisce e fibre
elastiche. E’ poco vascolarizzata ed è responsabile della propagazione dell’impulso sistolico
del cuore. Con l’avanzare dell’età, le fibre elastiche si deteriorano e vengono sostituite da
tessuto fibroso. In corso di arteriosclerosi, le cellule muscolari lisce possono differenziarsi,
proliferare e migrare nella tunica intima, diventando miointimali: queste producono
connettivo e favoriscono la creazione di una capsula fibrosa.
4. La tunica avventizia, costituita da tessuto connettivo, contenente fibroblasti, fibre elastiche e
vasa vasorum. Le connessioni nervose sono estremamente numerose, soprattutto nelle
arterie di medio o piccolo calibro, dove giocano un rande ruolo nella vasodilatazione o
vasocostrizione.
Le principali patologie che coinvolgono le arterie sono malattie, che vengono raggruppate sotto il
nome di arteriosclerosi. Di queste, è molto importante l’aterosclerosi.
L’aterosclerosi
L’aterosclerosi (AS) è una malattia delle larghe e medie arterie, tra le quali le più colpite sono
l’aorta, le coronarie e le arterie del sistema cerebrale: si viene, qui, a provocare un adenoma. Le
manifestazioni cliniche principali sono, quindi, l’infarto miocardico e l’infarto cerebrale (ictus).
L’AS provoca, a volte, anche altre patologie meno gravi, come l’ischemia cardiaca cronica
(riduzione di apporto di ossigeno), la gangrena agli arti inferiori, l’encefalopatia ischemica,
l’aneurisma e la stenosi (riduzione del lume del vaso, con diminuzione di apporto di nutrimenti e
ossigeno).
L’aterosclerosi è causata dallo sviluppo dell’ateroma. Questo è meglio conosciuto con il nome
di placca aterosclerotica; è definibile come una degenerazione delle pareti arteriose, dovuta al
deposito di placche formate essenzialmente da grasso e tessuto cicatriziale; un'arteria infarcita di
materiale lipidico e tessuto fibrotico perde, infatti, elasticità e resistenza, risultando più suscettibile
alla rottura, riducendo il proprio lume interno ed ostacolando il flusso sanguigno. Inoltre, in caso di
rottura dell'ateroma (se questa placca è particolarmente sottile può, infatti, andare facilmente
incontro a rottura), il primo fenomeno che si instaura è una serie di processi riparativi e coagulativi,
che possono portare alla rapida occlusione del vaso (trombosi), o generare embolie più o meno
severe (questo qualora un frammento dell'ateroma si stacchi e venga spinto in periferia, andando
così ad occludere i capillari arteriosi periferici).
L’ateroma, nella sua parte più centrale, è costituito da un core di lipidi (colesterolo complessato a
proteine e, soprattutto, LDL, ossia colesterolo cattivo). Le LDL, infatti, che si trovano normalmente
libere nel sangue, una volta che incontrano un endotelio alterato, vengono ossidate. Le LDL
ossidate, con molta facilità, riescono a penetrare nella tunica intima, dove cominciano ad
accumularsi e a richiamare localmente le cellule infiammatorie, in particolare i macrofagi. Questi
ultimi, infatti, tentano di fagocitare le LDL; tuttavia, in questo processo, i macrofagi rilasciano tutte
quelle sostanze pro-infiammatorie, che richiamano vari tipi di cellule. Di fatti, dunque, ciò che
accade è l’instaurazione di un vero e proprio processo infiammatorio (in altre parole, la placca
ateromasica è un complesso infiammatorio).
Dunque, dicevano che l’ateroma è costituito, all’interno, da un core lipidico e, più esternamente, da
tutta quella serie di cellule infiammatorie, quali macrofagi, granulociti, piastrine, fibroblasti e loro
forme di differenziazione (cellule miointimali e cellule schiumose, così chiamate perché hanno
fagocitato i lipidi: il loro citoplasma appare ricco di bolle d’aria). A questo, però, bisogna
aggiungere la formazione successiva di una capsula esterna fibrosa (ad un certo punto, infatti,
viene depositato del connettivo, al fine di tentare di riparare o mantenere localizzata questa struttura
ateromasica). Un ateroma, dunque, presenta 3 strati principali, che si vengono a formare uno dietro
l’altro: un core lipidico interno, uno strato di cellule infiammatorie e una capsula esterna fibrosa.
L’ateroma viene suddiviso in 3 stadi di sviluppo:
1. I lipidi (soprattutto LDL) cominciano ad accumularsi, andando a formare quella che è nota
come stria lipidica. Questi lipidi, come già detto, cominciano a richiamare tutte quelle
cellule pro-infiammatorie.
2. La placca ateromasica viene, poi, rivestita da materiale coagulativo, raggiungendo così il
secondo stadio: la placca fibrosa.
3. La placca fibrosa aumenta sempre più di dimensioni. Può, però, accadere anche che la
placca si rompa, andando a provocare, come già detto, un trombo o un embolia. Siamo nella
fase di lesione complicata. Purtroppo, i sintomi si sviluppano solamente in quest’ultima
fase: si scopre, quindi, si avere placche ateromasiche solamente nella fase più avanzata.
Le lipoproteine
1. Chilomicroni: trasportano trigliceridi e colesterolo della dieta dall’intestino ai tessuti
periferici (tessuto adiposo e fegato);
2. VLDL: sintetizzate nel fegato, in particolare da una dieta ricca di zuccheri;
3. IDL: si formano dalle VLDL, dopo che hanno ceduto ai tessuti parte del loro contenuto in
trigliceridi. Sono più piccole delle VLDL e ricche di colesterolo ed esteri del colesterolo;
4. LDL: si formano dalle IDL che restano più a lungo in circolazione e hanno perduto parte
della componente proteica. Trasportano il colesterolo ai tessuti periferici;
5. HDL: sintetizzate principalmente nel fegato, recuperano il colesterolo in eccesso.
I valori assoluti, tuttavia, ci dicono poco: bisogna, invece, andare a vedere il rapporto che c’è fra
colesterolo totale e HDL. Questo, per essere positivo, deve essere compreso fra 3 e 4.
Per esempio, se una persona ha un valore di colesterolo totale di 240 e un valore di HDL di 60, è
tutto sommato un rapporto accettabile (siamo al limite), nonostante il colesterolo totale sia maggiore
di quello consigliato (è il rapporto ad essere positivo).
Se invece, per esempio, un altro soggetto possiede un valore di colesterolo di 240, ma ha un valore
di HDL di 30, il rapporto risultante sarà 8: estremamente pericoloso (favorisce un peggioramento
della placca ateromasica).
Complicanze dell’AS
Sul cervello
Fra le arterie che possono essere colpite abbiamo le carotidi, le arterie vertebrali e l’arteria
cerebrale. L’occlusione di una di queste arterie può provocare:
1. Ischemia acuta (ictus), causato dall’occlusione delle arterie cerebrali
2. Aneurisma e rottura (emorragia cerebrale)
3. Ischemia cronica (demenza), ossia una diminuzione del flusso ematico che arriva al
cervello
Sul rene
Si può avere una riduzione delle dimensioni del lume dell’arteria extrarenale, che comporta
un’alterazione della pressione sanguigna (a livello del rene c’è, infatti, un forte controllo della
pressione arteriosa).
Un altro evento può essere la stenosi extrarenale (la stenosi è una condizione patologica, che
comporta il restringimento del lume di un vaso), che provoca ipertensione renale (uremia). Questa,
di conseguenza, causa un’insufficienza renale.
Sul cuore
Quando sono coinvolte le arterie coronarie, possiamo avere un’ischemia intermittente (fasi alternate
di diminuzione del flusso ematico), ma possiamo anche avere un’ischemia cronica (fibrosi del
miocardio) o anche un’ischemia acuta, che provoca necessariamente la morte del tessuto irrorato
dalle coronarie.
Le neoplasie
Le neoplasie sono una massa abnorme di tessuto, il cui accrescimento è esorbitante e scoordinato
con quello dei tessuti normali e progredisce nella stessa maniera eccessiva anche dopo la cessazione
degli stimoli che lo hanno evocato.
Le neoplasie si caratterizzano per:
1. La perdita della risposta ai controllo della crescita normale
2. Le cellule neoplastiche riescono a riprodursi svincolandosi dalle influenze regolatrici
3. Le neoplasie si comportano come parassiti e competono con le altre cellule ed i tessuti
normali
4. Le neoplasie si accrescono in volume, indipendentemente dall’ambiente locale che le
circonda e dallo stato nutrizionale dell’ospite
5. Le neoplasie possono continuare ad accrescersi anche in paziente cachettici
L’autonomia delle neoplasie, tuttavia, spesso non è completa: molte tipologie, infatti, necessitano di
ormoni (ormono-dipendenti). Alcune neoplasia hanno anche la capacità di andar incontro a
neoangiogenesi, formando i propri nuovi vasi sanguigni per la propria vascolarizzazione.
I geni che vanno incontro ad alterazioni, in caso di neoplasie, saranno quelli che controllano la
proliferazione, la morte cellulare, il differenziamento delle cellule e quelli adibiti al controllo del
genoma.
Ma quali possono essere le cause della trasformazione (eziologia) e i meccanismi (patogenesi)?
Alla base della patogenesi del tumore ci sono le mutazioni di determinati geni che controllano la
proliferazione e la morte cellulare programmata. Le cause di mutazioni possono essere:
1. Cause esogene o ambientali, come gli agenti chimici, fisici o biologici.
2. Cause endogene, come le mutazioni ereditarie, le mutazioni casuali, gli squilibri ormonali e
gli agenti mutageni.
I tumori possono originarsi in tutti i tessuti con capacità proliferativa.
Ma come classifichiamo i tumori?
1. Eziologia: da radiazioni ionizzanti, da virus, da amine aromatiche, ecc.
2. Organo di origine: della mammella, del polmone, del colon, ecc.
3. Embriogenesi: se derivano dall’ectoderma, dall’endoderma, dal mesoderma, ecc.
4. Istogenesi (molto utilizzata oggi): in funzione del tessuto di origine (epiteliali o connettivali)
5. Comportamento biologico (molto utilizzata oggi): benigni o maligni
6. Differente potenziale della cellule di origine: totipotente, pluripotente o unipotente
7. Aspetto macroscopico: ulcerato, gelatinoso, scirroso, midollare, villoso, ecc.
Nomenclatura
Normalmente, per indicare un tumore benigno, si prende l’organo di origine e si aggiunge i suffisso
“-oma”: per esempio, adenoma o condroma, osteoma. Tuttavia, esistono delle eccezioni, come, per
esempio, melanoma, epatoma, linfoma, che sono tumori maligni.
Le neoplasie maligne, invece, sono indicate con il suffisso “-carcinoma”, se di origine epiteliale
(adenocarcinoma), con il suffisso “-sarcoma”, se di origine mesenchimale (fibrosarcoma,
liposarcoma, condrosarcoma, osteosarcoma, leiomiosarcoma, rabdomiosarcoma), con il suffisso
“-blastoma”, per neoplasie di possibile origine embrionale (retinoblastoma). Per il tessuto
emopoietico, invece, si parla di leucemie, per le neoplasie che originano nel midollo osseo, e di
linfomi, per le neoplasie che originano nei linfonodi.
I tumori vengono classificati anche in base all’aspetto macroscopico, in base alle caratteristiche
dello stroma (scirroso, mucinoso, midollare, ecc.).
Per esempio, in base all’aspetto macroscopico, l’epiteliale di rivestimento lo chiamiamo polipo e
papilloma. Il primo è un tumore benigno a forma di clava, sorretta da uno stroma di connettivo
riccamente vascolarizzato. Il papilloma, invece, è un’escrescenza su una superficie epiteliale che
presenta lunghe e sottili digitazioni, dette papille. Questo ha, normalmente, superficie maggiore e,
in genere, si replica in modo attivo.
Ogni tumore, oggi, viene trattato come una malattia a sé; questi, infatti, differiscono per:
1. Insorgenza, che può essere monoclonale, oligoclonale o policlonale (a seconda da quante
cellule parte la mutazione)
2. Presenza di lesioni preneoplastiche più o meno definite
3. Numero e tipo di eventi necessari per l’acquisizione della malignità
4. Durata dell’intera storia e delle sue fasi
5. Evoluzione ed aggressività
6. Sedi metastatiche
7. Interazioni con l’ospite
La monoclonalità
La gran parte dei tumori ha un’origine monoclonale, cioè da una sola cellula, come il Mieloma
multiplo o il Glucoso-6-fosfato-deidrogenasi.
Mieloma: Ogni mieloma, neoplasia maligna costituita da plasmacellule, produce un solo tipo di
anticorpo con una sola specificità, dimostrando che tutte le cellule derivano da un solo precursore
con quella specificità (significa, infatti, che un solo linfocita B impazzito ha prodotto il mieloma,
poiché sappiamo che ogni linfocita B produce un solo tipo di anticorpo).
Lesioni preneoplastiche
Alcuni esempi di lesioni preneoplastiche possono essere:
1. Iperplasia atipica della mammella
2. Nevi (sono i nei alterati) displastici
3. Cirrosi epatica
Eterogeneità
Durante, quindi, la storia naturale dei tumori, insorge una eterogeneità cellulare, nonostante
l’origine monoclonale. L’eterogeneità consiste in:
1. Alterazioni del cariotipo (numero dei cromosomi)
2. Caratteristiche morfologiche
3. Sensibilità agli ormoni
4. Caratteristiche differenziative
5. Cambiano alcuni recettori
6. Acquisiscono l’immunogenicità (il sistema immunitario non le elimina)
Nella fase di progressione, una particolare cellula comincia a proliferare, costituendo una
grandissima quantità di cloni. Questa è, infatti, una sequenza di eventi genici e non, che colpiscono
una cellula, fornendole le competenze per la malignità e la resistenza alle terapie. In questa fase si
ha l’attivazione dei cosiddetti oncogeni e l’inattivazione degli oncosoppressori.
Questi sono i geni responsabili del tumore:
1. Proto-oncogeni (favoriscono il ciclo cellulare), che vengono attivati e diventano oncogeni.
Fra gli oncogeni abbiamo, per esempio, gli ormoni di crescita, i recettori di alcuni fattori di
crescita, alcuni trasduttori del segnale, i fattori di trascrizione e sintesi del DNA e, infine, le
cicline (che controllano proprio le fasi del ciclo cellulare).
2. Oncosoppressori, che inibiscono la proliferazione (vengono inibiti). Fra questi troviamo i
fattori inibitori della crescita, gli inibitori dei trasduttori del segnale, i regolatori della
trascrizione e della sintesi del DNA.
3. Geni adibiti al sistema della riparazione del DNA (vengono inibiti)
4. Geni che regolano la morte cellulare (vengono inibiti)
5. Geni che codificano microRNA
P53
Il P53 è l’oncosoppressore per eccellenza. Nel caso in cui ci siano delle alterazioni del genoma in
una cellula, il P53 attiva alcune molecole, bloccando la cellula e impedendole di entrare nel ciclo;
contemporaneamente, attiva la riparazione del DNA: se la cellula viene riparate, P53 riattiva il
ciclo, mentre se non è riparata, questa viene mandata in apoptosi.
Nel caso di un’inibizione di P53, la cellula mutata continua a replicarsi anche se presenta errori nel
genoma (il 50% dei tumori è dovuto a questo errore).
La metastatizzazione
Il fenotipo metastatico non è attribuibile ad un singolo gene, ma a più geni che conferiscono
alle cellule tumorali entrate in circolo la capacità di arrestarsi in un determinato sito, grazie a
particolari molecole di adesione, e di sopravvivere resistendo alle difese immunitarie
dell’ospite. Quindi, cosa deve avvenire nel processo di metastatizzazione?
Intanto bisogna ricordare un concetto fondamentale: le vie seguite dalle metastasi per
diffondersi nell’organismo sono essenzialmente due, quella linfatica e quella ematica. La via
linfatica è decisamente preferita ai tumori di natura epiteliale, i carcinomi.
La via ematica diretta sembra, invece, essere seguita preferenzialmente dai tumori di natura
connettivale (sarcomi).
Dalla cellula iniziale trasformata, si ha un’espansione clonale, con la produzione di cloni diversi
(eterogeneità) e angiogenesi. Questi cloni (detti
sottocloni metastatici) hanno la capacità di penetrare la
membrana basale e passare attraverso la matrice
extracellulare, entrando nel vaso sanguigno. Qui,
l’interazione con una cellula linfatica dell’organismo,
provoca la formazione di un embolo costituito da
cellule tumorali. A questo punto, le cellule tumorali
possono fermarsi ad un particolare livello del vaso,
aderendo alla membrana basale di questo e,
successivamente, fuoriuscendo. Una volta fuori, le
cellule tumorali cominciano a formare la vera e propria
metastasi, sempre accompagnata da fenomeni di
angiogenesi e di crescita cellulare (tumore secondario).
Ma quali caratteristiche devono acquisire le cellule, per
arrivare ad essere metastatiche?
1. Acquisiscono le capacità dei leucociti di dividersi e
di moltiplicarsi
2. Acquisiscono le capacità degli osteoclasti di
demolire tessuti
3. Assumono le capacità dei fibroblasti di depositare
tessuto connettivo
4. Ecc.
Questo processo richiede tantissime interazioni, con la matrice extracellulare, con le cellule
stromali, parenchimali, endoteliali, ecc.
Nell’invasione, i meccanismi con cui le cellule tumorali riescono ad insinuarsi tra le cellule normali
e ad oltrepassare le barriere sono:
1. Proliferazione e compressione
2. Minore coesione cellulare (alterazione dei sistemi di adesione)
3. Minore adesione cellula-matrice
4. Alterata deposizione della matrice extracellulare
5. Degradazione della matrice extracellulare
6. Migrazione in risposta a fattori chemiotattici
Prima di tutto, quindi, come già detto, abbiamo il distacco dal tumore primario, poi abbiamo
l’attacco ai componenti della matrice extracellulare, con la successive degradazione di questa. Poi
abbiamo la migrazione delle cellule tumorali nell’organismo.
Alcuni tipi di tumori sono invasivi, ma non metastatici (per esempio, il basalioma).
Le vie di disseminazione
Le metastasi possono seguire:
1. Via linfatica (per esempio, nel caso dei carcinomi e delle metastasi linfonodali)
2. Via ematica (nel caso dei sarcomi e dei carcinomi)
3. In cavità/transcelomatica (membrane che rivestono l’interno dell’organismo)
4. Via canalicolare (tipica dei tumori che riguardano le ghiandole)
5. Altre (per contatto, come ad esempio il tumore del labbro inferiore, che può dare metastasi
al labbro superiore).
Esistono delle sedi preferite, rispetto al tipo di metastasi. I tumori colonizzano, infatti, di preferenza,
organi o distretti caratteristici.
Per esempio, se abbiamo un carcinoma del colon, questo può effettuare metastasi al fegato e al
polmone. Se abbiamo un tumore a livello della mammella, si possono avere metastasi alle ossa e al
cervello. Un melanoma cutaneo, poi, provoca metastasi a livello della cute, del cervello, del fegato e
dell’intestino. I tumori, infatti, scelgono l’organo in funzione delle condizioni ideali che trovano al
fine di accrescersi.
A volte, se le condizioni non sono proprio ideali, il tumore può andare incontro a dormienza, in cui
le metastasi non si moltiplicano e restano ferme anche per 20 anni (micrometastasi dormienti).
CIPOLLESCHI
La patologia vascolare
E’ una patologia estremamente frequente, soprattutto nei paesi più benestanti. Circa il 40% delle
morti è dovuto, infatti, a malattie vascolari, come ictus.
Esistono delle condizioni patologiche, che possono colpire sia il microcircolo (con alterazioni degli
scambi di liquidi, con accumulo di liquidi e edema) che i grandi vasi.
L’iperemia è una condizione, in cui, all’interno del microcircolo, è contenuta una quantità maggiore
di sangue. Questa può essere:
1. Attiva o arteriosa, che si verifica quando, in seguito ad una vasodilatazione a livello
arteriolare, aumenta la quantità di flusso del microcircolo (si aprono più sfinteri capillari,
che permettono l’apertura di più capillari e un’entrata di una maggior quantità di sangue a
livello periferico). Il tessuto, di conseguenza, sarà rosso e caldo.
2. Passiva o venosa (anche congestione o stasi), che si verifica quando l’aumento della
quantità di sangue è dovuta ad un blocco, che provoca un ristagno di sangue. In questo caso,
il tessuto non sarà arrosato e caldo, ma sarà freddo e violaceo.
Quali possono essere le cause di quest’iperemia passiva?
Può essere causato da un embolo (libero nel lume vasale) o da un trombo (sempre attaccato alle
pareti del vaso), ma anche da una causa compressiva, in seguito, per esempio, ad un tumore. A
volte, inoltre, se si ha un deficit propulsivo da parte del cuore, questo provocherà un ristagno a
monte di sangue.
Sappiamo come l’acqua sia il principale costituente dell’organismo (60-65% del peso corporeo). In
una persona adulta, i 40L totali sono così suddivisi:
1. Volume liquido intracellulare, circa 25L
2. Volume liquido extracellulare, circa 15L, suddiviso in:
Volume plasmatico o intravasale, di circa 3L
Volume interstiziale o extravasale, di circa 12L.
3. Volemia, ossia il liquido contenuto nel sangue, si circa 5L (2L dati dalla massa di eritrociti e
3L del plasma).
Gli elettroliti sono particelle cariche positivamente o negativamente (ioni positivi o cationi e ioni
negativi o anioni) presenti nelle soluzioni. Questi sono i principali soluti dei liquidi dell’organismo
e regolano la pressione osmotica.
Questi liquidi tra plasma sanguigno e liquido interstiziale è regolato dall’equilibro di Starling.
Secondo questa ipotesi, il bilancio normale dei liquidi è mantenuto da 2 gruppi opposti di forze:
1. Quelle che causano l’uscita di liquidi dal letto vascolare (pressione idrostatica intravasale e
pressione osmotica del liquido interstiziale)
2. Quelle che causano l’entrata di liquidi (pressione osmotica delle proteine plasmatiche e
pressione idrostatica tissutale)
Se una di queste forze si altera, i liquidi si vanno ad accumulare nell’interstizio, provocando un
edema (solo nel caso di un edema cerebrale, il liquido può accumularsi all’interno delle cellule).
Come avevamo già detto, quando il liquido che fuoriesce ha basso contenuto proteico (quindi,
quando non si hanno alterazioni) viene detto trasudato (con densità minore di 1015). Quando,
invece, si ha un alto contenuto di proteine (densità maggiore di 1015), si parla di edema o essudato.
Per capire se siamo di fronte ad un essudato o ad un trasudato, si esegue la cosiddetta Reazione di
Rivalta: si pone una piccola quantità di liquido raccolto in un contenitore contenente acido acetico
diluito; se si forma una nubecola, abbiamo un essudato (precipitazione in ambiente acido della
componente glicoproteica e mucopolisaccaridica).
Se un edema è “non infiammatorio” e si forma in una cavità preformata, si chiama “idro-…”, come
idrocele, ecc.
Le cause
Ma quali sono le cause fisiopatologiche dell’edema?
1. Aumento della pressione idrostatica a livello venulare (pressione venosa). Questo può dare
vita ad edemi generalizzati o localizzati. E’ dovuto a:
Ritorno venoso alterato, che si può verificare per un deficit di forza propulsiva o per
condizioni che impediscono al cuore di svolgere la sua funzione, ne è un esempio la
pericardite costrittiva. Un altro esempio è la cirrosi epatica, che a causa del danno
agli epatociti e del loro tentativo di riparazione, provoca una compressione dei vasi.
2. Riduzione della pressione oncotica del plasma e ipoprotinemia. Questa è una condizione
sistemica: per questo motivo, ciò provoca necessariamente edemi generalizzati. Può essere
dovuta a:
Glomerulopatie con perdita di proteine
Cirrosi epatica, che provoca una ridotta sintesi di proteine.
Malnutrizione
Gastroenteropatia con perdita di proteine
3. Ritenzione del sodio. Anche questo provoca edemi generalizzati. Può essere dovuta a:
Eccessiva assunzione di sale, con ridotta funzione renale
Aumento della secrezione di renina-angiotensina-aldosterone
4. Ostruzione linfatica, che provoca edemi localizzati. Questa può essere dovuta a cause
neoplastiche, infiammatorie, ma anche in seguito ad irradiazioni.
Per scoprire se un tessuto è edematoso, basta eseguire una leggera pressione sul tessuto. Se resta
una fossetta, allora è edematoso.
Le due forme più gravi di edema sono quello cerebrale e quello polmonare. L’aumento del volume
encefalico, legato all’edema, può determinare, dal momento che l’encefalo è racchiuso in una
scatola rigida, un aumento della pressione endocranica. Ciò comporta convulsioni, vomito cerebrale
(non preceduto da nausea) e cefalea.
Se l’edema è a livello degli alveoli polmonari, questo provoca la chiusura degli alveoli e la morte
dell’individuo.
L’emorragia
Le emorragie possono essere:
1. Esterne, chiamate con nomi diversi, a seconda del luogo anatomico:
Epistassi: fuoruscita di sangue dal naso.
Otorragia: fuoriuscita di sangue dell’orecchio.
Emottisi o emostoe: se viene dall'apparato respiratorio.
Ematemesi: apparato digerente.
Melena: sangue nelle feci, se il sangue proviene dai tratti alti del digerente, è stato
digerito e causa feci di colore nero.
Enterorragia: Parti basse dell'intestino.
Rettorragia: Proviene dal retto.
Ematuria: Nelle urine.
Menorragia: Mestruazione particolarmente abbondante.
Metrorragia: perdita di sangue tra una mestruazione e la successiva.
2. Interne, che possono riguardare o un tessuto (petecchie, se sono piccole come la capocchia
di uno spillo; porpore, se hanno fino ad 1cm di diametro; ecchimosi, se hanno dimensioni
molto grandi). In questo caso, davanti alla parola, mettiamo il prefisso “emo”
(emopericardio). Se la cavità è, invece, neoformata, si parla di ematoma.
Ma quali sono le cause principali delle emorragie?
1. Traumi
2. Stati patologici dei vasi (aterosclerosi)
3. Tumori maligni, che aggrediscono la parete vasale
4. Ipertensione, che può provocare emorragie a livello di piccoli vasi
5. Diatesi emorragiche, ossia un gruppo di affezioni cliniche, che provocano sanguinamento
(per esempio, il deficit di piastrine)
6. Malattie infettive, come la tubercolosi, che provoca la fuoriuscita di sangue dalla bocca
7. Ipovitaminosi, come la carenza di vitamina C (scorbuto) o della vitamina K. La prima
interviene nella sintesi del collagene; se c’è poca vitamina C, c’è poco collagene e la parete
del vaso risulterà fragile.
Processo emostatico
Il processo emostatico è una serie di reazioni biochimiche e cellulari, sequenziali e sinergiche,
finalizzate ed impedire la perdita di sangue dai vasi.
Un aumento eccessivo di emostasi può provocare dei trombi, mentre una diminuzione può portare
ad emorragie.
Ma quali sono le fasi del processo?
1. Fase vascolare, che coinvolge i vasi. La prima reazione del vaso ad un danneggiamento è
una breve vasocostrizione, che serve a ridurre momentaneamente la perdita di sangue.
Questa vasocostrizione è dovuta a vari fattori, come la risposta diretta delle fibrocellule
muscolari allo stiramento e la secrezione di endotelina.
2. Fase piastrinica, che coinvolge le piastrine. Quando il sangue viene a contatto con le
strutture sottoendoteliali, si innesca una risposta delle piastrine, che è possibile suddividere
in 4 fasi:
Adesione delle piastrine sulla superficie danneggiata dell’endotelio ed attivazione.
Per adesione si intende la capacità delle piastrine di legarsi essenzialmente al
collagene: ciò determina l’attivazione piastrinica con innesco delle vie di trasduzione
del segnale. Le piastrine circolanti vengono attirate e si viene a formare un
addensamento di piastrine nel punto di danneggiamento. Se non sono presenti alcuni
particolari recettori, le piastrine non riescono ad aderire al sottoendotelio.
Cambiamento di forma. Questo consiste in una veloce trasformazione della forma
discoidale ad una irregolarmente sferica. Il cambiamento di forma comporta una fase
successiva, chiamata "fase di degranulazione”, con rilascio di tutte quelle molecole
pro attivazione piastrinica.
Secrezione del contenuto dei granuli. All’interno dei granuli piastrinici troviamo i
lisosomi (ricchi di enzimi litici, deputati alla digestione), granuli delta (dove sono
contenute molecole stimolanti l’aggregazione piastrinica, come l’ADP, l’ATP e lo
ione calcio) e granuli alpha (qui troviamo proteine adesive, come il fibrinogeno, la
fibronectina, il fattore di von Willebrand, alcuni modulatori di crescita e, infine,
alcuni fattori della coagulazione)
Aggregazione. Questa si verifica perché il fibrinogeno si pone a ponte fra le varie
piastrine: è, quindi, un collante dell’aggregazione. L’aggregazione piastrinica è un
fenomeno bifasico. In una prima fase abbiamo l’aggregazione primaria, un processo
reversibile (tappo piastrinico primario); nella seconda fase abbiamo, invece,
l’aggregazione secondaria, un processo irreversibile (tappo piastrinico secondario).
Fra le sostanze antagoniste dell’aggregazione troviamo la prostaciclina, la Proteina C
la PGD2, l’adenosina, l’adrenalina e l’ossido nitrico (NO). RICORDATELE
(soprattutto la prostaciclina e la proteina C).
3. Fase coagulativa, dove è coinvolto il sistema della coagulazione. Questa è l’attivazione
della cascata coagulativa, che porta alla formazione di fibrinogeno e alla coagulazione. Di
fattori della coagulazione ne conosciamo 13 (il fattore 1 non è altro che il fibrinogeno, il 2 è
la protrombina, il 4 è lo ione calcio, ecc.). Ma cosa sono questi fattori? Sono proteine di
varia natura (la maggior parte sono serino-proteine), che circolano nel sangue o sono legate
a cellule in forma inattiva. La maggior parte di queste vengono sintetizzate nel fegato.
Importante ricordare, inoltre, che alcuni fattori, al fine di essere attivati, necessitano della
vitamina K.
I fattori della coagulazione agiscono in sequenza nell’ambito di due sistemi:
Sistema intrinseco, in cui i componenti sono tutti presenti nel sangue e il suo evento
principale portano all’attivazione del fattore di Hageman;
Sistema estrinseco, dove abbiamo la partecipazione di componenti di derivazione
esterna al sangue e dal tessuto danneggiato; il suo evento principale è l’attivazione
del fattore VII.
La fine è, poi, comune a tutti e due i sistemi.
4. Fase fibrinolitica, con fibrinolisi. Questa rappresenta il meccanismo fondamentale
attraverso il quale si dissolve il coagulo di fibrina, dopo che il vaso è stato riparato.
Grazie a questi elementi, si viene a formare un tappo piastrinico e la conseguente riparazione del
vaso.
Esistono, oggi, numerosi fattori fisiologici per il controllo della coagulazione. Per esempio, fra le
sostanze che inibiscono la coagulazione troviamo l’antitrombina III, il C1-inattivatore, il cofattore
eparinico III, l’alfa-2-macroglobulina, ecc.
Dunque, per la regolazione e il controllo biochimico della coagulazione, esistono diverse modalità.
Questo può essere regolato attraverso:
1. Flusso sanguigno
2. Inattivazione delle proteasi attive, attraverso l’utilizzo di inibitori fisiologici,
precedentemente detti
Ogni deficit o alterazione di un singolo componente di uno dei sistemi che compongono l’emostasi,
possono portare a patologie, come il trombo o le emorragie. Queste ultime, a seconda di dove si
verificano, possono essere classificate in cardiache, arteriose, venose, capillare, ma anche interne o
esterne. Infine, possono essere suddivise anche secondo la loro durata e la loro porzione anatomica.
L’alterazione dell’emostasi può riguardare una qualunque delle fasi del processo emostatico.
1. Difetti vasali
2. Difetti piastrinici; per esempio, se abbiamo una diminuzione del numero delle piastrine
(piastrinopenie e piastrinopatie)
3. Difetta della coagulazione, magari dovuti o all’alterazione o alla mancanza di alcuni dei
fattori. Per esempio, nell’emofilia A è dovuta alla deficienza del fattore VIII.
Le tipologie di trombi
Esistono diverse tipologie di trombi:
1. Trombo bianco, formato da piastrine e fibrina. Rappresenta la fase iniziale della trombosi
2. Trombo rosso, se nella rete di fibrina che si forma nel trombo banco rimangono imbrigliati
eritrociti e leucociti.
3. Trombo variegato, se sono presenti strie bianche e rosse.
4. Vegetazioni, ossia particolari tipi di trombi che si originano all’interno del cuore, soprattutto
sulle valvole. Questi trombi sono particolarmente friabili: possono facilmente staccarsi dei
pezzi, dando vita ad emboli.
Evoluzione di un trombo
Un trombo può o andare incontro a:
1. Risoluzione
2. Embolizzazione, se alcuni pezzi del trombo si staccano e circolano liberi nel sangue.
Un’embolia può provocare un’ischemia, ossia una condizione caratterizzata da una
perfusione dei tessuti inadeguata al fabbisogno del tessuto. Questa può essere o limitata ad
un organo o tessuto oppure può essere generalizzata, che può provocare uno shock.
L’ischemia localizzata è caratterizzata da riduzione di apporto di ossigeno, riduzione di
disponibilità di metaboliti e aumento di cataboliti (sostanze tossiche) nel tessuto.
Un’ischemia provoca una riduzione della produzione di ATP, che porta ad un danno
all’equilibrio di elettroliti, che provoca un rigonfiamento della cellula arrivando, alla fine,
alla morte cellulare (necrosi). In genere, quando una zona ischemica viene poi ricanalizzata
(quindi nel tessuto torna l’ossigeno), abbiamo un danno da riperfusione: l’ossigeno che
raggiunge il tessuto necrotico viene utilizzato dalla xantino ossidasi al fine di produrre
radicali liberi, che si somma al danno ischemico.
3. Organizzazione del trombo. Nel luogo del trombo vengono prodotte delle sostanze che
favoriscono la neoangiogenesi, con la formazione di nuovi vasi e di una struttura compatta
ed organizzata (processo riparativo)
4. Occlusione del vaso
5. Ricanalizzazione, se si vengono a formare dei piccoli capillari all’interno del trombo stesso,
che si ampliano e permettono al sangue di attraversare il trombo e continuare la propria
circolazione
Infarto
Se in una zona ischemica non viene ripristinato velocemente il flusso ematico, questa va incontro a
morte improvvisa. Questo processo viene chiamato infarto. Il tempo che intercorre fra l’ischemia
(riduzione della quantità di sangue che arriva al tessuto) e la necrosi può variare a seconda dei
tessuti e delle strutture anatomiche interessate (alcuni tessuti sono più sensibili alla riduzione di
sangue, altri meno).
Quando in un tessuto si verifica un infarto, il danno è trattato dal sistema immunitario come ogni
altro danno all’organismo: si attuano una serie di meccanismi per cui il tessuto necrotico viene
prontamente sostituito da tessuto cicatriziale.
Durante un infarto, dalla zona necrotica si liberano delle sostanze che entrano nel circolo sanguigno
e le loro tracce nel plasma sono utili per la diagnosi di infarto. Fra gli enzimi che troviamo, c’è la
mioglobina, la CPK creatinfosfochinasi, isoforma MB, troponina T e I.
Localizzazione dell’infarto:
1. Infarto miocardico: occlusione di un’arteria coronaria
2. Infarto polmonare: ostruzione di una o più arterie dei polmoni
3. Stroke: infarto che colpisce il cervello (causato o da ischemia o emorragia)
Poi, possiamo avere infarti agli arti inferiori, all’intestino o ai reni.
Embolia
L’embolo è una sostanza presente nel torrente circolatorio, di composizione chimica diversa da
quella del sangue e non mescolabile ad esso.
Gli emboli possono essere costituiti da materiale estraneo penetrato nei vasi o da materiale
normalmente presente nel sangue, che però si trova in un diverso stato fisico.
Esistono emboli:
1. Solidi, che possono essere:
Frammenti di trombi staccatisi dalla massa trombotica principale
Parti di tessuto necrotico da lesioni delle pareti vasali
Cellule viventi, solitamente neoplastiche
Parassiti del sangue, batteri o funghi
Corpi estranei, come schegge, aghi o spine
2. Liquidi, in genere costituiti da materiale lipidico non miscibile col sangue. Spesso si tratta di
goccioline di grasso fuoriuscite dalle cellule adipose penetrate in circolo per effetto di
traumi (per esempio, dopo una frattura di un osso lungo, il materiale interno, che è lipidico,
può riversarsi nel torrente circolatorio).
3. Gassosi, che possono formarsi per la presenza di gas, di norma azoto, per una brusca
decompressione o per la penetrazione di aria nel sangue (quello che accade ai sub quando
risalgono troppo velocemente).
Lo shock
Lo shock è un’insufficienza acuta del circolo periferico, causata da uno squilibrio fra la massa
fluida circolante e la capacità del letto vascolare, con conseguente caduta pressoria. Uno shock può
provocare:
1. Diminuzione del ritorno venoso
2. Diminuzione della gittata cardiaca
3. Diminuzione del volume di sangue immesso, al minuto, nel circolo
4. Compromissione del metabolismo cellulare
Quali possono essere le cause dello shock? Possiamo classificarle in più modi:
1. Cause fisiche, come interventi chirurgiche, traumi o ferite penetranti, ustioni, colpo di
calore, gravi emorragie, ecc. (tutte situazioni in cui cambia notevolmente la massa liquida di
sangue circolante)
2. Cause immunoallergiche: shock anafilattico (i mastociti rilasciano istamina a livello
sistemico, che provoca una vasodilatazione, una diminuzione della pressione e conseguente
shock)
3. Cause chimiche, in caso di trattamenti con sostanze vasoattive (dilatano i vasi), come
acetilcolina, istamina, adrenalina, ecc.
4. Causa biologiche, come le infezioni batteriche (abbiamo uno shock endotossico o settico,
quando i batteri entrano nel circolo sanguigno e quindi vengono prodotte citochine pro
infiammatorie, che determinano una dilatazione dei vasi).
Il diabete
Il diabete è un disordine cronico del metabolismo, caratterizzato da elevati livelli di glucosio
plasmatici a digiuno (iperglicemia), da diuresi abnorme (poliuria), con presenza di glucosio anche
nelle urine (glicosuria). Il diabete è conseguente alla carenza o al mancato utilizzo dell’insulina.
L’omeostasi glicemica dipende da:
1. Adeguata introduzione di glucosio con la dieta
2. Utilizzazione periferica di questo glucosio assunto con la dieta
3. Formazione epatica di glucosio (glicogeno)
4. Controllo del glucosio dai fattori ormonali
Una glicemia fisiologica va da 75 a 110 mg/dL.
Esistono diversi ormoni che regolano la glicemia; fra gli ormoni ipoglicemizzanti troviamo
l’insulina e le somatostatine (IGF-1), mentre fra quelli iperglicemizzanti abbiamo il glucagone, i
glucocorticoidi, le catecolamine, gli ormoni tiroidei, il GH e l’ACTH.
Un aumento della glicemia promuove il rilascio di insulina da parte del pancreas: questa stimola la
sintesi di glicogeno e facilita la captazione di glucosio dal sangue. Se la glicemia diminuisce in
maniera consistenza, allora viene secreto il glucagone, che ha gli effetti opposti all’insulina: stimola
la scissione del glicogeno, aumentando la glicemia.
Il diabete mellito è una malattia cronica che interessa il metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e
delle proteine. E’ caratterizzato da un’insufficiente secrezione di insulina, che comporta una ridotta
utilizzazione dei carboidrati, con conseguente iperglicemia.
Il diabete mellito può essere:
1. Primitivo o idiopatico, che può essere:
Di tipo I (insulino-dipendente): l’insulina non viene quasi più prodotta (alterazione
delle cellule β del pancreas)
Di tipo II (non insulino-dipendente): l’insulina viene prodotta, ma le cellule non
sono in grado di rispondere a questo ormone (le cellule sono resistenti all’insulina).
2. Secondario, derivante per esempio da pancreatiti, tumori, da farmaci o interventi chirurgici
che hanno provocato danni al pancreas.
Tipo I Tipo II
Rischio 0,5% (10 – 20% dei casi) 5 – 6% (80 – 90% dei casi)
Insulina Insulino dipendente Non insulino dipendente
Clinica Insorgenza < 20 anni Insorgenza > 30 anni
Peso normale Obesità
Insulinemia Insulinemia
Anticorpi anti – isole + Anticorpi anti – isole -
Chetoacidosi +++ Chetoacidosi +
Patogenesi Autoimmunità Resistenza all’insulina
Genetica Concordanza gemelli + Concordanza gemelli +++
Correlazione HLA – D Non correlato HLA
Morfologia Cellule ᵦ Cellule ᵦ
Insulite Insulite
La patogenesi
A cosa serve l’insulina? E’un ormone molto importante, che ha il compito di legarsi ai recettori
delle cellule, attivando una cascata di trasduzione del segnale, in particolare una tirosin chinasi, che
stimola l’espressione sulla superficie delle cellule, di recettori per il glucosio. In questo modo il
glucosio si legherà ai recettori, sarà internalizzato e utilizzato per metabolismo o altri processi.
Alcuni tessuti sono insulino dipendenti, altri, insulino indipendenti. Il miocardio, il fegato, hanno
bisogno di insulina per poter captare il glucosio. Altri tessuti, come ad esempio, il cervello, sono
insulino indipendenti; in questo modo possono funzionare anche in assenza insulina.
La quantità di glucosio presente nel sangue è quella che da l’input alla secrezione dell’insulina.
Riassumendo: nel tipo 2 abbiamo la predisposizione genetica forte (non si conoscono ancora i geni,
ma probabilmente sono difetti genici multipli). Sono molto importanti i fattori ambientali, come
l’obesità, determinano la resistenza all’insulina da parte dei tessuti. Tutto ciò porta all’iperglicemia,
e al conseguente esaurimento delle cellule beta (evento tardivo, causato dalla continua richiesta di
insulina). Ben l’80% dei diabetici di Tipo 2 sono obesi, ciò fa capire l’importanza di questo fattore.
Tra le conseguenze si ha anche il rilascio di amilina, una proteina prodotta dalle cellule beta,
assemblata e secreta insieme con l’insulina. Nei pazienti con diabete di Tipo 2 l’amilina tende ad
accumularsi all’esterno delle cellule beta, a ridosso delle membrane, provocando amiloidosi,
soffocando le cellule e uccidendole.
I sintomi finali del diabete sono poliuria (urine aumentate), polidipsia (sete aumentata) e polifagia
(fame eccessiva).