Sei sulla pagina 1di 175

Gruppo n°1

Lezione del 05/10 con il prof.Musto

EMOPOIESI
L’emopoiesi è il processo fisiologico che porta alla formazione delle componenti
corpuscolate del sangue, si svolge all’interno del midollo osseo e l’unità funzionale
emopoietica, quella che rappresenta la parte ancestrale delle componenti del sangue, in
particolare globuli rossi, globuli bianchi e piastrine risiede nella nicchia emopoietica.
La nicchia emopoietica è un’unità funzionale appunto costituita da cellule staminali
emopoietiche, che determinano la produzione delle componenti corpuscolate del sangue,
ma anche da macrofagi, adipociti, osteociti e osteoblasti che comunicano tra loro grazie a
mediatori che vengono
trasmessi da cellula a
cellula, affinché possa
svilupparsi la produzione
emopoietica. Un ruolo
particolare viene svolto da
cellule che fino a poco
tempo fa, venivano
considerate cellule “di
supporto”, una sorta di
riserva energetica
adoperabile in condizione
di necessità, ossia gli
adipociti, che in realtà
interagiscono sia con le
staminali emopoietiche, sia
con altre cellule, appartenenti al cosiddetto microambiente midollare.
All’interno del microambiente midollare, che è costituito da cellule endoteliali, progenitori,
linfociti e macrofagi, inizia il processo di proliferazione e differenziazione che formerà le
cellule del sangue.
Aprendo un osso, si troverà la parte esterna, od osso compatto, la parte prevalente, il
cosiddetto midollo giallo, costituito prevalentemente da adipociti e nell’osso spugnoso, il
midollo rosso, dove si sviluppa l’emopoiesi, costituito dai precursori e da cellule più
mature. Ci sono alcune ossa nelle quali il midollo rosso è prevalente, come lo sterno, le
coste e l’osso dell’anca e altre in cui è rappresentato maggiormente il midollo giallo, che
rappresenta comunque lo stroma del vero e proprio organo emopoietico. A monte
dell’emopoiesi, c’è la cellula staminale emopoietica, cellula ancestrale, primitiva che ha le
potenzialità per potersi differenziare, proliferare e portare alla produzione delle
componenti corpuscolate del sangue; ci sono diversi modelli ma fondamentalmente le
proprietà della staminale emopoietica sono due: la riproduzione, quindi la capacità di dar
luogo a due staminali uguali tra loro ( le staminali non sono moltissime quindi hanno
bisogno di questo processo di proliferazione per poter mantenere un pool di cellule che sia
in grado di favorire l’emopoiesi soprattutto in condizioni di stress) e la differenziazione,
che avviene sotto stimolo di citochine, fattori di crescita, sostanze stimolanti, o frammenti
cellulari come le microvescicole contenti DNA e RNA, prodotte da cellule del
microambiente. La differenziazione avviene attraverso una serie di passaggi complessi
(mostrati qui di seguito) e dà origine a tutte le cellule presenti sia nel sangue periferico che
nel midollo quindi eritrociti, i vari tipi di globuli bianchi e le piastrine.

Questo avviene mediante il “self renewing”, la riproduzione della cellula staminale in sé


stessa ma anche attraverso una evoluzione verso cellule che hanno la possibilità di dare
origine alla linea mieloide, per esempio, o potranno essere progenitrici della linea linfoide;
tutto questo avviene mediante fattori come il GCSF (il fattore di stimolazione della colonia
granulocitaria), l’IL-3, l’IL-6 e più avanti nel corso della differenziazione, attraverso lo
stimolo di citochine più specifiche per ogni linea di differenziazione, ad esempio
l’eritropoietina per quanto riguarda la linea rossa, o la trombopoietina per quanto riguarda
la produzione delle piastrine. Nel midollo rosso, si possono analizzare le cellule attraverso
una tecnica nota come ‘citofluorimetria’: le cellule staminali emopoietiche saranno
presenti in una percentuale inferiore all’1%, quello che noi vediamo è tutta la fase di
differenziazione che dalla staminale è arrivata al precursore eritroide, nel caso della serie
rossa, e attraverso modificazioni morfologiche e funzionali, interne della cellula
osserviamo in ordine il protoeritroblasto, caratterizzato da citoplasma basofilo e dalla
presenza di nucleoli, l’eritroblasto basofilo, caratterizzato da granuli di colore blu/porpora
scuri, l’eritroblasto policromatofilo, l’eritroblasto ortocromatico, il reticolocita (che
presenta frammenti di DNA) e infine l’eritrocito (la cui differenza sostanziale rispetto ai
precursori e quella di non avere il nucleo).

Il cambio di colore tra il protoeritroblasto e l’eritrocita è dovuto al fatto che nel primo il
citoplasma è basofilo, c’è tanta produzione proteica, tanti ribosomi, ma progressivamente
la basofilia si attenua e la cellula diventa rossa. Questo avviene poiché termina la sintesi
proteica ma c’è accumulo di emoglobina, molecola fondamentale per lo scambio di
ossigeno a livello tissutale.
Per i monociti, la cellula staminale si differenzia fino a diventare un monoblasto, un
promonocita e un monocita, caratteristico nel sangue periferico per il citoplasma
anisomorfo e per il nucleo reniforme, e a livello dei tessuti i monociti si trasformano in
macrofagi, cellula di prima linea nella difesa dell’organismo nei confronti agenti esogeni,
ma sono anche cellule che costituiscono l’elemento di accumulo di sostanze come il ferro,
laddove vi sia un sovraccarico.
Per quanto riguarda la differenziazione della linea mieloide, dal mieloblasto, ossia dalla
cellula indifferenziata, con cromatina molto fine rispetto a quella addensata delle forme
avanzate, con citoplasma non particolarmente abbondante e con i nucleoli, espressione di
immaturità, abbiamo il promielocita, caratterizzato da moltissimi granuli nel citoplasma, e
in successione, il mielocita, il metamielocito, la Band Cell e il neutrofilo. Per questa
differenziazione, sono necessarie circa 6 ore.

Quella delle piastrine è un po’ particolare come elemento di maturazione e come modalità
di produzione perché del megacarioblasto, cellula indifferenziata, non vediamo granchè,
invece nel midollo vedremo soprattutto i promegacariociti, cellule giganti in cui si divide il
nucleo ma non il citoplasma per poi poter arrivare alla frammentazione del citoplasma che
darà origine alle piastrine, piccoli elementi che entrano in circolo.
L’ultima è la differenziazione linfoide: c’è un progenitore linfoide precoce, poi uno comune
che può dar luogo, sempre sulla scorta di fattori che stimolano la differenziazione in una
direzione piuttosto che in un’altra, a cellule della linea B, che come elemento terminale
presenta la plasmacellula, che produce anticorpi oppure a cellule della linea T,
componente linfoide importante che soprattutto a livello del timo riceve quegli stimoli
particolari attraverso i quali si differenzia in maniera finale con la produzione di linfociti T
nel sangue periferico.
Infine esiste una terza linea, quella dei linfociti NK (Natural Killer), che sempre derivante
dal progenitore comune, rappresentano una componente fondamentale nel contesto della
difesa immunitaria dell’individuo nelle infezioni, ma anche nei confronti dello sviluppo
delle neoplasie.

Quindi sono i precursori intermedi che costituiscono la maggior parte del midollo osseo e
non le staminali progenitrici, né le cellule terminali. Le condizioni che rendono necessario
un aspirato midollare o una biopsia ossea midollare sono:
- In caso di un’anemia, una leucopenia o una piastrinopenia, senza una causa
evidente;
- Viceversa, in caso di aumento delle cellule del sangue periferico, prettamente
globuli bianchi ma anche globuli rossi e piastrine;
- In caso di alterazioni morfologiche presenti nelle cellule suddette;
- In presenza di una paraproteinemia, cioè di una componente monoclonale presente
nel sangue, lo vediamo soprattutto nelle gammopatie monoclonali e nel mieloma;
- Per valutare il midollo nella fase di stadiazione, diagnosi e follow-up di neoplasie
ematologiche per esempio la biopsia midollare fa parte del processo di stadiazione
dei linfomi non-Hogdkin;
- Se si deve fare un trapianto di cellule staminali, si fa una valutazione pre e post
trapianto, perché si deve vedere se il midollo è in grado di donare o di ricevere;
- A volte può essere necessario per avere campioni biologici per approfondimenti
diagnostici e prognostici, per i quali sono indispensabili le tecniche di biologia
molecolare;
- A volte i tumori solidi possono dare metastasi midollare, in un processo chiamato
mieloftisi, che possono essere valutate morfologicamente;
- Un esame radiologico può mettere in evidenza delle alterazioni ossee focali, in cui
non c’è una causa evidente e perciò si approfondisce con la biopsia midollare;
- Anche in caso di epatosplenomegalia non spiegata oppure quando la biopsia
dell’organo interessato non può essere fatta e allora si cerca di vedere se il midollo
è coinvolto in qualche maniera e quindi è più facile fare questa biopsia;
- A volte è necessaria per poter fare delle mielocolture, in presenza di febbri
inspiegabili e per esempio si può fare diagnosi di Leishmaniosi, valutando la
presenza del parassita Leishmania nei macrofagi presenti nel midollo osseo;
- Ci possono essere casi di carenza o sovraccarico marziale (del ferro), documentato
con colorazioni specifiche del tessuto prelevato;
- In rari casi, patologie da accumulo di lipidi o di glicogeno, nelle quali l’esame del
midollo osseo rappresenta un elemento fondamentale per giungere ad una diagnosi
definitiva.

Agoaspirato midollare e biopsia osteomidollare: procedure e differenze


L’aspirato midollare è quello in cui si inserisce l’ago nell’osso, in genere nella cresta iliaca
posteriore, si collega un siringa e dopodiché si fa l’aspirazione del midollo; talvolta quando
il paziente è obeso e non si riesce a raggiungere con l’ago la cresta iliaca, si può pensare ad
una biopsia osteomidollare, procedura diversa, che consiste nell’asportazione di una vera e
propria “carota” che viene tirata via dalla cresta iliaca, oppure si può comunque fare
l’aspirato midollare dallo sterno. Nel paziente pediatrico, invece viene usata la tibia nel
caso di patologie ematologiche importanti, come la leucemia linfoblastica acuta. Vengono
aspirati i cosiddetti ‘frustoli’, vengono strisciati sul vetrino e vengono colorati con il
metodo May Grunwald-Giemsa. Ovviamente maggiore è il numero dei frustoli, migliori
saranno le informazioni che otterremo.
La biopsia osteomidollare è una metodologia un po’ più cruenta, effettuata comunque in
anestesia locale, con la quale si prende, a livello sempre della cresta iliaca posteriore, un
frammento di osso, una “carota” che rimane all’interno dell’ago, in genere di un paio di cm
o poco più, che necessita di essere fissata per poter essere poi decalcificata e analizzata dal
patologo, che valuta le caratteristiche morfologiche di questo esame diagnostico.
Ovviamente in entrambe gli esami, è di grande importanza l’utilizzo del microscopio.
Algoritmo diagnostico da seguire per una corretta analisi di aspirato di midollo osseo

Questa seguente immagine rappresenta ciò che potremmo vedere nel midollo osseo
normale in seguito ad agoaspirato e colorazione con May Grunwald-Giemsa(immagini B-F):

Nel caso di agoaspirato midollare di un paziente affetto da leucemia acuta mieloide, si


potranno osservare all’esame citologico dello striscio tutta una serie di cellule uguali,
indifferenziate, con nuclei con cromatina fine, non addensata e presenza di nucleoli,
rappresentati da ‘buchi chiari’ che si vedono all’interno delle cellule.
Per una biopsia osteomidollare, il patologo potrà osservare nelle sezioni a piccolo
ingrandimento le trabecole ossee ad esempio ed anche le cellule del midollo osseo nelle
nicchie; a maggior ingrandimento si potranno meglio distinguere cellule come i
megacariociti, i precursori neutrofili e gli eritroblasti.
Altri esempi di possibili strisci di agoaspirato midollare sono i seguenti:

Come si può apprezzare, all’interno del midollo osseo possono essere presenti anche
cellule che non sono strettamente inerenti al processo dell’emopoiesi: ad esempio, gli
osteoblasti, simili alle plasmacellule, ma che in realtà producono la materia prima per la
produzione ossea o gli osteoclasti, per qualche aspetto simili ai megacariociti, ma differenti
morfologicamente e sono responsabili del riassorbimento osseo. Come già menzionato,
l’esame del midollo osseo può dare diagnosi non sospettate in precedenza, per esempio,
nell’immagine F, si possono trovare dei macrofagi che all’interno contengono delle
Leishmanie. La Leishmaniosi è una malattia trasmessa dai cani, che può essere trasmessa
anche all’uomo, e se non curata può essere anche letale e la diagnosi di Leishmaniosi,
aldilà della possibilità di fare il test anticorpale, viene fatta molto spesso dall’ematologo,
che in un paziente con febbre e splenomegalia deve sempre sospettare una Leishmaniosi,
con un esame midollare che rivela la presenza di queste cellule.
Se facciamo un mielogramma, ossia una valutazione quantitativa e qualitativa del midollo,
vedremo più della metà sono appartenenti ai precursori della serie granulocitaria,
(promielociti, mielociti, metamielociti) circa un 10-15% sono linfociti, 1-2% sono
plasmacellule e il 25% sono appartenenti alla filiera eritroide, cioè quelli che si
differenzieranno infine in eritrociti. Si parla di un rapporto mielo-eritroide, che in
condizioni normali è 2/3:1; in situazioni reattive o patologiche ovviamente una delle due
componenti può aumentare. I megacariociti sono molto pochi, così come i monociti-
macrofagi, presenti in quantità intorno all’1-2%.

IL SANGUE PERIFERICO
Il sangue periferico viene analizzato attraverso un prelievo e la sua composizione è fatta da
due parti: una corpuscolata e una liquida. Se noi centrifughiamo un prelievo di sangue
senza aggiungere anticoagulante, avremo una parte superiore, che è costituita dal siero e
una parte inferiore, che è il cosiddetto coagulo. Tutte le cellule del sangue vengono
rapprese in un unico coagulo a causa della presenza dei fattori della coagulazione, in
particolare del fibrinogeno. In realtà se aggiungiamo un anticoagulante, avremo la
presenza del plasma, di una parte di globuli bianchi e una parte di globuli rossi; queste
parti possono essere presenti in maniera differente in condizioni particolari: per esempio,
in caso di anemia, la componente degli eritrociti si riduce nettamente e prevale quella
liquida; nella policitemia, processo legato alla produzione in eccesso dei globuli rossi, la
componente eritroide aumenta. Può aumentare al buffy coat, in genere un piccolo anello,
la componente dei globuli bianchi come nel caso della leucemia mieloide cronica, dove
possono essere presenti nel sangue periferico anche 300.000 globuli bianchi/mm3 .
Le percentuali normali sono: 55% plasma, 1% circa ‘buffy coat’ e il 45% circa i globuli rossi,
quest’ultima rappresenta il normale ematocrito. Di seguito sono riportati i valori normali:
Il parametro dei reticolociti è molto importante: spesso in caso di anemia emolitica, ve n’è
una produzione aumentata da parte del midollo sano; in caso contrario, se sono pochi in
un’anemia, vuol dire che il midollo non è in grado di compensare il difetto.
I valori di riferimento per i bambini, specie quelli più piccoli possono essere molto diversi:
numero di globuli rossi più basso, emoglobina più bassa, il numero di globuli bianchi può
aumentare, nella fattispecie questo aumento è sostenuto dai linfociti piuttosto che dai
neutrofili, e questo è un elemento di normalità. Durante l’adolescenza invece i valori
diventano più affini a quelli degli adulti.

Il sangue periferico viene studiato prendendo una goccia di sangue da una puntura di un
dito o prendendo un campione di sangue da un prelievo da emocromo, lo si striscia su un
vetrino, e lo si colora con il May Grunwald-Giemsa. Ovviamente in condizioni fisiologiche,
non vediamo più i precursori, bensì gli elementi maturi come i neutrofili, con nucleo
segmentato, gli eosinofili, con nucleo bilobato, a volte a ‘bisaccia’, con una colorazione
rosacea tipica, linfociti, piccole cellule con nucleo piuttosto ampio, cromatina addensata e
scarsa rima citoplasmatica. A volte possono essere più grandi e presentare questa
particolare basofilia del citoplasma, soprattutto quando si tratta di linfociti ‘attivati’, che
assumono queste caratteristiche perché stimolati a rispondere ad una noxa patogena,
come in corso di un’infezione virale, come una mononucleosi infettiva. In questi casi si
possono osservare dei linfociti che si sono differenziati in plasmacellule. E poi ci sono i
basofili, piccole cellule presenti in meno dell’1%, che hanno queste ‘grossolane’
granulazioni azzurrofile. L’elemento caratteristico dei monociti è il nucleo ‘reniforme’ con
citoplasma piuttosto basofilo. I neutrofili invece hanno un nucleo molto grande, addirittura
superiore alle dimensioni di un globulo rosso.
Il blasto è una cellula leucemica, indifferenziata con cromatina fine, reticolare, citoplasma
piuttosto scarso ma soprattutto il nucleolo, elemento distintivo del profilo morfologico di
una cellula blastica di tipo leucemico.
Nella seguente immagine
osserviamo altre
potenziali situazioni: una
piastrinosi, molte più
piastrine di quelle che si
osserverebbero
normalmente; piastrine
di grandi dimensioni, che
normalmente non si
osservano; degli
aggregati piastrinici, che
possono essere la causa
di una piastrinopenia
determinata dal tipo di
colorazione utilizzata;
ancora dei rouleaux
eritrocitari, che si
osservano molto spesso
in caso di paraproteinemia, come nel mieloma; dei reticolociti, che possono rivelare,
mediante una colorazione particolare, degli inclusi citoplasmatici che sono residui di DNA e
RNA; e poi gli eritroblasti, precursori nucleati degli eritrociti, normalmente non presenti nel
sangue periferico, ma che possono essere osservati in caso di mielofibrosi, condizione di
un neonato prematuro. L’ultimo è un quadro morfologico diagnostico: ci sono delle emazie
con un puntino bianco centrale, il che significa che l’eritrocita contiene un Plasmodium
Falciparum e si può fare diagnosi di Malaria.

ALTERAZIONI QUANTITATIVE DEI GLOBULI BIANCHI

Fin qua abbiamo parlato della fisiologia e di qualche aspetto patologico. Vediamo ora quali
sono le alterazioni più comuni della formula leucocitaria. Qua vediamo una tabella che
riguarda tutte le possibili cause di alterazioni quantitative dei leucociti del sangue
periferico. Un’alterazione dei globuli bianchi non vuol dire per forza che si è in presenza di
patologie neoplastiche o ematologiche ma ci sono numerosissime condizioni che possono
alterare il numero di queste cellule. Un aumento dei neutrofili si chiama neutrofilia, un
aumento dei linfociti linfocitosi, un aumento dei monociti monocitosi, un aumento degli
eosinofili eosinofilia e un aumento dei basofili basofilia. Le riduzioni rispettivamente
neutropenia, linfopenia, monocitopenia, eosinopenia e basopenia. Ciò che ci interessa
sono le cause. Quali sono? La neutrofilia è data da infezioni acute batteriche (i neutrofili
sono i primi a intervenire) o virali, intossicazioni, farmaci (in particolare steroidi come il
cortisone) , neoplasie mieloidi (soprattuto leucemia mieloide cronica).
L’eosinofilia è data da allergie principalmente, ma anche farmaci, parassiti (soprattutto
quelli intestinali, ematodi, cestodi), scabbia, malattie autoimmuni, malattie croniche
dell’intestino, polmonite eosinofila, reazioni iatrogene a trattamenti particolari.

Nota bene: anche lo stress può portare ad un aumento dei globuli bianchi.
I linfociti in genere aumentano per infezioni virali (in questo caso i linfociti sono una delle
prime difese) o per infezioni atipiche (toxoplasma, brucellosi), malattie esantematiche,
mononucleosi, virus erpetici, malattie immunitarie, alcune infezioni batteriche, in corso di
vaccinazioni, neoplasie linfoidi, splenectomia.

La basofilia si ha durante malattie croniche infiammatorie dell’intestino, ipotiroidismo,


alcune neoplasie, sindrome nefrosica.
Tali situazioni si presentano quando abbiamo rispettivamente un numero superiore a
10000 neutrofili, superiore a 5000 linfociti, superiore a 1000 monociti, superiore a 600
eosinofili e superiore a 200 basofili.
Quali sono invece le cause di neutropenia?
Infezioni, stati infiammatori, farmaci (come chemioterapici, antiepilettici, FANS), malattie
autoimmuni, radiazioni, ipoplasia midollare, alcune anemie (come la megaloblastica),
sindromi mielodisplastiche, neoplasie, cirrosi epatica (o comunque le epatopatie croniche
in genere). Bisogna ricordare come esistano alcune neutropenie primitive legate ad

alterazioni genetiche riscontrate in età pediatrica. Tra queste ricordiamo la neutropenia


congenita grave, la neutropenia ciclica, la malattia di Shwachman-Diamond, la malattia di
Barth e altre.
La linfopenia invece è associata ad epatite A, ad alcuni farmaci, ad alcuni linfomi e altre
neoplasie.
Le altre situazioni sono meno importanti (magari da ricordare la riduzione di basofilia
durante la gravidanza e riduzioni degli eosinofili per stress).

ALTERAZIONI QUANTITATIVE DELLE PIASTRINE


Anche le piastrine possono andare in contro ad aumenti o diminuzioni più o meno
importanti. In caso di diminuzioni parliamo di piastrinopenia considerata moderata se
abbiamo meno di 150 mila piastrine, mild sotto le 100mila, severa sotto le 50mila. In realtà
la vera piastrinopenia grave è quella che si sviluppa quando le piastrine sono sotto le
20mila. Quindi diciamo che fino a 50mila piastrine è una piastrinopenia moderata; sotto le
50mila e soprattutto sotto le 20mila è una piastrinopenia severa. Infatti 50mila piastrine
assicurano comunque una soglia di protezione verso fenomeni emorragici abbastanza
sicura.
Tra le 100 e le 50mila piastrine è possibile anche sottoporsi ad interventi chirurgici
importanti. In caso di piastrinopenia dobbiamo escludere 2 situazioni: la
pseudotrombocitopenia da EDTA o eparina e il satellitismo piastrinico. Sono due condizioni
in cui la piastrinopenia in realtà non c’è ma è legata da un lato all’aggregazione delle
piastrine tra di loro o con altre sostanze oppure legata al fatto che l’EDTA o l’eparina
determinano una particolare conformazione delle piastrine nel contatore il quale ne conta
meno di quelle che realmente sono presenti. Come si fa a capire che è una
pseudopiastrinopenia e non una piastrinopenia reale? Lo si può fare su uno striscio di
sangue dove un occhio esperto saprà riconoscere la presenza di aggregati piastrinici e lo si
fa effettuando un emocromo detto a caldo cioè effettuando il conteggio immediatamente
dopo il prelievo. Infatti si è visto, in particolare in alcuni soggetti, che quando il prelievo
persista nel laboratorio per alcune ore prima dell’analisi è favorita la comparsa di
pseudopiastrinopenia. Nell’80% dei casi si parla di porpora trombocitopenica idiopatica.
Porpora è l’altra definizione che viene usata per piastrinopenia in modo un po’ improprio
perché la porpora è il quadro clinico che molto spesso si associa a piastrinopenia. Quindi
nell’80% dei casi la forma è idiopatica cioè non si è in grado di definire una causa specifica
ed è legata sotto il profilo patogenetico alla produzione di anticorpi anti piastrine; poi la
piastrina legata all’anticorpo nel circolo splenico viene eliminata. Questo vuol dire che tale
forma idiopatica (che può essere scatenata da situazioni allergiche, farmaci ecc.) ha una
patogenesi autoimmune e quindi la terapia per queste forme è una terapia
immunosuppressiva (in prima linea abbiamo gli steroidi). Esistono molte altre condizioni
correlate alla trombocitopenia e tra le più importanti abbiamo la CID (coagulazione
Intravascolare disseminata), la porpora trombotica trombocitopenica, piastrinopenia da
eparina, situazioni che determinano infiltrazioni del midollo (con riduzione delle
componenti midollari e in particolare quella piastrinica), emodiluizione durante la
gravidanza, sindrome da anticorpi antifosfolipidi (associazione di rischio emorragico e
rischio trombotico), sindrome di Fisher Evans (piastrinopenia autoimmune associata ad
anemia emolitica; anticorpi contro piastrine e globuli rossi).
La piastrinopenia idiopatica di nuova diagnosi è quella che viene considerata allorché la
diagnosi è stata fatta nei 3 mesi precedenti. Esistono le forme persistenti dopo terapia fra
3 e 12 mesi che non vanno in remissione spontanea o in cui la risposta al termine della
terapia non si mantiene nel tempo; poi c’è l’IPP cronica che ha una durata superiore ai 12
mesi e che rappresenta una situazione di difficile gestione soprattutto quando il livello
delle piastrine non si riesce a mantenere sopra le 20mila perché l’obiettivo della terapia
delle piastrinopenie è quella di portare le piastrine ad una soglia adeguata per poter
evitare complicanze emorragiche (sopra le 50mila). Più avanti tratteremo meglio la terapia
e parleremo di steroidi, poi nuovi farmaci TPO mimetici e una delle terapie ancora oggi
utilizzate laddove la terapia medica non funzioni è la sclerectomia che funziona nei 2/3 dei
casi e che pur avendo degli effetti collaterali spesso importanti è in grado di risolvere il
problema in una percentuale di pazienti rilevante. Che cosa accade quindi quando
abbiamo una piastrinopenia severa? Avremo una sindrome emorragica con porpora e
petecchie a livello cutaneo, ecchimosi ed ematomi spontanei ed emorragie congiuntivale
(questi sono gli aspetti più caratteristici). La porpora è il quadro clinico maggiormente
significativo.
Il quadro opposto alla piastrinopenia è la trombocitosi (o piastrinosi) caratterizzato da un
aumento delle piastrine sopra le 600mila persistente nel tempo. Si possono anche
osservare nel sangue periferico piastrine giganti (normalmente non presenti). Ci sono delle
forme reattive di piatrinosi e la più importante è l’anemia da carenza di ferro. Un paziente
(spesso giovani donne) con carenza di ferro può avere una trombocitosi, ma correggendo
la carenza di ferro si corregge sa da sé anche la piastrinosi. Ci sono altre situazioni che
possono portare a trombocitosi reattive (cioè secondaria) come le infezioni, il recupero del
midollo durante chemioterapia o dopo trattamento per la malattia trombocitopenica,
infiammazioni croniche, neoplasie, soggetti splenectomizzati (spesso a seguito di incidenti
stradali) in quanto la milza non esercita più la sua azione emocateretica. Esistono poi
forme di trombocitosi primitive tra cui abbiamo la trombocitemia essenziale (è un tumore
del sangue), neoplasie mieloproliferative (leucemia mieloide cronica, policitemia vera
ecc.), alcuni tipi di sindromi mielodisplastiche (anche se in genere si associano a
piastrinopenia).
La trombocitemia essenziale insieme alla leucemia mieloide cronica, alla policitemia vera e
alla mielofibrosi rappresenta una delle 4 forme definite dalla WHO come neoplasie
mieloproliferative croniche. La diagnosi è spesso occasionale perché magari si fa un
emocromo per altri motivi e si trova un numero di piastrine sopra le 600mila con valori
normali di emoglobina, ematocrito e leucociti che esclude verosimilmente altre patologie.
Raramente ci può essere epatosplenomegalia. Un terzo dei pazienti lamenta cefalee,
vertigini, ronzii, parestesie, disturbi della vista e fenomeno di reynaud perché
l’aggregazione delle piastrine in eccesso a livello del microcircolo determina un deficit di
irrorazione dei tessuti distali causando una condizione di disturbo focale legato appunto
alla piastrinosi. L’eritromelalgia (è un bruciore alle mani e ai piedi con arrossamento e
calore) può essere rilevante in tali pazienti. I sintomi sistemici sono rari ma bisogna stare
attenti perché oltre i sintomi a livello periferico (contenuti con aspirina) si può avere una
maggiore predisposizione alla trombosi soprattutto nei pazienti di età superiore ai 60 anni.
Possono innescarsi una serie di meccanismi complessi che fanno si che, anche se questi
pazienti presentino un numero elevato di piastrine, possano comunque avere tendenze
emorragiche piuttosto che trombotiche. Pazienti che hanno un rischio più elevato di
trombosi sono quelli con diabete ed ipertensione, pazienti che hanno un aumento anche di
leucociti, la presenza della mutazione del gene JAK2 (mutazione V217F) che è presente
circa nel 50% dei casi di trombocitemia essenziale e nel 95% dei casi di policitemia vera. In
questi casi quindi bisogna trattare la piastrinosi. Nei pazienti in cui non ci siano segni di
progressione della malattia il trattamento molto spesso è costituito solo dall’utilizzo di
aspirina per la sua proprietà antiaggregante che limita il danno di aggregazione delle
piastrine in eccesso. È chiaro che ci sono però condizioni in cui la piastrinosi deve essere
trattata con citostatitici perché i livelli sono troppo alti.

METODICHE DI LABORATORIO NELL’EMATOLOGIA


L’ematologia è stata un’antisignana nell’ambito della diagnostica e della medicina
traslazionale portando i risultati di ricerca direttamente dal banco di laboratorio al letto del
paziente. Ci sono esempi clamorosi come nel caso della leucemia mieloide cronica in cui
prima è stata identificata l’alterazione citogenetica negli anni sessanta da J. Rowely ovvero
la traslocazione 9-22 e poi è stato identificato anche il difetto molecolare che è la
costituzione di un gene di fusione (bcr/abl) che è il target della terapia che si basa
sull’utilizzo di inibitori di tirosin chinasi. Ci sono anche altri esempi come nella leucemia
promielocitica in cui si scoprì l’alterazione citogenetica (traslocazione 15-17) che causa
alterazione del gene RARalfa. La terapia consiste nella somministrazione di acido retinoico
che fa si che RARalfa rilasci la cromatina consentendo la trascrizione.
La prima metodica che consideriamo è la citofluorometria, essenziale per fini diagnostici,
che viene effettuata attraverso l’utilizzo di citofluorimetri. Si basa sull’analisi di parametri
immunologici e di parametri morfologici e strutturali. È possibile identificare le diverse
popolazioni che sono presenti nel sangue periferico e nel midollo osseo che vengono
distinte sulla base delle loro dimensioni e sulla base della loro reattività con anticorpi
monoclonali fluoriscinati che vanno a identificare antigeni specifici di una linea cellulare.
Quindi la presenza di cellule positive per un antigene e le caratteristiche morfologiche che
contraddistinguono queste cellule vengono valutate insieme e consentono di separare gli
eritroblasti, dai linfociti, dai monociti e dalle cellule mieloidi. Quindi è una tecnica
importante perché l’analisi citofluorimetrica, a differenza di quella con il microscopio
ottico, valuta da 100000 a 500000 cellule quindi avremo una soglia di sensibilità e
specificità molto elevata. Il problema è che bisogna che queste aree di distribuzione delle
cellule siano esaminate con attenzione e quindi c’è bisogno di expertise dell’operatore
affinché non vengano fatti errori. Quali sono gli antigeni di superficie o citoplasmatici (si
usa la C per indicarli) che sono in grado per esempio di individuare leucemie acute? Quelli
dei linfociti B e T, dei blasti di origine linfoide, che vengono per esempio utilizzati per le
leucemie acute linfoblastiche, sono CD7, CD5, CD2, CD3, CD4, CD8 ecc. Viceversa, gli
antigeni B specifici sono il CD79a, il CD19, il CD10, il CD22, il CD20 e le immunoglobuline di
superficie per via della capacità di sviluppare anticorpi k o lambda.

I blasti mieloidi o monocitari sono caratterizzati da altri antigeni: la mieloperossidasi


citoplasmatica, il CD13, il CD14 (per i monociti), il CD61 e il CD42b per le forme di tipo
megacariocitario, la glicoforina A per le forme eritroidi. Con il citofluorimetro siamo in
grado di identificare in base a tali antigeni le cellule (oltre che sulla base della morfologia) e
quindi distinguere una leucemia acuta di tipo linfoide (e se questa è di tipo T o di tipo B) o
una leucemia acuta di tipo mieloide (se c’è una componente monocitaria o eritroide o
megacariocitaria). Esistono poi degli antigeni che non sono specifici cioè possono essere
presenti su tutte quante queste forme di leucemia (anche in assenza di altri marcatori): la
TdT, l’HLA-DR, il CD34, il CD38 ecc. Tali antigeni sono indicatori di una grande immaturità
della cellula quindi una leucemia può avere questi antigeni insieme ad antigeni mieloidi o
linfoidi oppure può avere solo questi antigeni e in questo caso si parla di leucemia acuta
indifferenziata nel senso che non si riesce a dare a questa forma di leucemia una
caratteristica che la identifichi come appartenente alla filiera linfoide o a quella mieloide. È
importante fare questa distinzione poiché le terapie delle leucemie linfoidi acute sono
completamente diverse dalle terapie delle leucemie mieloidi acute. Quindi è fondamentale
avere un quadro diagnostico preciso sotto il profilo fenotipico (fenotipo immunologico e
morfologico) per poter garantire al paziente una diagnosi corretta. Nell’ambito delle
leucemie acute linfoblastiche possiamo distinguere quelle a fenotipo B dove sono presenti
gli antigeni CD19, CD79, CD22; invece le immunoglobuline di superficie sono presenti nelle
forme più mature. Quindi tali marcatori identificano le leucemie acute linfoblastiche di tipo
B. Invece il CD3, il CD7, il CD4, il CD5, il riarrangiamento gamma delta o alfabeta
identificano le forme di tipo T. Il citolfuorimetro ci dirà se la cellula analizzata è una cellula
a fenotipo B o T in base ai marcatori e lo fa attraverso l’analisi di tantissimi eventi cioè
moltissime cellule che passano all’interno del citofluorimetro e quindi dentro lo spessore
dei tubi che sono collegati alla macchina che canalizza l’intensità di fluorescenza degli
anticorpi monoclonali che vanno a riconoscere tali antigeni. Vediamo alcuni esempi.
Questo è un caso di leucemia acuta mieloide su sangue midollare: vediamo che il fatto che
si sposti verso destra e verso l’alto significa che sono cellule positive CD34+ e CD117+,
hanno anche la mieloperossidasi, l’HLADR ed esprimono in maniere anomala anche un
marcatore T. Questa invece è una leucemia di tipo linfoide perché oltre al CD34 che è un

marcatore aspecifico presenta anche il CD79a, il CD66c e il CD58. Vediamo le cellule che
hanno positività per i 2 marcatori (CD19 e CD79) sono a destra e in alto. I 2 marcatori sono
coespressi dalla stessa cellula e quindi tale cellula appartiene ad una leucemia linfoblastica
di tipo B.
Vi ho fatto vedere il pannello delle leucemie acute però esistono altre patologie linfoidi a
cellule B che però non sono leucemie acute ma sono malattie linfoproliferative croniche
con caratteristiche differenti e tra queste abbiamo la leucemia linfatica cronica, la
leucemia prolinfocitica, la leucemia a cellule cepellute, il linfoma splenico a linfociti villosi,
linfomi follicolari, linfoma mantellare, linfoma linfoplasmacitico, la leucemia
plasmacellulare. Sono tutte forme che appartengono alla linea B ma che derivano da step
diversi del processo di differenziazione colpiti da una noxa patogena o che hanno
sviluppato un’alterazione genomica e che da un punto di vista clinico si manifestano
diversamente. Dal punto di vista fenotipico la leucemia linfatica cronica sia caratterizzata
dalla presenza di marcatori B come CD20 e CD19 ma anche dalla presenza atipica di un
marcatore delle leucemie T (il CD5); esprime anche una positività per le catene Kappa,
marcatore certo di clonalità. La leucemia a cellule capellutte presenta l’espressione del
CD103 e del CD25. Il linfoma follicolare esprime il CD10. Il linfoma mantellare esprime il
CD5. Quindi la coespressione di una serie di marcatori differenti a seconda del tipo di
leucemia ci consente (insieme alla morfologia) di differenziare queste varie forme di
patologie linfoproliferative che hanno trattamenti differenti.
Quindi la citofluorimetria su sangue midollare o sangue periferico integra la morfologia. Il
pannello di anticorpi si usa per discriminare quello che si vuole cercare e poi si possono
utilizzare altri anticorpi a seconda dell’indirizzo iniziale. La diagnostica citofluorimetrica è
fondamentale per i pazienti con neoplasie linfoproliferative ma anche mieloproliferative.
Per la diagnosi oltre che la presenza di specifici antigeni è importante anche una loro
assenza come avviene nell’emoglobinuria parossistica notturna. Questa è una patologia
acquisita in cui manca il gene PIGA che produce un ancora sulla superficie delle cellule per
farle legare certi antigeni. Se manca, tali antigeni non sono espressi. Un’altra tecnica
importante nella diagnostica e nella prognosi è la citogenetica, cioè lo studio dei
cromosomi con il cariotipo. Alterazioni di quest’ultimo possono consentirci di raffinare la
diagnosi di emopatia ma soprattutto possono fornirci informazioni importanti per la
prognosi di pazienti affetti in genere o da leucemia acuta o da sindromi mielodisplastiche.
Le alterazioni possono essere differenti; ci può essere una delezione, una traslocazione,
aneuploidie (variazioni del numero di cromosomi). Per esempio la delezione del braccio
lungo del cromosoma 5 è associata a sindromi mielodisplastiche e i pazienti con tale
delezione rispondo bene al trattamento con un farmaco immuno modulante che si chiama
lenalidomide.

Vediamo un caso di leucemia mieloide cronica dove un pezzo del cromosoma 22 è andato
sul cromosoma 9 (traslocazione 9-22) e ciò ha portato a porre vicino geni (a giustapporli)
che non dovrebbero stare insieme, cioè BCR (cromosoma 22) e ABL (cromosoma 9). Questi
quando si trovano vicini determinano attivazione di tirosinchinasi che favoriscono la
crescita incontrollata di questa popolazione di cellule. Esistono dei farmaci (inibitori di
tirosinchinasi) che vanno ad inibire queste gene iperespresso (che è un gene di fusione
nuovo normalmente non presente). Tali farmaci hanno rivoluzionato la prognosi dei
pazienti affetti che avevano una sopravvivenza media di circa 3 anni e oggi addirittura si
parla di vera e propria guarigione (circa nel 50% dei pazienti) tant’è che molti pazienti dopo
un certo arco di tempo interrompono il trattamento e la maggior parte non avrà neanche
recidive. Questo è un esempio emblematico della medicina di precisione definita così
perché va a colpire esclusivamente quel gene nuovo e quindi non si ha citoriduzione da
chemioterapia, o aplasia o intolleranza. Quindi citogenetica e biologia molecolare hanno
un ruolo primario ormai. Per vedere tale alterazione si può utilizzare anche la FISH
(ibridazione fluorescente in situ); normalmente evidenzia 2 cromosomi verdi e 2
cromosomi rossi, ma con la giustapposizione otteniamo il giallo (verde+rosso). Questa FISH
utilizza sonde fluorescenti con l’ausilio poi del microscopio ed è importante perché non
solo riesce ad individuare un gene di fusione ma è possibile anche vedere quanti
cromosomi di quel tipo sono presenti nella cellula, cioè per esempio una trisomia viene
facilmente identificata perché invece di esserci 2 segnali verdi e 2 rossi, ci sono 3 segnali
rossi e 3 segnali verdi. Quindi la FISH ci permette di studiare anomalie strutturali e
numeriche dei cromosomi ed è un’evoluzione della citogenetica convenzionale. Il passo
fondamentale degli ultimi anni è stato quello della biologia molecolare che usa tecniche
tipo la RT-PCR o digital-PCR le quali consentono di identificare bande specifiche del
trascritto del gene di fusione ma non solo; possiamo evidenziare mutazioni a carico dei
geni. In realtà la mutazione non può essere vista dalla citogenetica e della FISH perché
effettuano analisi macroscopiche delle alterazioni ma sono le tecniche di biologia
molecolare ad identificare mutazioni nelle cellule tumorali. Tali mutazioni oltre ad essere
spesso driver di evoluzione della malattia stessa sono anche dei fattori che condizionano la
prognosi.
Il passo successivo è quello del Next Generation Sequencing cioè la valutazione di possibili
alterazioni del DNA a livello dei cromosomi che però non viene valutata su un piccolo
numero di cellule ma su milioni di cellule e questo determina la possibilità di aumentare in
maniera notevole la sensibilità della tecnica. Il metodo Sanger identifica mutazioni nel
20/25% di pazienti, la biologia molecolare nell’1/5% dei pazienti mentre la NGS identifica
mutazioni anche in una cellula su milioni. Quale sia il significato di queste alterazioni
osservate con NGS non sempre lo sappiamo però sicuramente le informazioni sono molto
più dettagliate rispetto a quelle fornite da altri tipi di indagini tant’è che per analizzare i
risultati che vengono dati dalle macchine che ricercano queste alterazioni, c’è bisogno di
utilizzare programmi bioinformatici in grado di analizzare un enorme mole di dati. Può
essere anche importante in alcune situazioni l’identificazione di una clonalità o meno di
una popolazione. Il clone forma una popolazione con cellule tutte uguali; queste derivano
da un’unica cellula che ha proliferato e che si è mantenuta costante. Il clone è alla base del
processo neoplastico; molto spesso però molte neoplasie non hanno un solo clone ma più
d’uno chiamati subcloni anche se si evidenzia un clone dominante. Per esempio in alcuni
linfomi T può essere importante lo studio della clonalità dei geni del TCR per definire se
l’infiltrazione del midollo o dei linfonodi da parte dei linfociti sia clonale cioè neoplastica
oppure sia reattiva. Stessa cosa per quanto riguarda alcuni tipi di linfomi in cui non sempre
si riesce a stabilire la clonalità: ci sono situazioni di reattività che possono simulare un
linfoma e l’identificazione di una mono clonalità attraverso lo studio dei geni delle
immunoglobuline può essere fondamentale per effettuare diagnosi corretta.

LE ANEMIE
La definizione di anemia usata dalla OMS è quando si abbia una riduzione dell’emoglobina
al di sotto del limite inferiore, che per i bambini è intorno agli 11 gr/dl, per gli adolescenti e
le donne intorno ai 12 gr/dl, per gli uomini 13 gr/dl. Questi sono i valori minimi ritenuti

normali e al di sotto di questi si parla di anemia. Per classificare le anemie più frequenti
possiamo valutare l’emocromo ed effettuare una conta (in genere automatizzata) dei
reticolociti.

• Se c’è anemia e la conta dei reticolociti è elevata allora siamo di fronte ad una
situazione di emolisi o emorragia perché i reticolociti ,che sono i precursori
immediati dei globuli rossi, vengono prodotti in modo aumentato per compensare
la riduzione dei globuli rossi.
• Se invece il numero dei
reticolociti è normale o
addirittura ridotto si tratterà
di un’alterazione in cui il
midollo osseo non funziona.
Quindi andremo a valutare il
volume corpuscolare medio
(MCV) e se questo è normale
l’anemia sarà di tipo
normocitico. Saremo di
fronte a un’aplasia midollare,
ad una mielofibrosi
idiopatica, a un’infiltrazione,
a un’insufficienza renale. Se
invece l’MCV è alterato
allora significa che il midollo
non riesce a produrre globuli rossi in modo adeguato. L’MCV può essere più basso
del normale e allora paleremo di anemia microcitica (anemia sideropenica e
talessemie) oppure l’MCV può essere più alto allora sarà un’anemia macrocitica
dovuta in genere a deficit di B12 e folato oppure ad una mielodisplasia.
Consideriamo le anemie microcitiche in cui abbiamo un MCV inferiore a 80 micron cubi.
Abbiamo detto che questa può essere dovuta ad una carenza di ferro che viene
diagnosticata attraverso analisi biochimiche come la ferritina che è marcatore di depositi
del ferro, la sideremia e la percentuale della transferrina satura. La transferrina è la
proteina che trasporta il ferro. Se la sua percentuale di saturazione è bassa significa che c’è
poco ferro. Ferritina e sideremia possono essere alterate in diversi contesti (es. anemia da
malattia cronica) ecco perché per diagnosticare deficit di ferro si utilizza sempre e
comunque la saturazione della transferrina: se è sotto il 30% siamo di fronte ad una
carenza di ferro.
Ora consideriamo le talassemie: possiamo osservare in un vetrino di un paziente
talassemico la presenza di cellule a bersaglio e globuli rossi che saranno diversi tra loro.
Parliamo di anisopoichilocitosi perché avremo alterazione della forma e del volume.
Osserviamo anche eritroblasti nel vetrino perché il midollo cerca di compensare
l’etitropoiesi inefficace aumentando la produzione di precursori. Per diagnosticare una
beta talassemia si effettua elettroforesi dell’Hb perché può esserci il caso di un portatore o
di un malato di talassemia. In Italia la talassemia è una patologia molto diffusa quindi è
importante la diagnostica, anche quella prenatale.
L’anemia normocitica è spesso legata a sferocitosi ereditaria (in cui osserviamo emazie
senza l’alone centrale bianco) oppure a frammentazione di emazie dovuta a CID o a
porpora trombotica trombocitopenica dove la presenza di microcoaguli determina
l’alterazione fisica degli eritrociti che verranno rotti per la presenza di questi “spuntoni” di
piastrine.
Nell’anemia macrocitica, che si caratterizza per MCV>100 micron al cubo, è importante
valutare la carenza di B12 o folato oppure la presenza di mielodisplasia. Possiamo
osservare la presenza di neutrofili ipersegmentati e elevata presenza di precursori nella
carenza di vitamine mentre nella mielodisplasia, che è legata ad un’alterazione clonale
tumorale del midollo osseo a livello della cellula staminale, osserviamo eritroblasti con più
nuclei, neutrofili morfologicamente alterati con nucleo a bisaccia, megacariociti piccoli e
mononucleati. Esistono poi situazioni più particolari come alcune patologie epatiche o
l’uso dell’idrossiurèa, un farmaco che si usa in alcune neoplasie, che possono determinare
aumento dell’MCV e bisogna indagare tali situazioni con l’anamnesi.

Domande
1. Se analizziamo la ferritina e la troviamo alterata che tipo di diagnosi differenziale si
svolge per inquadrare un’anemia sideropenica? La ferritina può essere bassa e in
genere si associa ad anemia sideropenica quando si abbia anche riduzione della
transferrina saturata e la presenza di eritrociti microcitici. Si ritrova soprattutto
nelle donne. In un paziente maschio di 70 anni che presenti anemia sideropenica si
sospetta la presenza di una perdita intestinale per un tumore a tale livello. Se la
ferritina è alta abbiamo sovraccarico di ferro che si osserva in pazienti politrasfusi in
cui non abbiamo totale smaltimento del ferro. Questa può essere presente anche
nel caso di anomalie genetiche come nell’emocromatosi ereditaria oppure
nell’anemia da malattia cronica, nell’anziano, nei malati neoplastici in cui la ferritina
alta può rappresentare un marker aspecifico di infiammazione, nella sindrome
emofagocitica.
2. Ferritina e transferrina a confronto. La transferrina intesa come tale non ha
significato piuttosto si usa la saturazione della stessa che è importante perché può
essere un marcatore importante per deficit di ferro. Se la saturazione è alta invece
avremo una situazione di sovraccarico di ferro. La sideremia di per se non è molto
importante perché molto variabile pero può essere usata per ricavare con una
formula la percentuale di saturazione della transferrina.
3. Esami diagnostici per anemia sideropenica e le cause. In genere la causa è la perdita
per mestruazioni nelle donne o perdite intestinali (per diverticoli, neoplasie ecc).
Può essere anche dovuta a mal assorbimento come nella celiachia che va accertata
con gli esami appropriati (ricerca ad Ab contro gliadina ed endomisio) per poi
effettuare un esame endoscopico per valutare atrofia dei villi. Poi c’è l’IRIDA
(anemia sideropenica refrattaria al trattamento con ferro) in cui il malassorbimento
del ferro è legato ad alterazione dell’epcidina: in questo caso nonostante terapia
orale non c’è miglioramento della condizione del paziente e quindi non vedremo nè
crisi reticolocitaria nè aumento dell’Hb quindi somministreremo ferro in endovena.
4. Per quanto riguarda le tecniche di medicina di laboratorio utilizzate per la diagnosi
queste possono essere costoste o difficili da effettuare. In che condizioni si
effettuano quindi ? Esistono delle linee guida nazionali e internazionali. Se si ha una
leucemia mieloide acuta si farà necessariamente il cariotipo e le indagini di biologia
molecolare che servono a individuare alterazioni che potranno essere trattate con
terapie specifiche. Molte volte tali tecniche vengono utilizzare inutilmente come nel
caso della NGS che molte volte esula dalle necessità diagnostiche dell’ematologia.
Gruppo 2
Lezione del 6/10/2020 con il prof. Musto

ANEMIE
L’anemia è una condizione in cui i livelli di emoglobina sono più bassi del normale (12 g/dl
di sangue e 11 g/dl rispettivamente per uomini e donne, secondo l’OMS). Sono causate da
alterazioni del
processo di
maturazione o di
eliminazione dei
globuli rossi o da
mancata
funzionalità degli
eritrociti.

Per identificare l’anemia, determinarne la causa e la terapia da apportare, la prima cosa da


fare è la conta degli eritrociti attraverso un colter, che ci da un’informazione per quanto
riguarda la capacità del midollo osseo di rispondere ad un eventuale stato anemico. Se gli
eritrociti sono al di sotto dei 25000, il midollo non produce, non è in grado di sopperire alle
necessità dell’organismo, è infatti incapace di compensare l’anemia. Se invece sono molti e
si trovano addirittura nel sangue periferico, il midollo produce correttamente reticolociti,
quindi la causa dell’anemia è associata a disfunzioni degli eritrociti, alterata emolisi o a
emorragie, in cui il midollo cercherà di compensare la condizione anemica iperproducendo
eritroblasti. In questo caso, al microscopio ottico i globuli rossi colorati con trypan blue
appaiono con delle macchie blu, perché presentano residui di DNA e RNA; l’eritrocita è
quindi ancora molto giovane, per cui possiede ancora parte del suo corredo cromosomico,
che viene perso una volta completata la maturazione.

Quindi il primo elemento utilizzato è la conta degli eritrociti. Se gli eritrociti sono bassi, il
midollo osseo non funziona; se sono alti, il midollo funziona correttamente, produce i
reticolociti, la causa dell’anemia non sarà legata ad alterazione della funzionalità del
midollo, ma a disfunzione periferica, per esempio emolisi o emorragia.
Il secondo elemento da analizzare è il volume corpuscolare medio, cioè le dimensioni dei
globuli rossi. Il volume normale è compreso tra gli 80 e i 100 cl, con doppio aspetto a
biscotto, con parte centrale infossata e periferica.
Ci può essere quindi un’anemia:

- normocitica: il volume dei globuli rossi è normale, ma il numero degli stessi è scarso, per
esempio perché il midollo è incapace di produrre sufficienti quantità di eritrociti per
sopperire l’anemia. Si definiscono quindi anemie iporigenerative, causate ad esempio da
aplasia midollare, mielofibrosi idiopatica, in cui si forma tessuto fibrotico che impedisce
l’eritropoiesi, anemia infiammatoria o anemia da insufficienza renale, in cui viene alterata
la produzione di eritropoietina.

- microcitica: il volume e il numero dei globuli rossi sono scarsi (anche nel sangue
periferico). Le due principali condizioni che si associano sono carenza di ferro o talassemie,
cioè alterazioni genetiche delle catene dell’emoglobina;

-macrocitica: il volume dei globuli rossi è elevato (maggiore di 120 cl). Due esempi sono
l’aplasia midollare e il recupero midollare. Nel primo caso il midollo produce molti
reticolociti, per compensare l’eccessiva perdita dei globuli rossi nelle anemie emolitiche;
nel secondo caso il paziente è diventato anemico, il midollo iperprolifera per compensare
perdite eccessive di globuli rossi e emoglobina, di cui le possibili cause sono carenza di
vitamina B12 e acido folico e sindromi mielodisplastiche.

APLASIA MIDOLLARE

L’immagine sottostante mostra un aspirato midollare.


A sinistra ci troviamo in condizioni fisiologiche, in cui è possibile trovare tutti gli elementi
corpuscolati del sangue (eritrociti, leucociti, neutrofili, qualche elemento indifferenziato) e
la cellularità è normale, cioè la componente cellulare occupa il 60-70% dell’area che stiamo
esaminando, ci sono inoltre dei vacuoli che contengono grasso (il grasso può fungere da
riserva o gli adipociti possono interagire con l’emopoiesi). L’immagine di destra mostra un
midollo aplastico: in questo caso il tessuto adiposo prevale su tutto il resto; le restanti
cellule sono generalmente linfociti, quindi la cellularità è pari circa al 10%, sicuramente si
parla di situazione aplastica, in cui non c’è midollo osseo.

Questa immagine,
invece, si osserva
all’esame istologico, è
quindi ottenuta
mediante il prelievo
della carota del
midollo della cresta
iliaca superiore.
A sinistra si osserva
una cellularità
abbondante, in cui si
distinguono tutte le
componenti
dell’emopoiesi. A destra si osservano le trabecole ossee e l’interstizio compreso tra le
trabecole contiene grasso piuttosto che midollo, in cui l’emopoiesi è minore del 5%.
Tutta la produzione degli eritrociti dipende dalle capacità delle cellule staminali
emopoietiche, che hanno la capacità di autoalimentarsi, cioè di suddividersi e rimanere
tali, o di differenziarsi verso precursori CFU-GM mieloidi granulocitari, monocitari,
megagariocitari e eritrocitarie, in base alla presenza di fattori circolanti e citochine (come
interleuchina 3, eritropoietina per gli eritrociti ,trombopoietina per le piastrine ,GSF O GMF
per dar luogo a neutrofili o basofili). E’ possibile che ci sia una noxa patogena , un danno
virologico,genetico, legato a farmaco o radioterapia, che fa perdere alla cellula la capacità
di proliferare e differenziarsi, quindi tutto quello che c’è a valle nel meccanismo
differenziativo della cellula viene perso. Questo è quello che avviene nell’aplasia midollare,
quindi conseguente riduzione di globuli rossi, bianchi e pistrine.
Per esempio, le cellule
staminali totipotenti e le
differenziate esprimono
l’antigene CD34. Nel caso
dell’aplasia midollare,l’analisi
citofluorimetrica mostra che le
CD34+ sono molto poche
rispetto al normale, questo
perché deficit di cellule
staminali determina deficit di
cellule a valle nel meccanismo
differenziativo, compresi i
precursori più avanzati,come le
CFU primarie e secondarie.
L’aplasia midollare è quindi
legata alla mancanza del midollo di produzione di componente corpuscolata del sangue.

Generalmente il danno può essere diretto rappresentato da infezione batterica o virale,


farmaci, radiazioni. Quindi è di natura immunologica, mediato dai linfociti T citotossici, che
producono citochine come IFN gamma, che inibisce l’attività di cellule staminali.
In vitro, quindi, utilizzando anticorpi anti-IFN- gamma i numeri di cellule staminali
aumentano.
Questa diapositiva mostra tutte le possibili cause di aplasia midollare:
- reazioni autoimmuni, come lupus eritematoso sistemico o graft versus host disease;
- sostanze chimiche, come benzene, arsenico, toluene, solventi organici;
- farmaci, come chemioterapici, agenti alchilanti, platino, alcuni antibiotici;
- farmaci non citostatici, come alcuni FANS, farmaci non-tiroidei, antiepilettici, penicillina;
- forme ereditarie, come l’anemia di Fanconi;
- cause idiopatiche;
- infezioni, esempio da HIV, Epstein Barr, citomegalovirus
- radiazioni.

Per la diagnosi differenziale:

-emocromo, che mostra pochi globuli bianchi, rossi e piastrine;

-esame di striscio periferico

-test di funzione epatica

- ricerca di virus (HPV, EBV, CMV Parvovirus, HHV6, HSV HIV, Adenovirus e Varicella Zoster

-Aspirato midollare per morfologia, citogenetica, immunofenotipo, colorazione di Pearis


(sideroblasti ad anello)

-biopsia osteomidollare

-citometria a flusso per ricerca clone EPN (possibili falsi negativi per bassa conta di
leucociti)

-autoanticorpi (ANA, ENA, anti-dsDNA)

-dosaggio sierico vit B12 e folato

-sottopopolazioni linfocitarie inclusi TDN (cellule T doppie negative CD3 +, CD4-, CD8-),
dosaggio Ig per escludere AIDS e immunodeficienze

-fibrinogeno, ferritina, trigliceridi (per escludere la sindrome emofagocitica)

- bilirubina e LDH

- ecografia dell’addome (per escludere splenomegalia, linfoadenomegalia e malformazioni)

-ecocardiografia (per escludere malformazioni)

-radiografia del torace (per escludere infezioni in atto e anomalie prominenti

Per la diagnosi differenziale con le forme congenite:

-test di fragilità cromosomica (MMC e DEB), Golden Standard per la diagnosi di anemia di
Fanconi
- valutazione della lunghezza del telomero (per escludere telomeropatie)

Test ancillari:

-ricerca infezioni da micobatteri

-studio dei progenitori midollari

-ricerca mutazione TERT, TERC (più raramente TNF2, NOP10, DKC1) o c-MPL, geni SDS

-RM colonna (midollo sostituito da tessuto adiposo nell’AA, chiazze miste nel midollo
io/ipercellulato nella MDS).

Possiamo classificare le anemie aplastiche in:

-moderatamente grave, in cui la cellularità emopoietica del midollo è <30% e il numero dei
neutrofili è compreso tra 500 e 1000;

-grave, in cui la cellularità emopoietica è <30%, con almeno due delle seguenti condizioni:

-neutrofili 200-500

-piastrine <20000

-reticolociti <20x109/L

-molto grave, in cui la cellularità è <30%, neutrofili <200, con almeno una delle seguenti
condizioni: - piastrine <20000

- reticolociti <20x109/L.

Tra i sintomi dell’anemia troviamo pallore o colorito giallastro, feci ipocromiche, bassa
pressione, respiro affannato, spossatezza e fatica, splenomegalia, palpitazioni, sclere
giallastre (per aumento della bilirubina); in casi molto gravi dolore al petto, angina e
infarto.
Tra i sintomi della piastrinopenia, invece, vi sono ecchimosi, ematomi a livello degli arti,
emorragie congiuntivali e porpora diffusa.
In un paziente neutropenico possiamo trovare febbre, mucosite prevalentemente a livello
del cavo orale, odinofagia, sanguinamento delle gengive, ascessi cutanei, otiti e sinusiti
ricorrenti, polmoniti (tosse e dispnea), infezioni a livello rettale.

Il trattamento dell’aplasia midollare è il trapianto di cellule staminali del midollo, nei


pazienti più giovani, di età inferiore ai 40 anni, che hanno donatore familiare con HLA
identico(fratelli); se le condizioni generali sono buone e se non ci sono comorbidità (es.
LES, patologie, ischemiche, ecc) il trapianto può anche essere effettuato fino ai 60 anni. Se
il donatore familiare non c’è, si cerca un donatore HLA-identico non familiare, che però
rappresenta un rischio maggiore (marrow related donor).

La terapia nel caso in cui il trapianto sia piuttosto rischioso è costituita da farmaci
immunosoppressivi, come la globulina immunolinfocitaria e la ciclosporina A, in particolare
nella GFHD. Altri tipi di immunosoppressione sono rappresentati dal trombovag, che
stimola la produzione delle piastrine e che è attivo anche su altre linee cellulare, o un
trapianto aploidentico (figlio, nipote, ecc), anche se è più complicato da gestire.

Se il paziente non risponde ad alcuna terapia o nel caso di paziente anziano


piastrinopenico, anemico, leucopenico si effettuano terapie di supporto, come trasfusioni
di sangue e/o piastrine, si utilizzano fattori di crescita, come CSF, profilassi antibiotica, per
evitare o trattare infezioni, farmaci antiemorragici.

Questa slide mostra come a distanza di 10 anni dal trapianto:


- se il paziente ha meno di 20 anni, è vivo nell’86% dei casi;
-se il paziente ha meno di 40 anni, è vivo nel 76% dei casi;
-se il paziente ha più di 40 anni, è vivo nel 55% dei casi.

EMOGLOBINURIA PAROSSISTICA NOTTURNA

L’EMOGLOBINURIA PAROSSISTICA NOTTURNA(HPN) è una forma di anemia emolitica e


molto spesso nell’aplasia midollare sono presenti dei cloni molto simili all’HPN. L’HPN è
una forma di anemia emolitica, causata da una mutazione con perdita di funzione del gene
PIGA, che funge da ancora che lega al globulo rosso elementi che difendono l’eritrocita
dall’azione del complemento. Quindi, a causa di perdita di funzione di PIGA, il
complemento può andare sull’eritrocita e distruggerlo.

Nell’immagine di sinistra gli eritrociti normali presentano PIGA attivo, quindi le cellule
funzionano normalmente.
Nell’immagine centrale PIGA
non è attivo, quindi non sono
presenti quei marcatori che
consentono alla cellula di
essere protetta dal
complemento. Nel tempo,
laddove vi sia una noxa che
abbia causato l’aplasia
midollare, succede che le
cellule normali vengono
distrutte da questa noxa, le
cellule con PIGA mutato
sopravvivono e determinano quadro clinico di HPN.

Attraverso rapporto citofluorimetrico sui globuli rossi e bianchi è possibile determinare la


presenza di questi cloni cellulari che hanno carenza di molecole di superficie (tra cui quelle
che partecipano al meccanismo di protezione da attacco del complemento, rappresentate
per esempio da CD55), con conseguente attivazione del complemento sulla superficie
cellulare eritrocitica e quindi determinazione di un quadro anemico. Si tratta di un quadro
parossistico, che si manifesta prevalentemente nella mattinata: in un paziente affetto da
HPN, poiché durante la notte si è innescato questo meccanismo di distruzione degli
eritrociti, alle 19:00 presenta delle urine normali, alle 07:00 della mattina seguente
presenta delle urine color coca-cola. La distruzione dei globuli rossi ha determinato
liberazione di emoglobina e meta-emoglobina che ha conferito questa particolare
colorazione alle urine.

I segni dell’HPN posso essere i medesimi dell’anemia, quindi fatica, dispnea, disfagia,
emoglobinuria, anemia, si può anche arrivare a un quadro di insufficienza renale, ma la
condizione che determina anche la possibilità di morte può essere alterazioni di tipo
trombofilico, con conseguente trombosi.

ANEMIA SIDEROPENICA
Nell’ambito delle anemie carenziali troviamo l’anemia sideropenica.
In questo quadro patologico gli eritrociti sono più piccoli del normale (microciti) e molto
spesso l’alone scuro che li caratterizza è più pallido, poiché c’è poca emoglobina, legata al
fatto che c’è poco ferro.
Il nostro organismo dispone di un meccanismo di regolazione di assunzione del ferro, ma
non di uno di escrezione del ferro.

Giornalmente assumiamo tramite l’alimentazione circa 1/2 mg di ferro attraverso la dieta,


questo viene veicolato a livello ematico tramite la transferrina, che lo porta ai diversi
organi, come ai muscoli (in cui il ferro costituisce la mioglobina) o al midollo (per la
produzione di globuli rossi e eritropoiesi) o, laddove vi sia utilizzo non completo, a livello
epatico (in cui viene depositato tramite la ferritina). Circa 1/2 g sono presenti a livello
ematico nei reticolociti, circa 600 mg sono presenti nei macrofagi del sistema
reticoloendoteliale. Attraverso la desquamazione delle mucose, perdite di sangue non
rilevanti, ciclo mestruale circa 1/2 mg al giorno vengono persi

A livello duodenale il ferro viene assorbito attraverso la ferroportina. Questa è l’unica fase
dell’assorbimento del ferro che può essere regolata in maniera negativa dall’epcidina, la
cui concentrazione aumenta quindi nel caso di sovraccarico di ferro. L’epcidina blocca
anche l’accumulo di ferro a livello reticoloendoteliale. Il ferro a livello ematico si lega alla
transferrina, che lo veicola anche al midollo osseo, in cui si lega al recettore della
transferrina, in modo che venga inglobato dai precursori eritroidi e utilizzato per la sintesi
di emoglobina.
Quindi ricapitolando, la
ferritina è una proteina stabile
di deposito che lega il ferro in
eccesso rispetto a quello
utilizzato, e la ritroviamo in
tutto il sistema reticolo-
endoteliale (prevalentemente
nel fegato a livello
macrofagico). La transferrina
invece è la proteina funzionale
di trasporto che trasporta il
ferro, all’interno del sangue, ai
vari tessuti. Motivo per cui
nell’anemia sideropenica la
ferritina diminuisce perché il
ferro di deposito non c’è più
essendo stato utilizzato.

Il ferro quindi è essenziale per il trasporto dell’ossigeno e a livello mitocondriale quindi per
la respirazione cellulare e per diversi processi metabolici. Esso però in eccesso è dannoso
per cellule, tessuti e organi.
Cause dell’anemia sideropenica:

I farmaci
antinfiammatori sono tra
le cause perché possono
dare microemorragie a
livello gastrico.

SINDROME DI
CORENGHIN HAUSEN è
una sindrome da disturbo
psichiatrico importante
che porta ad un
autosalasso continuo.
Passando ai diversi stadi della
carenza marziale, i vari parametri
che abbiamo a disposizione sono
rilevanti.

La saturazione della transferrina


consiste nella percentuale di
transferrina che lega il ferro.
La carenza di ferro può avvenire in
maniera progressiva (donne con
problemi mestruale o ginecologici),
pazienti che svolgono normalmente
le loro funzioni in cui la carenza
progressiva ha permesso un adattamento da parte dell’organismo; si manifesta difficoltà
solo in condizioni di stress. A differenza di condizioni emorragiche in cui l’organismo deve
fronteggiare una situazione acuta.
In condizioni di carenza quindi l’organismo inizia prima ad utilizzare il ferro di deposito ( ↓
ferritina), si parla quindi di CARENZA FUNZIONALE di ferro.
Man mano che si va avanti importante diventa la riduzione della saturazione della
transferrina che se inferiore a 20% inizia a riflettersi sui livelli di emoglobina.
ANEMIA CONCLAMATA MICROCITICA E IPOCROMICA cominceranno a vedersi variazioni
morfologiche dei globuli rossi (piccoli e pallidi) con riduzione della produzione dei
reticolociti.
La ferritina è anche una proteina della fase acuta influenzata da altre situazioni (flogosi
croniche e neoplasie) in cui aumenta. Pertanto queste situazioni in concomitanza con
anemia sideropenica possono mascherare la sua diminuizione.
Sintomi da carenza di ferro avanzata:
 Cute pallida, secca, fragile
 Capelli secchi e fragili
 Fissurazione e distrofia ungueale
 Stomatite aftosa
 …
Terapia:

 Orale (forme non gravi)


 Endovenosa (forme più severe), preparati infusi due tre volte risolvono il problema
fino all’eliminazione della causa. Per quanto riguarda il ferro gluconato c’è bisogno
di una infusione prolungata e di un controllo medico adeguato per possibili
evoluzioni di tipo anafilattico
IRIDA (Iron-Refractory Iron Deficiency Anemia) difetto di assorbimento del ferro
autosomico recessivo per mutazione del gene che codifica per la Matriptasi 2. Ritroviamo
microcitosi e ipocromia, con diminuzione della sideremia e con livelli inappropriatamente
alti epcidina (iporegolata normalmente dalla matriptasi 2) che blocca l’assorbimento di
ferro a livello duodenale. Da valutare con esame genetico in casi di carenza di ferro e non
risposta al ferro orale.
Associata frequetemente all’anemia sideropenica c’è la PICA, un disturbo psichiatrico (nei
bambini soprattutto) che consiste nell’ingerire qualsiasi cosa (soprattutto sale) per
necessità di sopperire a questa carenza di ferro.

ANEMIA MEGALOBLASTICA

L’anemia megaloblastica, o anemia da carenza di vit.B12 o folato, è un’anemia


caratterizzata da aumentato volume dei globuli rossi, di solito superiore ai 120 femtolitri, e
che si associa a condizioni laboratoristiche e cliniche che permettono facilmente di
diagnosticare questo quadro. Da un punto di vista clinico è un’anemia rilevante con valori
estremamente bassi, 4 o 5 gr/dl, di emoglobina; da un punto di vista morfologico il quadro
periferico è costituito da grandi globuli rossi ipercromici e soprattutto grandi neutrofili con
ipersegmentazione nucleare, caratteristica usuale di pazienti con tale anemia. A livello del
midollo si trova una iperplasia della serie eritroide (midollo blu) rappresentata
essenzialmente da proeritroblasti e eritroblasti basofili con assenza delle forme mature
(citoplasma acidofilo) per blocco maturativo perché la carenza di vit b12 non permette
ulteriore differenziamento.
La carenza di Vit B12 è legata
essenzialmente ad un deficit di
assorbimento a livello dello
stomaco dove è presente il
FATTORE INTRINSECO che lega la
vit b12 quando assunta con la
dieta. Tale complesso vit b12-FI
permette l’assorbimento della
vitamina stessa a livello
dell’intestino tenue.
Successivamente, tramite il
sangue, la vitamina legata alla
transcobalamina raggiunge il
midollo soprattutto per svolgere
la sua funzione di contribuire alla
maturazione di eritroblasti. Quadri
di gastrite acuta o cronica a livello della grande curvatura o gastrectomia per rimozione di
ulcera o carcinoma, eliminano questa parte di mucosa che produce il FI e quindi la vit b12
non legandosi non può essere assorbita. Ciò che si vede nella pratica clinica più
frequentemente è una carenza di vit b12 rispetto al folato, che comunque può essere
responsabile di tale anemia.
I quadri clinici da anemia per Carenza di vitamina B12 e Folati sono:
Tipico di questi pazienti è il “Colorito a
cera vecchia”, giallognolo, che aiuta nella
diagnosi associato alle manifestazioni
neurologiche. Tali sono dovute al ruolo
trofico e funzionale a livello nervoso, con il
‘segno dell’ovatta’: il paziente riferirà di
provare la sensazione di camminare su
ovatta e non su una piattaforma rigida.
La cheilite angolare è un segno clinico che
dipende da una distrofia del tessuto che
risente particolarmente della carenza
vitaminica, in una sede, quella dell’angolo della bocca, sottoposta frequentemente a
tensioni.
Per quanto riguarda la diagnosi:
 Segni e sintomi
 Valutazione del midollo osseo e sangue periferico
 Dosaggio vit b12 e folato
 Ricerca anticorpi anti-FI e anti-parete gastrica
 Esofagogastroduodenoscopia con biopsia per diagnosi di gastrite atrofica (origine
immunologica per autoanticorpi contro cellule parietali gastriche)
Molto spesso nei pazienti si può valutare anche un aumento dell’LDH e della bilirubina
indiretta per la presenza di un minimo quadro di emolisi perché i globuli atipici vengono
distrutti precocemente. Molto spesso al quadro anemico si associa una diminuizione sia
dei globuli bianchi che delle piastrine. Essi inoltre possono presentare un volume normale
dei globuli rossi per TRATTO TALASSEMICO, essendo portatori del gene della talassemia,
infatti, hanno tendenza alla formazione di globuli rossi microcitici che “annulla” la
macrocitosi da anemia megaloblastica permettendo di ottenere una anemia normocitica
con tutte le altre caratteristiche da carenza di vit b12.
Per quanto riguarda il trattamento è semplice, si fa con terapia sostitutiva con iniezione
1000 microgrammi al giorno per una settimana e poi una volta alla settimana per quattro
settimane fin quando i valori di ematocrito e emoglobina non tornano normali. Nei casi di
anemia perniciosa, con pazienti gastroresecati è necessario che la terapia sia
supplementata mensilmente per evitare una recidiva ed è controindicata la
somministrazione orale perché mal assorbita.
Esistono anche altre forme di macrocitosi, come quella data dall’utilizzo di idrossiurea,
farmaco utilizzato per controllo dei globuli bianchi in alcune patologie, ora non più usato.

EMOGLOBINOPATIE
Sono alterazioni strutturali dell’emoglobina. Il professore mostra alcuni vetrini d’esempio
di:
• trait talassemico: il paziente è portatore della mutazione in eterozigosi. Il vetrino
mostra il quadro di sangue periferico di un paziente che si presenta
approssimativamente normale, moderatamente anemico, le alterazioni dei globuli
rossi sono abbastanza caratteristiche per forma: le cellule sono particolarmente
piccole e alterate, e si possono osservare le cellule bersaglio ovvero globuli rossi che
hanno la particolarità di avere una conformazione a bersaglio molto suggestiva.
Siamo di fronte ad una anisopoichilocitosi con eterogeneità di dimensioni della
forma e della dimensione dei globuli rossi.
• α-talassemia: il paziente presenta una mutazione in omozigoti e presenta la
patologia in maniera conclamata. Il quadro è pressoché analogo ma ancora più
severo. L’anisopoichilocitosi si presenta più marcata e compaiono in circolo i
precursori di globuli rossi ovvero gli eritroblasti ortocromatofili che svolgono
teoricamente la funzione di trasporto che hanno i reticolociti e quindi rappresentano
il tentativo del midollo di correggere l’anemia sebbene questo non sia possibile a
causa del danno subito dal midollo.
• Esistono anche altre forme di emoglobinopatie sebbene meno incidenti in Italia. Ad
esempio l’anemia a cellule falciformi, la cui alterazione è legata e anche in questo
caso ad una mutazione. Presentano queste cellule a forma di falce nel sangue
periferico che possono precipitare a livello dei tessuti e creare fenomeni ostruttivi.
L’emoglobina ha una struttura tetramerica, è costituita da due catene α e da due catene
β, all’interno di ogni catena c’è una struttura chiamata eme la quale ha il compito di
legare il ferro e a cui si legherà ossigeno.
I meccanismi patogenetici possono essere due:
1. Αlterazione della sintesi di una catena
2. Alterazione della struttura della catena

ALTERAZIONI DI SINTESI DELLA CATENA


BETA TALASSEMIA: La β-talassemia è una patologia caratterizzata dalla mutazione del gene
che codifica per la catena β dell’emoglobina, la quale causa una ridotta se non addirittura
assente produzione di questa catena, ciò implica che si formeranno delle strutture
costituite esclusivamente da catene α. Gli aggregati di α-globina precipitano
determinando una eritropoiesi inefficace. Si avrà quindi una produzione di globuli rossi
molto ampia e ricca , il midollo si presenterá iperplastico sotto il profilo della produzione
dei globuli rossi tanto da potersi addirittura verificare fenomeni di eritropoiesi
extramidollare a livello ad ed esempio della milza. questa eritropoiesi è però inefficace,
ovvero vengono prodotte numerose cellule non funzionali. Questo comporta un accumulo
di ferro e l’espansione eritroide a livello del midollo. Esso alle volte può estroflettersi
all’esterno formando delle masse che possono anche comprimere il midollo spinale e
creare numerose
problematiche.
Vengono dunque formati
degli aggregati che
portano poi
successivamente alla
distruzione dei globuli
rossi.
Esistono diversi tipi di
mutazione che conferiscono una certa eterogeneità del quadro clinico.
⁃ La talassemia classica trasfusione dipendente è un’anemia severa . Il paziente
necessita un costante supporto trasfusionale di almeno 8 unità di globuli rossi
concentrati all’anno o almeno 100 ml/kg di globuli rossi concentrati all’anno. Questi
sono pazienti trasfusi cronici: i livelli trasfusionali a cui sono sottoposti sono
funzionali a portare L ’emoglobina a valori superiori ai 10 g. Questo approccio
terapeutico ha consentito a pazienti talassemici che prima morivano prima dei
trent’anni per le complicanze della malattia, a raggiungere l’età adulta. Il professore
racconta di un paziente di 83 anni che continua a sottoporsi qui a Bari a trattamento
trasfusionale. il regime trasfusionale molto alto ha dunque permesso di migliorare la
prospettiva di vita dei pazienti. È Importante però associare alla trasfusione è una
terapia ferro-chelante.
⁃ talassemia intermedia non trasfusione dipendente: l’anemia é lieve o moderata, il
paziente necessita trasfusioni di emazie concentrate in sporadiche occasioni.
Mantiene infatti autonomamente livelli di emoglobina tra i 9 e i 10 g.
⁃ Trait talassemico: un paziente che è eterozigote per la mutazione, del tutto
asintomatico che ha un quadro periferico che ricorda la talassemia ma meno
drammatico. Presenta un aumento dell’HbA2 per compensare l’HbA1 ovvero quella
formata sia da catene α che da catene β. Potendo trasmettere il gene malato alla
progenie, va monitorato l’eventuale figlio nato da due pazienti entrambi eterozigoti
in quanto possiedono il 50% di probabilità di trasmettere il gene al figlio e il 25% di
possibilità di trasmettere l’intera malattia. Ciò é importante al fine di effettuare uno
screening dei pazienti e per la diagnosi prenatale di talassemia.

ALTRE EMOGLOBINOPATIE
EMOGLOBINA C: non è una patologia che vediamo frequentemente in quanto si trova
soprattutto nella popolazione di colore. In questi pazienti si instaura un’anemia emolitica
cronica in quanto gli eritrociti che sono prodotti vengono distrutte precocemente. In
genere non necessita terapie e la diagnosi
differenziale è effettuata mediante
elettroforesi dell’Hb. In questo modo è
possibile distinguere tutti i tipi di
emoglobina ed eventualmente anche la
condizione di trait talassemico come viene
mostrato nella tabella.
Il professore legge la tabella e sottolinea
come il trait talassemico ha l’HbA1 e A2
aumentata e può avere anche un po ’di
emoglobina F, che è una emoglobina
sostanzialmente normale. A distinguerlo
da un tratto normale è dunque l’aumento in concentrazione dell’emoglobina a due
all’elettroforesi.
Il professore mostra questo schema di cui sottolinea essere importante come i pazienti con
talassemia necessitino di una terapia personalizzata e dell ’importanza di effettuare
diagnosi prenatali invasive o non
invasive. Lo screening è effettuato
facilmente mediante l’elettroforesi
dell’emoglobina, ma la diagnosi
prenatale viene effettuata mediante
l’amniocentesi o la villocentesi (
permette di prelevare il DNA del feto e
poter verificare sul DNA di
quest’ultimo si presenti un profilo
normale o di un paziente portatore
oppure di malato di talassemia).
Ricorda che la diagnosi prenatale va
effettuata prima del terzo mese.
È dunque importante effettuare lo screening in quanto un neonato con talassemia
presenta un quadro clinico molto complesso, il cosiddetto morbo di Culey (?) o sindrome
talassemica presenta una serie di sintomi:
• deformazioni ossee importanti dovute all’espansione Del tessuto eritroide :
soprattutto nella fase di crescita quando le ossa non sono ancora completamente
formate c’è la possibilità che si deformino, soprattutto a livello della cranio.
Attualmente questi quadri clinici sono meno frequenti in quanto la
somministrazione di trasfusioni massive precoce permette di non raggiungere
queste condizioni sintomatologie.
• eccessiva pigmentazione dovuto al sovraccarico marziale,
• ipotiroidismo,
• Ipoparatiroidismo,
• ipotensione
• ipertensione polmonare,
• cardiomiopatie dovute al sovraccarico di ferro,
• trombosi venose,
• la probabilità di emopoiesi extramidollare a livello di esempio della colonna
vertebrale che può causare eventuali fenomeni di compressione sul tessuto nervoso,
• splenomegalia,
• diabete mellito,
• Pubertà ritardata con problemi della sessualità notevoli,
• osteoporosi,
• bassa statura.
TRATTAMENTI
Il paziente dunque non trattato ha elevata probabilità di morte entro trent’anni
(attualmente condizioni poco presente frequente in quanto i pazienti vengono seguiti in
centri dedicati facendo terapia trasfusionale associata a Terapia chelante del ferro
giornaliera molto importante in quanto molti sintomi del quadro clinico sono legati al
sovraccarico marziale) .
Esistono eventuali farmaci che permettono di stimolare la produzione di HbF attraverso
l’induzione della produzione di γ-globina. L’utilizzo di idrossiurea e di altri farmaci
permette di ottenere un aumento della produzione di catene γ che vanno a legarsi alle
catene α ottenendo in questo modo un’emoglobina più funzionale.
L’altra possibilità é il trapianto allogenico di cellule staminali qualora il paziente abbia un
donatore istocompatibile che permetta di sostituire il midollo del paziente costituendo una
“ chimera”: Il resto dell’organismo é costituito dalle cellule del paziente, ma le cellule
midollari, qualora il trapianto non subisca complicanze, é del donatore.
Ultima terapia possibile di recente scoperta è l’utilizzo di una terapia genica che permette
di introdurre all’interno del paziente cellule ingegnerizzate che producono normalmente
emoglobina che vadano poi a sostituire le cellule malate. L’ultima novità nell’ambito del
trattamento delle talassemie di un lavoro pubblicato a marzo 2020 sul new England
Journal of Medicine, dove viene utilizzato un farmaco usato anche per forme di
mielodisplasia a basso rischio . L’inibizione del TGF β comporta fisiologicamente la
riduzione dell’eritropoiesi. Il farmaco è un inibitore dell’inibitore e quindi porta
un’espansione del tessuto eritroide normale permettendo di mantenere un minimo le
concentrazioni di emoglobina in questi pazienti.

DOMANDA: Professore mi conferma l’utilizzo da un punto di vista terapeutico in via


sperimentale contro la talassemia del virus dell’HIV in qualità di direttore.
RISPOSTA: questa dell’HIV è una cosa che è comparsa in letteratura ma francamente non
so dire con esattezza se sarà questa la strada da seguire. Certo è che attualmente
attualmente è possibile effettuare terapia genica. Esistono dei traial clinici per cui ci si sta
attivando anche qui a Bari, anche se non possediamo qui le autorizzazioni regionali e
nazionali. La problematica é il costo, una singola procedura richiede più di 1 milione di
euro.

ALTERAZIONI DI STRUTTURA DELLA CATENA


Emoglobinopatie dovute ad una mutazione che causa una modificazione morfologica
dell’Hb
ANEMIA A CELLULE FALCIFORMI:
La mutazione porta la sostituzione di un residuo amminoacidico di valina con con l’acido
glutammico. Questa alterazione genetica comporta un’alterazione strutturale della
componente proteica dell’Hb che a sua volta causa una modificazione strutturale del
globulo rosso che assume una conformazione a falce facilmente individuabile nel sangue
periferico. È possibile diagnosticarla semplicemente osservando il vetrino di uno striscio di
sangue e successivamente effettuando delle test genetici per confermare la mutazione del
gene. In Italia non è una patologia molto frequente, più incidente negli extra comunitari.

Le complicanze possono essere acute o croniche (tabella 9.2)


DOMANDA: cosa è il priapismo?
RISPOSTA: un‘erezione fissa del pene non dovuta a stimoli sessuali ma dovuto ad uno
stazionamento degli eritrociti nei vasi dei corpi cavernosi. Dunque la formazione di questi
aggregati determina fenomeni occlusivi e un mancato deflusso del sangue. sintomi
associati sono il forte dolore, molte volte può essere necessario effettuare un intervento
chirurgico. Questa complicanza può essere legata anche ad altre patologie come ad
esempio la leucemia può causare una
staticità del flusso che determina
fenomeni di difficoltà del deflusso
ematico.
Tra le complicanze acute il dolore acuto
dovuto all’occlusione dei vasi può
determinare eventi estremamente gravi
che necessitano l’attuazione di
procedure d’urgenza ( 9.3)
Anche le infezioni rappresentano una
delle complicanze importanti (9.4)

TRATTAMENTI PER ANEMIA


FALCIFORME
⁃ Idrossiurea per stimolare la
produzione di HBF
⁃ Trapianto allogenico
⁃ Terapia genica ex-vivo o in-vivo

ANEMIE EMOLITICHE CONGENITE


Sono patologie non dovute ad anomalie legate all’emoglobina bensì ad anomalie
strutturali della membrana del globulo rosso. Essa è costituita da una serie di proteine ( la
Glicoforina A, la banda3, la spectrina, l’ankirina…) le quali possono essere oggetto di
produzione anomala qualora esistano delle mutazioni del gene che le codifica.
L’alterazione della struttura della membrana può portare al passaggio da una
conformazione a disco biconcavo a strutture morfologicamente diverse.
Ad esempio la sferocitosi ereditaria è caratterizzata da un quadro emolitico, da una
fragilità osmotica elevata (ciò vuol dire che gli eritrociti se posti in soluzioni ipotoniche
vanno incontro a lisi). Le proteine che subiscono una mutazione possono essere diverse
(ankirina, spectrina beta1). Tali mutazioni determinano una variazione della morfologia
della membrana tale per cui il globulo rosso passa dalla classica conformazione biconcava a
“ biscotto “ ad una forma sferica.
Nello striscio periferico è possibile
osservare come gli eritrociti non
presentino le classiche
caratteristiche: le cellule sono più
piccole e non presentano più al
centro la zona pallida dove
solitamente era presente una minore
concentrazione di Hb, poiché la
struttura sferica determina una
disposizione omogenea
dell’emoglobina. Le principale
conseguenza di questa patologia è
un’emolisi cronica. Può essere
classificata sulla base della
concentrazione di emoglobina.
Una cosa importante che viene
mostrata in questa tabella è
quando è richiesto effettuare una
splenectomia ovvero é necessaria qualora la situazione sia moderatamente grave o grave.
Questo approccio viene effettuato per ridurre l’emocateresi . Infatti, sebbene siano
funzionali, gli sferociti una volta raggiunta la milza vanno in contro a distruzione poiche la
loro struttura e la loro membrano non deformabile non gli permette di passare attraverso i
vasi splenici.
DOMANDA: nella sferocitosi il globulo rosso nasce già sferocita o lo diventa nel midollo?
RISPOSTA: il globulo rosso nasce già sferocita. attenzione il quadro anemico più o meno
grave è dovuto all’eterogenità della popolazione sferocitica del sangue periferico, ovvero
non tutti gli eritrociti vanno in contro a
demolizione

Esistono altre forme meno gravi di


alterazioni della membrana, ad esempio
l’ellissocitosi dovuta a un’alterazione
della spectrina e caratterizzata da una
morfologia ovale allungata a forma di
sigaro degli eritrociti. Il paziente
solitamente si presenta
asintomatico.
La stomatocitosi ereditaria
invece è caratterizzata da
una tipica morfologia del
globulo rosso con
quest’aria bianca centrale
a bocca. Anche in questo
caso l’alterazione é dovuta
ad una mutazione genetica
che produce la proteina
72B, questa patologia è
molto spesso asintomatica.
Bisogna prestare
attenzione ad eventuali
artefatti dovuti a errori
nella formazione dello
striscio di sangue periferico

ANEMIA DA MALATTIA CRONICA


È una condizione patologica molto spesso presente negli anziani ed in pazienti che
manifestano patologie come infezioni, neoplasie, malattie autoimmuni, ed insufficienza
d’organo. La patologia è dovuta a due elementi fondamentali: l’attivazione dei linfociti e
dei macrofagi che determinano un’aumentata produzione di alcune citochine (INFγ ,TNF
α, IL1 IL6) le quali agiscono sul fegato a livello della sintesi dell’epcidina aumentando così
il ferro intracellulare e riducendone l’assorbimento intestinale. L’altro meccanismo è
dovuto alla riduzione della sintesi di Eritropoietina indotta dalle citochine, ovvero del
principale ormone prodotto a livello renale coinvolto nella maturazione degli eritrociti. La
ridotta sintesi di eritropoietina che riduce dunque l’eritropoiesi e la riduzione del ferro
assorbito a livello intestinale causano una condizione di anemia.
Nella seguente tabella e vengono mostrati i principali effetti delle citochine prodotte da
linfociti e macrofagi. (Tabella 7.2)

Nella seguente tabella sono mostrate le principali cause ( tabella 7.1)

(Tabella 7.3)Infine è possibile osservare da questa tabella i parametri per ottenere una
diagnosi differenziale tra l’anemia da malattia cronica e l’anemia siderocarenziale

ANEMIA DELL’ANZIANO
Molto spesso gli anziani presentano dei
valori soprattutto di emoglobina che
non sono in linea con i parametri
normali in particolare nella tabella sono
mostrati i valori che si riscontrano in
questi pazienti. (Tabella 13.1). Si
presenta come un’anemia non spiegata,
non chiara nella sua patogenesi. Vi sono
tutta una serie di problematiche che
possono spiegare come il processo di
invecchiamento in sé possa determinare la
condizione anemica. Nella tabella 13.2 sono
mostrate eventuali patologie e meccanismi
patogenetici associati all’invecchiamento, e
come queste possono determinare
condizioni anemiche.
La mielodisplasie é un processo patologico
che non è una componente del normale
invecchiamento, ma è una vera e propria
patologia neoplastica che si associa molto
spesso alla comparsa di mutazioni presente
anche in pazienti di età e avanzata non
associate a patologie Conclamate.

DOMANDE: il trapianto midollare in pazienti sotto i 40 anni con aplasia sia lieve che
severa?
RISPOSTA: L’indicazione al trapianto avviene per aplasia severa (ma quasi tutte le
condizioni di aplasia sono gravi). Il trapianto di per se contiene numerose complicanze
spesso legate al procedimento.
Gruppo n 4
Lezione del 16/10 con il prof. Musto

GAMMAPATIE MONOCLONALI
Le gammapatie monoclonali rappresentano uno spettro di condizioni molto ampio che va
da forme più leggere a forme molto aggressive. Possiamo individuare diversi tipi di
gammapatie monoclonali, ad esempio il mieloma multiplo, mieloma Smoldering, mieloma
asintomatico, forme solitarie o extramidollari, amiloidosi, malattie linfoproliferative. La
maggior parte di esse (62%) viene definita MGUS (monoclonal gammopoty of
undeterminate significance), termine che indica delle gammapatie monoclonali che non si

associano a manifestazioni cliniche, ma che possono evolvere nel tempo.

Le gammapatie monoclonali sono uno spettro continuo di condizioni che vanno dalle
gammapatie monoclonali di incerto significato al mieloma smoldering al mieloma vero e
proprio, cioè il mieloma in cui oltre a trovarsi il segno classico del picco delle gamma
globuline si trovano anche i segni clinici della malattia. Queste sono le tre forme principali
di gammapatie monoclonali (MGUS, SMM, MM) e si differenziano sotto il profilo
diagnostico in base all’entità dell’infiltrazione delle plasmacellule e l’entità della
componente monoclonale. MGUS e SMM sono caratterizzate da assenza di segni e sintomi
e quindi non necessitano di trattamento, tuttavia possono rappresentare le fasi precoci del
mieloma multiplo; in altre parole, mentre MGUS e mieloma Smoldering possono rimanere
tali nel tempo, il mieloma multiplo è sempre preceduto da una fase di MGUS o mieloma
asintomatico. Il risconto accidentale di MGUS, cioè il riscontro di una piccola componente
monoclonale nel sangue periferico si trova in circa il 3% della popolazione normale oltre i
50 anni; questa percentuale aumenta al 10-12% nella popolazione degli over 80. SMM
rappresenta circa il 20% di tutti i mielomi. Per quanto riguarda i picchi nell’elettroforesi, ne
troviamo uno piccolo in MGUS, uno intermedio in SMM e uno più pronunciato in MM.
Queste tre situazioni (MGUS, SMM, MM) vengono differenziate sostanzialmente sulla base
di parametri clinico-laboratoristici. I due parametri percentuali presi in considerazione
sono:
1) Percentuale di plasmacellule;
2) Presenza di un picco monoclonale.
Se il soggetto presenta una percentuale di plasmacellule inferiore al 10% con un picco
elettroforetico inferiore a 3 grammi, tale soggetto presenta una gammapatia monoclonale
di significato indeterminato. Se la % di plasmacellule è maggiore del 10% e/o la
componente monoclonale è superiore a 3 grammi in un paziente asintomatico, si è in
presenza di un mieloma Smoldering o asintomatico. Se un paziente presenta più del 10% di
plasmacellule, segni e sintomi di danno d’organo siamo di fronte ad un caso di mieloma
clinico conclamato.
Oltre a queste tre principali forme, possiamo avere diversi quadri di gammapatie
monoclonali: gammapatie monoclonali a catene leggere, plasmocitoma solitario a
localizzazione unica, plasmocitoma solitario con infiltrazione midollare, sindrome Poems,
amiloidosi (caso in cui il clone neoplastico non è particolarmente aggressivo, ciò che causa
il danno è la proteina prodotta che precipita nei tessuti, soprattutto cuore e rene).

MIELOMA MULTIPLO
Il mieloma è una patologia neoplastica che ha origine dalle plasmacellule monoclonali (cioè
dello stesso tipo e che producono tutte la stessa proteina) le quali, in questo caso, si
caratterizzano per la forte basofilia e per il nucleo piccolo ed eccentrico. La basofilia è
dovuta ad una attivissima sintesi proteica delle immunoglobuline che avranno un picco
(monoclonale) nel tracciato immunoelettroforetico. Le plasmacellule proliferano e si
espandono al livello del midollo osseo emopoietico, producendo la componente
monoclonale, costituita da immunoglobuline identiche che migrano nel tracciato
elettroforetico, generalmente nella zona gamma. Il quadro clinico del mieloma è
caratterizzato da una serie di sintomi e segni, espressione del danno d’organo (renale,
polmonare, osseo), dell’interazione di queste cellule con l’ambiente circostante e della
produzione di immunoglobuline intere o frazionate.
Di mieloma multiplo esistono diverse varianti. Essenzialmente, i sintomi che identificano
un mieloma multiplo conclamato sono:
1) Ipercalcemia (liberazione di calcio -> C)
2) Insufficienza renale (R)
3) Anemia (A)
4) Lesioni ossee di tipo litico (anche se a volte non si vedono le lesioni ossee, quindi
bold -> B)
CRAB: acronimo che riassume i sintomi del mieloma multiplo conclamato.
Su MGUS e SMM non si interviene attivamente, vanno solo monitorate, mentre si
interviene su MM, essendo quest’ultimo sintomatico. Se in seguito ad esami di laboratorio
si riscontra la presenza di una gammapatia monoclonale, qual è il rischio di evoluzione in
un mieloma multiplo conclamato? Per MGUS, il rischio è di 1% all’anno, il che vuol dire che
a distanza di 20 anni, non più del 20% dei pazienti avrà sviluppato un mieloma multiplo
conclamato. Un paziente con diagnosi di SMM ha un rischio più alto di evoluzione verso
MM che equivale al 10% all’anno nei primi 5 anni per poi ridursi progressivamente; questo
vuol dire che dopo 5 anni, circa la metà dei pazienti avrà sviluppato un mieloma
conclamato. Nel periodo successivo ai 5 anni, il mieloma Smoldering assume una curva di
rischio di trasformazione del tutto simile a quella di MGUS. Il rischio principale di
trasformazione si osserva, quindi, nei primi 5 anni dalla diagnosi, per poi attenuarsi.
Ci sono dei sistemi sviluppati per capire quali di queste forme abbiano una maggiore
probabilità di evolvere. Nell’ambito di MGUS, si è visto che le forme di MGUS con una
componente monoclonale più alta (> 1,5 grammi), una immunoglobulina non IgG (quindi di
tipo IgA), con un’alterazione del rapporto tra le catene leggere (k o lambda che in genere è
prossimo a 1) elevato, quindi alto light-chains ratio hanno un rischio di trasformazione più
alto: rispetto al classico rischio del 3% a 20 anni, in questi pazienti il rischio a 20 anni è del
27%.

Le modalità di monitoraggio di questi pazienti possono essere modificate in base a quanto


riscontrato con le indagini laboratoristiche. In base alla situazione del paziente, si adotta la
strategia diagnostica più adeguata: se vi è un basso rischio di trasformazione, il
monitoraggio viene effettuato ogni sei mesi e poi ogni 2 o 3 anni; se invece il rischio è più
elevato, è bene controllare il paziente almeno due volte all’anno.
Lo smoldering mieloma è una forma un po' più grave dell’MGUS, ma più lieve del mieloma
multiplo e non ha, nel momento in cui viene diagnosticato come tale, la capacità di
associarsi a sintomi clinici.
Ci sono una serie di sistemi per valutare quali siano le forme più a rischio. Questi sistemi
utilizzano come parametri l’inflitrazione midollare, la componente monoclonale, il ratio
delle catene leggere, alterazioni genetiche, lesioni ossee non ancora conclamate, ma visibili
con una risonanza magnetica, ecc. Anche la PET può essere utile nell’identificare pazienti a
rischio di evoluzione, se presentano ad esempio positività di lesioni focali non osteolitiche.
MGUS e SMM non sono forme che vanno trattate, anche se ci sono degli studi in corso che
dimostrerebbero che il trattamento precoce del mieloma smoldering può dare dei vantaggi
in termini di riduzione della probabilità di progressione e di sopravvivenza globale; ad oggi,
tuttavia, non si prevede un trattamento per il mieloma smoldering.
Fino al 2014 circa, la classificazione delle gammapatie monoclonali vedeva: MGUS, SMM,
MM. In realtà, accanto ai segni classici della presenza di una malattia che necessita di
terapia (CRAB), esistono anche altri criteri, identificati più recentemente, per la diagnosi:
se il numero di plasmacellule è >60%, se il rapporto delle catene leggere è >100 o se vi è
presenza di più di una lesione focale (anche se non osteolitica, anche se non ancora la
classica del mieloma multiplo) evidenziata dalla risonanza magnetica, si hanno delle forme
che in precedenza venivano classificate come SMM, mentre oggi sono considerate delle
forme ad altissimo rischio di trasformazione. I pazienti con SMM che presentano anche
una % di plasmacellule >60%, un rapporto delle free light chains >100 e la presenza di
lesioni focali alla risonanza magnetica, sono pazienti definiti a rischio “ultra-alto” di
mieloma smoldering e necessitano di trattamento, per cui vanno trattati come se avessero
un mieloma conclamato. Ci sono delle raccomandazioni per il monitoraggio del mieloma
smoldering: all’incirca ogni 2-3 mesi all’inizio e, se la situazione è stabile, si passa al
monitoraggio ogni 4-6 mesi oppure ogni 6-12 mesi, dopo aver evidenziato una condizione
che sembra rimanere stabile nel tempo.
Queste appena descritte sono le forme più classiche di gammapatie monoclonali, ma ce ne
sono anche di meno comuni, come quelle che troveremo di seguito.

PLASMOCITOMA SOLITARIO
Il mieloma è una malattia sistemica, infiltra il midollo osseo e questa infiltrazione rende
ragione delle lesioni ossee, dell’ipercalcemia, dell’anemia; la precipitazione di para
proteine al livello renale rende conto del coinvolgimento renale. Ci sono, però, delle forme
di mieloma dette “Plasmocitoma solitario” in cui non vi è un’estrinsecazione sistemica del
midollo osseo e una localizzazione a livelli multipli dello scheletro, ma vi è una
localizzazione singola, come se ci fosse un tumore singolo che si può localizzare al livello
dell’osso, ma anche al livello extramidollare. Questa forma di plasmocitoma localizzato (di
cui oggi viene identificata anche una forma con una minima infiltrazione nel midollo) è
singolo, ha un’unica localizzazione, con possibilità di interessare l’osso o tessuti
extramidollari. Rappresenta non più del 5% delle neoplasie plasmacellulari. Per avere
certezza di diagnosi, bisogna eseguire una biopsia in cui si vede che il midollo non è
infiltrato e che magari al livello osseo oppure di un organo diverso (es: tratto respiratorio
superiore) si riscontra una infiltrazione di plasmacellule che nel midollo non c’è oppure è
minima (<10%), e non ci sono i sintomi tipici di MM (CRAB); l’analisi radiologica non
evidenzia altre localizzazioni di malattia, la componente monoclonale può anche non
esserci. Si distinguono due forme principali:
1) Localizzazione del plasmocitoma al livello osseo: coinvolge prevalentemente le
giovani donne e viene evidenziata in genere con una risonanza magnetica; a 3 anni
dalla diagnosi, circa il 60% o il 20% dei pazienti sviliuppa il mieloma conclamato, a
seconda se vi sia o meno una minima infiltrazione midollare all’esordio;
2) Localizzazione del plasmocitoma al livello extramidollare: si localizza
prevalentemente al livello del tratto respiratorio superiore (cav. nasali, rinofaringe),
anche se potenzialmente può interessare qualunque organo (polmone, rene, cuore,
encefalo). La prognosi può variare in funzione della localizzazione. La componente
monoclonale riscontrata è, nella maggior parte dei casi, una IgA. La probabilità di
trasformazione è del 10/15%, quindi più bassa del plasmocitoma osseo.
La terapia di queste forme può prevedere un intervento chirurgico, nel caso in cui la
localizzazione sia singola, oppure si può ricorrere a radioterapia e, nei casi in cui c’è un
coinvolgimento più importante oppure infiltrazione midollare, si ricorre alla chemioterapia
o al trapianto autologo di cellule staminali.

LEUCEMIA PLASMACELLULARE
Si tratta di una forma più aggressiva di gammapatia monoclonale. Il mieloma è una
malattia che si localizza prevalentemente al livello del midollo osseo, mentre nel sangue
riscontriamo la presenza della paraproteina che può essere indice di un mieloma. Nella
leucemia, invece, le plasmacellule circolano nel sangue. È una forma molto rara, molto
aggressiva, con prognosi molto sfavorevole. La diagnosi è basata sulla dimostrazione della
presenza di plasmacellule nel sangue periferico e per poter fare diagnosi di leucemia
plasmacellulare, le plasmacellule presenti devono essere almeno il 20% di tutte le cellule
circolanti o almeno 2000/ml di sangue o 2 milioni/litro di sangue. Esistono forme primitive
e forme secondarie. La leucemia plasmacellulare è diversa dal mieloma extramidollare.
Tutte le caratteristiche del mieloma multiplo sono presenti anche nella leucemia
plasmacellulare, ma ci sono alcune peculiarità; la leucemia plasmacellulare, ad esempio,
insorge più precocemente (età media del mieloma: 65-70 anni, età media della leucemia:
50-60 anni). Ci possono essere citopenie, coinvolgimento renale, coinvolgimento
extramidollare, ipercalcemia, lesioni ossee, con gravità maggiore rispetto a quanto si
riscontra nel mieloma. Il midollo è massivamente infiltrato di plasmacellule con morfologia
che spesso può essere plasmaplastica (plasmacellule che quasi non si distinguono), con
attività proliferativa molto alta e ci possono essere anche alterazioni citogenetiche.

MIELOMA MULTIPLO
La malattia più importante, quella che dobbiamo trattare una malattia non infrequente
rappresenta 1-2% di tutti i tumori anche quelli solidi, ed in particolare circa il 10% dei
tumori
del sangue. Ha un’incidenza di 5/6 casi ogni 100.000 abitanti, l’età mediana è di 70 anni ma
ci sono anche pazienti più giovani, è più frequente nei maschi e negli afroamericani. Non ci
sono fattori predisponenti genetici o interazioni con l’ambiente, qualcuno ha messo in
evidenza la possibilità di relazione con i pesticidi il fumo di sigarette, alcol, metalli pesanti
che fanno male sempre e comunque vi ricordo che il fumo di sigarette rappresenta la
causa
più frequente di tumori.
In epoca premestal che è stato il primo farmaci utilizzato nel mieloma, la sopravvivenza dei
pazienti era di 6 mesi, è passata a 3 anni con la chemioterapia ed oggi è arrivata a 7-8 anni
attraverso il trapianto e le nuove terapie; certo è che il mieloma multiplo è una delle
malattie
per la quali ci sono stati successi terapeutici negli ultimi anni. Ci sono pazienti che
utilizzando
farmaci nuovi e trapianti possono essere considerati guariti dal 5 al 10% dei pazienti, capite
bene che vantaggio c’è rispetto alle precedenti terapie.
Molto spesso la malattia i farmaci che noi abbiamo a disposizione inducono la
cronicizzazione della malattia molto spesso con una qualità di vita buona; però quasi tutti i
pazienti non guariscono e le cause di morte più frequenti sono la progressione della
malattia,
insufficienza renale ed altre causa non specificate.
Perché si sviluppa il mieloma? Deriva da una trasformazione neoplastica dallo sviluppo
della
linea B linfocitaria e queste cellule immature sono presenti nel midollo osseo vengono
successivamente esposte all’antigene ed al livello dei linfonodi avviene la ipermutazione e
lo switch isotipico. Svilupperanno la capacità di produrre un anticorpo nei confronti di
quell’antigene e quindi le cellule post germinali dopo che passate nel linfonodo, diventano
delle plasmacellule che portano in sé la capacità di produrre quell'anticorpo monoclonale e
a se a questo livello si determinano delle mutazioni genetiche che ne condizionano lo
sviluppo finale. Avremo MGUS, il mieloma Smoldering e poi il mieloma multiplo; quindi dal
midollo osseo al sangue periferico al linfonodo in sequenza avviene: interazione con
l’antigene, sviluppo delle plasmacellule,se poi al livello del Dna di questi pazienti si
aggiunge
l’acquisizione di mutazioni successive di determinati geni si svilupperanno forme sempre
più
aggressive.
Ci sono delle alterazioni citogenetiche iniziali in particolare delle regione 14Q32 che
codifica
per la catena pesante delle immunoglobuline e da queste alterazioni iniziali
successivamente
possono essere acquisiti degli eventi secondari che sono a per esempio mutazione di KRAS
e quindi a seconda del tipo di mutazioni che vengono progressivamente acquisite più se ne
acquisiscono, più la malattia va avanti esempio la mutazione TP53 sul cromosoma 17
questa acquisizione progressiva fa si che da un soggetto normale la malattia progredisca
verso MGUS, verso il mieloma smoldering ,verso il mieloma multiplo e verso la leucemia
plasmacellulare oppure possono anche essere responsabile della resistenza al trattamento
I modelli sono essenzialmente quelli delle leucemia acute, ci può essere una omogeneità
clonale cioè le alterazioni possono essere progressivamente acquisite: le mutazioni
successive nella stessa cellula e nello stesso clone oppure vi possono essere mutazioni in
cloni diversi e questa situazione è la più sfavorevole perché significa capacità diversa di
risposta alla malattia e se un clone non risponde ad un farmaco la malattia persiste, sarà
resistente alla terapia.
Questo modello malt step basato sull’acquisizione random di mutazioni è il concetto di
acquisizione clonale che già aveva previsto Charles Darwin. Il modello darwiniano di
evoluzione prevede infatti che non sopravvive il soggetto più forte ma sopravvive il
soggetto
che meglio si adatta all’ambiente in cui vive e può essere riportato per quanto riguarda lo
sviluppo del mieloma multiplo in cui è importantissimo il microambiente.
Se un paziente che ha un mieloma ad alto rischio c’è un alterazione arancione che
predomina si fa terapia con un farmaco e poi progressivamente alla successiva delle
terapie
si sviluppano gli altri cloni che sono quelli che si adattano all’ambiente, che non sono
sensibili
ai farmaci e che hanno una acquisizione progressiva di mutazione, la selezione naturale
che
comporta che alcuni cloni rispondono ed altri no. Si avrà che alla fine ci sarà un clone giallo
che all’inizio era minimamente rappresentato ma è quello che meglio si è adattato
all’ambiente
e resiste alle terapie: questo paziente avrà sviluppato una leucemia plasmacelluare
secondaria che porterà il paziente a morte.
Non tutti i pazienti comunque sono destinati alla morte, anche nei confronti di quelli in cui
la malattia è molto aggressiva, ma l’obiettivo è eliminare tutti i cloni presenti in quel
paziente
oppure di cronicizzare la malattia ossia di tenere sotto controllo i cloni consentendo la
sopravvivenza senza che possano determinare danni tali per da portare alla morte da un
lato
noi facciamo in modo che il trattamento possa eradicare tutti i cloni e lasciare quelli che
possono convivere con il paziente senza danneggiarlo oltre.
Il microambiente è quella componente, a livello del midollo osseo, in cui sono le cellule che
interagiscono in maniera sinergica con il clone, ne facilitano la crescita oppure la comparsa
di segni e sintomi e la loro specificità, come le cellule endoteliali che producono fattori per
l’angiogenesi che favorisce quindi la crescita del tumore. Il processo di angiogenesi è
basato
sull’interazione con citochine prodotte dalle cellule del microambiente come linfociti,
mastociti, cellule dendritiche o da fattori che sono prodotti dalla stessa cellula tumorale
che
interagiscono con le cellule dello stroma. L’altro grande giocatore all’interno del midollo
che
interagisce con la plasmacellula è il tessuto osseo, le principali componenti del tessuto
osseo
sono gli osteoblasti che producono matrice ossea e sono responsabili del rimodellamento
osseo, e l’equilibrio fra la produzione della matrice ossea degli osteoblasti e il
rimaneggiamento osseo legato all’attività degli osteoclasti è alla base. La presenza di
cellule
mielomatose disattiva questo equilibrio attraverso la produzione di Rank viene ad essere
inibita l’attività degli osteoblasti e facilitata l’attività degli osteoclasti che mangiano l’osseo
e sono responsabili di quel quadro radiologico del interessamento del mieloma e delle
lesioni della patologia mielomatosa.

Il danno che la malattia fa non avviene solo attraverso solo la cellula neoplastica ma anche
attraverso altri elementi cellulari che interagendo con la cellula neoplastica determinano
una parte dei danni a livello tissutale che si sviluppa; cellule T tra cui citotossiche, cellule B
ma anche endotelio e osteoblasti tutte insieme producono un terreno favorevole alla
crescita della malattia ed alla determinazione dei suoi sintomi.
Come si presenta il mieloma conclamato?
• Infiltrazione del midollo
• presenza di para proteina
• componente monoclonale
• lesioni osteolitiche
• interessamento renale
• infezioni
• anemia;
• dolore
• astenia
L’insufficienza renale si verifica a livello dei glomeruli, una sensibilità particolare alle
infezioni c’è perché abbiamo neutropenia e una alterazione del sistema immune,
ipercalcemia dovuta alla liberazione del calcio a carico degli osteoclasti, aumento
esponenziale della VES, legato alla presenza in circolo di proteine talmente elevate che
rallentano il flusso sanguigno ed impediscono al sangue di arrivare in maniera adeguata ai
tessuti con conseguente possibile ipossia.
Qualche volta poi il mieloma può svilupparsi partendo dalle vertebre e queste masse
vanno
a comprimere il midollo spinale e quindi una compressione a livello del midollo spinale e
ciò
comporta una sintomatologia neurologica da paraparesi che rappresenta un’emergenza in
quanto se non si interviene entro 24 ore questo problema di paraparesi può diventare
stabile e irreversibile. In questi casi si interviene chirurgicamente o con la radioterapia, in
attesa di iniziare il trattamento per la malattia sistemica.
DIAGNOSI
Per fare diagnosi si richiedono i seguenti esami: emocromo, striscio periferico con le
plasmacellule, esami funzionalità renale, calcio, LDH marcatore prognostico, elettroforesi
proteica che ci dice se è presente la paraproteina che non ci dovrebbe stare, in genere si
presenta a livello della zona gamma o alfa 2, ma ci sono volte in cui questa paraproteina
non c’è per niente nel caso del mieloma micro molecolare. Quando sono presenti
esclusivamente da catene leggere queste sull’elettroforesi non vengono viste e questo
accade nel paziente con un ipogammaglobulinemia, in un paziente con insufficienza renale
e ipercalcemia deve far pensare subito ad un mieloma multiplo a catene leggere, o
mieloma
micro molecolare. L’immuno fissazione è un esame che ci permette non solo di verificare la
presenza di una banda anomala ma anche di caratterizzarla e sono di tipo igG IgA IgM e
ognuno di questi tipi di immunoglobulina ha catene leggere di tipo K o tipo L nel tracciato
di
immuno fissazione che utilizzando anti sieri contro le catene gamma e contro le catene
lamba si vede un picco aggiuntivo che significa che questo paziente ha una componente
monoclonale IgG di catene pesante Gamma lambda.
Ci sono altri esami di laboratorio importanti come le proteine si riflette se le proteine totali
sono tra i 7,8 grammi ed in caso di mieloma invece potremmo trovare da 9 a 14b grammi
di
proteine totale,il dosaggio di beta 2 microglobulina, il dosaggio delle immunoglobuline
infatti se un paziente ha un mieloma igG, le igA e le igM normali sono ridotte si chiama
retro
inibizione, è importante fare il dosaggio della proteinuria nelle 24 ore e la valutazione della
troponina e BNP perché nei casi di amiloidosi c’è il coinvolgimento del rene ed il
coinvolgimento del cuore viene visto attraverso l’aumento dello spessore delle parteti
cardiache espressione del danno legato alla precipitazione delle catene leggere. È sempre
importate fare un check-in, valutare la performance del paziente perché le terapie sono
assolutamente correlate alla capacità del paziente di poter fare o meno determinate
trattamenti e le consulenze sono importanti la cardiologica e nefrologica perché bisogna
escludere la amiloidosi l’ortopedico perché determina fratture patologiche ed il
neurochirurgo quando c’è una massa paravertebrale che comprime il midollo che va
trattata
in maniera chirurgica.
TIPO DI MIELOMA
I tipi IgG, K o Lamba e IgA K o lamba ,ci sono delle forme solo a catene leggere ,ci sono
delle
forme rarissime igM IgD, ci sono delle forme raramente bi clonali con sono delle forme in
cui non si trova per niente la paraproteina e questa situazione è determinata dal fatto che
le plasmacellule hanno perso la loro capacità produttiva per cui sono presente ma noi nel
sangue non troviamo la paraproteina perché queste plasmacellule non riescono a
produrla,
IgG IgA più presenti IgM e IgD meno frequenti le forme più rare e in particolare non sono
abbastanza presenti le forme micromolecolari che si associano ad un tracciato
elettroforetico con ipogammaglobilunemia ,non ipergammaglobulinemia e queste forme
negative sono caratteristiche del mieloma non secernente, tutto è da mieloma tranne la
presenza di una paraproteina, perché le plasmacellule di questi pazienti non sono in grado
di produrla e quando noi andiamo a fare l’esame del midollo osseo che rappresenta la
capacità diagnostica della stragrande maggioranza delle emopatie neoplastiche. Quando ci
sono plasmacelulle con un nucleo eccentrico a “ruota di carro” perché la proteina è
addensata lungo i margini citoplasma intensamente basofilo per la produzione di proteine
per l’Rna che produce paraproteine e queste forma di plasmacellule fiammeggianti perché
la proteina che producono è morfologicamente abnormi, grandi con due nuclei a volte,
forme plasma plastiche e altre forme di plasmacellula con alterazioni di citoplasma e
nucleo
rappresentano forme aggressive.
Sulla biopsia ossea è possibile fare lo stesso tipo di valutazione, ematossilina eosina, la
presenza di plasmacellule, caratterizzarne la monoclonalità attraverso tecniche di
immunoistochimica (catena k tutte uguali) e l’istologia ci permette di vedere le
plasmacellule
, ma anche questi inclusi color rosato, che non sono altro che sostanza amiloide che
precipita a livello dei vari tessuti , tipica della lesioni presente in questo caso in midollo
osseo.
Attraverso la citofluorimetria è possibile identificare il fenotipo delle plasmacellule che
hanno però caratteristica per il CD 138 e CD38 e CD2o sicuramente la possibilità
esclusivamente o per le catena k o per la catene Lamba , anche la citogenetica con la FISH
ci da delle informazioni importanti perché da un punto di vista prognostico aveva una
traslocazione 4-14, alterazioni del cromosoma 1 rappresentano dei marciatori molecolari e
citogenetici che caratterizzano una prognosi più sfavorevole, infatti la presenza
dell’alterazione del cromosoma 17 rappresenta un marcatore prognostico sfavorevole.

La presenza del cromosoma 17 presenta un marcatore prognostico estremamente


sfavorevole. Una delle caratteristiche del mieloma multiplo sono le lesioni scheletriche e,
in particolare, le lesioni osteolitiche, che hanno di caratteristico il fatto di essere a stampo,
di non avere contiguità con altre lesioni e di non avere l’orletto sclerotico, che
normalmente si osserva in lesioni metastatiche di tipo solido. Esistono tac particolarmente
specifiche per la valutazione della sostanza ossea. Tutte le ossa possono essere colpite
dalle lesioni. Si possono eseguire radiografie standard, tac a basso dosaggio di radiazioni,
però sicuramente l’imaging del mieloma multiplo si avvantaggia ulteriormente di altre
tecnologie, in particolare la tac total body a basso dosaggio di radiazioni è in grado di
identificare in maniera molto chiara e con una sensibilità maggiore, rispetto alla radiografia
tradizionale, le lesioni osteolitiche a livello delle vertebre, dei femori e a livello del bacino.
Affinchè una lesione da mieloma multiplo sia evidente in una radiografia tradizionale, è
necessario che più del 50% del tessuto osseo sia stato rimaneggiato, cioè per avere
l’evidenza di un buco a livello osseo vuol dire che c’è meno del 50% del tessuto osseo. Per
quanto riguarda la tac invece la sensibilità è maggiore perché già in pazienti che hanno
perso localmente dal 10% al 15% del tessuto osseo è possibile evidenziare la presenza di
alterazioni di tipo osteolitico, e la presenza di queste alterazioni ovviamente è indicazione
al trattamento perché è uno dei criteri crab. Anche la risonanza è molto importante
perché, soprattutto quella del rachide, permette di vedere non solo la presenza di
alterazioni dell’osso, ma ha anche la possibilità di vedere delle compressioni a livello delle
vertebre, che sono in grado di determinare la sintomatologia neurologica, che rappresenta
un criterio di urgenza. La rm è importante anche perché permette di identificare, con la
presenza di due lesioni, quei mielomi smouldering ad altissimo rischio che oggi vengono
considerati dei mielomi veri e propri, che devono essere trattati. Anche nei pazienti affetti
da plasmocitoma solitario è importante fare la risonanza perché permette di vedere la
presenza di alterazioni in quello specifico sito e non in altre situazioni. Altro esame che può
essere utilizzato nella stadiazione del mieloma, soprattutto delle forme extramidollari, è la
pet, che dà una valutazione funzionale dell’attività metabolica delle cellule tumorali. È un
fattore predittivo dell’evoluzione di forme asintomatiche, ed è molto importante durante il
post trattamento perché la persistenza di una positività alla pet dopo la terapia si associa
ad una sopravvivenza inferiore, e soprattutto rende conto del fatto che bisogna continuare
a fare il trattamento. La pet insieme alla citofluorimetria e alla biologia molecolare è anche
uno dei parametri attraverso i quali si valuta la malattia minima residua anche del mieloma
multiplo.

Domanda studente: “per quanto riguarda la diagnostica del mieloma multiplo, bisogna
necessariamente eseguire una biopsia ossea o ci si può basare anche solo sui dati di
laboratorio?”

Risposta prof: “questo dipende dall’entità della patologia: in genere all’inizio, una
valutazione, a meno che non si tratti di una proteina veramente minima per cui si cerchi di
seguirla nel tempo, la biopsia ossea e l’aspirato midollare sono in genere importantissimi.
In alcuni casi quando la proteina è veramente molto piccola si può aspettare e vedere
come evolve, mentre se c’è già una componente monoclonale di un certo rilievo bisogna
fare la biopsia ossea, anche perché la percentuale di plasmacellule nel midollo osseo fa
fare diagnosi di MGUS, mieloma smouldering o mieloma conclamato.

Stadiazione La
stadiazione di Duric e Salmon degli anni ‘70 era basata essenzialmente sulla presenza di
anemia, ipercalcemia, elevati livelli di proteine M e di lesioni osteolitiche; era una
classificazione che forniva l’entità della massa di malattia ma è stata nettamente superata.
Poi c’è stata la classificazione International Staging System Stratification (ISS), pubblicata
10 anni fa circa, in cui lo stadio 1, 2 e 3 vengono identificati sulla base di due valori di
laboratorio: i livelli di beta2-microglobulina sierica, superiori o inferiori a 3,5 mg/L , e i
livelli di albumina inferiori o superiori a 3,5 g/L. Se entrambi i parametri sono inferiori a 3,5
mg/L allora si ha lo stadio 1; se uno dei due valori è superiore a 3,5 (mg/L per la beta2
microglobulina e g/L per l’albumina) si ha lo stadio 2; lo stadio 3, che è quello a prognosi
più sfavorevole, si ha se la beta 2 microglobulina è superiore a 5,5 mg/L. Circa 5 anni fa
l’International Myeloma Working Group ha sviluppato un sistema rivisto di stadiazione
clinica del mieloma, in cui, ai classici parametri della stadiazione ISS, venivano aggiunti i
dati della citogenetica e quindi la presenza della delezione del 17p o la traslocazione 4,14 o
la traslocazione 14,16 e i valori di LDH alterati; la presenza di una o più di queste
alterazioni definiva un paziente ad alto rischio. Quindi il nuovo modello stratificava i
pazienti in funzione dello stadio di ISS e nella forma rivista venivano aggiunti la
citogenetica e i valori di LDH. Questo è l’attuale modello di stadiazione prognostica che
viene identificato e che è in grado di predire la sopravvivenza dei pazienti in stadio 1, 2 e 3
sia per quanto riguarda la sopravvivenza normale sia per quanto riguarda la progression
free survival, che è il tempo, dal momento di inizio del trattamento della terapia fino a
quando non si è ripresentata la malattia cioè fino a quando la malattia non è andata in
progressione. Quindi se un paziente si sottopone a terapia e grazie a questa va in
remissione, tutto il tempo in cui il paziente resta in remissione fino a quando la malattia
non progredisce, viene chiamato progression free survival, cioè la sopravvivenza libera da
progressione; mentre la overall survival è la sopravvivenza globale del paziente dal
momento in cui ha cominciato il trattamento fino a quando o viene perso al follow up
oppure muore. C'è questa classificazione in tre gruppi di rischio ed è molto importante
perché mantiene la sua validità anche nei pazienti non trapiantati, rispetto a quelli
trapiantati, e nei pazienti trattati con i nuovi farmaci sia quelli che hanno assunto gli
inibitori del proteasoma, sia quelli che hanno assunto i farmaci immunomodulatori. Se
questa è la stadiazione che oggi viene applicata che serve a far capire nel momento
dell’esordio quale potrà essere l’evoluzione della malattia in quel paziente, qual è allora la
storia naturale del mieloma multiplo? La presenza di un mgus o di un mieloma smoldering
che si associa ad una asintomaticità, il paziente però può sviluppare un mieloma attivo e
quindi fa una prima linea di terapia, ottiene una risposta e poi ha una recidiva, questo è il
periodo di progression free survival, dopo questa prima recidiva ci può essere una seconda
risposta e quindi una seconda relapse e questa è una seconda progression free survival;
man mano che si va avanti però le recidive , anche e soprattutto per la progressiva
acquisizione di mutazioni genetiche, diventano sempre più resistenti al trattamento e
quindi si ha la cosiddetta fase di refrattarietà, in cui il paziente non è più in grado di
rispondere al trattamento stesso. Un problema importante può essere quello della recidiva
biochimica verso quella clinica. Una recidiva biochimica è un paziente che dopo aver
ottenuto una remissione, una fase di plateau dopo la terapia di prima linea, progredisce
ma non progredisce con sintomi clinici, cioè progredisce soltanto perché aumenta il picco
monoclonale progressivamente, senza sintomi clinici. Alcuni considerano questa recidiva
biochimica , cioè basata solo su paramenti di laboratorio, non sufficiente per iniziare un
trattamento, invece il prof Musto ritiene che anche questo tipo di recidiva è comunque
espressione di una malattia che non è più controllata dalla terapia che il paziente ha fatto
precedentemente, tanto per intenderci è una recidiva biochimica che è ben diversa
dall’MGUS o dallo smoldering perché qui non si sa ancora cosa succederà, invece si sa che
è già successo che la malattia è diventata attiva e quindi con tutta probabilità tornerà ad
essere attiva anche clinicamente, quindi un trattamento anche in fase di recidiva
biochimica può essere utile. È chiaro che, se un paziente ha una recidiva clinica, cioè
ripresenta i segni dell’esordio, quindi ipercalcemia, anemia, insufficienza renale o una
comparsa di nuove lesioni osteolitiche, il problema non si pone (se intervenire o meno, si
interviene e basta). Questa è un po’ la storia del mieloma multiplo, quindi fase
asintomatica, fase attiva, tutta la terapia, recidiva, seconda remissione. Le recidive molto
spesso non sono solo due, ma possono essere anche 5, 6, 7. le linee di terapia che si
possono fare sono veramente molte perché tanti sono i farmaci a disposizione.

Farmaci
Il trattamento nel 1960 era quello fatto con il Melphalan, che faceva passare il paziente dai
sei mesi di sopravvivenza ai tre anni di sopravvivenza. Negli anni ‘80 è comparsa la
chemioterapia di combinazione con l’utilizzo per esempio della Vincristina, Doxorubicina e
Desametazone. Lo schema in immagine si chiama pad e siamo nell’ambito dell’era
chemioterapica. Nella fine degli anni ‘90 e nel 2000 ha preso largamente posto, nella
strategia terapeutica dei pazienti con mieloma multiplo, l‘auto trapianto di cellule
staminali (ASCT). Successivamente è cominciata l’era della terapia target, cioè trattamenti
in cui sono presenti nuovi farmaci che sono non dei veri chemioterapici, gli inibitori del
proteasoma e in particolare il Bortezomib e gli agenti immunomodulanti come la
Lenalidomide e la Thalidomide di prima generazione. Sono poi comparsi gli inibitori di
seconda
generazione del
proteasoma,
come il
Carfilzomib, e gli
agenti
immunomodula
nti di seconda
generazione,
come la Pomalidomide. E poi sono comparsi gli inibitori di terza generazione e gli anticorpi
monoclonali che hanno fatto il loro ingresso nel trattamento del mieloma multiplo a
partire dal 2015. Ultimamente si hanno a disposizione nuovi farmaci, come il Selinexor e il
Venetoclax, ci sono nuove procedure che utilizzano anticorpi monoclonali come
l’Isatuximab e il Belantamb. C’è anche la possibilità di utilizzare monoclonali coniugati con
farmaci e le così dette car T, che rappresentano l’immunoterapia del futuro. Infine le
nuove combinazioni: all’inizio c’era la combinazione Melphalan-steroidi, poi si è visto che
funzionavano meglio i triofarmaci, poi si è addirittura notato che quattro farmaci insieme
possono funzionare ancora meglio. Lo scenario quindi è molto mutato e questo ha reso
conto del fatto che la sopravvivenza dei pazienti con mieloma multiplo, sia di quelli più
giovani con età inferiore ai 60 anni, sia di quelli con età superiore agli 80 anni, sia in
qualche modo migliorata nel corso del tempo grazie appunto a questi nuovi farmaci.
L'immunoterapia, come gli anticorpi monoclonali, ha rappresentato qualcosa di davvero
straordinario perché associa due concetti: quello di poter indurre una distruzione cellulare
attraverso l’attività diretta sulla cellula tumorale, ma anche quello di stimolare le risposte
immunologiche dell’organismo nei confronti delle cellule neoplastiche, quindi una doppia
azione di citotossicità diretta sulle cellule neoplastiche e di un controllo immunologico
della malattia, che permette oggi di poter utilizzare questa strategia terapeutica in
condizioni diverse: all’inizio si è cominciato con pazienti con malattia avanzata,
successivamente anche nei pazienti con malattia più precoce, e oggi viene utilizzata anche
in prima linea combinando l’anticorpo monoclonale con farmaci standard di ultima
generazione.

Il tipo di trattamento che deve essere applicato ai pazienti con mieloma multiplo
presuppone che ci sia una valutazione appropriata non solo dell’età ma anche dello stato
di fitness che il paziente ha. Il paziente può essere giovane, molto competitivo, oppure può
essere un paziente anziano ma ugualmente fit per determinate terapie, oppure può essere
un paziente unfit quindi un paziente che non riesce a fare altro, un paziente frail cioè
fragile, ma anche un paziente di una certa età che però ha caratteristiche particolari per
poter fare delle terapie. Le terapie devono quindi essere tailored, cioè aggiustate sulle
caratteristiche del paziente e le caratteristiche del paziente da considerare sono
essenzialmente due: quelle cliniche cioè malattia in sé, e quelle dei fattori biologici, cioè
quelle che la malattia in sé porta come caratteristiche biologiche.

Goals della terapia


L'obiettivo della terapia nei pazienti più anziani deve essere quello di determinare un
aumento dell’aspettativa di vita nei pazienti che sono in grado di fare cose importanti, in
cui è possibile ottenere una remissione importante della malattia e quindi gli obiettivi sono
la priorità e l’efficacia del trattamento. Dall'altra parte della barricata ci sono i pazienti
frail, cioè quelli fragili che hanno disfunzione d’organo, che hanno comorbidità, che hanno
uno stato
funzionale che
non riesce a fargli
fare le cose che
normalmente
questi pazienti
farebbero e in
questo caso una
bassa tossicità, la
qualità di vita da
mantenere e non
far danno con le
terapie
rappresentano gli
obiettivi da perseguire.

Come si fa a identificare i pazienti che sono in grado di fare delle cose, che fanno anche i
pazienti più giovani, verso quelli che non sono invece in grado di farle? Attraverso
l’applicazione di score di fragilità che possono essere oltre all’età, l’indice di Charlson, l’ADL
score e l’IADL score che sono degli score prognostici che valutano ad esempio se il paziente
è in grado di vestirsi da solo, andare in bagno da solo, se risponde al telefono , se ha
qualcuno che lo accompagni nell’andare e tornare dall’ospedale, e, a seconda di queste
condizioni, si determina quello che è lo stato di fitness del paziente: se un paziente è fit
può essere trattato con terapie standard; se è un paziente intermediate bisogna aggiustare
la terapia su quelle che sono le capacità funzionali e di possibile resistenza ma soprattutto
di possibile tolleranza ai farmaci in questi pazienti; se invece lo score è alto e il paziente è
frail bisogna usare la massima attenzione e fare terapie che sono molto spesso anche solo
palliative piuttosto che eradicanti la malattia.

Lo score di fragilità ha un effetto importantissimo perché trattati allo stesso modo i


pazienti fit, intermediate e frail hanno una sopravvivenza completamente diversa, e anche
in termini di discontinuazione della terapia e anche in termini di eventi avversi, di effetti
collaterali, quindi bisogna ritagliare la terapia giusta al paziente giusto.

Qual è il tipo di risposta che ci si può aspettare in un paziente con mieloma? La risposta
può essere molto
varia: ci può
essere la
remissione
parziale, una
remissione
completa, una
remissione
completa di
grande qualità,
una malattia
stabile; tutte
queste valutazioni
si fanno in
funzione di quello che si osserva dopo aver fatto un trattamento. Oggi, al di là delle
risposte che possono essere considerate in un certo qual modo accettabili, come una
remissione parziale in cui si ha solo una riduzione della malattia, o una remissione
completa in cui la malattia apparentemente sparisce, l’obiettivo di alcune terapie, in
particolare nei pazienti giovani, è quello di raggiungere una malattia minima residua che
non sia più valutabile e non ci sia più la possibilità di identificare la malattia, perché questa
condizione di apparente eradicazione del processo neoplastico rappresenta un operational
cure, cioè una possibilità di cura del paziente, cioè se per un tempo prolungato i medici
non riescono più a identificare quelli che sono i segni clinici della malattia ma soprattutto
la scomparsa a livello citofluorimetrico e molecolare della neoplasia. E il fatto che più è
profondo il tipo di risposta che si ottiene, più la prognosi migliora, lo si vede anche nei
pazienti anziani in cui i pazienti con remissione completa sia in termini di progression free
survival, sia in termini di overall survival hanno una prognosi migliore rispetto a quelli che
ottengono anche delle risposte ma che non sono delle risposte di buona qualità. Più
profonda è la risposta, meglio ancora se si riescono ad ottenere una malattia minima
residua negativa, cioè non si riesce più a identificare con quelle soglie logaritmiche di 10^-
4, 10^-5, quelle sono le soglie che si avvicinano alle guarigioni del paziente.
Questo è stato implementato abbastanza recentemente nelle strategie terapeutiche, non
prima del 2016. Una malattia minima residua negativa con tecniche di citofluorimetria, con
tecniche di biologia molecolare addirittura con next generation sequence o con next
generation flow e con una pet negativa, è l’obiettivo più importante che si cerca di
raggiungere, ovviamente questo non lo si ottiene in tutti i pazienti, però oggi nel 20-30% di
pazienti trattati con combinazioni estremamente attive di farmaci di nuova generazione in
combinazione con monoclonali, può ottenere percentuale di malattia minima residua
importante e che quindi può correlare con una potenziale guarigione di questi pazienti.
La next generation flow, ovvero la citometria a flusso di nuova generazione, le tecniche di
biologia molecolare e le tecniche di imaging, in particolare la pet, sono quelle che danno la
possibilità di valutare in maniera più importante la malattia minima residua che oggi
dovrebbe rappresentare l’obiettivo che si dovrebbe raggiungere con il trattamento: non si
dovrebbe più avere come obiettivo una risposta clinica, di miglioramento clinico e magari
riduzione della proteina e infiltrazione delle plasmacellule, ma si dovrebbe cercare di
ottenere quella che apparentemente è una scomparsa completa della malattia e questa si
associa, non in tutti i casi, ma frequentemente, con la possibilità di guarigione.

Terapie di supporto
Bisogna correggere l’ipercalcemia mediante l’idratazione, gli steroidi e i difosfonati, che
sono dei farmaci attivi nell’abbassamento del calcio. Occorre prevenire le lesioni
osteolitiche, in questo caso i difosfonati e in particolare lo Zoledronato rappresentano una
terapia molto importante nei pazienti con mieloma e per evitare le complicanze ossee. C'è
bisogno di correggere l’insufficienza renale attraverso l’idratazione, l’uso di steroidi,
attraverso una chemioterapia che possa essere efficace e che non danneggi ulteriormente.
Qualche volta può essere importante arrivare alla dialisi però se il paziente con
insufficienza renale, insorta da poco tempo, dovuta a mieloma, viene trattato in maniera
adeguata, anche se il paziente al momento della diagnosi è in dialisi, quasi una grande
percentuale di questi pazienti viene recuperata e il paziente, rispondendo al trattamento,
migliora anche la sua performance renale e molto spesso viene fuori anche dalla dialisi.
Ovviamente bisogna fare terapia antalgica perché il sintomo principale che il paziente
avverte è il dolore legato alla localizzazione ossea, alle compressioni midollari e
all’interessamento vertebrale, e il back pain, ovvero il dolore alla schiena che molto spesso
è il primo sintomo di questi pazienti. Il trattamento dell’anemia può essere fatto con
trasfusioni e uso di eritropoietina, perché è un fattore stimolante l’eritropoiesi. Va fatto il
trattamento delle lesioni dolorose o compressive, per le quali c’è la possibilità di effettuare
interventi di neurochirurgia, ortopedia e radioterapia. L'utilizzo del fattore di crescita
granulocitario G-CSF per controbattere la neutropenia che si sviluppa in corso di
chemioterapia. Profilassi antibiotiche, antivirali e antitrombotiche per il trattamento
precoce delle infezioni, le prime due perché l’utilizzo di alcuni farmaci possono associarsi
ad un rischio più elevato di alcune infezioni, l’antitrombotica perché i farmaci
immunomodulanti, come la Lenalidomide, aumentano il rischio di complicanze
trombotiche e quindi la profilassi antitrombotica con eparina o aspirina a seconda dei casi
deve essere necessariamente messa in atto in questi pazienti. Cosa molto molto
importante sono le vaccinazioni antipneumococcica e antinfluenzale, soprattutto durante
un periodo di pandemia, a prescindere dal fatto che il paziente abbia una neoplasia e sia in
corso di trattamento e/o immunoterapico, le vaccinazioni vanno raccomandate.
Moltissimi farmaci negli ultimi anni sono stati approvati negli Stati Uniti, ma anche in
Europa, però in realtà quello che si può fare non è moltissimo, nel senso che le categorie di
farmaci che si possono utilizzare nelle varie fasi di malattia sono gli immunomodulanti
(Talidomide, Lenalinomide e Pomalidomide) che hanno l’effetto proapoptotico diretto,
cioè fanno morire le cellule con un effetto modulante sul microambiente, stimolano il
sistema immunitario a rispondere nei confronti delle cellule neoplastiche; ci sono poi gli
inibitori del proteasoma di prima, seconda e terza generazione, che sono Bortezomib,
Carfilzomib e Ixazomib e determinano un blocco dello smaltimento proteico cellulare
mediante l’inibizione del proteasoma e quindi inducono la cellula a morire; il Panobinostat
è un farmaco ormai andato in disuso; gli anticorpi monoclonali invece sono importanti e
sono l’Elotuzumab, che è un anti-CS1, e il Daratumumab, che è un anti-CD38, i quali sono
in grado di indurre la morte cellulare direttamente, oppure di attivarla attraverso il sistema

immunitario, oppure di stimolare le cellule del sistema immunitario, in particolare le


cellule T e le cellule NK ad agire nei confronti della malattia. Tutte le sigle visibili nell’ultima
colonna a destra della tabella sono sigle che indicano le combinazioni attualmente
approvate dagli enti regolatori americani e europei sull’utilizzo dei farmaci: molto spesso si
tratta di combinazioni a tre farmaci e alcune a quattro farmaci in cui si cerca di mettere
insieme farmaci di classi differenti, quindi un immunomodulante in associazione ad un
inibitore del proteasoma in associazione agli anticorpi monoclonali, per poter ottenere dei
risultati particolarmente brillanti (secondo il prof questi principi di terapia andrebbero
conosciuti).
Occorre distinguere per i pazienti con mieloma i pazienti che sono eleggibili per il
trapianto, se sì in genere una combinazione a tre farmaci viene utilizzata, si fa la
chemioterapia, si fa il trapianto e si fa la terapia di mantenimento. Nei pazienti in cui non
c’è invece l’eleggibilità al trapianto molto spesso si utilizzano delle combinazioni a due o
tre farmaci Borteterib, Melphalan e Prednisone, Lenalidomide e Desametazone, Borteterib
Lenalidomide e Desametazone per poter indurre una risposta della terapia. quindi una
prima suddivisione è da fare tra i pazienti che sono eleggibili al trapianto in genere per età,
oggi il trapianto si esegue in genere fino a 70 anni, però bisogna tener conto anche di tutti
quei valori di funzionalità da parte del paziente e di frail che devono essere presi in
considerazione. Eleggibilità al trapianto significa paziente giovane molto perfomante ma
anche paziente di una certa età che però abbia una fitness adeguata per poter tollerare
questo tipo di trattamento trapiantologico.

Lo schema in immagine è quello che si usa per i pazienti eleggibili al trapianto in genere
fino a 65-70 anni, che prevede una fase di induzione, quindi una terapia iniziale,
l’autotrapianto che può essere singolo o preferibilmente doppio, mediante l’esecuzione di
due autotrapianti attraverso l’esecuzione prima di una terapia intensiva e poi di raccolta
delle cellule e di infusione, una terapia di consolidamento del risultato e una terapia di
mantenimento. Queste sono le fasi attuali della terapia del mieloma che al di là di tutti gli
acronimi precedentemente nominati e di tutti i farmaci, è quello che rappresenta lo
schema che oggi si segue nei pazienti con mieloma multiplo.
Un trapianto autologo di cellule staminali avviene nella fase successiva alla terapia di
induzione: si cerca di mandare indietro il più possibile la malattia consapevoli di non averla
guarita e che non sia sparito tutto, però si è mandato il paziente in una condizione in cui è
possibile fare qualcosa di più, che è il trapianto.
Sostanzialmente si fa una mobilizzazione delle cellule staminali attraverso Chemioterapia
più fattore di crescita; in questa fase, viene fatta una chemioterapia che fa abbassare i
globuli bianchi. Poi, al momento della ripresa di questi valori -che viene facilitata dall’uso
del fattore di crescita granulocitario eventualmente associato ad un altro farmaco che
libera le cellule staminali, il plerixafor - queste cellule vengono raccolte attraverso una
procedura che si chiama aferesi, simile ad una dialisi: il sangue passa attraverso una
macchina , questa raccoglie le cellule staminali, le identifica, le cellule staminali vengono
processate e congelate, e per far questo è importante che ci sia una fase di monitoraggio
delle cellule staminali. Il paziente, una volta che ha fatto questa chemioterapia, che in
genere dà un’aplasia di 8-10 giorni, successivamente viene sottoposto ad un monitoraggio
delle cellule CT34+ (le cellule staminali), che il midollo mette in circolo nel momento in cui
comincia a recuperare dopo il danno che ha subito dalla chemioterapia di mobilizzazione.
Una volta visto che le cellule CT34+ presenti nel sangue periferico sono in numero
adeguato , vengono fatte una o due leucoaferesi (una o due raccolte), e le cellule vengono
congelate. Il paziente viene successivamente sottoposto a Regime di Condizionamento,
attraverso, per esempio, una dose di melfalan molto alta; a questo punto il paziente va in
una fase aplastica , ovvero in una fase che normalmente vediamo dopo la chemioterapia.
L’obiettivo è che questa terapia molto forte vada a distruggere tutto quello che è rimasto
di neoplastico nel paziente dopo la terapia di induzione, una sorta di ripulitura di quanto è
rimasto. Ovviamente questa fase aplastica pone il paziente a rischio di infezioni, il paziente
deve essere ricoverato , questa fase dura 20-30 giorni, nella fase di aplasia si
somministrano il fattore di crescita e gli antibiotici e si tiene il paziente controllato e si
aspetta che le cc CD34 che abbiamo somministrato, essendo cellule staminali, vadano a
ripopolare il midollo che è stato distrutto dalla chemioterapia.
Quindi il concetto è:

chemioterapia forte→ distruzione del midollo patologico e anche di quello normale

Se non ci fossero le cellule staminali, che noi iniettiamo, probabilmente il paziente


morirebbe in aplasia per infezioni , invece l’infusione di cellule staminali con capacità di
rigenerare il midollo del paziente, consente al paziente di venir fuori da questa fase di
aplasia e quindi di essere dimesso. Questa procedura può essere fatta anche due volte ,
perché si è visto che, almeno nei pazienti ad alto rischio citogenetico, il fatto di fare un
doppio trapianto dà vantaggio rispetto a farne uno soltanto .
Ci sono vari regimi di induzione: in genere si usa un inibitore del proteosoma (IMiDs e
desametazone).

Non si sa quale di questi regimi sia il migliore, ma è prevista una combinazione a tre
farmaci: IMiDs, Inibitore del proteasoma, desametazone:
La disponibilità di nuovi farmaci particolarmente efficaci ha messo in dubbio l’efficacia del
trapianto: ci si chiede se in presenza di farmaci molto efficaci serva ancora fare il
trapianto.
In realtà tutti gli studi dimostrano ancora oggi che bisogna fare entrambe le cose:
induzione con farmaci attivi ma anche il trapianto e probabilmente bisogna farne due
perché i dati evidenziano che 2 è meglio che uno, soprattutto nei pazienti ad alto rischio,
cioè i pz con alterazioni citogenetiche sfavorevoli all’esordio: delezione del cromosoma 17
o traslocazione 4/14. Dopo il trapianto, per un certo periodo di tempo si è fatta ancora una
terapia di consolidamento, cioè che va ad approfondire ulteriormente il livello di risposta
che si è tenuto con il trapianto. Oggi il consolidamento non viene considerato uno standard
clinico al di fuori degli studi randomizzati o degli studi clinici, quindi sostanzialmente la
procedura è : Induzione → Trapianto, preferibilmente doppio .
Quello che invece è importante è la terapia di Mantenimento , cioè la terapia continuativa
dopo il trapianto, perché oggi questa rappresenta uno standard of care , cioè una
condizione che gli studi clinici hanno dimostrato essere necessaria per mantenere la
risposta ottenuta dopo il trapianto:
METANALISI: studio che mette insieme i risultati di vari studi per vedere se questi portano
tutti allo stesso risultato. La metanalisi di cui sopra ha dimostrato che una terapia di
mantenimento, (in questo caso terapia orale giornaliera con lenalidomide, un
immunomodulatore), è in grado di migliorare

- sia la sopravvivenza globale: curva blu vs curva gialla


- sia la PFS ( Progression Free Survival): curva blu vs curva gialla

Come si può vedere, i pazienti che fanno la terapia continuativa di mantenimento dopo il
trapianto hanno una PFS (in termini di probabilità di sopravvivenza) più che doppia rispetto
a coloro che non la fanno.
Quindi oggi la lenalidomide nel post trapianto è uno standard of care: bisogna farla, è
raccomandato farla per almeno due anni e se il paziente la tollera bene si raccomanda di
farla il più a lungo possibile.
Ci sono altri farmaci che potrebbero essere utilizzati come terapia di mantenimento, ma gli
studi sono ancora in corso.
Abbiamo parlato di pazienti che sono eleggibili per il trapianto. Ma per coloro che non lo
sono, (pazienti anziani, 75-80 anni, ma anche 60-70 anni, che non hanno condizioni fisiche
tali da consentire il trapianto, in genere si tratta di una categoria di pazienti molto
eterogenea), lo standard di trattamento è la combinazione di VMP ( bortezomib, melfalan,
prednisone) o Rd (lenalidomide, desametazone).
VRd invece è uno standard negli USA, ma in Europa non è approvato.
Quindi, prima opzione terapeutica in questi casi : VMP o Rd.
Questo perché si è visto che negli studi clinici i pazienti che facevano una combinazione di
Rd in maniera continuativa avevano una probabilità di prolungare la propria remissione in
maniera continuativa, come per i pazienti giovani.

Quindi le due opzioni sono:

-paziente giovane: terapia di induzione→ trapianto→ mantenimento

-paziente che non si può sottoporre a trapianto: terapia continuativa

Esistono poi tutta una serie di combinazioni con farmaci più recenti, anche anticorpi
monoclonali , per quanto riguarda le cosiddette terapie di salvataggio: paziente che, dopo
la terapia di prima linea , sia essa trapiantologica o meno, recidiva e presenta le
manifestazioni della malattia. Ce ne sono varie :

● Daratumumab-VMP
● Carfilzomib aggiunto ad altri farmaci
● Pomalidomide

Ci sono schemi differenti per la prima o la seconda linea.


Per quanto concerne la scelta della terapia di salvataggio da fare in un paziente recidivato
vanno considerati diversi parametri:

- parametri relativi al paziente: età, performance/fitness, comorbidità, insufficienza


renale, riserva midollare;
- parametri relativi alle caratteristiche della malattia: aggressività, alto rischio
citogenetico, se è una malattia extramidollare, alti livelli di LDH, leucemia
plasmacellulare, il concetto di recidiva clinica vs biochimica, la velocità di
incremento della paraproteina;
- parametri relativi al trattamento precedente: se sono stati utilizzati gli inibitori del
proteosoma, IMids, Alchilanti, se il paziente ha fatto una terapia di mantenimento,
se è ancora eleggibile per il trapianto , qual è stata la sequenza precedente , il grado
di risposta, la durata della risposta, le tossicità (neuropatie per es, per quanto
riguarda gli inibitori del proteosoma , le trombosi per quanto riguarda gli IMIDs, le
tossicità cardiovascolari)

Ma soprattutto ciò che conta è avere i farmaci disponibili: si è parlato infatti di una serie di
farmaci molti dei quali però ancora oggi non sono utilizzabili, pertanto dobbiamo muoverci
nell’ambito delle indicazioni terapeutiche previste oggi per questo tipo di pazienti.
Trapianto Allogenico

● Trapianto da donatore. E’ da considerarsi un’opzione potenzialmente curativa per i


pazienti giovani e con un donatore compatibile.
● Si può fare con dosi ridotte di chemio-radioterapia e un aumento della terapia
immunosoppressiva (mini-allotrapianto) , che hanno consentito di ridurre
significativamente la morbilità e mortalità legate al trattamento, però ha anche
determinato una minore efficacia.
● la GVHD ( graft versus host disease) cronica rimane la principale morbilità e riduce
significativamente la qualità di vita dei pazienti. Si tratta di situazioni in cui la
tossicità, ad esempio dermatologica o gastrointestinale, raggiunge livelli importanti.
● In uno studio randomizzato, condotto nell’era antecedente l’introduzione di nuovi
farmaci, il trapianto allogenico è risultato superiore al trapianto autologo.
● In studi di confronto con l’autologo, la sequenza auto- miniallo (ovvero casi in cui
vengono fatte entrambe le cose, “miniallo” significa trapianto con minori dosi di
chemioterapia), ha prodotto risultati incoraggianti in particolari setting di pazienti.
● In seguito all’introduzione dei nuovi farmaci ed ai risultati con essi ottenuti, il
trapianto allogenico è oggi considerato un’opzione meno attrattiva rispetto al
passato, per la mortalità legata alla procedura e non alla malattia, ed il suo uso è
generalmente sconsigliato al di fuori di protocolli clinici ove sia integrato con l’uso
dei nuovi farmaci o in pazienti giovani selezionati ad altissimo rischio ed con
malattia in recidiva responsiva.

Quindi l’uso del trapianto allogenico nel MM sta riducendo il suo impatto alla luce di
possibilità terapeutiche alternative altrettanto efficaci e meno tossiche.
CAR-T ( Chimeric Antigen Receptor T-cell Therapies for Multiple Myeloma)

Partite nella clinica delle leucemie linfoblastiche dei bambini, si tratta essenzialmente di
una procedura in cui le cellule T del paziente vengono raccolte con un processo di
leucoaferesi, (molto simile a quello delle staminali CD34), vengono ingegnerizzate,
(attraverso l’introduzione di retrovirus o con altre modalità), fatte proliferare e rese attive
specificamente nei confronti delle cellule tumorali del paziente. Queste cellule, dopo
essere state trattate, ingegnerizzate, rese attive, vengono fatte proliferare e poi reiniettate
al paziente, in questo modo la reiniezione di queste CAR-T, queste cellule modificate, è in
grado di andare a distruggere elettivamente le cellule tumorali specifiche del paziente ,
ottenendo risultati importanti. Questo è il futuro dell’immunoterapia.
Decision making nell’era dei nuovi farmaci

Nuove possibilità

● ci muoviamo da combinazioni di 2-3 farmaci a 3-4 farmaci per by-passare la cross-


resistenza legata alle mutazioni che progressivamente insorgono nel paziente con
MM
● gli agenti di nuova generazione hanno aumentato la possibilità di risposta e la
profondità della risposta ottenendo numeri significativi in ambito di negatività della
malattia minima residua e questo ha prolungato la PFS e la sopravvivenza globale
● Si va verso combinazioni di farmaci con meccanismi differenti di azione per evitare
la tossicità cumulativa

Nuove sfide

● Prepararsi a gestire strategie terapeutiche sempre più complesse (immaginiamo le


CAR-T, che, al di là della complessità della procedura in sé, pongono a volte
complicanze come la Sdr da rilascio di citochine , che potrebbe porre la necessità di
ricovero in rianimazione)
● Il trattamento a lungo termine deve essere sperimentato anche con le nuove
generazioni di farmaci
● facendo farmaci nuovi fin dall’inizio bisogna immaginare che avremo a che fare con
resistenze nuove a terapie di seconda e terza generazione e bisogna immaginare
come superare questo tipo di problematica
Domande studenti:

1. La patologia si determina per la trasformazione a livello del linfocita B che si


trasforma in plasmacellula. A livello periferico o midollare?
- Non periferico: Il linfocita incontra l’antigene nel linfonodo o nel tessuto
linfatico, si differenzia, diventa capace di produrre l’anticorpo, poi torna nel
midollo osseo e si differenzia in plasmacellula. E’ questo il motivo per cui la
plasmacellula è presente nel midollo.
N.B Parte il linfocita B dal midollo, orientato in senso B→ va nel sangue
periferico→ nel linfonodo incontra l’antigene→ si avvia il processo di
differenziazione del linfocita B verso una cellula capace di produrre
l’anticorpo specifico per quell’antigene→ in questa fase il linfocita torna nel
midollo→ avendo già subito una eventuale mutazione, a livello del midollo
sviluppa ulteriori mutazioni che poi determinano la comparsa del Mieloma,
prevalentemente a livello midollare, perché, la cellula è già tornata nel
midollo quando diventa neoplastica.

2. Per questo poi abbiamo la condizione di anemia e neutropenia? Per l’infiltrazione


plasmacellulare?
- Esatto. Le plasmacellule proliferano e invadono tutto il midollo, ci sono
midolli con 100% di plasmacellule, e quindi eliminano la normale emopoiesi ,
l’anemia quindi è perché ci sono le infiltrazioni del midollo e anche la
neutropenia e piastrinopenia. Questi non sono gli aspetti principali perché
nella maggior parte dei casi l’infiltrazione del midollo non è massiva però il
motivo per cui c’è anemia è legato all’infiltrazione del midollo. Se è massiva il
paziente avrà anche neutropenia e piastrinopenia, come accade nelle
leucemie acute o in tutte le patologie che infiltrano il midollo e che
sostituiscono quello normale.

3. In questi pazienti VES e PCR le troveremo aumentate ?


- La VES in genere è aumentata ma non perché sia un fatto flogistico ma
perché la presenza della immunoglobulina monoclonale determina per motivi
clinici l’aumento della VES. Las PCR può essere aumentata a prescindere
dalla sua correlazione con un’eventuale infezione perché una delle citochine
che stimola di più la produzione delle cellule mielomatose è l’IL-6, questa è
un fattore di crescita per le plasmacellule. La PCR è un surrogato della IL-6:
quando questa è molto alta aumenta anche la PCR , infatti in passato la PCR
era considerata un parametro prognostico del Mieloma . In genere la VES è
alta , la PCR meno frequentemente.
4. Per il trapianto allogenico di midollo osseo in pz in età pediatrica come mai sono
pochi i centri che lo fanno? Il Policlinico è uno dei pochi centri di riferimento.
- Le patologie neoplastiche dei bambini non sono così frequenti come quelle
degli adulti, per questo spesso i centri che si occupano di oncoematologia non
sono molti, poi, la gestione dei bambini da sottoporre al trapianto allogenico
è molto particolare e presuppone un’expertise importante. In Italia il centro
del professor Locatelli al Bambin Gesù di Roma si occupa del 60-70% dei
trapianti pediatrici in Italia. Quindi è un centro molto grande. Occorre poi
considerare che il numero di pazienti non è molto alto. Quindi: expertise
altamente specifica e non sempre disponibile su tutto il territorio nazionale ;
da Roma in giù ci sono un paio di centri. Inoltre un conto è la Pediatria un
conto è l’Oncoematologia Pediatrica: i pediatri in genere non si occupano di
oncoematologia mentre i Pediatri oncoematologi fanno solo quello.

5. Anche nei pazienti con remissione completa ci può essere recidiva?


- Si. Se ottieni una remissione completa, soprattutto se di buona qualità, cioè
con una malattia minima residua negativa, è meno probabile che ci sia una
recidiva, o per lo meno è più facile che questa avvenga più avanti; però la
remissione completa non ti garantisce la guarigione e la recidiva, anche in pz
con remissione completa è la regola, però più tardiva. Se la remissione
completa è di buona qualità, quindi remissione con mal. min. res. neg. si è
visto che questi pz , una coda di essi, potrebbe non recidivare.

6. CAR-T. Le cellule vengono prima rese attive nei confronti delle cc del pz e poi fatte
proliferare o il contrario ?
- Il pz viene preparato con un trattamento minimo , dopo, le sue cc T normali
vengono prese e ingegnerizzate nei confronti delle cc del pz utilizzando il
materiale del pz stesso, cioè quelle cc CAR-T prese e ingegnerizzate sono
indirizzate specificamente nei confronti delle cc neoplastiche del pz stesso e
questo viene fatto in laboratorio. Le cc vengono prese, portate in laboratorio,
ingegnerizzate tv tecniche di biologia molecolare utilizzando gli Antigeni
presenti sulle cellule del tumore del paziente, vengono fatte proliferare e poi
rimandate al centro per farle somministrarle al pz .
(Gruppo 6. Lezione del 27/10/2020 con il Prof. Musto)

MACROGLOBULINEMIA DI WALDENSTROM
Jan Gösta Waldenstrom nacque nel 1906 e all’età di 37 anni fece una pubblicazione in cui
descrisse questa patologia, la macroglobulinemia di Waldenstrom: questa malattia è simile
ad un mieloma in quanto è caratterizzata da una gammopatia monoclonale che, però, non
è quella tipica del mieloma (ossia IgA o IgG), bensì si tratta, in questo caso, di una IgM;
inoltre, non si comporta essenzialmente come un mieloma e in questo caso si associa ad
una fibrinogenopenia, che non è però sempre riscontrabile. Comunque, l’intuizione di
Waldenstrom fu quella che questa potesse essere una nuova sindrome o una malattia
identificabile come entità nosologica assestante.

Da che cosa è caratterizzata la macroglobulinemia di Waldenstrom? Perché si chiama così?


Si chiama macroglobulinemia perché “macro” significa grande immunoglobulina. Infatti, le
IgM, che sono un anticorpo prodotto dalle plasmacellule, sono molto più grandi rispetto
alle altre globuline, come ad esempio le IgG o IgA, avendo una struttura pentamerica.
Quindi, da un punto di vista molecolare, sia del peso che delle dimensioni, queste IgM
hanno una struttura molto grande e per queste caratteristiche possono dare una
sintomatologia particolare.

Da che cosa è sostenuta questa


patologia? La malattia di
Waldenstrom è sostenuta da una
infiltrazione midollare di cellule
che sono spesso simili alle
plasmacellule del mieloma, avendo
citoplasma basofilo, apparato di
Golgi evidente, cromatina
addensata ed eccentrica. Ma, a
differenza del mieloma, non tutte
le cellule sono uguali. Questo sulla
destra è il quadro citologico
dell’aspirato midollare. La freccia rossa indica una plasmacellula vera e propria, mentre la
freccia gialla indica un linfoplasmocita, ossia una cellula che ha, dal punto di vista
morfologico ma anche da quello funzionale e anatomico, delle caratteristiche intermedie
tra il piccolo linfocita e la plasmacellula. Per la presenza di questi linfoplasmociti, che
hanno caratteristiche nucleari intermedie tra i linfociti e le plasmacellule, la malattia di
Waldenstrom viene anche definita linfoma linfoplasmocitoide, proprio per definire una
caratteristica morfologica che è peculiare di questa patologia. Queste cellule infiltrano
completamente il midollo osseo: infatti, non si vedono altre cellule oltre queste, a parte
questo neutrofilo (freccia nera) e questa mast-cellula (freccia celeste), in quanto la
presenza di mastociti è abbastanza frequente nella valutazione del midollo osseo dei
pazienti con malattia di Waldenstrom. Dunque, i linfoplasmociti, da un lato, producono la
paraproteina ossia l’immunoglobulina monoclonale, mentre, dall’altro, infiltrando
completamente il midollo (ma anche altri organi tra cui i linfonodi), determinano una
insufficienza midollare, quindi chiaramente anemia, leucopenia e altre citopenie.

Questo, invece, è il quadro istologico della


biopsia osteo-midollare in cui l’occhio
esperto di un patologo riesce a identificare
una diffusa infiltrazione da parte di questi
elementi che hanno caratteristiche
morfologiche intermedie tra quelle di una
plasmacellula matura e quelle di un piccolo
linfocita.

Si chiama macroglobulinemia di Waldenstrom perché è una gammopatia monoclonale e,


quindi, in zona gamma si trova il picco monoclonale, così come abbiamo visto per il
mieloma multiplo. Si tratta, però, di una gammopatia monoclonale di tipo IgM-λ in cui, a
differenza di quella del mieloma, la catena pesante è una IgM e quella leggera, in questo
caso, è una lambda (λ), ma sarebbe potuta essere anche κ. Al contrario, se fosse stata una
gammopatia policlonale, la striscetta M (vedi immagine sottostante) sarebbe stata molto
più ampia e fusa e la presenza unica di una banda λ non ci sarebbe stata visto che si
sarebbero osservate
anche catene leggere κ.
Però, in questo caso
specifico, si
intravedono ancora un
po’ di catene leggere κ
e ciò significa che ci
sono ancora un po’ di
immunoglobuline
anche con catene κ.
Comunque,
sostanzialmente, il
quadro è chiaramente
monoclonale.
L’altra caratteristica che si accompagna a una paraproteina di tipo IgM è quella di avere
una componente molto grande sotto il profilo strutturale e questa componente che circola
nel sangue determina, per certi versi, una aggregazione dei globuli rossi. Nell’immagine
sovrastante (“Figure 1” in basso a destra), è possibile vedere dei rouleaux eritrocitari
(normalmente le emazie dovrebbero essere tutte singolarmente distribuite) e questi sono
espressione di un danno alla circolazione del sangue in quanto questa componente
monoclonale, essendo molto grande, può quindi determinare difficoltà a livello della
circolazione periferica con sintomatologia conseguente.

La componente monoclonale di tipo IgM, però, non è presente solo nella


macroglobulinemia di Waldenstrom, ma può esserci anche in altre condizioni diverse.
Innanzitutto, c’è da dire che la presenza di una componente monoclonale IgM non sempre
è espressione di una malattia: infatti, così come abbiamo visto nel mieloma multiplo, in cui
esistono delle fasi precoci che non necessariamente si trasformano in mieloma che si
chiamano gammopatie monoclonali di incerto significato (le cosiddette MGUS di tipo IgA e
IgG), anche per le forme di gammopatia monoclonale IgM esistono delle forme MGUS.
Queste sono caratterizzate essenzialmente da:
 una infiltrazione midollare di linfoplasmociti (e non di plasmacellule come nel
mieloma) inferiore al 10%;
 una quantità di IgM nel siero inferiore a 3 g/dl;
 un’assenza di interessamento di altri organi interessati;
 un’assenza di iperviscosità;
 un’assenza sono assenti i marcatori genetici, che sono, invece, presenti nel
Waldenstrom conclamato;
 un rischio di trasformazione verso una forma conclamata molto basso (1,5% per
anno), forse leggermente più alto di quello delle gammopatie monoclonali di tipo
IgG e IgA.
Come per il mieloma multiplo, anche nell’ambito della presenza delle componenti
monoclonali IgM, esiste una forma intermedia fra l’MGUS IgM e la malattia di
Waldenstrom conclamata: si tratta della cosiddetta forma “smoldering”. Le caratteristiche
di questa forma sono:
 la componente monoclonale è un po’ più grande ed è maggiore di 3 g/dl;
 l’infiltrazione midollare è maggiore del 10%;
 ugualmente mancano tutte quante le caratteristiche cliniche che fanno definire la
malattia conclamata, ossia è assente il danno d’organo, non c’è l’infiltrazione
marcata del midollo, non c’è anemia, non c’è la localizzazione linfonodale e quella
splenica e così via;
 il rischio di trasformazione verso la forma conclamata è 10 volte più grande, ossia
del 12% circa nei primi 5 anni e del 68% a 10 anni.
Quindi, si ripropone allo stesso modo il modello di evoluzione progressiva che abbiamo
identificato nel mieloma multiplo e che, come nel mieloma multiplo, rende conto
dell’esistenza di una forma di gammopatia monoclonale di significato indeterminato e di
una forma smoldering; queste due forme vanno seguite con maggior attenzione ed è
importante identificarle perché nessuna di esse necessita di terapia bensì solo di
osservazione.
Invece, le caratteristiche cliniche che identificano il Waldenstrom conclamato sono:
 un qualunque livello di gammopatia monoclonale;
 una infiltrazione midollare superiore al 10%;
 un interessamento di vari organi, in particolare la milza, i linfonodi e il fegato;
 la sindrome da iperviscosità.
La presenza di questa componente monoclonale molto grande sotto il profilo
molecolare rende conto di una difficoltà della circolazione del sangue. Infatti,
questa iperviscosità del sangue, questa scarsa circolazione, può causare disturbi
soprattutto di tipo neurologico, come ad esempio cefalea, oppure può determinare
l’insorgere di difficoltà nel circolo cerebrale, arrivando addirittura al vero e proprio
coma. In queste situazioni, la plasmaferesi, cioè l’eliminazione artificiale attraverso
una macchina della proteina del sangue, rappresenta un approccio di emergenza.
Un’altra cosa che caratterizza la malattia di Waldenstrom, rispetto alle forme di
gammopatia monoclonale smoldering o di significato indeterminato, è la presenza di un
marcatore genetico che è molto specifico, ossia la mutazione di un gene che si chiama
Myd88. Questa mutazione è presente in circa il 90% dei casi e la presenza di questo
marcatore associato alla valutazione clinica descritta poc’anzi fa diagnosticare una malattia
di Waldenstrom conclamata. Bisogna tener conto che i termini “malattia di Waldenstrom”
e “linfoma linfoplasmocitoide” sono essenzialmente equivalenti: in particolare, se c’è la
componente monoclonale si chiama malattia di Waldenstrom, ma se sono presenti tutti i
segni senza la componente monoclonale si chiama linfoma linfoplasmocitoide, anche se sul
piano biologico si tratta esattamente della stessa malattia. Questa forma di patologia
linfoproliferativa del linfocita B può evolvere verso una forma di linfoma aggressivo e, in
particolare, il 5-10% può trasformarsi in una forma di linfoma diffuso aggressivo a grandi
cellule B, di cui abbiamo parlato la volta precedente.

Se questo è lo spettro di condizioni della malattia di Waldenstrom e dei suoi precursori,


esistono altre condizioni relativamente rare, alcune di più altre meno, che possono
associarsi alla comparsa di una componente monoclonale di tipo IgM in una elettroforesi
proteica. Tra queste troviamo il mieloma IgM, che è molto raro (il mieloma è spesso IgG,
IgA, raramente IgD spesso micromolecolare). Questa forma di mieloma, che è
caratterizzata da una infiltrazione midollare non più di linfoplasmociti ma di plasmacellule
vere e proprie, può avere o non avere le alterazioni citogenomiche tipiche del
Waldenstrom ma, da un punto di vista clinico, si presenta come un mieloma e non come
un Waldenstrom. Per questo motivo, non avrà interessamento linfonodale bensì osseo e,
inoltre, sarà caratterizzato verosimilmente da insufficienza renale e ipercalcemia, cioè da
tutti i segni del mieloma perché in questo caso la noxa ha raggiunto il livello di
plasmacellula matura, non più di linfoplasmocita. Questo determina una manifestazione
specifica che è quella di questo mieloma molto raro, dato che meno dell’1% dei mielomi
sono IgM.

Un’altra condizione che può associarsi ad una componente monoclonale IgM è


l’amiloidosi. Infine, ci sono tutta una serie di situazioni, di altre patologie linfoproliferative,
che possono presentare una componente IgM tra cui troviamo, in particolare, il linfoma
splenico della zona marginale, i MALTomi e in genere i linfomi a basso grado (ad esempio,
il linfoma follicolare può occasionalmente presentare una componente IgM di
accompagnamento). In questi casi, la popolazione linfoide ha mantenuto in sé la capacità
di poter produrre l’immunoglobulina, ma comunque si tratta di patologie che hanno
caratteristiche cliniche e genetiche differenti rispetto alla macroglobulinemia di
Waldenstrom.

Questo schema rinnova quello che è il modello di sviluppo delle patologie


linfoproliferative: il precursore B, che si trova nel midollo osseo, va incontro al processo di
ricombinazione dei frammenti V D e J nell’ambito della produzione delle immunoglobuline.
A questo punto, la cellula B immatura, che esprime sulla sua superficie le IgM, passa nel
sangue periferico e dal sangue si sposta nel centro germinativo dove incontra l’antigene:
quindi, in qualche modo, si
modifica e comincia a
produrre l’immunoglobulina
che sarà specifica verso
quell’antigene. Che cosa
succede nella patologia di
Waldenstrom? Nel momento
in cui, nel centro germinativo
del linfonodo, si ha il passaggio
verso l’ipermutazione
somatica, verso la produzione
di una immunoglobulina e,
quindi, verso la maturazione
della plasmacellula, a questo livello si ha una alterazione dei geni che regolano la
differenziazione verso la plasmacellula: la cellula immatura rimane bloccata a livello di un
linfocita che produce IgM ma che non ha lo switch verso le altre forme di immunoglobuline
IgA, IgG, IgE e IgD. Questa condizione determina un arresto maturativo della proliferazione
e, dunque, l’insorgenza di un clone maligno linfoplasmocitico che sarà in grado di produrre
soltanto la componente monoclonale IgM: si ha la nascita di una paraproteina IgM e perciò
di una patologia IgM associata, che nel momento in cui evidenzia i sintomi clinici diventa
una macroglobulinemia di Waldenstrom.

In realtà, esistono vari tipi di componenti monoclonali IgM ed esistono anche differenti tipi
di malattie di Waldenstrom. Infatti, i pazienti sono solitamente divisi in quattro gruppi:

1. Ci sono i pazienti con le forme MGUS IgM che non sono un vero e proprio
Waldenstrom e che sono caratterizzate da bassi livelli di infiltrazione midollare di
linfoplasmociti inferiore al 10% e da una quantità di IgM nel siero inferiore a 3
g/dl.
2. Ci sono i pazienti con le forme smoldering, caratterizzate da un’infiltrazione
midollare superiore al 10% e da una quantità di IgM nel siero superiore a 3 g/dl,
ma questi pazienti non hanno sintomi o segni di infiltrazione midollare o sintomi
legati alla componente M (come nella sindrome di iperviscosità).
3. Vi è un ulteriore gruppo di pazienti che ha manifestazioni cliniche legate
all’infiltrazione della componente monoclonale a livello midollare ma anche a
livello del midollo osseo, del fegato, della milza e dei linfonodi comportando
l’insorgenza con un linfoma linfoplasmocitico, causando anemia, iperviscosità,
epatosplenomegalia e significanti adenopatie. Quando tutto questo è presente,
si parla di macroglobulinemia di Waldenstrom, quindi di una malattia
clinicamente rilevante.
4. Esiste poi un gruppo di pazienti in cui i sintomi non sono legati né alle cellule
neoplastiche e alla loro infiltrazione nei vari tessuti né direttamente alla entità
della componente M, bensì alla funzione della componente M. Tutto ciò perché
l’IgM è un anticorpo e ci sono delle peculiari situazioni in cui la presenza di
questo anticorpo di per sé determina sindromi cliniche particolari, tra cui
troviamo la crioglobulinemia (è quella situazione in cui l’immunoglobulina
precipita a temperature basse e determina difficoltà di circolazione a livello
periferico del sangue, potendo causare anche eventi ischemici legati al mancato
arrivo dell’ossigeno ai tessuti), la malattia emolitica da proteine fredde, alcune
neuropatie periferiche associate alla gammopatia monoclonale IgM, l’amiloidosi
e la sindrome POEMS. Questo che cosa significa? Significa che, a prescindere
dalla sua entità, è la componente monoclonale IgM che ha un’attività specifica e
che può precipitare a livello periferico determinando:
 difficoltà di circolazione, soprattutto quando l’organismo viene esposto al
freddo;
 una anemia emolitica in funzione della sua attività anticorpale;
 può avere una tossicità diretta sui nervi, in particolare sui neuroni
periferici;
 amiloidosi;
 la sindrome POEMS, che è caratterizzata essenzialmente dalla presenza di
sindromi cutanee, endocrinopatie, organomegalie e paraproteinemie.
Quindi, esiste uno spettro di situazioni differenti che vanno da condizioni asintomatiche a
situazioni sintomatiche per l’infiltrazione oppure situazioni sintomatiche per le
caratteristiche funzionali di questa proteina IgM in cui, magari, il paziente non ha né
linfoma né infiltrazione né grandi livelli di componente monoclonale, ma tale componente
monoclonale è dannosa perché funzionalmente attacca alcuni tessuti o determina alcune
condizioni che possono essere particolarmente difficili da curare. Pertanto, ci troviamo di
fronte ad una situazione molto eterogenea associata alla presenza della componente M
che, a seconda del fatto che prevalga la parte clinica del linfoma o la parte clinica delle
complicanze dell’attività dell’IgM monoclonale, può essere molto differente.
Questa immagine (vedi sotto) è molto complessa e, per questo, non ve la descrivo tutta, ma
l’ho inserita solo per ricordarvi ancora una volta che esiste una mutazione specifica a livello
del cosiddetto Toll-like receptor 4 del gene Myd88, gene che ha molta importanza nella
trasmissione del segnale dal citoplasma al nucleo, e che nella malattia di Waldenstrom è
mutato nel circa il 90% dei casi. Per questo motivo, questa mutazione è considerata un
marcatore genetico abbastanza caratteristico di questa patologia (ossia, se un paziente ha
una gammopatia monoclonale IgM e una mutazione di Myd88 è quasi certo che abbia la
malattia di Waldenstrom) ed è pure importante da un punto di vista prognostico in quanto
può esserci anche una differenza di comportamento nel tempo a seconda che il paziente
presenta o meno questa mutazione e, in base a ciò, potrà essere anche differente la
risposta alla terapia.

Fino ad ora, è stato descritto lo spettro di situazioni correlate alla presenza di una
componente monoclonale IgM (λ o κ che sia) e si è visto che ci sono molte condizioni che
possono essere associate a questa situazione, che vanno da condizioni del tutto
asintomatiche a situazioni simil-linfoma. Inoltre, il linfoma linfoplasmocitoide o la malattia
di Waldenstrom sono considerati dei linfomi a basso grado di malignità proprio perché è
difficile eradicarli, ma il paziente molto spesso riesce a convivere con questa patologia.
Dunque, la parte dell’inquadramento è stata così completata.

 Terapia

A questo punto, è bene fare qualche cenno di terapia per capire come trattare i pazienti
che hanno una macroglobulinemia di Waldenstrom diagnosticata.

Intanto, i pazienti con MGUS IgM sono asintomatici e, dal momento che hanno valori di
emoglobina superiori a 11 g/dl e un numero di piastrine maggiore di 120x10^9/L, non
vanno trattati bensì vanno solo tenuti sotto osservazione.
Invece, nelle forme intermedie, i pazienti possono presentare un quadro di anemia (<11
g/dl) e piastrinopenia (<120x10^9/L) moderate oppure possono essere presenti situazioni
legate all’attività funzionale dell’IgM quali, ad esempio, la neuropatia oppure l’anemia
emolitica associata alla presenza di una paraproteina oppure la crioglobulinemia. In questo
caso, si utilizzano terapie immunosoppressive: il Rituximab è l’anticorpo monoclonale anti-
CD20 che viene usato sostanzialmente in tutte le patologie linfoproliferative del linfocita B
in quanto quest’ultimo esprime costituzionalmente l’antigene CD20. Dunque, il Rituximab
può essere una buona opportunità terapeutica per curare queste complicazioni legate alla
presenza di una malattia monoclonale.

Infine, nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una condizione di Waldenstrom conclamata, il
paziente potrà presentare marcata citopenia (Hb<10 g/dl; piastrine<100x10^9/L),
interessamento di linfonodi, milza e fegato e sintomi costituzionali, che abbiamo già visto
anche negli altri tipi di linfomi, come la perdita di peso, la sudorazione, la febbricola e il
prurito. Inoltre, se il paziente presenta anche la sindrome da iperviscosità e quindi questi
segni di mal circolazione, soprattutto a livello encefalico (può addirittura arrivare fino al
coma), è necessario effettuare la plasmaferesi. La plasmaferesi è una procedura, simile alla
dialisi, che permette alla macchina alla quale viene collegato il paziente di far passare il
sangue dal paziente al suo interno in modo tale da eliminare le IgM in eccesso che, a causa
delle loro dimensioni, determinano difficoltà circolatorie, per poi rimettere il plasma
normale al paziente stesso. Quindi, si tratta di una situazione di emergenza ed è per questo
motivo che, quando il paziente si presenta con una sindrome da iperviscosità, bisogna
curare innanzitutto tale condizione, prima di qualsiasi altra terapia. Dopo aver fatto una
plasmaferesi (o anche senza averla fatta qualora i sintomi dell’iperviscosità non ci siano), si
utilizza uno schema di chemio-immunoterapia, un po’ come si fa con gli altri tipi di linfomi:
in questo caso lo schema che viene utilizzato, molto più frequentemente ma ne esistono
anche altri, è la combinazione di Bendamustina e Rituximab. Normalmente, si fanno 4-6
cicli di questo trattamento chemio-immunoterapico e non è necessario, al contrario di
come, ad esempio, accade nel linfoma follicolare, una terapia immunologica con Rituximab
di mantenimento nel tempo (nel linfoma follicolare si fa una terapia di mantenimento di 2
anni somministrando il farmaco ogni 3 mesi). Inoltre, nei pazienti che hanno meno di 70
anni e che possono presentare, in prospettiva, una aspettativa di vita importante oppure
nei pazienti che hanno avuto una malattia importante che ha risposto bene alla terapia, si
può fare la raccolta delle cellule e procedere ad un trapianto autologo di cellule staminali.
Bisogna tener comunque conto che questi son pazienti che sono molto spesso anziani (la
media dell’età è di circa 70 anni), però esiste un gruppo selezionato di pazienti che può
beneficiare non in prima linea, ma magari dopo un trattamento di salvataggio, del
trapianto autologo delle cellule staminali. In queste settimane, abbiamo pubblicato, con un
gruppo di Pavia, un lavoro in cui si dimostra che questi pazienti che vengono sottoposti al
trapianto in età più bassa, più giovanile, hanno una prognosi particolarmente buona, dato
che rispondono molto bene a queste procedure.

Lo schema terapeutico
appena descritto è stato
recentemente integrato sulla
base anche della possibilità
di avere un’idea di terapia
differente nel caso ci sia o
non ci sia la mutazione di
Myd88. Nei pazienti naive,
cioè quelli sintomatici ma
che non hanno mai fatto
terapia precedentemente,
bisogna prima valutare se c’è
iperviscosità (e in caso
positivo si effettua la
plasmaferesi prima di tutto) e, successivamente, si valuta lo stato di Myd88: se c’è la
mutazione L265P si può optare per un trattamento a base di Bendamustina e Rituximab
oppure di Rituximab + ciclofosfamide + desametasone oppure ancora di Bendamustina +
desametasone + Rituximab. Ma, recentemente, si è dimostrato che l’Ibrutinib, che è un
farmaco a target molecolare sul BCR e sulla Bruton’s tyrosine kinase (che vedremo più
avanti nella leucemia linfatica cronica), è molto attivo e può essere usato in combinazione
con il Rituximab, specialmente se è presente la mutazione di Myd88. Questa sembrerebbe
essere la combinazione più efficace.

Ovviamente, come in tutte le patologie neoplastiche linfoproliferative, ci si può trovare di


fronte ad un paziente che magari ha risposto bene alla terapia di prima linea, però, poi la
malattia recidiva. E, allora, qual è l’opzione che si può seguire? Innanzitutto, si verifica che
tipo di risposta c’è stata e, soprattutto, quant’è durata tale risposta: ad esempio, se la
risposta è stata positiva ed è durata più di tre anni, significa che il paziente ha risposto
bene alla terapia che era stata praticata in prima linea e, quindi, si può considerare di rifare
la terapia originaria applicata all’esordio. Se, invece, la recidiva è più precoce e la malattia
ricompare prima di tre anni, si cambia l’approccio terapeutico rispetto a quello che era
stato utilizzato precedentemente: quindi, l’Ibrutinib se non è stato utilizzato in prima linea;
la combinazione di Bendamustina, desametasone e Rituximab se non c’è una neuropatia
periferica oppure la combinazione di desametasone, ciclofosfamide e rituximab oppure
ancora Bendamustina e Rituximab come terapia di salvataggio, sempre se non è stata
questa la terapia di prima linea. Quindi, è necessario cambiare lo schema chemioterapico.
Inoltre, come già detto precedentemente, se il paziente è giovane (per “giovane” si
intende anche 60-65 anni), è in buone condizioni ed è in grado di tollerare una procedura
trapiantologica, il trapianto autologo di cellule staminali, nei termini che abbiamo visto
nelle lezioni precedenti sia per il mieloma che per il linfoma, è un’opzione terapeutica che
può essere considerata. E, nella nostra esperienza, è anche un’opzione terapeutica
abbastanza efficace.

Questo, invece, è l’approccio terapeutico che può essere considerato nei pazienti che
hanno quelle condizioni legate all’attività funzionale della paraproteina ma che non hanno
l’espressione linfomatosa della malattia. Se questi pazienti non hanno situazioni importanti
clinicamente e,
soprattutto, se non
presentano amiloidosi o
un’organomeglia
importante, se non è
presente un’anemia o
un sanguinamento (che
può essere legato sia alle
piastrine basse che al
quadro della sindrome
da iperviscosità), essi
vanno soltanto
monitorati con delle
osservazioni periodiche.

Se, invece, il paziente è sintomatico non per le masse tumorali bensì perché ha una
patologia legata alla presenza della paraproteina, tipo la fibroglobulinemia, l’emolisi da
agglutinine fredde o la neuropatia, come è stato detto precedentemente, si fa il trial con il
Rituximab, ossia si prova ad utilizzare una terapia immunosoppressiva.

Laddove invece ci siano delle situazioni più complesse, come una amiloidosi o la sindrome
POEMS, è chiaro che, anche se non c’è la patologia linfomatosa ma c’è solo la patologia di
accompagnamento all’attività dell’IgM, la valutazione per un trapianto autologo deve
essere effettuata.

Da un punto di vista terapeutico, ci sono ovviamente una serie di nuovi farmaci che
possono essere in qualche modo considerati e che vanno a colpire diversi target.
Nell’immagine sottostante è possibile osservare uno schema molto complesso di ciò che
accade all’interno della cellula, in cui ci sono varie vie metaboliche che possono essere
colpite: ad esempio, gli inibitori di DDL1 possono essere utili; oppure le CAR T-cells
possono essere un’opzione contro il CD19, in forma assolutamente sperimentale;
l’Ibrutinib è, come già detto, il farmaco che normalmente viene utilizzato oggi, soprattutto
nei pazienti che hanno la mutazione di Myd88; un altro farmaco che può avere un suo
razionale utilizzo è il Bortezomib, utilizzato nel mieloma, il quale è un inibitore del
proteasoma e rappresenta una possibile opzione nei pazienti che, appunto, non hanno
risposto alle terapie precedenti.

Domanda studente: “Il Toll-like receptor 4 su quali cellule, oltre ai macrofagi, è presente?”

Risposta Professore: “Il TLR4 è un recettore ubiquitario presente su tutte le cellule con
espressione differenziata, però, in particolare, si trova sui linfociti B. Esso rappresenta un
recettore che trasmette all’interno del nucleo i segnali di trascrizione che vengono dagli
stimoli esterni e a valle del TLR4 c’è questo gene che regola la trasmissione del segnale
stesso. La mutazione di Myd88 determina quel blocco maturativo a livello di una cellula che
produrrà così soltanto un anticorpo IgM, senza che ci sia la possibilità dello switch isotipico.
Nel caso specifico della malattia di Waldenstrom, la caratteristica principale non è
l’assenza o la presenza del TLR ma l’assenza o la presenza della mutazione di Myd88, che è
un regolatore dell’attività del TLR.
(Gruppo 6, Lezione del 27/10/20 del Prof. Musto)

LEUCEMIA LINFATICA CRONICA


È la forma leucemica di patologia linfoproliferativa a linfociti B più frequente del mondo
occidentale. Si tratta di un disordine linfoproliferativo cronico, si tratta di una espansione
clonale di linfociti B che esprimono il marcatore (che in genere è un marcatore T) CD5. La
principale espressione clinica di questa malattia è quella di essere localizzata nel sangue
periferico del midollo, dei linfonodi e della milza. Le localizzazione in altri organi sono rare
alla diagnosi ma possono essere più frequenti nelle fasi avanzate e soprattutto c’è un
decorso clinico assolutamente eterogeneo, ci sono pazienti che vivranno con questa
malattia per tutta la loro vita senza fare terapia, pazienti che faranno terapia e (poiché
rispondono bene ) terranno sotto controllo la malattia, e pazienti in cui la terapia non avrà
effetto e la patologia potrà evolvere in forme linfoproliferative più aggressive (come il
linfoma diffuso a grandi cellule e la sindrome di Richter). Alla luce di ciò la gestione di
questi pazienti è molto complessa in quanto deve tener conto della gestione di molti
parametri clinici e biologici del paziente e della malattia (per questo il decorso clinico della
malattia è molto eterogeneo). L’ incidenza è 4 su 100000 per anno ed è più frequente nei
maschi bianchi con età superiore ai 75 anni, circa il 10 per 100 ha meno di 55 anni e circa il
2 per 100 ha meno di 45 anni. I principali fattori di rischio sono: storia familiare di patologia
linfoide e di alcuni marcatori genetici che predispongono a questo tipo di patologia. Ci
sono altre forme di patologie linfoproliferative come: la leucemia prolinfocitica, la
leucemia a cellule capellute, il linfoma a cellule villose periferico della milza o linfoma
marginale e il linfoma non Hodgkin in fase leucemica. Si fa diagnosi differenziale anche con
i linfomi della linea T per cui non è sufficiente la morfologia per fare la diagnosi, ma è
necessaria la caratterizzazione fenotipica, genetica e l’istologia.

Lo schema riassume la leucemia linfatica cronica. La cellula B nel centro germinativo


subisce una ipermutazione somatica, viene attivato il BCR a seguito di queste
ipermutazioni, successivamente la cellula B interrompe la sua differenziazione
(ibernazione) e si forma un clone che può avere due caratteristiche: può avere il recettore
per le immunoglobuline mutato (se è più avanti nella differenziazione) oppure averlo non
mutato. Un fattore importante che determina lo sviluppo della leucemia linfatica cronica è
l’eterogeneità dei cambiamenti che possono portare al suo sviluppo. Negli ultimi anni è
stato scoperto che alcuni tipi di antigene possono favorire lo sviluppo della malattia, come
il caso dell’helicobacter pylori nei linfomi dello stomaco. Alcuni antigeni in particolare
sembrano essere coinvolti come il citomegalovirus e il virus di Epstain-Barr. Ci sono anche
tutta una serie di alterazioni genetiche: instabilità genetica (accorciamento dei telomeri),
alterazioni cromosomiche (del cromosoma 13, trisomie del 12, patologia del 17p),
alterazioni molecolari (mutazioni di Tp53, ATM, SF3P1, NOTCH 1-2). Alcune di queste,
come la delezione del braccio lungo del cromosoma 17 o le mutazioni di tp53, hanno una
prognosi particolarmente sfavorevole. Tutte queste condizioni insieme alle interazioni col
microambiente (con cellule non linfoidi) determinano il fenotipo clinico e le manifestazioni
clinico-patologiche della malattia. Le patologie cromosomiche possono essere presenti in
quantità e forma diversa a seconda che si tratti di uno stadio iniziale della malattia o meno.
Le alterazioni che danno una prognosi più negativa si ritrovano nelle fasi più avanzate della
patologia oppure in caso si abbia un tipo particolarmente resistente alla terapia. Più
mutazioni ci sono a prognosi negativa più è severa la prognosi di questi pazienti. In quanto
tutte queste mutazioni sono coinvolte nelle vie metaboliche che riguardano il segnale del
BCR e la sua differenziazione. La leucemia linfatica cronica si presenta con piccoli linfociti
con cromatina addensata e scarsa rima citoplasmatica. Ci possono essere anche dei pro-
linfociti che sono associati ad una prognosi peggiore. Un’altra caratteristica è la presenza di
alcune forme colorate nello striscio periferico che rappresentano dei nuclei distrutti (dallo
striscio stesso), sono dei residui cellulari che si chiamano ombre di Gumprecht. Se le cellule
simil blastiche (cellule grandi con rima citoplasmatica ampia e con dei nucleoli visibili)

prevalgono allora si parla di leucemia prolinfocitica, che è una variante più aggressiva. Poi
bisogna considerare la leucemia a cellule capellute che ha come tratto distintivo delle
estroflessioni citoplasmatiche (simili a dei capelli) che ha caratteristiche genetiche e
cromosomiche peculiari. La leucemia linfatica cronica si presenta con un aumento dei
linfociti e qualche volta anemie e piastrinopenie. Spesso la diagnosi è occasionale in
quanto si va a fare un emocromo per altre ragioni come un malessere generale oppure per
eccessiva stanchezza. La formula leucocitaria presenta un eccesso di linfociti. Nelle forme
più lievi o intermedie nonostante l’aumento dei linfociti (anche 84 % della formula)
l’emoglobina e le piastrine sono normali. Nelle forme più avanzate si ha un forte aumento
dei globuli bianchi (anche 160000), l’emoglobina cala (meno di 10 g/dl) e anche le piastrine
(meno di 95000). Questo quadro va sicuramente trattato.

Altri quadri clinici di presentazione sono, ad esempio, determinati da una linfocitosi


modesta (con 30000 globuli bianchi) ma ci può essere un’anemia importante, una
adenopatia. Oppure si può avere un quadro dove la componente anemica prevale ed è
legata ad una anemia emolitica autoimmune, le cellule della leucemia linfatica cronica
possono produrre anticorpi che legano i globuli rossi dando una anemia emolitica
autoimmune. In questo caso avremo un sub-ittero oppure un ittero franco, test di Coombs
positivo, reticolociti alti, LDH 1/2 alto. L’anemia emolitica autoimmune è spesso frequente
nei pazienti con leucemia linfatica cronica. La diagnosi differenziale si basa sulla morfologia
delle cellule linfocitarie, sul fenotipo di queste ultime per distinguere le linfocitosi
monoclonali da quelle reattive. Aumenti delle cellule linfocitarie si possono avere in caso di
infezioni da CMV, EBV, brucellosi, toxoplasmosi, condizioni fisiologiche (linfocitosi nei
bambini). In questi casi la morfologia delle cellule linfocitarie è diversa dalla leucemia
linfatica cronica e la linfocitosi è policlonale. L’immunofenotipo è CD5 positivi nei linfociti
B. ci possono essere casi di linfocitosi monoclonale non da leucemia linfatica cronica come
il linfoma mantellare, linfoma follicolare, il linfoma splenico. Queste però hanno fenotipo
diverso.

In questa slide si utilizza il citofluorimetro per analizzare il fenotipo delle cellule di diverse
patologie linfatiche tra cui la leucemia linfatica cronica. In questa sono espressi in
particolare il CD200, CD23 e il CD5 (normalmente espresso sui linfociti T) ed espressione
bassa di immunoglobuline. Si fa diagnosi di leucemia linfatica cronica se c’è una conta di
linfociti superiore a 5000 (altrimenti si parla di linfocitosi monoclonale) e quando c’è un
aumento dei linfociti clonali a livello del midollo più del 30%. Si tiene conto anche
dell’immunofenotipo. Se ci sono dei linfonodi importanti e l’istologia è la leucemia linfatica
cronica, il patologo lo definirà linfoma linfocitico. Il linfoma linfocitico è una forma in cui
manca la linfocitosi periferica. Dal punto di vista clinico e terapeutico si tratta di due
condizioni sovrapponibili. Quando dobbiamo fare diagnosi di leucemia linfatica cronica
dobbiamo fare una anamnesi accurata (se ci sono sintomi come stanchezza, febbre,
sudorazione, dimagrimento, prurito, infezioni pregresse, pregresse anemizzazioni
espressione di una emolisi, valutazione superficiale dei linfonodi superficiali, del fegato e
della milza), ecografia del torace e addominale, raramente si fa una TAC (in quanto non
aggiunge moltissimo), si deve fare un profilo biochimico per funzionalità renale, epatica
(bilirubina, enzimi epatici), LDH, test di Coombs, si fa un emocromo, inoltre si fa una
elettroforesi proteica (i pazienti solitamente hanno una ipogammaglobulinemia e quindi
particolarmente suscettibili alle infezioni). Dopo aver fatto la diagnosi bisogna stadiare la
malattia. La stadiazione si fa secondo due sistemi: di Rai e di Binet.

Nel sistema di Rai che è a 5 parametri abbiamo: nello stadio 0 solo la linfocitosi; nello
stadio 1 ci sono le linfoadenopatie; nello stadio 2 ci sono anche splenomegalia e/o
epatomegalia; nello stadio 3 è presente anemia e nello stadio 4 trombocitopenia. In
genere lo stadio 1-2 e 3-4 sono accorpati. Per lo stadio 0 la sopravvivenza è 10 anni, per lo
stadio 1-2 è 7 anni e per le forme ad alto rischio a volte può essere inferiore ad un anno ma
non più di 4 anni. Nella classificazione di Binet abbiamo: stadio A con meno di 3 aree di
adenopatia senza anemia e trombocitopenia; lo stadio B ha più di 3 aree coinvolte da
adenopatia e non ha anemia e trombocitopenia; lo stadio C presenta anche anemia e
trombocitopenia con emoglobina inferiore a 10 g e piastrine inferiori a 100000. Lo stadio A
ha sopravvivenza a 10-12 anni, lo stadio B a 7 anni e lo stadio C a 2-4 anni. Molto spesso
sono assenti sintomi e segni, sono frequenti le linfoadenopatie, splenomegalia. In caso di
anemia è presente l’ittero. In caso di piastrinopenia ci può essere insufficienza midollare o
fenomeni emorragici. Anche la piastrinopenia ha eziologia autoimmune. Ci possono essere
localizzazioni extralinfonodali che possono interessare la cute e l’apparato digerente. In
questi pazienti le infezioni sono molto ricorrenti a causa del basso numero di neutrofili
(dovuto alla linfocitosi) e alla ipogammaglobulinemia.

L’evoluzione della malattia nelle forme più gravi può avvenire nel corso di molti anni. I
pazienti solitamente convivono con la malattia, in altri casi vengono trattati in maniera
blanda finché la malattia non si evolve e quindi i trattamenti diventano più intensi oppure
il paziente, ancora oggi, può andare in contro a morte (soprattutto per infezioni o
evoluzione in forme aggressive di forme linfoproliferative). L’evoluzione più frequente è
l’evoluzione in linfoma diffuso a grandi cellule oppure in leucemia prolinfocitica (raro). Può
evolvere nella sindrome di Richter (linfoma diffuso a grandi cellule molto aggressivo) che
presenta adenopatie massive, sintomi sistemici, versamenti pleurici e addominali,
cachessia e solitamente il paziente muore per patologia linfoproliferativa in progressione.
Le indicazioni al trattamento sono: il tempo di raddoppiamento (se il numero di globuli
bianchi si raddoppia rispetto ad un controllo di 6 mesi precedenti, in base anche al numero
iniziale di linfociti); in stadi avanzati 3-4 di Rai oppure C di Binet; in caso di passaggio
repentino ad uno stadio più avanzato; se ci sono adenopatie oppure una milza ingrossata
che diventa sempre più grande; presenza di una anemia emolitica autoimmune e una
piastrinopenia autoimmune resistenti alle terapie convenzionali (cortisone); la presenza di
sindromi sistemiche e in presenza di grandi linfocitosi superiori a 300000. Tuttavia,
quest’ultimo dato da solo non basta ad iniziare il trattamento di solito pazienti con
linfocitosi così elevate si tengono in osservazione. La leucemia linfatica cronica fino a poco
tempo fa si trattava in maniera molto semplice con un farmaco chiamato clorambucile,
utilizzato con dosaggi variabili. Lo scenario terapeutico è molto cambiato egli ultimi anni. Si
utilizzano anticorpi anti-CD20 in associazione al clorambucile e ad altri farmaci. Si utilizzano
inibitori del BCR e simili come ibrutinib e idelaisib (inibitori della PI3K e altre molecole
importanti nello sviluppo e nella proliferazione cellulare). C’è anche il ventoclax che è un
inibitore di Bcl-2 e quindi favorisce la morte cellulare delle cellule della leucemia linfatica
cronica. La terapia di prima linea con pazienti in stadio Binet A-B o in stadio Rai 1-2 è
attendere poiché non ci sono i presupposti per il trattamento. Per i pazienti con Binet C e
Rai 3-4 la prima cosa che si fa è valutare la mutazione di tp53, se la mutazione non c’è si
vede se c’è lo stato mutato delle immunoglobuline, se sono mutate si fa una
immunochemioterapia con fludarabina, ciclofosfammide e rituximab oppure con
bendamustine e rituximab. Questo se i pazienti sono inferiori a 65 anni o superiori a 65
anni che sono fit. Se i pazienti non hanno questi requisiti di fitness, si usa clorambucil
insieme ad un anticorpo monoclonale anti-CD20. Per i pazienti non mutati il trattamento di
elezione è l’ibrutinib (inibitore della tirosin-chinasi di Bruton) per i pazienti con una fitness
adeguata, per quelli che non ce l’hanno si utilizza il venetoclax con un anticorpo anti-CD20
oppure l’ibrutinib con anticorpo anti-CD20. Se invece il tp53 è mutato
l’immunochemioterapia e altri trattamenti non funzionano, perciò bisogna partire con
l’ibrutinib e il venetoclax oppure con l’idelaisb in associazione al rituximab, poiché questi
farmaci sono in grado di superare il fattore prognostico negativo determinato dalla
mutazione di tp53. Alcune di queste terapie sono a lungo termine, altre no, altre possono
determinare immunosoppressione ed infezioni, altre tossicità cardiache, emorragie
(ibrutinib). Sempre con gli stessi farmaci si possono determinare linee di terapia successiva
alla prima fino alla quarta linea di trattamento.

LEUCEMIA PLASMACELLULARE
Non è una malattia molto conosciuta. Questa forma di leucemia è stata descritta molti anni
fa. Si osservano nel sangue periferico eritroblasti e plasmacellule immature. All’inizio si
utilizzava l’arsenico contro la malattia e spesso il paziente moriva dopo sei mesi dalla
diagnosi della malattia. La leucemia plasmacellulare è la fase terminale di quel processo

continuo di alterazioni e mutazioni genetiche che passa dalla cellula normale, al mieloma
sintomatico fino alla leucemia plasmacellulare, attraverso un processo di selezione
competitiva di tipo darwiniano. È una malattia molto rara rappresenta meno dell’1% di
tutti i mielomi. La diagnosi di leucemia plasmacellulare può essere fatta se c’è almeno il
20% delle plasmacellule circolanti nel plasma periferico con almeno 2000/microlitro di
cellule clonali plasmacellulari. Esiste una forma primitiva che rappresenta più della metà
delle forme e che compare de novo con una fase già avanzata saltando la acquisizione
delle diverse mutazioni. Ci sono delle forme secondarie con caratteristica evoluzione
progressiva nel tempo di pazienti in cui è stato già diagnosticato un mieloma multiplo e che
ha una mediana di sopravvivenza molto bassa che si misura in settimane. Si distingue la
leucemia plasmacellulare primitiva dal mieloma extra midollare che per definizione
esclude una disseminazione periferica di plasmacellule. Questo concetto del numero di
plasmacellule utilizzato per fare la diagnosi è oggetto di ampia revisione, alcuni gruppi
hanno dimostrato che mielomi che hanno un numero anche inferiore al 20% di
plasmacellule circolanti si comportano come una leucemia plasmacellulare. Si pensa di
portare il livello di plasmacellule al 5%. La leucemia plasmacellulare è una gammopatia
monoclonale. I pazienti con leucemia plasmacellulare son solitamente più giovani di quelli
che hanno il mieloma di almeno di una decina di anni (60 anni e 70 anni), l’anemia e la
trombocitopenia sono più frequenti che nel mieloma così come lo sono la produzione di
immunoglobuline particolari, il coinvolgimento renale ed extra midollare( linfonodi, milza,
pelle, SNC,)sono più frequenti che nel mieloma, i livelli di LDH sono più elevati che nel
mieloma e l’ipercalcemia è più frequente, l’interessamento osseo invece è più frequente
nel mieloma. L’aspetto morfologico è quello di plasmoblasti e quindi più indifferenziato
rispetto alle normali plasmacellule e la loro attività proliferativa è più elevata rispetto al
mieloma multiplo. I parametri prognostici sono: LDH, beta2-microglobulina, albumina,
ipercalcemia, incremento di attività proliferativa, la citogenetica. I fattori elencati possono
essere presenti anche nel mieloma ma sono più frequenti nella leucemia plasmacellulare. Il
fattore prognostico più importante resta il trattamento, i pazienti che sono resistenti alla
terapia di prima linea hanno la prognosi peggiore. Dal punto di vista immunofenotipico le
plasmacellule presentano il CD20 che non si riscontra nel mieloma così come il CD117. Il
CD56 è meno frequente nella leucemia plasmacellulare rispetto al mieloma multiplo.
Questa slide mostra quelle che sono le
alterazioni citogenetiche più frequenti
nella leucemia plasmacellulare e sono
sostanzialmente le stesse del mieloma
multiplo ma implicate con percentuali
differenti. Ad esempio l'iperdiploidia,
ovvero un aumento consistente del
numero dei cromosomi, nelle
leucemie plasmacellulari è meno
frequente rispetto al mieloma multiplo: essendo l'iperdiploidia un parametro prognostico
favorevole il fatto che non ci sia nella leucemia plasmacellulare rende questa malattia
maggiormente critica. Spesso sono presenti alterazioni del 13, ipodiploidia, traslocazioni
tipiche del mieloma in particolar modo la 11-14. Le alterazioni del cromosoma 17,
alterazioni complesse del cariotipo, il coinvolgimento del cromosoma 1, tutti parametri
prognostici negativi nel mieloma multiplo, sono più frequenti nella leucemia
plasmacellulare. Quindi anche in questo caso parametri di prognosi sfavorevole sono più
frequenti nella leucemia plasmacellulare e questo rende la prognosi particolarmente
sfavorevole in questi pz.

Qui vedete per esempio un cariotipo


ipodiploide con monosomia del
13,14,19,20, una duplicazione del
cromosoma 1, una traslocazione 11 14
e una delezione del 17: queste sono
caratteristiche abbastanza tipiche
della leucemia plasmacellulare sotto il
profilo cariotipico.
Sotto il profilo della frequenza delle
mutazioni, tra i geni più coinvolti e
quelli che hanno delle differenze
rispetto al mieloma multiplo sono
p53 che ancora una volta è un
marcatore prognostico negativo, DIS3
e BRAF che hanno una frequenza
maggiore nella leucemia
plasmacellulare rispetto al mieloma
multiplo. Esiste quindi la possibilità di differenziare le leucemie plasmacellulare dal
mieloma multiplo anche sulla base del profilo mutazionale e andando a valutare con
tecniche più avanzate come ad esempio Next Gene Sequencing o Whole Exome
Sequencing.

Analizzando le casistiche mediche degli anni 80-90-primi anni 2000 (casistiche


numericamente limitate perché si tratta di una patologia molto rara) si osserva che la
probabilità di risposta alle terapie standard di questi pz è molto bassa, meno del 50%, con
una sopravvivenza mediana di 4-8 mesi. Oggi la sopravvivenza del mieloma va dai 5 ai 7
anni quindi nonostante ci troviamo di fronte ad una variante del mieloma si tratta di
un’entità nosologica molto più sfavorevole. I miglioramenti che si sono osservati in termini
di overall survival nel mieloma non sono stati osservati invece nella leucemia
plasmacellulare in cui la sopravvivenza mediana risulta essere molto bassa fino al 2004.

La situazione è un po' cambiata


quando nella valutazioni che
sono state effettuate
successivamente fino al 2009,
anni molto importanti in quanto
sono stati implementati due
procedure: il trapianto autologo
di cellule staminali e dei farmaci
di nuova introduzione nonché il
bortezomib (inibitore del
proteasoma) e gli IMiDs. L'introduzione di queste procedure ha avuto un impatto sulla
prognosi perché la sopravvivenza mediana è raddoppiata, è passata dai 6 mesi ai 12 mesi
soprattutto nei soggetti di età superiore ai 65 anni questo perché probabilmente i nuovi
farmaci che abbiamo a disposizione riescono a ridurre quelle morti precoci che si verificano
nei pazienti più anziani dovuti al fatto la malattia cresce velocemente e quindi non se ha il
tempo di effettuare una terapia efficace. Questi farmaci ci permettono di avere più tempo
di evitare le complicanze precoci che portano a morte il paziente come infezioni,
emorragie, insufficienza renale e questo ha reso importante l'utilizzo di questi farmaci.
Questa slide è la dimostrazione
che si ha avuto un
miglioramento effettivo grazie
all'introduzione di questi
farmaci soprattutto nei pazienti
sottoposti al trapianto. Questa
è un'esperienza italiana
coordinata da noi in cui a
seguito di un follow-up
mediano di 24 mesi, 16 su 29
pazienti hanno avuto un miglioramento del 55% e si è passati da una sopravvivenza
mediana di un anno a 2 anni, questo nei pazienti che avevano eseguito un trapianto
all'associazione all'utilizzo di nuovi farmaci in particolare in questo caso del bortezomib un
inibitore del proteasoma. Questa esperienza è stata confermata anche da quella greca e da
quella israeliana in cui si osserva come la curva dell’overall survival si sia alzata nel pz che
hanno effettuato la terapia con i nuovi farmaci (IMiDs e Bortezomib) o che hanno
effettuato il trapianto (HSCT).
Anche la progression free
survival è anche migliorata
nei pazienti che fanno il
mantenimento, ovvero un
trattamento continuativo
dopo aver ottenuto una
risposta dalle tp di prima
linea come il trapianto.
Questa è la dimostrazione che
il paziente deve essere
trattato in maniera
continuativa come il mieloma.
Il vantaggio sia in termini di
progression free survival sia in
termini di sopravvivenza che
in questo modo arriva a 33
mesi quindi risiede nella
associazione del trapianto ad
una terapia di mantenimento. Se vogliamo riassumere globalmente tutti gli studi contenuti
in letteratura possiamo dire che l'introduzione di bortezomib e IMiDs di prima e seconda
generazione come terapia iniziale e in particolare la loro introduzione nell'ambito di una
procedura trapiantologica ha prodotto un incremento marcato della percentuale della
qualità della risposta fino al 45%-100% e che c'è stato un marcato miglioramento
dell'outcome clinico con una riduzione delle morti precoci e una sopravvivenza fino a 12-28
mesi nei pz più anziani ma fino a 16-61 mesi in pz che si sottopongono a trapianto.

Si considerano in
questi studi di registro
i risultati del trapianto
nei pz con leucemia
plasmacellulare:
abbiamo risultati del
trapianto autologo e
del trapianto
allogenico. Queste
casistiche sono un po' datate perché non tengono conto dell'Introduzione negli ultimi anni
dei nuovi farmaci e quindi utilizzano nella fase di preparazione al trapianto altri farmaci: il
trapianto autologo presenta alti tasso di risposta tuttavia risulta meno efficace nella
leucemia plasmacellulare rispetto al mieloma multiplo nel lungo termine perché si ha una
probabilità di progressione di malattia e di recidiva molto alto. Doppio trapianto autologo
presenta una sopravvivenza migliore confermato anche nel mieloma multiplo soprattutto
nelle forme ad alto rischio e ci sono studi recenti prospettici su queste procedure di
trapianto associate ai nuovi agenti che hanno dato una sopravvivenza mediana elevata
superiore ai 3 anni quindi 6 volte più alti dei primi dati.

Nel caso del trapianto


allogenico invece c'è
alta variabilità di
efficacia, non si è
rivelato un vantaggio
perché è vero che i
pazienti recidivano
meno ma muoiono di
più per un aumento
della mortalità legata

al trapianto, al netto
quindi non c'è un'evidenza
di un benefit della
sopravvivenza da quello
allogenico rispetto all'
autologo. C'è tuttavia un
plateau, un appiattimento
della curva, come succede
nel mieloma ma ad un livello
più basso, all'incirca in corrispondenza del 20%: questo significa che tra tutti coloro che si
sottopongono ad un trapianto allogenico circa un 20% potrebbe essere reputato guarito.
Quindi se oggi c’è una procedura che in un numero molto piccolo di pz porta a guarigione
dalla leucemia plasmacellulare è proprio il trapianto allogenico. Questo però nel breve
periodo perché il trapianto allogenico presenta un outcome peggiore rispetto al trapianto
autologo. Per questo il trapianto allogenico nella linea guida Europea rappresenta
un'opzione in un numero davvero limitato di pazienti.

Gli unici due studi


prospettici che ad oggi sono
stati pubblicati sono 1.
Utilizzo di lenalidomide e
del desametasone 2.una
comparazione tra trapianto
autologo e allogenico in un
gruppo di pazienti eleggibili
per il trapianto.
Sostanzialmente i risultati
sono sovrapponibili, ci sono
70% di risposte, ci sono il
40% di risposte molto
buone, una mediana di
progression free survival di
14-15 mesi e una mediana di
sopravvivenza di 28 mesi o
36 mesi, soprattutto nei
pazienti che hanno fatto il
trapianto superiore a 28
mesi nello studio GIMEMA
con la lenalidomide, invece
lo studio francese ha documentato il fatto che il doppio autologo probabilmente funziona
meglio in questi pazienti del trapianto allogenico. Sono stati utilizzati altri farmaci, ma il
concetto essenzialmente è quello. Ancora una volta si dimostra come la combinazione di
nuovi trattamenti, nuovi farmaci, in particolare inibitori del proteasoma, in combinazione
con l’autologo, rappresentano la terapia di riferimento per questi pazienti. Queste sono le
curve che dimostrano quello che vi ho detto.
Questo invece è lo studio europeo che si sta conducendo (di cui siamo coordinatori
europei) che prevede delle combinazioni di farmaci molto intensive, in questo caso
carfilzomib (inibitori del proteasoma di II generazione), lenalidomide, trapianto autologo e
trapianto allogenico a seconda della presenza di un donatore, terapia di mantenimento e
di consolidamento dopo queste procedure trapiantologiche per i pazienti di età inferiore a
65 anni che sono eleggibili delle procedure. Per i pazienti di età superiore a 65 anni che
sono non eleggibili delle procedure da trapianto, un’induzione con tre farmaci e un
mantenimento continuativo secondo le indicazioni emerse dagli studi in letteratura. Lo
studio è ancora in corso, sono emersi dati preliminari lo scorso anno al congresso dell’ASH
e probabilmente alla lezione del prossimo anno vi darò i risultati definitivi.

Quindi 2 anni fa abbiamo prodotto insieme ad altri colleghi europei che sono all’interno
dell’European Mieloma Network delle raccomandazioni per il management di pazienti con
discrasie plasmacellulari rare, e tra queste la leucemia plasmacellulare. Perciò volendo
sintetizzare tutto quello che ci siamo detti fino ad adesso, possiamo dire che per quanto
riguarda la diagnosi: il work-up diagnostico e le procedure di staging della leucemia
plasmacellulare sono uguali a
quelle applicate in mieloma
multiplo però devono essere
ovviamente implementate dallo
studio del sangue periferico

(non facciamo diagnosi di


leucemia plasmacellulare se
non vediamo le plasmacellule
circolanti) e anche la PET che
normalmente non è un esame
che nel mieloma multiplo si fa
all’esordio e che è importante
perché è una tecnologia che può
mettere in evidenza eventuali
lesioni extramidollari che sono
abbastanza frequenti all’esordio
della leucemia plasmacellulare.

Terapia: non ci sono linee guida


basate sull’evidenza. Il concetto
di linee guida basate
sull’evidenza è importante e significa che l’evidenza è documentata in genere da studi
randomizzati o da meta-analisi. Se questi studi non ci sono, l’evidenza non c’è e quello che
si fa è riportare il parere di esperti su una determinata patologia ed è quello che abbiamo
fatto in questa situazione, soprattutto perché non ci sono studi randomizzati di fase 3 che
siano stati effettuati sulla
leucemia plasmacellulare, ci
sono solo due studi prospettici
di fase 2 che sono stati
pubblicati. Voi sapete che la
differenza tra fase 2 e fase 3 è
che la fase 3 confronta una
nuova terapia con lo standard
di trattamento; non essendoci
uno standard di trattamento nella leucemia plasmacellulare vanno avanti gli studi di fase 2
che valutano l’efficacia e la tollerabilità di una coorte di pazienti che però non è
confrontata con un’altra coorte di pazienti e quindi i risultati sono meno importanti.

Una cosa rilevante per il trattamento dei pazienti con leucemia plasmacellulare è la
prevenzione della sindrome da lisi tumorale. Le plasmacellule sono altamente proliferative
e risentono molto del trattamento che stiamo facendo e se non idratiamo/trattiamo
adeguatamente il paziente, se non facciamo il trattamento che tende a prevenire la
sindrome, in particolare l’iperuricemia, rischiamo di avere un’insufficienza renale acuta che
può portare a morte il paziente. Devono essere i bifosfonati per la gestione della malattia
ossea, e la profilassi antinfettiva è raccomandata in tutti i pazienti. Si deve fare una
profilassi per le localizzazioni al SNC, attraverso punture lombari introducendo farmaci nel
liquor cerebrospinale perché i pazienti che hanno una elevata conta di globuli bianchi
possono avere delle localizzazioni extramidollare al SNC. Anche la tromboprofilassi con
aspirina o con eparina o con altri farmaci anticoagulanti dovrebbe essere data nei pazienti
che ricevono gli IMiDs, in particolare lenalidomide e talidomide, farmaci molto attivi nel
mieloma e nelle patologie analoghe che hanno come effetto collaterale la possibilità di
incrementare il rischio di trombosi per cui è necessaria una profilassi. Il trattamento per la
leucemia plasmacellulare deve essere immediato con intervalli brevi tra un ciclo e l’altro e
questo serve ad assicurare il controllo della malattia, una riduzione delle morti precoci
dovute alle complicanze iniziali, a contrastare l’evoluzione clonale che può indurre una
farmaco-resistenza nel corso del tempo, e inoltre la terapia deve avere una attività sulla
malattia residua riducendo il rischio di recidive.

La prima linea deve essere orientata verso un inibitore del proteasoma e un


immunomodulante. Dopo la fase di induzione il trattamento dovrebbe includere un doppio
trapianto e un processo di consolidamento, il mantenimento di tutti i pazienti che sono in
grado di farlo. Il trapianto allogenico in prima linea deve essere considerato solo in pazienti
molto particolari, pazienti molto giovani, con marcatori di aggressività, deve essere
spiegato che la prognosi è molto cattiva e che giocarsi una chance può essere importante,
ma bisogna spiegare anche quelli che sono gli effetti collaterali di questa procedura che
può essere potenzialmente curativa ma attualmente la oggi non mostra un vantaggio
sicuro nei confronti di altre procedure, quindi tutti i pro e contro devono essere discussi
con il paziente.

Per i pazienti anziani non eleggibili di trapianto, bisogna programmare una terapia
continua fino a che idealmente la risposta non sia mantenuta o sopravvengono tossicità
che non possono essere in qualche modo gestite. Per i pazienti molto fragili, molto anziani,
bisogna personalizzare il trattamento, in questi casi i risultati sono molto scarsi, ma in
alcune situazioni, adattando le dosi dei farmaci alla tollerabilità del paziente, si può cercare
di mantenere il paziente in trattamento il più a lungo possibile. Per i pazienti refrattari la
situazione è complessa, si possono dare farmaci che normalmente non sono utilizzati per
le prime linee di trattamento, ma i risultati sono molto scarsi, e il trapianto allogenico è
indicazione questa volta nei pazienti che sono eleggibili per questa procedura che abbiano
recidivato dopo un trattamento di prima linea che sia risultato efficace.

Qui vedete una sintesi di quello che ci siamo detti, tutti i pazienti eleggibili per il trapianto,
induzione 3-4 cicli, una tripletta che sia basata sull’utilizzo del bortezomib e della
lenalidomide, se ha un donatore
< 50 anni il trapianto
mieloablativo intensivo, se ha un
donatore >50 bisogna
considerare un trapianto non
mieloablativo, a ridotta
intensità, eventualmente
seguito da trapianto allogenico.
Se non c’è un donatore o se il
paziente rifiuta il trapianto
allogenico si fa doppio autotrapianto, consolidamento e mantenimento. Qui vedete gli
schemi di terapia normalmente utilizzati per approcciare un paziente eleggibile al
trapianto.

Per il paziente non


eleggibile al trapianto, se è
un paziente fit di età <75
anni si fa terapia
continuativa, utilizzando, se
possibile, una tripletta con
inibitore del proteasoma,
(bortezomib) e
l’immunomodulante,
(lenalidomide) e la
ciclofosfamide. Per il paziente unfit/frail o pz con età superiore ai 75 anni bisogna cercare
di fare una terapia più a lungo possibile utilizzando non una tripletta che risulterebbe
eccessivamente tossica, bensì la combinazione di lenalidomide o bortezomib con il
desametasone.
Questa terapia è più
complicata, riguarda i
pazienti con malattia
refrattaria e
recidivata in cui si
può prendere in
considerazione un
trapianto allogenico
nei pazienti giovani
che abbiano risposto
bene a terapia di
prima linea e poi si sia ripresentata la malattia, o modulandolo con ridotta intensità,
palliazione soltanto nei pazienti anziani >75, se si riesce a fare una terapia continuativa se
non sono eleggibili al trapianto né autologo né allogenico.

Quindi la leucemia plasmacellulare primitiva (non abbiamo parlato della secondaria, qui la
prognosi è infausta e rappresenta l’evoluzione conclusiva di una patologia mielomatosa) è:
una patologia rara, aggressiva delle plasmacellule caratterizzata da designazione
extramidollare, una elevata attività proliferativa, una marcata instabilità genomica che
rende conto del fatto della prognosi di questi pazienti particolarmente sfavorevole; si
tratta di un’entità autonoma distinta dalla leucemia plasmacellulare secondaria e dalle
forme di mieloma extramidollare. È possibile che i criteri di diagnosi della leucemia
plasmacellulare possano cambiare portando la soglia di plasmacellule circolanti come vi ho
detto prima dal 20% al 5%. I pazienti con leucemia plasmacellulare presentano alta
prevalenza di aspetti clinici e laboratoristici negativi, se comparato al mieloma, e questo
correla con un outcome meno favorevole. Il workup diagnostico di tutti i mielomi dovrebbe
comprendere la valutazione delle plasmacellule circolanti perché le percentuali non solo
del 20, ma anche del 5%, possono determinare una prognosi peggiore. La valutazione di
una leucemia plasmacellulare deve includere una PET per identificazione dei tessuti
eventualmente oggetto di lesione extramidollare. L’utilizzo di nuovi agenti, in particolare di
inibitore del proteasoma e di immunomodulanti, la loro integrazione all’interno delle
procedure trapiantologiche hanno potuto determinare un aumento significativo delle
percentuali della qualità della risposta e un miglioramento moderato ma significativo della
sopravvivenza di questi pazienti. È chiaro che i risultati sono ancora non soddisfacenti, tutti
i pazienti con leucemia plasmacellulare primitiva dovrebbero essere considerati per studi
clinici preferibilmente studi prospettici, anche designati per il mieloma, nei quali questi
pazienti possono essere estrapolati per analizzare dati specifici.

Domanda: per quanto riguarda la prima patologia che abbiamo trattato oggi, il toll like
receptor, MYD88, su quali cellule si trova?

Risposta: il toll like receptor è un recettore ubiquitario presente su tutte le cellule con
espressione differenziata, in particolare si trova sui linfociti B, e rappresenta un recettore
che trasmette all’interno un segnale di trascrizione che vengono dagli stimoli esterni. Nel
caso specifico della malattia di Waldenstrom, a valle del TLR c’è un gene che in qualche
modo regola la trascrizione del recettore stesso e la mutazione di questo gene determina
quel blocco maturativo che vi ho fatto vedere a livello di una cellula che ancora non
produce anticorpo monoclonale o produce solo igE, quindi non c’è stato lo switch isotipico,
e in questo modo viene interessata; la caratteristica non è la presenza o assenza del TLR,
bensì la presenza o assenza di MYD88 che è un regolatore dell’attività del TLR.
Gruppo n.8

Lezione del 30.10.2020

Prof. P. Musto

LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA

Oggi parleremo di leucemia mieloide cronica (abbastanza frequente) e di mastocitosi


(meno frequente, ma altrettanto interessante).

La LMC è un esempio paradigmatico di quella che oggi viene chiamata medicina di


precisione.
Si tratta di una patologia nella quale è stata identificata un’alterazione molecolare e,
contrariamente a quanto accade in molte patologie, l’alterazione è unica, ed è in grado di
indurre da sola la malattia e di farla progredire. Negli altri esempi che abbiamo visto, vi era
una mutazione driver che ne determinava l’inizio, ma poi, affinché la malattia si
manifestasse nel corso degli anni, erano quasi sempre necessarie mutazioni o alterazioni
geniche aggiuntive. In questo caso invece, l’alterazione genetica che vi è alla base, e che
vedremo tra un po’, è unica, e questo rende possibile una terapia molecolare con farmaci
attivi in maniera specifica sulla specifica alterazione genetica, determinando una risposta
della malattia e la sua scomparsa.
La LMC fino a circa 20 anni fa portava a morte inevitabilmente il paziente, presentando una
sopravvivenza media di circa 3-4 anni, attraverso fasi successive.
Oggi, in realtà, la maggior parte dei pazienti affetti da LMC, con i farmaci a disposizione,
può considerarsi guarita. Si tratta degli inibitori delle tirosin-chinasi e con la sospensione
del trattamento, in una buona percentuale di casi, la malattia non si ripresenta.
Quindi si parla di medicina di precisione, perché il farmaco a disposizione agisce in maniera
specifica, precisa, nei confronti dell’alterazione molecolare.
La LMC quindi è un esempio emblematico di medicina di precisione, il primo e forse il più
importante in tutta la patologia oncologica, non solo in quella ematologica.

La leucemia mieloide cronica (LMC) è legata ad un’alterazione genetica che colpisce la


cellula staminale in grado di poter dare poi vita alla progenie mieloide, quindi è una
malattia mieloproliferativa, con globuli bianchi, ma anche globuli rossi e piastrine,
caratterizzata da una aumentata produzione di granulociti e precursori dei granulociti,
senza perdita della capacità di differenziazione e presenza di mieloproliferazione a livello
midollare, splenico ed epatico.
Senza perdita della capacità di differenziazione significa che tutta la filiera differenziativa
mieloide, dalla cellula più indifferenziata fino al mieloblasto, al promielocita, al mielocita e
al neutrofilo, è tutta mantenuta sotto il profilo maturativo, ma sotto il profilo della
proliferazione è assolutamente disgregata e non risponde ai comuni meccanismi di
regolazione.

La LMC è abbastanza frequente e rappresenta il 20% di tutte le leucemie dell’età adulta.


Compare generalmente in forma cronica e stabile, rimanendo tale per un po' di tempo se
non si interviene, e può progredire verso una forma acuta dopo un periodo di tempo
variabile; questo è quello che rappresentava la storia naturale della malattia, fino a quando
non sono intervenuti i farmaci inibitori della tirosin-chinasi, che hanno radicalmente
mutato la storia naturale di questa patologia.

Incidenza: 1-2 casi per anno ogni 100.000 abitanti.

Questo è il quadro ematologico del sangue


periferico che noi vediamo.

Ci sono tantissimi globuli bianchi, molti di più di


quelli che si vedono normalmente, con un profilo
maturativo mantenuto: ci sono mieloblasti,
mielociti, metamielociti, promielociti e vedete
come la maturazione arrivi fino al neutrofilo
maturo. È presente anche qualche cellula
occasionale indifferenziata di tipo blasto.

Quindi tutto il profilo maturativo della


granulopoiesi è mantenuto.

L’aspetto fondamentale, come vi ho già anticipato, è l’associazione, assolutamente


patognomonica, con un’alterazione citogenetica specifica, il Cromosoma Philadelphia (Ph),
così denominato perché identificato da Janet Rowley appunto a Philadelphia.
Quali sono le caratteristiche biologiche, come
nasce questa malattia?

La malattia nasce dalla realizzazione del


cromosoma Ph: una parte del cromosoma 9 finisce
sul cromosoma 22 e una parte del cromosoma 22
finisce sul cromosoma 9, e questo comporta che i 2
geni, BCR e ABL, normalmente separati, vengano a
giustapporsi, a mettersi l’uno accanto all’altro. Il
gene di fusione BCR-ABL, formatosi sul cromosoma
22, dà luogo ad un mRNA che a sua volta sviluppa
una proteina di fusione, una proteina ibrida,
costituita sia da un pezzo di cromosoma 9 su cui c’è BCR, e sia da un pezzo di cromosoma
22 su cui c’è ABL. Questa proteina di fusione BCR-ABL ha un’attività tirosin-chinasica
costitutiva. Normalmente le proteine tirosin-chinasiche hanno un’attività di regolazione
sulla crescita e sulla proliferazione di vari stipiti cellulari, in particolare di quelli mieloidi, e
sono soggette a regolazione da parte di sistemi che in qualche modo modulano la capacità
di crescita di questa filiera.

La proteina di fusione BCR-ABL con un’attività tirosin-chinasica costitutiva, è indipendente


dalla regolazione, per cui il processo di proliferazione delle cellule mieloidi è
continuamente attivato, in maniera cronica e continuativa.

Sotto il profilo della biologia molecolare si è visto che:

1) se si inietta in un topo un gene di fusione


BCR-ABL, attraverso un vettore virale,
questo gene, presente nei progenitori
ematopoietici del topo, è in grado di indurre
in vivo la leucemia mieloide cronica cioè,
topolini che non hanno la malattia ma nei
quali viene inoculato attraverso il vettore
virale la proteina di fusione, o comunque il
DNA o RNA che produce la proteina di
fusione, sviluppano una malattia mieloide
cronica. Dimostrazione incontrovertibile che
è questa la proteina che induce la malattia.
2) l’attività delle proteine prodotte in maniera costitutiva da BCR e ABL, è inibita da
inibitori delle tirosin-chinasi; quindi abbiamo la possibilità di bloccare in maniera
incontrovertibile l’attività della tirosin-chinasi attraverso farmaci che sono chiamati
inibitori della tirosin-chinasi. Questo determina la morte cellulare della cellula che
presenta il gene di fusione BCR-ABL e la ricomparsa di quei progenitori normali che
erano latenti all’interno del midollo, che non erano scomparsi completamente, ma
che erano stati in qualche modo sovrastati dalla proliferazione delle cellule BCR-ABL

Quindi:

• Induzione della malattia con la proteina di fusione


• scomparsa della malattia con una terapia mirata sull’alterazione genetica
specifica di questa malattia. Si tratta quindi, come vi dicevo all’inizio della
lezione, di un esempio paradigmatico di medicina di precisione, perché questi
inibitori vanno a colpire i geni di fusione e molto spesso (non lo sono sempre)
sono abbastanza selettivi soltanto su questa alterazione; per cui non serve fare
una chemioterapia, che oltre a distruggere la cellula neoplastica va a colpire
anche l’emopoiesi normale, ma si fa uso di farmaci che vanno a colpire in
maniera mirata, selettiva, l’alterazione genetica, risparmiando la normale
popolazione cellulare a livello dei vari tessuti e in particolare del midollo osseo.

Il cromosoma Philadelphia è il marcatore caratteristico della LMC.

È presente in più del 95% dei casi, quindi nella stragrande maggioranza dei casi.

Nel restante 5% dei casi, in cui non è presente il cromosoma Philadelphia, forme
Philadelphia negative, sono comunque presenti alterazioni molecolari differenti che
portano alla presenza di un gene di fusione BCR-ABL.

Il cromosoma Philadelphia si ritrova anche:

• in circa il 30% delle leucemie linfoblastiche acute (LLA) dell’adulto, che si chiamano
appunto LLA Philadelphia positive (non ne parleremo in questo corso). Queste
forme risentono positivamente dell’attività di farmaci inibitori delle tirosin-chinasi,
anche se in maniera meno rilevante.
• nel 2% delle leucemie mieloidi acute (LMA).
Il cromosoma Philadelphia nasce da una
traslocazione bilanciata 9;22 (bilanciata perché c’è
uno scambio di materiale tra i due cromosomi) ed
è un cromosoma più piccolo del cromosoma 22.

Quindi, una parte del cromosoma 9 va sul


cromosoma 22 e una parte, più grande, del
cromosoma 22 va sul cromosoma 9.

Il gene ABL è sul cromosoma 9

Il gene BCR è sul cromosoma 22

Il gene ABL, dal cromosoma 9 va sul cromosoma 22


posizionandosi vicino al gene BCR, determinando la formazione del gene di fusione ABL-
BCR, alterazione patogenetica patognomonica di questa malattia.

Questo è quello che si vede normalmente in un


cariotipo, all’analisi citogenetica classica.

Vediamo il cromosoma 9, un po' più grande, con


una parte del cromosoma 22 che è traslocata qui;
vediamo il cromosoma 22 che presenta una piccola
parte del cromosoma 9. C’è stata una traslocazione
bilanciata tra i due cromosomi 9 e 22, uno scambio,
con la formazione del cromosoma Philadelphia,
molto piccolo.
A livello del gene ABL (cromosoma 9) il punto di
rottura può essere in diverse porzioni del gene
stesso, e l’attività tirosin-chinasica migra sul
cromosoma 22.

Ci possono essere diversi punti di rottura sia sul


cromosoma 9 che sul 22 e questo spiega perché
esistono diversi tipi di trascritto BCR-ABL, quindi c’è
sempre la realizzazione di un gene di fusione ABL-
BCR, ma di diverso tipo, che induce la formazione di
una proteina con attività sempre tirosin-chinasica
costitutiva, ma di diverse dimensioni: piccola,
intermedia e grande.

Alcuni autori ritengono che a seconda del tipo di


gene di fusione (piccolo, intermedio o grande) ci
possa essere una diversa prognosi. Ma quello che è
importante sapere è che qualunque gene di fusione
è in grado di svolgere la sua attività di attivazione
costitutiva della tirosin-chinasi e quindi di indurre
la malattia che sarà poi responsiva al trattamento.

La proteina che ne viene fuori è diversa, abbiamo:

• proteina P190 con m-bcr più piccolo;


si trova nella LMC e nella LLA, in una quota di
pazienti
• proteina P210 con M- bcr intermedia;
si trova nella LMC nella LLA (più
frequentemente)
• proteina P230 con µ-bcr più grande,
piuttosto rara;
si trova esclusivamente nella LMC.
Ovviamente questo tipo di valutazione genomica si fa con tecniche di biologia molecolare
in particolare con la reverse transcriptase in laboratori dedicati per questo tipo di
diagnostica, transcriptase polimerase chain reaction, una reazione di polimerasi.

La proteina BCR/ABL:

• è presente solo nel citoplasma


• è continuamente in stato di attivazione
• è in grado di fosforilare numerosi bersagli, come attività tirosin-chinasi
• di conseguenza induce un’attivazione continua e patologica di numerose attività
cellulari (soprattutto di tipo proliferativo)
• sfugge ai normali meccanismi di controllo dell’attività cinetica delle cellule.

L’autofosforilazione secondaria alla dimerizzazione


di BCR-ABL, induce l’attivazione costitutiva della
tirosin-chinasi e molti substrati fosforilati vengono
attivati, in particolare quelli correlati all’attività
proliferativa. Sostanzialmente è un problema di
fosforilazione, di trasduzione del segnale di
proteine bersaglio da parte di BCR-ABL, soprattutto
attraverso i meccanismi di fosforilazione mediati
dall’ATP, e che portano ad una proteina che
indipendentemente dalla regolazione è in grado di
svolgere la propria attività costitutiva.
Gli effetti dell’attivazione della proteina, che deriva
dal gene di fusione, sono numerosi e riguardano:

• stimolo della proliferazione cellulare


• diminuzione dell’adesione alla matrice del
Midollo Osseo
(questo spiega perché le cellule nel sangue
periferico siano tante, e non siano più
trattenute a livello del Midollo)
• inibizione dell’apoptosi (= morte cellulare
programmata) le cellule sopravvivono di più,
tendono a non morire
• instabilità genomica.
ABL è un gene di regolazione della funzione genomica delle cellule a livello nucleare;
la riduzione della funzione di ABL a livello nucleare, determina quindi una instabilità
genomica.
L’instabilità genomica è alla base di quello che in passato (e ancora oggi in qualche
caso) costituiva la storia naturale della malattia; attraverso l’acquisizione di una
progressiva instabilità genomica, la malattia diventava più aggressiva e responsiva ai
farmaci, fino a trasformarsi in una fase blastica finale che quasi oggi non vediamo
più, ma che rappresenta la fase terminale della malattia.

Questo è quello che accade nel corso degli anni; se


noi lasciamo una patologia come la LMC senza
trattamento, il Midollo Osseo normale comincia ad
essere colonizzato dalle cellule Philadelphia positive,
le cellule Philadelphia positive poi possono dar luogo
a cloni differenti nel corso degli anni, questi cloni
colonizzano completamente il midollo e fanno
sparire completamente le cellule normali, e questo
ovviamente fa sì che ci sia un quadro clinico,
biologico e laboratoristico tipico della LMC, quindi un
progressivo sovvertimento che è tipico di tutte le
patologie che infiltrano il midollo; in questo caso non si tratta di un’infiltrazione
dall’esterno, come accade nel linfoma, ma è una proliferazione dell’interno, proliferazione
di cellule che già dall’inizio sono presenti nel midollo osseo.
Come si fa la diagnosi di LMC?

A parte la diagnosi clinica che vedremo tra un po',


la diagnosi è citogenetica, valutando la presenza
del cromosoma Philadelphia con tecniche di
citogenetica o anche FISH, identificando la
traslocazione 9;22 in maniera visibile, oppure
valutando il trascritto del gene di fusione BCR-ABL
con tecniche di biologia molecolare.

Ci sono una serie di situazioni che possono


simulare una LMC (chiaramente là dove non è
ancora noto il cariotipo e la biologia molecolare):

• Granulocitosi
• Leucocitosi neutrofile reattive (→ alcune infezioni, alcuni tumori, stati infiammatori
cronici)

Si chiama REAZIONE LEUCEMOIDE: si fa uno striscio e si vedono 20.000 – 30.000 anche


40.000 globuli bianchi quasi tutti neutrofili, spesso si notano anche precursori, che
possono in qualche modo simulare il quadro citomorfologico di una LMC.

Un incremento dei globuli bianchi, in assenza di alterazioni citogenetiche e molecolari,


possono essere osservate in pazienti con altre malattie mieloproliferative Philadelphia
negative come P.V., T.E., MMA.

Ci sono alcuni pazienti (nella slide è scritto 1/3 ma sono molti di meno) in cui il gene di
fusione BCR-ABL non si trova nelle sue connotazioni tipiche che abbiamo visto
precedentemente. Il gene BCR-ABL ci può realizzare per la presenza di un gene occulto o
anche per altre traslocazioni quali 5;12 o 8;13, che possono dar luogo a manifestazioni
cliniche, di laboratorio, simili alla LMC. La differenza qual è? È che non essendo in questo
caso attivato il BCR-ABL e la funzione tirosin-chinasi, i farmaci inibitori delle tirosi-chinasi
non sono efficaci.

Quali sono i sintomi di questa malattia?

In più della metà dei casi, la LMC è asintomatica.

La diagnosi è solitamente CASUALE con emocromo eseguito


per qualche altro motivo in cui riscontriamo un aumento
dei GB e con esame clinico obiettivo evidenziando una
splenomegalia, anche se nelle fasi iniziali non è quasi mai presente.

Il paziente presenta anemia moderata e sintomi generali (febbricola, malessere,


sudorazioni).

È soprattutto l’emocromo e lo striscio periferico quello che ci fa fare diagnosi, o per lo


meno ci fa porre il sospetto di una diagnosi di LMC, sospetto che va poi confermato con la
diagnosi citogenetica e molecolare.

All’emocromo:

• l’emoglobina è sostanzialmente normale.


• Le piastrine raramente sono ridotte, spesso sono
aumentate non in termini particolarmente significativi,
500.000/600.000.
• I GB sono sempre aumentati fino a 500.000 ma ho
visto anche pazienti con valori superiori.
• Nella formula troveremo quasi esclusivamente
neutrofili, ma quello che ci fa sospettare la diagnosi è
la presenza di precursori che normalmente troviamo
nel midollo osseo, quindi mielociti, promielociti,
metamielociti, qualche blasto.

Un indice di sospetto nello striscio periferico è dato dalla


presenza di un numero di basofili più alto rispetto al normale. Generalmente nella formula
leucocitaria i basofili sono molto pochi, 1-2%, qui invece possiamo trovare numeri più alti
fino anche al 10%.

Qui vedete un quadro tipico:

La freccia indicherebbe un basofilo, ma in realtà non lo è.

Vediamo numerose cellule mieloidi, tanti tanti neutrofili,


promielociti, mielociti, metamielocti, quadro fortemente
suggestivo di LMC.
Biopsia osteo-midollare:

Il midollo è ricco, iperplastico. Prevale in maniera netta


la componente mieloide fino al neutrofilo maturo, quindi
presenza quasi esclusiva di precursori mieloidi e di
neutrofili. Scomparsa o scarsa rappresentazione della
serie eritroide, non si vedono eritroblasti. Presenza di
numerosi megacariociti. Ci posso essere dei blasti, ma la
presenza di blasti soprattutto quando è consistente, può
essere suggestiva di una eventuale evoluzione verso una
forma di LMC accelerata o crisi blastica che
rappresentava in epoca pre inibitori della tirosin-chinasi
la storia naturale della malattia.

Qual è il decorso e la prognosi di questi pazienti?

Abbiamo visto la fase cronica con i precursori neutrofili.

Nella fase accelerata si comincia ad avere la


trasformazione della malattia che può arrivare fino alla
fase blastica in cui sono presenti prevalentemente blasti (in
questo caso sono prevalentemente blasti di tipo mieloide
perché vedete la presenza di granuli nel citoplasma).

Tenete conto però che la fase blastica (o crisi blastica


come era definita in passato) può riguardare non soltanto
la LMA (Leucemia Mieloide Acuta), evoluzione della LMC,
ma anche leucemia della serie megacariocitaria o ……………. (?)

Il primum movens della malattia interessa la cellula staminale che ha la potenzialità a


differenziare in diverse linee cellulari e questo spiega perché quando la malattia è lasciata
a se stessa o nei rari casi in cui non c’è più risposta al trattamento, la fase blastica della
malattia, la fase leucemica della malattia, la crisi blastica, che è generalmente mieloide può
essere anche linfoide e qualche volta anche mista, con blasti sia mieloidi che linfoidi,
proprio perché la cellula staminale mantiene la capacità di poter dar luogo ad elementi sia
mieloidi che linfoidi.

Le cause della progressione possono essere diverse ma sono prevalentemente di tipo


genomico. Il gene P53 chiamato CUSTODE DEL GENOMA, è un gene particolarmente
importante perché serve a disinnescare tutte le tendenze
proliferative neoplastiche del nostro organismo. Milioni di
cellule possono sviluppare mutazioni, alterazioni
genetiche che possono esitare in proliferazioni di tipo
neoplastiche. Il gene P53 è uno di quei geni che opera una
sorta di pulizia all’interno del nostro organismo,
facilitando l’eliminazione di tali cellule. La maggior parte di
queste cellule in realtà muoiono spontaneamente o
muoiono perché le attività di risposta immunologica del
nostro organismo nei loro confronti è in grado di poterle
distruggere. Quando questo meccanismo di controllo immunologico sfugge, allora si ha la
neoplasia. Questo vale per la LMC ma vale anche per tutti gli altri tumori, anche per i
tumori solidi. Un altro meccanismo è quello del silenziamento epigenetico. L’epigenetica è
quella modalità che agisce soprattutto mediante processi di metilazione e di demetilazione
(quindi non ci sono alterazioni genetiche, non si vedono mutazioni o cromosomi alterati)
nei meccanismi di regolazione cellulare. Se disinnescati, disabilitati, ne viene impedito il
controllo, quindi malattia.

L’accorciamento dei telomeri è un altro fenomeno, tipico dell’età. I telomeri sono la parte
distale dei cromosomi e man mano che si va avanti con l’età, diventano sempre più piccoli.
L’attivazione delle telomerasi può anche contribuire alla possibilità di progressione della
malattia.

Poi ci sono i fenomeni più macroscopici, più importanti; accanto al cromosoma


Philadelphia, per esempio, si possono trovare o sviluppare nel corso del tempo (questa non
è la regola, ma può accadere) alterazioni citogenetiche aggiuntive: trisomia del cromosoma
8, monosomia del cromosoma 7 e altre traslocazioni, inducono, facilitano una evoluzione
della fase cronica attraverso la fase accelerata fino alla evoluzione della crisi blastica
leucemica.

La storia naturale della malattia, quella che conoscevamo


fino ad una ventina di anni fa, e che ancora oggi sarebbe
evidente se non avessimo a disposizione i farmaci di cui
parleremo, e essenzialmente caratterizzata da una fase
cronica stabile che dura da 1 a 5 anni (ed è quella tipica che
abbiamo appena descritto).
La fase invece di trasformazione o accelerata evolve
gradualmente. Può peggiorare l’anemia, ci può essere
trombocitopenia e trombocitosi, c’è un aumento dei blasti
nel midollo e nel periferico.

La crisi blastica è un quadro di leucemia acuta vera e propria


con più del 30% dei blasti nel midollo. Come vi accennavo,
generalmente la crisi blastica, la leucemia acuta, che si
sviluppa in questi pazienti è mieloide, però nel 20–30% dei
casi può essere di tipo linfoblastico o di tipo addirittura
misto.

Quindi bifenotipica come si suol dire, cioè con doppio fenotipo. E questo si associa, molto
spesso, come vi avevo detto in precedenza, ad ulteriori anomalie cromosomiche, per
esempio le trisomie dei cromosomi 8,9, 19 e 21.

Quanto durano queste fasi? La


durata mediana della fase cronica
è di 4 – 6 anni, quella della fase
accelerata è circa 1 anno, la fase
blastica purtroppo è una fase
terminale e dura circa 3-6 mesi.
Quindi fase cronica, fase
accelerata, fase blastica mieloide
o linfoide.

Mediamente la durata di questa


malattia era circa 3 anni e mezzo -
4 anni ed i pazienti, a parte quelli che venivano trattati con trapianto allogenico (i pochi
pazienti che potevano farlo), erano destinati inevitabilmente a morire, perché questa fase
di accelerazione ed evoluzione verso la crisi blastica era praticamente inevitabile.
Questa malattia la studiamo meglio, perché è un esempio molto tipico della medicina di
precisione e questo è un concetto, che voi dovete acquisire, perché rappresenterà con
tutta probabilità la medicina del futuro.

Come per tutte le patologie ci sono dei


fattori prognostici, degli score, dei
modelli che ci servono per capire se quel
paziente che vediamo in quel momento,
con quelle caratteristiche, presenta una
maggiore o minore probabilità di
evoluzione verso la crisi blastica e quindi
una prognosi migliore o peggiore.

Lo SCORE DI SOKAL (leggi sòcal), che è


quello inizialmente definito per la
leucemia mieloide cronica, che però è uno score che è stato sviluppato quando non
c’erano gli inibitori della tirosin chinasi ma gli altri farmaci, è basato essenzialmente:

• sull’età,

• sull’entità della splenomegalia

• sulla percentuale dei blasti e degli eosinofili nel sangue periferico

• e dal numero di piastrine

L’HASFORD SCORE (leggi ashford) score, più recente, anche questo vede:

• età

• splenomegalia

• percentuale di blasti nel sangue periferico

• piastrine

• ma valuta, vi avevo accennato precedentemente, anche la presenza di basofili ed


eosinofili nel sangue periferico, perché la loro presenza si associa ad una prognosi
MENO FAVOREVOLE!
Quindi questi sono i 2 score principali. Tenete conto che, contrariamente a situazioni di
altro genere, qui ci sono delle formule matematiche, che tengono conto dei vari parametri
e bisogna applicare questa formula per poter avere un valore numerico che ci dice se
questo paziente ha una prognosi buona, così così o una prognosi assolutamente
sfavorevole. Ovviamente questi score nell’era della medicina di precisione e degli inibitori
delle tirosin chinasi hanno molto perso il loro significato, anche se per alcuni aspetti
possono risultare utili.

TERAPIA LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA

Negli anni ‘50- ’60 radiazioni ionizzanti, cioè radioterapia sulla milza per esempio.

Poi anni ’70-’80-‘90 busulfàno ed idrossiurèa, sono dei citostatici, dei farmaci alchilanti,
che sostanzialmente erano (in realtà sono utilizzati ancora oggi in qualche caso) molto
efficaci nel ridurre la quantità di globuli bianchi di questi pazienti, soprattutto in quelli che
erano ipercitosici, cioè quelli che avevano un numero di globuli bianchi molto elevato però
la malattia sostanzialmente rimaneva e nell’ambito del midollo osseo non c’era una
risposta così importante, come quella che è possibile invece ottenere con altri farmaci.

Nel trapianto di midollo osseo di cellule staminali allogeniche (il prof poi dice un qualcosa
d’incomprensibile 37:22), ancora oggi il trapianto di midollo osseo allogenico è
un’indicazione in alcuni pazienti con leucemia mieloide cronica ma tenete conto che negli
anni ‘80-‘90 ed inizio 2000 il trapianto era l’unico tipo di terapia in questi pazienti, in grado
di guarirli, ovviamente con tutte le limitazioni, quali: la mortalità da trapianto, il pazienti
dovevano essere più giovani ecc… però non c’erano altre chances. Oggi coi farmaci che
abbiamo a disposizione il significato del trapianto allogenico è notevolmente meno
importante, prima era l’indicazione principale al trapianto rispetto alle patologie
ematologiche, oggi lo è molto meno e quasi scomparso se non in casi particolari.

L’interferone-α è il farmaco che in qualche modo ha cominciato a cambiare la storia della


leucemia mieloide cronica. Un gruppo italiano coordinato dal professor Baccanali ha dato
un contributo importante, perché si è visto che la probabilità di risposta all’interferone e
soprattutto la durata della malattia ed anche la profondità della risposta potevano essere
molto migliori con questo farmaco rispetto all’uso del busulfano ed idrossiurea.
L’interferone però è un farmaco terribile, nel senso che è gravato da tanti effetti
collaterali, soprattutto all’epoca le forme d’interferone che si conoscevano dovevano
essere somministrate a dosaggi elevati, 3 volte a settimana o tutti i giorni, quindi la qualità
di vita del paziente ne risentiva molto.

Questa molecola, cioè l’imàtinib, ricordatevela perché è il capostipite degli inibitori delle
tirosin-chinasi. È un farmaco che va specificamente a legarsi nel sito dove c’è l’alterazione
citogenetica e che ha cambiato radicalmente la storia della leucemia mieloide cronica e
dopo l’imanitib ne sono venuti fuori molti altri, che hanno ulteriormente modificato il
profilo in termine di profondità della risposta, di tollerabilità ecc…

Idrossiurea e busulfano abbiamo detto, hanno


un effetto solo palliativo, possono normalizzare
il numero di globuli bianche e di piastrine ma
non inducevano una regressione del clone
neoplastico. La sopravvivenza mediana, come vi
dicevo, era di circa 4 anni.

Attualmente vengono usati solo per il controllo


iniziale della leucocitosi, prima di cominciare un
trattamento con tirosin-chinasi.

Può essere però utile (riferito alla


chemioterapia tradizionale) in pazienti molto anziani nei quali l’uso degli inibitori può
essere meno indicato o avere meno significato.

Può anche essere un uso palliativo per pazienti che NON rispondono ad altre terapie, che
però sono molto pochi.
Quindi un uso abbastanza limitato, quasi cosmetico direi, di questi farmaci.

L’interferone soprattutto con la citosina


arabinoside induceva una percentuale di risposte
citogenetiche più alta, cioè spariva il cromosoma
Philadelphia fino al 50% dei casi, e risposte
ematologiche fino al 30%. Non si sa se
l’interferone fosse in grado di guarire questi
pazienti e non è tollerato da molti pazienti, per
astenia, mialgie, depressione, febbre e
complicanze autoimmuni.

Soprattutto è un farmaco NON efficace nella fase accelerata o nella fase blastica.

Questo è molto importante perché, quando si


utilizzavano i farmaci di cui abbiamo appena
parlato, ci si accontentava della risposta
ematologica completa, cioè della
normalizzazione dei valori dell’esame
emocromocitometrico: emoglobina, piastrine
ed i globuli bianchi. In realtà questo non è
sufficiente, perché la malattia non è
assolutamente sotto controllo.

Una risposta citogenetica maggiore, cioè una


risposta in cui le cellule Philadelphia positive (Ph+), quando facciamo un controllo del
midollo osseo con citogenetica convenzionale o con FISH è superiore al 33% (il prof dice
superiore ma penso che in realtà sia inferiore) e questo si associa ad una prognosi migliore.

Infine una risposta citogenetica


completa, cioè una scomparsa
completa delle cellule Ph+ alla
citogenetica convenzionale o alla FISH.

Questi (risposta ematologica completa


ecc…) erano i parametri di valutazione
con farmaci convenzionali però vedete
qui come la curva di sopravvivenza di
questi pazienti fosse assolutamente terribile, nel senso che morivano tutti e morivano con
una mediana di circa 3-4 anni. Parliamo di 500 pazienti in fase cronica non blastica dal ’73
al ’77 (è uno studio italiano). Vedete che a 10-12 anni i pazienti sono tutti morti.

Abbiamo accennato al trapianto che può guarire


circa il 60% dei pazienti in fase cronica, con la
scomparsa permanente del cromosoma
Philadelphia e di BCR/ABL, soprattutto nei
pazienti giovani e con donatore compatibile però
c’è una mortalità da trapianto del 20% e non tutti
i pazienti, che non muoiono di trapianto sono
guariti, perché la malattia può ancora presentarsi
(recidiva). A fronte di una possibilità di guarigione
più elevata, che è associata all’uso di inibitori
tirosin-chinasici, capite bene che questa è una procedura che, mentre prima era la
procedura salvavita di tutti i pazienti, che potevano fare un trapianto, oggi questo viene
visto molto più raramente.

Ciò soprattutto perché l’aumento della mortalità


nei pazienti di età > 45 anni è più elevato, mentre
la mortalità è molto meno elevata in pazienti
molto giovani. Il trapianto di cellule staminali
allogenico, quindi da un donatore o da registro
(??? 43:20) in fase accelerata è meno efficace ed è
quasi sempre inefficace se fatto nella fase blastica.
Quindi il trapianto va fatto quando il paziente sta
bene, in una fase di remissione e questo
ovviamente pone tutta una serie di problematiche che voi potete ben comprendere.

Allora queste sono le 2 riviste più importanti


sotto il profilo divulgativo (time) e sotto il
profilo scientifico (nature), tutte e 2 hanno
avuto numerosi numeri dedicati ai cosiddetti
magic bullets, cioè ai proiettili magici, cioè a
questi farmaci, in questo caso specifico
inibitori di tirosin-chinasi, che sono in grado
d’individuare una singola alterazione, un
singolo momento patogenetico e potenzialmente in grado di guarire una quota
significativa di questi pazienti.

Questa (il prof indica il Time) si riferisce al Glivec, che è il nome commerciale dell’imatinib.
E avere la prima pagina di queste riviste significa veramente qualcosa di rivoluzionario.

Questa è la formula dell’imatinib, che è il capostipite


degli inibitori tirosin-kinasici di 1° generazione.

Qui non parliamo più di risposte ematologiche


o di risposte citogenetiche, cioè non ci
accontentiamo più della scomparsa
macroscopica o citogenetica della malattia ma
andiamo invece verso le cosiddette risposte
molecolari, che non sono più basate sul
numero di globuli bianchi e piastrine o sul
numero di metafasi in cui è presente o meno il
cromosoma Philadelphia, bensì sulla qualità
della risposta molecolare, cioè sulla presenza e sulla quantità del trascritto BCR-ABL
rispetto ad una valutazione di riferimento (ABLIS).

Nella risposta molecolare maggiore questo rapporto (BCR-ABL/ABLIS) è < 0.1.

Nella risposta molecolare completa il BCR-ABL scompare completamente.

Capite bene che ottenere questo tipo di risposta si associa ad una sopravvivenza
notevolmente maggiore rispetto a quella che abbiamo visto per i farmaci precedenti.
Questi farmaci vanno ad infilarsi nella tasca attiva del BCR-ABL e quindi impediscono
all’ATP di entrare dentro e quindi di fosforilare le proteine (che restano non fosforilate,
quindi non attive).

Qui ribadisco (il prof si riferisce alla slide: LEUCEMIA MIELOIDE


CRONICA: IMATINIB) un po’ quella che è l’attività di STI 571
(imatinib), che inibisce l’attività tirosin-kinasica della proteina di
fusione BCR/ABL, bloccando il sito di legame con l’ATP. Quindi
arresto proliferativo e induzione dell’apoptosi nelle cellule della LMC. Cioè le attività di
tirosin-kinasi costitutive (presenti in maniera continuativa) vengono bloccate e viene
riposizionato indietro l’orologio biologico della malattia, in cui le cellule neoplastiche
muoiono e le cellule normali riempiono il midollo in maniera significativa.

E queste sono le curve che sono ottenibili con


l’utilizzo di inibitori tirosin kinasici (e in
particolare questo è l’imatinib). Vedete bene
che il 95% di questi pazienti (praticamente
tutti) sopravvive a 5 anni, mentre prima più
della metà a 5 anni, a 4 anni erano già morti.
Questo viene fatto considerando le morti
correlate alla LMC, tutte le morti e tutte le
morti non censorizzate per il trapianto di
midollo osseo. Cioè significa che queste curve
di sopravvivenza sono per certi versi assai
simili a quelle della popolazione normale. Quindi una curva completamente diversa da
quelle che abbiamo visto precedentemente grazie all’attività di questo farmaco.

E cosa bisogna aspettarsi e che cosa deve essere


importante in un paziente trattato con farmaci di questo
tipo:

1. Entro 3 mesi una risposta ematologica completa


2. Entro 6 mesi una risposta citogenetica maggiore
3. Entro 12 mesi una risposta citogenetica completa
4. Entro 18 mesi una risposta molecolare maggiore

Ma vedremo che oggi questo non è più sufficiente. Soprattutto si possono ottenere
risultati migliori con gli inibitori di 2° e 3° generazione.

Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo…


guardate che quando l’imatinib è stato
commercializzato (in realtà abbiamo partecipato
anche ad alcuni studi) io ero molto scettico, perché
conoscevo purtroppo la storia dei pazienti con LMC
(ho avuto anche qualche amico purtroppo). Però
dopo 7-10 giorni di terapia prendendo per via orale
queste 4 compressine la malattia praticamente
spariva e andando avanti sparivano anche tutti i
marcatori citogenetici e molecolari. Quindi è stata
(soprattutto per i pazienti direi) una vera e propria rivoluzione.

L’imatinib, se vogliamo trovare dei difetti, probabilmente è potente ma non tanto da


assicurare di guarire sempre la malattia, perché le cellule staminali Philadelphia-positive
(quelle che abbiamo visto essere responsabili della colonizzazione del midollo e poi dello
sviluppo della LMC) quiescenti, non attive, NON vengono eliminate.

Quindi la terapia con imatinib andrebbe proseguita per tutta la vita (questa è una
diapositiva un po’ vecchia). Andrebbe sospesa solo nelle donne in età fertile che vogliano
avere un figlio (l’imatinib è dannoso per l’embrione e per il feto). Ma si tratta di situazioni
già ormai superate.

Ovviamente ci possono essere problemi di resistenza e di


tollerabilità.

L’imatinib molto spesso dà dolori ossei e crampi muscolari,


può avere una tossicità ematologica, può avere una
tossicità cardiaca limitata rispetto ad altri, una tossicità
cutanea (possono comparire lesioni cutanee di vario
genere) ma soprattutto l’imatinib è un farmaco che
favorisce la ritenzione idrica (quindi i pazienti aumentano di
peso e c’è bisogno a volte di utilizzare dei diuretici). Tutti
questi disturbi (soprattutto i dolori ossei, i crampi muscolari e la ritenzione idrica) fanno sì
che la compliance del paziente (la compliance sarebbe il fatto che il paziente sia fedele
all’assunzione del farmaco nei modi, nei tempi e nelle quantità che sono state prescritte)
sia piuttosto ridotta.

Vi racconto un altro aneddoto: alcuni anni fa non si riteneva che non si potesse
interrompere il trattamento con inibitori della tirosin-kinasi ma si riteneva (come avete
visto nella diapositiva precedente un po’ datata) che bisognava farlo a vita. Noi seguivamo
una paziente che veniva presso il nostro ambulatorio e che aveva una risposta ottimale
(scomparsa completa della leucocitosi, controllo citogenetico e molecolare). Questa
signora (per motivi anche famigliari) andava ogni tanto dal Prof. Tura a Bologna per avere
un conforto su quello che stava facendo. Mi arrivò un giorno una lettera del Prof. Tura che
diceva: “Caro mio, ho visto la signora Tizio e Caio. Ti comunico che la signora è un anno che
non prende più la terapia”. Quindi, un anno di sospensione della terapia. La malattia
continuava a rimanere negativa sotto il profilo citogenetico e molecolare. La signora
sostanzialmente si era stufata di questi effetti collaterali e aveva sospeso il farmaco. Per
me è stata ovviamente una sorpresa ma poi con i dati che vedremo più avanti questa
sorpresa trova una giustificazione clinica e biologica.

Quindi, per quale motivo può fallire la terapia


con imatinib:

− la comparsa di tossicità che impedisce il


proseguimento della terapia;

− la comparsa di una resistenza, che può


essere dovuta prevalentemente ad
un’attività di amplificazione del gene BCR-
ABL, ad un alterato metabolismo e
assorbimento, a vie alternative di
attivazione delle tirosin-kinasi e soprattutto alla comparsa di mutazioni aggiuntive di
BCR-ABL (quindi non più solo la proteina di fusione ma una serie di mutazioni del gene
che rendono la malattia non più responsiva all’imatinib);

− la scarsa compliance alla terapia, come abbiamo visto precedentemente anche con
l’esempio della signora. Quello è un caso limite ma è chiaro che in molti pazienti che
interrompono l’imatinib (circa la metà) la malattia tende a ricomparire.
E questa è una parte delle mutazioni
del gene BCR-ABL, che sono state
identificate (dice più di 80 ma in realtà
sono un centinaio in questo momento)
durante la terapia con imatinib e che
rendono il paziente non più sensibile al
trattamento con il farmaco.
Soprattutto ricordatevi la mutazione
T315I, che è una mutazione terribile
perché è una mutazione che definisce
una resistenza costitutiva non solo
verso l’imatinib ma anche verso la
maggior parte dei farmaci che sono stati sviluppati successivamente (e che sono invece in
grado spesso di superare tutte le altre mutazioni) tranne uno che è il Bosutinib.

Se imatinib è l’inibitore tirosin-kinasico di 1°


generazione, il nilotinib e il dasatinib sono
gli inibitori di 2° generazione. Sono farmaci
più efficaci (nel senso che inducono risposte
più veloci e più profonde) e hanno un profilo
di tossicità differente rispetto all’imatinib.

Il nilotinib è in grado di assicurare risposte


citogenetiche importanti e superiori a quelle
dell’imatinib anche in fase accelerata e in crisi
blastica.
Altrettanto il dasatinib (fino al 50% di risposte
citogenetiche maggiori, ma questi sono dati
abbastanza vecchi).

Quello che volevo segnalarvi è il profilo di tossicità, che nel nilotinib e nel dasatinib è
diverso rispetto all’imatinib:

• per il dasatinib soprattutto la tossicità


ematologica del dasatinib e la presenza di
versamenti pleurici;
• per il nilotinib il metabolismo glicidico
(molto spesso i pazienti diventano
diabetici), anche in questo caso la
compliance alla terapia, la tossicità
ematologica e cardiologica (il nilotinib può
dare più frequentemente un
prolungamento di QT rispetto agli altri
farmaci).

Perché farmaci con lo stesso meccanismo di azione danno effetti diversi? Perché l’imatinib
e il nilotinib sono specifici inibitori delle T-K attivata dal gene bcr/abl, mentre il dasatinib è
attivo anche su altri patway metabolici (più efficace ma meno selettivo).

I farmaci di terza generazione sono: bosutinib, ponatinib, asciminib.

Il bosutinib è impiegato nei pazienti che non


rispondono agli altri farmaci ma è importante
soprattutto Il Ponatinib, perché è l’unico
inibitore delle t-k che ha efficacia sui pazienti con
mutazione T315I vista in precedenza. L’asciminib
(diremo 2 parole su questo più avanti) è,
possiamo dire, di una quarta generazione, con meccanismo molecolare completamente
diverso.

Quindi se vediamo le sopravvivenze dal 1970 al


2010 dei pazienti trattati con interferone,
chemioterapia e inibitori delle t-k, i maggiori
risultati si hanno con questi ultimi, ovviamente.

Cosa è cambiato della visione clinica


dei medici alla leucemia mieloide
cronica: vediamo la malattia in
maniera diversa, la terapia in maniera
diversa e anche gli obiettivi (clinical
endpoints) sono differenti: nel nuovo
scenario non è più la malattia al
centro, ma è il paziente. In passato ci
saremmo preoccupati meno della
qualità di vita del paziente pur di
controllare la malattia. Oggi che
riusciamo a controllare molto bene la
malattia ci preoccupiamo di altre
situazioni. Oggi è cambiato il monitoraggio della malattia che viene fatto in maniera
molecolare. È cambiato anche il decision making: bisogna scegliere tra un inibitore e
l’altro. Bisogna assicurarsi che il paziente abbia aderenza alla terapia. Bisogna valutare
anche le comorbidità che il paziente può avere, sia precedentemente alla terapia, sia le
possibili tossicità che il farmaco può
dare.

Quindi per prima cosa oggi si valuta


l’endpoint clinico che non è più la
risposta ematologica, non è più la
risposta citogenetica, non è più neanche la risposta molecolare maggiore ma è la risposta
molecolare completa, cioè la scomparsa della malattia. In tutte queste fasi siamo in una
scala logaritmica, quindi capite bene di quanto si riduca la popolazione leucemica in un
paziente che ottiene la risposta molecolare completa (sostanzialmente la sparizione del
tumore).

Le linee guida europee


della ELN (european
leukemia network)
indicano quelli che sono
gli obiettivi che
dobbiamo avere per
considerare una nostra
terapia, quella che noi
abbiamo scelto
(sostanzialmente il tipo
di inibitore di tirosin
chinasi9. All’inizio se i
globuli bianchi sono
molto alti si fa un po’ di
idrossiurea per ridurre il numero dei globuli bianchi ma si tratta di qualche giorno o
qualche settimana di terapia poi bisogna iniziare con gli inibitori della tirosin chinasi.

Quello che noi dobbiamo aspettarci come risposta ottimale riguarda essenzialmente la
quantità di trascritto bcr/abl, che deve essere:

• inferiore al 10% rispetto allo standard di controllo dopo 3 mesi,

• inferiore all’ 1% dopo 6 mesi,

• inferiore allo 0,1% (obiettivo fondamentale da ottenere per poter cominciare a


pensare alla sospensione del trattamento) dopo 12 mesi. Inferiore allo 0,1% significa
una remissione molecolare 10- 4 e quindi capite bene rappresenta un obiettivo
assolutamente fondamentale da ottenere, perché questo è quello che bisogna
ottenere per cominciare a pensare alla sospensione dei trattamenti.

Se noi otteniamo dei risultati intermedi vuol dire che ci può essere la necessità di cambiare
il farmaco, cioè quello che stiamo utilizzando non va bene.
Ovviamente se non otteniamo questo tipo di risposta questo è un failure, quindi è certo
che dobbiamo cambiare il farmaco.

Il monitoraggio citogenetico che era lo standard di trattamento usato fino a qualche anno
fa oggi è completamente superato, ed è in biologia molecolare che bisogna fare la
valutazione bcr/abl a 3,6,12 mesi e poi successivamente periodicamente per mantenere
questo tipo di risposta. Se noi manteniamo questo tipo di risposta per un certo periodo di
tempo saremo autorizzati ad interrompere il trattamento.

Quindi le problematiche principali attuali con i


nuovi farmaci, nella gestione della LMC, sono:

1. la scelta della terapia di prima linea,

2. la gestione dell’intolleranza alla terapia,

3. il warning e il failure (cioè le due


situazioni in cui non si ottengono i
risultati attesi),

4. l’importanza di una risposta precoce, questo è un parametro prognostico molto


importante, perché si può ottenere la stessa risposta ma se la si ottiene dopo 3
mesi, 6 mesi o un anno il significato è completamente diverso.

5. il TFR (treatment free remission, ovvero la sospensione del trattamento in una fase
di remissione completo).

Oggi abbiamo 3 inibitori delle tk, ovvero l’imatinib, il dasatinib e il nilotinib che sono
utilizzabili come trattamenti di prima linea per la leucemia mieloide cronica (abbiamo
anche il bosutinib).

Le progressioni sono rare e meno frequenti con gli inibitori di seconda generazione
(dasatinib e nilotinib) e l’obiettivo è la sopravvivenza o la sopravvivenza con sospensione
del trattamento.
Vedete qua come per i pazienti di
età di 55 anni maschi e femmine,
per i pazienti di età > 65 anni
maschi e femmine, la curva di
sopravvivenza di questi pazienti
dal 1970 al 2010 (cioè nell’epoca
dell’utilizzo degli inibitori della
tirosin chinasi) si è portata
assolutamente vicina se non
addirittura sovrapponibile a quella
della popolazione generale, che
non ha la leucemia mieloide
cronica.

Questi sono tutti gli studi per


dimostrarvi come i farmaci di
cui stiamo parlando, imatinib,
dasatinib e nilotinib siano in
grado di ottenere risposte di
BCR-ABL <10%, quindi
ottimali, in percentuali molto
elevate e siano in grado
anche di mantenere la
percentuale di sopravvivenza
a diversi anni, praticamente
vicina al 100%, con follow up
anche abbastanza lungo ed in
questo caso di 10 anni.

Come facciamo a scegliere tra


imatinib o uno di seconda
generazione?

Verrebbe da dire che quelli di 2


generazione sono più attivi quindi
scegliamo quelli ma non sempre è
così, perché abbiamo visto anche il profilo di tossicità può essere differente.

La valutazione va fatta in base ad alcune considerazioni: l’imatinib è stata fatta in molti


pazienti con periodo di osservazione degli studi clinici più lungo, ha meno complicazioni
rispetto a nilotinib e dasatinib. L’imatinib è ormai un farmaco divenuto generico, quindi
costa molto poco, mentre il nilotinib e dasatinib sono ancora costosi in quanto non sono
ancora stati sostituiti dal farmaco generico.

L’Imatinib ha una risposta meno veloce rispetto al Nilotinib (o Dasatinib), questo abbiamo
visto essere molto importante perché una risposta precoce condiziona una prognosi
migliore.

Le risposte sono meno profonde rispetto a quelle dei farmaci di seconda generazione in
termini di malattia molecolare, tuttavia la probabilità di interrompere il trattamento per i
criteri che vedremo tra un attimo è meno frequente, però se andiamo a vedere la
sopravvivenza a lungo termine (10 anni) di questi pazienti vediamo che la percentuale di
pazienti è esattamente la stessa.

Come gestiamo il paziente da un punto di vista più ampio?

La maggior parte dei pazienti necessità di un trattamento con inibitori tyrosin-chinasi a


lungo termine, vanno perciò considerate: l’età, le comorbidità (questi pazienti prendono
molti farmaci -polifarmacia- che influiscono sulla compliance), gli effetti collaterali e la
qualità di vita del paziente stesso.

Prima di iniziare una TKI terapia dobbiamo porci delle domande:

• Età e aspettativa di vita del paziente,

• Comorbidità se ci sono,

• Storia cardiologica (nilotinib può dare problemi di tipo cardiaco)

• La storia della malattia, lo score, la durata della malattia,

• La dose e la durata della terapia una volta selezionato l’inibitore tyrosin-chinasico.

Qual è lo scenario reale di pazienti trattati con inibitori tyrosin-chinasici?

Prendiamo in esempio uno studio retrospettivo dell’AIFA che ha riguardato circa 2500
pazienti da gennaio 2013 a dicembre 2018, di questi:

• Il 13 % ha cambiato il farmaco,

• il 16% è stato trattato con Dasatinib con fallimento al 40% e intolleranza al 36%,

• l’11% è stato trattato con nilotinib con fallimento del 45% e intolleranza del 27%.
Quindi si tratta di terapie molto efficaci, orali e apparentemente tranquille che però non
hanno efficacia uguale, inoltre è possibile che ci siano dei failure, quindi non
raggiungimento degli obiettivi posti e una probabilità di intolleranza che non è per niente
scarsa. Le comorbidità vanno considerate perché circa il 30% dei pazienti ha almeno una
comorbidità e il 10% ha più di due comorbidità, le più frequenti sono l’ipertensione,
disordini cardiovascolari e il diabete, tutte situazioni che possono essere stressate da
trattamenti con inibitori.

Almeno 1/4 dei pazienti cambierà inibitore per inadeguata risposta o per intolleranza
inoltre gli effetti collaterali a lungo termine impattano sulla qualità di vita.

Il warning e il failure ci costringono a cambiare il tipo di trattamento, inoltre il paziente che


risponde più velocemente probabilmente avrà una prognosi migliore di quello che
risponde meno rapidamente. Le mutazioni sono molte di più di quelle che abbiamo visto
precedentemente e possono insorgere forse in tutti i trattamenti.

Se abbiamo un fallimento, una resistenza o un’intolleranza al farmaco è obbligatorio


cambiare il tipo di trattamento e verificare il tipo e la presenza di mutazioni che possono
indirizzare verso un farmaco o verso un altro.

Se invece la questione è il warming, cioè abbiamo ottenuto una risposta accettabile ma


non è proprio quella che volevamo allora il cambio del trattamento è opzionale, bisogna
valutare tutte le questioni viste precedentemente e utilizzare un farmaco alternativo in
funzione di quella che è stata la risposta ma anche in funzione del profilo di tossicità del
farmaco e le comorbidità del paziente stesso.

Il Treatment-Free
Remission (TFR)
rappresenta l’obiettivo
che dovremmo porci su
una buona parte dei
pazienti o comunque su
quelli più giovani o su
quelli che hanno fatto una
terapia e hanno ottenuto
un certo risultato in un
numero adeguato di anni.
Qui di lato vedete
riassunta la storia dell’evoluzione del trattamento della leucemia mieloide cronica.
Oggi ci si aspetta una
remissione molecolare
completa che sia in grado di
assicurare al paziente
un’eventuale guarigione.
Questo studio ci dimostra
come la metà dei pazienti
che interrompe il
trattamento con imatinib
rimane a lungo termine
senza ripresa della malattia
(qui vedete fino a 96 mesi
tra il 40 e il 50%), ciò
significa che noi potremmo
considerare guariti circa la metà dei pazienti che hanno sospeso il trattamento dopo un
certo periodo di tempo e dopo un certo numero di risulati. Stessa cosa per quanto riguarda
il nilotinib, circa il 50% dei pazienti non recidiva dopo sospensione e stessa cosa per quanto
riguarda il dasatinib, circa il 50% dei pazienti non recidiva dopo sospensione del farmaco.
Questa è l’esperienza italiana alla quale abbiamo partecipato anche noi che
sostanzialmente va a confermare che dal 50 al 60% dei pazienti con una decisione
condivisa tra medico e paziente non recidiva (considerate che il paziente che fa terapia e
che la tollera bene è un po’ostile al sopsendere la terapia perché ha paura che si
rispresenti, ma è un obiettivo da raggiungere perché i dati sostengono che circa la metà di
quelli che sospendono in genere non ricade). Addirittura è possibile sospendere per una
seconda volta il trattamento, quindi dopo averlo
sospeso la prima volta, la malattia si è
ripresentata, abbiamo ripreso il farmaco o

TFR probability (%)


abbiamo preso un altro farmaco e abbiamo
ottenuto una risposta completa molecolare
anche in questo caso è possibile sospendere il
trattamento però la % di pazienti che non
recidivano è più bassa, intorno al 30%, ma
comunque una % significativa.
Time since TKI discontinuation (months)

Questa curva che vedete è un plateau ciò significa che non ci sono più recidive dopo un
certo periodo di tempo, che significa che questa (freccia) è esattamente la % di pazienti
che guarisce definitivamente.

Quali sono i criteri che ci permettono di sospendere il trattamento ad un determinto


paziente? I criteri più forti che ci fanno sospendere con una certa sicurezza sono:

• Score prognostico non alto all’esordio,

• Un trascritto tipico,

• Una storia di leucemia mieloide cronica che sia solo fase cronica,

• Un’ottimale risposta alla prima linea con inibitori delle tirosyn-chinasi.

• Una durata della terapia che sia superiore agli 8 anni


con una risposta molecolare MR4.5, cioè una risposta
molecolare profonda e mantenuta nel tempo,

• Questa risposta deve essere mantenuta per almeno 2


anni.

Con questa serie di parametri green c’è una forte


raccomandazione a considerare una sospensione dei TKI;
ma se la situazione è meno evidente, per esempio la durata
della malattia è meno importante, la risposta è meno
profonda, la durata della remissione molecolare è meno lunga oppure ci si trova difronte
ad uno score all’inizio prognostico alto o un trascritto non tipico, bisogna considerare la
sospensione solo in specifiche circostanze ovvero presenza di tossicità significativa o se è
programmata una gravidanza. Se questi criteri non ricorrono affatto allora non bisogna
sospendere il trattamenteo.

In realtà la % di paziente che può essere considerata eleggibile alla sospensione del
trattamento è molto variabile, va da 13% nei pazienti che fanno imatinib fino al 50% di
quelli che fanno nilotinib. È stato definito una
sorta di metodo per cercare di capire quali sono i pazienti che possono sospendere il
trattamento rispetto a quelli che possono recidivare. Sono stati presi in considerazione una
serie di parametri:

• Età,

• Resistenza a un precedente trattamento,

• la durata della risposta molecolare,

• Il tipo di trascritto.

E in base a questi è stato possibile identificare con una certa sicurezza i pazienti che hanno
maggiori probabilità di sospendere il trattamento e di non ricadere.

Nuovi TKI

Ascimitib è un inibitore allosterico della leucemia mieloide cronica,


questo ha un sito di legame del tutto diverso da quello degli altri Inactive
Active
inibitori fino ad oggi testati.

Ha dato risultati molto importanti sia perquanto riguarda la rispsota


molecolare sia per la risposta citogenetica, tenete conto che questo
farmaco è utilizzato attualmente in pazienti con malattia resistente o
malattia avanzata, quindi questi risultati (immagine sotto) che appaiono inferiori a quelli
degli inibitori tirosyn-chinasici precedenti devono essere considerati in pazienti non in
prima linea.
L’associazione di Ascimitib e Ponatinib è in grado di ridurre la sensibilità e la soppressione
dell’emergenza di cloni mutati.

L’Interferone, un vecchio farmaco che era stato utilizzato e che era stato abbandonato
perché era efficace ma molto tossico, è sato oggi rivalutato come possibile farmaco capace
di essere attivo sulle cellule staminali della leucemia mieloide cronica e sul controllo
immunologico della leucemia mieloide cronica, tant’è che oggi ci sono molti studi che
usano gli inibitori tirosyn-chinasici in combinazione con l’interferone.

La risposta all’interferone oggi viene considerata come un possibile fattore predittivo per
un’efficiente sospensione del trattamento, quindi un farmaco rivalutato con finalità
diverse rispetto a quelle per le quali era stato utilizzato in passato. Quindi interferone
come facilitatore per sospendere il trattamento stesso, ci sono molti studi in corso che
mirano ad aumentare la probabilità di non recidivare in pazienti che sospendono il
trattamento con inibitori tirosyn-
chinasici e interferone.

Ci sono anche studi in corso su


inibitori di BCL2 e su checkpoint
inibitor ma qui si tratta di una
ricerca clinica in fase molto
iniziale.

Conclusioni sui nuovi farmaci

Sono stati sviluppati diversi nuovi farmaci che cercano di contrastare la resistenza legata
alle problematiche di comparsa di mutazioni, l’ascimitib che ha un meccanismo allosterico
di inibizione è sicuramente il farmaco più interessante, le
combinazioni di ascimitib e ponatinib sono molto
promettenti, l’utilizzo di interferone con inibitori delle
tirosyn-chinasi sembra incrementare la possibilità di
risposte profonde in pazienti candidati alla sospensione del
farmaco, ci sono poi altri pathway come quello di BCL2 e
quello di PDR1 inibition che sono in fase di esplorazione e
che probabilmente nei prossimi anni ci daranno delle
informazioni più preziose.
MASTOCITOSI
È una patologia del
mastocita, una cellula grande
con tanti granuli basofili che
contengono

tantissime sostanze, in
particolare l’istamina ma
tante altre citochine come
l’eparina. Il mastocita è la cellula che sostanzialmente, quando l’antigene lega le IgE
presenti in superficie, rilascia l’istamina e tutte le altre citochine (questo in un controllo
fisiologico di alcune risposte immunitarie). La mastocitosi è una patologia di queste cellule
che sono presenti in percentuale di 2-3% nel midollo osseo.
I mastociti si
sviluppano da un
progenitore
pluripotente
delle cellule
staminali presenti
nel midollo osseo
che sono cellule
CD34+ e CD117+,
sotto lo stimolo
di alcune
citochine.
Vengono commissionati attraverso il passaggio nel sangue periferico e poi maturano sotto
il controllo di: citochine, matrice cellulare tissutale e cellule residenti (es.fibroblasti). Lo
Stem cell growth factor (SCF, anche chiamato Kit-ligand) è un fattore di crescita
fondamentale per le mast cellule. Quindi il profilo maturativo segue anche se in maniera
un po' più semplice quello che abbiamo visto per altre situazioni emopoietiche.

Che cosa sono le mast cellule? Qual è la loro funzione normale?

Sono delle cellule del sistema immunitario molto importanti perché sono le prime che
rispondono a situazioni di pericolo, per esempio se si viene punti da un’ape non si aspetta
la maturazione dei linfociti ecc… ma la reazione è praticamente immediata e ha la capacità
da un lato di reclutare, attraverso la liberazione di citochine infiammatorie (istamina
eparina, triptasi), tutta una serie di altre cellule immunitarie e dall’altro di promuovere
l’infiammazione che è un processo di risposta che cerca di eliminare quello che è successo.
La mast cellula reagisce anche a stimoli micro-ambientali inoltre è coinvolta nei processi di
riparazione tissutale, di recupero a livello cutaneo e nell’angiogenesi. Tutti i mediatori
coinvolti quando le mast cellule sono attivate sono: l’istamina, l’eparina, la triptasi e le
citochine infiammatorie le quali sono rilasciate in circolo quando la mast cellula è attivata
in seguito a interazione degli antigeni con le IgE di superficie.

Quali sono le cause di attivazione delle mast cellule e che cosa comporta la liberazione
dell’enorme contributo di citochine che le mast cellule al loro interno contengono?
L’induzione dell’attività delle mast cellule è legata alla presenza di allergeni e di sostanze
che posso scatenare le reazioni allergico-immunitarie, batteri, citochine, farmaci, funghi,
sostanze proteiche, tossine e virus.
A seconda del tipo e di intensità di rilascio delle citochine contenute nelle mast cellule si
possono avere effetti cardiovascolari, shock anafilattico(legato al fatto che il paziente
diventa teso e si “shocka”, ci sono forme men gravi come la sincope), alterazioni cutanee
come prurito, rash cutaneo, problematiche intestinali come diarrea, nausea e vomito,
situazioni muscolo-scheletriche come dolore osseo, osteopenia, osteoporosi( parliamo di
situazioni acute e di situazioni che si posso sviluppare attraverso stimoli cronici), disturbi di
tipo neurologico, ansietà, depressione, insonnia, cefalea e quelli più frequenti respiratori,
congestione nasale, prurito, respiro corto e disturbi sistemici quali la fatica, malessere
generalizzato e la perdita di peso.

Quindi vedete bene le cellule sono poche ma sono abbastanza forti da poter determinare
attraverso il rilascio di tutte queste sostanze che hanno all’interno del citoplasma tutta
questa serie di conseguenze.

Definizione di mastocitosi: è una condizione caratterizzata da un gruppo eterogeneo di


malattie. Si tratta di una proliferazione di tipo clonale quindi
neoplastica, una proliferazione da accumulo di mast cellule
patologiche in uno o più organi e un’attivazione patologica
della loro funzione. La malattia è rara 1:10.000.

Qua vedete quello che si osserva al midollo osseo attraverso


esame istologico: aggregati di cellule triptasi posistive
(questo è un marcatore tipico delle mast cellule).
Queste sono invece le mast cellule che caratterizzano la mastocitosi midollare, sono
abbastanza differenti da quelle che
abbiamo visto essere presenti in
condizioni normali che erano tonde,
ben ripiene di granuli basofili, queste
invece hanno un aspetto un po'
fusato a forma di ago, tentacolo che
sono caratteristiche morfologiche tipiche di una patologia neoplastica di tipo
mastocitotico.

Un’altra
caratteristica delle
mast cellule è quella
di avere un fenotipo
abbastanza
peculiare che serve
ad identificarle a
livello del midollo
osseo. In condizioni
fisiologiche le mast
cellule all’esame
citofluorimetrico
sono meno dell’1%,
ma in condizioni patologiche possiamo individuare usando dei marcatori CD2+ in
combinazione con CD25+ cellule aberranti che esprimono questo fenotipo che
rappresentano fino a un terzo della popolazione cellulare nelle forme di mastocitosi
indolente ma anche di mastocitosi sistemica.

L’organizzazione della World Health Organization del 2016 delle neoplasie mieloidi
identifica le mastocitosi all’interno delle neoplasie mieloproliferative che comprendono
anche la leucemia mieloide cronica e le sue varianti, la Polycythemia vera, la
trobocythemia essenziale (che abbiamo studiato) e altre forme un po' più rare (che non
abbiamo studiato).
Possiamo classificare le mastocitosi in:

• Mastocitosi cutanea rappresentata da: Urticaria Pigmentsa (passa con il tempo),


dalle Mastocitosi cutanee diffuse (è una forma pediatrica) e dal mastocitoma della
cute (molto rara),
• Mastocitosi sistemica divisa in vari sottotipi:
 Mastocitosi indolente (ISM) (variante dell’infiltrazione del midollo senza cute,
 Mastocitosi Smouldering (SSM),
 Aggressiva (ASM),
 Associata ad altre neoplasie ematologiche,
 Leucemia a mast cellule (molto cattiva dal punto di vista prognostico)
• Sarcoma mast cellulare.

Noi ci occuperemo delle forme indolenti, delle forme smouldering, delle forme aggressive,
delle forme associate ad altre neoplasie ematologiche e la leucemia a mast cellule e del
sarcoma mast cellulare.

Mastocitosi cutanea
È diagnosticata più frequentemente nei bambini, ha una prognosi favorevole, si risolve
generalmente alla pubertà e ha una diagnosi clinica e istologica, ci può anche essere un
marcatore molecolare.

Mastocitosi sistemica
È una patologia dell’adulto, non si risolve, è una malattia cronica neoplastica. Ha la
capacità di coinvolgere diversi tessuti come: rene, sistema gastrointestinale, osso, fegato e
midollo. I criteri diagnostici sono di tipo: citologico, morfologico, istologico, molecolare e di
laboratorio. Quindi una diagnosi complessa integrata.

In questo periodo stiamo cercando con i colleghi della dermatologia, della radiologia, della
gastroenterologia e dell’allergologia di stendere una sorta di protocollo per far interagire
tra di loro diverse professionalità perché molto diverse sono le componenti che sono
coinvolte da questo processo e molto spesso chi non è ben addentro potrebbe non
riconoscere questi casi qualora gli si presentino. Stiamo realizzando delle linee guida che
riguardano la multidisciplinarità di questa malattia.
Mastocitosi cutanea
Può essere: monomorfica e
polimorfica.
Tipico della mastocitosi è l’urticaria
pigmentosa, possono esserci
manifestazioni diffuse di mastocitosi,
mastocitoma cutaneo,
dermatografismo e il segno di Darier
(quasi patognomonico della
mastocitosi, se anadate a strofinare
una delle lesioni cutanee in pochi s si
sviluppa una reazione eritematosa,
pruriginosa che vi fa capire che voi
siete andati a stuzzicare le mast cellule
presenti nelle lesioni, avete stimolato la
produzione di citochine e avete
determinato la comparsa di questo
segno che è caratteristico, al pari del
dermatografismo che vedete qui).
Dermatografismo

Orticaria pigmentosa

Può colpire anche gli adulti, non solo i bambini. È la forma più comune di coinvolgimento di
mastocitosi, in genere si può associare alle forme indolenti di mastocitosi sistemica, ma a
volte anche nelle forme associate ad altri tipi di neoplasie ematologiche e alle forme
aggressive.

Caratteristicamente ha localizzazioni cutanee al dorso delle cosce, in genere risparmia il


palmo delle mani, la testa, la faccia e la pianta dei piedi.

Il prurito è esacerbato da alcuni farmaci, dal cambiamento della temperatura, dall’alcool,


da frizione locale. Molto caratteristico è questo aspetto localizzato essenzialmente al
tronco e alle cosce con risparmio di altre sedi.

Mastocitosi sistemica
È una neoplasia legata alla proliferazione di mast cellule in uno o più organi, è una malattia
rara, l’incidenza è sconosciuta, uno studio della Danimarca ha mostrato un’incidenza di
0,89:100.000 abitanti. La maggior parte dei pazienti ha forme indolenti, le forme di
mastocitosi avanzata includono i fenotipi di forme aggressive, di forme legate ad altre
patologie e di forme di leucemia. Le forme di leucemia mast cellulare hanno una prognosi
molto cattiva, mentre i pazienti con forme indolenti hanno una sopravvivenza migliore.

Come per la maggior parte delle patologie ematologiche esiste un’alterazione genetica, la
mutazione D816V del gene c-kit che determina la proliferazione cellulare, la maturazione,
la differenziazione, la soppressione dell’apoptosi, la degranulazione e la motilità. Questa
mutazione si trova nella maggior parte delle mastocitosi sistemiche, è la mutazione driver
di questa condizione e come tale anche in questo caso vedremo che, in maniera meno
eclatante che nell’esempio della leucemia mieloide cronica che abbiamo visto
precedentemente, esistono dei farmaci che vanno a colpire in maniera mirata questa
alterazione e quindi anche la mastocitosi rappresenta un esempio di medicina di
precisione.

In realtà non c’è solo la mutazione di c-kit a determinare la mastocitosi sistemica come
malattia clonale neoplastica, ma ci sono tutta una serie di altre situazioni che rendono
conto della differenza clinica di queste malattie e della differenza di espressione sotto il
profilo dei segni, sei sintomi e delle localizzazioni.

Ci sono quindi altri fattori che sono responsabili dello sviluppo delle forme più aggressive e
in particolare una riduzione della proteina SETD2 (che fa parte del processo di metilazione
e quindi di regolazione genetica) che nei pazienti con mastocitosi sistemica si associa a una
forma più avanzata e più aggressiva. Le forme più aggressive sono quelle associate ad altre
patologie ematologiche, la leucemia mast cellulare. Nel paziente le forme aggressive sono
caratterizzate da:

• interessamento cutaneo del tipo urticaria pigmentosa nel 10% dei casi,
• interessamento sistemico della malattia nel 90-95% dei casi, (sono interessati
midollo, la milza, i linfonodi, la cute, le ossa e il sistema gastro-intestinale).

La diagnosi è caratterizzata dalla presenza di:

• 1 criterio maggiore + 1 criterio minore o


• 3 criteri minori.

Il criterio maggiore è rappresentato dalla presenza di infiltrati


densi multifocali di mast cellule (più di 15 aggregati alla biposia
osteomidollare o in altri tessuti).
Criteri minori:

- Presenza di mast cellule nel citologico dell’aspirato midollare o in altri tessuti in


misura superiore al 25%; oppure più del 25% di mast cellule immature atipiche nel
midollo
- Presenza della mutazione 816 a livello di c-kit
- Espressione del fenotipo abnorme in particolare gli antigeni CD2 e CD25
- Dosaggio di triptasi nel siero >20 ng/mL (marcatore classico)

C’è quindi una stretta collaborazione fra il patologo, l’ematologo e il laboratorio.


L’ematologo deve leggere l’aspirato midollare e riconoscere queste cellule che sono molto
caratteristiche.

Confermata la diagnosi di Mastocitosi sistemica, grazie ai criteri appena visti, bisogna


stabilire il sottotipo tramite i criteri B e C-findings.

I criteri B sono legati alla massa di mast cellule e sono:

- Infiltrazione midollare >30% + la triptasi sierica >200 ng/mL


- Alterazione o meno delle linee mieloidi nel midollo (serve come diagnosi
differenziale per altre patologie)
- Epatomegalia con o senza alterazioni funzionali del fegato E/O splenomegalia
palpabile senza ipersplenismo E/O linfoadenopatie visibili sia all’esame obiettivo sia
tramite imaging.

Queste alterazioni sono ovviamente collegate al quantitativo di mast cellule infiltrate.

I criteri C sono collegati alle CK che vengono rilasciate dalle mast cellule e al danno che
possono arrecare ai vari organi:
- Citopenia legata all’infiltrazione midollare
- Presenza di localizzazioni ossee, caratterizzate essenzialmente da aree di ostelisi o
osteoporosi diffusi o fratture patologiche
- Malassorbimento con ipoalbuminemia + perdita peso per interessamento
gastrointestinale
- Epatomegalia con alterazioni della funzione epatica (ascite + ipertensione portale)
- Splenomegalia con eventualmente ipersplenismo

CLASSIFICAZIONE

Se non ci sono sintomi B o C-findings -> mastocitosi INDOLENTE

Se ci sono almeno 2 sintomi B -> mastocitosi SMOLDERING

Se c’è almeno un C_finding -> mastocitosi AGGRESSIVA

Se c’è un C-finding + 20% di mast cellule nel midollo o nel sangue periferico -> LEUCEMIA A
MAST CELLULE

BONE MARROW MASTOCYTOSIS (BMM)

C’è esclusivamente una infiltrazione non particolarmente significativa da parte delle mast
cellule nel midollo SENZA interessamento cutaneo.
È una entità morfologicamente NON certa attualmente, ma è una possibilità di diagnosi. È
una variante della mastocitosi sistemica indolente e a sé stante, caratterizzata da:

- Sesso M
- Assenza di lesioni cutanee
- Osteoporosi
- Anafilassi alla puntura di vespe
- Basso burden di mast cellule
- I livelli di triptasi possono essere normali o lievemente incrementati
- Prognosi favorevole

PATOLOGIE EMATOLOGICHE ASSOCIATE A MASTOCITOSI SISTEMICA

MIELOIDI >90% dei casi

• Tutte le neoplasie mieloproliferative: policitemia vera, mielofibrosi, trombocitemia


essenziale
• Sindromi mielodisplastiche
• Leucemia mielomonocitica cronica
• Le forme transizionali mielodisplastiche e mieloproliferative (tra cui l’anemia
refrattaria con sideroblasti ad anello e trombocitosi
• Leucemia mieloide eosinofila
• Leucemia mieloide acuta

LINFOIDI <10% dei casi

 Mieloma multiplo
 Linfoma
 Leucemia linfomonocitica cronica

Quindi possiamo dire che se ci dovesse essere una patologia associata alla mastocitosi
sistemica, questa nel 90% dei casi è probabilmente di origine mieloide.

LEUCEMIA A MAST CELLULE

Forma estremamente aggressiva.

Diagnosi: cellule immature atipiche >20% nel midollo

Variante classica: <10% di mast cellule circolanti

Variante aleucemica: le mast cellule circolanti sono pochissime (ancora meno del 10%)
Generalmente presenta i C-findings nella forma acuta; nella forma cronica i B e C-findings
sono per lo più assenti. Si tratta di differenze “semantiche”, poiché nel momento in cui le
mast cellule circolano nel sangue siamo sicuramente di fronte ad una forma aggressiva.

Variante primitiva: senza una mastocitosi o neoplasia mieloide antecedente

Variante secondaria: rappresenta la trasformazione di una mastocitosi generalmente


aggressiva (già diagnosticata) o un sarcoma a mast cellule

Prognosi: assolutamente infausta!

Molto variabili, sicuramente le forme indolenti sono le più frequenti, quelle aggressive lo
sono meno. Abbastanza importante è la percentuale di mastocitosi sistemica associata a
neoplasie mieloidi o linfoidi (cioè neoplasie ematologiche precedenti). Quindi per
incidenza, vengono prima quelle indolenti, a seguire quelle associate e infine quelle
aggressive (10% pazienti).
Le forme indolenti hanno una sopravvivenza del tutto simile a quella della popolazione
normale non affetta da mastocitosi, certamente non con la stessa qualità di vita a causa
dei sintomi che possono essere molto fastidiosi e difficilmente controllabili.

Le forme aggressive e le forme associate ad altre neoplasie ematologiche hanno una


prognosi molo meno favorevole (3-4 anni).

Infine nella leucemia a mast cellule la sopravvivenza è bassissima, i pazienti muoiono


nell’immediato (nel grafico infatti non c’è una curva, ma una linea quasi retta).

FATTORI PROGNOSTICI

Questi fattori ci fanno capire quali casi possono facilmente progredire nelle forme
aggressive:

- Età >60aa
- Elevata beta2-microglobulina
- Coinvolgimento multi-lineare a livello di diverse linee cellulari della mutazione di
816D
- Presenza di mutazioni genetiche aggiuntive (oltre c-Kit)
Può essere diverso il livello in cui la mast cellula o il progenitore della mast cellula viene
colpito. Queste forme su cellule ancestrali possono essere quelle che maggiormente
coinvolgono altre linee cellulari. Le forme che occorrono a livello del progenitore mieloide
comune o addirittura a livello della differenziazione mast cellulare hanno un
interessamento lineare molto più limitato. Però almeno 1/3 delle forme indolenti e tutte le
forme aggressive hanno un interessamento multilineare mieloide o linfoide dell’emopoiesi
e quindi si tratta di situazioni in cui la noxa è intervenuta a vari livelli [riferimento a fulmini
sulla slide]. Questo lo si può vedere studiando le cellule staminali, eosinofili, monociti,
neutrofili ecc…

La prognosi dei pz con coinvolgimento


multilineare è assai meno favorevole.

Le mutazioni sono c-kit aggiuntive o


addizionali e sono le solite che vengono
riscontrate nei processi mieloproliferativi
(già visti nelle leucemie acute,
mielodisplasie): alterazioni di c-Kit,
ASXL1, TET2, RUNX1. Possono determinare una facilitazione di uno sviluppo verso la
mastocitosi, sia che siano presenti sin dall’inizio sia che siano state acquisite nel tempo.
Chiaramente queste mutazioni portano ad una prognosi meno favorevole. Si può
riassumere dicendo: più mutazioni -> evoluzione negativa della malattia.

La mediana di sopravvivenza è a 12
mesi per i pz con queste mutazioni,
la mediana di sopravvivenza invece
non raggiunta per i pz che non
hanno queste mutazioni.

CONCLUSIONI

- La mastocitosi sistemica è
una malattia rara e molto
eterogenea.
- Lo scenario clinico più
frequente deve essere
riconosciuto dai medici, per
identificare un sospetto della malattia e per fare una corretta diagnosi, per poter
infine partire con un trattamento appropriato.
- È una malattia multidisciplinare, poiché il processo di diagnosi richiede la presenza
di specifici parametri, che coinvolgono l’ematologo, il patologo, il dermatologo, il
laboratorio con la biologia molecolare, gastroenterologo, radiologo (il quale deve
sospettare la mastocitosi laddove siano presenti quadri radiologici di osteoporosi
più rilevanti) e allergologo.
- Modelli prognostici sono stati recentemente integrati grazie a tecniche di NGS (next
generation sequencing), cioè screening ad alto rendimento che individuano le forme
che hanno una probabilità più elevata di progredire. Ciò comunque necessita di
valutazioni successive.
ALGORITMO TERAPEUTICO

Nelle forme indolenti e smoldering il target terapeutico è volto ad evitare trigger che
possono indurre la degranulazione dei mastociti. Bisogna fare molta attenzione a soggetti
molto sensibili alla puntura degli imenotteri, poiché essi potrebbero essere affetti da una
mastocitosi occulta; per cui essi devono portare con sé l’adrenalina o steroidi da usare in
caso di puntura.

Nelle forme sintomatiche invece bisogna usare terapie che controllano l’effetto dei
mediatori (per esempio l’istamina). Tra i farmaci possiamo annoverare: steroidi e
cromoglicato.

Forme aggressive o quelle legate ad altre patologie ematologiche: i farmaci sono imatinib
(inibitore della tirosin-chinasi) nelle forme negative per la mutazione 816B e in qualche
caso può essere utilizzato il trapianto. In passato si usavano: cladribina, INF-alfa,
midostaurina (inibitore di c-kit) rappresenta la terapia di riferimento. Se sono presenti
altre malattie, chiaramente bisogna in primo luogo trattare la malattia di base e non la
mastocitosi, a meno che la mastocitosi non rappresenti il burden di malattia prevalente
rispetto all’altra.

Imatinib: ha la sua efficacia nelle forme che non presentano la mutazione di c-kit 816.

Midostaurina: farmaco più recente e che dà risultati più significativi. In vitro ha attività
inibitoria su moltissimi pathway coinvolti nella leucemogenesi agisce su GRF, FLT3, VEGF,
PKsigma, ma soprattutto agisce dove ci sia una mutazione di c-kit, in particolare la 816B, in
quanto blocca l’attività di proliferazione cellulare, la sovpravvivenza e il rilascio di istamina
e di altre citochine. È quindi un’attività pleiotropica, che trova nella mutazione 816B un
esempio importante di terapia target di medicina di precisione. La midostaurina è un
farmaco orale, la posologia è di 25 mg/die ed è stata approvata dall’AIFA come terapia per
le forme di mastocitosi più aggressive o quelle associate a neoplasie ematologiche e per la
leucemia a mast-cellule. L’evidenza risulta da due studi di fase 2 e da uno studio francese e
da un’analisi di sopravvivenza che ha messo insieme gli studi di fase 2 e i controlli storici. Il
primo studio (pubblicato sul NEJM) ha dimostrato che la midostaurina ha attività sulle
forme di mastocitosi sistemica in oltre il 60% dei casi, ha una mediana della durata della
risposta di circa 2 anni, i pazienti migliorano in maniera significativa la loro qualità di vita e
la tossicità di grado 3-4 (la più severa) è di tipo gastrointestinale ed è legata anche alla
presenza di astenia. Sia i due studi principali di fase 2, sia lo studio francese hanno
dimostrato sostanzialmente le stesse cose: percentuale di risposta fra il 60 e 70%, risposta
maggiore circa la metà dei pazienti e la mediana sempre di circa 2 anni. L’analisi di
comparazione con i controlli storici ha sostanzialmente confermato la stessa cosa anche
nella pratica clinica rispetto agli studi e soprattutto ha documentato che i pz trattati con
midostaurina avevano un ridotto rischio di morte di circa il 50% rispetto ai pz non trattati
con il farmaco. Questo vantaggio si sviluppava in tutti i sottogruppi, a prescindere dall’età,
sesso, presenza o meno di una malattia ematologica presistente, della mutazione di c-kit e
di una fase leucemica della malattia.

DOMANDE:

- Perché l’interferone ha un ruolo predittivo adesso nella terapia attuale? R: Prima


di tutto attualmente non c’è indicazione dell’interferone nella leucemia cronica. Il
ruolo predittivo sembrerebbe essere legato al fatto che i pz trattati in passato con
interferone e che poi sono passati agli inibitori della tirosin-chinasi, hanno
dimostrato una maggiore possibilità di sospendere il trattamento senza recidiva,
rispetto a quelli invece che non erano stati precedentemente trattati con
interferone. È come se fosse una sorta di fattore che facilita la sospensione, in
seguito, del farmaco inibitore della tirosin-chinasi.
- Nella leucemia mieloide cronica, se i risultati non sono intermedi (cioè se la
trascrizione BCRBL è <10% dopo 3 mesi) è preferibile cambiare il farmaco o
continuare con la stessa terapia? Ci si basa sulle comorbidità e sugli effetti
collaterali? R: Nei risultati intermedi il suggerimento è che non necessariamente
bisogna cambiare farmaco. Si può aspettare un po' e la decisione che deve guidare il
medico viene presa in base al farmaco che viene meglio tollerato dal pz. Se invece
ad es il pz è diabetico, ha bronchite cronica prima di cambiare l’imatinib, bisogna
pensarci due volte poiché altri farmaci potrebbero andare a peggiorare le altre
patologie sottostanti. Valutare bene quindi i pro e i contro!

ARGOMENTI DA STUDIARE IN AUTONOMIA:

- Linfoma di Hodgkin -> malattia molto frequente e con possibilità di guarigione molto
alta.
- Leucemie linfoblastiche acute -> molto frequenti in età pediatrica
- Linfomi T -> conoscere come si fa la diagnosi e le prospettive terapeutiche
- Conoscere la coagulazione, fattori e test + principali coagulopatie

TESTI

- Molto recente consigliato dal prof: “Corso di malattie del sangue e degli organi
emolinfopoietici” di Sante Tura + “Altlante di citologia ematologica” scaricabile dal
sito “Aematologica”.
- “Mandelli”

Potrebbero piacerti anche