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Sbobinator* 1: Eleonora Fasanelli 18/10/2021

Sbobinator* 2: Elisa Fiocco Immunologia, lezione 4


Revisor*: Chiara Clementini Prof. Salvioli

Se ricordate, venerdì ci siamo lasciati parlando di chemochine, che sono quella famiglia di citochine con
azione chemiotattica, e dicevamo che ci sono circa una cinquantina di chemochine conosciute che vengono
classificate in base alla presenza, per esempio, di cisteine conservate. Ci sono anche altri meccanismi di
classificazione, ma questo è quello più in uso e più accettato.

In base a questa classificazione vengono denominate come C, CC, CXC oppure CX3C seguito da una L e poi
da un numero.
La L indica che stiamo parlando proprio della chemochina. Se invece c’è una R, significa che stiamo
parlando del recettore delle chemochine e anche per questi recettori ce ne sono diversi.
In questa immagine possiamo avere una
panoramica sulle citochine. Per prima cosa
possiamo osservare i numerosi “serpentelli” o
“termosifoni”, che non sono altro che quei recettori
delle citochine di cui abbiamo parlato nella scorsa
lezione, composti da 7 α-eliche transmembrana.
Si può notare, poi, che la ruota nell’immagine è
divisa in spicchi: si ha il settore arancione, che è
definito specifico, poiché ad ogni recettore
corrisponde una e una sola chimochina, per cui
questi sei recettori sono specifici per ricevere una
sola chimochina; il settore verde, quello più
grande, definito shared/condiviso, che rappresenta
una “novità”, in quanto i recettori che sono
rappresentati in questa porzione possono legare più
chimochine: ad esempio CCR8 può legare le
chimochine 1, 4 e 17 della famiglia CCL.

Vi faccio anche notare che, ad esempio, la CCL4 può essere legata anche dal recettore CCR5, e questo
significa che il sistema è degenerato: più chimochine possono legarsi allo stesso recettore e più recettori
possono legare la stessa chemochina, è una cosa molto importante. (Questo tipo di degenerazione è presente
nel sistema del linguaggio: voi potete usare la stessa parola per indicare lo stesso concetto o lo stesso oggetto
e chi vi ascolta capisce).
Di fatto anche questo sistema delle chemochine può essere considerato una specie di linguaggio: è quello che
le nostre cellule utilizzano per scambiarsi informazioni relative al “dove devo andare?”.

Ci sono poi alcuni recettori, indicati come sezione viral, che in realtà legano delle cose di origine virale, oltre
alle citochine, e tra questi abbiamo dei recettori che legano i virus, uno in particolare è il virus dell’HIV. Il
virus dell’HIV entra nelle nostre cellule attraverso dei recettori molecolari che hanno un’alta funzione
(ovviamente non sono lì per aiutare il virus ad entrare), e uno di questi è proprio un recettore delle
chemochine. (Ne riparleremo quando tratteremo l’argomento dell’HIV).

In ultimo troviamo il settore non-signailing: si tratta


di due recettori detti “decoy receptor”, ovvero dei
recettori che legano le chemochine ma non
trasmettono nessun segnale. Il decoy receptor è in
grado di legare il suo ligando ma non trasmette il
segnale: esso serve sostanzialmente per sottrarre
ligando, funge da modulatore del segnale, è un
modulatore negativo. Per il momento se ne
conoscono solo due, Duffy e D6, che legano tutte le
chemochine presenti nell’immagine.

Questa è la classificazione con la nomenclatura in


base alla presenza delle cisteine: le CC sono quelle

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che hanno 2 cisteine conservate e in precedenza


avevano un altro nome, determinato dallo scienziato
che le aveva scoperte. Era difficile ricordare tutti i
nomi, ma soprattutto era complicato ricordare che
MIT1α era simile all’eotassina: sono due
chemochine con struttura simile, ma i nomi della
precedente classificazione non rendono intuitiva
l’associazione; se invece so che fanno entrambe
parte della famiglia CC capisco che sono tra loro
“imparentate”. L’aspetto tassonomico comunque non
ci interessa più di tanto.
Abbiamo quindi le CXC, le C e le CX3, e ognuna ha
il suo ruolo.

Facciamo ora un riassunto di quello che avviene.


Si ha un endotelio, rappresentato dalle cellule bianche, al di sotto del quale si sviluppa un parenchima del
tessuto che stiamo considerando (parte azzurrina); al di sopra, nella regione rosa, si ha il vaso sanguigno: qui
è presente un leucocita (nell’immagine è un leucocita polimorfonucleato) che vuole uscire dalla venula post
capillari.
Si susseguono le diverse fasi, prima si ha il rolling, il rotolamento, poi si ferma e infine entra nel tessuto.

Innanzitutto l’endotelio che deve essere attraversato, deve essere stato attivato dalle cellule che si trovano nel
tessuto sottostante, ad esempio dai macrofagi residenti, che a loro volta vengono attivati dalla presenza di un
patogeno. In risposta all’interazione con il patogeno, il macrofago inizia a produrre citochine e chemochine.
Queste due determinano sull’endotelio l’espressione di molecole adesive: selectine e ligandi delle integrine.
Una parte di queste si lega ai residui, tipo paransolfato o altri tipi di zuccheri complessi, sempre sulla
superficie dell’endotelio.

In questa regione il flusso ematico è


rallentato, quindi le cellule si possono
marginalizzare (lasciano il centro della
corrente e possono avvicinarsi alla
parete) e, se trovano una situazione
favorevole, iniziano ad avere interazioni
deboli con le selectine (glicoproteine
che esprimono il sialil-lewis-x) e
rotolano sull’endotelio: ciò permette al
leucocita di riconoscere la presenza
delle chemochine. Con questo legame il
leucocita viene attivato: in questo caso
le sue integrine vengono portate in uno
stato di alta attività, la testa globulare di
queste integrine viene estroflessa. A
questo punto le integrine possono
legarsi al loro ligando presente
sull'endotelio. Si ha finalmente
un'interazione forte e la cellula
leucocitaria si ferma.
Il segnale delle chemochine fa modulare la struttura del citoscheletro e la cellula inizia a muoversi,
aggiungendo subunità di citoscheletro da un polo all’altro della cellula, permettendo un movimento
ameboide sull'epitelio. Questo movimento continua fino a quando la cellula non trova uno spazio tra le
cellule che compongono l'epitelio attraverso il quale si può infilare [nel tessuto] compiendo la diapedesi,
seguendo il gradiente delle chemochine nel tessuto sottostante.
A questo punto il leucocita è arrivato nel luogo in cui "c'è bisogno di lui".

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In realtà, questo fenomeno per i leucociti termina lì. Se però parliamo di linfociti, e in particolare di linfociti
T, che sono quelli che si muovono nei tessuti in questo modo (i linfociti B tornano al midollo osseo o
rimangono dove sono, e quindi nei linfonodi, nella milza o in altri tessuti linfoidi), si notano delle differenze.
Durante tutto questo percorso il leucocita non sa chi lo sta chiamando, sta solo ricevendo una chiamata, non
sa cosa troverà nel tessuto. Fino a quando parliamo di leucociti, che sono spazzini generici, va tutto bene.
Se però parliamo di linfociti T, questo processo non è più adatto: è del tutto inutile richiamare un linfocita T
specifico per un antigene x, se l’antigene che ha innescato la risposta è un virus o un batterio che ha
l’antigene y.
Una volta arrivato nel tessuto il linfocita dovrà effettivamente vedere se è il caso di rimanere lì oppure no.

Che cosa succederà?


Consideriamo l’immagine di prima, facendo finta di avere un linfocita T al posto di un leucocita
polimorfonucleato. Una volta arrivato nel tessuto, i macrofagi o le cellule dendritiche espongono al linfocita
T l’antigene che hanno legato: se il linfocita riesce a riconoscere l’antigene, inizia a produrre degli altri
recettori per le componenti del collagene e rimane nel tessuto; se invece non riconosce l’antigene che gli
viene esposto, non produrrà i recettori e verrà “lavato via” dal tessuto.

(visione video https://www.youtube.com/watch?v=s8SZ11Wpw2k)

Ogni cellula ha il suo tipo di linguaggio, i linfociti ne hanno uno, i monociti un altro, proprio perché c’è la
possibilità di utilizzare tante “parole”, ovvero i diversi recettori e le diverse chemochine, che indicano alle
cellule della risposta immunitaria dove andare.
I metodi che hanno le cellule per fermarsi sono pochi: come abbiamo visto si possono usare le integrine e le
selectine; mentre le chemochine e i recettori sono tanti, per cui si può avere maggiore complessità delle
informazioni che vengono date.

I linfociti, per poter vedere il loro antigene per la prima volta, devono recarsi nel tessuto linfoide
secondario, in particolare nei linfonodi o in altre formazioni anatomiche caratterizzate da ammassi di
linfociti, come le placche di Peyer, situate nell’intestino tenue.
Si tratta di un passaggio in più, ma il funzionamento è praticamente identico. La differenza sta nell’endotelio
particolare presente negli endoteli delle venule a livello di questi organelli: prende il nome di endotelio alto,
in cui le cellule epiteliali non sono piatte ma cubiche, e soprattutto sono naturalmente appiccicose per i
linfociti naive, ovvero quei linfociti che non sono mai entrati a contatto con il proprio antigene.
Il linfocita che entra attraverso l’arteriola afferente, che attraversa il letto capillare ed entra nella venula,
prima di uscire, si appiccica all’endotelio alto; poi esce e finalmente arriva nel parenchima del linfonodo. A
questo punto si posiziona nell’area di sua competenza (area T per i linfociti T, area B per i B) e inizia a
cercare il suo antigene. Saranno le cellule dendritiche a esporre l’eventuale antigene, che è stato portato nel
linfonodo dalla periferia.

Se il linfocita riconosce l’antigene, si attiva e dà inizio a una risposta immunitaria. Se inviene non è presente
l’antigene, cosa che succede nella stragrande maggioranza dei casi, il linfocita esce dal linfonodo e ritorna
nel torrente circolatorio attraverso la linfa e quindi i vasi linfatici.

Se il linfocita viene attivato possono succedere due cose, a seconda che si tratti di un linfocita T o B:
 Se è un linfocita B, o rimane nel
linfonodo o ritorna al midollo
osseo
 Se è un linfocita T, ricomincia a
circolare e fa la stessa cosa nei
tessuti periferici: va quindi a
cercare nei tessuti periferici lo
stimolo che lo ha attivato a livello
linfonodale.
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C’è quindi tutta questa circolazione vorticosa che avviene continuamente: si pensa che siano circa 25
miliardi di cellule (linfociti naive) che ogni giorno fanno questo movimento attraverso i linfonodi per
pattugliare il nostro organismo alla ricerca di antigeni.
Nelle due micro-fotografie al lato si vedono la sezione di una venula con linfociti che si portano all’esterno.

Una cosa interessante, che ha anche un’applicazione pratica, è capire come fa il linfocita, una volta entrato
nel linfonodo, ad uscire. Abbiamo detto che il linfocita esce dal linfonodo se non trova il suo antigene; in
realtà esce anche se trova l’antigene, venendo attivato, ma con tempi più lunghi, poiché deve dare inizio alla
risposta.

Ma come fa ad uscire?
Sicuramente i meccanismi utilizzati sono
diversi, ma quello che conosciamo noi è un
meccanismo di tipo chemiotattico: questa
volta non dipende dalla presenza di una
chemochina, ma dalla presenza di una
sostanza complessa, che è la sfingosina-1,
fosfato. Si tratta di una sostanza che viene
rapidamente degradata nei tessuti, ma è
presente in alte concentrazioni nella linfa e
nel sangue.

Ripetendo il concetto: di sfingosina-1-


fosfato, o S1P in sigla, ce n’è pochissima
nei tessuti e ce n’è tanta in circolo. I nostri
linfociti, quando sono in circolo, vedono
tanta sfingosina-1-fosfato, per cui hanno un recettore per S1P che viene “down-regolato”, ovvero viene
espresso poco. Il linfocita esce dal letto circolatorio ed entra in un linfonodo, ovvero un tessuto in cui la
quantità di S1P è molto bassa: di fatto, l’inibizione che S1P compiva sull’espressione del recettore cala e
quindi il linfocita inizia a esprimere in maniera sostanziale i recettori per la sfingosina . A questo punto,
avendo il recettore, seguirà il gradiente, si sposterà dove sente che c’è sfingosina-1-fosfato e tenderà ad
uscire dal linfonodo.
Se il linfocita nel percorso all’interno del linfonodo viene attivato, l’espressione del recettore viene ritardata.
Mentre, se non incontra l’antigene, l’espressione del recettore è praticamente immediata e nel giro di poche
ore il linfocita riesce ad uscire dal linfonodo, se entra in contatto con l’antigene, l’espressione del recettore
del S1P viene ritardato, passano alcuni giorni, e in questo modo il linfocita rimane nel linfonodo, dove può
dare origine alle reazioni che servono per dare inizio alla risposta immunitaria.

Nell’immagine i pallini verdi rappresentano la sfingosina-1-fosfato, i serpentelli verdi ad α-elica sono i


recettori per S1P, per cui il linfocita non fa altro che seguire il gradiente di concentrazione di questa
sostanza, per poi uscire fuori.
Di questi recettori in realtà ce n’è più di uno; il motivo per cui questa nozione è importante è che
praticamente tutti questi particolari molecolari hanno lo scopo di sapere dove si può colpire
farmacologicamente un processo biologico. Se si conosce il meccanismo utilizzato dal linfocita per uscire dal
linfonodo, si può pensare di creare una molecola, un farmaco che blocca questo processo oppure che lo
faciliti. Si va, in questo modo, a studiare i potenziali target fisiologici.

Sono stati evidenziati dei farmaci che bloccano questi recettori e che quindi impediscono la fuoriuscita dei
linfociti dai tessuti, principalmente dai tessuti linfoidi: se si impedisce la fuoriuscita del linfocita, in realtà, si
va a impedire che il linfocita possa agire sui tessuti periferici, se sono stati attivati, o che vadano a fare un
ulteriore pattugliamento in altri linfonodi, se sono rimasti inattivi. Si va quindi a bloccare tutto il ricircolo dei
linfociti.

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Si tratta di farmaci che portano all’immuno-soppressione: si blocca il circolo dei linfociti e quindi la
possibilità dei linfociti di riconoscere il loro antigene e successivamente di portarsi nei tessuti in cui possono
svolgere la loro azione. Ci sono diversi farmaci di questo tipo, il primo che è stato fatto si chiama
Fingolimod (mod=modulatore), e sono farmaci che vengono utilizzati per il trattamento di malattie
autoimmuni. Non è quindi solo un discorso che riguarda le conoscenze accademiche, ma ha anche una
valenza nella pratica medica.

Ci sono poi tutti gli altri tessuti che hanno un loro particolare tipo di sistema immunitario locale, con homing
delle cellule bianche, guidato specificamente sia dalle chemochine che dall’espressione di alcune integrine e
ligandi delle integrine, ma non entriamo nello specifico. Ricordate però che ogni tessuto ha il suo sistema
immunitario, mentre i linfociti sono sempre gli stessi: i linfociti che vanno a finire in un determinato tessuto
sono quelli che sono stati indirizzati lì dopo aver ricevuto il segnale da parte di determinate chemochine o
addressine molecolari, come i ligandi per le integrine.

Ciò accade per i linfociti B che, dopo essere


usciti dalla venula del linfonodo, devono
attraversare la zona T e poi indirizzarsi verso i
follicoli, in cui sono presenti gli altri linfociti
B. Lo fanno seguendo un gradiente di
chemochine: per uscire dalla venula hanno
usato gli stessi recettori utilizzati dai linfociti
T, in particolare esprimono il recettore CCR7,
che permette al linfocita B di riconoscere due
chemochine particolari espresse dalle venule a
endotelio alto, che sono CCL19 e CCL21.
CCR7 è espresso sia dai linfociti T che dai B
perché entrambi devono uscire dalla venula in
quel punto.
I linfociti B devono compiere un ulteriore
passo, poiché devono arrivare nel follicolo. A questo punto entra in azione un altro recettore, il CCR5, che
segue un’altra chemochina che segue [in questo punto l’audio diventa incomprensibile per alcuni secondi;
min37:28] … è giusto un esempio per farvi capire.
Dopodiché, se esce fuori per la sfingosina-1-fosfato, può andare a localizzarsi nel midollo osseo o, in alcuni
casi, se si tratta di un linfocita B, secerne IgA, immunoglobuline della classe A, per andare a localizzarsi in
alcune mucose. In generale i linfociti B o rimangono nel linfonodo o ritornano nel midollo osseo.

Domanda: I farmaci utilizzati contro il rigetto hanno la stessa base molecolare?


No, sono diversi e vedremo quali sono. Comunque la domanda è corretta e vale sempre lo stesso discorso:
io devo conoscere i meccanismi molecolari che permettono al linfocita di fare una certa cosa; quando io
conosco dov’è il punto, posso pensare di creare una molecola che lo va a bersagliare. Questo si ha anche
per il discorso delle cavie in laboratorio: per sintetizzare le molecole in maniera corretta, nel modo più
giusto, si utilizza come base la chemoinformatica. Però, in molti casi, soprattutto in passato, molti farmaci
sono stati scoperti come sostanze naturali di cui magari non si conosceva il possibile utilizzo. Questo ci
porta ad un impatto molto importante della ricerca di base, quella che non ha uno scopo immediato. Si
tratta di quella ricerca che ha portato alla scoperta di un farmaco che viene utilizzato ancora oggi come
immunosoppressore nei trapianti, ovvero la rampamicina, che venne scoperto come antibiotico prodotto da
un batterio sull’isola di Pasqua. Il nome deriva dal nome degli abitanti dell’isola, Rapanui.

Immunità innata o naturale

Al prof piace l’idea che ogni volta che si incontra la dicitura “naturale” quando si parla di biologia,
anatomia o scienze in generale, significa che non avevano capito assolutamente nulla dell’argomento
trattato.
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L’immunità innata è quella che preesiste all’incontro con l’antigene e che non è così specifica né precisa
nei confronti di un determinato antigene, ma prende un po’ in generale grandi categorie di patogeni.
Parleremo quindi dei componenti principali e dei suoi recettori, delle cellule che hanno un ruolo prominente
in questo tipo di immunità, che sono cellule di tipo fagocitico (quindi parleremo principalmente di
macrofagi) e infine di una cosa molto interessante, ovvero lo stato antivirale.
È utile studiare lo stato antivirale, soprattutto perché è strettamente collegato all’argomento del COVID-19: è
stato visto che un buono stato antivirale produce citochine con attività antivirale in quantità sostanziale e la
malattia si presenta in una forma meno grave. Si valuta che il 90% delle infezioni vengono combattute
dall’immunità innata, quindi non si vanno ad attivare linfociti T e a creare anticorpi specifici.

L’immunità innata è infatti la più antica, la più ancestrale:


non parliamo di “ancestrale” a livello umano, si tratta di una
immunità presente fin dagli invertebrati (quindi molluschi,
vermi hanno solo questo tipo di immunità, per quanto ne
sappiamo); quella specifica o acquisita è
evoluzionisticamente più recente, si ha nelle specie dai pesci
ossei in poi.
Ci si potrebbe chiedere come mai sia stato necessario avere
un altro tipo di risposta immunitaria. Gli invertebrati sono
presenti sul pianeta sicuramente in numero maggiore
rispetto alle altre specie e se sono arrivati fino ad oggi
significa che sicuramente l’immunità innata funziona.

Come mai invece i vertebrati hanno sentito il bisogno, premiato dall’evoluzione, di sviluppare anche un
ulteriore stadio di efficacia, rappresentato dallo stadio dei linfociti? Non lo sappiamo.
Si ritiene che sia stato determinato dalle dimensioni dell’organismo, che, ad esempio, presenta un tubo
digerente molto complicato, molto lungo, e colonizzato da batteri.
La presenza di una flora batterica intestinale potrebbe essere una delle cose da tenere sotto controllo che ha
determinato la necessità di sviluppare un’ulteriore risposta immunitaria.
Fatto sta che un processo molto complesso e molto dispendioso come quello di dover creare un repertorio di
linfociti è presente da questi animali in su, fino a noi, e soprattutto non è dispensabile : non possiamo fare a
meno dei linfociti, è un tipo cellulare, un tipo di risposta del quale non possiamo fare a meno.

Quelli nell’immagine sono considerati i padri della


risposta immunitaria naturali e clonotipiche: Ilya
Metchnikoff è colui che ha postulato la risposta innata,
mentre Paul Erlich ha postulato l’esistenza delle risposte
specifiche. Siamo all’inizio del ‘900, in realtà non
parlavano di immunità in questi termini ma si è capito che
stavano osservando i due tipi di risposte.
Metchnikoff guardava i macrofagi e Erlich guardava gli
anticorpi.

Per quanto riguarda le caratteristiche della risposta innata,


noi sappiamo che si tratta di una risposta:
 Rapida, veloce, e ciò è determinato dal fatto che
“c’è già”, non deve essere creata;
 Ha bassa specificità, non è precisa: non so quale patogeno mi viene incontro, rispondo con quello
che ho e lo faccio con qualsiasi patogeno;
 Assenza di memoria: si riferisce al fatto che, se incontro un patogeno per una seconda volta, la
risposta da parte dell’immunità innata è uguale alla risposta messa in atto la prima volta, e ciò è
legato anche all’assenza di specificità; in realtà si è scoperto recentemente di una memoria anche per

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quanto riguarda l’immunità innata, soprattutto a livello dei due gruppi cellulari principali, che sono i
macrofagi e le NK;
 È antica;
 Rappresenta la prima risposta del sistema immunitario verso i patogeni: da questo punto di vista
noi possiamo distinguere, all’interno di queste risposte immunitarie, le risposte che avvengono
nell’immediato, proprio perché si tratta di barriere chimico-fisiche già preesistenti, e risposte che
sono comunque veloci ma che vengono attivate in qualche ora, perché si tratta di cellule (fagociti)
che vanno in ogni caso attivati;
 I meccanismi effettori di questa risposta, cioè sostanzialmente come si fa a rispondere ad un
patogeno con l’immunità innata, molto spesso sono gli stessi che usa anche l’immunità specifica:
non dobbiamo pensare ai due tipi di risposta come a due meccanismi completamente diversi e
svincolati l’uno dall’altro, si tratta di una divisione che facciamo noi, per comodità; i meccanismi
effettori molto spesso sono gli stessi.
La differenza è che, se parlo di immunità innata, con questi meccanismi “sparo nel mucchio”; con
l’immunità specifica il meccanismo ha un bersaglio preciso. Mettiamo il caso che io sia un killer
assoldato da una mafia di qualche tipo che mi dice: “qua in mezzo c’è uno che devi far fuori”; se
sono dell’immunità innata sparo con un mitra e chi prendo prendo; se sono dell’immunità specifica
prendo un mirino telescopico, sparo a quello che mi interessa e tutti gli altri li lascio perdere.
Ma utilizzo in ogni caso un’arma da fuoco: non c’è così tanta differenza tra un mitra e un fucile con
il mirino; stessa cosa per i due tipi di immunità.

L’immunità innata è la prima ad agire ed è quella che segnala ai linfociti di mettersi in movimento.
L’immunità specifica utilizza a sua volta il meccanismo dell’immunità innata per compiere il suo lavoro.
La comunicazione tra immunità innata e specifica avviene chiaramente tramite la produzione di citochine.

I macrofagi tissutali producono le chemochine, attivando così l’endotelio.


Le citochine invece hanno il compito di attivare i linfociti.
Vi è quindi un dialogo bidirezionale.

L’immunità innata è composta da barriere fisiche o chimiche preesistenti all’incontro con i patogeni. Esempi
di queste barriere sono: gli epiteli, le mucose, un Ph sfavorevole alla presenza di batteri, la produzione di
sostanze batteriostatiche… tutti
elementi che rappresentano un
ostacolo per i batteri. Questo sistema
non ha un’efficacia totale, però la sua
assenza determina gravi
problematiche.

Nell’intestino e nelle vie aeree è


presente un ampio strato di muco,
prodotto dalle cellule mucipare
caliciformi intercalate tra le cellule
epiteliali. Questo strato ha uno
spessore di circa 0,5 mm, il che,
facendo il paragone uomo-batterio,
equivale a dover attraversare un muro
di oltre 200 m di spessore.

Barriere fisiche  epiteli e linfociti intraepiteliali (molto spesso sono gamma/delta)


Barriere chimiche  produzione di sostanze battericide

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Queste barriere rappresentano il primo stadio di placcaggio di batteri e infezioni, ma non sono gli unici
elementi a svolgere questa funzione.
Nell’immunità innata vi sono infatti anche altre cellule molto importanti quali: Cellule Natural Killer (NK),
NKT, cellule MAIT, cellule T gamma/delta e cellule B1.

Queste popolazioni sono numericamente meno estese e si trovano soprattutto a livello dei tessuti.

È evidente che negli acronimi ci siano ampi riferimenti alla dicitura B e T, quindi ciò porterebbe
naturalmente a correlarli ai linfociti B e T appartenenti all’immunità specifica.
In realtà queste cellule “a metà strada” fanno parte dell’immunità innata: hanno un’origine linfocitaria ma
agiscono come cellule dell’immunità innata, sono infatti in grado di riconoscere solo una gamma molto
limitata di antigeni, non agiscono con precisione.

Vi sono altre cellule sempre


dell’immunità innata che però per
agire necessitano di essere attivate. La
risposta che danno è piuttosto veloce
ma leggermente più lenta delle cellule
precedenti. In questa categoria
rientrano:
 cellule ad attività
macrofagica/fagocitaria
 neutrofili (cellule spazzini)
 cellule AK (cellule
citotossiche)

Si possono inoltre considerare alcune


molecole circolanti, anche queste
preesistenti all’incontro con il
patogeno:
 il sistema del complemento
 le leptine (proteine in grado
di legare gli zuccheri, in
particolare il mannosio)
 altre proteine chiamate
pentraxine (servono per
opsonizzare batteri =
renderli visibili alla
fagocitosi)

La pentraxina più famosa è la proteina C-reattiva. Essa pur possedendo un suo ruolo specifico, viene
utilizzata da un punto di vista medico come indice di infiammazione: se nelle analisi il valore risulta elevato,
significa appunto che è in atto un’infiammazione.
Questa proteina fa parte delle proteine della fase acuta e viene normalmente prodotta dal fegato.

Le citochine possono essere di diverse tipologie:


alcune sono responsabili del processo infiammatorio,
altre si occupano di resistenza alle infezioni virali, altre
ancora dell’attivazione dei macrofagi… Rappresentano
quindi il linguaggio dell’immunità innata.

Il nostro epitelio intestinale contiene cellule M, sotto


alle quali sono presenti le placche di Peyer, sopra
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invece vi è uno strato di muco (in blu) e batteri (in azzurro), che tendono a colonizzarlo. La maggior parte di
essi chiaramente sta fuori. Quelli rossi sono i batteri patogeni.

In situazioni normali il sistema immunitario delle mucose, soprattutto di quelle intestinali dove vi è la
maggior parte del microbiota del nostro corpo, funziona in maniera opposta ai linfonodi. Siamo infatti
abituati a pensare che, quando arriva qualcosa di estraneo, è necessario attivare una risposta immunitaria
efficace. Nell’intestino invece il meccanismo funziona al contrario. Infatti, nell’ambiente intestinale è
normale che ci sia qualcosa che proviene dall’esterno. Questa situazione fa quindi in modo che i recettori
dell’immunità innata non vengano attivati, non vi è dunque la sintesi di fattori di trascrizione e si crea una
situazione di tolleranza.

(un fattore di trascrizione molto importante nell’induzione del processo infiammatorio è l’NFKB)

Il processo infiammatorio non prende atto perché le


cellule dendritiche che vi si trovano vengono
stimolate a diventare una sottopopolazione
particolare, i T-reg ovvero linfociti T regolatori, che
producono citochine che spengono l’infiammazione,
non la attivano.

È però importante che il sistema agisca e si muova


quando vi è un’invasione di batteri patogeni. Questa
situazione è conosciuta come “disbiosi”, non ci sono
più i batteri buoni. La maturazione delle cellule
dendritiche non avviene più nel modo corretto e i
linfociti T, invece di diventare dei T-reg, si
indirizzano verso popolazioni pro-infiammatorie
come TH1, TH2, TH17.

Un sistema diverso da quello dell’intestino è quello proprio dei linfonodi, dove la presenza di agenti estranei
fa scattare una pronta risposta immunitaria.

Ci sono delle sostanze che vengono prodotte in maniera


naturale da parte delle barriere chimiche, alcune fra le
più note sono prodotte proprio a livello intestinale: le
cosiddette “defensine”.
Si formano sul fondo delle cripte intestinali grazie alle
cellule di Paneth.

Esistono due diverse famiglie di defensine, le alpha e le


beta. Ognuna ha uno spettro di espressione in diversi tipi
cellulari, quali epitelio intestinale, ghiandole salivari,
apparato genitale femminile, latte…
La loro produzione è costitutiva, ovvero vengono
prodotte continuamente, a volte anche sotto stimolo di
patogeni o infezioni.

Il loro compito è distruggere la membrana dei batteri: funzionano come dei detergenti che si inframmezzano
alla membrana batterica creando dei pori che permettono l’ingresso di acqua e soluti, causando la morte del
batterio.

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Sbobinator* 1: Eleonora Fasanelli 18/10/2021
Sbobinator* 2: Elisa Fiocco Immunologia, lezione 4
Revisor*: Chiara Clementini Prof. Salvioli

Questo tipo di sostanze potrebbe causare un danno anche alle nostre cellule ma, per ovviare a questo,
vengono secrete in una forma inattiva e si attivano solamente in ambienti con una bassa forza ionica quali
lacrime, sudore, secrezioni vaginali e intestinali.

Ci sono anche altre sostanze che agiscono in questo modo come le


catelicidine. Sono considerati degli antibiotici naturali, difese
generiche che noi stessi generiamo. Non sono rivolte verso uno specifico
batterio e chiaramente non hanno un’efficienza totale, ma ancora una
volta chi non le ha per via di un difetto genetico va più facilmente
incontro a infezioni e reazioni infiammatorie intestinali quali colon
irritabile, pancoliti…

Esempio di colite ulcerativa nell’intestino. Sono evidenti lo strato di


muco, strato epiteliale e linfociti B e T. Ciò che succede durante una
dibiosi può causare colite ulcerosa, la quale a sua volta può diventare un
fattore di rischio per lo sviluppo di cancro al colon.

Un’infiammazione nel momento in cui diventa cronica è sempre un fattore di rischio per lo sviluppo di
tumori.
(alcuni secondi di audio incomprensibili)

I FAGOCITI

Bellissime fotografie a microscopio elettronico a scansione. I colori sono


però falsi, ovvero frutto di colorazioni successive, date dal programma per
distinguerli.

Quelli verdi sono batteri Escherichia coli. È importante osservarli per avere
un’idea delle dimensioni. I fagociti infatti fagocitano qualcosa di più piccolo
di loro.
Gli elementi fagocitati possono essere batteri o corpi apoptotici. Tranne
che per rarissime eccezioni, non viene mai fagocitata un’altra cellula intera.
Queste eccezioni sono rappresentate da situazioni di cannibalismo
cellulare, evento rarissimo che avviene a volte anche tra cellule tumorali.
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I macrofagi sono presenti dappertutto:

 circolanti  sono detti monociti


 nei tessuti  vengono definiti macrofagi
 che vivono nei tessuti già dall’inizio  macrofagi residenti

Ad esempio, nel cervello ve ne sono almeno 5 popolazioni.


Di queste, 3 sono meglio distinguibili da un punto di vista anatomico più
che morfologico, ovvero presentano una diversa distribuzione spaziale
ma stessa composizione: macrofagi delle meningi, macrofagi del
plesso caroideo, macrofagi perivascolari, cellule della microglia
(inframmezzate nella materia grigia) e cellule dendritiche.

Normalmente siamo indotti


a pensare al cervello come
uno spazio libero da qualsiasi tipo di infezione, ma la presenza
di queste popolazioni macrofagiche ci indica che anche in
ambiente cerebrale può esserci riposta infiammatoria. Le
neuroinfiammazioni sono tipiche delle malattie
neurodegenerative, vengono infatti causate da cellule
fagocitiche che, oltre a eliminare le sostanze estranee, sono in
grado di produrre stimoli e molecole pro-infiammatorie.

Le cellule blu sono di origine embrionale, quelle viola


emopoietica (dal midollo osseo).
Nei polmoni e nella pelle sono di origine emopoietica.
Le cellule di origine embrionale sono
presenti fin dall’inizio, non provengono
dal sangue ma sono componenti
fondamentali degli organi nei quali si
trovano. Queste prendono un nome
diverso a seconda di come sono state
individuate e studiate: glia (cervello),
cellule Kupffer, macrofagi del rene, della
polpa rossa, alveolari, cellule di
Langerhans…

Tempo fa si pensava che il


riconoscimento delle sostanze da
fagocitare fosse un processo
assolutamente naturale. In anni più
recenti sono stati scoperti invece i veri
responsabili di questo meccanismo: recettori espressi direttamente sulla superficie dei macrofagi.
Alcuni recettori sono per le citochine, altri per il complemento.

Altri elementi degni di nota sono i Toll-like receptors, recettori simili a Toll. Questi vennero scoperti in
Drosophila e poi sono stati riconosciuti anche nel nostro organismo. All’insetto sono utili per il proprio
sviluppo cellulare, mentre nell’uomo guidano le risposte immunitarie innate.

In realtà ci sono tanti altri recettori che permettono al macrofago di riconoscere la sostanza da fagocitare.

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Il macrofago da un lato produce sostanze che servono a uccidere ciò che ha fagocitato e dall’altro ad attivare
la risposta adattativa/specifica di altre cellule. In questo caso l’infiammazione non seve solamente per
distruggere il batterio, ma anche a far attivare la risposta adattativa, quella che poi darà la memoria.

Quando il monocita entra nei tessuti diventa un


macrofago ed espleta la sua funzione: fagocita e
distruggere il batterio, induce quindi una reazione
infiammatoria.
Per diventare un macrofago il monocita di partenza ha
bisogno di una serie di segnali che lo facciano attivare.
Da una parte vi è un’attivazione di tipo classico che è
quella in senso M1. In questo caso il macrofago M1
fagocita e uccide il batterio tramite la produzione di
radicali dell’ossigeno o dell’azoto, enzimi
lisosomiali… avviene la cosiddetta “macrophage
action”.

Durante questo processo vi è la produzione di fattori


per l’infiammazione, ovvero citochine come IL1,
IL12, IL23, chemochine, TNFalpha, IL6.

Importanti da ricordare sono: IL1, TNFalpha e IL6, i


tre elementi portanti dell’infiammazione.

Ci sono però anche altri macrofagi, che espletano


una funzione diversa: guidare la riparazione dei
tessuti. Per questo motivo la loro attivazione è
differente: seguono un’attivazione alternativa, in
senso M2. Questi non fagocitano, ma al contrario
producono citochine che guidano la riparazione e il
rimodellamento dei tessuti. Rientrano in questa
categoria IL10 e TGFbeta, le due principali
citochine che bloccano l’attività infiammatoria e ne
mediano lo spegnimento, producono inoltre fattori
angiogenici.

Il monocita diventa M1 o M2 a seconda dei segnali che riceve tramite altre citochine. IL13 e IL4 guidano la
differenziazione in senso M2; l’interferone gamma e il fatto di essere stato mangiato da ligandi/microbi che
vanno a legarsi su questi TLR (toll like reseptors) mi guidano la differenziazione M1.

In realtà questo concetto potrebbe creare confusione, dato che generalmente pensiamo all’interferone come
qualcosa di antivirale. Questo si spiega in quanto esistono due classi di interferoni, quelli di classe 1 e quelli
di classe 2:
- classe 1 è antivirale
- classe 2 invece è costituita unicamente dall’interferone gamma il quale è pro-infiammatorio, serve
quindi per attivare la risposta immunitaria sempre tramite infiammazione. Non è un antivirale come
gli altri, ma per motivi storici viene ancora denominato interferone, pur non interferendo in senso
vero nel metabolismo dei virus come gli altri.

Come fa il sistema immunitario a discriminare un elemento self da uno non self?


Ci sono diverse strategie:
- i linfociti T e B utilizzano dei recettori specifici, per i quali vi è un autentico fenomeno di selezione,
molto preciso ma piuttosto costoso

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Sbobinator* 1: Eleonora Fasanelli 18/10/2021
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- le cellule dell’immunità innata invece utilizzano altre strategie: il “pattern recognition” e il


riconoscimento delle molecole MHC. Quest’ultimo riguarda le cellule NK
- le cellule fagocitiche utilizzano prevalentemente (ma non esclusivamente) il meccanismo di pattern
recognition: non riconoscono uno specifico antigene ma dei pattern, dei gruppi di antigeni.
Utilizzano quindi dei recettori che non sono specifici per un singolo antigene, ma vedono una grande
famiglia di molecole. La maggior parte delle molecole riconosciute non sono altro che componenti
essenziali dei patogeni, se vengono lette queste molecole si tratta sicuramente di un patogeno. In
questo meccanismo non è importante discernere la tipologia di patogeno, ma ciò che conta è
l’attivazione di una risposta.

Queste molecole associate ai patogeni vengono indicate con PAMPs -Pathogen-associated molecular pattern
molecules - Patterns Molecolari associati ai Patogeni. Si tratta di componenti essenziali dei patogeni.

I recettori con cui le cellule fagocitarie riconoscono i PAMPs sono i PRR, Pattern recognition reseptors.

Esempi di PAMPs sono:


 Lipopolisaccaridi, LPS  possono essere di tanti tipi diversi, tutti i batteri gram negativi ne
hanno: quando un recettore è in grado di riconoscere un LPS vengono toccati tutti i gram
negativi, senza sapere nello specifico di che batterio si tratta
 Peptidoglicani, componenti della parete batterica dei gram positivi
 Acidi lipoteicoici, componenti dei microbatteri
 DNA batterici (circolari a differenza del nostro)
 RNA a doppia elica (il nostro RNA è a singola catena)
 Glucani (zuccheri complessi).

Sono tutte strutture che il nostro organismo non possiede.


I PAMPs sono componenti possedute solo da batteri/virus e sono essenziali per la loro sopravvivenza e
patogenicità, quindi non si possono separare o sezionare patogeni senza PAMPs. Generalmente sono anche
piuttosto invarianti, dato il loro ruolo vitale.

Pur essendo un meccanismo così efficace nella sua semplicità, è stato dimostrato negli anni che questi
recettori non riconoscono solo agenti estranei (PAMPs), ma vedono anche alcuni elementi del self. Questi
particolari elementi del self rientrano sotto la denominazione di DAMPs, Danger Associated Molecular
Patterns.
Essendo qualcosa di proprio non dovrebbe esserci risposta immunitaria. Queste molecole si presentano però
come alterate, danneggiate, ossidate, mal ripiegate, fuori posto (molecole intracellulari trovate fuori dalla
cellula, molecole nucleari o intramitocondriali trovate nel citoplasma…).
Insomma una situazione di danno cellulare. Viene attivata un’infiammazione poiché ci deve
necessariamente essere un ente in circolo che ha causato questo malfunzionamento. Con questi recettori
riconosco sia il danno fatto che il patogeno.

Questo concetto ha complicato ulteriormente il nostro modo di pensare, ma è molto importante poiché
significa che se una situazione non provoca un danno, anche se ci sono effettivamente dei batteri in circolo, il
sistema non si attiva, non reagisce.

Esempi di molecole che vengono viste come DAMPs se dislocate dalla loro normale postazione:

 Heat shock proteins extracellulari, questa è una proteina nucleare che, se viene trovata al di
fuori dal nucleo, indica malfunzionamento.
 ATP extracellulare (l’ATP non dovrebbe stare fuori dalle cellule)
 Istoni
 DNA extramitocondriale (DNA mitocondiale fuori dai mitocondri)
 Cardiolipine (componenti dalla membrana interna dei mitocondri)

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 Proteine ossidate
 Cristalli organici

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