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SOLENNITA E ABBIGLIAMENTO IN ROMA ANTICA: TOGA, TRAEBA E LAENA

1 CONSIDERAZIONI DI PARTENZA

Nell’antica Roma il possesso di uno status elevato era consapevolmente accompagnato da un congruo assetto
estetico. La società romana era portata per costituzione a rimarcare le differenze di censo tramite il profilo
vestimentario, dalla larga diffusione della toga. Quest’ultima sarebbe divenuta poi il simbolo stesso di
appartenenza alla civitas. Essa si presentava infatti come un’insegna caratteristica del magistrato, del
sacerdote, del giovane, di tutte le figure ritenute più meritevoli di tutela pubblica, poiché responsabili
dell’assetto umano, dell’ordine divino e della salvaguardia del futuro della stirpe. Essa era fondamentale nei
riti di passaggio, una volta raggiunta la maggiore età, l’adolescente smetteva la toga praetexta (orlata di
porpora) per indossare quella pura o virilis, tutta bianca e caratterizzata dall’assenza di qualsiasi fregio.
Ancora oggi la toga viene indossata da tutti i magistrati.

2 LA TOGA

I grammatici antichi erano d’accordo nel collegare il termine tego (ricopro) a toga, per il fatto che avvolgeva
tutta la persona. Veniva indossata a diretto contatto con il corpo, ricoperto al di sotto solo da un perizoma che
circondava le reni. Per il fatto che poteva stare da sola era considerata un vero e proprio indumento e non una
semplice sopravveste. Servio ad esempio dice che “gli antichi latini, quando ancora non avevano armi da
difesa, combattevano circondandosi il corpo con toghe, dalla qual cosa ancora oggi si dice “essere in
procinto””.
Si trattava in pratica di un mantello vagamente circolare o semilunato, una “veste semicircolare”. Il modo di
indossarlo era: bisognava farne salire un buon tratto al di sopra del capo, in modo da coprire la testa come un
velo, aveva a che fare con celebrazioni ed uffici religiosi massimamente solenni, era questa la modalità
estetica con cui l’immagine di Augusto è passata alla storia.
Doveva essere più larga che lunga, secondo tagli specifici. La statuaria lascia costantemente intravedere
anche un complesso gioco di pieghe. Usualmente si portava la toga appoggiandone un lembo sulla spalla
sinistra e l’altro su quella destra, in modo che risultassero avviluppati sia il dorso che il fianco destro fino al
collo. Quindi veniva passata sulla parte frontale del corpo, tanto da lasciare scoperta una minima porzione
del petto ed arrivare quasi a toccare i piedi. Questo movimento trasversale della toga sulle spalle prendeva il
nome di remeatio.
L’autore dell’Institutio oratoria dichiara che le toghe antiche erano molto meno elaborate di quelle dei suoi
tempi, non avendo sulla parte anteriore quei panneggi, che con il passare del tempo avrebbero assunto
dimensioni sempre più vistose e appariscenti.
L’antica toga repubblicana primitiva era costituita da un semplice drappo di lana bianca intessuta
rigorosamente sul telaio domestico, era perciò denominata restricta. Era molto sobria: priva di pieghe sul
petto, fasciava completamente la figura. Durante il principato fu invece sostituita dalla cosiddetta toga fusa,
dalla superficie più ampia e dotata di sinus, che avviluppava entrambe le braccia. Se questo poi era doppio, il
primo al ginocchio e il secondo fino alla caviglia, la toga si definiva ima (profonda). All’inizio del III secolo
d.C., nell’età dei Severi, si affermò la toga contabulata, in cui il lembo di stoffa del secondo sinus veniva
ripiegato più volte ordinatamente su sé stesso.
Per i periodi di lutto si usava la toga pulla, le cui tonalità variavano dal grigio scuro fino al nero. Per quanto
concerne il suo impiego privato, al di fuori della sua funzione di rappresentanza ufficiale, dato che all’inizio
si usava solo all’interno del pomoerium, pian piano uscì dall’uso comune e fu soppiantata da abiti più pratici
(pallium e lacerna).
In età imperiale cambiarono le occasioni concrete ma non i motivi di fondo che inducevano ad optare alla
toga, collegati alla decisa volontà di ben figurare in un contesto valutato come gerarchicamente superiore.

3 MENTALITA’ A CONFRONTO: IL RAPPORTO CON LA CIVILTA’ ETRUSCA E GRECA

L’esempio della toga dimostra che anche nell’abbigliamento durante i primi secoli della sua storia Roma fu
ampiamente tributaria dell’influsso etrusco.
Testimoni come lo storico Tito Livio o Plinio il Vecchio, secondo i quali la toga praetexta sarebbe stata
introdotta a Roma proprio dagli Etruschi, come i fasci littori, la sella curule ed il lituo augurale. L’influenza
degli Etruschi si sprigionava nei contesti come quello magistrale o sacerdotale, in via casistica anche in altri
ambiti prestigiosi ed evocanti solennità.
Tutti i mantelli etruschi attestati hanno anche decorazioni ai bordi, confermando così l’attenzione rivolta
all’orlo del vestito, che si presenta come il tratto dominante anche nella foggia della toga praetexta.
L’evoluzione del capo è avvenuta nella direzione di un’accentuazione del suo significato simbolico in senso
gerarchico, perché simili mantelli in ambito etrusco non sembrano affatto essere stati sinonimo di alto rango,
ma piuttosto diffusi a tutti i livelli sociali.
Il termine greco corrispondente al latino toga, ossia tabenna, offre ulteriori indizi dei contatti intercorsi tra la
civiltà etrusca e quella romana durante il periodo considerato. Il suffisso -enna è tipico della lingua etrusca.
Un autorevole etruscologo, Massimo Pallottino, non esita a connettere la toga romana proprio con la tebenna,
ossia il tipico abito etrusco, ampio manto dall’orlo arrotondato, che si appoggiava sulle spalle e i cui lembi
pendevano in avanti.
Mentre la foggia degli abiti romani era più complessa e composita, quella dei vestiti greci era semplice e
costituita da un pezzo unico. I tessuti erano più sottili e morbidi in Grecia e più pesanti e spessi a Roma. I
vestiti greci erano in genere molto meno costosi e lussuosi rispetto a quelli romani. Tra Greci e Romani si
assisteva a differenze sostanziali anche nel campo della decorazione. L’abito greco era pressoché identico in
tutte le attività, mentre a Roma tendeva di più ad adattarsi ai vari contesti ed alle diverse funzioni con cui
veniva impiegato.
Questa tendenza portò i Romani ad essere molto più elastici dei Greci in occasione delle loro numerose
conquiste, quando entrarono in contatto con realtà geografiche ed etniche molto diverse rispetto alla loro.
I legionari romani che si trovavano nell’Europa settentrionale si trovarono a mettersi brache o speciali
pantaloni corti chiamati hosa e pesanti mantelli di origine gallica.
A Roma si tendeva ad una rigida specializzazione. Il concreto modo di vestire stava a significare la valenza
pubblica del personaggio in maniera molto più spiccata rispetto a quanto non avvenisse nel mondo greco.
Nella mentalità romana, la pratica si adattava anche al settore privato, in cui si tendeva a rispettare la tenuta
richiesta delle singole circostanze.
Se in Grecia le scelte sembrano avere una logica di tipo individualistico, a Roma paiono dotate di un valore
eminentemente distintivo in senso sociale.
Il flamen, figura di primo piano nella gerarchia sacrale, era inscindibilmente associato al suo speciale
copricapo, l’apex. La semplice caduta a terra di tale berretto era sufficiente a causargli la rimozione
dall’incarico.

4 GLI ALTRI ABITI DA CERIMONIA

Lo stesso flamen era tenuto ad indossare la laena, un mantello molto corto, solo in occasioni davvero
speciali, come la solenne cerimonia della sua inauguratio. Una trabea interamente purpurea era invece
caratteristica dell’ornatus augurale. Erano due tipologie di veste, che sembrano dotate di un valore
prettamente cerimoniale.
Originariamente la trabea doveva essere una semplice varietà della toga, caratterizzata rispetto da splendide
strisce ornamentali d’oro e di porpora (trabes) da cui derivava sicuramente il nome. Era una toga molto
ampia che arriva alle ginocchia, usata per avvolgere le statue delle divinità, conferiva un carattere semidivino
a chi la indossava. La portavano i re come Servio Tullio. In un secondo momento è divenuta un vero e
proprio abito di gala, la indossavano infatti i senatori e cavalieri. Era riservata ai consoli in occasione della
solenne apertura delle porte del tempio di Ianus, ma anche ai cavalieri durante le cerimonie fondamentali
della transvectio e decursio equitum.
La trabea si presta agevolmente all’antonomasia, al punto che, assurse anch’essa a paradigma di romanità.
Durante il periodo imperiale l’aspetto decorativo di questo capo andò progressivamente incontro ad un
ulteriore arricchimento: divenne elemento distintivo di alto rango l’originalità e la ricchezza delle sue
fantasie e dei suoi ricami, rimasero nella storia le trabeae cariche d’oro ostentate dal generale Stilicone.
La forma della trabea ci è stata restituita da alcuni bassorilievi romani, uno in onore di Antonino Pio
riproduce l’immagine di un mantello di poco più corto della toga, fermato sulla spalla destra con un
fermaglio.
La laena era riservata solo ad occasioni solenni, come il giorno dell’inauguratio dei flamini.
Questo indumento fu destinato ad uso molto più esteso. Il primo è la protezione dal freddo notturno quando
si andava a cena fuori, riconoscendone un importante funzione pratica. Mentre altri autorizzerebbero a dire
che si tratta di un articolo piuttosto diffuso anche tra la gente comune. Essa doveva comunque porsi come
una sorta di “doppio” della toga. Dal tondo adrianeo conservato nel Museo della Civiltà Romana a Roma ci
vengono mostrati vestiti della laena i partecipanti ad un sacrificio in onore di Apollo.
Si trattava dunque di un mantello rotondeggiante fermato alla spalla da un fermaglio e lungo fino alla metà
del polpaccio, da risultare simile alla trabea e alla clamide.
Sembrerebbe comunque di capire, da questa continua insistenza delle fonti sulla su duplicità, che si trattasse
di un modello nettamente più pesante rispetto al tipo di toga standard. La lanea flaminica doveva
corrispondere ad uno speciale mantello, corto di tipo invernale. Doveva risultare piuttosto scomodo e quindi
essere indossato solo in occasioni circoscritte e speciali. Era fondamentale l’uso della lana, erano
riconosciute straordinarie virtù a questo materiale in ambito sacro. La capacità di proteggere dal freddo e
un’affinità con il corpo umano.

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