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Nel sesto anno (83 d.C.

) della campagna militare condotta in Britannia, Agricola, che negli anni precedenti aveva
rafforzato il dominio romano con la fortificazione dei territori già occupati, iniziò una nuova impresa spingendosi a
nord oltre il golfo di Bodotria (Firth of Forth); l’obiettivo era quello di piegare la resistenza dei Caledoni, che
abitavano le terre dell’odierna Scozia, estendendo il dominio romano sull’intera isola. Dopo alcuni scontri Agricola
decise di rinviare l’attacco definitivo all’anno successivo; intanto i Caledoni guidati da Calgaco si preparavano
all’imminente guerra contro i Romani.

Nell’anno 84 d.C. avvenne la battaglia decisiva nei pressi del monte Graupio; Agricola ebbe la meglio, ma non riuscì,
per l’avvicinarsi della stagione autunnale, a organizzare l’occupazione dei territori dei Caledoni. Credeva di svolgere
questo compito l’anno successivo, ma non fece in tempo, perché Domiziano lo richiamò a Roma, o per gelosia dei
successi militari del valoroso generale o, come è più probabile, per la necessità di utilizzare le legioni stanziate in
Britannia sul fronte renano e su quello danubiano.

Traduciamo il discorso pronunciato da Calgaco nell’imminenza della battaglia presso il monte Graupio. Al discorso
del condottiero caledone segue (capp. 33, 34) quello di Agricola ai suoi soldati; Tacito in questo modo rispetta la
tradizione storiografica dei “discorsi a coppia” (come quelli di Annibale e Scipione prima della battaglia di Zama nel
libro XXX, capp. 30-31 delle Storie di Livio), utili per una più efficace caratterizzazione psicologica dei generali e per
riportare le ragioni delle parti in lotta con una più intensa carica drammatica.

Il carattere fittizio e retorico del discorso di Calgaco non inficia tuttavia le “verità” contenute in questa dura
requisitoria contro l’imperialismo romano. Tacito, fedele e leale funzionario dell’impero, è riuscito a dar voce al
punto di vista dei vinti, riportando con una lucidità sorprendente le ragioni ideali che spingevano un popolo a
opporsi alle legioni romane. Calgaco, dopo avere ricordato il bene prezioso della libertà a uomini ignari della servitù,
condanna la prepotenza e la rapacità dei Romani, avidi di ricchezze, mossi dalla smania del dominio persino verso
popoli poveri. Il discorso di Calgaco non è la prima espressione nella storiografia latina del punto di vista dei vinti. Già
Cesare nel De bello Gallico (VII, 77) e Sallustio, in un passo del Bellum Iugurthinum [41, 1] e poi nella lettera di
Mitridate ad Arsace, avevano fatto pronunciare veementi accuse contro l’espansionismo romano e le brutalità a esso
connesse (puoi leggere questi brani in traduzione nella scheda di approfondimento alle pagg. 30-32). In Tacito però
la forza della denuncia s’accresce per le suggestioni di uno stile che fa già intravedere la densità e le nervose
spezzature delle opere della piena maturità, come appare evidente nella sententia finale. Auferre, trucidare, rapere,
falsis nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, «rubano, massacrano, rapinano e
dove fanno il deserto dicono di portare la pace». Parole belle e nobili, che demistificano le ragioni dei vincitori e
nobilitano la lotta di chi si batte per la propria libertà. Le parole che Calgàco rivolge ai suoi uomini dimostrano una
grande padronanza della retorica da parte di Tacito, una notevole capacità di immedesimarsi nelle posizioni del
nemico che si scaglia con durezza e con espressioni memorabili contro l’imperialismo romano: in questo Tacito segue
la tradizione “tucididea” di ricostruzione dei discorsi secondo il criterio della verosimiglianza, già adottato, nella
storiografi a latina, da Sallustio.

[1] «Quotiens causas belli et necessitatem nostram intueor, magnus mihi animus est hodiernum diem

consensumque vestrum initium libertatis toti Britanniae fore; nam et universi coistis et servitutis expertes et nullae

ultra terrae ac ne mare quidem securum inminente nobis classe Romana. Ita proelium atque arma, quae fortibus

honesta, eadem etiam ignavis tutissima sunt. [2] Priores pugnae, quibus adversus Romanos varia fortuna certatum

est, spem ac subsidium in nostris manibus habebant, quia nobilissimi totius Britanniae eoque in ipsis penetralibus siti

nec ulla servientium litora aspicientes, oculos quoque a contactu dominationis inviolatos habebamus. [3] Nos

terrarum ac libertatis extremos recessus ipse ac sinus famae in hunc diem defendit; nunc terminus Britanniae patet,

atque omne ignotum pro magnifico est; sed nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani,
quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. [4] Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus

defuere terrae, et mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens

satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. [5] Auferre, trucidare, rapere, falsis

nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

Ogni volta che io medito sulle origini della guerra e sulla situazione che ci opprime, fermissima

fede nasce nell'animo mio, che l'ora presente e l'unione vostra aprano la via a riconquistare

l'indipendenza dell'intera Britannia: ché tutti siamo vergini di servitù, né per noi vi sono altre terre

al di là, e neppure il mare è libero dacché ci minaccia la flotta romana. Armi e battaglie, che son

fonte d'onore ai valorosi, divengono in tali condizioni il supremo elemento di sicurezza per gl'ignavi

stessi. Sinora noi combattemmo con varia sorte contro i Romani, e fu a noi speranza e forza il

nostro braccio. Nobilissimi fra tutti i Britanni, come abitatori dell'interno noi non vediamo lidi di

popoli schiavi; neppur con la vista subimmo mai l'oltraggio della dominazione straniera. Sino ad

oggi, questo nostro oscuro vivere nell'estreme zone della terra e della libertà ci ha protetti. Ora,

anche questo ultimo recesso della Britannia è aperto; e come tutto ciò ch'è ignoto, lo s'immagina

pieno di meraviglie. Al di là, non più alcun popolo, non altro che flutti e scogli, e, peggior male, i

Romani, la cui prepotenza invano vorresti placare con l'umile sottomissione. Predoni del mondo

intero, poiché tutto devastarono, e altre terre da devastare non hanno, anche il mare vanno ora

frugando. Avidi contro il nemico ricco, contro il povero superbi; non saziati dall'Oriente, non

dall'Occidente; soli fra tutti a gettarsi con pari accanimento sull'opulenza e sulla povertà. Rubare,

massacrare, rapire, hanno da essi il falso nome di impero, e là dove fanno il deserto, lo chiamano

pace.

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