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Storia greca Manuale

Storia greca (Università degli Studi di Catania)

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STORIA GRECA
M. CORSARO – L.GALLO

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DALLE ORIGINI ALL’VIII SECOLO

La civiltà dell’Egeo e l’età buia


I. Nella fase più antica della storia greca è nelle isole dell’Egeo che si sviluppano nuove
forme di civiltà. Durante la prima età del Bronzo (3500-2000 a. C.) si sviluppa la
cosiddetta civiltà cicladica, che si caratterizza soprattutto per la produzione di figurine
stilizzate in marmo probabilmente utilizzate per l’attività funeraria.
Ma è a Creta che si sviluppa la civiltà di maggiore rilievo, e che dal nome di un leggendario
re, Minosse, ha preso il nome di minoica. Intorno alla fine del III millennio a Creta si registra
una svolta: in diverse località dell’isola sorgono i primi palazzi, attorno ai quali si sviluppano
agglomerati urbani. Ha così inizio il periodo detto “protopalaziale”, che si estende fino al
1700 a. C. Ma è nella fase successiva, quella detta “neopalaziale” (dal 1700 alla metà del
XV secolo) che Creta conosce il suo apogeo: dopo distruzioni per cause non meglio chiarite
i palazzi vengono ricostruiti e ampliati. In questa seconda fase è caratteristica una forte
omogeneità culturale, che dimostrerebbe l’egemonia di Cnosso sul resto dell’isola.
I palazzi avevano funzioni diverse. Oltre a essere residenza del sovrano, e quindi sede del
potere politico, la presenza di depositi di derrate dimostra che avevano un ruolo in ambito
economico e alcuni ambienti erano chiaramente destinati ad attività di culto, per cui si
presume fossero anche centri religiosi. Il rinvenimento di alcuni testi scritti segnala la
presenza di due forme di scrittura sillabica: una fatta di ideogrammi, definita geroglifica, ed
un’altra, chiamata lineare A, che si diffonderà anche in altre isole dell’Egeo. Entrambe
queste scritture sono tuttora indecifrate.
L’unica base, comunque, per una ricostruzione della civiltà minoica è fornita dalle fonti
archeologiche. Un primo dato è la prosperità di tale civiltà: oggetti di ceramica, sigilli in avorio
e prodotti di oreficeria dimostrano l’esistenza di un artigianato specializzato. Altra
caratteristica è lo scarso rilievo dato all’attività militare. I palazzi erano privi di fortificazioni
ed è rara la presenza di armi nelle sepolture. Poco si può dire, invece, sulla regalità.
Mancano infatti, a differenza delle civiltà orientali, raffigurazioni dei sovrani. Così come
scarse sono le testimonianze sulla religione: nonostante diverse raffigurazioni che molto
dicono su cerimonie e altre pratiche rituali, ben poco si può desumere sul pantheon minoico.
La civiltà minoica si diffuse ampiamente nell’Egeo: materiale cretese è stato rinvenuto,
infatti, oltre che nella Grecia continentale, nelle Cicladi e isole del Dodecaneso, così come
nella costa anatolica. Intensi furono i rapporti con l’Egitto, testimoniati da fonti egiziane. Che
a questa diffusione si accompagnasse anche una dominazione politica non è dato che ha
riscontro nell’evidenza archeologica.
Per Creta minoica, ad ogni modo, il declino arriva alla metà del XV secolo a. C., quando tutti
i palazzi dell’isola, ad eccezione di Cnosso, vengono distrutti. Ormai trova scarso credito
l’ipotesi di una disastrosa eruzione vulcanica (indagini recenti hanno appurato che tale
cataclisma precede di circa un secolo la distruzione di palazzi), mentre i cambiamenti
intervenuti nella cultura materiale di Creta (presenza di armi nelle tombe, sepolture simili a
quelle della Grecia continentale) suggeriscono un’altra spiegazione: l’invasione e la
conquista da parte dei Micenei.

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II. Intorno al 2000 a. C. si insediano in Grecia gruppi di indoeuropei che, tramite la


fusione con le popolazioni preesistenti e gli apporti di altre culture, danno origine a
quella civiltà conosciuta col nome di micenea, fiorita tra il XVI ed il XII sec. a. C.,
chiamata così in seguito al rinvenimento a Micene, nel Peloponneso, da parte
dell’archeologo Schliemann nel 1876, di alcune tombe a fossa di eccezionale
ricchezza. Ma Micene non fu l’unico centro importante di questa civiltà: altri palazzi
fortificati sono stati rinvenuti a Tirinto e a Pilo, sempre nel Peloponneso, a Tebe, ad
Atene. Comune a varie località è la presenza di tombe monumentali a fossa o a
cupola (tholos) riferibili a personaggi di rango elevato. Come detto, anche Creta verrà
conquistata ed il palazzo di Cnosso, unico sopravvissuto alla distruzione, diventa
sede di un potentato miceneo.
La conoscenza che abbiamo del mondo miceneo si basa soprattutto sul rinvenimento di
quasi 5000 tavolette iscritte di argilla in vari siti palaziali redatte nel corso del XIII sec. (ad
eccezione di quelle di Cnosso), poco prima che i palazzi fossero distrutti da incendi, e che
attestano una scrittura sillabica derivata dalla lineare A minoica e indicata come lineare B.
questa è stata decifrata dall’inglese Ventris nel 1952, a cui si deve la scoperta che è una
forma arcaica di greco. Le tavolette contengono registrazioni di vario tipo: inventari di
persone, oggetti, tributi, ecc. e forniscono informazioni sulla vita amministrativa e
sull’organizzazione della società micenea. Sappiamo quindi che i palazzi rappresentavano
il centro politico, amministrativo e religioso di Stati territoriali indipendenti retti da monarchi.
Possiamo ricostruire, almeno in parte, la struttura di questi regni. Al vertice vi è il sovrano
(wanax), che non è però un monarca assoluto. È affiancato da un’aristocrazia di dignitari tra
cui si distinguono il lawagetas, personaggio di rango più elevato dopo il sovrano e
probabilmente comandante dell’esercito, una serie di capi militari, gli hequetai, un gruppo di
notabili proprietari terrieri, i telestaì, poi funzionari di corte e artigiani e operai alle
dipendenze del palazzo. Al livello più basso ci sono gli schiavi (doero), che possono essere
di proprietà anche di divinità (“schiavitù sacra”). Sono presenti inoltre due termini che
avranno una notevole importanza nella storia istituzionale del mondo greco: damo (cui
corrisponde il greco demos, popolo) e qasireu, che però è di difficile interpretazione (forse il
capo di un distretto o di una corporazione artigianale), ma è notevole il fatto che in un
documento di Pilo il qasireu è affiancato da una kerosija, termine che corrisponde al greco
gherousia (consiglio degli anziani).
Siamo poi informati sulle attività economiche: ovviamente l’agricoltura (coltivazione di
cereali, vite, olivo), poi l’allevamento del bestiame, soprattutto ovino; l’artigianato, con
l’industria tessile, la lavorazione di metalli e la produzione di oli profumati.
Anche per quanto riguarda la religione e le pratiche cultuali la testimonianza è significativa:
nel pantheon miceneo, oltre a divinità sconosciute, sono presenti Zeus, hera, Poseidon,
Dionisio e altre divinità ben note, anche se le loro caratteristiche sono forse diverse da quelle
che avranno in seguito. In ogni caso, la religione micenea è molto diversa da quella greca,
come dimostra l’esistenza di una pratica estranea ai Greci del primo millennio, quella dei
sacrifici umani. Il wanax presiedeva alle funzioni, ma non ci sono elementi che possono far
affermare che anche il sovrano era oggetto di culto.
La civiltà micenea, però, non era confinata nei palazzi. Caratteristica dell’epoca è una rete
di rapporti con le altre regioni del Mediterraneo, su cui preziosa fonte è l’evidenza
archeologica.

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III. Anche i Micenei si mossero in lungo e in largo nel Mediterraneo, alla ricerca di materie
prime che scarseggiavano nella Grecia continentale. I rinvenimenti di numerosi
manufatti di origine micenea testimoniano la diffusione di questi sia nel Mediterraneo
occidentale che in quello orientale. In Occidente, i siti con materiale miceneo sono
diffusi soprattutto lungo la costa ionica dell’Italia meridionale, nella Sicilia orientale,
nelle Eolie e in Sardegna. Più sporadiche le presenze in Italia centrale e nella
penisola iberica. Ma è soprattutto verso Oriente che i Micenei si mossero: l’area siro-
palestinese, Cipro, Rodi e la costa centro-meridionale dell’Asia Minore sono i siti più
interessati da questi movimenti. Anche i rapporti con l’Egitto sono documentati, così
come i contatti con l’impero ittita, nell’interno dell’Anatolia. In alcuni testi ittiti del XIV
e XIII sec. a. C. si fa riferimento al regno degli Ahhyawa. Dal momento che il termine
richiama l’etnico “Achei”, con cui i Greci vengono chiamati di questo periodo vengono
chiamati nei poemi omerici, è opinione diffusa che si debba ravvisare in questo un
regno miceneo, anche se la localizzazione di tale regno è controversa.
E all’espansione in Asia Minore si collega il problema di quella che è forse la più famosa e
celebrata guerra dell’antichità, la guerra di Troia, una città ricca e potente situata
nell’Anatolia nord-occidentale, che sarebbe stata conquistata e distrutta dopo un assedio
decennale da parte di una grande coalizione di Achei in un periodo compreso tra la prima
metà del XIII sec. e gli inizi del XII. Tuttavia, la storicità del conflitto è da tempo oggetto di
un acceso dibattito, visto che nemmeno l’esplorazione archeologica ha dato una risposta
certa. Infatti, le varie fasi di vita del sito dimostrano che, dopo un terremoto che la distrusse
verso il 1300 a. C., la città venne ricostruita e di nuovo distrutta. Ma la cronologia (fine del
XIII sec.) non si concilia con la spedizione di cui parlano le fonti, dato che proprio in quel
periodo la civiltà micenea attraversa una profonda crisi. Anche se, comunque, i Micenei
avessero conquistato Troia, non ne avrebbero goduto a lungo i frutti, in seguito a questa
crisi che iniziò un periodo di inarrestabile declino.
IV. La fine del XIII secolo rappresenta una fase decisamente traumatica per la civiltà
micenea: vari palazzi vengono distrutti, e anche se alcuni di essi vengono ricostruiti
nel periodo successivo (Miceneo III C), la crisi del sistema palaziale appare
irreversibile, fino ad arrivare alla scomparsa degli Stati micenei e della cultura che li
caratterizza tra la fine del XII secolo e la prima metà dell’XI.
Le cause del fenomeno sono oggetto di vivace dibattito e varie sono le spiegazioni proposte:
si va da una serie di disastrosi terremoti, che avrebbero innescato un periodo di profonda
carestia, all’ipotesi di un cambiamento climatico (ma questa non ha molto seguito fra gli
studiosi). Molti pensano anche a rivolgimenti interni scatenati da rivalità dinastiche o
sollevazioni di categorie subalterne, così come trova sostenitori l’ipotesi di un attacco
dall’esterno, che sarebbe stato sferrato da una coalizione di popoli indicati nelle fonti
egiziane come “Popoli del mare”.
Una tesi molto accreditata nel passato ha oggi minore seguito: quella di un’invasione da
nord da parte dei Dori, una popolazione di lingua greca precedentemente stanziato nella
Grecia nord-occidentale. Secondo notizie leggendarie i Dori, poco dopo la fine della guerra
di Troia, avrebbero conquistato il Peloponneso guidati dagli Eraclidi, i discendenti dell’eroe
Eracle. Ora, che sia stata una loro invasione a determinare la distruzione dei palazzi si può
senz’altro escludere, dato che la cultura materiale non evidenzia alcuna traccia significativa

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di un popolo invasore. È piuttosto possibile che alcuni gruppi di Dori fossero già presenti nei
regni micenei e si siano sostituiti alla classe dominante una volta crollato il sistema palaziale.
In ogni caso, quale siano le cause del declino della civiltà micenea è problema sempre
aperto. Si può dire che una sola causa non è sufficiente a spiegare un fenomeno di tale
complessità, dietro il quale è probabile ipotizzare una pluralità di fattori concomitanti.
V. Il periodo compreso tra il XII e l’VIII secolo a. C. è tradizionalmente chiamato “età
buia” o “Medioevo greco”, poiché è visto come una fase di regresso, di decadenza
e di generale povertà, oltre ad essere il periodo meno documentato della storia greca,
data la totale assenza di fonti scritte. Tuttavia, i più recenti ritrovamenti inducono ad
un generale ripensamento di tale periodo, in quanto tra un secolo e l’altro, così come
tra una zona e l’altra della Grecia, le differenze sono tutt’altro che trascurabili.
Certo, la rottura con la civiltà micenea appare radicale: scompare ovunque la scrittura,
tranne a Cipro, dove alla scrittura detta “ciprominoica” (XVI-XI sec. a. C.) segue un nuovo
sistema sillabico, il sillabario cipriota, che resterà in uso fino al III secolo. La popolazione,
drasticamente diminuita, si concentra in piccoli agglomerati, in cui manca qualsiasi
stratificazione sociale, con case modeste, e probabilmente la pastorizia si sostituisce
all’agricoltura come principale base produttiva. Notevoli cambiamenti si hanno
nell’organizzazione politica: i capi delle comunità non hanno apparati burocratici e il loro
potere è limitato ed estremamente precario, sottoposto a continue contestazioni. Altrettanto
netta è la differenza riguardante gli usi funerari e la tecnologia: all’inumazione si sostituisce
la pratica micrasiatica dell’incinerazione; in Attica compare un nuovo sistema di decorazione
ceramica, il protogeometrico (cui farà seguito, dal IX secolo, il geometrico vero e proprio); il
netto calo dei contatti con l’Oriente favorisce l’adozione di un metallo ampiamente diffuso in
Grecia, il ferro, che si impone rapidamente per la fabbricazione di armi e altri attrezzi.
Non mancano tuttavia centri che, anche nell’età buia, conoscono uno sviluppo e continuano
a intrattenere rapporti col mondo orientale, come Atene, Argo, Cnosso. Una scoperta
effettuata in un piccolo centro dell’isola di Eubea, Lefkandi, porta una significativa novità: al
centro di una ricca necropoli è stato portato alla luce un gigantesco edificio absidale di 45
m di lunghezza che si segnala per la straordinaria qualità degli oggetti del corredo funerario.
La struttura è databile alla prima metà del X secolo, e dimostra che anche in quest’epoca
esistono élites con risorse economiche ingenti.
L’età buia vede anche un fenomeno di grande rilevanza, quale la migrazione in Asia Minore,
dove, in seguito al crollo dell’impero ittita verso la fine del XIII sec., è più facile la migrazione.
Dall’XI all’VIII secolo ha quindi inizio un massiccio movimento migratorio, impropriamente
chiamato “la prima colonizzazione” (la colonizzazione vera e propria è un fenomeno che
sarà legato all’esperienza della polis). Le fonti sono per lo più leggendarie, ma è probabile
che l’Attica abbia avuto una parte significativa in questo fenomeno. La costa micrasiatica
viene occupata in tutta la sua lunghezza, da nord a sud, e vi si formano tre distinte entità
regionali, l’Eolide, la Ionia e la Doride. Fra queste, la Ionia è destinata ad avere un ruolo
rilevante. Sarà la sede della cosiddetta “Dodecapoli” e costituirà un luogo privilegiato di
incontro e interazione fra mondo greco e mondo orientale, tanto che i popoli del Vicino
Oriente chiameranno “Ioni” i Greci nel loro insieme.
Nel IX secolo appaiono segni di ripresa: insediamenti più numerosi e stabili, contatti con
l’oriente intensi e presenza di beni di lusso nelle tombe. Inoltre, la presenza di modellini di

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granai in terracotta suggerisce che l’agricoltura ha ripreso un posto di primo piano. Si creano
quindi le premesse di quello che, non a caso, è chiamato il “rinascimento greco”.

La polis
I. Con l’inizio dell’età arcaica compaiono anche le prime fonti scritte. È proprio a
quest’epoca che si collocano, infatti, le due opere più antiche della letteratura
occidentale, che la tradizione attribuisce ad un poeta della Ionia, Omero: l’Iliade e
l’Odissea (la prima apparsa verso la metà dell’VIII secolo e la seconda circa mezzo
secolo più tardi). Ma la loro utilizzazione ai fini della ricostruzione storica non è per
niente agevole, data la difficoltà ad individuare il periodo storico cui si riferiscono.
Sicuramente non si tratta dell’epoca micenea: le differenze con la società palaziale
sono troppo rilevanti. Anche altre epoche, però, non sembrano rispecchiare il
contesto delle due opere. Mentre ci sono elementi che farebbero pensare all’età buia
(uso della cremazione, importanza della pastorizia), altri fanno pensare al periodo di
composizione dei due poemi (riferimenti alla colonizzazione).
Tuttavia, l’interesse storico della testimonianza omerica è innegabile soprattutto per quanto
riguarda le istituzioni politiche. Al vertice della comunità si trova un monarca, il basileus, che
però non è un sovrano assoluto: prima di qualunque decisione è solito consultare un
consiglio (boulé) di cui fanno parte i ghérontes, i capi delle famiglie nobiliari, così come ha
l’abitudine di convocare l’assemblea (agorà) per verificare l’orientamento dell’opinione
pubblica. Queste sono le istituzioni tipiche di ogni polis, ma nei poemi omerici le loro
competenze non risultano ben definite (non ci sono scadenze periodiche per le riunioni e
non esiste una procedura per le votazioni, in quanto l’assemblea si limita ad approvare o a
esprimere il proprio dissenso). È comunque il sovrano ad avere l’ultima parola. Il basileus
ha poi funzioni militari e religiose e, insieme ai ghérontes, amministra la giustizia sulla base
della consuetudine (thémistes), in quanto mancano leggi scritte.
Si può considerare verosimile l’ipotesi che i poemi facciano riferimento a quella che era la
situazione di una parte del mondo greco in un passato non troppo lontano dal periodo della
loro composizione (fine del IX inizi dell’VIII secolo).
II. Il periodo chiamato “rinascimento greco” vede dei cambiamenti davvero notevoli. Si
è detto della presenza di modellini di granai nelle tombe, che denotano la ripresa del
sopravvento dell’agricoltura sulla pastorizia, e dell’incremento demografico che ne
consegue. Un’altra novità di rilievo è la nascita del tempio. Mentre prima i luoghi di
culto erano semplici spazi all’aperto, ora vengono realizzate costruzioni
monumentali, di forma prevalentemente rettangolare, destinate a tale scopo. Tra i
templi più antichi acquista rilevanza quello dedicato a Zeus in Olimpia, un centro
dell’Elide, un sito che diventa ben presto un centro religioso di grande prestigio e
dove ogni quattro anni si tengono i giochi panellenici, le Olimpiadi, che le fonti fanno
iniziare nel 776 a. C.
Alla prima metà dell’VIII secolo risale anche l’invenzione dell’alfabeto greco, che inciderà
profondamente sullo sviluppo economico, culturale e politico delle comunità greche dell’età
arcaica. L’alfabeto greco deriva da quello fenicio, con l’aggiunta dei segni per le vocali. Ci
sono varie ipotesi sul luogo in cui avvenne questa straordinaria acquisizione (una località in

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Siria dove mercanti fenici ed euboici venivano in contatto; Pitecussa (nell’isola d’Ischia),
insediamento greco in cui erano presenti anche immigrati di origine orientale; un gruppo di
Fenici stanziato in Beozia), come pure controverse sono le ipotesi sulle motivazioni
dell’adozione dell’alfabeto (non è affatto sicuro che siano state le esigenze legate alle
transazioni commerciali, anche se senza dubbio i mercanti hanno favorito la diffusione di
tale strumento).
In tale contesto di cambiamenti nasce un nuovo modello di comunità statale, la polis, termine
che in origine indica probabilmente una rocca fortificata, ma che già nei poemi omerici ha
un significato più ampio e, oltre a designare un insediamento urbano, intende una comunità
con una organizzazione autonoma. È questa, infatti, la caratteristica fondamentale della
polis, un’entità costituita da un centro urbano e dal territorio circostante (chora), ma
soprattutto una comunità politica autonoma che si identifica coi suoi cittadini più che con il
luogo. La polis si forma attraverso un processo di fusione politica (e a volte anche
urbanistica) tra una pluralità di villaggi preesistenti (“sinecismo”).
Sulla prima fase di vita della polis la situazione politica è testimoniata soltanto dai discussi
poemi omerici: a un periodo monarchico avrebbe fatto seguito l’avvento del potere
aristocratico, ma non si tratterebbe di due fasi nettamente distinte, in quanto la stessa
regalità non è altro che un’emanazione del dominio aristocratico. È sicuro, comunque, che
nelle epoche successive la monarchia sopravvive solo in un numero limitato di poleis,
mentre si diffondono sempre più le magistrature aristocratiche.
Dall’VIII secolo la Grecia assume così una nuova fisionomia: una grande molteplicità di
comunità statali estremamente gelose della propria identità ed autonomia.
III. Oltre alla polis esistevano però anche altre forme di organizzazione statale. In alcune
zone più arretrate e meno popolate si riscontrano formazioni statali note come Stati
etnici (da ethnos, stirpe). A caratterizzarle è appunto il senso di omogeneità etnica
che unisce gli abitanti, che danno vita a forme di cooperazione in campo militare e si
riuniscono per scopi cultuali. Non esistono tuttavia relazioni formalizzate tra comunità
né organismi istituzionali con funzioni di coordinamento.
Quando lo Stato etnico si evolve in uno Stato federale (koinon) si ha un’organizzazione
nella quale le funzioni di governo sono ripartite tra un livello centrale e un certo numero di
entità locali. L’apparato istituzionale centrale ha competenze in politica estera e in tutte le
questioni che riguardano l’intero koinon. Massimo organismo decisionale è l’assemblea, che
si riunisce a scadenze periodiche, mentre il consiglio, composto dai delegati delle varie
comunità, ne prepara i lavori e si occupa degli affari correnti, poi vi sono le magistrature
federali, tra cui la suprema carica dello Stato, la strategia. Altra caratteristica è la doppia
cittadinanza (sympoliteia). Lo Stato federale si diffonderà sempre più in epoche successive.
Altra forma di aggregazione interstatale, sebbene nettamente diversa dallo Stato federale,
è l’anfizionia (dal greco amphiktiones, “coloro che abitano intorno”), lega sacrale costituita
da popoli o città geograficamente contigue che hanno il loro centro in un santuario comune.
Sebbene limitate alla celebrazione di festività e sacrifici comuni, non è escluso che favorisse
lo sviluppo di relazioni più strette tra gli aderenti.
La più importante tra le leghe sacre è l’anfizionia delfica, che ha il suo centro nel santuario
di Apollo di Delfi, sede di un celebre oracolo (la Pizia) frequentato da Greci e non Greci,
provenienti da tutto il Mediterraneo. Costituita da dodici popoli, la lega è governata da un

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sinedrio formato da 24 delegati (gli ieromnemoni, due per ogni popolo) che si riunisce due
volte l’anno e ha il compito di amministrare il santuario e organizzare gli agoni panellenici
(giochi pitici). Grazie alla sua autorevolezza ed al prestigio del santuario, l’anfizionia delfica
rappresenta un punto di riferimento per tutti i Greci, anche se la sua azione nel campo della
politica interstatale è abbastanza fallimentare, come dimostrano le “guerre sacre” per il
controllo del santuario che ha essa stessa contribuito ad alimentare.
IV. Nell’VIII secolo, con la nascita delle poleis, si assiste ad un fenomeno di grande rilievo
che si prolungherà per gran parte dell’età arcaica: sulle coste di varie regioni del
Mediterraneo, poi anche del Mar Nero, si insediano gruppi di Greci provenienti sia
dalla madrepatria che dall’Asia Minore, che danno vita a nuove fondazioni cittadine.
È quella che viene chiamata colonizzazione, anche se in questo caso è
completamente diversa dalla colonizzazione dell’epoca moderna. Queste città, infatti,
mantenevano rapporti con la madrepatria, ma non ne dipendevano politicamente.
Le cause di tale fenomeno sono ovviamente molteplici. Sicuramente alla base vi è la
situazione di disagio legata alla scarsità di terra da coltivare, ma non si possono escludere
le esigenze commerciali, come pure la pressione esercitata da potenze straniere (il caso
particolare delle poleis della Ionia micrasiatica, che avviano l’attività colonizzatrice quando
vengono interessate dalle mire del vicino regno di Lidia).
Sono le stesse comunità ad organizzare le spedizioni coloniali: un piccolo gruppo di coloni
(tutti uomini) viene posto sotto la guida di un capo aristocratico con ampi poteri, l’ecista (dal
greco oikistés, “fondatore”), il quale, dopo la consultazione dell’oracolo del santuario di
Apollo delfico, sceglie la meta dell’impresa e, una volta giunti a destinazione, dà le direttive
per la fondazione del nuovo insediamento e provvede alla distribuzione della terra tra i
coloni. Anche le colonie, comunque, non sono immuni a contrasti e tensioni, tanto che a
volte organizzano ulteriori spedizioni coloniali dando origine a quelle che vengono chiamate
subcolonie.
Naturalmente, i luoghi dove arrivavano i coloni non erano deserti, per cui si presentava il
problema della presenza degli indigeni. Sebbene in alcuni casi si instaurino relazioni di
convivenza pacifica e mescolanza matrimoniale, nella maggior parte dei casi la fondazione
di una colonia è il risultato di una vera e propria conquista militare, per cui gli indigeni sono
costretti o a trasferirsi altrove o vengono ridotti alla condizione di servi agricoli. È ovvio che
i coloni, data la scarsa consistenza numerica, riescono a prevalere con avversari deboli e
scarsamente organizzati, mentre non hanno possibilità nei confronti di comunità
militarmente forti. Questo spiega il fatto che alcune zone non sono state minimamente
toccate dal fenomeno coloniale (Egitto, Italia centrale tirrenica) o vedano solo la fondazione
di empori, insediamenti commerciali greci su cui però le comunità indigene hanno
giurisdizione.
V. La meta delle più antiche colonie è l’Occidente italico: qui nell’VIII secolo si assiste
alla nascita di Pitecussa, Cuma, Nasso, Leontini, Catania, Zancle (Messina), Megara
Iblea e due città che avranno una notevole importanza nelle epoche successive:
Siracusa e Taranto. Nel VII e Vi secolo nuove spedizioni interesseranno il versante
ionico e la Sicilia occidentale (solo sull’estremo versante Ovest dell’isola i Greci non
riescono ad insediarsi perché devono vedersela con una potente comunità indigena,
gli Elimi di Segesta, e in seguito i Cartaginesi).

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Ma anche altre aree vengono interessate dal fenomeno della colonizzazione, sia
dell’Occidente che del Mediterraneo orientale. Si assiste così alla nascita di colonie sulla
costa della Spagna e di Massalia (Marsiglia) in Francia e Cirene, in Libia. A est della Grecia
l’espansione avviene nell’Egeo settentrionale e nel Mar Nero, in cui saranno particolarmente
attivi Megaresi e Milesii: ai primi si deve la nascita di Bisanzio, mentre i secondi sono
particolarmente attivi nel Mar Nero, che addirittura nelle fonti è definito “lago milesio”.
In poco più di due secoli i confini del mondo greco si sono enormemente ampliati,
dall’estremo Occidente fin quasi al Caucaso. Da questi insediamenti la cultura greca si è
presto diffusa anche nelle regioni circostanti.

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L’ETÀ ARCAICA

Sviluppi di età arcaica


I. Una delle più importanti innovazioni dell’età arcaica, per le conseguenze sul piano
politico, è l’introduzione di una nuova tattica militare, l’oplitismo. Gli opliti sono fanti
equipaggiati con un elmo, un corsetto di bronzo, una lancia, una corta spada ed un
grande scudo rotondo di legno con rinforzi di bronzo (hoplon). Tale armamento è
poco adatto, per la sua pesantezza, agli scontri individuali, mentre è perfettamente
funzionale nell’ambito della formazione compatta in cui sono inquadrati gli opliti, la
falange: schierati su più file, uno accanto all’altro, i soldati si muovono in maniera
coesa e coordinata, così da ottenere una potente forza d’urto. Per questo motivo, le
doti richieste sono disciplina ed autocontrollo, più che l’ardimento individuale.
Questa nuova tattica si diffonde nella prima metà del VII secolo, almeno in alcune parti della
Grecia. Ne è testimonianza il materiale archeologico (scudi oplitici, vasi raffiguranti la
falange) e la tradizione letteraria (il poeta spartano Tirteo, della metà del VII secolo, esorta
i soldati a mantenere il proprio posto nello schieramento. Questa formazione è destinata a
diventare lo strumento bellico più diffuso per almeno tre secoli.
L’oplitismo ha conseguenze anche sull’evoluzione della polis. Essendo fondamentale, nella
falange, la consistenza numerica, l’attività militare non viene più riservata agli aristocratici,
ma chiunque sia in grado di pagarsi l’armamento oplitico (essenzialmente piccoli e medi
proprietari terrieri) è chiamato a contribuire alla difesa della città, creando così le condizioni
per l’estensione dei diritti politici. Pure importante è il rafforzamento della coesione tra i
membri della comunità derivante dall’addestramento cui gli opliti devono necessariamente
sottoporsi: nasce così una struttura, il ginnasio, che sarà presto uno degli elementi
caratterizzanti le città greche. Nonostante questo, tuttavia, nella polis rimangono in pochi a
detenere le leve del potere.
II. Un altro contributo all’evoluzione della polis arcaica viene dal processo di
codificazione delle leggi, a partire dal VII secolo, quando la diffusione della scrittura
fa sentire i suoi effetti anche nel campo del diritto. Si discute su quale sia l’area in cui
si sviluppa inizialmente il fenomeno (Creta o le colonie), ma la tradizione letteraria è
concorde nell’attribuire la più antica legislazione scritta ad una città della Magna
Grecia, Locri Epiziefiri, legislazione di cui sarebbe artefice tale Zaleuco, un oscuro
personaggio, intorno al 660 a. C. Notizie meno nebulose si hanno sul catanese
Caronda, attivo probabilmente tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo, mentre ben
poco si sa sul siracusano Diocle e sul reggino Androdamas.
Si riesce ad enucleare qualche indicazione sul contenuto di questi primi codici. Come prima
cosa, è evidente che sono molteplici i settori in cui intervengono i legislatori: reati di sangue,
questioni ereditarie, assetto delle proprietà fondiarie, contratti e anche la morale dei cittadini,
cercando di contrastare il lusso e l’ostentazione di ricchezza che avrebbero potuto generare
tensioni sociali. Inoltre, ci si preoccupa di garantire l’immutabilità delle leggi.
Queste prime leggi scritte costituiscono un notevole progresso per la polis: affermano
l’autorità dello Stato e sottraggono l’amministrazione della giustizia all’arbitrio dei potenti,

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assicurando la certezza del diritto a tutti i membri della comunità. Ma non si pensi di
ravvisare in questo una presunta spinta democratica verso una maggiore giustizia sociale:
obiettivo prioritario del legislatore è la stabilità politica e la salvaguardia dello statu quo, che
si guarda bene dal mettere in discussione.
III. Fin dall’età arcaica Sparta, situata in Laconia, nel Peloponneso, ha occupato un
posto tutto particolare tra le poleis della madrepatria per la forza militare e la
peculiarità delle sue istituzioni. Secondo la tradizione, a dare stabilità politica e buon
governo a Sparta fu un celebre, sebbene probabilmente leggendario, legislatore:
Licurgo. In realtà, tale ordinamento è il frutto di una evoluzione durata circa due
secoli.
La guerra costituisce da subito il tratto dominante della storia di Sparta. Già nella seconda
metà dell’VIII secolo prende di mira la vicina Messenia, che, dopo due conflitti, viene
conquistata dagli Spartani. La polis ottiene così abbondanza di terre fertili, ma deve
affrontare il problema dei tanti schiavi sempre pronti a ribellarsi.
Alla prima metà del VII secolo risale la cosiddetta “grande rhetra”, un’importante riforma
legislativa che sarebbe stata emanata da Licurgo. Il corpo civico veniva riorganizzato in tre
tribù e cinque suddivisioni territoriali, le obaì. Viene prevista la ripartizione del potere tra i
due organismi fondamentali, la gherousia e l’assemblea (apella). Questa deve essere
convocata periodicamente e può approvare o respingere quanto proposto dal consiglio.
Posteriore alla rhetra è l’istituzione degli efori, magistrati che diventeranno sempre più
importanti.
Nel VII secolo Sparta non ha ancora la fisionomia con cui è più nota, presenta una società
aperta agli scambi con l’esterno e in cui l’aristocrazia non disdegna l’ostentazione del lusso.
È nel secolo successivo che Sparta diventa una comunità austera e militarizzata,
probabilmente a causa della costante minaccia di una ribellione da parte delle popolazioni
sottomesse e per le forti tensioni interne. Le fonti attribuiscono a Chilone, un eforo
annoverato tra i Sette Sapienti, la radicale riforma della società alla metà del VI secolo:
Sparta è un vero e proprio Stato-caserma, tutti i cittadini sono soldati a tempo pieno, ogni
lusso è bandito e sono ridotti al minimo i contatti con l’esterno.
In questo periodo anche la politica estera spartana vede una nuova fase: la polis stipula una
serie di trattati bilaterali con gli altri Stati del Peloponneso (a parte l’Acaia e Argo), dando
origine così alla lega peloponnesiaca, l’esempio più antico di alleanza militare tra poleis che,
per la presenza di uno Stato egemone, si indica col nome di symmachia egemoniale. Infatti,
è Sparta ad avere, nella Lega, una posizione di preminenza: pur mantenendo la propria
autonomia, le altre città riconoscono a Sparta la funzione di guida in politica estera, il diritto
di convocare il consiglio della Lega quando lo ritiene opportuno, mobilitare le forze militari e
assumerne il comando in un conflitto. Così Sparta dispone del più forte esercito di Grecia.
IV. L’organizzazione dello Stato spartano è peculiare, sia per lo stile di vita austero e il
singolare sistema educativo, sia per le istituzioni politiche.
I cittadini che possiedono i diritti politici sono gli spartiati, e rappresentano un’esigua
minoranza. Il loro ruolo è molto preciso: liberi da preoccupazioni economiche, gli spartiati
hanno un’unica occupazione, cioè l’attività militare. Il percorso educativo imposto dallo Stato
(agoghé) è molto particolare e non si ritrova altrove. A otto anni i bambini vengono tolti alla
famiglia e vengono educati dallo Stato fino ai trent’anni. Ma anche dopo, agli spartiati è

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richiesto di partecipare quotidianamente ai sissizi, i pasti in comune, e di contribuire, pena


la perdita dei diritti politici, con una quota fissa mensile di prodotti ricavati dalle loro terre.
Tutti i cittadini con pieni diritti fanno parte dell’apella, l’assemblea che, come detto, può
approvare o respingere quanto proposto dal consiglio ristretto, la gherousia, che detiene un
vero potere. Formata dai due re e da ventotto spartiati di almeno sessant’anni eletti a vita,
la gherousia prepara e indirizza i lavori dell’assemblea e ha prerogative nell’ambito della
giustizia penale. Ciò che rende particolare l’ordinamento spartano è però la presenza dei
due re (caso unico tra le poleis), che regnano in coppia e provengono dalle due famiglie
degli Agiadi e degli Euripontidi. In effetti, essi non hanno che competenze religiose e militari,
mentre molto più ampi sono i poteri degli efori, eletti dall’assemblea ogni anno in numero di
cinque, che vigliano sull’osservanza delle leggi e controllano il comportamento dei cittadini
e finanche degli stessi re.
Le altre due componenti della società spartana sono molto più numerose, ma subordinate
agli spartiati. I perieci sono privi della cittadinanza ma di condizione libera. Appaiono
allineati alla classe dominante a cui assicurano un importante apporto in termini di uomini,
nella falange oplitica, e occupandosi delle attività proibite agli spartiati (commercio,
artigianato). Ancora più numerosi sono gli iloti, soggetti non liberi ma non assimilabili agli
schiavi, in quanto di proprietà dello Stato e con la possibilità di vivere con i propri gruppi
familiari e addirittura detenere patrimoni personali. Ma non per questo la loro condizione è
meno dura: costretti a coltivare le terre degli spartiati, gli iloti devono versare ad essi metà
del raccolto, inoltre sono trattati con estrema durezza e considerati dei veri e propri nemici.
Come detto, è il timore delle loro rivolte il motivo principale della militarizzazione della polis.
V. Tra le regioni della Grecia centro-settentrionale un ruolo di rilievo lo hanno la Beozia
e la Tessaglia.
La Beozia, ampia e fertile regione della Grecia centrale, si caratterizza per la presenza di
una pluralità di poleis (tra cui prima Orcomeno poi Tebe acquisteranno una posizione di
supremazia) legate da vincoli di natura religiosa, ma endemicamente in conflitto tra di loro.
Ma quando, nel VI secolo, vengono prese di mira dai Tessali, le città beote fanno fronte
comune, ed è in questa occasione, probabilmente che nasce lo Stato federale.
In Tessaglia, invece, sopravvive per lungo tempo un’organizzazione tribale. La regione, con
le sue ampie distese adatte sia alla coltivazione di cereali che all’allevamento, favorisce lo
sviluppo di estese concentrazioni fondiarie, con conseguente formazione di grandi casate
nobiliari. Queste detengono il potere politico e possono disporre, grazie alla presenza di un
gruppo analogo agli iloti spartani, i penesti, di manodopera e milizie private. Verso la fine
del VI secolo i Tessali sottomettono una serie di popolazioni dei vicini distretti montuosi, e
grazie al loro voto nell’anfizionia delfica riescono a controllare l’importante organismo. A
questo periodo, molto probabilmente, risale la nascita dello Stato federale: il territorio viene
suddiviso in quattro distretti, le tetradi, base per il reclutamento di opliti e cavalieri per
l’esercito, a capo del quale sta il tagos, magistrato supremo dello Stato con carica a vita e
ampi poteri, tanto da essere assimilato a una figura monarchica. Il koinon tessalo, tuttavia,
non svolgerà un ruolo adeguato al suo potenziale militare a causa di vari fattori, quali la
rivalità tra le grandi casate, le tendenze autonomistiche dei ceti cittadini e le turbolenze dei
penesti.

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VI. Tra le numerose innovazioni dell’età arcaica vi è la nascita e la diffusione della


moneta coniata. Stando allo storico Erodoto, l’adozione di questo strumento sarebbe
avvenuta per la prima volta in Lidia, una regione dell’Asia Minore che, tra il VII ed il
VI secolo ha intensi rapporti con le poleis della costa. In effetti, il più antico ripostiglio
monetario conosciuto è stato rinvenuto sotto l’Artemision di Efeso, e comprende circa
un centinaio di monete di elettro (una lega naturale di oro e argento) provenienti,
pare, dalla Lidia e da altre città greche micrasiatiche. La datazione dovrebbe essere
non anteriore alla seconda metà del VII secolo.
Nella madrepatria non si tarda ad adottare questa rivoluzionaria innovazione. Dapprima ad
Egina, poi a Corinto e Atene, già agli inizi del VI secolo vengono coniate le prime monete,
mentre nella seconda metà del secolo l’uso si diffonderà alla Magna Grecia e Sicilia. Ogni
polis colloca un proprio simbolo nelle sue monete, e comune diventa l’uso dell’argento per
tale coniazione. Solo Sparta, per assicurare la propria autarchia e scoraggiare l’introduzione
di beni di lusso, adotta una moneta di ferro.
Come la cronologia, anche i fattori alla base dell’adozione della moneta sono controversi.
Le indagini numismatiche fanno escludere che il ricorso alla moneta sia stato ispirato dallo
scopo di facilitare gli scambi commerciali. È piuttosto nelle esigenze delle comunità statali
che vanno cercati i motivi della sua istituzione. Con la moneta, la polis dispone di un mezzo
di pagamento che ha un valore ben preciso, che le consente di fare fronte a tutta una serie
di incombenze di interesse collettivo e che rappresenta una significativa espressione di
identità e sovranità politica. A partire dal V secolo la moneta acquisterà un ruolo di primo
piano anche in campo commerciale.

La tirannide
I. A partire dalla metà del VII secolo, in numerose poleis si assiste all’avvento al potere
di ambiziosi leader politici che instaurano un regime autocratico e in molti casi danno
origine a vere e proprie dinastie. Questa figura viene indicata col nome di tyrannos,
di probabile derivazione micrasiatica e col significato originario di “signore”. Ma ben
presto il termine acquisisce un significato negativo, per cui il tiranno è un monarca
dispotico e brutale che governa senza il consenso della comunità. In realtà, la
tirannide è un fenomeno complesso, che, oltre agli aspetti negativi, avrà ripercussioni
sull’evoluzione della polis.
Nelle esperienze tiranniche si possono riscontrare alcuni tratti comuni: il tiranno è
espressione della classe dominante, ma in conflitto col suo ceto. Infatti, la contrapposizione
ai gruppi nobiliari, colpiti con esili, confische di beni e condanne a morte, è una caratteristica
del regime tirannico. Al contrario, le iniziative a favore delle classi meno abbienti (da non
considerare come ispirate riforme sociali, ma soltanto come espedienti allo scopo di
ricercare il consenso popolare) vedono redistribuzione delle terre, concessioni di prestiti a
contadini poveri, inserimento nella cittadinanza di gruppi prima esclusi, anche se nessuna
concessione viene fatta in merito alla partecipazione al governo.
I tiranni, inoltre, daranno sviluppo al commercio e all’artigianato, alle arti e alla cultura. E
saranno molto attivi nel campo dei lavori pubblici. Con la realizzazione di ambiziosi
programmi di edilizia monumentale (grandi santuari, fontane, acquedotti…) creano di fatto

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opportunità lavorative per i meno abbienti e ottengono l’effetto di rafforzare il senso di


appartenenza civica. Anche in politica estera l’azione dei tiranni risulta degna di nota, con
una fitta rete di relazioni diplomatiche con le altre dinastie.
La tirannide arcaica è un fenomeno di breve durata: una sollevazione interna o l’intervento
di potenze esterne di solito travolgono i nuovi regimi nell’arco di due generazioni. Ma le
conseguenze non sono di poco conto per le poleis. Sebbene tornino al potere le classi
aristocratiche, la situazione non sarà più la stessa di prima: rafforzando il ruolo dello Stato
e favorendo la mobilità sociale, i tiranni hanno creato le condizioni per un’evoluzione della
polis verso una comunità più aperta e meno condizionata dagli interessi delle classi
dominanti.
II. La più antica tirannide, secondo le fonti, è quella dei Cipselidi di Corinto (658/657 a.
C.). Già dalla metà dell’VIII secolo questa città appare caratterizzata da uno sviluppo
economico senza uguali: ai progressi nella marineria (secondo Tucidide furono i
Corinzi a realizzare per primi una nave che avrà mota fortuna in epoca classica, la
trireme) si accompagna la forte espansione del commercio e dell’artigianato. Il potere
è detenuto da una ristretta oligarchia, i Bacchiadi.
La crisi di questa dinastia avviene ad opera di un esponente dello stesso ceto dominante,
Cipselo, il quale, una volta diventato capo dell’esercito (polemarco), realizza un colpo di
Stato con cui si impadronisce del potere. Cipselo è presentato dalla tradizione come un
governante benevolo e moderato, che gode del consenso dei ceti popolari. Egli governerà
Corinto per circa trent’anni, nei quali degna di nota è la sua politica coloniale: fondò infatti
diverse colonie in Acarnania, Epiro e Illiria.
Il successore di Cipselo, il figlio Periandro, che governerà per circa quarant’anni, è descritto
invece come un tipico tiranno crudele e dispotico. Sicuramente, con Periandro si accentua
la conflittualità col ceto aristocratico, ne sono prova le disposizioni contro il lusso e
l’ostentazione della ricchezza. Ma altrettanto certo è l’impulso che egli dà alla potenza e
prosperità di Corinto. Oltre a proseguire la politica coloniale paterna, sotto il suo governo la
città assume un ruolo di rilievo in campo internazionale, come evidenziano i rapporti con
Egitto, Lidia e Mileto.
Alla sua morte gli succede il nipote Psammetico, ma viene rovesciato dopo soli tre anni.
Con la fine dell’esperienza tirannica (il potere è nelle mani di un’oligarchia moderata),
termina anche la fase di massima prosperità di Corinto, che verrà assorbita presto nell’orbita
di Sparta.
Un po’ più duratura risulta essere la tirannide degli Ortagoridi della vicina Sicione. Anche
qui un polemarco, Ortagora, prende il potere con il consenso derivatogli dalla carica. Ma del
suo breve regno, come di quello altrettanto breve del suo successore, Mirone, si hanno
scarse notizie. Ben più ricca è la tradizione relativa al terzo esponente della dinastia,
Clistene, che governerà per circa 30 anni. Di lui si hanno alcune curiose riforme, come quella
che vieta la recitazione dei poemi omerici o il ridimensionamento del culto dell’eroe argivo
Adrasto (anche se appare evidente la preoccupazione di sottrarre Sicione all’influsso
culturale della rivale Argo). Clistene istituisce poi una quarta tribù, la propria, in aggiunta alle
tre esistenti (che lui chiama ingiuriosamente porcai, asinai e allevatori di porcellini, Hyatai,
Oneatai, Choireatai). La quarta tribù avrà il nome di Archelaoi (capi del popolo).

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Anche in campo internazionale Clistene si distingue, come prova la sua partecipazione alla
prima guerra sacra a fianco degli Ateniesi e dei Tessali per il predominio sul santuario di
Delfi o lo straordinario risultato ottenuto dall’invito a dare la figlia in sposa al miglior
pretendente, cui rispondono esponenti di tredici importanti famiglie aristocratiche da tutta la
Grecia.
Alla morte di Clistene la dinastia tirannica continua a governare per circa sessant’anni, ma
nulla sappiamo di questa fase, se non che l’ultimo tiranno, Eschine, venne rovesciato intorno
al 510 a. C. e dopo di lui torna un regime oligarchico.
Molto più effimera è l’esperienza tirannica di Megara, legata al nome del solo Teagene. Di
lui si sa ben poco: a differenza dei tiranni di Corinto e Sicione, non riesce ad assicurare alla
sua polis un ruolo di rilievo. Anche alla caduta di costui fa seguito l’avvento di una oligarchia
moderata.
Ancora più scarse sono le notizie relative ad altre tirannidi del Peloponneso.
III. In Asia Minore il fenomeno della tirannide compare agli inizi del VI secolo. Il più antico
tiranno a noi noto è Trasibulo di Mileto, sebbene siano scarne le notizie in merito al
suo operato. Anche in questo caso, comunque, è certa l’ostilità nei confronti del ceto
aristocratico.
Qualcosa in più si sa su Mitilene, la più importante città dell’isola di Lesbo, dove, agli inizi
del VI secolo, succede che sono gli stessi cittadini ad affidare il governo della città con pieni
poteri a un moderatore aristocratico, Pittaco, con lo scopo di porre fine ai contrasti civili. La
sua si configura quindi come una carica arbitrale (aisymnetes) che Aristotele definisce
tirannide elettiva. Dopo aver assicurato un decennio di stabilità politica e sociale, Pittaco si
ritira volontariamente dal potere. Non molto si sa della sua azione di governo.
Più cospicua è la tradizione che riguarda Samo. Anche in questo caso un personaggio
facente parte del ceto dominante, Policrate, si impadronisce del potere (ca. 540 a. C.).
durante il suo ventennale governo Samo diventa una potenza navale. Con la sua flotta di
100 navi spadroneggia nell’Egeo, esercitando la pirateria e sottomettendo le Cicladi e
diverse località della costa dell’Asia Minore. Le sue ambizioni talassocratiche lo porteranno
a rompere l’alleanza stipulata con l’Egitto e unirsi ai Persiani nella loro spedizione contro il
Faraone. Ma durante il suo regno si segnalano anche le realizzazioni di grandiose opere
pubbliche e l’ospitalità ed il favore accordati ad artisti e poeti.
Tuttavia, il malcontento che suscita Policrate è molto diffuso. Nel periodo del suo governo
molti esponenti della nobiltà espatriano, particolarmente verso la Magna Grecia: Pitagora si
stabilirà a Crotone e un gruppo di aristocratici fondano un centro cui danno nome Dicearchia
(regno della giustizia”), dove oggi sorge Pozzuoli. Anche i soldati imbarcati nella spedizione
contro l’Egitto si ammutinano e danno inizio ad una rivolta.
Ma la fine di Policrate non si deve alla sollevazione popolare: il tiranno viene fatto uccidere
dal satrapo di Lidia, poiché i Persiani guardano ormai con sospetto la sua crescente
potenza. Alla sua morte, Samo sarà conquistata dagli stessi Persiani.
IV. La più antica tirannide siciliana nota risale alla fine del VII secolo: quella di Panezio
di Leontini. Ma null’altro si sa di costui. Più consistente è la testimonianza riguardante
Falaride di Agrigento, che diventa tiranno intorno al 570, poco tempo dopo la
fondazione della città. Di lui si sa che ha portato avanti una aggressiva politica di

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espansione a danno dei Sicani, prima di venire eliminato da una congiura di


aristocratici circa vent’anni dopo la conquista del potere. Nella seconda metà del VI
secolo fanno la loro comparsa le tirannidi di Selinunte (Terone) e Gela. In
quest’ultima, ben poco si sa del primo tiranno, Cleandro (505-498), mentre più notizie
si hanno del successore, il fratello Ippocrate, che si distingue per una intensa e
ambiziosa politica espansionista di cui fanno le spese le altre poleis della Sicilia
orientale: Leontini, Catania, Callipolis, Nasso e Zancle. Dalla sottomissione si salva
solo Siracusa che, pur sconfitta, mantiene la sua autonomia cedendo a Ippocrate
Camarina. Il tiranno troverà la morte combattendo contro i Siculi a Ibla (491).
In Magna Grecia la diffusione della tirannide avviene in epoca più tarda: la più antica è quella
di Sibari, in cui Telys si impadronisce del potere verso la fine del VI secolo. Molto poco si sa
della sua attività, anche se la sua figura è legata ad una vicenda che ha avuto per Sibari un
effetto catastrofico: la guerra con Crotone. Nel 510, infatti, Sibari è assediata, conquistata e
rasa al suolo dai Crotoniati.
Di poco posteriore è l’esperienza di Cuma, dove Aristodemo, un esponente dell’aristocrazia
equestre distintosi in battaglia contro gli Etruschi, con l’appoggio dei ceti popolari e della
componente indigena riesce ad impadronirsi del governo. Aristodemo governerà la città per
circa un decennio e la sua caduta segna la fine di una fase di prosperità e potenza che
Cuma non conoscerà più.

Atene in età arcaica


I. Nel VII secolo Atene, come altre poleis, si caratterizza per la debolezza
dell’organizzazione statale e il predominio delle famiglie aristocratiche, problemi che
però, in questo caso, sono accentuati dalla situazione geografica. Infatti, la vastità
del territorio favorisce l’esistenza di diversi potentati con a capo grandi casate
nobiliari. Loro prerogativa sono le magistrature: il collegio dei nove arconti e
l’Areopago (chiamato così perché si riuniva sulla collina di Ares), un organismo di
circa 300 membri al quale spettano la giurisdizione sui reati di sangue, la custodia
delle leggi e il controllo sui magistrati.
La potenza dell’aristocrazia emerge con chiarezza durante una vicenda che si svolge nella
seconda metà del VII secolo, il tentativo di Cilone, genero del tiranno di Megara Teagene,
di impadronirsi del potere occupando l’Acropoli con un gruppo di seguaci. Sarà la famiglia
degli Alcmeonidi a sventare i suoi piani mobilitando la folla contro Cilone, i cui seguaci
vengono massacrati. E sebbene abbiano evitato ad Atene l’esperienza della tirannide, il
massacro darà l’occasione, alle famiglie rivali, di esiliare gli Alcmeonidi da Atene, almeno
per qualche tempo.
Probabilmente connessa a questo episodio è la novità di un codice di leggi scritte ad opera
di Dracone (tra il 624 e il 620 a. C.). Le leggi draconiane, molto severe, avevano lo scopo di
affermare l’autorità della polis a discapito dell’iniziativa privata, come dimostrano le leggi
sull’omicidio, rimaste in vigore anche in epoca classica, che stabiliscono precise modalità
per la punizione di un delitto e distinguono tra omicidio volontario e involontario.
In questo periodo Atene è anche afflitta da gravi problemi sociali. Gran parte della
popolazione, infatti, versa in uno stato di estrema difficoltà, e oltre alla possibilità della

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servitù per debiti c’è anche la condizione dei cosiddetti hektemoroi, una categoria di
dipendenti rurali esposti alla vendita in schiavitù. Ma sarà un altro legislatore, Solone, ad
impedire che su questa situazione si innesti un’avventura tirannica.
II. Solone ha un ruolo importante nella storia ateniese già prima di dedicarsi all’opera
legislativa e riformatrice per cui è noto. È infatti merito suo il successo di Atene nei
confronti di Megara per il possesso dell’isola di Salamina agli inizi del VI secolo; ed
è sempre per suo impulso che ha luogo la cosiddetta prima guerra sacra,
combattuta dagli Ateniesi, in coalizione con i Tessali e con il tiranno di Sicione
Clistene, contro la città di Cirra, situata sul golfo di Corinto, i cui abitanti
commettevano soprusi ai danni del santuario di Delfi e dei pellegrini che vi si
recavano, oltre a disturbare, con le loro attività piratesche, le attività economiche delle
poleis che utilizzavano il golfo di Corinto per i loro traffici, come per l’appunto Atene.
Cirra viene sconfitta e distrutta e Atene ne trae vantaggio per gli stretti rapporti
intrattenuti con la nuova classe sacerdotale delfica che sostituisce la precedente
legata ai Cirrei.
È probabilmente anche per il prestigio derivatogli da questi due eventi che nel 594 viene
eletto arconte con l’incarico di emanare nuove leggi e fare da pacificatore nei contrasti
sociali. E infatti, nel breve periodo in cui è al potere, Solone svolge una funzione di
mediazione, cercando di limitare gli eccessi dell’aristocrazia e di realizzare un buon governo
(eunomia) in cui diritti e doveri siano commisurati al ruolo nella comunità. Con un
provvedimento chiamato seisachtheia (“scuotimento dei pesi”) cancella i debiti, vieta di
contrarre prestiti sulla garanzia delle persone fisiche e affranca gli hektemoroi dalla
schiavitù, ma rifiuta decisamente di approvare una redistribuzione delle terre.
In campo costituzionale introduce le classi di censo. Tutti i cittadini ateniesi sono infatti
suddivisi in quattro classi, definite sulla base del reddito agricolo:
• 500 medimni di cereali pentacosiomedimni
• 300 medimni di cereali cavalieri
• 200 medimni di cereali zeugiti
• al di sotto teti
Il potere politico rimane prerogativa dei più ricchi. Le magistrature principali, infatti, sono
riservate alle prime due classi (l’arcontato) o solo alla prima (il collegio dei tesorieri di Atena),
mentre gli zeugiti possono ricoprire solo magistrature minori. Ai teti, cui è preclusa ogni
carica politica, è riconosciuto il diritto di intervenire in assemblea e di far parte di un nuovo
organismo, il tribunale popolare (eliea), cui ogni cittadino può ricorrere avverso le sentenze
dei magistrati. All’Areopago viene affiancato un nuovo consiglio, la boulé, formata da 400
membri, cento per ogni tribù, che prepara i lavori dell’assemblea.
Le leggi di Solone, pubblicate su tavole rotanti di legno (axones), riguardano vari campi, dal
diritto di famiglia alle leggi contro il lusso. Solone si preoccupa anche di favorire lo sviluppo
dell’artigianato, per dare un lavoro ai cittadini privi di terra. Incentiva l’olivicoltura e attua una
riforma monetaria.
Al termine del suo mandato Solone depone il potere e viaggia per dieci anni. La sua opera
non dà i frutti sperati, dato il malcontento che lascia e la ripresa delle ostilità tra le famiglie
aristocratiche, ma, con il rafforzamento della dimensione comunitaria e i limitati diritti
concessi ai non abbienti, segna una tappa fondamentale nell’evoluzione politica di Atene.

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III. Il periodo successivo al governo di Solone è molto travagliato per Atene, nella quale
si fronteggiano tre raggruppamenti costituitisi su base territoriale: gli abitanti della
pianura (pedieis), capeggiati da Licurgo, quelli della costa (paralioi), guidati da
Megacle, e quelli della zona montuosa (diakroi), con a capo Pisistrato. Ed è proprio
quest’ultimo a prevalere. Dopo una prima volta nel 561 e una seconda qualche tempo
dopo, entrambe finite con Pisistrato cacciato dalla città, nel 546 si impadronisce del
potere e lo terrà fino alla sua morte, nel 527.
Pisistrato assicura alla polis un periodo di pace e stabilità, stabilendo buoni rapporti sia con
l’aristocrazia che con le classi meno abbienti. Dà inoltre impulso alle attività economiche,
promuovendo lo sviluppo del settore artigianale (la ceramica attica a figure nere in questo
periodo soppianta quella corinzia in tutti i mercati del Mediterraneo e del Mar Nero). Conia
le caratteristiche dracme ateniesi, crea una fiscalità pubblica con l’istituzione di una decima
sui raccolti, realizza vari edifici monumentali.
Altrettanto importante è il suo operato in politica estera. Intrattiene fitti rapporti sia con le
principali città della madrepatria sia con le comunità dell’Egeo centrale, e soprattutto riesce
a fare propria la regione dell’Ellesponto. È infatti durante il suo governo che sia la sponda
europea che quella asiatica vedono l’insediamento di colonie ateniesi, fornendo così alla
città preziose basi d’appoggio per il commercio con la zona del Mar Nero, importantissima
per l’approvvigionamento cerealicolo.
Il tiranno è poi molto attivo in ambito culturale, accogliendo alla sua corte famosi poeti del
tempo, e religioso, valorizzando i culti cittadini a scapito di quelli locali e ottenendo in questo
modo sia la legittimazione del suo dominio che l’affermazione dell’unità della polis. Forte
impulso avranno i culti di Atena e di Dioniso, le cui rispettive festività saranno d’ora in poi
caratteristiche della vita ateniese.
Con la sua azione, Pisistrato ha favorito la crescita della popolazione cittadina, meno
vincolata a legami clientelari, ne ha aumentato la prosperità e ha contribuito a rafforzare la
centralità della polis, intaccando la tradizionale dipendenza dei ceti meno abbienti dalle
famiglie aristocratiche. Si innesca così un processo di maturazione politica i cui esiti saranno
evidenti alla caduta della tirannide.
IV. A Pisistrato succedono i due figli Ippia e Ipparco, i quali proseguono la politica
paterna fino a quando, nel 514, due giovani aristocratici, Armodio e Aristogitone,
uccidono Ipparco (per motivi personali e non politici). Vengono entrambi messi a
morte, ma in seguito saranno celebrati come eroi della libertà. Infatti, da questo
momento, la tirannide si fa più dura e vari esponenti aristocratici, tra cui gli
Alcmeonidi, sono costretti a lasciare la città.
Ma la potente famiglia non rinuncia a rovesciare Ippia e, sfruttando i rapporti che li legano
al santuario di Delfi, inducono lo Stato più potente dell’anfizionia, Sparta, a liberare Atene
dalla tirannide. Avviene così che, nel 511, gli Spartani pongono sotto assedio l’Acropoli, e
quando i figli di Ippia vengono catturati, il tiranno si rassegna alla resa.
Ma la fine della tirannide non porta ancora pace per Atene. Un’aspra lotta si accende tra
due fazioni nobiliari, una con a capo Clistene e un’altra guidata da Isagora. Quest’ultimo
sconfigge Clistene e nel 508 ottiene l’arcontato. Ma l’avversario opera una scelta
rivoluzionaria: si allea col demos, la parte di popolazione che finora è sempre rimasta
esclusa dalla gestione del governo. Con l’aiuto del demos, Clistene fa approvare una riforma

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che ridimensiona fortemente il potere delle famiglie aristocratiche (evento che si può
considerare l’embrioneda cui si svilupperà la democrazia greca).
Questa volta è Isagora a chiedere aiuto agli Spartani e, quando sembra che per gli
Alcmeonidi la partita sia chiusa e Clistene e i suoi sostenitori sono obbligati a lasciare la
città, avviene un fatto nuovo: la rivolta in armi del demos, determinato a difendere le
conquiste ottenute. Dopo aver assediato sull’Acropoli Isagora e gli Spartani, questi vengono
costretti a negoziare la resa, consentendo così a Clistene di rientrare in patria e proseguire
con l’opera riformatrice.
V. L’opera riformatrice di Clistene è importantissima per la storia greca, sebbene sia
stato tramandato poco sia dell’autore che della sua riforma. Ma gli aspetti
fondamentali si possono considerare sufficientemente chiari: Clistene introduce una
nuova organizzazione territoriale e amministrativa dell’Attica, allo scopo di assicurare
uguali diritti di partecipazione a tutti i cittadini (isonomia).
Alla base c’è una nuova articolazione in dieci tribù, in luogo delle tradizionali quattro. Il
sistema di costituzione delle tribù è complesso: l’Attica viene suddivisa in tre grandi aree più
o meno equivalenti per popolazione, il centro urbano (asty), la fascia costiera (paralìa) e
l’interno (mesogaia). Ciascuna di queste viene a sua volta ripartita in dieci circoscrizioni, le
cosiddette trittie, le quali vengono assegnate in gruppi di tre alle dieci tribù, in maniera tale
che ogni tribù sia formata da una trittia cittadina, una costiera e una dell’interno. Il motivo di
questo risiede probabilmente nell’obiettivo di ridurre il peso delle casate aristocratiche, molto
potenti a livello locale.
Altro elemento fondamentale dell’organizzazione sono i 140 demi, esistenti già prima della
riforma, che sono i distretti più piccoli delle trittie. Da questo momento in poi, l’iscrizione a
un demo è condizione necessaria per l’inserimento nella comunità civica. I demi hanno una
propria assemblea, che amministra gli affari locali e decide sull’ammissione di nuovi membri,
e un proprio magistrato, il demarco.
L’aspetto politicamente più significativo della riforma clistenica è senz’altro la creazione della
boulé dei Cinquecento. Questo organismo, che sostituisce quello soloniano dei
Quattrocento, è formato da 50 membri per ognuna delle tribù e ha il compito di gestire gli
affari correnti e preparare e guidare i lavori dell’assemblea. Ogni anno, ciascuna delle dieci
tribù detiene la presidenza per un periodo di circa 36 giorni (pritania), durante il quale i suoi
rappresentanti (pritani) sorteggiano ogni giorno un presidente (epistates) che per 24 ore
rappresenta la massima autorità politica dello Stato. Di questo organismo si può fare parte
non più di due volte nella vita, dando modo così ad un numero considerevole di cittadini di
partecipare attivamente al governo della polis. Tutto ciò ha come conseguenza una più
frequente e regolare periodicità delle riunioni dell’assemblea, che da questo momento si
tengono in una sede specifica, la Pnice, una bassa collina a ovest dell’Acropoli.
Una ulteriore innovazione attribuita a Clistene è la procedura dell’ostracismo. Ogni anno
gli Ateniesi si riuniscono nell’agorà per una votazione particolare, per la quale è richiesto un
quorum di almeno 6000 votanti: ciascuno scrive su un coccio di vaso (ostrakon) il nome di
un personaggio che ritiene opportuno allontanare dalla città. Colui che riceve più voti deve
lasciare l’Attica per dieci anni, al termine dei quali potrà riprendere il suo posto nella
comunità. Dalla sua prima applicazione, nel 488, l’ostracismo sarà utilizzato come strumento

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di lotta politica, di cui i leader ateniesi si serviranno per mettere temporaneamente fuori
gioco i loro antagonisti.
Nessun cambiamento è apportato, comunque, ai poteri del consiglio dell’Areopago, e
l’accesso alle magistrature principali sarà sempre riservato, su base censitaria, ai più
abbienti. Tuttavia, non c’è dubbio che la riforma rappresenti una svolta decisiva nella storia
di Atene (e non solo) e si può a buon diritto considerare come l’atto di nascita di una, sia pur
incompleta, democrazia.
VI. La fase immediatamente successiva alla riforma di Clistene è piuttosto movimentata
per Atene: gli Spartani vorrebbero riportare al potere Isagora, assorbendo così la città
nella loro sfera di influenza. E proprio il timore di un attacco spartano induce Atene a
cercare l’alleanza dell’impero persiano. Nel 508 una delegazione ateniese è inviata
a Sardi, in Asia Minore proprio con questo scopo. L’episodio segna l’inizio della lunga
e alterna vicenda dei rapporti tra Atene e l’impero asiatico.
Nel 506 Atene è attaccata da Beoti e Calcidesi, e contemporaneamente un esercito della
lega peloponnesiaca, al comando degli Spartani, penetra nel suo territorio. Ma le divisioni
interne alla lega fanno sì che Sparta debba rinunciare alla spedizione. Gli Ateniesi possono
così sconfiggere Beoti e Calcidesi, i quali ultimi vedranno le conseguenze più pesanti della
sconfitta. A loro, infatti, Atene sottrae una porzione di territorio per insediarvi un nuovo tipo
di stanziamento coloniale con finalità di controllo militare, la cleruchia, che, a differenza
delle tradizionali colonie, non ha lo statuto di comunità anonima, facendo parte integrante
dello Stato ateniese.
Con questa vittoria si rafforza il nuovo ordinamento politico (che viene ulteriormente
perfezionato: risale a questi anni, infatti, l’istituzione del collegio dei dieci strateghi, cui
spetta il comando militare) e si accresce il prestigio della polis.

Greci e Persiani
I. L’impero persiano prende forma alla metà del VI secolo con Ciro il Grande. Sotto la
sua guida i Persiani, una popolazione dell’Iran sud-occidentale, conquistano in poco
più di un decennio la Media, la Lidia e Babilonia, formando così un impero gigantesco
che va dal Mediterraneo all’Asia centrale. Dopo la morte di Ciro il figlio Cambise lo
amplia ulteriormente, annettendo l’Egitto. Sarà col terzo sovrano, Dario I, fondatore
della dinastia degli Achemenidi, che l’impero raggiunge la sua massima espansione,
con l’incorporazione della Cirenaica ad Occidente, alcuni territori indiani ad Oriente
e una propaggine europea, la costa meridionale della Tracia.
Con Dario, inoltre, il territorio assume il definitivo assetto organizzativo, caratterizzato
dall’equilibrio tra il rigido dominio esercitato sui popoli sottomessi ed il rispetto per le
autonomie locali. I Persiani, infatti, non distruggono le città conquistate e coinvolgono le
élites locali nel governo delle comunità. Tuttavia, gli obblighi imposti sono onerosi: fornitura
di manodopera per la realizzazione di opere pubbliche, contingenti per le campagne militari
e soprattutto un tributo rigidamente regolamentato, il cui gettito è garantito dai governatori,
scelti tra la nobiltà persiana, posti a capo delle venti circoscrizioni in cui è suddiviso l’impero,
le satrapie, grandi province multietniche. Il rapporto col potere centrale è molto stretto,
favorito anche dalla realizzazione di grandi arterie di comunicazione e dalla presenza di un

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corpo di ispettori itineranti per tenere sotto controllo l’operato dei satrapi. Ma è il sovrano,
che i Greci chiamano “il Gran Re”, l’elemento unificatore dell’immenso impero. Egli dispone
di un potere assoluto, legittimato dal favore accordatogli dalla divinità persiana Ahura
Mazda.
Ma proprio le dimensioni saranno la principale difficoltà alla coesione dell’impero. Le spinte
autonomistiche saranno un costante elemento di instabilità, che condizionerà e indebolirà
la potenza achemenide.
II. I Greci d’Asia, ben prima dell’avvento dei Persiani, erano già soggetti al regno di
Lidia, che pose sotto il suo controllo le poleis della costa con Creso, ultimo esponente
della dinastia mermnade. Ma i rapporti con la potenza lidia non si possono
considerare completamente negativi, le città, infatti, conservano la loro autonomia e
tra i due popoli si instaurano stretti rapporti. Per questo motivo i Greci d’Asia non
raccoglieranno l’invito di Ciro a ribellarsi al dominio lidio.
Tuttavia, dopo la sconfitta di Creso ad opera dei Persiani nel 547/546, le poleis devono fare
i conti col vincitore, che nega loro le stesse condizioni in cui vivevano sotto i Lidi e si vedono
quindi costrette a tentare di organizzare una resistenza. Tentativo che non porterà frutti,
data l’incapacità delle città a fare fronte comune, così come falliscono gli appelli a Sparta e
le riunioni della lega ionica. Nel giro di qualche anno, quindi, tutte le città micrasiatiche e le
isole della costa, ad eccezione di Samo, vengono sottomesse. Gli abitanti di Focea e di Teo,
invece, abbandonano le loro città e si recano i primi in Occidente, dove daranno vita alla
colonia di Elea, e i secondi in Tracia, dove fonderanno la polis di Abdera.
Le conseguenze della conquista persiana si fanno sentire pesantemente con il regno di
Dario: anche le città greche vengono coinvolte nella riorganizzazione territoriale e sono
costrette a versare un tributo regolare, al posto di quello occasionale che versavano prima.
Ma soprattutto, con Dario, si assiste ad un forte impulso alla tirannide. Egli infatti favorisce
o impone l’avvento al potere di notabili filopersiani, che quindi gli saranno legati da un debito
di riconoscenza e lo aiuteranno ad esercitare uno stretto controllo sulle comunità.
A tutto questo si devono aggiungere i disagi derivanti dalla chiusura di tradizionali mercati
in seguito alle conquiste persiane in Egitto, e la perdita del più importante partner
commerciale, il regno di Lidia. E sarà per questi motivi che le poleis si rivolteranno, evento
destinato ad avere importanza fondamentale nei rapporti tra Greci e Persiani.
III. Nel 499 inizia la cosiddetta rivolta ionica. Secondo Erodoto, una parte decisiva nella
sua genesi la ebbe il tiranno di Mileto Aristagora: egli, dopo aver deposto la tirannide,
promuove una rivolta perché temeva ripercussioni da parte del Gran Re dopo una
sua fallimentare spedizione contro Nasso. Sta di fatto che altre poleis, non solo della
Ionia ma anche di altre zone costiere dell’Asia minore, raccolgono l’impulso,
depongono i tiranni e iniziano una vasta insurrezione antipersiana.
Data la sproporzione fra le forze in campo, Aristagora si reca in Grecia per sollecitare
l’intervento della madrepatria. Al suo appello rispondono solo Atene ed Eretria, che inviano
venticinque navi. Nel 498 inizia così l’offensiva dei rivoltosi, che intendono prendere Sardi,
sede della satrapia, ma vengono sonoramente sconfitti. In seguito all’esito rovinoso della
spedizione, Atene ritira le sue navi e due anni dopo cercherà di inviare segnali distensivi ai
Persiani.

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Ma al ritiro di Atene segue un allargamento della rivolta, cui aderiscono anche le poleis
dell’Ellesponto, della Caria, di Cipro. Ma la controffensiva persiana risulta efficace, e molte
città vengono riconquistate.
Tuttavia, queste vittorie non sono risolutive, e la svolta avviene nel 494, quando le truppe
imperiali decidono di andare al cuore della rivolta, ossia Mileto. Gli Ioni decidono di lasciare
ai Milesi la difesa della città dall’assalto di terra e concentrare le loro forze sul mare, dove
schierano una grossa flotta presso l’isola di Lade, di fronte a Mileto. Nell’autunno del 494 si
svolge una battaglia navale il cui esito è deciso soprattutto dalla mancata coesione dello
schieramento greco: gran parte dei contingenti alleati abbandonano il campo senza
nemmeno combattere, e il resto della flotta viene annientato dai Persiani. le conseguenze
per Mileto sono disastrose: la città viene distrutta e la popolazione scampata al massacro
viene deportata o ridotta in schiavitù. Anche altre città vengono riconquistate e distrutte,
mettendo così fine all’insurrezione dei Greci d’Asia.
Dopo la dura repressione, però, i vincitori si mostrano più moderati e adottano una serie di
misure atte a lenire il malcontento causa della rivolta: vengono istituite procedure arbitrali
per la soluzione delle contese cittadine e si provvede, attraverso una sistematica
misurazione catastale, ad una più equa definizione degli obblighi tributari.

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IL V SECOLO

Le guerre greco-persiane
I. Subito dopo la rivolta ionica, Dario decide di concentrarsi sulla Grecia, non per
conquistarla, quanto piuttosto per isolare le città micrasiatiche dalla madrepatria e,
soprattutto, per punire Atene ed Eretria del loro intervento in Asia, visto come
un’indebita ingerenza negli affari interni dell’impero.
Una prima iniziativa persiana si registra nel 492, con una spedizione nella satrapia di Tracia
per ristabilire l’autorità del Gran Re. Nel 491 iniziano invece i preparativi per la spedizione
contro Atene ed Eretria, mentre Dario invia ambasciatori presso le poleis greche chiedendo
terra e acqua, cioè il riconoscimento formale della sua autorità. Tutte le città insulari e molte
di quelle continentali si piegano.
Molto diversa è la risposta di Atene: Milziade, nipote di Milziade il Vecchio, riesce a prevalere
sulle posizioni filopersiane e gli Ateniesi uccidono gli inviati di Dario. Ciò comporta una
ripresa delle ostilità tra Atene e l’isola di Egina, tradizionale rivale, che aveva risposto
positivamente all’invito di Dario. Nei primi mesi del 490, secondo Erodoto, la flotta ateniese
viene pesantemente sconfitta.
Nella primavera dello stesso anno una grande flotta persiana, su cui si imbarca anche il
vecchio tiranno Ippia, salpa dalla Cilicia alla conquista delle Cicladi. Ottenuto questo
obiettivo, il generale Dati, comandante la spedizione, punta dapprima su Eretria, che viene
presa e duramente punita con l’incendio dei templi e la deportazione di una parte dei suoi
abitanti.
Ora i Persiani puntano sull’obiettivo più importante, Atene, e, su consiglio di Ippia, sbarcano
in una località dell’Attica nordorientale, la piana di Maratona. Ad Atene si decide di andare
incontro ai nemici e allo stesso tempo di chiedere aiuto a Sparta. Ma gli Spartani sono
obbligati dalla legge ad aspettare il plenilunio, circa dieci giorni, alla fine della celebrazione
delle Carnee. Allora un esercito di 10000 opliti raggiunge Maratona e fronteggia un nemico
con un numero almeno doppio di forze.
Tuttavia, l’abilità strategica di Milziade e il superiore armamento oplitico fanno sì che i Greci
riescano a sconfiggere i Persiani, che devono ritirarsi precipitosamente. Quando arrivano
gli Spartani la battaglia è già conclusa.
La flotta persiana si dirige verso il porto del Falero, per attaccare Atene mentre l’esercito è
lontano, ma Milziade riesce anche in questo caso a sventare il piano del generale Dati, cui
non resta che far ritorno in Asia
La vittoria di Maratona è per Atene motivo di grande prestigio, e i suoi protagonisti per lungo
tempo verranno considerati il modello ideale di soldato, mentre per i Persiani la
considereranno non più che un incidente, in una spedizione altrimenti riuscita, e anzi
rafforzerà i propositi di vendetta verso la polis greca,
II. Il periodo successivo alla vittoria di Maratona, per Atene, è molto turbolento dal punto
di vista politico. Continuano, infatti, le lotte per il potere tra le fazioni nobiliari. Ne farà

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le spese anche l’eroe di Maratona, Milziade: dopo il fallimento di una sua spedizione
per la conquista dell’isola di Paro, viene condannato per tradimento ad una pesante
multa e morirà in seguito ad una ferita riportata proprio durante l’assedio dell’isola.
Scomparso Milziade, un nuovo avversario degli Alcmeonidi conquista il favore del demos,
Temistocle, della famiglia dei Licomidi. In questa fase si ricorre per la prima volta, e
ripetutamente, alla pratica dell’ostracismo.
All’ascesa al potere di Temistocle sono collegate due importanti iniziative: in primo luogo
nel 487 viene modificato il sistema di designazione degli arconti. Dall’elezione si passa ad
un sorteggio fra 100 candidati, designati dalle 10 tribù. Gli effetti di tale riforma sono notevoli,
in quanto viene fortemente intaccato il prestigio dell’arcontato (e dell’Areopago) a vantaggio
della carica elettiva della strategia, che diventa di fatto la più importante magistratura
ateniese.
Ancora più rilevante è la seconda novità: la scoperta di nuovi filoni argentiferi nel Laurio
(Attica sudorientale) introduce un nuovo motivo di scontro. Diversamente da quanti,
secondo una prassi consueta, vorrebbero distribuire tra i componenti la comunità i ricavi,
Temistocle propone di destinarli alla realizzazione di una grande flotta di 200 triremi. La sua
proposta viene approvata dal demos.
L’importanza del provvedimento non è data solo dal fatto che Atene diventa la più grande
potenza navale del mondo greco, ma anche dalle ripercussioni che si hanno in campo
politico-sociale: una flotta di 200 triremi necessita di almeno 40000 uomini di equipaggio; si
rende quindi necessario il ricorso a rematori della quarta classe censitaria, i teti, che
vengono in questo modo coinvolti nell’attività militare. E questo crea i presupposti per
l’evoluzione della democrazia ateniese.
III. La minaccia persiana non fu debellata con la sconfitta di Maratona, ma Dario non
può realizzare i suoi propositi di rivincita perché nel 486, anno della sua morte,
scoppiano rivolte in Babilonia ed Egitto. Suo figlio Serse, succedutogli, deve quindi
prima occuparsi di ristabilire l’ordine interno.
È solo nel 483 che Serse può cominciare ad occuparsi della spedizione in Grecia,
spedizione gigantesca, che coinvolge quasi 200000 uomini e circa 700 navi. Egli, infatti,
vuole conquistare l’intera Grecia, trasformandola in satrapia. Anche Serse, comunque, invia
prima degli araldi nelle comunità greche con la tradizionale richiesta di acqua e terra.
La reazione ai preparativi persiani viene dalle due più potenti poleis. Atene e Sparta. Per
iniziativa di queste città, nel 481 i rappresentanti di un gruppo di Stati greci si riuniscono
presso l’istmo di Corinto dando origine ad una symmachìa antipersiana, convenzionalmente
indicata come “lega ellenica”, i cui membri si impegnano a porre fine alle ostilità reciproche,
a richiamare gli esuli politici e a punire severamente i Greci che, senza esserne costretti, si
fossero schierati dalla parte dei Persiani. A Sparta viene affidato il comando delle forze
terrestri e navali.
La lega comprende pochi Stati (circa trenta), anche perché a vari Greci la sottomissione ai
Persiani non appariva più minacciosa della subordinazione ad una potenza greca. Argivi,
Cretesi e Corciresi, infatti, non aderiscono con motivazioni diverse: i primi volevano
condividere il comando con gli Spartani, i Cretesi rispondono che un oracolo delfico ha
raccomandato loro la neutralità e i Corciresi ritardano apposta l’invio del contingente

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promesso, convinti come sono che in ogni caso i Persiani non possano essere sconfitti.
Anche Gelone di Siracusa, potente tiranno d’Occidente, non aderisce, in quanto la sua
pretesa di avere il comando militare viene respinta. Apertamente filopersiani, poi, sono i
Tessali.
Il conflitto che si prepara, quindi, lungi dall’essere un’occasione di unità nazionale, non fa
altro che confermareil ruolo prevalente dei particolarismi e delle rivalità reciproche fra le città
greche.
IV. Nella primavera del 480, al comando dello stesso Serse,la gigantesca macchina da
guerra persiana muove verso la Grecia. Dopo aver attraversato la Tracia, l’esercito
si ricongiunge con la flotta in Macedonia. Gli alleati decidono di appostarsi al varco
delle Termopili, alle porte della Grecia centrale, a difendere il quale viene inviato un
contingente di circa 7000 uomini al comando del re spartano Leonida, mentre la flotta
si attesta presso il capo Artemisio.
Le iniziali vittorie in battaglie navali, però, vengono vanificate dall’esito dei combattimenti
sulla terraferma. Alle Termopili non basta il coraggio di Leonida e di 300 Spartiati a fermare
l’avanzata persiana. Inevitabile è quindi il ripiegamento della flotta, che riesce a mettersi al
sicuro nel golfo Saronico.
Poiché gli Spartani e gli altri Peloponnesiaci si concentrano nella difesa dell’Istmo di Corinto,
nulla impedisce l’invasione della Grecia centrale. Così Locresi, Dori e Beoti (tranne Platea
e Tespie) si affrettano a schierarsi dalla parte dei Persiani, mentre le due città beote e la
Focide vengono devastate.
Anche Atene, ovviamente, è in pericolo. Fondamentale è perciò, in questa occasione, il ruolo
svolto da Temistocle, che, nell’agosto 480, riesce a far approvare un decreto che dispone
l’evacuazione dell’intera regione. Donne, bambini e anziani vengono trasferiti al sicuro e gli
uomini che possono combattere si imbarcano sulle navi da guerra. In questo modo gli
Ateniesi (tranne un piccolo gruppo asserragliato sull’Acropoli) si sottraggono alle
devastazioni persiane.
Ancora più significativo è il ruolo di Temistocle nella fase immediatamente successiva. Egli
infatti individua la strategia vincente contro i Persiani: contro il parere del comandante
spartano Euribiade, che vorrebbe concentrare la flotta presso l’Istmo di Corinto, fa accettare
l’idea di cercare lo scontro nello stretto fra la costa dell’Attica e l’isola di Salamina. Qui, nel
settembre 480,nonostante la disparità di forze in campo, i Greci infliggono una pesante
sconfitta alla flotta persiana. Ma forse è più giusto dire grazie alla disparità di forze: infatti,
l’angusto spazio di mare scelto per la battaglia penalizza la flotta più numerosa, non
consentendo adeguate possibilità di manovra. Le navi sono quindi a stretto contatto, e
questo fa sì che la superiore efficienza militare degli opliti greci prevalga. Il successo della
lega è poi accentuato dal fatto che Serse, preoccupato dall’approssimarsi della stagione
invernale e dal timore di possibili rivolte micrasiatiche, decide di tornare in Asia con la flotta
e parte dell’esercito, lasciando in Tessaglia le rimanenti milizie.
La vittoria di Salamina è estremamente importante, in quanto, in caso di vittoria persiana,
sarebbe stato quasi impossibile difendere il Peloponneso da un attacco congiunto da
esercito e flotta. Tuttavia, non è una vittoria decisiva, dal momento che il principale punto di
forza dei Persiani, l’esercito, non è stato intaccato, così come rimane immutato il proposito
di Serse di sottomettere la Grecia.

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V. Nella fase successiva alla vittoria di Salamina permangono però diversità di vedute
tra Ateniesi e Peloponnesiaci, che privilegiano la difesa dell’Istmo. Si inserisce, a
questo punto, l’iniziativa del generale persiano Mardonio, che, attraverso il sovrano
di Macedonia Alessandro I (alleato dei Persiani ma in buoni rapporti con Atene) fa
giungere una proposta di alleanza alla polis, in cambio del riconoscimento della sua
autonomia. Atene respinge tale proposta e sollecita con più forza gli Spartani ad una
difesa comune.
Ma Sparta non risponde e, quando nel 479 i Persiani tornano in Grecia centrale, si ripete il
copione dell’anno precedente: evacuazione della regione e seconda devastazione del
territorio.
A questo punto Sparta si decide ad intervenire, temendo che gli Ateniesi esasperati
finiscano con l’accettare le offerte di Mardonio, e l’esercito peloponnesiaco si unisce ad
Eleusi a quello ateniese, mentre i Persiani si trasferiscono in Beozia, presso i fedeli alleati
tebani. Nei pressi di Platea si realizza così una delle più grosse concentrazioni di truppe
della storia greca: a 40000 opliti si oppongono tra 40000 e 50000 Persiani.
Lo scontro ha luogo tra agosto e settembre 479 e, nonostante i consueti particolarismi dei
componenti la lega ellenica e i problemi di coordinamento che ne conseguono, gli opliti si
rivelano superiori per capacità militare ed armamento. Sono gli Spartani a decidere le sorti
della battaglia: attaccati dai Persiani durante una manovra di ripiegamento, riescono non
solo a respingerli, ma anche a contrattaccare, e la morte sul campo di Mardonio decreta il
travolgimento delle truppe nemiche. Con questa vittoria lo scontro coi Persiani si può
considerare chiuso. I superstiti, infatti, si ritirano verso l’Ellesponto e gli alleati della lega
possono anche “regolare i conti” con Tebe, costretta a consegnare i capi della fazione
filopersiana e a subire lo scioglimento della lega beotica.
Nel frattempo, anche le forze navali della lega ellenica sono attive. Rispondendo ad una
richiesta di aiuto da parte di Samo, che promette una rivolta delle poleis ioniche, i Greci
salpano verso l’Asia, fino a raggiungere la costaantistante Samo. I Persiani si attestano sul
promontorio di Micale, dopo aver tirato in secco le navi, quindi ha luogo uno scontro terrestre
che vede vittoriose le truppe della lega. L’esito della battaglia è ancora una volta di notevole
rilievo: la flotta persiana viene distrutta, assicurando così ai Greci il controllo dell’Egeo, e le
città micrasiatiche ne approfittano per ribellarsi un’altra volta agli Achemenidi, inducendo
glialleati ad affrontare il problema della difesa dei Greci d’Asia. Sparta vorrebbe trasferire i
connazionali in Grecia, ma Atene si oppone e ottiene che alcune città insulari siano accolte
nella lega ellenica.
Nel prosieguo delle operazioni, che si spostano nell’area dell’Ellesponto, emergono una
volta di più i divergenti interessi degli alleati. Mentre gli Ateniesi hanno interesse a
controllare la zona (strategicamente importante per le rotte commerciali), Sparta e tutti gli
altri Peloponnesiaci ritiranoi loro contingenti. Succede quindi che, quando Atene riesce a
conquistare la piazzaforte persiana di Sesto, si stabilisce un sempre più stretto rapporto tra
la polis attica e le città insulari e micrasiatiche, che presto porterà alla nascita di una nuova
symmachìa antipersiana.
Le conseguenze della vittoria dei Greci sui Persiani sono rilevanti soprattutto sul piano
ideologico e culturale: la propaganda greca la celebra come il trionfo della civiltà sulla

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barbarie e della libertà sul dispotismo, favorendo in tal modo la nascita di una nuova
ideologia dell’identità nazionale.
VI. In Occidente, a differenza della madrepatria, nei primi decenni del V secolo sono
ancora i regimi tirannici ad avere una parte di rilievo. In Magna Grecia si segnala in
particolare Reggio, il cui tiranno Anassilao riesce a conquistare Zancle, insediandovi
un gruppo di coloni messenici (motivo per cui ribattezza la città Messana) e
assicurandosi il controllo dello Stretto.
Maggior peso internazionale ha però la tirannide di Gela, con l’ascesa al potere, nel 491, di
Gelone, esponente dei Dinomenidi. Egli riesce a conquistare Siracusa, approfittando della
richiesta di aiuto dei grandi proprietari terrieri, i gamoroi, che una rivolta del demos ha
costretto ad abbandonare la città. Così Gelone, nel 485, si impadronisce di Siracusa e,
invece di ripristinare il precedente regime oligarchico, si fa nominare stratego con pieni
poteri. Non solo: affidata Gela al fratello Ierone, stabilisce proprio a Siracusa la base della
sua signoria. Ed è con Gelone che la città diventa una grande potenza. Egli infatti costituisce
un grosso apparato militare e amplia notevolmente la popolazione cittadina con l’immissione
di nuovi abitanti da Gela, Camarina, Eubea e Megara Iblea.
Ma il suo successo più notevole lo ottiene nel 480, in una guerra contro i Cartaginesi. Tutto
nasce da un’iniziativa del tiranno di Agrigento Terone, alleato di Gelone,che nel 483 si
impadronisce di Imera, costringendo alla fuga il tiranno Terillo. Questi, valendosi dei buoni
rapporti, non esita a chiedere aiuto ai Cartaginesi, i quali, preoccupati dall’espansionismo
agrigentino nei territori della Sicilia occidentale che controllano, inviano nell’isola un grosso
esercito che mette Imera sotto assedio. È qui che, nel 480, avviene lo scontro con la
coalizione agrigentino-siracusana e i Cartaginesi subiscono una durissima sconfitta,
sebbene sia poi mite il trattamento che Gelone riserva loro.
La vittoria di Imera risulta molto importante per il prestigio del tiranno siracusano: la
propaganda dinomenide la glorifica come una vittoria della Grecità sui barbari e la accosta
alle vittorie che nello stesso periodo consegue la lega ellenica sui Persiani.

L’egemonia ateniese

I. Il periodo che va dalla fine delle guerre persiane allo scoppio di quella del
Peloponneso (pentecontetia, cioè circa 50 anni) vede l’avvento di Atene come
potenza egemone. I motivi si devono trovare nel crescente disimpegno di Sparta alla
guida della lega ellenica e nel malcontento per il comportamento autoritario del
comandante spartano Pausania. Ciò fa sì che nel 478/477 si formi una nuova
symmachìa egemoniale con un numero molto più ampio di componenti rispetto alla
lega ellenica (circa 200 nel periodo di massima espansione) e un centro “federale”,
sede delle assemblee e della cassa comune, sito presso il santuario di Apollo a Delo,
da cui il nome di lega delio-attica. L’alleanza, cui aderiscono gran parte delle città
dell’Asia Minore e dell’Ellesponto, le poleis insulari, quelle della Tracia e quelle di
Calcidica ed Eubea, è stipulata con un giuramento col quale i partners si impegnano
ad avere gli stessi amici e gli stessi nemici.

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La finalità della lega è quella di difendere le città alleate dalla sempre incombente minaccia
persiana attraverso la costituzione di una flotta da guerra in attività permanente. Da ciò
deriva una nuova istituzione, l’obbligo, cioè, per le poleis che non possono fornire navi da
guerra di versare un tributo (phoros) fissato dall’ateniese Aristide sulla base delle risorse di
ciascuna città e destinato ad una cassa comune gestita da magistrati ateniesi, gli ellenotami
(“tesorieri dei Greci”). È probabile che il numero delle città tributarie sia cresciuto nel tempo,
per la riluttanza di molte ad impegnarsi in campagne militari, col risultato che Atene utilizza
i phoroi per ampliare la propria flotta, rafforzando così la propria egemonia.
II. Uno dei principali artefici della vittoria sui Persiani, Temistocle, dopo il conflitto
propugna un obiettivo diverso. Secondo lui, occorre concentrare tutti gli sforzi per
contendere a Sparta l’egemonia sui Greci, e per far questo non esita a proporre il
raggiungimento di un’intesa coi Persiani, ritenuti ormai inoffensivi.
Ma Temistocle si ritrova isolato all’interno del gruppo dirigente ateniese, che invece
preferisce l’intesa con Sparta e ritiene ancora pericolosi i Persiani. Si trova pure a dover
lasciare Atene in seguito ad ostracismo. Ma anche nel suo esilio di Argo, egli continua a
cercare di fomentare un movimento antispartano, tanto che Sparta si accanisce contro di
lui, braccandolo e costringendolo a fuggire da Argo in seguito ad una condanna a morte in
contumacia per tradimento. Temistocle, dopo una sosta a Corcira, arriva in Macedonia, da
dove salpa per l’Asia Minore. Qui viene accolto benevolmente dal re persiano, tanto che
diventa suo consigliere e gli vengono assegnate alcune città.
Ad Atene, una volta eliminato Temistocle, diventa una figura dominante sulla scena politica
il figlio di Milziade, Cimone. Egli è un esponente di uno schieramento nobiliare conservatore,
ed è amico e ammiratore di Sparta, con cui ritiene che Atene debba condividere l’egemonia.
Cimone è inoltre il protagonista di un’intensa attività militare nel periodo immediatamente
successivo alla fondazione della nuova symmachìa. Il suo obiettivo è lo smantellamento
delle residue postazioni persiane in Europa, così, tra il 476 ed il 470, si impegna in diverse
spedizioni che risultano vittoriose.
Il successo più significativo è quello che Cimone consegue contro i Persiani: nel 470,
arrivato con la flotta della lega in Asia Minore, li affronta in una duplice battaglia, sia terrestre
che navale, presso la foce del fiume Eurimedonte, in Panfilia. Il trionfo di Cimone
rappresenta un colpo durissimo per i Persiani e ottiene il rafforzamento del prestigio di Atene
e della sua symmachìa.
Symmachìa che si trova ad affrontare una crisi in seguito alla defezione da essa dell’isola
di Taso nel 465. Tale defezione è dovuta alle mire ateniesi sull’importante area mineraria
del Pangeo, in Tracia occidentale, dal cui sfruttamento l’isola ricava cospicui introiti. La
risposta di Atene non si fa attendere, e mostra chiaramente lo spirito prevaricatorio della
polis. I Tasi vengono sconfitti in una battaglia navale e costretti ad arrendersi, dopo un lungo
assedio, nel 463/462 e si vedono imporre condizioni particolarmente dure: distruzione delle
mura cittadine, consegna della flotta, versamento di una pesante indennità e rinunzia ai
possedimenti sulla terraferma, che vengono acquisiti da Atene.
Ma in questa occasione emerge per la prima volta un’opposizione interna alla leadership
cimoniana. Il vincitore dell’Eurimedonte viene citato in giudizio con l’accusa di essersi fatto
corrompere dal re di Macedonia per impedire che le mire ateniesi si estendessero a questa
regione. L’accusa è sostenuta da Pericle, figlio di Santippo, il vincitore di Micale,

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personaggio che sarà destinato ad avere un ruolo di primo piano nella storia ateniese. Il
processo, svoltosi davanti all’Areopago, espressione dei gruppi conservatori, si conclude
con l’ovvia assoluzione di Cimone, ma il suo declino politico è solo rinviato.
III. Una vicenda che avrà conseguenze rilevanti nella politica ateniese comincia a Sparta
dove, nel 464/463, ci si trova a fronteggiare una situazione di grave crisi in seguito
ad un rovinoso terremoto che colpisce la Laconia. Oltre ai danni, il cataclisma ha
effetti devastanti per la polis anche perché gli iloti di Laconia e Messenia ne
approfittano per cercare di rovesciare il dominio spartano. Ne scaturisce una rivolta,
la cosiddetta terza guerra messenica, che si concluderà solo dopo diversi anni (455
o 454) con un accordo per il quale i ribelli possono lasciare il Peloponneso e
trasferirsi.
Atene aveva risposto ad una richiesta di aiuto degli Spartani (463/462) inviando un
contingente di 4000 opliti al comando di Cimone, che aveva fortemente voluto l’intervento.
Ma essa si rivela una mossa controproducente per lui, che deve subire l’affronto di essere
quasi subito congedato dagli Spartani, e soprattutto perché della sua assenza ne approfitta,
ad Atene, la fazione democratico-radicale. Così Pericle e l’altro leader Efialte fanno
approvare una riforma, nel 462/461, che prevede un forte indebolimento dell’autorità
dell’Areopago, cui resta solo la legislazione sui reati di sangue e su alcune questioni
religiose. Le altre prerogative, ben più importanti, vengono trasferite agli altri organismi,
tipicamente democratici: l’Assemblea, la boulé e il tribunale popolare (Eliea), che da ora in
poi avrà una particolare importanza. Tale organismo, composto da 6000 giudici sorteggiati
tra tutti i cittadini e suddivisi tra le varie corti, i dicasteri, ha competenze giudiziarie e
politiche. In questo modo si amplia il coinvolgimento dei cittadini meno abbienti nella politica
cittadina, nello stesso anno avviene una svolta anche in politica estera: l’affronto di Sparta
al contingente ateniese fornisce ai nuovi leader l’occasione per rompere l’alleanza risalente
alla seconda guerra persiana e passare ad altre alleanze, coi Tessali e con Argo,
tradizionale nemica di Sparta. Da questo momento, e per circa un secolo, inizia una fase di
contrapposizione costante tra le due principali poleis greche.
Cimoneprova, al ritorno dal Peloponneso, a restituire all’Areopago i suoi poteri, ma ormai
Atene è dominata da un sentimento antispartano, ed è facile, per Pericle ed Efialte, mettere
in cattiva luce il loro avversario, cui viene decretato l’ostracismo nel 461.
Nello stesso anno viene ucciso Efialte, con il probabile coinvolgimento di Pericle, a cui
l’intransigenza e la indisponibilità al compromesso dell’alleato non potevano andare bene.
Egli infatti, molto più spregiudicato e ambizioso non escludeva la possibilità di intese con gli
avversari. Sta di fatto che inizia così una lunga fase in cui Pericle diventa protagonista
incontrastato.
IV. In Occidente, dopo la fine delle guerre greco-persiane, si accentua il ruolo egemone
di Siracusa, dove, alla morte di Gelone, succede il fratello Ierone. Con lui si viene a
creare una vera e propria corte e la potenza della città siciliana raggiunge il suo
culmine. Ierone continua la politica di trapianti di popolazione di Gelone, ma, a
differenza del fratello, rivolge la sua attenzione anche al di fuori della Sicilia.
Interviene due volte in Italia meridionale, prima per dissuadere il tiranno di Reggio
dall’attaccare Locri, poi per dare sostegno ai profughi di Sibari, distrutta da Crotone,
che è diventata la maggiore potenza magno-greca.

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Ma è soprattutto contro gli Etruschi che emerge il ruolo egemonico di Siracusa in ambito
occidentale. Alla base vi è una situazione di conflittualità tra i Greci e le città marittime
dell’Etruria per il controllo del basso Tirreno. Gli Etruschi conquistano Lipari e minacciano
Cuma, la quale invoca l’aiuto del tiranno siracusano. Nel 474/473 la flotta di Ierone sconfigge
quella etrusca nelle acque di Cuma, e questi ultimi vedono definitivamente compromesso il
loro dominio sul Tirreno. La vittoria di Ierone viene celebrata come una vittoria della Grecità
sui barbari, così come fu per la vittoria di Imera e per quella dei Greci sui Persiani, e il golfo
di Napoli viene assorbito nell’orbita di influenza di Siracusa, su impulso della quale,
probabilmente, avviene la fondazione, intorno al 470, del nuovo centro di Neapolis, non
lontano dalla base cumana di Parthenope.
Nel 471 Ierone ottiene un altro successo sull’antica alleata Agrigento. Infatti, venuto a
contrasto con il nuovo tiranno Trasideo, figlio di Terone, gli infligge una pesante sconfitta
che porta alla fine dell’esperienza tirannica agrigentina. Sorte che ben presto tocca anche
alla famiglia di Ierone, il quale muore nel 467 lasciando il potere al fratello Trasibulo.ma
dopo soli 11 mesi costui è costretto da una sollevazione popolare a lasciare la città ea
rifugiarsi a Locri, mentre a Siracusa inizia una nuova fase in cui viene retta da istituzioni
democratiche.
In Magna Grecia, oltre all’espansionismo reggino, è degna di rilievo la politica aggressiva di
Taranto ai danni delle vicine popolazioni indigene della Puglia meridionale. L’esito finale,
però, non è favorevole ai Tarantini, che vengono sonoramente sconfitti, assieme agli alleati
reggini, dagli Iapigi. La disfatta ha conseguenze notevoli per la politica interna di Taranto, in
cui si creano le condizioni per una trasformazione in senso democratico della costituzione
della città.

L’età di Pericle

I. Il periodo dalla fine degli anni Sessanta del V secolo allo scoppio della guerra del
Peloponneso (431) è per Atene di eccezionale rilievo. Protagonista indiscusso ne è
Pericle, che, pur non avendo alcun potere straordinario, è il leader più autorevole
sulla scena politica ateniese, grazie al suo carisma e all’influenza che esercita sul
popolo. In politica estera, è netta la discontinuità con quella del filospartano Cimone:
la rottura con Sparta si accentua quando gli Ateniesi si alleano con Megara, in guerra
contro Corinto. Assicuratisi così il controllo di un’area di fondamentale importanza
per le comunicazioni tra Peloponneso e Grecia centrale, gli Ateniesi devono
fronteggiare i Peloponnesiaci in un conflitto (459) che si concluderà solo tredici anni
più tardi.
Intanto Atene è impegnata anche alla testa della lega delio-attica contro i Persiani. Nel 460
una flotta di 200 navi viene inviata in Egitto in seguito alla richiesta di aiuto di un principe
libico, Inaro, che si è ribellato al dominio persiano. Sebbene inizialmente le cose vadano
bene per la lega, nel 456 una spedizione persiana costringe i Greci ad asserragliarsi
nell’isola di Prosopotide, nel delta occidentale del Nilo, e dopo un anno e mezzo di assedio
vengono sbaragliati. Il bilancio per Atene è pesante in termini di uomini e di navi. Ed è

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probabilmente in conseguenza di questa sconfitta che si decide di trasferire il tesoro della


lega da Delo ad Atene, presso il santuario di Atena sull’Acropoli.
Nel frattempo, il conflitto con i Peloponnesiaci si estende alla Grecia centrale. Dopo una
pesante sconfitta subita ad opera degli Spartani in Beozia, nel 457, gli Ateniesi reagiscono
e, solo due mesi dopo, riescono ad assicurarsi il controllo di gran parte della Beozia e ad
assorbire nella loro orbita le altre regioni della Grecia centrale. L’anno dopo, la polis ottiene
un altro significativo risultato, la conquista della tradizionale rivale Egina.
Nonostante altri risultati positivi in Peloponneso e nel golfo di Corinto, la disavventura
egiziana costringe gli Ateniesi a ridimensionare i loro piani espansionistici e a concentrare
gli sforzi nella guerra contro i Persiani. grazie alla mediazione di Cimone, richiamato in patria
da Pericle prima della fine dell’ostracismo, si arriva alla stipula, nel 452/451, di una pace
quinquennale con Sparta, che riconosce le posizioni acquisite fino a quel momento da Atene
in cambio della rinuncia all’alleanza con gli Argivi.
II. Durante l’età periclea, però, non c’è solo un massiccio impegno militare. Anche
l’evoluzione della democrazia ateniese si accentua. Una riforma del 457 riguarda
l’arcontato, che diventa accessibile anche ai membri della terza classe, gli zeugiti.
Viene inoltre portata a termine la costruzione delle Lunghe Mura, che uniscono la
città ai due porti del Pireo e del Falero.
Ma la novità più importante riguarda l’introduzione del misthos, la retribuzione per le funzioni
pubbliche, sia civili che militari. È lo stesso Pericle che, a metà degli anni Cinquanta,
istituisce una paga giornaliera di 2 oboli per i giudici dei tribunali popolari. Il sistema viene
ben presto esteso a tutti coloro che rivestono una funzione pubblica, dai buleuti ai rematori.
In questo modo, anche i cittadini non abbienti possono partecipare alla gestione della città,
oltre a fornire loro una fonte di reddito che serve ad assicurargli la sussistenza. Ma, per
evitare di allargare troppo la cerchia di coloro che possono godere dei vantaggi del misthos,
si modifica in senso più restrittivola legge che regola l’accesso alla cittadinanza: d’ora in poi
occorrerà avere entrambi i genitori (prima era solo il padre) di condizione cittadina per poter
essere ammessi tra i politai.
Sempre in tema di ridistribuzione delle risorse pubbliche a vantaggio del demos, Pericle
avvia un grandioso programma di edilizia pubblica per trasformare Atene. Ne è interessata
in particolare l’Acropoli, che, sotto la direzione dello scultore Fidia, stretto collaboratore di
Pericle, viene completamente ristrutturata: un ingresso monumentale, i Propilei, e
soprattutto il grandioso Partenone. I vantaggi per il demos sono notevoli. Per quasi vent’anni
il programma edilizio richiede una massiccia manodopera, assicurando così a molti Ateniesi
un reddito lavorativo. I costi, notevoli, vengono coperti facendo ricorso al tributo delle poleis
alleate, che avrebbe dovuto avere tutt’altra destinazione.
III. Nella seconda metà del V secolo avviene la trasformazione della lega delio-attica,
egemonizzata da Atene, in un vero e proprio impero.
Tutto nasce da un attacco in grande stile che gli Ateniesi sferrano contro i Persiani nel 451,
quando inviano 200 navi a Cipro, al comando di Cimone. Nonostante il fallimento
dell’assedio alla città di Cizio, nel quale muore lo stesso Cimone, l’impresa diventa fruttuosa:
infatti, durante la ritirata, gli Ateniesi infliggono una durissima sconfitta ai Persiani, che li
avevano sorpresi nelle acque di Salamina di Cipro. In seguito alla sconfitta, si arriva alla
pace coi Persiani, che il ricco aristocratico Callia, imparentato con Pericle, provvede a

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negoziare per la sua città. Il trattato è decisamente vantaggioso per Atene: il Gran Re
riconosce, per la prima volta, l’autonomia delle poleis d’Asia, si impegna a mantenere gli
eserciti a tre giorni di marcia dalle coste e a non far navigare la sua flotta oltre lo stretto di
Bisanzio, a nord, e della città licia di Faselide, a sud, in cambio della garanzia che i suoi
territori non saranno più attaccati. Atene rimane quindi padrona incontrastata dell’Egeo.
Ma la pace, conclusa nel 449/448, ha ovviamente ripercussioni sulla lega, nata proprio come
difesa dal pericolo persiano. Le poleis hanno ora tutto l’interesse ad uscire dall’alleanza,
dato anche il tributo che veniva loro richiesto. Atene, dal canto suo, ha tutto l’interesse a
mantenere in piedi la lega, proprio per i vantaggi che ne ricava, e per far questo non esita a
ricorrere alla forza, trasformando la lega stessa in un dominio di tipo imperialistico, con gli
alleati che diventano sudditi.
Anche la Grecia centrale è in subbuglio: nello stesso anno della pace con i Persiani, Sparta
occupa Delfi. Ha inizio così la cosiddetta seconda guerra sacra, nella quale Atene interviene
a sostegno dei suoi alleati Focidesi, mentre in Beozia le sue truppe vengono pesantemente
sconfitte nel 447/446, mettendo fine al dominio ateniese sulla regione. L’anno successivo,
la situazione dei Atene si fa ancora più critica, sommandosi alla rivolta dell’Eubea la
defezione di Megara, in aiuto della quale accorrono subito gli Spartani. Ma, per motivi poco
chiari, il re spartano Pleistoanatte decide di ritirarsi senza affrontare battaglia, e Atene può
così ristabilire il proprio dominio sull’Eubea.
Sia Sparta, sia Atene, però, si convincono che a questo punto sia più conveniente cercare
una via d’intesa, e nel 446/445 le due superpotenze stipulano un trattato di pace trentennale,
delimitando rigidamente le rispettive sfere d’influenza. Per Atene, le condizioni sono meno
favorevoli di quelle stabilite dalla tregua del 452/451, dato che deve rinunciare a tutte le sue
conquiste dal 461 in poi e dovendo rispettare l’autonomia di Egina. Ma per la prima volta
ottiene pure che Sparta ne riconosca ufficialmente l’egemonia sulle città alleate, su cui ora
potrà esercitare il suo dominio imperialistico.
IV. Infatti, le condizioni delle poleis dopo la crisi seguita alla pace di Callia si possono
considerare di vera e propria sudditanza. Ogni anno sono costrette a pagare il tributo
ad Atene, che lo utilizza a proprio vantaggio. Non possono lasciare la symmachìa, in
quanto le defezioni vengono duramente represse. La loro autonomia è pesantemente
intaccata dalla potenza dominante, che non esita a ingerirsi negli affari interni delle
città alleate al fine di favorire la componente filoateniese. In campo giudiziario, viene
sottratta alle corti locali la giurisdizione su reati gravi, tanto che, a partire dagli anni
Quaranta, l’Eliea è l’unico tribunale competente a giudicare tali delitti. Solo in campo
costituzionale (a parte qualche eccezione) Atene mostra di ingerirsi meno.
L’importante è che vengano pagati i tributi e che le poleis si allineino alle sue direttive.
La potenza dominante cerca anche di imporre la sua moneta e i suoi pesi e misure,
ma tale imposizione pare sia stata largamente disattesa.
I vantaggi per Atene sono evidenti: coi tributi degli alleati si fa fronte al costoso sistema dei
misthoi e al programma di edilizia pubblica. Con la fondazione di cleruchie anche i meno
abbienti ottengono un lotto di terra che garantisce loro l’autosufficienza e l’accesso al censo
oplitico. Ma non mancano coloro che disapprovano tale condotta: Pericle, infatti, si trova a
dover fronteggiare l’opposizione della fazione conservatrice, capeggiata da un parente di
Cimone, Tucidide, che gli contesta la grave ingiustizia ai danni degli alleati. Ma Pericle riesce
ad avere ragione anche di questo, chiamando gli Ateniesi a votare una procedura di

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ostracismo nei confronti di Tucidide (444/443), rinnovando la fiducia al leader, che verrà
eletto stratego per almeno quindici volte consecutive.
Dal punto di vista militare, Pericle deve affrontare la rivolta di una potente alleata, l’isola di
Samo. La rottura avviene nel 441, quando, per una questione territoriale con Mileto, Samo
rifiuta la procedura arbitrale. Atene decide di intervenire, inviando una flotta a Samo e
rovesciandone l’oligarchia al potere. Ma gli oligarchi, con l’aiuto del satrapo di Sardi riescono
a ribaltare la situazione. A questo punto, nel 440, una grossa flotta al comando dello stesso
Pericle muove guerra alla città ribelle. Dopo nove mesi di assedio, la polis è costretta a
capitolare, subendo pesanti imposizioni: oltre all’abbattimento delle mura e alla consegna
della flotta, deve pagare una pesantissima indennità di guerra.
V. Il periodo successivo è relativamente tranquillo per la lega, per cui Atene può
dedicarsi alle sue mire espansionistiche. Ad attirarle è il Mar Nero, a causa della sua
importanza come fonte di approvvigionamento cerealicolo. Una grossa flotta, sempre
al comando di Pericle, vi arriva nella prima metà degli anni Trenta e Atene, oltre ad
insediare una presenza militare in alcune località, riesce a convincere numerose città
del Ponto ad aderire alla lega.
Altra zona appetibile per l’acquisizione di materie prime è la regione mineraria della Tracia
occidentale. Nel 437 una spedizione guidata da un esponente della cerchia periclea,
Agnone, dà vita, sulla riva orientale del fiume Strimone, all’apoikia di Anfipoli: il nuovo
insediamento si trova in posizione strategica per lo sfruttamento delle risorse minerarie e
anche del patrimonio forestale del monte Pangeo, fondamentale per l’approvvigionamento
di legname. Ma la fondazione di Anfipoli ha conseguenze sui rapporti con la Macedonia, da
qualche tempo alleata di Atene. Il re Perdicca II, vedendo come una minaccia
l’espansionismo ateniese, rompe l’alleanza e sobilla le città della Calcidica a ribellarsi alla
potenza egemone.
In patria, Pericle si trova a dover fronteggiare ancora una volta l’opposizione della fazione
avversaria che, facendo leva sul tradizionalismo religioso degli Ateniesi, trascina in giudizio
la compagna di Pericle, Aspasia, lo scultore Fidia e il filosofo Anassagora, tutti con
l’imputazione di empietà. Anche Pericle finisce sotto accusa per malversazione nelle spese
per la statua di Athena Parthenos destinata al Partenone. Nonostante l’esilio cui si
sottopongono Fidia e Anassagora per evitare la condanna, Pericle riesce a superare anche
questa vicenda con successo, mantenendo intatta la sua posizione di leadership.
VI. In Sicilia, anche la fine delle tirannidi è seguita da un periodo turbolento. Emblematica
è la vicenda della giovane democrazia siracusana: qui, infatti, la polis deve far fronte
a un diffuso malcontento causato dalle forti sperequazioni nella distribuzione della
terra. Il contrasto sociale, poi, è reso ancora più aspro dalla novità dell’introduzione
del cosiddetto petalismo, una procedura di voto che ricalca quella dell’ostracismo
con le sole differenze del materiale usato (lamelle di legno di ulivo) e della durata
(cinque anni). Il demos utilizza il petalismo per colpire gli esponenti del ceto
aristocratico, inducendo i cittadini più influenti ad allontanarsi dalla vita politica, per
cui, rivelatosi dannoso per la città, viene ben presto abrogato.
Un altro problema per Siracusa è la riscossa delle genti sicule. Ne è artefice un nobile siculo
ellenizzato, Ducezio. Egli riunisce sotto la sua guida le varie tribù sicule, dando vita, nel 453,
ad una legadelle comunità sicule. A questo punto si fanno conflittuali i rapporti con le città

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greche. Nel 451, infatti, Ducezio attacca l’avamposto agrigentino di Motyon. I Siracusani
intervengono in aiuto degli Agrigentini e nel 450lo sconfiggono definitivamente.
Anche le vicende della Magna Grecia sono movimentate: le oligarchie che governano le
poleis si ritrovano a dover fronteggiare le istanze di una più ampia partecipazione al governo
da parte di vari settori della cittadinanza. Ma la loro chiusura porta a violenti disordini e
tumulti, che si risolvono con la cacciata degli oligarchi dalle città e, nel caso di Crotone, con
l’avvento di un regime democratico. Della crisi di Crotone approfittano i Sibariti, che, nel 453,
danno vita ad un nuovo insediamento nel sito della loro antica città. Ma pochi anni dopo
sono costretti ad andare via dalla reazione dei Crotoniati. Sibari chiede allora aiuto a Sparta
ed Atene. Ed è quest’ultima che risponde: nel 446 un gruppo di coloni arriva dalla Grecia e
partecipa a una nuova rifondazione di Sibari. In seguito a contrasti sorti tra Greci e Sibariti,
scoppia una guerra civile che vede vincitori gli Ateniesi, che chiedono alla madrepatria l’invio
di ulteriori coloni. Pericle indice un bando panellenico (sia perché la sola Atene non ha un
numero di coloni sufficiente, sia per mandare un segnale di distensione a Sparta) nel 444,
e, con l’arrivo di volontari da varie parti della Grecia, ha luogo la fondazione di una nuova
città, Turi. In questo modo, Atene insedia una sua presenza in un’area di particolare
interesse sia per la ricchezza agricola, sia per la posizione strategica sulla rotta marittima
verso lo Stretto. Inoltre, la polis stipula trattati di alleanza con Reggio e con Leontini.
Ma le aspettative riposte in Turi vengono ben presto deluse. La città, nei primi anni di vita,
è impegnata in una guerra con Taranto per il possesso della Siritide, e nel 434 un grave
contrasto interno porta la componente peloponnesiaca a prevalere su quella attica, portando
un cambiamento istituzionale in senso oligarchico, sottraendo così Turi all’influenza di
Atene.

La guerra del Peloponneso

I. Il conflitto di durata quasi trentennale tra Sparta e Atene, la guerra del Peloponneso,
è una delle vicende meglio documentate della storia greca. Tucidide, infatti, vi dedica
un’intera opera, e, pur essendo diparte (ateniese), ci aiuta a ricostruire le cause che
hanno portato allo scoppio della guerra.
La prima occasione di crisi è una vicenda del 433 che non vede coinvolta direttamente
Sparta, ma la sua alleata Corinto. A causa di un conflitto tra la colonia corinzia Corcira e la
madrepatria, i Corciresi, vincitori in uno scontro navale ma timorosi della rivincita di Corinto,
chiedono l’alleanza con Atene, che invia una flotta di trenta navi. Ciò non basta ad evitare
la sconfitta dei Corciresi, ma impedisce a Corinto di attaccare la città avversaria, con la
conseguenza di aggiungere anche questo motivo a quelli già esistenti nella rivalità tra Atene
e Corinto.
Ad aggravare la tensione interviene la questione di una colonia corinzia facente parte della
lega delio-attica, Potidea. Atene, che ne teme la defezione, le ingiunge di abbattere un tratto
delle mura e di recidere i rapporti con la madrepatria. Poiché i Potideati rifiutano, nell’estate
del 432 viene inviata una flotta di quaranta navi contro la polis calcidica, che ha ricevuto nel
frattempo aiuto dai Peloponnesiaci. Ha inizio così un assedio che durerà due anni.

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Nello stesso anno, 432, Pericle fa approvare un decreto con cui i Megaresi sono esclusi da
tutti i mercati della lega (probabilmente per privare gli Stati peloponnesiaci di un importante
canale di approvigionamento). La mossa di Pericle, pur non violando il trattato del 446/445,
è una provocazione per la lega peloponnesiaca, di cui Megara fa parte.
A questo punto, diventa più forte il partito della guerra, sia a Sparta, sia nel resto della sua
lega, ma si fanno ancora alcuni tentativi per evitare il conflitto: Sparta chiede la revoca del
decreto per Megara e la fine dell’assedio di Potidea, Atene rifiuta decisamente e a sua volta
chiede di sottoporre la controversia ad un arbitrato. Quando i Peloponnesiaci rifiutano la
controproposta ateniese, di fatto si assumono la responsabilità del conflitto.
II. La scintilla che appicca l’incendio è un episodio che accade nel marzo del 431: una
delle più strette alleate di Atene, Platea, viene aggredita da un gruppo di Tebani, che
vorrebbero assumerne il controllo. I Plateesi riescono a sventare l’attacco, e
giustiziano i nemici. A questo punto scatta il gioco delle alleanze e comincia la prima
fase della guerra, che durerà un decennio, chiamata anche convenzionalmente
guerra archidamica, dal nome del re spartano Archidamo. I blocchi che si
fronteggiano sono formati da Atene e la sua lega, più la Tessaglia, Zacinto, Corcira
e Naupatto da una parte, e Sparta e il grosso della Grecia meridionale e centrale, ad
eccezione di Argivi ed Achei.
La strategia di Pericle è chiara: consapevole della netta superiorità degli avversarisulla
terraferma, egli intende evitare scontri terrestri e puntare sul dominio del mare, con la flotta
impegnata a logorare il nemico con incursioni sulle coste del Peloponneso e con il blocco
dei collegamenti commerciali.Convince inoltre gli Ateniesi a lasciare il territorio attico alle
devastazioni e concentrarsi tutti nel circuito murario che unisce la città al porto del Pireo. In
questo modo, Atene può essere attaccata solo dal mare, dove è più forte.
Nonostante gli ovvi disagi, la strategia periclea funziona, almeno all’inizio: quando,
nell’estate del 431, le truppe di Archidamo arrivano in Attica, iniziano la devastazione della
regione, ma, con la popolazione concentrata tra le mura di Atene, una volta finiti i viveri non
possono fare altro che ritornarsene. Pericle risponde con un’incursione nella Megaride e
con la presa di possesso di Egina.
L’anno dopo si ripete lo stesso copione, ma stavolta a mettere in grave difficoltà gli Ateniesi
arriva un elemento imprevisto, lo scoppio di un’epidemia estesasi dall’Africa all’asia Minore
e arrivata, veicolata da qualche nave, anche al Pireo. Il bilancio finale della pestilenza è
catastrofico: tra un quarto e un terzo della popolazione ne cade vittima. Per Pericle è un
momento difficile: riesce sì a distogliere i concittadini dall’idea di un accordo con Sparta, ma
il risentimento maturato nei suoi confronti porterà alla sua destituzione dalla carica di
stratego.
Non tutto va male, comunque, per Atene. Nell’inverno del 430/429 termina l’assedio a
Potidea, con la resa e l’evacuazione della città, e alcuni mesi più tardi la flotta ateniese
riporta due brillanti vittorie contro una ben più numerosa flotta peloponnesiaca. Ad offuscare
questi successi interviene, nell’autunno 429, la morte di Pericle, vittima dell’epidemia. Gli
Ateniesi, rendendosi conto di non poterne fare a meno, lo avevano rieletto stratego. La città
si ritrova quindi senza una guida capace, per autorevolezza e capacità, di raccoglierne
l’eredità politica.

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III. Dopo la morte di Pericle, il conflitto si allarga e si complica. Nel 428 Mitilene si stacca
dalla lega delio-attica e Atene, allarmata dal rischio che la rivolta possa costituire un
esempio contagioso, invia un grosso contingente ad assediare i Mitilenesi, che, non
ricevendo aiuto dalla lega peloponnesiaca, sono costretti ad arrendersi nell’estate del
427. Le conseguenze per la città rischiano di essere pesantissime: l’assemblea
ateniese, infatti, decide in un primo momento di punire la ribellione con l’uccisione di
tutti i maschi adulti e la riduzione in schiavitù del resto della popolazione. Solo in un
secondo momento si perviene ad una decisione meno drastica, ossia giustiziare i soli
Mitilenesi che hanno avuto responsabilità nella rivolta. Tra i sostenitori della linea
dura vi è il demagogo Cleone che, grazie alla sua abilità oratoria, è diventato il nuovo
leader del demos, subentrato in questo ruolo a Pericle, di cui fu oppositore, e
propugnatore di una politica bellicista più decisa ed energica.
Anche da parte peloponnesiaca non manca la brutalità. Nella stessa estate del 427, Platea
si arrende agli Spartani dopo due anni di assedio. In questo caso, però, i vincitori trattano la
polis con estrema durezza: i maschi adulti vengono giustiziati, le donne ridotte in schiavitù
e la città consegnata ai Tebani, che la radono al suolo.
Sempre nel 427 Atene apre un altro fronte, estendendo il conflitto anche alla Sicilia.
L’occasione è fornita da una richiesta di aiuto da parte di Leontini, che, assieme ad altre
città, è impegnata in uno scontro con una coalizione capeggiata da Siracusa. Atene non
esita a rispondere, sia per contrastare l’espansionismo dei Siracusani, di cui teme un
intervento a sostegno dei Peloponnesiaci, sia per bloccare i rifornimenti cerealicoli che a
Sparta e al Peloponneso arrivano dalla Sicilia. L’avventura siciliana, iniziata nell’autunno
427, avrà termine dopo tre anni, in maniera del tutto inconcludente.
È tuttavia da un episodio legato ad essa che scaturisce una svolta destinata ad incidere
sulle sorti del conflitto con Sparta. Nell’estate del 425, su sollecitazione degli alleati siciliani,
Atene invia una flotta di quaranta triremi nell’isola. Della spedizione fa parte un abile
generale, Demostene, ed è per sua iniziativa che si ha uno sviluppo inaspettato: durante la
navigazione lungo la costa della Messenia, egli si fa lasciare con alcune truppe sul
promontorio di Pilo. La risposta spartana, che avrà conseguenze nefaste, è immediata.
Abbandonata l’Attica, l’esercito si affretta ad attaccare il contingente ateniese, ma, volendolo
bloccare dal mare, occupa la prospiciente isola di Sfacteria, col risultato che quando torna
la flotta ateniese il presidio di Sfacteria si trova assediato e tagliato fuori dalla terraferma.
Sparta si preoccupa subito di assicurarsi una tregua per fare arrivare viveri agli assediati,
non solo: volendo recuperare i suoi cittadini bloccati sull’isola, intavolano trattative di pace
con Atene. Ma gli Ateniesi, influenzati da Cleone, non si mostrano disponibili e nell’agosto
425catturano gli opliti spartani superstiti.
Atene si sente sufficientemente forte da respingere ulteriori proposte di pace degli Spartani
e da accentuare la politica imperialista nei confronti degli alleati. Su iniziativa di Cleone,
infatti, viene approvato un decreto per l’aumento (circa il triplo) dei tributi delle città della
lega. Ma il malcontento inevitabile suscitato da tale misura farà presto sentire le sue
ripercussioni.
IV. La più aggressiva strategia bellica inaugurata con l’episodio di Pilo sembrerebbe
essere la carta vincente per Atene. Nell’estate del 424 un contingente ateniese riesce
ad occupare l’isola di Citera, a sud-est della Laconia, privando in questo modo

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Spartadi una base strategica per i commerci con l’Africa. Artefice del successo è
l’aristocratico Nicia, leader della fazione moderata.
Nella stessa estate, però, le cose cominciano a prendere un’altra piega. Intanto, Atene deve
mettere fine all’impresa siciliana, dopo che le poleis dell’isola hanno trovato un accordo per
risolvere i reciproci contrasti senza l’ingerenza di potenze straniere. Ma è soprattutto la
nuova strategia degli Spartani a capovolgere le sorti del conflitto. Essi, infatti, puntano alla
Tracia occidentale, area di vitale importanza per Atene per l’approvvigionamento di legname
e argento. Sotto la guida di un energico generale, Brasida, l’offensiva spartana in Tracia dà
i suoi frutti: oltre ad ottenere l’adesione delle città della lega, nell’inverno del 424 conquista
Anfipoli, sottraendo così ad Atene il controllo dell’area mineraria del Pangeo.
Per la polis attica adesso è un momento difficile: alla caduta di Anfipoli si aggiunge una
grave sconfitta in Beozia. Si decide quindi di avviare trattative con gli Spartani, e viene
stipulata una tregua di un anno (primavera 423).
Ma i problemi per Atene non finiscono: subito dopo l’armistizio, deve fare fronte alla
defezione di due città della Calcidica, Scione e Mende, aiutate da Brasida che è un
oppositore della tregua. Allo scadere di questa, dunque, le ostilità riprendono con rinnovato
vigore sul fronte nordoccidentale, e alla fine dell’estate 422 l’esercito ateniese è
pesantemente sconfitto da Brasida presso Anfipoli. Nello scontro perdono la vita sia Cleone,
che comandava il contingente ateniese, sia Brasida.
Gli effetti della scomparsa dei due principali sostenitori della guerra nelle città si fanno subito
sentire. Spartani e Ateniesi non vedono l’ora di porre fine alle ostilità, e le trattative di pace,
condotte dal re spartano Pleistoanatte e da Nicia, si svolgono senza difficoltà e portano,
nell’aprile 421, alla cosiddetta “pace di Nicia”. In sostanza, si decide di ripristinare, sia pur
parzialmente, la situazione esistente allo scoppio della guerra: restituzione dei territori
acquisiti con le operazioni militari e ritorno nell’orbita ateniese delle città calcidiche ribelli,
con l’impegno a rispettarne l’autonomia.
La prima fase del conflitto si conclude quindi senza vinti né vincitori, sebbene i maggiori
vantaggi li abbia Atene, cui viene riconosciuto il suo impero da parte della polis rivale, che,
al contrario, deve vedersela col malcontento dei suoi alleati, i quali vorrebbero continuare la
guerra.
V. Ma la pace si rivela fragile da subito: vari alleati di Sparta non sottoscrivono il trattato,
frapponendo ostacoli all’applicazione degli accordi. Lo stato di tensione che ne
deriva, tra Sparta e le altre città della sua symmachìa, si accentua quando la
polisconclude proprio con Atene un’alleanza difensiva di 50 anni.
Ad Atene, d’altro canto, riprende vigore la fazione contraria alla pace. In opposizione a Nicia,
si afferma un nuovo leader radicale e antispartana, Alcibiade, il quale, stratego nel 420/419,
convince i suoi concittadini a stipulare un’alleanza difensiva con Argo e altri due Stati
peloponnesiaci in contrasto con la potenza egemone, Mantinea ed Elide.
Tale alleanza non avrà però buon esito. Nel 418 gli ateniesi inducono gli alleati a penetrare
in Arcadia. La pronta risposta di Sparta porta ad una battaglia, presso Mantinea, in cui Argivi,
Mantineesi e Ateniesi subiscono una pesantissima sconfitta. Argo e Mantinea stipulano
subito un trattato di pace e alleanza con Sparta, mentre Atene deve rinunciare alla politica
peloponnesiaca di Alcibiade.

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Lo stesso Alcibiade, però, non è intaccato dal fallimento dell’alleanza. Insieme a Nicia viene
eletto stratego nel 417 e nel 416. Sebbene di vedute opposte in politica estera, i due non
esitano a coalizzarsi per motivi di interesse personale. Infatti, quando gli ateniesi, su
proposta del demagogo Iperbolo, rispolverano la pratica dell’ostracismo, a farne le spese è
proprio quest’ultimo, su cui Nicia e Alcibiade hanno fatto confluire i voti dei loro seguaci. È
questa l’ultima volta che si fa ricorso all’ostracismo.
Anche una nuova avventura militare, nel 416, è probabilmente frutto dell’accordo tra i due.
Ne è obiettivo Melo, una piccola isola delle Cicladi che ha il “torto” di voler restare neutrale,
sebbene faccia parte dal 425 della lega delio-attica. Per evitare che il suo esempio possa
essere contagioso, gli Ateniesi, dopo un lungo assedio, la puniscono duramente,
giustiziando i maschi adulti e riducendo in schiavitù il resto della popolazione.
Sparta, su cui contavano i Meli, non interviene. Ma la ripresa delle ostilità con Atene è solo
questione di tempo.
VI. Nello stesso periodo, la Sicilia torna al centro degli interessi ateniesi. Segesta,
impegnata in un conflitto con Selinunte, dopo aver chiesto invano aiuto ad altre città
siciliane e a Cartagine, si rivolge, nel 418, ad Atene. Al suo appello si aggiunge quello
di Leontini, sempre in conflitto con Siracusa.
La prospettiva di intervenire di nuovo in Sicilia e approfittare dei contrasti tra le comunità
locali trova particolarmente sensibili gli Ateniesi, i quali, istigati da Alcibiade, si decidono a
intervenire, con gli obiettivi di porre l’isola sotto il controllo di Atene e utilizzarla anche come
base per la conquista di Cartagine. In due successive assemblee, nonostante l’opposizione
di Nicia, si decide l’invio di una flotta al comando di tre strateghi, Alcibiade, Lamaco e lo
stesso Nicia (che probabilmente voleva contenere l’intraprendenza del rivale). Comincia
così un’avventura che Tucidide considera uno dei principali errori commessi dagli Ateniesi
dopo la morte di Pericle.
Mentre sono in corso i preparativi per la spedizione, avviene un fatto curioso: vengono
trovate danneggiate le erme, cioè le effigi di Ermes, lungo le vie di Atene. Si tratta senz’altro
di una macchinazione politica per sabotare l’impresa di Alcibiade, che si trova al centro delle
accuse nel corso dell’inchiesta, sospettato di essere implicato nella mutilazione. Tuttavia,
non viene processato subito, ma gli si consente di partire con la flotta. In questo clima di
tensione, nella primavera del 415, 100 navi salpano dirette ad Occidente.
Le navi greche trovano scarsa disponibilità da parte delle città della regione. Accampatisi
infine a Catania, che con difficoltà, accetta di stipulare un’alleanza,giungono le conseguenze
dell’affare delle erme. Una nave arriva a Catania per riportare in patria Alcibiadeed essere
sottoposto a processo. Ma stavolta Alcibiade, durante il viaggio di ritorno, a Turi riesce a
darsi alla fuga e a giungere nel Peloponneso, dove troverà accoglienza proprio a Sparta. E
non esiterà a mettersi al servizio dei nemici di Atene, diventando un traditore (infatti, in patria
viene condannato a morte in contumacia).
In Sicilia, intanto, le cose vanno inizialmente bene per gli Ateniesi, che vincono uno scontro
con Siracusa nell’autunno del 415. Nicia però non attacca la città e preferisce svernare a
Catania, dando modo ai Siracusani di chiedere l’intervento di Corinto e Sparta. E gli
Spartani, sollecitati da Alcibiade che svela i progetti imperialistici della sua città, decidono
l’invio di rinforzi al comando dello stratego Gilippo.

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Ma con la ripresa delle operazioni militari, nella primavera del 414, Siracusa si trova in
difficoltà. Gli ateniesi, sbarcati a nord, occupano la collina delle Epipole e iniziano a costruire
un muro per isolare la città. Con l’arrivo della flotta nel Porto Grande, la vittoria sembra a
portata di mano, ma finalmente per Siracusa arriva l’aiuto spartano: approdato a Imera,
Gilippo riesce a raggiungere la città e mette in condizione i Siracusani di contrastare
l’accerchiamento.
Nicia, attestatosi sul promontorio del Plemmirio, sollecita l’invio di soccorsi da Atene, che
manda altre 10 navi e prepara un’altra più grossa spedizione. Ma nel frattempo deve anche
occuparsi di un’altra emergenza: gli Spartani, sempre su suggerimento di Alcibiade, nella
primavera del 413 inviano in Attica un esercito al comando del re Agide II, che occupa
stabilmente la località di Decelea, a 20 km circa a nord-est della città. Il danno per Atene è
enorme, non solo per le scorrerie degli Spartani nel resto della regione, ma soprattutto
perché vengono compromessi i rifornimenti dall’Eubea e i collegamenti col distretto
argentifero del Laurio, facendo così ridurre drasticamente le risorse finanziarie di cui gli
Ateniesi hanno necessità per poter proseguire il conflitto.
Nella stessa primavera del 413, comunque, una flotta di 73 navi al comando di Demostene
salpa per la Sicilia. Ma, dopo il disastroso fallimento di un attacco notturno alle Epipole
voluto da quest’ultimo, l’abbandono dell’impresa rimane l’unica soluzione possibile. Stavolta
è Nicia a commettere un errore fatale. Preoccupato dalla reazione del demos di Atene e per
il timore superstizioso che gli provoca un’eclissi di luna, ritarda notevolmente la partenza,
dando modo ai Siracusani e ai loro alleati di sbarrare l’ingresso del Porto Grande. Costretti
a combattere in uno spazio ristretto (come i Persiani a Salamina), gli Ateniesi incorrono in
una pesante sconfitta.
Cercando scampo via terra, continuamente attaccati dai Siracusani, sia Demostene sia
Nicia sono costretti ad arrendersi. Su proposta del demagogo Diocle, vengono entrambi
giustiziati, mentre gli altri Ateniesi sono rinchiusi nelle cave di pietra, le latomie.
L’ambiziosa impresa di Atene si conclude con un totale disastro. Il pesantissimo bilancio, in
termini di vite umane e in costi finanziari, graverà pesantemente sul prosieguo del conflitto
coi Peloponnesiaci.
VII. La nuova fase della guerra, la cosiddetta guerra “deceleica”, vede quindi Atene
indebolita dalla fallimentare impresa siciliana. Oltre alla perdita di un gran numero di
cittadini e buona parte della flotta, la città è anche prostrata da una grave crisi
finanziaria e politica, dato che alla fuga di Alcibiade si sono aggiunte le morti di Nicia
e Demostene. Si istituisce una commissione straordinaria di dieci anziani (i probouloi)
con il compito di affrontare l’emergenza.
La situazione però si aggrava quando si apre un nuovo fronte in Asia Minore (la “guerra
ionica”), dove varie città alleate si ribellano al suo dominio e sollecitano l’intervento di Sparta.
In questa occasione entrano in gioco i Persiani, che, con la prospettiva di riprendere il
dominio delle città micrasiatiche, stipulano un’alleanza con gli Spartani. In cambio del
riconoscimento della sua sovranità sulle città greche d’Asia, il re Dario II si impegna a
finanziare cospicuamente lo sforzo bellico di Sparta.
A complicare le cose interviene un nuovo voltafaccia di Alcibiade, che, nell’inverno 412,
avvia contatti con i capi della flotta ateniese di stanza a Samo, facendo balenare la
possibilità di un accordo coi Persiani, a patto che Atene si doti di una costituzione

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oligarchica. Tale proposta trova terreno fertile nelle consorterie politiche aristocratiche di
orientamento oligarchico, capeggiate dall’oratore Antifonte, che uccidono i leader
democratici e convincono il popolo (giugno 411) ad approvare il cambio di regime, abolendo
le indennità pubbliche e la boulé dei Cinquecento, sostituita da un consiglio di 400 membri.
Tale situazione ha comunque vita breve: gli oligarchi non ottengono il consenso degli
equipaggi della flotta, che richiamano Alcibiade, contando sulla sua mediazione per arrivare
a un accordo con i Persiani. già dopo poche settimane, quindi, il consiglio dei 400 viene
esautorato e alla fine viene ripristinata la situazione vigente prima del colpo di Stato.
Nel frattempo, nonostante aumentino le defezioni delle poleis alleate, Atene si dimostra
ancora in grado di lottare, al punto da riportare clamorose vittorie navali che consentono
loro di riprendere il controllo dell’area degli stretti, alleviando così il dissesto finanziario.
Illudendosi di vincere, gli Ateniesi rifiutano le offerte di pace degli Spartani, sprecando
l’occasione di finire la guerra senza troppi danni.
Infatti, fino al 408, gli Ateniesi riportano una serie di successi, e nella primavera dello stesso
anno anche Alcibiade, che si è rimesso al servizio della polis riconquistando gran parte delle
postazioni perdute nell’area degli stretti, può far ritorno, dopo sette anni di esilio, nella sua
patria, dove, prosciolto da ogni accusa, gli vengono addirittura conferiti pieni poteri per la
conduzione delle attività militari.
VIII. Le cose cambiano per l’ennesima volta quando, agli inizi del 407, entra in gioco uno
spregiudicato condottiero spartano, Lisandro, inviato in Asia come comandante della
flotta. Tra lui e il giovane Ciro, figlio di Dario II nominato comandante supremo delle
satrapie d’Asia Minore, si stabilisce una solida intesa che farà avere a Sparta
maggiori finanziamenti per il proseguimento della guerra.
Lisandro da subito si rivela avversario temibile per Atene. Egli infatti, verso al fine del 407,
riporta una grande vittoria sulla flotta nemica, approfittando anche della momentanea
assenza di Alcibiade, che aveva lasciato il comando delle navi ad un suo luogotenente.
Proprio questa sconfitta sarà la causa della sua destituzione, con il comando attribuito a
Conone, e del suo esilio, dal quale non tornerà più.
Anche nello schieramento spartano si verifica un avvicendamento, in quanto le rigide leggi
della polis impediscono la iterazione della carica. E così, nel 406, Lisandro è sostituito da
Callicratida, cosa che non ferma, comunque, l’offensiva spartana. Callicratida riesce a
conquistare Metimna e a bloccare la flotta ateniese nel porto di Mitilene. A questo punto, ad
Atene si fa ricorso a misure estreme: reclutamento di schiavi per gli equipaggi delle navi e
fusione degli ex voto dei templi per coniare nuove monete, riuscendo così in breve tempo
ad allestire una flotta di 110 triremi che affronta Callicratida presso le isole Arginuse, tra
Lesbo e la costa asiatica. La vittoria, stavolta, è degli Ateniesi, che, pur perdendo 25 navi e
non potendo soccorrere i naufraghi a causa di una tempesta, ne catturano 70 agli Spartani,
il cui comandante muore in battaglia.
Ma il successo ha uno strascico paradossale: gli strateghi protagonisti vengono messi sotto
accusa per il mancato soccorso dei naufraghi, sei di loro vengono giustiziati e altri due si
danno alla fuga. Atene si ritrova, così, privata dei suoi migliori generali.
Le illusioni alimentate dalla vittoria delle Arginuse fanno respingere ancora auna volta al
demos atenieseuna proposta di pace avanzata dagli Spartani, e il ritorno in scena di

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Lisandro, nel 405 (sebbene ufficialmente sia solo luogotenente del comandante Araco), fa
sì che Sparta trovi la strategia più efficace per piegare definitivamente gli avversari. Egli
infatti punta sulla regione degli stretti, di vitale importanza per Atene per gli
approvigionamenti cerealicoli. Ed è qui che, nell’estate del 405, avviene la battaglia decisiva.
La flotta ateniese, priva dei suoi generali più esperti, viene annientata presso Egospotami,
nel Chersoneso tracico.
La sorte di Atene è segnata: costretta ad assistere allo sfaldamento del suo impero e stretta
nella morsa spartana, con l’esercito alle porte e la flotta di Lisandro davanti al Pireo, non
può fare altro che arrendersi, dopo uno sterile tentativo dei bellicisti che fallisce di fronte alla
sempre più grave scarsità di viveri.
I vincitori non infieriscono sulla città, respingendo la proposta di una sua distruzione fatta da
Tebani e Corinzi. Ma la condizioni della resa sono ugualmente durissime: Atene deve
rinunciare alla sua lega e ai possedimenti esterni all’Attica, aderire alla symmachìa spartana,
consegnare la flotta, ad eccezione di 20 triremi, e smantellare le lunghe mura e le
fortificazioni del Pireo. Nel marzo del 404 Lisandro fa il suo ingresso trionfale al Pireo.
Dopo 27 anni, il conflitto si conclude con la disfatta della potenza di Atene. Ma la sua caduta,
lungi dall’essere un evento foriero di libertà per i Greci, apre la strada ad un nuovo, brutale
dominio, quello di Sparta.

La fine del V secolo

I. Dopo la fine della guerra del Peloponneso, anche Sparta si mostra ben poco
rispettosa dell’autonomia delle poleis alleate, cui tende a imporre il proprio modello
politico. Diventa frequente l’instaurazione di regimi oligarchici (decarchie), affidati a
comitati di dieci membri di provata fedeltà e rafforzati dalla presenza di guarnigioni
spartane il cui mantenimento grava sulle popolazioni locali.
Anche ad Atene, sebbene il trattato di pace non preveda un cambio di costituzione, si creano
le condizioni per un nuovo regime dopo quello del 411. Sono sempre gli oligarchici a
prendere l’iniziativa, sostenuti da Lisandro. Capeggiati da Teramene e da Crizia, un
aristocratico ultraconservatore, riescono, ancora una volta in modo legale, ad ottenere il
potere: in un’assemblea dell’aprile 404 il demos approva l’istituzione di una commissione
legislativa di trenta membri, col compito di restaurare la Costituzione degli antenati.
Comincia un periodo buoi per Atene. I Trenta, infatti, restaurano le competenze
dell’Areopago, limitano i diritti politici a 3000 cittadini scelti tra i loro sostenitori e instaurano
un regime di vero e proprio terrore, con l’uso sistematico della violenza nei confronti degli
avversari e di chiunque venga anche solo sospettato di simpatie democratiche, siano
Ateniesi o meteci (soggetti di condizione libera che risiedono temporaneamente o
stabilmente in una polis diversa da quella di origine senza godervi del diritto di cittadinanza).
In pochi mesi, ben 1500 persone vengono giustiziate, giustificando così la denominazione
di regime dei Trenta Tiranni che viene data a questo periodo nelle fonti.
La reazione a tale brutalità non tarda, e ha inizio in un Paese prima nemico, la Beozia. Un
piccolo gruppo di esuli, guidati da Trasibulo, che ha trovato rifugio a Tebe, nell’autunno del

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404 occupa la fortezza di File, al confine con l’Attica, e da lì intraprende la lotta contro gli
oligarchi. Nella primavera del 403, con le sue milizie nel frattempo ingrossatesi, Trasibulo
può sferrare l’attacco decisivo: impadronitosi del Pireo, affronta il nemico presso la collina
di Munichia, dove le truppe dei Trenta vengono sconfitte e lo stesso Crizia muore sul campo.
Con la sua morte, il regime da lui creato non sopravvive, e i Trenta sono costretti a rifugiarsi
a Eleusi, mentre il potere viene affidato a un nuovo comitato oligarchico di dieci membri.
Il nuovo governo chiama in aiuto Lisandro, che arriva in forze ad Atene. A risolvere la
situazione intervengono i dissensi interni agli Spartani: il re Pausania II, infatti, preoccupato
dalla crescente influenza di Lisandro, arriva con altre truppe e, invece di unire le forze per
combattere Trasibulo, si accorda con lui nell’ottobre 403. In cambio del mantenimento
dell’alleanza con Sparta e dell’amnistia per gli Ateniesi compromessi con l’oligarchia (ad
eccezione dei Trenta e dei Dieci), Trasibulo può fare ritorno ad Atene e restaurarvi la
democrazia.
Quella che viene ripristinata è fondamentalmente la stessa democrazia della fase
precedente, con qualche significativa differenza: dopo due colpi di Stato oligarchici
formalmente legali, si avverte l’esigenza di un maggiore controllo sui meccanismi legislativi,
così, mentre all’assemblea rimane il compito di emanare decreti, cioè provvedimenti
contingenti e limitati, l’approvazione di vere e proprie leggi è affidata ad appositi collegi di
legislatori (nomoteti) formati da giudici dell’Eliea.
Anche la rinata democrazia, però, non è immune dai risentimenti. Ne fa le spese il grande
Socrate, che, pur non essendo coinvolto nel regime dei Trenta, è malvisto da una parte
consistente della pubblica opinione per le critiche ai valori tradizionali e al regime
democratico. Nel 399 è processato per corruzione della gioventù e per non onorare gli dei
e viene condannato a morte, che egli accetta serenamente, convinto della necessità di
rispettare le leggi dello Stato.
II. Una delle caratteristiche più rilevanti del periodo successivo alla fine della guerra del
Peloponneso è il forte sviluppo dell’uso di milizie mercenarie, che col tempo
diventeranno la componente principale degli eserciti greci. Le cause di questo
sviluppo vanno cercate nell’affermarsi di nuove e complesse tattiche di
combattimento, che richiedono l’impiego di forze professionali e specializzate. A ciò
va aggiunto il processo di diffusa proletarizzazione conseguente il conflitto: a causa
della sua durata quasi trentennale, si viene a creare una massa di sradicati cui non
rimane che l’attività militare come fonte di sostentamento. La figura del cittadino-
soldato viene così progressivamente sostituita dal militare di professione, che
combatte dietro compenso, cosa che rappresenterà un nuovo e gravoso onere per le
città greche.
L’importanza del mercenariato emerge con chiarezza da un’impresa della fine del V secolo,
la cosiddetta spedizione dei Diecimila. Alla base, vi è una vicenda di contesa dinastica
all’interno della famiglia achemenide: diventato re Artaserse II alla morte del padre Dario, il
fratello Ciro, che vuole spodestarlo, si serve dei suoi rapporti con Sparta per mettere insieme
un esercito di diecimila mercenari greci che, al comando dello spartano Clearco,
intraprendono la loro marcia da Sardi nel 401. Sull’impresa abbiamo la testimonianza di uno
dei protagonisti, l’Anabasi dello storico Senofonte. Le difficoltà iniziano con lo scontro con
l’esercito del re presso Cunassa, dove, nonostante la vittoria dei Greci, muore Ciro,
trasformando così la spedizione in una drammatica ritirata. Tuttavia, i mercenari superano

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brillantemente le difficoltà e riescono ad arrivare sulle coste meridionali del Mar Nero, da
dove raggiungono Bisanzio. Assoldati prima da un dinasta tracio, da cui però non vengono
pagati, i mercenari accettano infine la proposta di arruolamento del comandante spartano
Tibrone, e nel 399 tornano in asia a combattere i Persiani.
La vicenda ha importanti ripercussioni: da un lato, ha messo in luce le capacità dei mercenari
greci, dall’altro, ha mostrato la sostanziale debolezza dell’impero persiano, la cui conquista
inizia per la prima volta ad apparire possibile ai Greci.
III. Con la spedizione dei Diecimila, i rapporti tra Sparta e i Persiani cambiano
inevitabilmente. Il sostegno dato a Ciro incrina l’intesa tra le due parti, e a ciò si
aggiunge il fatto che le città greche d’Asia contano proprio su Sparta, potenza
egemone, come garante della loro autonomia contro la minaccia persiana. Infatti,
quando nel 400 il satrapo Tissaferne ne pretende l’immediata sottomissione, le poleis
ioniche si rivolgono a Sparta, che invia nello stesso anno un esercito di 5000 unità al
comando di Tibrone.
I risultati di Tibrone sono modesti. Più proficui sono quelli ottenuti dal suo successore,
Dercillida, ma è soprattutto con Agesilao che la strategia di Sparta diventa maggiormente
incisiva. Diventato re nel 399, Agesilao si rivela un abile condottiero: arrivato in Asia Minore
nel 396 alla testa di un esercito di 8000 uomini, indirizza la sua offensiva verso Sardi, dove
sconfigge le forze di Tissaferne.
A mettere in difficoltà gli Spartani intervengono gli avvenimenti della madrepatria, dove il
malcontento generato dalla politica imperialista della nuova potenza. Su ciò contano i
Persiani per indurre gli Spartani a lasciare l’Asia Minore. Dopo i contatti allacciati con Atene
con la nomina di Conone ad ammiraglio della flotta persiana, nel 397, viene ora inviato in
Grecia un emissario fornito di cospicui mezzi finanziari per fomentare una rivolta contro
Sparta. I risultati non tardano: nel 395, l’intervento di Tebe in una contesa tra Focesi e
Locresi costringe Sparta ad impegnarsi in un nuovo conflitto, la cosiddetta guerra di Corinto.
Per la politica spartana, a questo punto, la difesa delle città micrasiatiche non sarà più un
obiettivo prioritario.
IV. In Occidente, la fine del V secolo costituisce una fase piuttosto travagliata, e si
verificano i primi casi di decolonizzazione. In Magna Grecia, la formazione di due
nuovi gruppi sannitici, i Campani ed i Lucani, ha gravi conseguenze per le poleis
greche, varie delle quali subiscono, oltre alla conquista e all’occupazione, anche la
perdita dell’identità culturale. Una sorte del genere tocca a Cuma, a Poseidonia e a
Laos. Solo Elea riesce a resistere.
Anche in Sicilia la situazione è turbolenta: l’isola è oggetto dell’aggressione cartaginese.
Tutto nasce dall’ennesimo scontro tra Selinunte e Segesta. La città elima chiama in
soccorso i Cartaginesi che, stavolta, decidono di intervenire e inviano un grosso esercito in
Sicilia occidentale. Le truppe puniche mettono sotto assedio Selinunte, che viene infine
conquistata e distrutta. Analoga sorte tocca a Imera.
Con il ritiro dei Cartaginesi, tuttavia, i problemi per le poleis siciliane non sono finiti. Causa
del ritorno dei punici è il siracusano Ermocrate, che, desideroso di tornare in patria, da cui
è stato bandito dal regime democratico-radicale al potere, stabilitosi con la sua milizia a
Selinunte, cerca di accreditarsi come campione della lotta anticartaginese, effettuando una

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serie di incursioni nel territorio della Sicilia occidentale sotto il controllo punico. La risposta
dei cartaginesi non si fa attendere, anche se Siracusa cerca di scongiurare l’intervento
sconfessando Ermocrate. Nel 406 un nuovo esercito sbarca sull’isola. La prima città ad
essere conquistata e saccheggiata per prima, dopo otto mesi di assedio, è Agrigento. L’anno
dopo è la volta di Gela e di Camarina. La minaccia si avvicina a Siracusa.
Qui nel frattempo si è verificato un cambiamento di rilievo: l’istituzione di un regime tirannico
ad opera di Dionisio, che è riuscito a farsi nominare stratego con pieni poteri dal demos
proprio sfruttando il pericolo punico. È con Dionisio che il comandante cartaginese Imilcone,
messo in difficoltà da una pestilenza che ha colpito le sue truppe, avvia trattative di pace. Si
arriva così, alla fine del 405, alla stipula di un trattato che stabilisce che la Sicilia occidentale
sia sotto il dominio dei Cartaginesi e le città precedentemente conquistate siano loro
tributarie, ma Dionisio ottiene il riconoscimento della sua signoria su Siracusa. E sarà
proprio il tiranno a far sì che la pace si di breve durata.

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IL IV SECOLO

L’egemonia spartana

I. Dopo aver sconfitto Tissaferne, Agesilao rifiuta un compromesso con l’inviato del
Gran Re, che gli aveva proposto l’autonomia dei Greci d’Asia in cambio del
versamento dei tributi al re persiano, e si sposta nella Troade per preparare un
attacco alla Cappadocia, allo scopo di interrompere i collegamenti tra le satrapie
dell’Asia Minore e il Gran Re.
II. Per impedire ad Agesilao di portare a compimento i suoi progetti di conquista in Asia,
i Persiani, come detto, fecero in modo di spingere i governanti di Tebe, Corinto e
Argo ad entrare in guerra contro Sparta, la cosiddetta guerra corinzia. Guerra nella
quale, nel 395, durante un attacco alla Beozia, trova la morte Lisandro.
Nonostante alcuni iniziali successi, gli Spartani vengono sconfitti in mare, nelle acque di
Cnido, nel 394 dalla flotta persiana guidata da Conone e dal satrapo di Frigia Farnabazo. Il
crollo del dominio del mare da parte di Sparta dopo dieci anni, determinò la cacciata delle
truppe di occupazione dalle città greche d’Asia.
Un ulteriore colpo all’egemonia spartana fu dato, nel 392, da ciò che avvenne in
Peloponneso. A Corinto, infatti, si decise di fondere la città con la vicina Argo, con lo scopo
costituire un’entità sovracittadina capace di resistere alle pressioni spartane. È questo
sinecismo il primo sintomo di una tendenza che si affermerà sempre più negli anni
successivi, cioè superare i limiti della polis tradizionale. Altro evento che mise in evidenza
la crisi anche militare di Sparta (e della polis classica) fu la sconfitta inflitta ai suoi opliti, alla
fine del 392, dalle truppe ateniesi armate alla leggera. I peltasti (da pelte, un piccolo scudo
a forma di mezzaluna e anima di vimini ricoperta di cuoio) hanno il loro vantaggio proprio
negli scudi leggeri, nelle lance corte e nei giavellotti. Un’epoca intera tramontava.
III. Poiché la guerra non trovava uno sbocco militare, si rendeva necessario trovarne
uno di carattere politico e diplomatico. Nel 392/391 Sparta convoca un congresso per
aprire delle trattative di pace basate sul principio dell’autonomia delle città del
continente, ma argo, Corinto e Atene vi si oppongono. Il Gran Re, da principio,
riafferma la sua vicinanza agli Ateniesi, ma alla lunga si convince che è più
conveniente per la Persia trovare un accordo con Sparta. Accordo che tendesse a
preservare lo statu quo nel mondo greco, oltre che gli interessi dei Persiani in Asia
Minore.
Così, nel 388, Artaserse invia di nuovo Tiribazo a Sardi (dopo che qualche anno prima lo
aveva sostituito col filoateniese Struta), mostrando di avere cambiato atteggiamento verso
gli Spartani. Nel 387, infatti, Tiribazo convoca a Sardi le parti in guerra per illustrare i termini
in base ai quali il Gran Re riteneva fosse possibile ristabilire la pace. Tali termini
prevedevano che tutta l’Asia continentale, comprese Cipro e Clazomene, appartenesse alla
Persia e che le città greche fossero autonome. Questa pace, conosciuta come “pace del
re”, era una sorta di compromesso tra le aspirazioni persiane di dominio dell’Asia e quelle
spartane di non creare organizzazioni statali che andassero al di là della polis.

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Alla fine, tutte le città greche accettarono la pace (anche perché Artaserse minacciava di
muovere guerra a chiunque vi si fosse opposto). Argo e Corinto dovettero mettere fine alla
loro unione, e solo Sparta si poteva ritenere soddisfatta, illudendosi che, grazie alla ritrovata
intesa coi Persiani, potesse recuperare l’egemonia perduta e mettere fine alle tensioni
interne al mondo greco.
IV. Come detto, dopo la pace del 405, in Sicilia Cartagine dominava quasi tutta l’isola,
mentre a Siracusa era al potere Dionisio.
Egli si preoccupò dapprima di rafforzare la propria posizione all’interno della città, separando
Ortigia con la costruzione di un muro. Quindi, per ricostituire una sfera d’influenza
siracusana nell’area etnea, attaccò Erbesso, Nasso e Catania, mentre la popolazione di
Leontini fu trasferita a Siracusa. Ma, per riaffermare la potenza siracusana, occorreva
rompere la tregua e fare guerra a Cartagine, ragion per cui Dionisio ampliò il Porto Grande,
rafforzò le Epipole costruendo la fortezza di Eurialo, e allestì una flotta.
La guerra contro Cartagine inizia nel 397, e all’inizio Dionisio costringe i Cartaginesi ad
indietreggiare fino all’estremità occidentale della Sicilia. Ma in seguito, l’offensiva di Imilcone
porta l’esercito punico fino alle porte di Siracusa. Dionisio viene salvato sia da un’epidemia
che si diffonde tra i Cartaginesi, sia dall’aiuto che gli porta Sparta. La pace del 392 gli
assicura, alla fine, un dominio su quasi tutta l’isola, ad eccezione della parte nord-
occidentale.
A questo punto, Dionisio comincia un’azione di espansione imperialistica verso la penisola
italica. Qui ha buoni rapporti con Locri, che gli dà in sposa Doride, figlia del più illustre
cittadino. Le nozze (doppie, perché in patria sposa lo stesso giorno anche una nobile
siracusana) hanno lo scopo di creare un legame territoriale, grazie al quale Dionisio
conclude accordi con Messina. Reggio, invece, è profondamente avversa alle tendenze
egemoniche del tiranno e, proprio per impedirle, si pone alla testa della lega italiota,
alleanza militare creata tra una serie di poleis magno-greche. Ma nel 388 Dionisio sconfigge
la lega e può così, soprattutto dopo la distruzione di Reggio del 386, costruire uno Stato
territoriale che comprende Sicilia e Calabria. Stato che costituisce il primo esempio di Stato
territoriale che si costruisce attorno ad una polis egemone.
Dionisio cerca di spingersi anche nell’Adriatico e nel Tirreno, anche se si limita a fondare
alcune colonie: sull’Adriatico gli si attribuiscono le fondazioni di Lisso, Issa e Faro, sulla
costa illirica, mentre nel Tirreno crea solo una base in Corsica e stringe accordi con
popolazioni celtiche in funzione antietrusca. Nel 379 comincia un nuovo scontro con
Cartagine, che portò alla sconfitta di Dionisio nel 375. Pare poi che abbia iniziato una quarta
guerra contro i Cartaginesi nel 367, ma il tiranno muore nell’inverno dello stesso anno. Con
Dionisio, scompariva un personaggio che aveva saputo mettere Siracusa al centro
dell’attenzione del mondo greco.
V. Il successore di Dionisio fu il figlio della moglie locrese, Dionisio il Giovane, cosa non
gradita dal versante siracusano della famiglia, che aveva in Dione (fratello della
moglie siracusana) il personaggio di maggior spicco. Il nuovo dinasta si mosse nel
solco della tradizione paterna, ma l’ambiguità della situazione istituzionale creò ben
presto problemi: da un lato l’ala “dura”, rappresentata dallo storico Filisto, sostenitore
della tirannide, dall’altra Dione, che invitò Platone a Siracusa, favorevole ad una sorta
di governo “aristocratico illuminato”. Prevalse l’ala dura e Platone e Dione vennero

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cacciati dalla città. Ma quest’ultimo, nel suo esilio ateniese, preparò un’azione militare
per mettere fine alla tirannide. Riuscì nella sua impresa e penetrò, nel 357, a
Siracusa, dove il popolo si sollevò contro Dionisio, in quel momento in Italia. La
fortezza di Ortigia, dove al suo ritorno si rifugiò Dionisio II, venne assediata e alla fine
capitolò. Dionisio scappò a Locri.
Il potere rimase quindi nelle mani di Dione, che però, a causa della situazione di anarchia
che regnava a Siracusa, fu costretto ad assumere atteggiamenti tirannici, che lo portarono
al rifiuto di qualsiasi discussione e all’eliminazione fisica degli avversari, mentre si disfaceva
lo Stato creato da Dionisio. Fu così che una congiura, ordita nel 354 da Callippo, portò
all’uccisione del filosofo-tiranno.
Negli anni successivi, la situazione di Siracusa peggiorò progressivamente: da Callippo il
potere passò dapprima ai figli siracusani di Dionisio I, poi di nuovo a Dionisio II, rientrato da
Locri. Ma nel 345/344 il tiranno Iceta di Leontini occupò Siracusa, costringendo ancora una
volta Dionisio a rifugiarsi nella fortezza di Ortigia. Qui, dopo un anno di assedio, fu salvato
dal corinzio Timoleonte, finendo i suoi giorni a Corinto.

Dall’egemonia spartana all’egemonia tebana

I. Sparta cercò di approfittarsi della pace del re, utilizzando in maniera strumentale la
difesa del principio dell’autonomia cittadina. Impose lo scioglimento di tutte le leghe,
ad eccezione di quella peloponnesiaca (formalmente fondata sul rispetto
dell’autonomia delle singole città). Nel 385 Mantinea fu frazionata nei villaggi che
l’avevano fondata (dioikismos), e, dopo un intervento contro la lega calcidica, nel 382
il ritorno di un contingente spartano dalla Calcidica fu all’origine di un evento con
gravi conseguenze per Sparta. Lo spartiata Febida, fermatosi in Beozia, occupò a
Tebe la rocca della Cadmea, propiziando l’ascesa al potere nella città della fazione
oligarchica a lui favorevole. Tale palese ingerenza negli affari interni di un’altra città
provocò grande scalpore in tutta la Grecia, tanto da indurre le autorità spartane a
comminare una multa a Febida (ma allo stesso tempo lasciarono una guarnigione a
presidiare l’acropoli tebana e mandarono in esilio i democratici).
La situazione andò avanti per un certo tempo, ma ad Atene si era preoccupati per l’attivismo
spartano e gli Ateniesi accolsero quindi con favore gli esuli tebani. E proprio da Atene prese
le mosse Pelopida, un esule che, d’accordo con alcuni cittadini ribellatisi al governo
oligarchico, penetrò di notte a Tebe, uccise i principali esponenti filospartani e con l’aiuto
del popolo in armi scacciò la guarnigione spartana. Il nuovo governo era ben visto da Atene,
che concluse con Tebe un’alleanza. Dopo il fallimento dei tentativi di rioccupare Tebe, gli
Spartani andarono incontro ad una rovinosa sconfitta ad opera dei Tebani nel 375 a Tegira.
II. Atene cercò di rafforzare la propria posizione proclamando, nel 377, la nascita di
un’alleanza tra città. Tale alleanza, per sfuggire ai divieti della pace del re, si
presentava nella forma di una serie di accordi bilaterali tra Atene e altre città. Il
decreto prevedeva che all’alleanza non potesse partecipare alcuna città
appartenente all’impero persiano. Inoltre, era difensiva e rispettosa dei principi della
pace del re. Infatti, per distinguere questa seconda symmachìa dalla prima, fondata

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da Aristide, si pensò di dare ai tributi il nome di syntaxeis (contribuzioni), invece del


tradizionale phoroi. Il solo elemento polemico era dato da un attacco alla politica
aggressiva di Sparta all’ombra della pace del re: uno degli obiettivi era infatti quello
di fare in modo che gli Spartani lasciassero vivere i Greci liberi e autonomi.
E proprio il timore che Sparta volesse approfittare della sua posizione privilegiata può
spiegare il successo di questa nuova lega e l’accrescersi di adesioni (nelle fonti letterarie si
parla di 78 alleati). Adesioni che arrivavano da tutte le parti della Grecia (dalle Cicladi alla
Calcidica, dalla Tracia al mar Ionio) e che avvennero anche grazie all’attivismo militare di
generali ateniesi quali Timoteo e Cabria, che ricostruirono la flotta e ottennero un’importante
successo sugli Spartani nella battaglia navale di Nasso nel 376.
Il diffuso sentimento antispartano preoccupava il Gran Re, che non vedeva di buon occhio
la continua diminuzione del prestigio della sua principale alleata. Era necessario ritrovare lo
spirito che aveva condotto alla pace del re, e a tal fine Artaserse mandò i suoi ambasciatori
nelle città greche. Si tenne a Sparta, nel 375, un congresso in cui venneriaffermata la
necessità del rispetto delle clausole di una pace comune, basata sui principi fondamentali
della libertà ed autonomia delle città greche. Poiché gli affetti di tale accordo tardarono a
manifestarsi, si dovette ricorrere ad un rinnovo nel 371.
Ma nel 371 Tebe, per bocca del suo leader Epaminonda, rifiutò di accettare i termini della
pace comune, sostenendo che la Beozia non poteva permettere lo scioglimento della
confederazione beotica. Tale posizione creava problemi non solo a Sparta, ma anche ad
Atene. I rapporti tra la città attica e Tebe, d’altronde, si erano raffreddati, al punto che, nel
373, i Tebani distrussero Platea, tradizionale alleata ateniese.
III. Il fatto che Tebe volesse giurare a nome di tutti i Beoti, era chiaramente la ricerca del
riconoscimento della propria egemonia ed un’aperta sfida a tutte le poleis che
avevano accettato le clausole della pace comune, in particolare Sparta, che decise
una spedizione contro Tebe, sotto il comando del re Cleombroto. Gli Spartani si
scontrarono coi Tebani presso la pianura di Leuttra, nel 371, venendo sconfitti da
Epaminonda, che applicò una nuova tattica, quella della “falange obliqua”. Tale
tattica sostituiva all’attacco da della destra sulla sinistra del nemico quello della
sinistra alla destra, disponendo di truppe più leggere e veloci e di una grande capacità
di sfondamento.
La sconfitta di Sparta segnò l’inizio del suo inarrestabile declino. Le difficoltà aumentarono,
per la città lacedemone, quando Epaminonda decise di portare la guerra in Peloponneso.
La sua prima spedizione, nel 370, permise ai Beoti di arrivare fino in Messenia, liberando gli
iloti esseni e fondando la nuova città di Messene, dove distribuì la terra tra i cittadini messeni
superstiti. A tutto questo si aggiunsero poi i sollevamenti di alcune città peloponnesiache
che portarono all’instaurazione di governi democratici. Si formò pure la lega arcadica, che
riuscì a resistere agli attacchi spartani anche grazie all’aiuto di Epaminonda e fondò la città
di Megalopoli, capitale del nuovo koinon risultata dalla fusione di venti villaggi preesistenti.
I successi di Epaminonda fecero capire che la nuova politica tebana era un pericolo per gli
equilibri esistenti nel mondo greco. Atene arrivò a concludere un’alleanza con Sparta, nel
369, in funzione antitebana. D’altra parte, gli interessi tebani andavano al di là del
Peloponneso.

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Nel 370, la morte di Giasone di Fere, colui che aveva unificato la Tessaglia, creò un vuoto
di potere che dava a Tebe la possibilità di estendere la propria influenza. Infatti, contro
l’erede di Giasone Alessandro si formò una coalizione sotto la guida della città di Larissa,
che chiese aiuto ai Tebani. Pelopida, che voleva cogliere l’occasione per mettere sotto il
proprio controllo l’Anfizionia delfica, intervenne nel 369 in Tessaglia e, per favorire l’ascesa
al trono di Macedonia di Alessandro II contro di Tolomeo di Aloro, riuscì a imporre ai due
una tregua. Ma l’anno successivo fu di nuovo chiamato in Tessaglia perché Alessandro di
Fere creava divisioni fra le città. Nel frattempo, Tolomeo uccise Alessandro II e divenne
reggente in nome dei due fratelli dell’ucciso, Perdicca e Filippo, appoggiati dagli Ateniesi.
Pelopida approvò il nuovo sovrano per evitare interferenze ateniesi nella successione al
trono, ma fu fatto arrestare da Alessandro di Fere sulla via del ritorno a Tebe.
Qui la classe dirigente si trovava in difficoltà, dal momento che cresceva il numero degli
oppositori alla nuova politica aggressiva della polis. La situazione si raddrizzò nel 367,
quando Epaminonda riuscì a liberare Pelopida, facendo così in modo che potesse
riprendere il progetto di rendere Tebe il principale punto di riferimento del mondo greco.
Per fare ciò, tuttavia, era necessario trovare un accordo con la Persia, il cui appoggio
(politico e finanziario) era indispensabile per qualunque città greca che avesse ambizioni
egemoniche. A tal fine, nel 367 Pelopida si recò a Susa per avere dal Gran Re il
riconoscimento di Tebe come la città con cui si doveva discutere e trattare per il
mantenimento della pace comune. Pur ottenendolo, i Tebani non riuscirono a far ratificare
agli altri Greci gli accordi con la Persia. Ai leader della città, però, era chiaro che per
affermare Tebe bisognava rafforzarla dal punto di vista militare. Si spiegano così due
iniziative di Epaminonda in quel periodo. In primo luogo, con l’aiuto finanziario della Persia,
costruì una flotta per contendere ad Atene il dominio sul mare. In secondo luogo, ritenne
necessario effettuare una nuova spedizione in Peloponneso per stabilire un’alleanza con le
città achee. Dapprima, visto il tasso di conflittualità di tali popolazioni, preferì lasciare al
potere il gruppo oligarchico, ma, vista la violenta opposizione, fu costretto ad imporre con la
forza agli Achei un governo democratico. Quando poco dopo gli oligarchi tornarono al
potere, l’alleanza tra Achei e Tebani si ruppe.
Anche Tebe, quindi, trovava difficoltà a costruire un sistema di alleanze che desse stabilità
al mondo greco. Si rivelò un fallimento quasi totale il tentativo di rinnovo della pace comune
con un congresso a Tebe nel 366. Ma per riuscire ad imporsi, era necessario che la città
beotica continuasse nella sua politica interventista. Perciò i Beoti si mostrarono pronti a
rispondere ad una richiesta di aiuto delle città tessale che combattevano contro Alessandro
di fere. Nel 364 Pelopida fu inviato nuovamente in Tessaglia per chiudere la partita col
tiranno. La battaglia decisiva avvenne a Cinoscefale e si concluse con la vittoria dei Beoti,
ma Pelopida morì a causa delle ferite riportate. Con lui, Tebe perdeva una delle punte di
diamantedella sua politica.
Altro punto delicato era il Peloponneso. Un conflitto nato all’interno della lega arcadica, tra
la città di Mantinea che voleva rientrare nell’orbita spartana e le città di Tegea e di
Megalopoli, portò, nel 362, alla quarta discesa di Epaminonda. La battaglia fra i due
schieramenti si tenne presso Mantinea, e fu vinta da Epaminonda utilizzando un’altra volta
la tattica della “falange obliqua”, ma egli stesso fu colpito a morte da una lancia. Con la
perdita anche di Epaminonda, Tebe non sarà più in grado di proporsi come polis egemonica.
Era giunto il tempo per un’altra protagonista, al di fuori del mondo delle poleis.

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L’ascesa della Macedonia

I. Il territorio governato dagli Argeadi comprendeva le pianure circondate da monti che


si estendevano attorno al corso dei fiumi Haliacmon e Axios. I suoi abitanti, a chi li
guardava dalle coste, apparivano dunque come i “montanari” (makednoi). I Greci
loro contemporanei, inizialmente, li consideravano barbari, mail fatto che la casa
regnante si considerava originaria di Argo nel Peloponneso e discendente da un
ramo degli Eraclidi, i Temenidi, fece sì che nel V secolo fosse riconosciuta ai
Macedoni l’appartenenza alla stirpe greca.
Il primo monarca di cui si abbia certezza storica è Aminta I, che, all’epoca della spedizione
scitica di Dario I diventò suo vassallo. Ma è il figlio di Aminta, Alessandro I, la figura di
maggior rilievo in questo primo periodo. Nonostante certi caratteri di ambiguità che lo
portarono a schierarsi dalla parte del Gran Re all’epoca delle guerre persiane e
contemporaneamente a cercare di staccare gli Ateniesi dal resto dei Greci, riuscì ad
acquistarsi un buon nome, che lo portò ad ottenere il titolo di prosseno e benefattore degli
Ateniesi e l’appellativo di Filelleno: grazie a questo, fu il primo Macedone a partecipare a
Giochi olimpici. Al suo regno si fanno risalire anche importanti riforme militari, che portarono
alla formazione di una fanteria a piedi formata dai contadini (pezhetairoi), affiancata alla
tradizionale cavalleria dei nobili (hetairoi). Con la sua politica espansionista, poi, si trovò a
possedere le miniere d’argento del Pangeo e dello Strimone, cosa che gli permise di coniare
le prime monete macedoni.
Il figlio di Alessandro, Perdicca II, provò a cercare una posizione di equilibrio all’epoca della
guerra del Peloponneso. Il suo successore Archelao si caratterizzò per la grande apertura
culturale al mondo greco. Alla morte di Archelao ci fu una fase di lotte dinastiche che terminò
nel momento in cui divenne re Aminta III (393-370). Dopo il suo lungo regno, in cui si trovò
a combattere con Sparta contro la lega calcidica e nello stesso tempo ad aderire alla lega
navale ateniese, si aprì una nuova fase di turbolenze che coincise circa col breve periodo
di egemonia tebana, come si è visto. Quando diventò reggente Tolomeo di Aloro, in nome
di Perdicca III, quest’ultimo, con l’aiuto ateniese, riuscì a sbarazzarsi del reggente
diventando re fino al 359, quando morì in una spedizione contro gli Illiri dopo essere entrato
in contrasto con Atene a proposito di Anfipoli.
II. Il figlio più giovane di Aminta III, Filippo di Macedonia, alla morte di Perdicca assunse
il potere come tutore del giovane nipote Aminta. Egli trovò subito una situazione
difficile, sia dal punto di vista interno, dove c’erano altri pretendenti al trono, sia
esterno, a causa delle pressioni esercitate da Illiri, Peoni e Traci. La sua azione,
tuttavia, fu decisa: da un lato, occupò la Lincestide, annettendola al regno, dall’altro,
si impadronì di Anfipoli. Un deciso carattere espansionistico, quindi, volto a contenere
le tribù barbariche che premevano ai confini e all’occupazione dell’area traco-
macedone su cui da tempo Atene cercava di estendere la propria influenza.
Tale politica aveva il suo fondamento nella crisi che colpì la lega navale ateniese negli anni
tra il 357 e il 355. Crisi partita dalla ribellione di tre isole dell’Egeo (Chio, Rodi e Cos) e che
si estese a Bisanzio: queste città volevano formare un koinon a parte, e trovarono sostegno
in un’analoga rivolta scoppiata in Asia Minore, dove un gruppo di satrapi cercava di
conquistare autonomia dal potere centrale persiano. La guerra che ne era nata (guerra

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sociale), si risolse, per Atene, in una serie di insuccessi: un attacco al porto di Chio fallì,
come pure il tentativo di impadronirsi di Bisanzio, e le truppe ateniesi furono costrette alla
ritirata dagli avversari in uno scontro che ebbe luogo a Embata, in Asia Minore. Alla fine del
biennio di scontri, Atene, costretta a riconoscere il distacco delle città ribelli dalla lega, si
trovava estremamente indebolita e a capo di un koinon che ormai comprendeva solo le
Cicladi, l’Eubea e l’Egeo settentrionale.
III. Nel momento in cui Filippo assediava Metone, in Grecia centrale scoppiò una guerra
per il controllo dell’Anfizionia delfica. Nella primavera del 356 i Tebani spinsero il
consiglio delfico a condannare con una multa i Focesi, per aver coltivato la terra sacra
di Cirra, e gli Spartani, per aver attaccato la Cadmea nel 382. I Focesi risposero
occupando il santuario delfico con Fliomelo, riprendendo il controllo dell’Anfizionia.
Filomelo fu sconfitto dai Beoti, e a succedergli alla testa dei Focesi fu Onomarco.
Nel frattempo, la guerra si allargava, allorché i signori della Tessaglia si divisero tra quelli
che si allearono con Onomarco e quelli che chiesero aiuto a Filippo. Ciò dava alla
Macedonia la possibilità di inserirsi a pieno titolo nel gioco politico e diplomatico greco.
Filippo approfittò subito di tale opportunità e, dopo due sconfitte, inflisse ad Onomarco una
completa disfatta nella pianura adiacente il golfo di Panage, nel 352. Questa vittoria lasciò
la Tessaglia nelle mani del Macedone. Filippo preferì rinunciare, per il momento, ad
affrontare le poleis greche.
La sua attenzione si rivolse all’Egeo settentrionale a all’area degli Stretti. Ma la sua azione
fu volta essenzialmente a regolare i conti con la lega calcidica, prendendo a pretesto
l’appoggio di questa ad un suo rivale pretendente al trono. Prima fu distrutta Stagira, poi fu
assediata Olinto, che, nonostante l’invio di tre spedizioni ateniesi in aiuto, fu costretta ad
arrendersi e rasa al suolo nel 348. Anche le altre città della Calcidica si arresero e si
consegnarono a Filippo.
La vittoria di Filippo, oltre ad allargare il regno macedone, aveva cambiato lo statu quo del
mondo greco. Era dunque necessario che una nuova fase diplomatica sancisse i nuovi
equilibri politici. A tal fine, una delegazione ateniese, di cui facevano parte Demostene,
Eschine e Filocrate, si recò a Pella, nel 346, per iniziare le trattative di pace. Filippo chiese
il riconoscimento della nuova situazione e l’esclusione dagli accordi della Focide.
Quest’ultima condizione era inaccettabile per gli ateniesi, tradizionali amici dei Focesi, ma,
prima che la pace (conosciuta come “pace di Filocrate”) fosse ratificata, Filippo riuscì a
chiudere i conti coi nemici focesi nel 346: con un’azione militare fulminea occupò il passo
delle Termopili, ingiungendo ai Focesi di lasciare Delfi e imponendo loro un trattato di
capitolazione che li costringeva a pagare una multa e a dissolvere le loro città in villaggi
(diecismo); infine, prese per sé i due voti che spettavano al dissolto koinon focese. In
questo modo Filippo era riuscito ad inserirsi in uno dei punti nevralgici del mondo greco. A
partire da questo, egli avrebbe costruito il proprio progetto egemonico su tutta la Grecia.
Alcuni intellettuali (Eschine, Isocrate) vedevano in lui l’uomo del futuro, che avrebbe riportato
la pace tra i Greci e li avrebbe portati ad abbattere l’impero persiano per trovare in Asia le
ricchezze che non riuscivano più a ottenere in patria, altri, come Demostene, si rendevano
conto delle potenzialità eversive che la figura di Filippo aveva rispetto agli equilibri
tradizionali del mondo greco.
IV. Il problema principale di Filippo era costituito dai rapporti con Atene. Nel 344
Artaserse III cercò di entrare in contatto con gli Ateniesi promettendo aiuti contro

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Filippo, ma, sebbene ci fossero coloro che, come Demostene, erano propensi ad
accettare la proposta persiana, i gruppi filomacedoni riuscirono a farla respingere
dall’Assemblea.
Nel 343 Filippo raggiunse un accordo con la Persia e, mentre pensava a riorganizzare il
territorio in Tessaglia domando una rivolta e ad assicurarsi sicurezza ai confini occidentali
favorendo l’ascesa al trono dell’Epiro del cognato Alessandro il Molosso, perseguì una
politica che prevedeva di attaccare Atene nelle aree di suo più stretto interesse (la Tracia
orientale e l’area degli Stretti, dove attaccò Perinto e Bisanzio e riuscì a catturare una nave
ateniese che trasportava grano, attacco che Atene riuscì a bloccare), sia isolandola dalle
altre poleis (in questo senso vanno viste le simpatie che si guadagnò in Peloponneso tra chi
non voleva un ritorno dell’egemonia spartana e l’instaurazione di governi oligarchici ostili ad
Atene in Eubea).Ad Atene, come detto, c’erano fazioni favorevoli a Filippo, ma, quando egli
sequestrò la nave granaria ateniese, i cittadini infransero la stele con la pace di Filocrate,
ritenendo che ormai fosse inevitabile una guerra. Infatti, Demostene cercava in tutti i modi
di formare una coalizione di città per opporsi alla potenza macedone, riuscendo, nel 340, a
mettere insieme un’alleanza difensiva (la “lega ellenica”) che comprendeva disparati popoli
accomunati dall’avversione ai Macedoni.
In questa situazione di stallo, Filippo ricorse di nuovo all’Anfizionia delfica per mettere Atene
in difficoltà. Quando la città locrese di Anfissa accusò Atene di sacrilegio, Eschine, a sua
volta, accusò gli Anfissei di aver violato le norme del santuario, coltivando la terra sacra di
Cirra. Ora, Anfissa era amica di Tebe e quindi una sua condanna avrebbe assunto un
significato di rottura con la città beotica. Per questo motivo, Atene (come anche Tebe) non
partecipò alle votazioni che si conclusero con la proclamazione della quarta guerra sacra
contro Anfissa. Poiché l’esercito anfizionico non riuscì a far pagare la multa agli Anfissei,
Filippo si fece dare un secondo mandato e occupò la città focese di Elatea. Ciò provocò
grande timore in Atene: si pensava, infatti, che Filippo avrebbe sferrato l’attacco contro la
città. Demostene, ancora una volta, si recò a Tebe per ottenerne l’adesione alla lega
ellenica, e in questo caso ebbe la meglio su Filippo, che tentò inutilmente di mettere le due
città una contro l’altra.
Ma, anche se agli inizi le cose sembravano andar bene, la lega non poté impedire che
Anfissa cadesse nelle mani di Filippo, il quale, dopo la vittoria, occupò Delfi e tornò in Focide,
costringendo gli alleati a ritirarsi in Beozia. E qui, tra l’agosto e il settembre del 338, avvenne
lo scontro decisivo tra i due eserciti, presso Cheronea. Filippo, con il figlio Alessandro,
inflisse alla lega una completa disfatta, dimostrando la sua superiorità militare. La sconfitta
di Cheronea, per molti versi, segnò la fine dell’epoca del predominio della polis classica.
Il grande successo non diede alla testa a Filippo, che trattò con moderazione le città
sconfitte, obbligando Tebe ad accogliere un contingente macedone. La stessa cosa fece in
altri punti chiave della Grecia. Non attaccò Atene, ma cercò di trovare un accordo con essa,
dato che ormai, dopo la fuga di Demostene, erano rimasti maggioritari i gruppi filomacedoni.
Sebbene avesse imposto lo scioglimento della lega marittima e la cessione del Chersoneso
tracico, Filippo non cercava lo scontro con Atene, persuaso che solo uno stretto rapporto
con la città di maggior prestigio culturale gli avrebbe permesso di realizzare la sua massima
aspirazione: essere riconosciuto come legittimo rappresentante degli interessi panellenici.
D’altronde, anche in Atene i sentimenti filomacedoni erano tali che l’Assemblea fece erigere
una statua a Filippo nell’agorà e concesse la cittadinanza al figlio Alessandro. In

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Peloponneso, il re devastò la Laconia, tralasciando però Sparta, ottenendo l’adesione di


tutte le restanti città.
Nel 338, Filippo convocò a Corinto un congresso cui parteciparono tutte le poleis (tranne
Sparta). Il congresso proclamò la pace comune e fu creato un Consiglio di tutti i Greci.
Filippo non ne faceva parte, ma, in caso di guerra, a lui sarebbe stato affidato il comando
dell’esercito greco per terra e per mare. Fu quindi costituita una symmachìa tra il re
macedone e le città greche che aveva carattere difensivo e durata indeterminata. L’anno
successivo, Filippo propose al Consiglio di dichiarare guerra alla Persia. Il Consiglio
approvò.
L’esercito greco varcò l’Ellesponto nella primavera del 336, cogliendo la Persia in un
momento di difficoltà per problemi relativi alla successione di Artaserse III. Ma anche la
Macedonia si trovò improvvisamente in una situazione difficile: qualche mese dopo l’inizio
della spedizione, mentre assisteva nella capitale Ege al matrimonio della figlia Cleopatra
con Alessandro il Molosso, Filippo fu ucciso da un ufficiale della guardia reale. L’assassinio
del riapriva una crisi che avrebbe potuto portare la Macedonia alla guerra civile, data la
tensione esistente all’interno della corte fra le varie consorterie. Infatti, sin da quando, nel
337, Filippo aveva sposato una nobile macedone, Cleopatra, si era creata una rottura tra lui
e la vecchia moglie Olimpiade. Questa tensione si era estesa anche al figlio di Olimpiade,
Alessandro, che temeva che i Macedoni “puri” avrebbero potuto mettere in discussione la
sua pretesa al trono. Ciò ha portato a pensare che dietro l’assassinio di Filippo ci possa
essere stato un complotto ordito da Olimpiade e Alessandro.
Con Filippo, scompariva una figura eccezionale che, in poco più di vent’anni, aveva portato
un Paese fino ad allora periferico e marginale al centro della vita politica greca. D’altra parte,
l’emergere della sua personalità era il sintomo di un profondo cambiamento che investiva
l’intera società greca. Si parla della crisi della polis classica, che aveva avuto i suoi modelli
ideali, da una parte, in Sparta, che, unendo spirito comunitario e autoritarismo, aveva
mantenuto per due secoli circa la leadership del mondo greco, e dall’altra in una Atene
democratica e “liberale”, che aveva saputo costruire una nuova forma di partecipazione
popolare. La crisi di questi due modelli, nel corso del IV secolo, lasciò un enorme vuoto, che
fu in parte colmato dall’affermazione di personalità quali quella di Filippo, portatore di ideali
monarchici e imperiali che attraevano strati popolari in cerca di punti di riferimento.
In Macedonia, infatti, il re esercitava una sorta di potere patriarcale, sebbene limitato dal
controllo che su di lui esercitavano sia i nobili che l’assemblea dell’esercito (anche se questi
limiti, probabilmente, erano abbastanza superficiali).
V. Come visto, nella seconda metà del IV secolo in Sicilia si avviava alla fine la tirannia
dei Dionisii, con Dionisio II assediato in Ortigia dalle truppe del tiranno Iceta di
Leontini, il quale richiese l’intervento di un corpo di spedizione corinzio, che venne
comandato da Timoleonte.
Al suo arrivo, la situazione in Sicilia era alquanto difficile: da una parte, dopo il periodo di
accentramento attorno a Siracusa, si era verificato un processo di frammentazione, con la
nascita di varie tirannidi cittadine, dall’altra, approfittando delle difficoltà in cui si trovava al
momento il mondo greco, i Cartaginesi avevano lanciato una nuova politica espansionistica.
Quando il capo corinzio giunse a Tauromenio, le condizioni che portarono alla sua chiamata
erano cambiate: Iceta, sconfitto Dionisio II e assediatolo, era adesso ostile alla spedizione.

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Ma Timoleonte, dopo aver creato una symmachìa con Tauromenio e altre città, si scontrò
con le truppe di Iceta e le sconfisse. Ciò diede una svolta agli eventi: Dionisio trattò la sua
resa col Corinzio, mentre Iceta, con i Cartaginesi, continuava l’assedio di Ortigia. Le truppe
di Timoleonte, che avevano ricevuto rinforzi dalla madrepatria, si prepararono a muovere
contro di loro. Ma il cartaginese Magone, capo della flotta, intuendo che si preparava
un’intesa tra Iceta e Timoleonte, abbandonò Siracusa e tornò in Africa. Iceta, accordatosi
col Corinzio, gli lascò Siracusa e si ritirò a Lentini.
Impadronitosi di Siracusa, Timoleonte avviò un’attività riformatrice e legislatrice: infatti, lo
Stato territoriale creato da Dionisio I, oltre che essersi frammentato, era povero di uomini.
Così, nel 343, Timoleonte fece rientrare a Siracusa tutti gli esiliati e vi invitò tutti i Sicelioti,
attuando una ridistribuzione delle terre. Inoltre, creò un’alleanza militare tra Siracusa e altre
città. In politica estera, il principale problema era sempre costituito dai Cartaginesi. Nel 339
un esercito punico sbarcò in Sicilia e Timoleonte vi si scontrò nel territorio di Agrigento. Qui,
nonostante l’inferiorità numerica, riportò una schiacciante vittoria.
Il carattere fortemente corinzio e siracusano dato alla celebrazione di tale vittoria, però,
suscitò le rimostranze dei tiranni alleati. Iceta, Mamerco di Catania e Ippone di Messina
ruppero l’alleanza e si allearono coi Cartaginesi. Timoleonte, allora, scelse una nuova
strada: da una parte siglò una pace separata con Cartagine, dall’altra, fece guerra ai tiranni
eliminando prima Iceta e poi gli altri due.
Una volta sedati i contrasti interni all’isola, egli si dedicò alla politica di colonizzazione
panellenica per evitare il pericolo, che da più parti si denunciava: quello che le popolazioni
greche fossero soverchiate demograficamente dai “barbari”. Furono quindi avviati nuovi
insediamenti e ripopolati quelli abbandonati. Timoleonte, poi, diede a Siracusa una
Costituzione di carattere timocratico, basata su un’assemblea e una boulé, presieduta da
un sacerdote di Zeus Olimpio. Nel 337, cieco, abbandonò il potere ritirandosi a vita privata
nella stessa Siracusa.
VI. Anche la Magna Grecia soffriva di problemi simili a quelli della Sicilia. Le città greche,
riunite nella lega italiota, erano infatti in difficoltà a causa delle pressioni esercitate
dalle popolazioni italiche. La polis che qui aveva cercato di esercitare una funzione
egemonica era Taranto, dal 367 governata da Archita. Quando questi morì, la
situazione precipitò e nel 342 Taranto fu costretta a chiedere l’aiuto della
madrepatria. Arrivò dunque un corpo di spedizione da Sparta guidato dal re
Archidamo III, ma venne sconfitto e ucciso in uno scontro con Lucani e Messapi nel
338 a Manduria. Per Taranto la situazione diventò più grave e caotica, e chiese
ancora una volta aiuto alla madrepatria. Ma in Grecia, dopo la vittoria di Filippo a
Cheronea, le cose erano ormai cambiate, per cui l’aiuto non poteva più venire dalle
poleis, ma dalle monarchie emergenti. Fu così che, quattro o cinque anni dopo (334
o 333), Alessandro il Molosso sbarcò in Italia in soccorso alle città greche.
Inizialmente Alessandro ebbe maggior fortuna di Archidamo. Riuscì infatti a sconfiggere
Messapi e Peucezi nel Gargano, liberò Eraclea dai Lucani e si spostò nell’area tirrenica,
scontrandosi vittoriosamente con Sanniti, Lucani e Bretti. A questo punto, Alessandro
concluse un accordo coi Romani, anche loro in conflitto coi Sanniti, e pensò di conquistare
la Sicilia e spingersi in Africa. Ma i suoi successi allarmarono Taranto, che, da un lato,
temeva le conseguenze negative per le città greche della potenza accumulata dal Molosso,
dall’altra si rese conto che era meglio trovare un accordo col mondo italico. Quindi tolsero il

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loro appoggio all’Epirota, mettendolo in difficoltà. Dopo tanti successi, cominciò la parabola
discendente del Molosso, che lo portò ad essere ucciso a tradimento nel 330 da un esule
lucano, mentre il suo esercito veniva sconfitto da Lucani e Bretti. Taranto, una volta uscito
di scena lui, cercherà di stringere accordi con le due popolazioni, ma ormai i “barbari” più
pericolosi erano diventati i Romani.

Alessandro Magno

I. Nato nel 356 dalla quinta moglie di Filippo, la principessa epirota Olimpiade,
Alessandro è destinato a succedere al padre, che lo associa negli affari di governo e
lo fa educare da Aristotele. Come detto, quando Filippo sposa la macedone
Cleopatra i rapporti tra Alessandro e il padre si deteriorano, rischiando di mettere a
repentaglio la sua designazione. La situazione si risolve con l’assassinio di Filippo,
in seguito al quale Alessandro, con l’aiuto di un autorevole esponente della cavalleria,
Antipatro, si sbarazza degli altri pretendenti e si fa proclamare re dall’assemblea
dell’esercito (336).
Fin da subito, il giovane sovrano si trova ad affrontare grossi problemi: i barbari, dopo la
morte di Filippo, premono di nuovo alle frontiere, ragion per cui effettua una spedizione in
Tracia che lo porta fin oltre il Danubio, e subito dopo ad Occidente, contro gli Illiri. Anche in
Grecia vi sono turbolenze, varie poleis, tra cui Tebe e Atene, sono in rivolta.
Ma Alessandro reagisce tempestivamente: dopo soli quattordici giorni si trova a Tebe, di cui
si impadronisce nell’ottobre del 335 facendone decidere le sorti al sinedrio della lega.
Questo decreta la sua totale distruzione, la spartizione del territorio e la vendita in schiavitù
dei superstiti. Avendo così riaffermato la sua autorità, Alessandro tratta con moderazione il
resto delle poleis ribelli, in particolare Atene.
Non avendo più nulla da temere, per il momento, in Grecia, egli può rivolgersi al progetto
che suo padre non poté realizzare: la spedizione contro la Persia.
II. Già dal 336, d’altronde, un grosso contingente macedone è attivo in Asia Minore, e
la scarsa resistenza iniziale dei Persiani, di cui è da poco diventato re il giovane e
inesperto Dario III, convince Alessandro dell’opportunità di continuare l’opera paterna
con una grande spedizione di conquista.
Nella primavera del 334 Alessandro lascia la Macedonia (non vi farà mai più ritorno),
affidando l’incarico di reggente al fido Antipatro, alla testa di un esercito di 37000 uomini.
L’armata si distingue per l’insolita presenza di una corte comprendente, oltre i cancellieri
regi incaricati di redigere un diario della spedizione, indovini, naturalisti, artisti e storici (tra i
quali ha un ruolo di rilievo Callistene di Olinto, che funge da segretario personale).
Alessandro, infatti, dà molta attenzione all’aspetto propagandistico dell’impresa, recandosi
subito dopo l’arrivo in Asia Minore sul sito dell’antica Troia per rendere omaggio alla
presunta tomba di Achille, ribadendo così il significato panellenico della spedizione e
inserendola nella secolare lotta tra Greci e barbari dell’Asia.
Fortunatamente per lui, Dario III lascia che siano i satrapi dell’Asia Minore settentrionale ad
occuparsi della minaccia macedone. Costoro commettono l’errore di sottovalutare

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l’avversario, affrontandolo in battaglia presso il fiume Granico, nella Troade orientale. Qui,
nel maggio 334, Alessandro riporta una prima importante vittoria.
Una volta assicuratosi il controllo dell’Asia Minore settentrionale, egli si dirige a sud lungo la
costa, per privare la flotta persiana delle sue basi d’appoggio. L’accoglienza delle poleis
greche è generalmente positiva: tutte si schierano dalla sua parte (tranne Mileto e
Alicarnasso, che vengono conquistate con la forza). Per poter esautorare le oligarchie filo
persiane, Alessandro è costretto a favorire l’instaurazione di regimi democratici. Ma, per le
città greche, la liberazione dal dominio persiano non significa conquista di autonomia.
Devono infatti subire la presenza di una guarnigione macedone o sono costrette a versare
contributi per le spese di guerra, trovandosi di fatto in una condizione di sudditanza nei
confronti di Alessandro, il quale impone la sua volontà attraverso editti.
Nel frattempo, la spedizione avanza senza grosse difficoltà. Il Macedone si impadronisce
della Caria, della Licia, della Pisidia e della Frigia. A questo punto, Dario III decide di
affrontare direttamente l’invasore. Approntato un grosso esercito, muove verso la Siria
settentrionale, mentre Alessandro, impadronitosi anche della Cilicia, continua l’avanzata
verso sud.
Lo scontro avviene nella piccola pianura costiera di Isso, Siria settentrionale, tra ottobre e
novembre 333. Malgrado la superiorità numerica dei Persiani, Alessandro si impone ancora
una volta, travolgendo lo schieramento nemico, dove si trova anche Dario, il quale, preso
dal panico, ordina la ritirata e si dà precipitosamente alla fuga. Il successo consente ad
Alessandro di impadronirsi della cassa militare persiana e di catturare la famiglia del Gran
Re, rendendo più vicina la conquista dell’impero achemenide.
III. Dopo la vittoria, Alessandro non insegue Dario e preferisce dirigersi verso sud, in
Egitto, per conquistare anche le ultime basi costiere della flotta persiana. L’impresa
viene rallentata dalla resistenza opposta dalla città fenicia di Tiro, che non riconosce
la sovranità di Alessandro e tiene testa per otto mesi all’assedio dei Macedoni. Tiro
è costretta ad arrendersi tra luglio e agosto del 332, e Alessandro, irritato per la lunga
resistenza, la punisce in maniera durissima: fa trucidare circa 8000 cittadini e vende
in schiavitù il resto della popolazione. Analoga sorte tocca a Gaza, assediata per due
mesi.
Nell’inverno del 332 Alessandro entra in Egitto. Il satrapo persiano non oppone alcuna
resistenza e la popolazione, insofferente al dominio persiano, lo acclama come liberatore.
Egli, d’altra parte, diversamente dai Persiani, adotta un atteggiamento di grande rispetto per
le credenze locali, sacrificando subito dopo il suo arrivo a Menfi al toro Apis, perciò gli
Egiziani non hanno difficoltà a riconoscerlo come loro sovrano.
Ma Alessandro non si ferma a Menfi. Agli inizi del 331, nella regione del delta occidentale
del Nilo, fa erigere un insediamento che, grazie alla favorevole posizione, possa diventare
un prospero centro commerciale e portuale. Nasce così Alessandria d’Egitto (la prima di
una lunga serie di fondazioni coloniali che da lui prendono il nome).
Prima di ripartire dall’Egitto, il sovrano ha un altro progetto: recarsi nell’antico santuario di
Ammone, nell’oasi di Siwah nel deserto libico, sede di un oracolo la cui fama era diffusa
anche fra i Greci. Il viaggio di Alessandro è narrato da tutti gli storici con particolari miracolosi
e fantastici, così come favolistici sono i resoconti della visita al santuario, dove Alessandro
avrebbe appreso di essere destinato a dominare il mondo e di essere figlio di Zeus (i Greci

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avevano assimilato Ammone a Zeus). Ovviamente, l’interpretazione dell’episodio è


controversa, ma non è da escludere che la propaganda del sovrano abbia sfruttato il fatto
che il sacerdote si sia rivolto ad Alessandro col tradizionale titolo di figlio di Ammone, in
quanto legittimo successore dei faraoni.
Il re fa ritorno a Menfi, dove definisce l’assetto amministrativo dell’Egitto, e riprende la
campagna contro i Persiani. Dario, adesso, sarebbe disposto a sostanziose concessioni,
offrendogli il territorio a ovest dell’Eufrate, oltre ad un ingente riscatto per liberare la propria
famiglia ed anche un trattato di pace e amicizia. Ma Alessandro rifiuta qualunque trattativa
e si dirige in Mesopotamia per affrontare l’avversario.
Lo scontro decisivo ha luogo nella pianura di Gaugamela, ad est del Tigri, nell’ottobre 331.
Anche stavolta la sproporzione numerica è a favore dei Persiani, che schierano almeno
230000 uomini contro i quasi 50000 di Alessandro. Ma l’abilità tattica del Macedone ha di
nuovo ragione del fattore numerico. Disponendo accortamente i propri reparti, Alessandro
evita l’accerchiamento e lancia un attacco contro il centro dello schieramento, come a Isso.
E, come a Isso, Dario si dà alla fuga. Il vincitore non rinuncia alla mossa propagandistica di
presentarsi come il vendicatore dei Greci, ma il significato del successo è molto diverso:
Alessandro è ormai padrone dell’impero persiano, tanto che si fa proclamare re dell’Asia
sullo stesso campo di battaglia.
IV. Dopo Gaugamela, la marcia di Alessandro diviene trionfale. Le grandi metropoli
dell’impero cadono nelle sue mani in maniera pacifica, così, dopo essersi impadronito
di Babilonia e di Susa, agli inizi del 330 entra a Persepoli. Qui, nella primavera dello
stesso anno, avviene un fatto enigmatico: per iniziativa dello stesso Alessandro, il
palazzo reale è distrutto da un incendio. Nonostante la maggior parte delle fonti lo
faccia risalire ad un momento di ebbrezza del sovrano, è più probabile che si sia
trattato di un atto intenzionale: Alessandro avrebbe presentato la distruzione della
reggia come una vendetta per le distruzioni dei templi greci operate a suo tempo dai
Persiani, facendo capire che lo scopo ufficiale del suo viaggio era stato raggiunto.
Sta di fatto che i contingenti delle poleis greche vengono congedati e l’impresa, d’ora
in poi, diventa una spedizione a fini di conquista.
Ma c’è prima da chiudere la partita con Dario III, che, rifugiatosi a Ecbatana, la capitale della
Media, cerca di organizzare un’ultima resistenza. Inizia così un lungo inseguimento:
Alessandro punta su Ecbatana e, quando gli dicono che Dario è in fuga verso le satrapie
orientali, si dirige anche lui a nord-est. Ma, prima di essere raggiunto dal suo inseguitore,
Dario cade vittima di una congiura, venendo ucciso dai suoi stessi generali guidati dal
satrapo della Battriana Besso. Quando arriva, nel luglio del 330, Alessandro trova dunque
il cadavere del suo avversario. Ma il trattamento che riserva alle sue spoglie è molto
significativo: Dario viene seppellito con tutti gli onori a Persepoli, nelle tombe reali. In questo
modo, il Macedone dimostra chiaramente di considerarsi suo legittimo successore sul trono
persiano.
Nella fase immediatamente successiva, impegnato nella sottomissione delle satrapie
orientali, Alessandro rompe con la tradizione macedone. Venuto a sapere che Besso si è
proclamato re col nome di Artaserse IV, egli tiene a ribadire di essere l’unico legittimo
successore di Dario, assimilando la sua immagine a quella dei sovrani achemenidi (ne
adotta qualche usanza nel cerimoniale e i paramenti di corte. La conseguenza è che tra gli
esponenti della sua cerchia inizia a serpeggiare il malcontento. Già nell’autunno del 330

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viene scoperta una congiura ordita nell’entourage del sovrano, e viene accusato di farne
parte Filota, figlio del vecchio generale Parmenione e comandante della cavalleria, che
viene condannato a morte. Della vicenda fa le spese anche il padre: Alessandro, temendo
una sua reazione e il prestigio che aveva tra gli esponenti della vecchia guardia, ne ordina
l’uccisione, nonostante i lunghi di anni di fedele servizio alla monarchia macedone.
V. Malgrado le turbolenze di corte, la conquista delle province orientali procede. Dopo
essersi impadronito di Drangiana e Aracosia, nel 329 Alessandro entra in Battriana,
dove c’è l’usurpatore Besso. L’avanzata in Asia centrale è accompagnata da
un’intensa attività colonizzatrice: il sovrano fonda nuovi insediamenti in punti
strategicamente importanti o su rotte carovaniere, per assicurarsi il controllo militare
dei territori più turbolenti e potenziare gli scambi commerciali tra le aree del suo
impero.
In Battriana, l’avanzata si rivela più facile del previsto, infatti Besso si è ritirato più a nord, in
Sogdiana, così l’esercito macedone può occupare la regione pacificamente. Ma i signori
locali della Sogdiana, intimoriti dall’avanzata di Alessandro, raggiungono un accordo con lui
e gli consegnano Besso, che viene torturato, mutilato e condannato a morte, di ritorno in
Battriana, da un consesso di nobili persiani. Alessandro può così occupare anche la
Sogdiana con la sua capitale, Maracanda, e fondare anche lì un’ennesima città con la
funzione di baluardo contro le incursioni dei nomadi del nord.
La conquista pacifica delle due province, tuttavia, si rivela illusoria. Alcuni nobili sogdiani,
rinnegando l’accordo con Alessandro e d’intesa coi nomadi del nord, scatenano una rivolta
che dura circa due anni, estendendosi anche alla Battriana. Il Macedone fa seguire le sue
conquiste da regolari massacri e riduzioni in schiavitù, ma nello stesso tempo cerca di
acquisire il consenso della nobiltà locale. In questo senso va la sua scelta di sposare, nel
327, Rossane, figlia di un potente notabile sogdiano.
Nello stesso periodo cresce la fronda interna. Già nel 328 succede che, a causa di una
violenta lite, Alessandro uccide il suo fraterno amico e successore di Filota al comando della
cavalleria Clito, per le critiche di quest’ultimo ai cambiamenti in senso orientalizzante del
sovrano. Nella primavera del 327, poi, i contrasti si acuiscono, quando Alessandro decide
di imporre anche a Greci e Macedoni il rituale omaggio persiano della proscinesi (un
inchino accompagnato da un bacio a distanza inviato sulla punta delle dita). Per i Greci, tale
atto può essere giustificato solo per una divinità e lo storico Callistene esprime
pubblicamente le proprie critiche, tanto che Alessandro rinuncia alla sua pretesa.
Ma le conseguenze di tale vicenda non tardano. Quando, poco tempo dopo, viene scoperta
una congiura dei paggi reali, a pagarne il conto è proprio Callistene, sebbene estraneo al
complotto. Accusato di esserne l’ispiratore, viene condannato a morte da Alessandro senza
alcun processo, cosa che gli aliena le simpatie del suo vecchio maestro Aristotele e di altri
intellettuali greci.
VI. Pacificate la Battriana e la Sogdiana, Alessandro non torna nelle regioni centrali
dell’impero, ma si spinge ancora più a est, nella primavera del 327, verso la terra
misteriosa e leggendaria, per i Greci, dell’India. A spingerlo a ciò è una richiesta di
intervento che gli giunge da Tassile, signore della città di Tassila, e da altri dignitari
indiani che sperano, col suo appoggio, di rafforzarsi nei confronti dei vicini.

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Ma la campagna si rivela subito difficile: impegnato nella resistenza opposta da alcune


comunità della valle del Kabul, Alessandro impiega alcuni mesi per raggiungere l’Indo e la
città di Tassile. E anche qui, si trova a dover fronteggiare l’ostilità del dinasta del regno
confinante, Poro. Nel giugno del 326 ha così luogo l’ultima battaglia campale del condottiero,
sull’Idaspe (odierno Jhelum), contro un esercito che schiera anche un gran numero di
elefanti da guerra. Ma ancora una volta, malgrado l’impatto traumatico con gli elefanti,
Alessandro riesce a vincere. Il trattamento riservato allo sconfitto Poro non è però per niente
punitivo: egli lo lascia al potere quale suo vassallo e lo gratifica con un ampliamento dei
possedimenti. La vittoria, inoltre, è l’occasione per la fondazione di due nuove colonie
militari: Nicea e Bucefala.
Alessandro non si ferma nemmeno stavolta. Appreso che l’Indo non si congiunge a sud col
Nilo, come si credeva, il sovrano avvia la costruzione di una grande flotta per arrivare
all’Oceano meridionale e, allo stesso tempo, avanza col suo esercito per sottomettere le
popolazioni ad est dell’Idaspe. Ma quando l’esercito, dopo una lunga ed estenuante marcia
sotto le piogge tropicali, arriva al fiume Ifasi (odierno Beas), i soldati si rifiutano di proseguire,
e stavolta Alessandro non si comporta come un despota e, seppure a malincuore, si
rassegna a tornare indietro.
La rinuncia all’avanzata verso est, però, non significa rinuncia al progetto di navigare sui
fiumi fino all’Oceano meridionale. L’impresa inizia nel novembre 326, ma, a causa della
resistenza delle popolazioni locali, l’armata raggiunge il delta dell’Indo e quindi l’Oceano
solo nell’estate 325.
Pure il viaggio di ritorno, però, diventa un’avventura. Infatti, mentre la flotta prosegue la
navigazione lungo la costa fino al Golfo Persico, Alessandro decide di scortarla via terra con
l’esercito, affrontando la traversata del deserto della Gedrosia (odierno Belucistan), lungo la
quale morirà un gran numero di uomini. E forse per far dimenticare questa esperienza il
sovrano, arrivato in Carmania nel dicembre del 325, trasforma la marcia in una specie di
processione dionisiaca, con continui e smodati simposi.
Tornato, dopo una lunga assenza, nelle regioni centrali del suo impero, il Macedone si trova
però, anche qui, a fronteggiare grandi problemi.
VII. Il gigantesco impero, infatti, è interessato da una diffusa turbolenza. In alcune regioni
divampano rivolte e molti satrapi persiani hanno approfittato della sua assenza per
commettere abusi e rafforzare il proprio potere personale. La reazione di Alessandro
è decisa: le rivolte vengono represse e i governatori infedeli vengono rimossi e
sostituiti con funzionari macedoni.
Il sovrano, però, non si limita alla sola repressione. Convinto che, per dare stabilità
all’impero, sia necessario dare vita ad una classe dirigente che comprenda anche i Persiani,
fa celebrare a Susa, dove arriva nella primavera del 324, le nozze di 91 membri della corte
con altrettante donne aristocratiche iraniche, mentre lui stesso si unisce in matrimonio con
la figlia di Dario III, Statira, e la figlia di Artaserse III, Parisatide. Viene inoltre riorganizzato
l’esercito, con l’istituzione di un nuovo corpo di fanteria formato da 30000 iranici, cui viene
dato il nome di epigonoi (discendenti) e l’inserimento di nobili persiani nella cavalleria.
Ovviamente, tra i Macedoni ciò suscita un diffuso malcontento, tanto che, qualche mese
dopo, quando Alessandro annuncia di voler congedare coloro che sono inabili al servizio
attivo, il disagio esplode e si traduce in un vero e proprio ammutinamento. Questa volta il

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sovrano non si fa condizionare dalle sue truppe e fa arrestare e giustiziare i capi della rivolta.
I Macedoni devono dunque accettare la politica di fusione con gli Iranici.
Alessandro si è ormai trasformato in un sovrano autocratico. Ne è prova, nello stesso
periodo, una singolare misura che riguarda le poleis della Grecia continentale, il “decreto
sugli esuli”: nell’estate 324, durante i Giochi Olimpici, un emissario di Alessandro rende noto
un editto che impone alle città di riammettere tutti gli esuli, tranne i responsabili di sacrilegio
e di fatti di sangue. La misura è una palese violazione dello statuto della lega di Corinto, che
prevedeva il rispetto dell’autonomia delle poleis. E le conseguenze, per le città greche, sono
dirompenti, dato che il ritorno in massa degli esuli comporta il rischio di sconvolgimento degli
equilibri politici e quindi di tensioni interne.
Un’altra novità che Alessandro impone alle città greche è la propria divinizzazione. Subito
dopo la morte del suo più caro amico Efestione, nell’autunno 324, il sovrano non si limita a
organizzare grandiose cerimonie funebri, ma istituisce un culto eroico dedicato al defunto e
probabilmente nella stessa occasione pretende dai Greci che alla propria persona vengano
tributati onori divini. Non si sa molto delle reazioni delle città greche a tale pretesa, ma
sicuramente alcune di esse, come Atene, devono aver acconsentito, seppure a malincuore,
alla volontà del sovrano.
Benché possa considerarsi ormai il sovrano più potente del mondo, Alessandro ha sempre
fame di nuove conquiste. Prossimi obiettivi sono l’Arabia, altra terra leggendaria e misteriosa
per i Greci, e, probabilmente, la sottomissione dell’impero cartaginese.
Ma nessuno dei due progetti potrà essere realizzato: nel giugno del 323, in procinto di partire
per l’Arabia da Babilonia, Alessandro cade improvvisamente malato e muore all’età di soli
33 anni. Le cause della morte sono destinate a rimanere ipotetiche. Se febbre malarica o
avvelenamento (da parte della vecchia guardia macedone), è impossibile stabilire con
certezza. Ma sicuramente, con Alessandro, scompare un personaggio che ha
profondamente cambiato il corso della storia.
VIII. Per Atene, il periodo successivo alla sconfitta di Cheronea è tranquillo, caratterizzato
dal prolungato periodo di pace di cui gode la polis e dalla notevole prosperità
finanziaria che raggiunge. Merito del gruppo dirigente, di cui è esponente più
autorevole l’oratore Licurgo, amministratore delle finanze pubbliche, il quale riesce a
mantenere un rapporto di pacifica convivenza con la potenza egemone e a tenere a
freno i fautori di una guerra. Avendo mantenuto un atteggiamento di neutralità
quando il re spartano Agide III si ribella ai Macedoni, Atene non subisce le
conseguenze della fallimentare rivolta. Anche Demostene appare in sintonia con la
politica pacifista di Licurgo.
Di conseguenza, l’impegno del gruppo licurgheo si può concentrare sui problemi interni.
Grazie alla sua attenta amministrazione, si registra un sensibile miglioramento delle finanze
ateniesi, prova ne è l’avvio di un’intensa attività edilizia. Numerose opere pubbliche (stadio
panatenaico, arsenale, ricostruzione del teatro di Dioniso e del tempio di Apollo Patroos,
ampliamento dell’auditorium della Pnice) risalgono a questo periodo. Ma Licurgo si occupa
anche di altri campi, come la riorganizzazione del servizio militare dei giovani ateniesi,
l’efebia: al compimento dei 18 anni è ora obbligatorio un biennio di addestramento
remunerato, dove le reclute fanno vita in comune e ricevono un’educazione finalizzata a
inculcare l’attaccamento ai valori della polis.

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Quando muore Licurgo, nel 324, cominciano i problemi per Atene, dove riprendono vigore i
fautori dello scontro militare. A movimentare la situazione provvede l’arrivo di Arpalo, amico
di vecchia data di Alessandro che era stato messo a capo della tesoreria dell’impero e che,
durante l’assenza del sovrano per la spedizione indiana, si rese colpevole di sperperare il
denaro che doveva amministrare. Per questo motivo, volendo sfuggire alla repressione di
Alessandro, fuggì dall’Asia verso l’Europa con un grosso bottino, chiedendo asilo agli
Ateniesi, i quali, quando i Macedoni ne pretendono l’estradizione, lo imprigionano e gli
confiscano il denaro, ma gli consentono di scappare. La vicenda coinvolge Demostene:
accusato di aver preso denaro da Arpalo, viene condannato al pagamento di una pesante
multa e, non potendo pagare, è costretto a prendere la via dell’esilio.
L’improvvisa morte di Alessandro fa pendere la bilancia a favore dei fautori della guerra. Gli
Ateniesi si convincono che sia giunta l’ora di ribellarsi alla potenza macedone e invitano gli
altri Greci a unirsi alla lotta. Vari popoli della Grecia centrosettentrionale e alcuni Stati
peloponnesiaci aderiscono. Viene quindi sciolta la lega di Corinto e nasce una nuova
coalizione con a capo Atene.
Nonostante le iniziali vittorie degli insorti, la guerra (detta “guerra lamiaca”, dalla fortezza
tessalica in cui viene costretto a chiudersi Antipatro dopo le sconfitte subite a Platea e alle
Termopili) vede infine la schiacciante superiorità dei Macedoni sconfiggere le milizie alleate.
Conseguenza della disfatta è un cambiamento degli equilibri politici ad Atene: i filomacedoni
fanno approvare la decisione di avviare trattative con Antipatro, con cui si affrettano a
negoziare la resa.
Questa volta, a differenza che dopo Cheronea, le condizioni imposte dal vincitore sono
durissime. Oltre ad accettare l’insediamento di una guarnigione macedone al Pireo, gli
Ateniesi devono accettare un cambiamento istituzionale: la democrazia viene abolita e
sostituita da un regime oligarchico, in cui i diritti politici sono riservati ai possessori di un
censo medio-alto e una ristretta cerchia di filomacedoni prende il potere.
Atene e le altre poleis greche devono rassegnarsi alla nuova situazione, nella quale
svolgeranno ormai un ruolo secondario.

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L’ETÀ ELLENISTICA

Dall’impero di Alessandro ai regni ellenistici

I. Alla morte di Alessandro, la situazione dell’immenso impero era difficile. Innanzi tutto,
mancava un legittimo erede al trono, in quanto la moglie di Alessandro era incinta e
avrebbe partorito solo nell’agosto del 323. A ciò si deve aggiungere che era chiaro
quanto fosse difficile governare un territorio così vasto. Si scelse una soluzione di
compromesso: il trono fu dato a Filippo III Arrideo, fratellastro demente di Alessandro,
e al figlio di quest’ultimo, qualora fosse maschio, ma, accanto ad essi, fu nominato
una sorta di triumvirato, composto da Cratero, cui fu affidata la tutela degli affari del
regno; Perdicca, cui toccò l’amministrazione dei territori asiatici, e Antipatro, stratego
d’Europa. Si decise inoltre di affidare a dei generali il compito di conquistare territori
mai occupati dall’esercito di Alessandro.
Il primo a muoversi fu Perdicca, che, volendo sposare la sorella di Alessandro, Cleopatra,
si attirò l’ostilità degli altri, che costituirono una lega a lui avversa. Egli attaccò prima
Antigono (detto Monoftalmo), satrapo di Frigia, costringendolo a fuggire in Europa, ma la
decisione di attaccare la coalizione anche sul fronte egiziano lo portò a trovare la morte
(321). Nello stesso anno, il comandante del suo esercito, Eumene di Cardia, aveva sconfitto
gli eserciti di Antipatro e di Cratero, che perse la vita. La scomparsa di due dei principali
protagonisti fece sì che si decidesse un nuovo assetto dell’impero, deciso nei colloqui di
Triparadiso, in Siria, sempre nel 321. In base a questi accordi, l’Egitto toccò a Tolomeo, le
satrapie superiori a Seleuco, l’Asia Minore ad Antigono, la Tracia a Lisimaco e la Macedonia
al vecchio Antipatro (sono questi i diadochi, diadochoi, “successori”). Antigono aveva
ottenuto anche il comando supremo dell’esercito in Asia, nel quale era assistito da
Cassandro, il figlio di Antipatro. I rapporti col reggente erano infatti particolarmente stretti,
dato che la figlia di Antipatro, Fila, andò in sposa al figlio di Antigono, Demetrio (che
successivamente avrà il soprannome di Poliorcete).
La situazione non restò tranquilla a lungo. Quando morì Antipatro, nel 319, si aprì una nuova
fase di scontro, dovuta al fatto che Antipatro aveva designato il vecchio generale
Poliperconte come successore, suscitando le ire del figlio Cassandro, che si alleò con
Tolomeo e Antigono e attaccò il nuovo reggente, che aveva dalla sua parte, invece,
Eumene. Lo scontro ebbe diversi teatri di guerra. In uno di questi, in territorio asiatico,
Antigono, dopo aver sconfitto la flotta di Poliperconte a Bisanzio, si recò a combattere
Eumene, che aveva concentrato le sue truppe in Perside. Qui, presso Ecbatana, si svolse
una battaglia campale nella quale Eumene fu fatto prima prigioniero e poi giustiziato (316).
Nell’altro teatro di guerra, quello greco, il conflitto aveva portato profonde divisioni anche in
seno alla famiglia reale. Mentre infatti la regina madre Olimpiade (presso cui stavano
Rossane e il piccolo Alessandro IV) sosteneva Poliperconte, la moglie di Filippo Arrideo,
Euridice, preferiva riconoscere Cassandro. Tutto questo aveva inoltre risvolti di carattere
politico nel rapporto tra potere centrale e libertà cittadine. Poliperconte, infatti, aveva
promesso la restaurazione delle costituzioni democratiche, ma ormai, nelle poleis,
prevalevano regimi moderati di carattere censitario, come il caso di Atene, in cui, agli inizi

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del 317si instaurò un regime timocratico retto dal filosofo Demetrio di Falero, un
conservatore di stampo soloniano.
Nell’ambito dello scontro tra Cassandro e Poliperconte si consumò la tragedia della famiglia
di Alessandro. I primi a morire, per mano di Olimpiade, furono Filippo Arrideo e la moglie
(317), poco tempo dopo, quando Cassandro tornò in Macedonia, fu la volta di Olimpiade:
cinta d’assedio a Pidna, capitolò e fu condannata a morte dall’assemblea dell’esercito per
alto tradimento (316). Alla sua morte seguì il trasferimento forzato di Rossane e del figlio
Alessandro ad Anfipoli. In questo modo, Cassandro era il vero vincitore del conflitto sul suolo
greco, vittoria che rafforzò col matrimonio con Tessalonica, figlia naturale di Filippo II, in
onore della quale fondò l’omonima città sulle sponde dell’Egeo.
Ma colui che, fra i diadochi, si era rafforzato di più era senza dubbio Antigono: dopo aver
sconfitto Eumene e aver allontanato Seleuco dalla sua satrapia, dominava su un’area
enorme, dall’Asia Minore all’Iran. Così gli altri diadochi gli intimarono, con un ultimatum di
restituire i territori a coloro cui furono assegnati con gli accordi di Triparadiso. Per tutta
risposta, dopo aver occupato la Siria, egli lanciò da Tiro, nel 315, un proclama nel quale
annunciava di essersi fatto proclamare “reggente del re” dal suo esercito, rinfacciando a
Cassandro l’assassinio di Olimpiade e l’esilio di Rossane e del figlio. Iniziava in questo modo
la lunga lotta tra Antigono e Cassandro.
Nella prima fase di questa guerra, Antigono cercò invano di lanciare offensive contro gli
avversari, ma il suo esercito, guidato dal figlio Demetrio, fu sconfitto a Gaza nel 312, cosa
che lo obbligò ad aprire trattative di pace l’anno successivo. Il risultato fu un ritorno allo statu
quo: Cassandro restava stratego d’Europa fino alla maggiore età di Alessandro IV, Seleuco
reinsediato a Babilonia, Lisimaco e Tolomeo, rispettivamente, continuavano governare la
Tracia e l’Egitto. Ma appena un anno dopo, nel 310, Cassandro fece uccidere Rossane e il
giovane Alessandro IV, vedendo in lui il maggiore ostacolo all’affermazione del suo potere.
Antigono non aveva alcuna intenzione di rinunciare alle sue ambizioni egemoniche. Ma
adesso anche Tolomeo svolgeva un ruolo di fondamentale importanza. Questi dapprima si
accordò col Monoftalmo per una spedizione in Grecia, nel 309, poi tornò alla tradizionale
politica di intesa con Cassandro. A sua volta, anche Antigono cercò di procurarsi appoggi in
territorio greco: nel 307 una flotta guidata dal figlio Demetrio sbarcò al Pireo e, con il
sostegno della parte popolare, occupò Atene restaurandovi la democrazia, cacciando in
esilio Demetrio di Falero, che per dieci anni aveva governato da tiranno, sostenuto da
Cassandro. Gli Ateniesi tributarono grandi onori ad Antigono e Demetrio, dedicandogli due
statue d’oro sull’agorà, aggiungendo due tribù col loro nome alle dieci clisteniche e dandogli
il titolo di basileis. Il Poliorcete, intanto, aprì un nuovo fronte attaccando Cipro e ponendo
l’assedio alla principale base tolemaica, Salamina. La sua flotta, nel 306, sconfisse quella
di Tolomeo, che fu costretto ad abbandonare Cipro.
II. Il 306 a. C. è la data che segna l’inizio formale delle dinastie ellenistiche. In
quell’anno, infatti, Antigono assunse per sé (come fece anche il figlio Demetrio) il
titolo di basileus. Il loro esempio fu seguito, nel giro di due anni, dagli altri diadochi.
Così finiva l’impero unitario, rimanevano solo i vari regni ellenistici.
Dal 307 al 304, la Grecia fu al centro di uno scontro tra Cassandro, che tendeva a imporre
governi oligarchici alle città, e Demetrio Poliorcete, che invece voleva una maggiore
autonomia delle poleis dal potere monarchico. All’inizio ebbe la meglio Cassandro, vittorioso

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nel Peloponneso e in Beozia, ma Demetrio, dopo l’assedio di Rodi, riuscì a ribaltare la


situazione. La sua azione fu accompagnata da una politica di dialogo con le città, cosa che
gli permise, nel 302, di ricostituire la lega ellenica. Tuttavia, i suoi successi convinsero gli
altri diadochi a unirsi per abbattere il potere dell’ultimo monarca ad aver conservato
aspirazioni unitarie. Il primo a scendere in campo fu Lisimaco, in Asia Minore, costringendo
Demetrio ad abbandonare la Tessaglia, dove si trovava, per soccorrere il padre in territorio
asiatico. Lo scontro frontale con le truppe della coalizione (all’esercito di Lisimaco si
aggiunse quello di Seleuco, con 500 elefanti) si svolse nel 301 a Ipso, in Frigia. Nella
battaglia morì gloriosamente Antigono, sconfitto assieme al figlio Demetrio. La fine del
Monoftalmo sancì definitivamente il ritorno al “particolarismo statale” greco, che durerà fino
alla conquista romana. I territori del suo regno furono infatti divisi tra i vincitori: Lisimaco
aggiunse l’Asia Minore occidentale; Seleuco ottenne l’Asia Minore orientale e la Siria
settentrionale; Tolomeo, che non aveva partecipato alla battaglia di Ipso, occupò la Siria
meridionale e quella Interna (Celesiria), creando i presupposti per lo scontro che, in seguito,
avrebbe opposto Tolomei e Seleucidi.
La scomparsa di Antigono non aveva tolto di scena Demetrio, che, dopo Ipso, si rifugiò a
Cipro facendone la propria base operativa. Dall’isola, infatti, esercitava una certa forma di
controllo sulle coste della Cilicia, della Fenicia e di alcune zone costiere della Grecia grazie
alla sua flotta. Certo, la sua influenza era ormai enormemente indebolita, ma negli anni
successivi i contrasti che si vennero a creare all’interno delle monarchie e tra di loro diedero
al Poliorcete la possibilità di reinserirsi nel gioco politico. A creare una nuova situazione fu
la morte, nel 298, di Cassandro, morte che aprì una serie di aspri conflitti, dato che la
successione non fu facile. Il figlio maggiore di Cassandro Filippo IV, infatti, morì pochi mesi
dopo la sua ascesa al trono. Divennero quindi re i figli minori, Alessandro e Antipatro, sotto
la tutela della madre Tessalonica. Il favore che costei mostrava ad Alessandro suscitò la
gelosia di Antipatro, che prima uccise la madre e poi si scagliò contro il fratello. Alessandro
chiese aiuto dapprima a Pirro, re d’Epiro, poi a Demetrio. Ma quando infine decise di
licenziare quest’ultimo, Demetrio lo uccise. L’altro fratello, a sua volta, fu costretto a fuggire
e si rifugiò da Lisimaco.
Non essendoci più eredi di Cassandro, nel 293 Demetrio si fece proclamare re di Macedonia
dall’assemblea dell’esercito, iniziando una politica di unificazione tra Grecia e Macedonia e
fondando una nuova capitale, Demetriade, al centro della Grecia. Il suo atteggiamento verso
le città, però, era cambiato: adesso cercava di porre limiti all’autonomia imponendo la
nomina di magistrati di suo gradimento e installando nelle varie poleis guarnigioni reali.
L’eccessivo rafforzamento della sua posizione preoccupava gli avversari. Nel 290 Pirro
penetrò in Macedonia, anche se i due re trovarono un’intesa. Ma l’anno successivo una
coalizione formata da Lisimaco, Tolomeo e Seleuco, cui si aggiunse Pirro, strinse Demetrio
in una morsa. Egli preferì affrontare l’Epirota, ma al momento decisivo fu abbandonato dal
suo esercito, cosa che lo costrinse ad una fuga precipitosa. Ciò determinò per lui la perdita
sia della Macedonia, divisa tra Lisimaco e Pirro, sia di Atene, anche se riuscì a mantenere
parti dell’Attica e della Tessaglia. Demetrio non era ancora del tutto fuori dei giochi: Pirro,
infatti, volendo per sé la Macedonia, lo spinse ad attaccare Lisimaco nei suoi territori asiatici
(287). L’azione del Poliorcete in Asia Minore, però, fu di breve durata: dopo un inizio
favorevole, fu costretto a spostarsi ad est dalla pressione delle truppe di Lisimaco. Ciò fece
allarmare Seleuco, che entrò in guerra con lui costringendolo alla resa nel 285. Demetrio
finì la sua esistenza in un palazzo reale di Apamea, dove morì nel 283.

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La sua fine avvantaggiò dapprima Lisimaco, che, venuto in contrasto con Pirro, lo costrinse
a ritirarsi nell’Epiro restando unico padrone della Macedonia (284). Il figlio di Demetrio,
Antigono Gonata, che conservava solo pochi resti del regno del padre, nulla poteva contro
la potenza del vecchio generale di Alessandro, il cui regno si estendeva dalla Macedonia
all’Asia Minore occidentale. Ma questa eterogenea costruzione statale aveva dei punti
deboli: uno era l’eccessiva imposizione fiscale, l’altro le forti tensioni all’interno della famiglia
reale. Proprio l’ultima moglie di Lisimaco, Arsinoe, figlia di Tolomeo I, fu all’origine di un
contrasto dinastico che in breve portò alla fine del regno. Ella, infatti, riuscì a mettere in
cattiva luce presso il padre il figliastro Agatocle, che Lisimaco ebbe dal precedente
matrimonio, al punto da farlo condannare a morte. Questo assassinio suscitò un’ampia
sollevazione contro il re di cui approfittò Seleuco, che, dopo aver dato rifugio alla moglie e
ai fratelli di Agatocle, col pretesto di restaurare la legittimità dinastica penetrò nel territorio
di Lisimaco. Lo scontro avvenne nella pianura di Curupedio (281) e vide la vittoria di Seleuco
e la morte in battaglia di Lisimaco.
Seleuco si ritrovò dunque a regnare su un territorio che andava dalla Siria all’Iran. Ma, quali
che fossero i suoi progetti (la ricostituzione di un impero universale, la conquista del regno
di Macedonia e la spartizione dei possedimenti col figlio Antioco I), nessuno poté essere
realizzato. Infatti, nell’agosto-settembre 281, venne ucciso da Tolomeo Cerauno, figlio
diseredato di Tolomeo I, che aveva trovato rifugio presso la corte seleucida, sperando
nell’aiuto del re per conquistare il trono d’Egitto. Ma, quando fu chiaro che l’Egitto era
saldamente nelle mani del fratellastro Tolomeo Filadelfo, il Cerauno decise di puntare al
trono di Macedonia. Così, quando Seleuco sbarcò in Europa per la conquista di Tracia e
Macedonia, si risolse a ucciderlo. Il tentativo del Cerauno ebbe successo, anche perché,
nella strada verso il trono, non incontrò altro ostacolo che Antigono Gonata, che comunque
venne sconfitto. Si sposò pure con la vedova di Lisimaco, Arsinoe, ma il matrimonio ebbe
vita breve. Quando sembrava che il nuovo re fosse in grado di consolidare il suo potere, la
sorte gli si rivolse contro: nel 279, infatti, morì combattendo le tribù celtiche che in quel
momento avevano invaso la Grecia. La terra di Alessandro troverà stabilità solo nel 276,
quando Antigono Gonata si fece proclamare basileus grazie al successo ottenuto contro le
tribù celtiche. Con lui, la Macedonia conobbe una rinnovata prosperità.
III. I nuovi Stati ellenistici hanno due caratteristiche che li differenziano profondamente
dalla polis classica: in primo luogo, la loro forma monarchica, in precedenza tipica
dell’Oriente “barbarico”; in secondo luogo la grande estensione territoriale. Infatti, per
certi aspetti, ognuno dei tre regni principali appare come l’erede di una tradizione
estranea al mondo greco: quello seleucidico, anche per il suo insediamento
territoriale, si presenta come l’erede del regno persiano; quello tolemaico recupera
caratteri dell’Egitto faraonico; quello antigonide, infine, appare discendente della
Macedonia di Filippo II. C’è poi un altro elemento che contraddistingue questa nuova
realtà, cioè il fatto che la popolazione di origine greco-macedone rappresenta una
minoranza, sebbene fornisca la gran parte della classe dirigente. Era necessario,
dunque, che si sviluppasse un processo di colonizzazione che consentisse il
mantenimento dell’egemonia ai nuovi dominatori. Da questo punto di vista, era
soprattutto l’immenso impero seleucidico a richiedere una forte presenza di coloni,
data l’estensione del suo territorio e la varietà dei suoi abitanti. In Egitto, invece, più
omogeneo dal punto di vista territoriale, l’insediamento dei greco-macedoni assunse
l’aspetto di una colonizzazione rurale.

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In questi nuovi Stati, come detto, è centrale la figura del monarca, che fonda la sua legittimità
nell’abilità a comandare l’esercito e nel reggere accortamente gli affari pubblici. Il loro potere
è personale ed assoluto, fondato sul controllo sia dell’esercito che di un vasto apparato
burocratico. in questo senso, appare fondamentale la nozione di “terra del re” (basilike
chora), che ha notevoli implicazioni di carattere politico, economico e sociale. Da una parte,
infatti, questa espressione indica tutta la terra del regno che, in quanto tale, è tenuta a
versare il tributo al sovrano; dall’altra, sembra assumere il significato più ristretto di
“patrimonio del principe”, cioè di terra posseduta personalmente dal re. In pratica, in epoca
ellenistica, il sovrano è l’autorità politica suprema e il più grande proprietario terriero.
A questo concetto è necessario riferirsi quando si affronta la questione dello statuto delle
popolazioni indigene (laoi) che vivevano all’interno dei regni. Questi laoi (che quando
coltivavano la “terra del re” erano detti basilikoi, “regi”) erano organizzati in comunità di
villaggi che costituivano le unità fiscali di base del regno: attraverso di esse veniva riscosso
il tributo. Quando il re vendeva o donava parti della basilike chora insieme alla terra venivano
venduti o donati i villaggi e i contadini che li abitavano, cosa che ha fatto avvicinare la
condizione di questi ultimi a quella dei servi della gleba di età medievale. Ma non è facile
stabilire se essi fossero realmente legati al luogo di origine o se avessero maggiore libertà
di movimento. Un’altra questione, riguardo la condizione dei laoi, è quella relativa agli effetti
che il processo di urbanizzazione può avere avuto sul loro status politico-sociale. In genere,
la storiografia moderna ha ritenuto che tale processo abbia portato ad un miglioramento
delle loro condizioni, liberandoli dai vincoli servili, ma è vero anche che entrare a far parte
di una città non significava automaticamente essere liberi. In sostanza, in alcuni casi le loro
condizioni erano effettivamente migliorate, ma in altri erano rimaste identiche o addirittura
anche peggiorate. Allo stesso modo, anche la teoria che il processo di urbanizzazione abbia
ridotto l’estensione delle proprietà templari a vantaggio di quelle cittadine può essere
accettata entro certi limiti: recenti scoperte epigrafiche, infatti, hanno dimostrato che anche
in età ellenistica i re facevano donazioni di terra ai templi. Inoltre, nel caso di santuari situati
all’interno delle città, la terra sacra (hiera chora) si distingueva con difficoltà da quella
cittadina (politike chora), in quanto entrambe erano sottoposte alle autorità della polis.
Uno dei principali problemi, con la formazione dei regni ellenistici, è quello del rapporto con
le poleis. Non c’è dubbio che le città si vennero a trovare in una situazione più difficile
rispetto al passato: la crescita dei nuovi centri di potere monarchico rendeva di cruciale
importanza il come proteggere la propria libertà e autonomia dalle loro intrusioni. Da
Alessandro in poi i re, nella propaganda ufficiale, si dichiaravano rispettosi dell’autonomia
delle città, ma, d’altra parte, cercavano di imporre la loro egemonia alle poleis (con la forza
o con le blandizie). Tuttavia, non bisogna sopravvalutare la capacità dei re di imporre la
propria volontà: si deve tenere presente che quello che chiamiamo “Stato ellenistico” era in
effetti un insieme di territori politicamente disomogenei, tenuti insieme solo dalla figura del
sovrano. Quindi il re non era in grado di controllare le varie entità locali che gli erano
sottoposte (ovviamente, tale discorso è più adatto a un regno come quello seleucidico,
rispetto, ad esempio, all’Egitto tolemaico, che, come detto, era più omogeneo dal punto di
vista territoriale). In pratica, se il sovrano voleva mantenere una sorta di controllo su questi
territori non poteva fare affidamento solo sull’esercito, ma doveva intessere una fitta rete di
relazioni con le élites locali, con scambi e concessioni reciproche. Ma ciò comportava una
contraddizione: se le concessioni andavano oltre un certo limite, si favoriva la tendenza alla
completa indipendenza dallo Stato centrale nelle autorità locali, magari affidandosi alla

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protezione di un altro Stato. Questo era un fenomeno diffuso nel mondo ellenistico, dovuto
sia alla causa della “fluidità” delle organizzazioni statali, sia a quella della possibilità data ai
piccoli Stati di “cambiare fronte”, nel momento in cui le relazioni internazionali dei grandi
Stati erano strutturate sulla nozione di equilibrio di potenza. Basti pensare a come Atene,
Sparta o Efeso riuscirono a crearsi propri spazi di autonomia muovendosi all’interno della
“grande politica”, dall’epoca dei diadochi alla conquista romana.

Il mondo ellenistico

I. Come detto, Antigono Gonata salì al trono di Macedonia nel 276. Egli, però, a
differenza dei predecessori, non poteva più pensare in termini di impero universale,
ma preoccuparsi del proprio regno cercando di stabilizzarne confini e sfera di
influenza. Il Gonata, allievo dello stoico Zenone, era cresciuto quando si erano formai
i poteri personali dei re ellenistici, ma egli, diversamente dai sovrani di Siria o Egitto,
era obbligato a rispettare alcuni diritti consuetudinari della monarchia macedone. Non
vi è dubbio, infatti, che i nobili macedoni condizionassero la vita dello Stato in modo
che era sconosciuto alle altre due monarchie. A questa classe si rivolgevano i re
quando dovevano scegliere i loro principali collaboratori (gli “eteri o “amici” del re),
sebbene anche stranieri potessero fare parte di questo gruppo di cortigiani. Del resto,
a testimonianza della diversità della monarchia macedone c’è anche il fatto che lì non
si sviluppò mai un culto del sovrano.
Gonata cercò di rafforzare la sua presenza nel continente greco favorendo la nomina di
tiranni al suo soldo e installando tre guarnigioni in altrettanti punti strategici: Corinto, Calcide
d’Eubea e Demetriade. Iniziò inoltre una politica marittima che tendeva a sottrarre ai Tolomei
l’egemonia sull’Egeo. Ciò inquietò il Filadelfo, che costituì una coalizione con tutti quelli che,
in Grecia, erano contrari alla restaurazione del potere macedone. Della coalizione facevano
parte Sparta, col re Areo I, e Atene, che, sotto la spinta di Cremonide, nel 267 entrò in
conflitto con Antigono, iniziando la cosiddetta “guerra cremonidea”. Ma le cose non si misero
bene per la coalizione: dopo aver sconfitto Areo I (che morì durante la battaglia) a Corinto
(265), i Macedoni misero sotto assedio Atene, che capitolò nel 262, iniziando un lungo
periodo di sottomissione al potere macedone.
Successivamente, Antigono strinse rapporti di amicizia con la Siria, sebbene sia controversa
la questione se egli sia stato o no effettivamente alleato di Antioco, sconfiggendo la flotta
egiziana tra il 258 e il 256 e costringendo Tolomeo ad una pace separata (255). Ma, verso
il 253/252, il potere macedone entrò in crisi a causa della ribellione di Alessandro, il viceré,
che fece perdere ad Antigono Corinto e Calcide. Inoltre, due nuove realtà si affacciavano
alla ribalta del modo greco: la lega etolica e quella achea. Soprattutto gli Achei si erano
allargati nel Peloponneso, allontanando dalle città i tiranni filoantigonidi e appoggiando la
causa di Alessandro.
Ma il tentativo di quest’ultimo di rendersi autonomo durò meno di un decennio: nel 245,
probabilmente, era già morto, e dopo la sua scomparsa il suo “regno” ricadde nelle mani di
Antigono. In questo contesto, gli Etoli, fedeli al re macedone, riuscirono a mettere piede nel
Peloponneso, suscitando la preoccupazione degli Achei, che decisero di allargare il conflitto

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attaccando direttamente la Macedonia. Guidati dallo stratego Arato, nel 243 costrinsero alla
resa la guarnigione macedone a Corinto, creandosi nello stesso tempo una protezione
internazionale con l’alleanza stretta con l’Egitto del nuovo re Tolomeo III Evergete. Da
questo momento in poi, fino alla sua morte (239), Antigono perse ogni interesse al
continente greco.
Ad Antigono successe il figlio Demetrio II, che cambiò alleanze: divenne infatti protettore
dell’Epiro ed entrò in conflitto con la lega etolica. Nel 239 scoppiò la cosiddetta “guerra
demetriaca”, che, sebbene vedesse le due leghe coalizzate contro il Macedone, non risultò
in alcun modo decisiva. Ma intanto due situazioni venivano a maturazione, che avrebbero
avuto per la Macedonia ulteriori gravi sviluppi: da una parte, la fine della dinastia eacide in
Epiro, stava facendo scivolare quel regno nella sfera di influenza illirica, dall’altra, diventava
più minacciosa la pressione delle tribù dardaniche ai confini settentrionali. E fu proprio
contro i Dardani che Demetrio trovò la morte sul campo di battaglia (229), lasciando erede
un figlio minorenne, Filippo V, e un regno in preda al caos.
Ma la Macedonia, in un momento delicato, trovò una guida sicura in un cugino di Demetrio,
Antigono III detto Dosone. Nominato stratego e tutore dell’erede al trono, egli si considerò
sempre un reggente, anche dopo che gli fu conferita la regalità. Ma le difficoltà non
mancarono fin da subito: agli inizi del suo regno, la Tessaglia si ribellò trovando sostegno
negli Etoli, mentre Atene si liberò della guarnigione macedone al Pireo. Nel Peloponneso,
intento, si era rafforzata la lega achea, cosa che spinse il re spartano Cleomene III, che
cercava di restituire a Sparta la perduta egemonia, a dichiarare guerra agli Achei (229), la
cosiddetta “guerra cleomenica”. Il Dosone si tenne fuori, all’inizio, ma quando Cleomene
sconfisse due volte l’esercito acheo (227 e 226), Arato inviò un’ambasciata al re macedone
offrendogli la restituzione dell’Acrocorinto in cambio dell’alleanza contro il re spartano.
Dosone accettò, e nel 224 si precipitò nell’area dell’Istmo cogliendo di sorpresa Cleomene,
costretto a ritirarsi a Sparta. A questo punto, il re macedone si recò a Egion, dove si teneva
l’assemblea federale achea, proclamando la fondazione di una nuova lega ellenica sotto la
sua egemonia. Questa nuova alleanza non era più fra città ma tra federazioni, e in questo
modo Dosone e Arato si proponevano di accerchiare la lega etolica e Sparta, che erano
alleate e godevano dell’appoggio dell’Egitto. Lo scontro finale tra le due fazioni avvenne nel
222 a Sellasia, sulla strada dall’Argolide a Sparta. A prevalere furono Dosone e i suoi alleati,
mentre il re spartano fuggì in Egitto, ma subito dopo Antigono dovette tornare in patria per
fronteggiare un’invasione di popolazioni illiriche. L’anno successivo egli morì, affidando il
diciassettenne erede al trono ad altri tutori.
Il giovane Filippo V già nel 220 si trovò ad affrontare una nuova guerra che per tre anni
sconvolse il mondo greco, la cosiddetta “guerra sociale” o “degli alleati”. Nata dal tentativo
degli Etoli di sottrarsi alla condizione di isolamento in cui si trovavano dopo Sellasia, la
guerra si trasformò, dopo l’intervento di Filippo su richiesta di Arato, in un nuovo aspro
conflitto tra i due blocchi che già si erano affrontati. Terminò nel 217 con la pace di Naupatto,
probabilmente perché Filippo era ormai preoccupato dagli avvenimenti illirici, dove i Romani
si erano ormai stabilmente insediati.
II. L’Egitto dei Tolomei fu il regno che ebbe maggior compattezza sotto l’aspetto etno-
geografico. Carattere essenziale del regno tolemaico era la centralizzazione, che
faceva capo alla figura del re. Egli era proprietario di un enorme patrimonio
personale, la “terra del re” (basilike ghe), coltivata da affittuari (basilikoi gheorgoi) che

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erano obbligati a seguire una rigida programmazione, nelle operazioni di semina,


coltivazione e raccolta, imposta dall’amministrazione regia. Esistevano poi altre
forme di proprietà: la terra sacra, appartenente ai grandi templi; la terra cleruchica,
assegnata ai coloni militari; la terra donata agli alti funzionari e la terra privata. A
rafforzare la figura del basileus contribuì l’introduzione del culto del sovrano, che in
Egitto aveva un precedente nella tradizione che vedeva il Faraone, figlio di Ammon-
Ra, come un dio temporaneamente vivente sulla terra. Fu Tolomeo I, prima del 285,
a istituire il culto di Alessandro Magno, ma il suo successore, Tolomeo II, proclamò
dio il padre e, alla sua morte, anche la madre. Lo stesso Tolomeo II allargò poi il culto
anche ai sovrani viventi (sé stesso e la moglie e sorella Arsinoe).
La compattezza del territorio, oltre che le notevoli ricchezze agricole, facevano sì che il
Paese potesse vivere in una sorta di splendido isolamento. Ma fin dall’inizio gli Egiziani
sapevano di dover stare attenti ad invasioni dall’Asia: per questo Tolomeo I occupò nel 319
la Celesiria, territorio strategicamente fondamentale. Ma la Celesiria passò poi nelle mani di
Eumene di Cardia e successivamente in quelle di Antigono Monoftalmo, e Tolomeo, dopo
Ipso, si affrettò ad appropriarsene di nuovo sottraendola a Seleuco, cui era stata assegnata.
Ciò creò i presupposti per le sei guerre tra Egitto e Siria che si susseguirono, in futuro, per
il possesso di questa regione. Ma per proteggere l’Egitto non era sufficiente la Celesiria, era
anche necessaria una flotta che permettesse di costruirsi punti d’appoggio nell’Egeo e nelle
coste dell’Anatolia meridionale. Questo spiega l’interesse di Tolomeo per Cipro e Rodi e per
la lega degli Isolani, oggetto di scontro con Antigono e il figlio Demetrio.
Questo “espansionismo difensivo” comportava scelte economiche che hanno indotto alcuni
studiosi moderni a parlare di “mercantilismo tolemaico”. Per poter disporre di un esercito e
di una flotta che permettesse all’Egitto di competere con le altre potenze, erano necessarie
le materie prime che servivano per la costruzione di navi e armi. Materie prime che in Egitto
scarseggiavano, quindi si doveva procurarsele al di fuori di esso, il che poteva avvenire o
con la conquista militare di territori o acquistandole al mercato (cosa che richiedeva la
disponibilità di moneta pregiata). In parte, il problema fu risolto con l’acquisizione della
Celesiria, dell’isola di Cipro o di alcune aree dell’Asia Minore, ma, accanto alla via militare,
si praticò anche quella economica. Poiché in Egitto vi era un notevole surplus di cereali, la
vendita del grano procurava al Paese la valuta pregiata necessaria. Se poi si tiene presente
che il grande esportatore era lo Stato (o meglio, il re, che aveva nelle proprie mani le leve
del sistema economico), quello dell’Egitto assume i caratteri di un “mercantilismo di Stato”.
Era infatti il re che, disponendo di enormi quantità di grano nei propri magazzini, stabiliva la
quota destinata all’esportazione. Inoltre, il controllo statale sull’economia arrivava al punto
di vietare la circolazione di monete straniere. I commercianti e gli stranieri che arrivavano
ad Alessandria avevano l’obbligo di cambiare le loro monete con quelle di coniazione
tolemaica. Così il re stabiliva che tutti gli affari importanti (quelli in cui si utilizza la moneta
aurea) dovevano essere conclusi facendo uso di oro egiziano. Volendo trarre una qualche
conclusione, si può affermare che l’Egitto si presenta come uno Stato che ad una politica
espansionista nell’Egeo accompagna in campo economico aspetti di protezionismo, cosa
resa più facile dal fatto che il re poteva intervenire nella vita economica e sociale del suo
Paese in una maniera sconosciuta agli altri sovrani ellenistici.
Per quel che riguarda la Siria, il primo vero scontro si ebbe dopo l’assassinio di Seleuco nel
281. Avendo infatti l’inaspettata morte del re lasciato il regno nel caos, Tolomeo II ne
approfittò per attaccare la Siria. Questo scontro (che non è considerato come la prima

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guerra fra i due regni) procurò a Tolomeo notevoli successi in Asia Minore (Samo, Caria,
Licia, Panfilia, Cilicia occidentale). La guerra, conclusasi nel 279 con un trattato di pace,
riprese già nel 274 (“prima guerra di Siria”). Non si sa molto di questo conflitto, a causa dei
pochi e frammentari documenti in nostro possesso. L’unica cosa su siamo ben informati è
la grande processione che si svolse ad Alessandria nel 271, per celebrare la vittoria di
Tolomeo Filadelfo. Negli anni successivi, la politica tolemaica si concentrò sulla Grecia e il
mar Egeo, per contrastare i tentativi egemonici di Antigono Gonata. In quegli stessi anni,
comunque, tutta la costa ionica e caria dell’Asia Minore cadde nelle mani dei Tolomei.
Furono le difficoltà venutesi a creare in Siria con la morte di Antioco I (261) a far riaprire le
ostilità tra i due regni. Ma la guerra non diede a Tolomeo i risultati sperati e l’unico a trarne
vantaggio fu Antioco II, che riuscì a sottrarre all’Egitto la Ionia e alcune località marittime
della Cilicia e della Panfilia. Il trattato di pace fu siglato nel 253 (o forse nel 255), e l’unica
clausola nota è quella che prevedeva il ripudio, da parte di Antioco, della moglie per sposare
la figlia di Filadelfo, Berenice.
Il matrimonio, concluso al fine di favorire la coesistenza pacifica, fu in effetti la causa del
nuovo conflitto fra le due potenze, quando, quasi contemporaneamente, morirono i due
sovrani che lo avevano siglato. Infatti, nel 243, morì Filadelfo, la cui successione fu
tranquilla, dato che il suo posto fu preso dal figlio Tolomeo III Evergete. Qualche mese dopo
morì anche Antioco II, che invece ebbe una successione difficile, dato che aveva designato
come erede al trono il figlio maggiore (avuto dalla moglie ripudiata) Seleuco II, preferendolo
al figlio avuto dalla moglie egiziana. Tale designazione creò una spaccatura: mentre l’Asia
Minore riconobbe Seleuco come re, la parte del regno che andava dalla Cilicia alla Siria si
schierò col figlio di Berenice, la quale chiamò in soccorso il fratello Tolomeo III. Questi
sbarcò a Seleucia e da lì raggiunse Antiochia, dove viveva la sorella, trovando una calorosa
accoglienza. Da Antiochia arrivò fino a Babilonia, ma dovette tornare velocemente indietro
per dei disordini scoppiati in Egitto. Intanto, era scattata l’offensiva di Seleuco che, arrivato
in Siria, si riprese i territori perduti in precedenza. Quando poi si diffuse la notizia che la
regina Berenice e il figlio erano stati assassinati la sua posizione si rafforzò ulteriormente.
La pace fu siglata nel 241, con condizioni soddisfacenti per entrambi i sovrani: Tolomeo
conservava Seleucia e varie località marittime in Cilicia, Panfilia e Ionia; inoltre, metteva
piede in alcune zone dell’Ellesponto e della Tracia, mentre il giovane Seleuco II si era infine
insediato sul trono del padre.
Negli anni successivi, l’Evergete si occupò maggiormente del fronte greco, dove appoggiò
tutti coloro che volevano sottrarsi al dominio macedone. Così si spiegano i buoni rapporti
con la lega achea di Arato e con Sparta, e l’aiuto dato ad Atene quando si liberò del presidio
macedone. Quando poi Arato chiese a Dosone di partecipare alla guerra, come detto,
l’Evergete diede appoggio a Cleomene di Sparta, ma il suo aiuto fu solo finanziario e quindi
non riuscì a evitare la sconfitta spartana a Sellasia. Probabilmente la sua prudenza era
dettata dalla preoccupazione di quanto avveniva in Asia.
Qui, infatti, Seleuco III (diventato re nel 225) aveva iniziato un’offensiva per riconquistare
l’Asia Minore, caduta in precedenza nelle mani di Attalo I di Pergamo. Tra gli Egiziani si
diffuse allora il timore di un attacco alla Celesiria, attacco che avvenne, in effetti, nel 222 ad
opera di Antioco III, fratello di Seleuco, succedutogli dopo l’assassinio di quest’ultimo nel
223. Questo attacco si risolse in un fallimento, dato che era contemporaneamente in corso
una rivolta nelle satrapie orientali. Anche la “quarta guerra di Celesiria”, iniziata nel 219, fu
intrapresa mentre era in corso l’usurpazione di Acheo in Asia Minore. Ma questo non fermò

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il re Antioco dal dare inizio alle ostilità. In Celesiria Antioco, che aveva di fronte ormai il
nuovo sovrano Tolomeo IV Filopatore, non trovò alcun ostacolo e raggiunse rapidamente le
città di Tolemaide e Tiro, minacciando da vicino lo stesso Egitto. A questo punto gli Egiziani
decisero di rompere le dighe, inondando il territorio del Delta per impedire l’avanzata di
Antioco. Il quale, vistosi nell’impossibilità di proseguire, accettò la tregua che gli era stata
proposta dai comandanti tolemaici. Così le autorità egiziane, rendendosi conto che non
disponevano né di risorse umane, né finanziarie sufficienti a far fronte alla situazione,
ricorsero all’arruolamento di truppe indigene. Furono reclutati 20000 uomini, che entrarono
a far parte dell’esercito. Finta la tregua, nel 218, Antioco iniziò l’attacco per la conquista
della Celesiria, ma nello scontro di Rafia (217) fu sconfitto dalle truppe egiziane, guidate
dallo stesso Tolomeo IV. Ma il successo di Rafia ebbe conseguenze negative per l’Egitto:
infatti, l’arruolamento di indigeni aveva infranto il senso di superiorità militare della classe
dirigente greco-macedone. Divennero sempre più frequenti rivolte e sollevazioni, ci furono
atti di resistenza passiva nei confronti del fisco, abbandoni dei posti di lavoro e forme di vero
e proprio brigantaggio. Fu per dare una risposta a questi nuovi problemi che i re
cominciarono ad assumere, nella titolatura e nell’abbigliamento, un carattere sempre più
locale.
La situazione si aggravò quando salì al trono, nel 204, Tolomeo V Epifane, di sei anni.
Approfittando dei conflitti scoppiati a corte per assicurarsi la tutela del re-bambino, Antioco
III strinse un patto segreto con Filippo V di Macedonia per spartirsi l’Egitto. Il re seleucida
attaccò la Celesiria, conquistandola nel 200, mentre Filippo occupò prima Samo poi Mileto.
La storia dei conflitti fra Tolomei e Seleucidi ebbe un epilogo non molto glorioso circa
trent’anni più tardi, quando la cricca di corte che reggeva le sorti del regno (ancora una volta
nelle mani di un re minorenne, Tolomeo VI Filometore) decise, nel 170, di iniziare un’azione
militare per la riconquista della Celesiria. La risposta di Antioco IV Epifane fu rapida: penetrò
nel territorio egiziano e sconfisse l’esercito tolemaico, gettando l’Egitto nel caos e
determinando una grave crisi politica. Infatti, ad Alessandria scoppiò un moto popolare che
depose il re e ne proclamò uno nuovo: Tolomeo Fiscone, fratello, oltre che coreggente, del
Filometore. Antioco non riconobbe il nuovo sovrano, e quando il Filometore fece pace col
fratello, lo accusò di tradimento e riprese la guerra contro l’Egitto (168). A Menfi si fece
incoronare re dell’Alto e Basso Egitto, ma nei pressi di Alessandria trovò l’inviato romano,
Popilio Lenate, che gli presentò un senatoconsulto che gli intimava di abbandonare al più
presto l’Egitto. Antioco capì di non avere scelta e accettò l’intimazione, episodio
emblematico della nuova realtà che si andava affermando, la potenza di Roma.
III. Il regno dei Seleucidi era quello che aveva ereditato la maggior parte dell’impero di
Alessandro: andava, nel 312, dall’Asia Minore alla Mesopotamia, dalla Siria all’India.
Era quindi caratterizzato da una estrema eterogeneità, cosa che rendeva impossibile
la conduzione di una politica economica comune. L’unità del regno si realizzò dunque
solo sul piano politico-militare. Ma fondamentale fu il ruolo di omogeneizzazione
svolto dalla cultura greca che, grazie al grande impulso dato all’urbanizzazione,
raggiunse anche le zone estreme dell’impero; inoltre, si diffuse in ampi strati sociali,
cosa che fece affermare quella cultura universalistica che chiamiamo ellenistica. Altro
importante elemento di unificazione politica era la figura del sovrano, che anche qui
ricevette un culto divino, anche se solo all’epoca di Antioco III divenne culto di Stato.

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Alla morte di Seleuco I (281), il figlio Antioco si trovava in Oriente, dove governava le
satrapie orientali. Il nuovo sovrano si trovò a dover fronteggiare improvvisamente una
difficile situazione: la Seleukis (provincia seleucide di Siria) era entrata in rivolta; in Asia
Minore si era conclusa un’alleanza contro il re fra la dinastia di Bitinia, la “lega del nord” e
Antigono Gonata. Ma Antioco si mosse bene, e, dopo aver sedato la Siria, riuscì a portare
dalla sua parte il Gonata. Ma Nicomede di Bitinia, vistosi isolato, fece appello ai Galati (277)
spingendoli a collocarsi a sud, così da interporsi fra il suo territorio e Antioco. Questi “barbari”
imperversarono per un paio d’anni, finché Antioco non li relegò in una zona della Frigia
settentrionale che da loro prese il nome di Galazia. Poi, il re seleucide fu impegnato nella
“prima guerra di Siria” (274-271), di cui si è detto. Gli ultimi anni di regno (271-261) furono
meno difficili, anche se contraddistinti sia da una crisi dinastica, che portò nel 266 alla
nomina come coreggente del figlio minore Antioco, sia dalla morte, nel 263, di Filetero a
Pergamo, cui successe il nipote Eumene, che entrò in conflitto con Antioco I, proclamandosi
indipendente.
Come detto, l’ascesa al trono di Antioco II segnò l’inizio di una seconda guerra con l’Egitto,
e quando morì, la sua successione fu talmente complicata da portare, tra le altre cose, ad
una terza guerra coi Tolomei. Alla fine, divenne re Seleuco II, che dovette affrontare due
problemi che mettevano a rischio la tenuta stessa dell’impero: la ribellione del fratello
Antioco Ierace in Asia Minore e l’ingovernabilità delle satrapie iraniche. La questione
dell’Asia Minore si pose quando a Ierace, dopo la fine della guerra con l’Egitto, il re chiese
di deporre la carica, datagli in precedenza, di coreggente e viceré d’Asia Minore. Egli rifiutò
e Seleuco non esitò a entrare in guerra col fratello (241), ma Ierace, con l’aiuto dei Galati,
sconfisse l’esercito regio ad Ancyra. Il re si ritirò quindi in Cilicia, lasciando l’Asia Minore al
fratello. In seguito, Ierace spinse i Galati ad attaccare Pergamo, ma nello scontro fra le sue
truppe e quelle di Attalo, queste ultime ebbero la meglio (238-237). Lo scontro riprese una
decina d’anni più tardi, concludendosi nel 227 con la definitiva sconfitta di Ierace, che morì
un anno dopo.
Per quanto riguarda le satrapie iraniche, l’impero aveva da sempre una “questione
orientale”, dovuta al fatto della sua grande eterogeneità e a quello di avere spostato la
capitale sulle sponde del Mediterraneo (a differenza dei Persiani, che avevano la loro in
Perside. Ciò diede la possibilità, agli inizi del III secolo, al re indiano Candragupta di
estendere il proprio dominio fino al confine tra India e Iran, così Seleuco I affidò al figlio
Antioco I il compito di amministrare le satrapie orientali, cosa che comportò l’esistenza di
due capitali.
È probabile che fosse proprio la Perside una delle prime satrapie ad allontanarsi dal dominio
seleucidico. Qui, già all’epoca di Seleuco II, un’ideologia che mescolava la nostalgia del
passato a motivi apocalittici di impronta mazdea diede origine a rivolte di governatori e
dinasti. Nello stesso periodo (245 ca.) è da collocare la rivolta di Andragora in Partiene-
Ircania. Inoltre, avvennero forse nello stesso anno (240-239) la sconfitta ad Ancyra,
l’invasione dei Parti in Iran e l’assunzione del titolo di basileus da parte del satrapo ribelle di
Battriana Diodoto. In particolare, l’invasione dei Parti, sommandosi alle secessioni di satrapi
e dinasti, diede un duro colpo al dominio seleucidico. Ciò allarmò Seleuco II, che intorno al
230 iniziò una spedizione in Oriente per restaurare l’integrità dell’impero, ma, dopo una
prima vittoria, fu richiamato indietro dalle gravi notizie che venivano da Occidente. Il ritorno
del re servì poco, poiché nel 226 morì per una caduta da cavallo, senza poter nemmeno
iniziare la riconquista dell’Asia Minore. Fu suo figlio Seleuco III, nel 223, a progettare un

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attacco contro Attalo I. Ma, giunto in Frigia, cadde vittima di una congiura di corte, lasciando
come erede il fratello Antioco III, che si trovava a Babilonia.
La difficile situazione del regno, lacerato dai conflitti di corte, richiedeva un governo forte. A
tal fine, il nuovo re nominò Molone governatore delle satrapie orientali, lasciò Ermia a capo
dell’amministrazione e affidò l’Asia Minore ad Acheo, l’uomo che, fra il 223 e il 222, aveva
sottratto ad Attalo i territori conquistati negli anni precedenti. Ma la crisi non tardò comunque
a manifestarsi (222-220), ed era una crisi che contrapponeva chi, come Ermia, voleva
rafforzare l’amministrazione centrale, a quanti preferivano non avere eccessive ingerenze
nella propria sfera di governo. Il primo a ribellarsi fu Molone (222), ma Antioco, su consiglio
di Ermia, preferì occuparsi della Celesiria, mandando contro il ribelle eserciti guidati da altri
strateghi. Quando però Molone superò il Tigri, Antioco decise di partecipare direttamente
allo scontro, e la presenza del re determinò una svolta: abbandonato da molti soldati che
non volevano combattere contro il proprio legittimo sovrano, Molone subì una dura sconfitta,
che lo portò a suicidarsi (220). Tra l’altro, il successo ebbe anche l’effetto di liberare il
giovane Antioco della soggezione nei confronti di Ermia, che il re fece uccidere a tradimento.
Ma le usurpazioni non erano finite: mentre Antioco era impegnato a combattere in Oriente,
in Asia Minore Acheo, forse per ambizione o forse per odio verso l’ambiente di corte che
ruotava intorno a Ermia, assunse il titolo di re. L’esercito, in un primo momento, non voleva
combattere il proprio sovrano naturale, ma successivamente riconobbe l’autorità di Acheo.
Antioco era ora impegnato nella preparazione di un attacco all’Egitto, e pare non abbia
riservato eccessiva attenzione all’Asia Minore. Ciò diede ad Acheo la possibilità di
consolidare le sue posizioni, ma, alla fine della “quarta guerra di Siria” (conclusasi con la
sconfitta di Rafia), Antioco III mosse contro Acheo: nel 216, dopo aver siglato un trattato di
pace con Attalo, attraversò il Tauro e cominciò una guerra che durò quattro anni,
concludendosi nel 212 con la cattura e l’esecuzione del ribelle.
Risolta la questione in Asia Minore, Antioco si dedicò alle satrapie orientali. La grande
spedizione (“Anabasi”) iniziò nel 212 e durò circa sei anni, nel corso dei quali il sovrano
seleucide raggiunse le principali province dell’Oriente. Nel 211, in Media, egli si impadronì
dei metalli preziosi custoditi nel tempio della dea Anaitis e li trasformò in monete che utilizzò
per le spese di guerra. Tale atto, oltre a dimostrare il poco rispetto per la religiosità locale,
era un indizio delle ristrettezze finanziarie del sovrano. Agli inizi del 209 attaccò i Parti
costringendo il re Arsace a rifugiarsi al di là delle montagne dell’Ircania; poi, dopo un lungo
assedio alla città di Syrinx, Antioco stipulò con lui un accordo. La tappa successiva fu in
Battriana, dove regnava il ribelle Eutidemo, che si rinchiuse nella città di Battra e fu
inutilmente assediato per due anni. Alla fine, i due arrivarono a un compromesso in base al
quale Antioco riconosceva l’indipendenza del re battriano e quest’ultimo si impegnava a
diventare suo amico e alleato. Il Seleucide cominciò quindi a convincersi che il problema
della difesa delle frontiere orientali si poteva risolvere solo con la costruzione di un sistema
di alleanze. Forse fu proprio tale consapevolezza che lo portò a non cercare lo scontro col
re indiano Sofagaseno, ma piuttosto a rinnovare il trattato di amicizia stipulato in precedenza
da Seleuco I e Candragupta. Quando il re tornò definitivamente in Siria, nel 205, assunse il
soprannome di Gran Re, grazie alla fama ottenuta con l’Anabasi asiatica. Inoltre, intraprese
una riforma amministrativa dell’impero, eliminando i satrapi e sostituendoli con strateghi, in
province più piccole, che avevano nelle loro mani il potere civile e militare.

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IV. Le origini del regno di Pergamo risalgono all’epoca dei diadochi, quando Filetero,
un semigreco cui Lisimaco aveva affidato la custodia della rocca di Pergamo, si
schierò nel 283 con Seleuco, ottenendo il dominio sulla città e i suoi dintorni. Alla
morte di Filetero, nel 263, il successore Eumene I ruppe coi Seleucidi e si dichiarò
indipendente. Riuscì anche a riportare un’importante vittoria contro Antioco I, cosa
che gli permise di estendere il territorio sotto il controllo pergameno. Quando Eumene
morì, gli successe il nipote Attalo I, che ebbe subito da affrontare i problemi derivanti
dalla “guerra fratricida” tra Seleuco II e Antioco Ierace, di cui si è detto. Gli scontri
con Ierace continuarono fino a quando, nel 227, egli fu costretto ad abbandonare
l’Asia Minore, lasciandola nelle mani di Attalo (che nel 237 assunse il titolo di
basileus, oltre che l’epiteto di soter).
Si è già detto di come l’espansionismo pergameno preoccupò Seleuco II, al punto da fargli
abbandonare la spedizione in Iran per tornare in Occidente. La morte nel 226 gli impedì
qualunque azione, cosa che fece il figlio Seleuco III, sebbene anche questi fosse fermato
dal suo assassinio nel 223. Fu il viceré Acheo, un anno dopo, ad attaccare Attalo
strappandogli tutto quello che aveva conquistato fino ad allora. Ad impedire che la sconfitta
diventasse disfatta, furono le difficoltà della dinastia seleucide, divisa al suo interno e
costretta a combattere su più fronti. Quando si verificò l’usurpazione di Acheo, infatti, le
posizioni dei due regni si riavvicinarono, dato che Antioco III, per sconfiggere il ribelle, stipulò
alleanze anche con i precedenti nemici. Tali accordi, quando fu messa fine alla secessione
(212), permisero ad Attalo di recuperare una parte dei territori persi in precedenza.
Gli anni successivi videro un progressivo allontanamento di Attalo dai Seleucidi e un
avvicinamento alla potenza romana, al fianco della quale partecipò alla prima guerra
macedonica. Questa alleanza diede i suoi frutti maggiori alla fine della guerra contro Antioco
III, quando Eumene II, con la pace di Apamea (189-188), riuscì ad ottenere dal Senato
romano i territori sottratti ai Seleucidi. Un certo raffreddamento nei rapporti si ebbe verso la
fase finale del regno, quando il Senato, durante l’insurrezione galata (168-166), rifiutò di
riceverlo e di prestargli soccorso, ma quando salì al trono Attalo II (156), riportò un clima di
fiducia tra Pergamo e Roma e i Romani tornarono alla vecchia alleanza. Il regno terminò
alla morte del successore Attalo III (133), che lo lasciò in eredità a Roma.
V. La Bitinia era un piccolo Stato che occupava una lingua di terra che andava dal Mar
Nero fino al basso corso del fiume Sangario. Già in età persiana era governata da
una dinastia locale che era riuscita a mantenere autonomia e indipendenza, sebbene
legata da rapporti di vassallaggio al Gran Re. Secondo la tradizione, fu Zipoites ad
assumere il titolo di basileus (297/296), rifiutando la sottomissione a Lisimaco. Ma il
conflitto più lungo e più forte fu quello con Antioco I, che cercava di allargare i suoi
domini mentre Zipoites cercava uno sbocco al mare.in seguito a questo conflitto, il
successore di Zapoites, Nicomede I, chiamò in soccorso i Galati, dando inizio
all’utilizzo di questi “barbari” nelle guerre d’Asia Minore. Maggiore risultato del nuovo
re fu la conquista dello sbocco a mare, che fece sì che, nel 260, sulla costa fosse
fondata la nuova capitale, la città di Nicomedia. Altra importante acquisizione fu
l’accrescimento delle attività commerciali, per cui divenne strategicamente
importante l’alleanza coi Tolomei, anche allo scopo di tenere a distanza i Seleucidi.
Questa politica fu seguita anche dal figlio Ziaelas e dal figlio di questi Prusia I, il quale strinse
legami con gli Antigonidi sposando una sorellastra di Filippo V. La vicinanza ai Macedoni lo

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portò ad appoggiare Filippo nella prima guerra macedonica, ma restò neutrale durante la
seconda (200-197), cosa che lo salvò dal disastro. Prusia rimase neutrale anche nella
guerra che oppose Roma ad Antioco III, ma ciò non impedì che, con la pace di Apamea,
fosse obbligato a cedere ad Eumene di Pergamo parte della Frigia. Infuriato, egli, su
suggerimento di Annibale, mosse guerra ad Eumene II nel 186, con l’appoggio di Galati e
Macedoni. Ma, poiché la guerra restava dall’esito incerto, si chiese l’arbitrato di Roma, che
lasciò il territorio conteso ad Eumene e intimò a Prusia di consegnare Annibale, rendendo
evidente che per Roma il perno strategico su cui ruotava la sua azione politica in Asia Minore
era il regno di Pergamo.
Fu questa consapevolezza che spinse dapprima Prusia II, asceso al trono nel 182, ad
avvicinarsi a Eumene, ma qualche anno dopo (177 ca.), il suo matrimonio con la sorella del
re macedone Perseo stette a significare che aveva cambiato le sue posizioni. Inoltre, Prusia
si convinse anche che Roma avrebbe visto di buon grado la nascita, in Asia Minore, di una
potenza che facesse da contrappeso a quella pergamena, di cui i Romani cominciavano a
diffidare. Quindi fu con questa convinzione che si presentò al Senato romano per denunciare
i soprusi di Eumene contro i Galati e altre popolazioni dell’Asia Minore. Successivamente,
egli attaccò direttamente il re di Pergamo, che nel frattempo morì (156), lasciando il regno
al fratello Attalo II. Questi, però, godeva di maggiore apprezzamento a Roma, così, quando
Prusia costrinse Attalo a rifugiarsi nella fortezza di Pergamo, i Romani gli imposero di ritirarsi
e a versare una forte indennità di guerra ad Attalo (154). Qualche anno più tardi, il re bitinico
fu ucciso in una congiura di corte organizzata dal figlio Nicomede II, che gli successe. Da
questo momento in poi, la Bitinia entrò stabilmente nell’orbita politica romana, fino a quando,
nel 74, Nicomede IV morì senza figli maschi e, come già era avvenuto per Pergamo, lasciò
il regno in eredità a Roma
VI. La fondazione del regno del Ponto si deve, agli inizi del III secolo, a Mitridate, un
avventuriero di origine persiana che, dopo essersi insediato nella fortezza di Amasia,
si proclamò basileus. L’atto di ribellione fu compiuto nei confronti di Seleuco I, che
fece invadere il Ponto da uno stratego, il quale però subì una dura sconfitta. Il
successo riportato da Mitridate spinse le città della lega del Nord a cercare
un’alleanza con lui, cosa che permise al re pontico di raggiungere uno sbocco a mare.
Alla sua morte, nel 266, gli successe il figlio Ariobarzane. I rapporti coi Seleucidi
ebbero una svolta però solo quando il suo successore Mitridate II sposò la sorella di
Seleuco II. Questa politica di alleanze continuò anche dopo, dato che Mitridate II
diede la propria figlia in sposa ad Antioco III. Fu all’epoca di questo re che il Ponto
assunse una certa consistenza. La spinta espansionistica fu ripresa nel secolo
successivo dal nipote Farnace I, che nel 183 attaccò la città di Sinope, annettendo al
suo regno un’ampia fascia litoranea. Quindi rivolse le sue mire verso l’interno
devastando la Paflagonia. Le conquiste politiche non potevano non inquietare
Eumene II di Pergamo, che si rivolse ai Romani. Ma questi ultimi non presero di fatto
nessuna misura concreta. Quando, in successivi assalti, furono prese di mira la
Cappadocia e la Galazia, si costituì una coalizione che, sotto la guida di Eumene e
di Ariarate IV di Cappadocia, invase il Ponto costringendo Farnace ad avviare
trattative di pace. Con questo accordo, egli fu costretto ad abbandonare le sue
conquiste in Galazia e Paflagonia e a pagare ingenti indennità di guerra (179).
Queste dure condizioni ebbero l’effetto di bloccare la sua politica espansionistica.

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Il suo successore, il fratello Mitridate IV Filopatore, strinse rapporti di amicizia e alleanza col
Senato romano. Tale alleanza fu riaffermata anche da Mitridate V Evergete, che, salito al
trono intorno al 150, inviò delle navi in soccorso di Roma durante la terza guerra punica,
mentre nel 133 mandò truppe a Pergamo per combattere il ribelle antiromano Aristonico. Il
Senato lo ricompensò con la donazione della Frigia. Mitridate V, però, aspirava a rinnovare
l’espansionismo di Farnace. A tal fine, infatti, radunò un forte esercito e cercò di mettere le
mani sulla Cappadocia, riuscendovi.
Il suo assassinio, avvenuto a Sinope nel 120 ad opera di un gruppo di cortigiani, mise
bruscamente fine alle sue aspirazioni. Egli lasciò il regno in una situazione difficile di cui
approfittarono i suoi nemici romani per togliere al Ponto la Frigia. Su tale “sgarbo” meditò a
lungo il figlio undicenne, che a vent’anni, nel 112, divenne re col nome di Mitridate VI
Eupatore. Subito volle riprendere l’opera del padre, estendendo la sua influenza su Crimea
e Colchide (110-108 ca.), ma il vero problema restava l’Asia Minore. Qui, il punto debole era
la Paflagonia, che Mitridate si divise con Nicomede III di Bitinia (107), il quale però decise
di invadere anche la Cappadocia. L’Eupatore, che la considerava quasi un suo “feudo”,
intervenne e ne nominò re suo figlio. A questo punto i Romani costrinsero i due re ad
abbandonare entrambe le regioni, imponendo in particolare alla Cappadocia un re straniero:
Ariobarzane. A complicare il tutto intervennero due elementi: l’intervento del re di Armenia
Tigrane per ristabilire al trono di Cappadocia il figlio di Mitridate, e il comportamento
dell’Eupatore, che, quando morì Nicomede, impose un proprio uomo sul trono di Bitinia.
Roma fu dunque quasi obbligata ad inviare in Oriente una nuova missione, guidata da M.
Aquilio il quale, dopo aver rimesso al loro posto Ariobarzane e Nicomede IV, compì un atto
avventato spingendoli ad attaccare il Ponto (prima guerra mitridatica, 88-84).
Il re pontico passò all’attacco sconfiggendo prima l’esercito di Nicomede e successivamente
quello di Aquilio, che fu arrestato e giustiziato. Mitridate dominava anche sul mare: la sua
flotta, dopo aver costretto alla resa quella romana, si diresse verso l’Egeo. Egli si presentava
alle città greche col volto benevolo del sovrano filelleno che combatteva l’oppressione
romana, il che fece sì che le poleis lo accogliessero con entusiasmo. Questo spiega due
aspetti fondamentali della sua politica: la spinta a compiere massacri contro chiunque
parlasse una lingua italica, e l’esenzione dalle tasse per 5 anni e l’abolizione di metà dei
debiti concessi alla provincia romana d’Asia, che ormai era nelle sue mani: egli infatti
governava direttamente l’Asia Minore, mentre Ponto e Cappadocia erano affidati a viceré.
Nello stesso anno insorse Atene, che chiese sostegno ad Archelao, l’uomo di Mitridate in
Grecia. A combattere l’insurrezione fu mandato Silla, che, sbarcato in Epiro e sconfitto una
prima volta Archelao (87), sottopose Atene a un lungo assedio che si concluse col
saccheggio della città (86). A questo punto intervenne l’esercito di Mitridate, che però fu
sconfitto a Cheronea. Anche in Asia Minore la situazione stava cambiando: il re pontico
mostrava sempre più l’aspetto di despota. Quindi, quando giunsero le notizie delle sconfitte
subite da Mitridate in Grecia, si verificarono le prime rivolte contro di lui. A questo punto
Mitridate fu costretto ad assumere una posizione ancora più radicale sul piano sociale:
abrogò i debiti privati e liberò gli schiavi, creando una nuova frattura fra possidenti e non,
schiavi e padroni. Nello stesso tempo, ordinò ad Archelao di aprire un negoziato coi Romani.
Fu dunque con Silla che Mitridate concluse un trattato di pace a Dardano in Troade (85). Le
condizioni per lui furono dure: abbandonare tutti i territori conquistati in Asia Minore. Ma
poiché tardava a lasciare la Cappadocia, la guerra riprese nell’83 e durò fino all’81, quando
Mitridate si decise a restituirla al legittimo re.

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Il periodo successivo fu caratterizzato sia dal ritorno nei loro rispettivi regni di Nicomede e
Ariobarzane, sia dalle punizioni o dai premi alle città greche, a seconda di come si erano
comportate durante la prima guerra mitridatica. Un evento importante fu la morte di
Nicomede IV (74), che lasciò il suo regno in eredità ai Romani. Mitridate approfittò dello
sconcerto creato dal testamento per invadere la Bitinia. La controffensiva di Lucullo non si
fece attendere (terza guerra mitridatica): il generale romano prima si impossessò della
Bitinia e successivamente inseguì Mitridate fin dentro il Ponto, costringendolo a rifugiarsi
dal genero Tigrane, in Armenia (72). Due anni dopo Lucullo invitò il Senato a trasformare il
Ponto in provincia romana, ma restava aperto il problema armeno. Egli vi penetrò, sconfisse
Tigrane e si impadronì della capitale. Tuttavia, l’obiettivo di Lucullo era eliminare Mitridate,
quindi costrinse il suo esercito ad inseguire i due re in territorio armeno. Tigrane, dopo
un’altra sconfitta, spinse il suocero a tornare nel Ponto. A questo punto si verificò un
ribaltamento della situazione: Lucullo, che a Roma aveva molti nemici, si vide privare
dell’incarico, che venne affidato a Pompeo (67). Quest’ultimo decise di chiudere i conti con
Mitridate: occupò prima la Cappadocia e poi il Ponto, costringendo il re a fuggire in Colchide.
Ma anche da lì il vecchio Mitridate non cessò di darsi da fare per mettere in difficoltà i
Romani. Dapprima provò, senza successo, di intavolare trattative con Pompeo, poi concepì
addirittura un’invasione dell’Italia. Ma quando si accorse di essere ormai abbandonato da
tutti, non esitò a farsi sgozzare da uno schiavo (63). Con lui moriva uno degli ultimi e più
grandi nemici di Roma.
VII. Il regno greco-battriano. Alla morte di Alessandro non si verificò, in Oriente, alcuna
sollevazione, eccetto che in Battriana, regione dell’Iran orientale, dove gli abitanti
delle colonie greche chiesero di essere rimpatriati. Su questi coloni, infatti, ricadde il
peso di vigilare sui confini orientali dell’impero, compito tutt’altro che facile. Infatti,
Seleuco I, impegnato in Occidente contro gli Antigonidi, nel 303 cedette al re indiano
Candragupta un vasto territorio della parte sudorientale del suo regno. Il problema
principale era dunque quello della difesa del confine. A ciò si deve aggiungere che il
compito della classe dirigente greca era diventato più difficile per l’abbandono della
politica di fusione tra Greci e Iranici propugnata da Alessandro. È dunque in relazione
alle difficoltà che i Seleucidi avevano in Occidente che avviene la secessione della
Battriana: nel 239 o 238 il satrapo Diodoto si proclamò re, mentre i Seleucidi erano
impegnati nella “guerra di Laodice”.
Il disinteresse dei seleucidi per le satrapie superiori è confermato dalla contemporanea
ribellione di Andragora in Partiene-Ircania, cui è collegata l’invasione dei Parti che, sotto la
guida di Arsace I, spodestarono Andragora, causando un ancor maggiore isolamento della
Battriana dallo Stato seleucidico. Quando Diodoto morì (230), il suo regno intratteneva
rapporti commerciali con l’India ed era in conflitto con la Partia. Gli successe il figlio, Diodoto
II, che cambiò la politica estera del padre: concluse un’alleanza coi Parti per fare fronte
all’attacco che intanto aveva portato Seleuco II, che cercava di restaurare i confini orientali.
In una data incerta dopo il 227, Diodoto II fu ucciso in una congiura di palazzo e il trono fu
preso da un usurpatore, Eutidemo. Fu proprio lui a scontrarsi con le truppe di Antioco III
durante la sua Anabasi. Come detto, il re battriano fu costretto a rifugiarsi nella capitale
Battra, dove fu assediato per due anni (208-206). Alla fine, si convenne di stabilire una
tregua per evitare il rischio di un’invasione nomade e fu stipulata un’alleanza che
riconosceva Eutidemo come re, in cambio della fornitura di elefanti e grano per l’esercito.
Alla morte di Eutidemo, gli successe il figlio Demetrio I, che promosse una ripresa della

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politica espansionistica battriana. Risale a questi anni la conquista dei territori che la dinastia
maurya aveva sottratto a Seleuco I. in questo periodo, inoltre, si assiste a una
frammentazione del potere all’interno del regno che portò alla nascita di principati. Questi
principati si estesero verso il territorio indiano, determinando una divisione del regno greco-
battriano in due parti, una occidentale e una orientale.
A questo processo pose fine Eucratide I quando prese il potere, nel 171, unificando sotto il
suo dominio i vari principati. Tanto l’ascesa al trono di Eucratide quanto la contemporanea
espansione dei Parti devono essere messe in relazione al movimento di popoli che si verificò
in Estremo Oriente nella prima metà del II secolo. L’espansione partica si rivolse prima verso
la Media, occupata da Mitridate I nel 148, e successivamente verso la Mesopotamia. A sua
volta, anche Eucratide combatté guerre contro Sogdiani, Aracosii, Drangiani, Arii e Indiani,
caratterizzandosi come l’ultimo sovrano battriano con ambizioni imperiali. Al suo ritorno
dall’India (148) fu assassinato dal figlio, e da quel momento in poi i contati con l’Occidente
divennero sempre più radi. La Battriana cessò di essere uno Stato indipendente nel 130-
129; del suo indebolimento approfittò il re Menandro per costruire una delle ultime
formazioni statali indo-greche. Nella sua figura si realizzò una straordinaria fusione culturale
e religiosa di elementi greci, indù e buddisti, una delle eredità più interessanti lasciate dalla
conquista di Alessandro alla storia universale.
VIII. L’Occidente: Siracusa. In Occidente, l’Ellenismo assume caratteri particolari
rispetto al resto del mondo greco. Caratteri che si possono cogliere al meglio nella
storia della polis siracusana. A Siracusa si era costituito, attorno al 330, un regime
dispotico di stampo oligarchico che, attraverso il Sinedrio dei Seicento, era riuscito a
imporre il controllo alla città e a tutte quelle poleis siceliote che ruotavano attorno ad
essa. In quegli anni emerse anche la figura di un ufficiale, Agatocle. Dopo aver
partecipato ad una spedizione in difesa di Crotone, egli entrò in contrasto coi capi
della fazione oligarchica e venne esiliato. Dopo un ritorno seguito da un altro esilio,
Agatocle costrinse i Siracusani a richiamarlo in patria e ad affidargli la carica di
“stratego con pieni poteri” al fine del ristabilimento della concordia. Quindi arruolò
nuovi soldati tra i suoi fedeli e organizzò, nel 316, un “colpo di Stato” contro gli
oligarchici, che in parte furono uccisi e in parte si diedero alla fuga. Quando si
presentò all’assemblea popolare dichiarando di voler deporre ogni carica,
l’assemblea lo riconfermò stratego.
Agatocle, allora, decise di riprendere la tradizionale politica espansionistica dei tiranni
siracusani attaccando Messina, cosa che provocò le rimostranze dei Cartaginesi: nel trattato
stipulato tra Siracusa e Cartagine all’epoca di Timoleonte (e riconfermato negli anni
successivi, infatti, Messina non faceva parte della sfera d’influenza siracusana. Ma quando
la lega formata da Messina, Gela e Agrigento chiamò in soccorso il principe spartano
Acrotato, Cartagine, per evitare ingerenze esterne in Sicilia, riconobbe ad Agatocle
l’egemonia sulle altre città (313). In seguito a questo riconoscimento, Agatocle si impadronì
di Messina obbligandola ad accettare l’alleanza con lui. Questo rinnovato attivismo spinse i
suoi avversari a rivolgersi a Cartagine, che inviò una flotta ad Agrigento per dare soccorso
ai fuorusciti siracusani, guidati da Dinocrate. Per tutta risposta, Agatocle attaccò l’eparchia
punica facendo un ricco bottino. All’inizio del 311 un forte esercito cartaginese sbarcò
nell’isola e si accampò sul monte Ecnomo, nei pressi di Gela. Agatocle attaccò di sorpresa
i Cartaginesi, ma il suo attacco si risolse in un fallimento, cosa che mise il Siracusano in
difficoltà: la sua sconfitta, infatti, spinse diverse città a ribellarsi al suo dominio. A questo

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punto Agatocle decise di portare la guerra dalla Sicilia all’Africa, attaccando Cartagine
direttamente sul suo territorio.
Sbarcato in Africa, seguendo il disegno di isolare la città punica dalle popolazioni ad essa
soggette, raggiunse prima Megalopoli, poi Tunisi, che fu distrutta, infine cinse d’assedio
Cartagine. Nel primo scontro coi Cartaginesi riportò un successo, dedicandosi quindi alla
conquista di altre città. Nel frattempo, in Sicilia, le truppe cartaginesi subirono a Siracusa
una grave perdita: il loro comandante, Amilcare, fu fatto prigioniero e messo a morte.
Agatocle era sempre più convinto che solo con nuove alleanze avrebbe potuto infliggere a
Cartagine il colpo definitivo, quindi nel 309 strinse un patto col generale macedone Ofella,
signore di Cirene: al signore cirenaico sarebbero andati i territori africani, mentre ad
Agatocle la Sicilia. Ma quando i due eserciti si ricongiunsero sotto le mura di Cartagine,
scoppiarono violenti contrasti fra i due comandanti, che portarono all’uccisione del generale
cirenaico e al passaggio del suo esercito sotto le insegne siracusane. Dopo la morte di
Ofella, Agatocle non riuscì a sconfiggere Cartagine in maniera definitiva, quindi, lasciata
gran parte dell’esercito nelle mani del figlio Arcagato, decise di tornare in Sicilia nel 307, per
cercare di raddrizzare la situazione che vi si era creata. Sbarcato a Selinunte, riprese il
controllo di Eraclea, Terme e Cefaledio, ma, a causa della scarsità di forse a disposizione,
rinunciò allo scontro con l’esercito di Dinocrate. Nel frattempo, in Africa, il Senato
cartaginese aveva lanciato una grande offensiva che costrinse Arcagato a rifugiarsi a Tunisi
e a chiedere l’intervento del padre. Tornato dunque in Africa nell’autunno del 307, Agatocle
venne però duramente sconfitto. Ormai non gli rimaneva altro che mettersi in salvo in Sicilia.
I suoi figli, rimasti in Africa con le truppe, vennero poi uccisi dai loro stessi soldati, che
cercavano un’intesa coi Cartaginesi.
Al ritorno in Sicilia, Agatocle si recò dapprima a Segesta, alleata cui inflisse una dura
punizione per la sua infedeltà. Allo stesso modo, giunto a Siracusa, punì i familiari dei soldati
che avevano ucciso i suoi figli. E poiché il suo fidato generale Pasifilo lo abbandonò,
passando dalla parte degli oligarchici, egli concluse con Cartagine un trattato di pace e
decise di farla finita con Dinocrate. La battaglia decisiva avvenne nel 304 a Torgion
(probabilmente nelle Madonie) e Agatocle ebbe la meglio. Tra il 306 e il 304 la Sicilia (ad
eccezione dell’eparchia punica) cadde tutta nelle mani di Agatocle.
In politica estera, egli abbandonò il “sogno africano” inserendosi nella tradizione siracusana
che vedeva nella Magna Grecia il principale luogo di espansione. In particolare, cercò di
costituirsi un dominio in Italia, tanto nell’area adriatica quanto in quella di antica
colonizzazione corinzia. Ma la conquista più importante fu l’isola di Corcira (298). Al rientro
da questa, Agatocle dovette preparare una spedizione contro Crotone, quindi, dopo aver
occupato questa città. Si alleò con Iapigi e Peucezi e, tra il 295 e il 290, condusse un’altra
spedizione contro la città bruzia di Ipponio.
Essendo ormai Siracusa una potenza internazionale, Agatocle decise di perseguire una
spregiudicata politica di alleanze matrimoniali: poiché nello scontro per il trono di Macedonia
fra Pirro e Demetrio Poliorcete era prevalso quest’ultimo, decise di dare in moglie al vincitore
la figlia Lanassa, precedentemente data all’Epirota. Anche Demetrio era interessato
all’affare, perché il matrimonio, oltre a renderlo padrone di Corcira (data in dote a Lanassa),
lo metteva in condizione di partecipare attivamente alla politica siracusana, una volta uscito
di scena Agatocle. E fu infatti col cognato Agatocle II, designato come successore dal padre,
che si arrivò ad un trattato di amicizia e alleanza tra Siracusa e la Macedonia. La

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designazione, tuttavia, provocò disappunto nel nipote del re Arcagato, che uccise Agatocle
II. Il vecchio Agatocle, allora, convocò l’’assemblea popolare e restituì la sovranità al popolo,
ristabilendo la repubblica. Egli morì poco dopo, a 72 anni. Il suo fu l’ultimo tentativo di fare
di Siracusa una protagonista fra le potenze ellenistiche. In seguito, la Sicilia conoscerà il
fallito tentativo di Pirro di costruirsi un regno in Occidente e il lungo governo monarchico di
Ierone II, che sarà tuttavia condannato a vivere all’ombra della potenza romana.

Poleis e Stati federali

I. La crisi della polis in età ellenistica non riguarda il modello di comunità, tanto è vero
che si propaga ulteriormente anche in zone che nelle epoche precedenti non erano
mai state toccate dalla penetrazione coloniale dei Greci, quanto piuttosto il suo ruolo
nei rapporti interstatali: le città continuano a godere della loro autonomia, ma,
costrette a confrontarsi con le grandi monarchie territoriali, non possono che
rassegnarsi a gravitare nell’orbita delle nuove potenze, avendo di conseguenza un
peso trascurabile nella politica internazionale.
Non mancano, certo, le eccezioni, la più significativa delle quali è Rodi. Favorita dalla
posizione e dagli stretti rapporti intrattenuti con l’Egitto dei Tolomei, diventa uno dei principali
centri commerciali del Mediterraneo orientale, e, grazie alle ingenti risorse che le vengono
dagli introiti portuali, può dotarsi di una forte flotta da guerra e imporre la sua egemonia alle
Cicladi, quando venne meno la supremazia navale dei Tolomei. Così, i Rodii riescono ad
assicurarsi una posizione di tutto rispetto e anche a garantirsi la preziosa amicizia dei
Romani, che, dopo la guerra romano-siriaca, assegnano proprio a Rodi alcuni dei territori
micrasiatici sottratti ai Seleucidi. Per le altre poleis, al contrario, il massimo obiettivo consiste
nella salvaguardia della propria autonomia.
Al declino delle poleis, troppo deboli per competere con le grandi monarchie, fa riscontro lo
sviluppo di un altro modello politico, quello dello Stato federale. Ne è interessata soprattutto
la madrepatria greca, in cui sono per l’appunto due koina, la lega etolica e quella achea, a
svolgere un ruolo di primo piano nella politica interstatale.
II. Si è detto del declino di Atene, in età ellenistica, che la vide imporsi dai Macedoni un
governo oligarchico guidato da Demetrio Falereo (317) fino a quando Demetrio
Poliorcete non lo costrinse alla fuga, ripristinando la democrazia (307).
Ma i rapporti tra il sovrano e la città non tardano a cambiare. Dopo la sconfitta di Ipso, Atene
si avvicina a Cassandro, e un demagogo che si avvale dell’appoggio di quest’ultimo, Lacare,
si impadronisce del potere instaurando un regime tirannico. Nel 295 Demetrio Poliorcete
cerca di riportare la città sotto il proprio controllo, ma stavolta non è accolto come liberatore:
gli Ateniesi gli oppongono una dura resistenza, che sarà piegata solo dopo un lungo assedio
che li vede soccombere per fame (294). Questa volta, Demetrio non rispetta l’autonomia
della polis: ne condiziona pesantemente la vita politica e occupa il Pireo, Munichia e la
stessa città, insediando una guarnigione sulla collina del Museo. Nel 287 una rivolta guidata
da Olimpiodoro pone fine all’occupazione, lasciando ai Macedoni il solo Pireo.

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Ma per Atene, che ora deve fare i conti con le mire egemoniche del figlio di Demetrio,
Antigono Gonata, le traversie non sono finite. Nel 267, il re d’Egitto Tolomeo II Filadelfo la
trascina nella cosiddetta “guerra cremonidea”, che si conclude con la resa ai Macedoni nel
262/261. Le conseguenze della sconfitta sono disastrose: Atene subisce pesanti limitazioni
alla sua autonomia, le sono imposti un governatore macedone e magistrati di nomina regia
e le viene vietato di coniare la propria moneta, con inevitabili danni all’economia.
L’indipendenza verrà recuperata solo nel 229, non con le armi, ma con il denaro: infatti, con
l’apporto determinante di Arato, capo degli Achei, gli Ateniesi raggiungono un accorso col
comandante macedone Diogene, che accetta di ritirare le truppe per 150 talenti. Da questo
momento, comincia una fase di relativa tranquillità e prosperità per Atene, che riesce a
salvaguardare la sua autonomia, a garantirsi il favore e la protezione delle grandi monarchie
e in seguito anche un trattamento di riguardo da quella che diventerà la potenza arbitra dei
destini della Grecia, ossia Roma.
III. La Sparta ellenistica, oltre ad essere lontana dai fasti del passato come Atene, è
travagliata da una grave crisi sociale: il gruppo dei cittadini con pieni diritti è ridotto a
700 unità, e tra gli stessi spartiati la gran parte si trova in uno stato di disagio e
indebitamento. A porre rimedio a questa situazione prova il re Agide IV: salito al trono
nel 244, si sbarazza dell’altro re, Leonida II, contrario alle riforme, e fa approvare un
ambizioso programma che prevede la cancellazione dei debiti, l’ampliamento del
corpo civico e la ridistribuzione delle terre, oltre che la restaurazione dell’antico stile
di vita spartano. Ma il suo tentativo fallisce quando si assenta per aiutare gli Achei
contro gli Etoli. I ricchi proprietari terrieri fanno rientrare Leonida dall’esilio e quando
Agide ritorna, nel 241, viene processato e condannato a morte.
Curiosamente, la sua eredità verrà ripresa dal figlio di Leonida, Cleomene III. Questi,
diventato re nel 235, entra in urto con la lega achea e nel 229 invade il territorio di
Megalopoli, iniziando la cosiddetta “guerra cleomenica”. Rafforzato dai primi successi, il
sovrano decide di riprendere il progetto di radicale riforma della società di Agide. A tal fine,
nel 227 attua un vero e proprio colpo di Stato, con cui instaura un regime autocratico: elimina
gli efori ed abolisce l’eforato, esilia ottanta esponenti delle famiglie dominanti, restaura il
tradizionale sistema educativo spartano, l’agoghé, e provvede a rinfoltire il corpo civico
portandolo a 4000 unità, dando ai nuovi elementi lotti di terra confiscati ai grandi proprietari.
In questo modo, Sparta dispone di una discreta forza oplitica, che le consente di contendere
l’egemonia sul Peloponneso agli Achei.
Nel frattempo, la guerra continuava, registrando altri successi di Cleomene. Il capo degli
Achei, Arato, prende allora una decisione che segna una svolta radicale nella politica del
koinon: nel 225 manda un’ambasceria al re macedone Antigono Dosone, cui offre Corinto
in cambio dell’alleanza contro Sparta. Antigono non si fa sfuggire l’occasione e nel 224
scende nel Peloponneso, dando vita ad un’alleanza panellenica (la “lega di Egion”) sotto
l’egemonia macedone, che raccoglie gran parte degli Stati greci.
Cleomene deve dunque fare i conti con la schiacciante superiorità degli avversari, e il
conflitto si conclude con la sua sconfitta a Sellasia, nel 222, nella Laconia settentrionale.
Cleomene si dà alla fuga, mentre Antigono entra in Sparta. Le conseguenze per la città sono
pesanti: all’abrogazione delle riforme di Cleomene si accompagna infatti l’imposizione di un
governatore e di un presidio macedone e l’obbligo di entrare a far parte della lega di Egion.

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Intanto Cleomene, accolto in Egitto da Tolomeo III, entra in conflitto col successore,
Tolomeo IV e muore in un tumulto ad Alessandria (219).
Sparta è però ben lungi dall’essere domata. Dopo il breve regno di un certo Licurgo, a
riprendere un’aggressiva politica espansionistica è il re Nabide, che, andato al potere nel
207, si distingue per il radicalismo della sua azione in campo sociale e per il suo modo
autocratico di governare. Infatti, egli si rivela ancora più brutale di Cleomene nel perseguire
i propri fini: fa uccidere o manda in esilio gli oppositori, confisca e ridistribuisce le loro terre
e arriva anche ad affrancare gli iloti, inserendoli nel novero dei cittadini. In politica estera,
combatte a più riprese contro gli Achei, e, impadronitosi di Argo nel 197, mette in atto anche
lì un ambizioso programma di riforme sociali, ma i Romani, che nel 195 gli fanno guerra alla
testa di una coalizione di Stati greci, lo costringono a ritirarsi in Laconia. Nabide muore nel
192 e la sua fine è anche la fine delle ultime velleità di potenza di Sparta, che infatti viene
incorporata nella federazione achea.
IV. Uno dei principali protagonisti delle vicende greche di epoca ellenistica è uno Stato
federale sorto in una regione montuosa e culturalmente arretrata della Grecia centro-
occidentale, l’Etolia.
Con un ruolo del tutto marginale fino al IV secolo (i suoi abitanti erano considerati barbari
dagli altri Greci), tanto è vero che non si sa con esattezza quando fu formato il koinon. È
comunque dai primi decenni del III secolo che la lega etolica comincia a far sentire il suo
peso. Il suo prestigio si accresce a partire dal 279, anno in cui la Grecia è invasa dai Galati,
contro cui muore il re di Macedonia Tolomeo Cerauno: sono infatti gli Etoli che riescono a
contrastarne l’avanzata e a salvare dal saccheggio il santuario di Delfi, che viene così
assorbito nella loro orbita. La vicenda segna l’inizio di una fase di rapida espansione, con il
quale la lega arriva a controllare una vasta zona della Grecia centrale, dal mare Ionio al
golfo di Malide. Gli Etoli si interessano anche del Peloponneso, ma devono fare i conti con
la potente lega achea, da cui vengono pesantemente sconfitti nel 241 a Pellene. Inoltre,
sono molto attivi sui mari: tradizionalmente usi a praticare il brigantaggio e la razzia, gli Etoli,
assieme ai cretesi, sono responsabili dell’incremento della pirateria.
Ciò che caratterizza la storia della lega etolica è però la conflittualità col regno di Macedonia,
che diventa il principale antagonista. Quando Demetrio II, figlio del Gonata, nel 239 decide
di appoggiare l’Epiro contro le minacce espansionistiche del koinon, gli Etoli non esitano ad
allearsi con gli Achei, dando inizio alla cosiddetta “guerra demetriaca”, combattuta dalle due
leghe contro la Macedonia, che durerà fino alla morte di Demetrio, nel 229. Le ostilità
proseguiranno comunque anche col successore, Antigono Dosone, e quando questi fonda
la lega di Egion l’Etolia è uno degli Stati che ne restano fuori. Anche con Filippo V, salito al
trono nel 221, i rapporti saranno turbolenti. L’anno successivo, infatti, in seguito a una serie
di incursioni etoliche nel Peloponneso, si scatena un nuovo conflitto (“guerra sociale”) che
si conclude, senza risultati di rilievo, con la pace di Naupatto nel 217. Pochi anni, dopo,
entrati in scena i Romani, gli Etoli si schierano dalla loro parte nella prima e nella seconda
guerra macedonica, ma non ne traggono grande profitto. Poi, durante la guerra romano-
siriaca, militano nel fronte antiromano e alla fine devono rassegnarsi ad un drastico
ridimensionamento della loro potenza.
Del koinon si conoscono gli aspetti essenziali delle istituzioni. Supremo organismo è
l’assemblea federale: aperta a tutti i cittadini della lega, senza limitazioni di censo, si riuniva
due volte l’anno e aveva competenza in politica estera e su ogni questione riguardante

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l’intero Stato. Ne preparava i lavori un consiglio di 1000 membri, rappresentanti le varie


comunità. Al vertice vi era uno stratego, eletto annualmente dall’assemblea insieme agli altri
magistrati federali. È attestato anche un comitato ristretto di circa trenta membri, gli
apokletoi, che assicura il disbrigo degli affari correnti.
V. Come l’Etolia, anche l’Acaia, nel Peloponneso settentrionale, ha un’importanza
marginale prima dell’epoca ellenistica, quando la sua lega assurge a grande potenza.
Il periodo più antico della lega è piuttosto oscuro, ma è l’entrata in scena di un giovane
condottiero, Arato, che sarà determinante per i suoi destini. Nativo di Sicione, nel 251 ne
depone il tiranno e la fa aderire alla confederazione achea. Egli svolge per lungo tempo un
ruolo di primo piano nel koinon, che sotto la sua guida si espande considerevolmente. Nel
243 gli Achei si impadroniscono di Corinto, sito di notevole importanza strategica, e con le
successive adesioni di Argo, Epidauro, Megara e Megalopoli, oltre che di altre città
arcadiche, estendono il loro controllo anche su buona parte del Peloponneso. La lega, nella
quale le comunità non achee venivano incorporate con piena parità di diritti, diventò così
una potenza militare con cui sia gli Etoli che i Macedoni dovevano fare necessariamente i
conti.
Come detto, Arato, fiero antagonista dei Macedoni, non si fece scrupoli ad allearsi con loro
per contrastare l’espansionismo di Sparta. Ebbe così inizio un sodalizio con la monarchia
macedone che continuò anche dopo la fine della guerra con Sparta. Tra il 220 e il 217 gli
Achei furono al fianco di Filippo V nella guerra sociale; negli anni seguenti, sotto un nuovo
capo, Filopemene di Megalopoli, affiancarono ancora il sovrano macedone nella prima
guerra contro Roma. Solo nel 198, durante la seconda guerra macedonica, la lega si allineò
ai Romani. Sebbene all’inizio la nuova scelta di campo si rivelasse produttiva, tanto che
dopo il conflitto gli Achei controllavano l’intero Peloponneso, i rapporti con la potenza
egemone non tardarono a deteriorarsi, tanto che sarà proprio la lega achea, con le sue
turbolenze, a spingere i Romani a mettere fine alla libertà della Grecia nel 146.
L’organizzazione interna della lega non è del tutto chiara. A suscitare incertezze è
soprattutto il ruolo dell’assemblea, che sembra sia stato ridimensionato dalla fine del III
secolo, trasferendo la sovranità al consiglio, formato dam un numero imprecisato di
rappresentanti delle varie comunità. Comunque, anche qui la suprema carica era la
strategia, che diventa monocratica nel 255 ed è ricoperta anche da personaggi non achei.
È attestato poi un apparato magistratuale particolarmente articolato. Non si hanno notizie di
restrizioni censitarie per l’accesso al consiglio e alle magistrature, ma è indubbio che i ceti
abbienti determinassero la politica dello Stato.

I Greci e Roma

I. Pirro, ambizioso sovrano d’Epiro e brillante condottiero, svolge un ruolo di rilievo


anche nella Grecità d’Occidente nella prima metà del III secolo. Costretto ad
abbandonare il suo Paese già bambino, quando se ne impossessa Cassandro, nel
306 vi fa ritorno e diventa re, ma nel 302 si allontana di nuovo per recarsi in Oriente,
dove combatte al fianco di Antigono e Demetrio a Ipso. Mandato in ostaggio ad
Alessandria, si lega a Tolomeo, attraverso cui entra in contatto con Agatocle e ne

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sposa la figlia Lanassa. Con l’aiuto di Tolomeo può infine tornare sul trono d’Epiro.
Riconquistato il regno, Pirro non resta inattivo: partecipa alle lotte fra diadochi per il
controllo della Macedonia. Quando nel 281 se ne impadronisce Tolomeo Cerauno,
Pirro deve rinunciare ai suoi progetti sulla regione.
Ma subito gli si presenta un’altra occasione, quella di intervenire in Magna Grecia su
richiesta di Taranto. A minacciare la città era la nuova potenza, Roma, che, dopo la vittoria
nelle guerre sannitiche, aveva esteso le sue mire egemoniche all’Italia meridionale. Infatti,
intervenuti in soccorso di Turi contro i Lucani nel 282, i Romani insediarono un presidio nella
città e penetrarono provocatoriamente con una flotta nel golfo tarantino. I Tarantini reagirono
sequestrando la flotta e imposero alle truppe insediate a Turi di lasciare la città. In questa
occasione, chiesero l’aiuto di Pirro. Questi, attirato da nuove conquiste, raccolse un grosso
esercito e nella primavera del 280 attraversò l’Adriatico.
L’inizio è promettente: Pirro si scontrò coi Romani ad Eraclea e li sconfisse. Tale vittoria gli
ottenne l’adesione di Lucani, Bruzi, Sanniti e di alcune poleis greche. A questo punto, Pirro
propose un trattato di pace ai Romani in cambio del loro impegno a restituire i territori
strappati ai suoi alleati. Roma rifiutò, ma venne ancora sconfitta nel 279 ad Ascoli Satriano,
nella Puglia settentrionale.
Ma Pirro interruppe improvvisamente la guerra coi Romani perché gli giunse una richiesta
di aiuto da Siracusa, assediata dai Cartaginesi. Così, nell’ottobre 278, l’Epirota sbarcò in
Sicilia e in breve tempo, tra il 278 e il 277, cacciò i Cartaginesi da tutta la Sicilia, ad eccezione
della fortezza di Lilibeo, che, malgrado un lungo assedio, non riuscì ad espugnare. Durante
l’assedio gli arrivò una proposta di pace dai Cartaginesi, che lui rifiutò.
Ma l’idillio con le poleis dell’Isola durò poco: Pirro avrebbe voluto attaccare i Cartaginesi in
Africa, ma si scontrò con le forti resistenze dei suoi alleati. Le città siceliote, esasperate dalle
richieste di tributi, cominciarono a mostrarsi insofferenti dell’autorità del sovrano, che
vedevano adesso come una minaccia per la propria autonomia. Quindi, nell’autunno del
276, Pirro decise di rinunciare ai progetti siciliani e tornò dagli alleati magno-greci, che ne
invocavano il ritorno, trovandosi in difficoltà contro i Romani.
Dopo essere sbarcato a Locri e tentato, invano, di impadronirsi di Reggio, egli risalì la
penisola e affrontò nuovamente i Romani. Ma stavolta le cose gli andarono male: lo scontro
decisivo avvenne nell’estate del 275 a Maleventum (ribattezzata poi Beneventum), dove
venne disastrosamente sconfitto. A questo punto, non gli rimase che tornarsene
precipitosamente in patria.
In Epiro, non rinunciò comunque alle sue mire espansionistiche. Pochi mesi dopo, combatté
contro Antigono Gonata per il controllo della Macedonia, e nel 272 approfittò di una richiesta
di aiuto dell’esule spartano Cleonimo per trasferirsi nel Peloponneso e continuare la lotta
contro il potente rivale. Ma qui, dopo aver tentato inutilmente l’assedio di Sparta e la presa
di Argo, morì combattendo nello stesso anno.
Contemporaneamente, Taranto fu costretta ad arrendersi e ad accettare l’alleanza con
Roma, mettendo così fine alla secolare autonomia delle poleis italiote.
II. In Sicilia, Siracusa godette ancora di un periodo di indipendenza, anche se la Magna
Grecia era ormai sotto il dominio romano. Protagonista di tale periodo fu un abile
sovrano, Ierone II.

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Ufficiale di Pirro nella guerra contro i Cartaginesi, Ierone si impone ben presto al potere: già
nel 275/274 si fa nominare stratego per combattere i Mamertini, mercenari campani che si
erano impadroniti di Messina, minacciando le città circostanti. Nel 269 Ierone li sconfigge, e
al ritorno a Siracusa si fa proclamare basileus. Il suo regno sarà lunghissimo, concludendosi
con la sua morte a 92 anni nel 215.
Quando i Romani intervengono in Sicilia su richiesta dei Mamertini, nel 264, dando così
inizio a quella che sarà la prima guerra punica, Ierone è inizialmente schierato coi
Cartaginesi, ma già nel 263, di fronte all’andamento delle campagne militari, cambia fronte
e perviene a un accordo di pace e amicizia con Roma, rendendosi utile con la fornitura di
grano, navi e materiale bellico. La sua scelta si rivela produttiva: alla fine del conflitto, mentre
la Sicilia occidentale è annessa da Roma, Ierone riesce a conservare la propria autonomia.
Egli assicura a Siracusa un lungo periodo di stabilità e prosperità economica. Il modello cui
si ispira è quello delle grandi monarchie contemporanee: Ierone governa a titolo personale,
affiancato da un consiglio di philoi (tra cui il celebre scienziato Archimede), conia monete
con la sua effigie e quella della moglie e non esita a farsi tributare onori divini. In campo
economico, forte impulso ricevono l’agricoltura ed il commercio. Con il prelievo di una
decima sui raccolti, il sovrano è in grado di accumulare ingenti risorse, destinate, oltre che
al mantenimento della corte, alla realizzazione di numerosi lavori di edilizia pubblica.
Allo scoppio della seconda guerra punica (218), Ierone si conferma fedele alleato dei
Romani. Ma alla sua morte, la situazione precipita: il nipote Geronimo, suo successore,
rinnega l’alleanza coi Romani e si schiera coi Cartaginesi, e quando questi viene ucciso, nel
214, tale scelta è confermata dal demos. Le conseguenze sono disastrose: nel 212, dopo
una strenua resistenza all’assedio dei Romani, Siracusa viene conquistata e brutalmente
saccheggiata, e quando ha termine il conflitto, nel 201, anche lo Stato siracusano è
aggregato alla provincia romana di Sicilia.
III. Nel 229 i Romani, in seguito alle lamentele dei commercianti italici danneggiati dalla
pirateria illirica, intervengono in Illiria, facendone un protettorato. Loro alleato, in
questo frangente, è un ambizioso dinasta di faro, Demetrio, che però, alcuni anni
dopo, diventa a sua volta protagonista di azioni di pirateria. Ciò comporta un nuovo
intervento romano in Illiria (219) e la sua fuga in Macedonia. Ed è appunto Demetrio
che induce il giovane sovrano macedone Filippo V a volgere la sua attenzione
all’Illiria, approfittando del fatto che i Romani sono impegnati nella seconda guerra
punica. Così Filippo, dopo la schiacciante vittoria di Annibale a Canne, stipula nel
215 col condottiero cartaginese un’alleanza che gli garantisce il controllo dell’Illiria
una volta sconfitti definitivamente i Romani. Ha inizio così la “prima guerra
macedonica”.
I Romani, impegnati su due fronti, sono obbligati a cercare alleanze in Grecia. Trovano
un’intesa con la lega etolica, tradizionale nemica della Macedonia: tra il 212 e il 211 viene
stipulata un’intesa che prevede che siano gli Etoli a beneficiare di eventuali conquiste
territoriali. Al fronte antimacedone si aggregano anche le poleis del Peloponneso ostili alla
lega achea e il sovrano di Pergamo, Attalo I. con Filippo si schiera la lega achea, comandata
da Filopemene, e alcuni Stati della Grecia centro-settentrionale.
La guerra si prolunga per vari anni, ma nessuna delle due parti riporta successi significativi.
Nel 206, tuttavia, è Filippo ad ottenere un risultato rilevante: attaccati nella loro capitale

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federale e delusi dal comportamento dei Romani che riservano i maggiori sforzi alla guerra
contro Annibale, gli Etoli si rassegnano a concludere col Macedone una pace separata, che
impone loro una serie di rinunzie territoriali. I Romani, presi alla sprovvista e non volendo
continuare la guerra con le sole loro forze, avviano trattative per la pace, che viene siglata
nel 205 a Fenice, in Epiro, e che vede associati, secondo Tito Livio, vari Stati greci fra quelli
amici dei Romani.
Il conflitto si chiude dunque senza vincitori né vinti, e i Romani mantengono il protettorato
sull’Illiria, ma il trattato di pace dà a Roma il pretesto per intervenire nelle contese interne
alla Grecia per tutelare gli Stati amici.
IV. Nel periodo immediatamente successivo alla pace di Fenice, Filippo è molto attivo:
tra il 203 e il 2020 si accorda segretamente col re di Siria Antioco III per spartirsi i
territori del regno d’Egitto, quindi avvia un’azione espansionistica nell’area degli
stretti e in Asia Minore, dove combatte contro le forze di Pergamo e Rodi, che nel
201 chiedono l’intervento di Roma. Qui, il Senato chiede ai comizi di dichiarare guerra
a Filippo, ma gli viene inizialmente opposto un rifiuto. Tuttavia, dopo un ultimatum
fatto avere al sovrano macedone, nell’estate del 200 la proposta del Senato viene
accolta, dando inizio così ad un secondo e ben più impegnativo conflitto tra Roma e
la Macedonia.
La svolta per i Romani, dopo un inizio poco promettente, avviene nel 198. Ne è artefice il
nuovo comandante romano, Tito Quinzio Flaminino, che si distingue per la sua offensiva
diplomatica nei confronti dei Greci, presentandosi come colui che vuole difendere la loro
libertà dalle pretese egemoniche della Macedonia. In breve tempo, Flaminino riesce ad
isolare Filippo, abbandonato anche dagli Achei, passati coi Romani in cambio della
restituzione di Corinto. Dopo il fallimento di un negoziato a Nicea, nella Locride, il conflitto
si concentra in Tessaglia, qui, nella località di Cinoscefale, ha luogo lo scontro decisivo (197)
che vede prevalere i Romani.
Le condizioni del trattato di pace sono, per Filippo, pesanti: deve rinunciare a tutti i suoi
possedimenti, consegnare la sua flotta e pagare una cospicua indennità di guerra. E le
aspettative generate in Grecia dalla propaganda romana non vengono deluse: coadiuvato
da una commissione senatoria di dieci membri, Flaminino definisce il nuovo assetto della
Grecia, e ai giochi istmici del 196 proclama, tra l’entusiasmo dei presenti, la decisione del
senato di riconoscere la libertà dei popoli precedentemente sottomessi alla Macedonia e di
tutti gli altri Greci, sia d’Europa che d’Asia, garantendo che non saranno sottoposti a tributi,
né a presidi militari. I Romani, però, mantengono ancora per un po’ di tempo le loro truppe
in Grecia, e solo nel 194 danno luogo al completo ritiro delle legioni.
Per la Grecia sembra aprirsi un periodo di rinnovata autonomia, sebbene sotto il protettorato
romano, ma è una situazione che non durerà a lungo.
V. Ridimensionata la potenza macedone, a impensierire Roma è ora il regno di Siria, il
cui sovrano, Antioco III, ha messo in atto una politica aggressiva. Dopo aver
strappato la Celesiria all’Egitto (quinta guerra siriaca), il Seleucide comincia a
espandersi in Asia Minore e nella regione degli stretti, minacciando il regno di
Pergamo e occupando i possedimenti macedoni in Tracia. La tensione tra la Siria e
Roma, cui si rivolgono i Pergameni per aiuto, è destinata a crescere, anche perché
Antioco concede ospitalità ad Annibale, in fuga da Cartagine. A fare precipitare gli

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eventi sono gli sviluppi che si verificano in Grecia, dove gli Etoli, delusi dal trattamento
ricevuto da Flaminino, nel 192 danno vita a una coalizione antiromana di cui
chiamano a fare parte Antioco III. Consigliato da Annibale, il sovrano sbarca in
Tessaglia nello stesso anno, presentandosi come il difensore della libertà dei Greci.
Roma è quindi costretta a dichiarargli guerra.
Ma Antioco non trova in Grecia il consenso che si aspettava, quindi deve condurre il conflitto
in condizioni di pesante inferiorità. Di conseguenza, l’esito è scontato: la sua avventura in
Grecia termina nell’aprile del 191, con la disastrosa sconfitta alle Termopili e il repentino
ritorno in Asia. Sei mesi dopo, anche gli Etoli, assediati a Naupatto, chiedono una tregua ai
Romani.
Anche il prosieguo della guerra è catastrofico per Antioco. La sua flotta viene ripetutamente
sconfitta dai Romani, guidati da Lucio Cornelio Scipione, e dai loro alleati, che nell’estate
del 190 possono sbarcare in Asia. A nulla vale il tentativo del sovrano di ottenere una pace
onorevole: i Romani sono molto più esigenti, e si arriva così allo scontro decisivo, che si
svolge a Magnesia al Sipilo agli inizi del 189 e che si conclude con la vittoria di Roma e del
suo alleato Eumene II di Pergamo. Nello stesso anno anche gli Etoli si arrendono
definitivamente ai Romani.
Il trattato di pace, che viene ratificato ad Apamea nel 188, è molto punitivo per Antioco: il
sovrano subisce un drastico ridimensionamento del suo regno, cui viene sottratta in pratica
tutta l’Asia Minore occidentale, nonché il pagamento di una pesante indennità di guerra e il
divieto di accedere all’Egeo. Roma non ingloba sotto il proprio dominio diretto i territori che
Antioco è costretto a cedere: ne traggono vantaggio i Rodii e Pergamo, mentre alle città
greche non tributarie di Antioco o che si sono schierate coi Romani viene garantito il
mantenimento dell’autonomia.
Pur non avendo annesso alcun territorio, Roma è ormai arbitra del mondo greco.
VI. In Grecia le turbolenze non finiscono con l’assetto che Roma le ha dato. Un focolaio
di instabilità è il Peloponneso, dove gli Achei non hanno mai rinunciato alla loro
politica espansionistica, arrivando a inglobare tutta la regione nella loro lega. Ma la
minaccia più seria è ancora una volta rappresentata dalla Macedonia, dove il
successore di Filippo, il figlio Perseo, è molto attivo in campo diplomatico: riallaccia
strette relazioni con i Seleucidi, instaura rapporti di amicizia con i Rodii e stabilisce
contatti con gli Achei, accreditandosi come governante liberale e attento alle
esigenze dei meno abbienti, oltre che sufficientemente autonomo dai Romani.
Il suo attivismo, a Roma, è visto come elemento di destabilizzazione. Le rimostranze di
Eumene di Pergamo, che si sente minacciato da una possibile alleanza fra Macedonia, Siria
e Rodi, contribuiscono ad acuire la tensione. Ma i Romani, inizialmente, prendono tempo,
preparando il terreno con un’accurata campagna diplomatica presso gli Stati greci. È solo
all’inizio del 171, una volta assicuratisi che i Greci non sono disposti a schierarsi con Perseo,
che dichiarano la guerra.
I primi anni del conflitto non producono risultati di rilievo, e i Romani si rendono conto che
devono combattere da soli, dato che gli Stati greci non sono entusiasti all’idea di combattere
e lo stesso Eumene fornisce solo un modesto apporto. La svolta avviene nel 168, con
l’entrata in campo del nuovo comandante romano, Lucio Emilio Paolo. Subito dopo il suo
arrivo, infatti, nel giugno del 168 ha luogo lo scontro decisivo, che avviene a Pidna, in

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Macedonia, dove l’esercito di Perseo va incontro ad una totale disfatta. Anche la fuga del
sovrano è di breve durata: viene catturato a Samotracia e portato in Italia, dove muore in
prigionia qualche anno dopo.
Le misure prese dopo la vittoria segnano una novità radicale nella politica di Roma verso la
Grecia. Volendo rendere definitivamente inoffensiva la Macedonia, i Romani la smembrano
in quattro Repubbliche autonome, vietando loro di avere relazioni reciproche e imponendo
ai Macedoni di rinunciare al commercio di legname per costruzioni navali, così come allo
sfruttamento delle miniere d’argento, loro principali fonti di ricchezza. Le quattro
Repubbliche sono inoltre tenute a versare un tributo a Roma.
Anche gli altri Stati greci, cui i vincitori non perdonano l’ambiguità mostrata nello scontro con
Perseo, subiscono le conseguenze della guerra. Particolarmente penalizzata è Rodi, che
ha tentato di mediare fra Roma e la Macedonia, cui vengono sottratte la Caria e la Licia (che
le erano state assegnate con la pace di Apamea). I Romani, inoltre, con la creazione di un
porto franco a Delo, provocano una drastica riduzione dei suoi introiti portuali, con enorme
danno all’economia dell’isola e alla sua potenza navale. Severamente punti sono gli Achei,
cui viene imposta la consegna di 1000 dei loro uomini più influenti, mentre Eumene subisce
l’affronto di non essere ricevuto dal Senato. Anche nei confronti dei Seleucidi Roma si
mostra molto più dura. Quando infatti il nuovo re, Antioco IV, nel 168 vince la sesta guerra
siriaca arrivando nei pressi di Alessandria, viene mandato da lui un legato che gli reca
l’ultimatum del Senato in cui gli si impone il ritiro. E Antioco non ha altra scelta che piegarsi
alla volontà d Roma.
VII. Dopo Pidna, le turbolenze in Grecia riprendono, portando i Romani alla scelta
radicale di inglobare sotto il proprio diretto dominio gli Stati della penisola.
Le prime preoccupazioni arrivano, ancora una volta, dalla Macedonia, dove un avventuriero
micrasiatico, Andrisco, spacciandosi per figlio di Perseo, nel 150 si impadronisce del Paese
e si autoproclama re. I Romani, dopo un primo intervento con un piccolo contingente che
viene pesantemente sconfitto, nel 148 inviano un grosso esercito, guidato da Quinto Cecilio
Metello, che sconfigge a Pidna Andrisco e lo porta prigioniero a Roma. La vicenda è
importante perché i Romani si convincono della necessità di mettere la Macedonia sotto il
proprio controllo diretto, e nel 147 danno vita a una nuova provincia che comprende, oltre
la Macedonia, anche l’Illiria e l’Epiro.
Il resto della Grecia subisce presto la stessa sorte. A scatenare la reazione romana sono in
questo caso gli Achei. Dopo la morte del filoromano Callicrate, nella lega tornano a prevalere
le tendenze nazionalistiche, e i nuovi capi decidono di riaprire le ostilità con Sparta, che
vorrebbe ancora una volta staccarsi dal koinon. Nonostante gli ammonimenti del Senato, i
capi della lega dichiarano guerra a Sparta nel 146, guerra che in realtà è con i Romani. Le
forze della lega vengono rapidamente sgominate e i Romani possono impadronirsi con
facilità di Corinto, a cui, probabilmente come monito, riservano un trattamento di particolare
brutalità. La città viene infatti depredata e distrutta, i suoi abitanti vengono massacrati e i
superstiti vengono venduti in schiavitù.
Le decisioni assunte, dopo il conflitto, da una commissione senatoria di dieci membri,
segnano una svolta epocale per la Grecia: la lega achea viene sciolta e tutti gli Stati che
hanno combattuto al suo fianco sono aggregati alla provincia di Macedonia. Solo Atene,
Sparta e il koinon etolico, neutrali, conservano la loro autonomia. Tuttavia, dappertutto, sia

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nelle comunità soggette che in quelle formalmente autonome, si insediano oligarchie con i
gruppi filoromani a impadronirsi del potere. Conseguenza positiva del dominio romano è la
fine dell’endemica conflittualità tra Stati greci, quindi un periodo di prolungata pace, anche
se segnata da un diffuso disagio economico e sociale.
Dopo la Grecia, tocca a Pergamo subire la sorte della riduzione a provincia. È lo stesso
sovrano, Attalo III, a decretarne la fine: quando muore senza eredi, nel 133, lascia infatti un
testamento in cui, per timore che il trono finisca al fratellastro Aristonico, dispone che l’intero
regno, ad eccezione della città di Pergamo, vada in eredità al popolo romano. La reazione
di Aristonico non si fa attendere: sfruttando il malcontento sociale, riesce a formarsi un
consistente seguito tra gli schiavi liberati, gli abitanti delle campagne e delle colonie militari.
Proclamatosi re col nome di Eumene III, scatena una rivolta antiromana. Ma, dopo un
iniziale successo, nel 130 viene sconfitto e portato prigioniero a Roma. L’anno successivo,
sedata definitivamente la rivolta, i Romani procedono all’annessione del regno e alla
creazione della nuova provincia d’Asia.
Il regno di Siria sopravvive più a lungo, ma la sua ultima fase di vita è decisamente
tormentata. Oltre che ai continui contrasti dinastici, i Seleucidi devono far fronte alle continue
rivolte dei Giudei, che tra il 152 e il 143 riescono finalmente a dar vita a uno Stato autonomo,
e soprattutto alla minaccia proveniente dai Parti. Dalla metà del II secolo, prima l’Iran, poi la
Mesopotamia passano sotto il dominio di questo potente regno barbarico, e il fallimento
della spedizione di Antioco VII (130), che viene sconfitto e ucciso, cadono definitivamente
le speranze di recuperare questi territori. Con la morte di Antioco VII il declino diventa
inarrestabile: dilaniato dalle lotte intestine, il regno siriaco piomba nell’anarchia, finché
nell’83 sono gli stessi Antiocheni ad offrirlo al re armeno Tigrane. Nel 69 Lucullo sconfigge
Tigrane e consente ad un Seleucide, Antioco XIII, di sedere sul trono degli antenati, ma la
nuova fase di vita si interrompe bruscamente nel 63, quando Pompeo crea la nuova
provincia di Siria.
Ancora più lenta è l’agonia dell’ultimo grande regno superstite, l’Egitto, la dinastia Iagide,
pesantemente indebolita già dalla prima metà del II secolo dalle contese intestine e dalle
tensioni con la popolazione indigena, riesce comunque a sopravvivere grazie al rapporto di
vassallaggio che la lega a Roma, che evidentemente, potendo controllarla dall’esterno, non
ha interesse a procedere all’annessione. È con il regno di Cleopatra VII che si compie il
destino dell’Egitto. Salita al trono nel 51, si rivela molto più abile dei sovrani che l’hanno
preceduta: legatasi a Cesare, che nel 48/47 combatte per lei la cosiddetta “guerra
alessandrina” contro i cittadini in rivolta di Alessandria, diventa poi l’amante di Marco
Antonio, col quale sogna di riportare l’Egitto alla grande potenza del passato. Con la
sconfitta di Antonio ad Azio, nel 31, anche all’Egitto, però, tocca la sorte del resto del mondo
greco

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