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“FEDERICO II”
A.A. 2020/2021
Civiltà minoica è il nome dato alla cultura cretese dell'età del bronzo, fiorita
approssimativamente dal 2700 al 1450 a.C., dall’archeologo britannico Arthur Evans che ne
individuò i resti tra il 1900 e il 1905.
I minoici furono abili marinai e commercianti e consistenti tracce dei loro contatti e scambi sono
state rinvenute in Egitto, nell’isola di Cipro, ricca di miniere di rame, e lungo le coste dell’Anatolia
e della Siria. Cospicue testimonianze della loro presenza sono state individuate nell’isola di Citera,
isola vicino alla Grecia continentale che entrò nel campo di influenza minoica nella metà del III
millennio e rimase minoica nella cultura per migliaia di anni, fino all'occupazione dei micenei nel
XIII secolo, e nelle Cicladi, che entrarono nell’orbita culturale minoica nella tarda età del bronzo;
un insediamento minoico, probabilmente a carattere commerciale, è stato individuato presso
Trianda nell’isola di Rodi.
Esperti marinai e commercianti come i Minoici, i Micenei, invece, qualche secolo più tardi,
intesserono un’ampia rete di contatti e scambi in tutto il bacino del Mediterraneo, raggiungendo,
oltre al Vicino Oriente (Anatolia) e all’Egitto e alle coste settentrionali dell’Africa, la penisola
balcanica e il Mediterraneo occidentale, con numerose regioni dell’Italia (Campania, Puglia, Sicilia
e Sardegna), fino alla penisola iberica.
Poco si conosce della struttura architettonica dei Primi Palazzi, che furono completamente distrutti
da un terremoto intorno al 1600 a.C. e che poi furono fortemente rimaneggiati o costruiti ex novo
all’epoca dei Secondi Palazzi.
Un’eccezione in tal senso è però rappresentata dal palazzo di Malia, un sito della costa nord-
orientale dell’isola di Creta. Il palazzo è costituito da un ampio rettangolo disposto intorno a una
corte centrale, intorno alla quale si articolano i diversi quartieri (quelli a Ovest e a Nord molto più
sviluppati di quelli a Est e a Sud). Sulla corte centrale, occupata da una fossa sacrificale convergono
tre vestiboli. La facciata sud della corte presenta una linea a sbalzi successivi: su uno zoccolo basso
una serie di grandi finestre dava luce ai quartieri artigianali. La facciata est è costituita da un grande
portico a colonne e pilastri alternati, dietro ai quali si trova una serie di botteghe sicuramente
risalenti al periodo protopalaziale. La facciata nord, anch’essa con portico ma solo a colonne,
precede un quartiere molto profondo e una sala ipostila, imitazione di un atrio egiziano.
Al centro della facciata ovest, sull’asse della fossa sacrificale al centro della fossa sacrificale della
corte, un gruppo di due sale, una dietro l’altra, costituiva certamente il cuore politico e religioso del
palazzo; lungo il perimetro della corte, separata da un muro cieco e accessibile solo dai lati, una sala
a diverse navate potrebbe essere stata la sala del trono e precede una sala con pilastri che doveva
essere certamente adibita a un culto.
Intorno al palazzo di Malia si estendeva una vera e propria città: sono state rinvenute tracce di
pavimenti con camini centrali, tavolata con colonne agli angoli che sostenevano lucernai, ma non è
mai stata rinvenuta una pianta completa di casa.
Al contrario Malia ha restituito una importante necropoli della Bronzo Medio.
In età protopalaziale si seppelliscono i morti nelle grotte, in tombe circolari dove sono raggruppate
anche numerose deposizioni e a volte in tombe individuali. Il corredo funerario è composto da vasi
in pietra e in terracotta, da sigilli e oggetti in bronzo. Accanto ai cimiteri della classe dirigente vi
sono anche le tombe delle persone meno abbienti.
Nel caso di Malia, all’interno di un recinto rettangolare, rivestito di lastre e preceduto da un portico,
si dispongono le varie camere sepolcrali, tutte accessibili dall’alto.
I vasi rinvenuti nelle sepolture sono di tipo piuttosto modesto. A volte la decorazione è
semplicemente lineare in colore scuro su chiaro o in chiaro su scuro; altre volto compaiono
decorazioni più elaborate realizzate in bianco o rosso carminio: torciglioni, steli e piante; o in alcuni
casi, nel tentativo di imitare la produzione dei vasi in metallo, la superficie del vaso viene
completamente verniciata in nero brillante, con riflessi azzurri o violacei, per imitare la lucentezza
del metallo.
La ceramica di Kamarès
La ceramica del periodo protopalaziale è detta ceramica di Kamarès dal luogo di ritrovamento dei
primi esemplari di questa classe, all’interno della grotta omonima nel massiccio del monte Ida, di
fronte al palazzo di Festo.
Si tratta di una produzione estremamente evoluta e raffinata grazie al sapiente uso del tornio, con il
quale si realizzavano contenitori dalla pareti sottilissime, “a guscio d’uovo”, che venivano
largamente esportati in Egitto e in Siria.
La decorazione veniva realizzata a barbotine, ossia con applicazioni sull’argilla ancora fresca,
dipinte con colori assai vivaci (bianco, nero, rosso, giallo), contribuendo a creare un effetto
altamente decorativo. I motivi decorativi più frequenti sono spirali, motivi floreali e polipi con i
loro tentacoli, e più raramente figure umane.
Questa ceramica possedeva un senso perfetto e sicuro, altamente decorativo, dell’esatto rapporto tra
la forma del vaso e la sua decorazione. Per questo motivo le figure umane sono nella maggior parte
dei casi evitate, perché difficili da adattare armoniosamente alle curve del vaso.
L’oreficeria
Nel periodo protopalaziale si registrano notevoli progressi nella metallurgia e nell’oreficeria, grazie
ai contatti con alcune civiltà orientali già esperte nel trattamento dei metalli e più progredite dal
punto di vista tecnico, in particolare l’Egitto. Fondamentale, infatti, per lo sviluppo delle tecniche di
lavorazione dei metalli è stato l’apporto delle botteghe di artigiani egizi di Biblo.
Una fonderia di bronzo è stata ritrovata a Malia: vi si fabbricavano utensili e armi di buona lega e di
buona qualità.
Le spade ritrovate a Malia sorprendono per la loro robustezza e la raffinatezza della decorazione.
Particolarmente rappresentativa è una spada con calcio arrotondato e rinforzo di nervature;
l’impugnatura è in legno ricoperto d’oro, il pomo in osso. Il tondino d’oro fissato sotto il pomo reca
una figurina di acrobata che forma con il proprio corpo un cerchio.
I pochi pezzi di oreficeria rimasti dimostrano anch’essi l’abilità degli orefici: il ciondolo di Malia
reca il motivo iconografico di due api che compongono, come l’acrobata del pomo della spada, un
motivo circolare, tenendo sospesa tra le zampine una goccia di miele, mentre ai lati le grandi ali
creano equilibrio nella composizione a danno ampiezza al gioiello. Il motivo è perfettamente
subordinato alla composizione e nonostante lo schematismo, si tratta di una rappresentazione
piuttosto realistica.
Il motivo circolare creato dalle api e dall’acrobata del pomo della spalla ricorda alcune
raffigurazioni orientali ed egiziane.
Da Mallia proviene anche una spilla in oro a forma di corolla sbocciata e rovesciata, al centro della
quale pende una figura femminile probabilmente di divinità che funge probabilmente da raccordo.
Il Palazzo di Cnosso
I Primi Palazzi cretesi si sviluppano all’interno di agglomerati preesistenti, spesso sulle fondazioni
di edifici anteriori modificati sulla base delle esigenze del momento. I Secondi Palazzi invece hanno
un aspetto assai diverso come è evidente dal palazzo di Cnosso.
Il palazzo di Cnosso sorgeva su una bassa collina a circa 4 km dal mare, coprendo una superficie
totale di duecentosettanta ettari. Evans considerava che il nucleo principale del palazzo potesse
ospitare circa 12.000 persone, mentre l’intera città poteva raggiungere i 70.000 abitanti. Se a questi
si aggiungono gli abitanti del porto si arriva ad una popolazione globale di 100.000 abitanti.
Il palazzo presenta una pianta rettangolare, con un cortile centrale già presente all’epoca dei Primi
Palazzi ma che in questo periodo conosce un notevole ampliamento in senso E/O. Sul lato
occidentale si sviluppava su due piani, sul lato orientale su quattro piani.
La differenza tra il primo e il secondo palazzo non si limita solo alle dimensioni degli edifici, ma
risiede in una concezione più monumentale dell’architettura.
Mentre nel primo palazzo i diversi ambienti erano semplicemente allineati all’interno di quartieri
che non erano collegati tra loro o con il cortile centrale, nel periodo neopalaziale vengono invece
utilizzati pozzi di luce, scale monumentali con colonne e pilastri e cortili interni che collegano in
maniera armoniosa i vari ambienti e le diverse parti del palazzo.
È evidente la complessità della pianta di questo palazzo. Nasce forse da ciò la leggenda del labirinto
costruito su commissione del re Minosse, da Dedalo, per rinchiudervi il Minotauro, nato dall’unione
tra un toro e la moglie di Minosse, mostro che si cibava di carne umana, ucciso poi dall’eroe
ateniese Teseo, che entrato nel labirinto ne uscì grazie al filo fornitogli dalla figlia di Minosse,
Arianna.
Il palazzo era costituito da una serie di ambienti dalla diversa funzione, disposti in modo libero e
irregolare, con un continuo succedersi di stanze, vestiboli, scale, corridoi, porticati. Lo spazio perciò
tendeva ad essere costantemente frazionato. L’architettura si presentava in continuo e costante
mutamento, al quale contribuiva la spaiente disposizione delle fonti di luce.
Questo tipo di articolazione appare quasi una conseguenza del naturale adattarsi delle costruzioni
alla conformazione del terreno, integrandosi sapientemente nel paesaggio come è particolarmente
evidente nel caso di Festo.
Il Palazzo di Festo
Il palazzo di Festo che domina la regione della Messara, presenta una pianta più armoniosa e
coerente rispetto al palazzo di Cnosso. L’ala ovest, costruita sopra i grandi magazzini del palazzo
precedente, è costituita da un complesso di vestiboli e sale grandiose. Le ali a sud e a est sono in
pessimo stato di conservazione, ma l’ala nord, di fronte al monte Ida, è costituita da una serie di
appartamenti disposti in maniera ordinata e regolare, evoluzione dei megara cretesi, e con un cortile
interno circondato da un peristilio.
Il Disco di Festo
Il Disco di Festo è un disco di terracotta di 16 cm di diametro rinvenuto nel 1908, durante lo scavo
del palazzo di Festo, nei livelli databili al 1700 a.C., insieme a una tavoletta in lineare A ed altro
materiale di epoca diversa.
Sul disco furono impressi sull’argilla ancora fresca simboli impressi con punzoni in oro disposti a
spirale su entrambe le facce, in una sequenza in senso orario, dalle estremità verso il centro, in
senso orario. L’iscrizione andava letta da destra verso sinistra. Si tratta della più antica
testimonianza di un testo stampato con caratteri mobili.
I simboli totali sono 242 e sono suddivisi in piccoli gruppi da sottili linee. L’interpretazione più
accreditata è che si tratti di una forma di scrittura sillabica, anche perché l'elevato numero di simboli
distinti (45) sembra escludere la possibilità che si tratti di segni alfabetici. In ogni caso i segni del
disco sono rimasti indecifrati, e non rivelano somiglianza formale con quelli di nessun'altra scrittura
conosciuta. Tra le testimonianza scritte che provengono dall’antica Creta, non c’è un solo testo che
presenta una qualche analogia con il disco di Festo. La scrittura attestata sul disco è quindi
totalmente estranea alle scritture della Creta minoico-micenea. Però le impressioni estremamente
realistiche ottenute con i 45 punzoni adoperati per la redazione del testo richiamano varie realtà
archeologiche legate al mondo minoico-miceneo e in alcuni casi, rari ideogrammi attestati nella
lineare B.
Sulle due facce del documento si susseguono 61 gruppi di segni; questi due gruppi sono
suddivisibili in 17 sequenze. In queste 17 sequenze non si trovano mai segni ideografici o numerici,
contrariamente a quanto avviene per i documenti di archivio in geroglifico cretese, in lineare A e in
lineare B, il che potrebbe indicare che non si tratti di un documento economico.
La presenza sul disco di raffigurazioni identiche a realtà archeologiche attestate a Creta nel II
millennio a.C. suggerisce comunque l’appartenenza del disco, nonostante le difficoltà della
datazione, all’orizzonte culturale minoico-miceneo. Il disco di Festo quindi è sicuramente un
prodotto di una delle civiltà del bacino orientale del Mediterraneo del II millennio a.C. Alcune
immagini stampate sul disco corrispondono a raffigurazioni o a oggetti appartenenti alla cultura
egea (per esempio guanto, nave, dolium). I confronti archeologici con i segni del disco si riferiscono
a momenti della storia di Creta che vanno dal 1750 al 1200 a.C. Alcune raffigurazioni (nave e
dolio) non possono essere anteriori al Tardo Minoico I (dal 1600 ca.). Il disco quindi si può
collocare cronologicamente tra il 1550 e la fine del XIII secolo a.C. Si può quindi immaginare che
la lingua nascosta dietro ai sillabogrammi dell’iscrizione sia una lingua usata nell’Egeo in quel
periodo.
Non è chiaro se esso sia proprio un testo, è stato interpretato ora come un sillabario, ora come un
alfabeto o come una logografia.
La pittura
Ad articolare l’architettura dei palazzi contribuivano raffinati affreschi, conservatisi soprattutto a
Cnosso e da Tera.
Nel periodo protopalaziale i muri dei piani nobili o delle parti più importanti delle costruzioni
minoiche erano ricoperti da stucchi dipinti in ocra, blu e bianco. Non sembra esservi state
raffigurazioni dipinte.
A partire dal 1600 a.C. gli artisti minoici cominciano a decorare con affreschi le pareti delle stanze
di rappresentanza dei palazzi e delle case private. I soggetti sono diversi e si adeguano ai vari
ambienti.
La figura umana è rappresentata senza la solenne ieraticità delle immagini orientali o egizie; si
percepisce un’attenzione alla resa realistica delle figure.
Numerosi affreschi rappresentano momenti della vita di corte, profana o religiosa, con la
raffigurazione soprattutto di personaggi femminili come le “signore in blu” o la “parigina”.
Un soggetto molto frequente è quello delle grandi processioni che glorificano la maestà reale, come
quella presente sul lungo corridoio che esce dal portico occidentale e che conduceva al primo piano
e alle stanze di rappresentanza del palazzo di Cnosso. Questa era la strada che percorrevano i
tributari del re e infatti proprio loro sono rappresentati sulle pareti mentre avanza per rendergli
omaggio.
Doveva far parte di un’altra processione, che decorava uno degli ingressi del palazzo, il “principe
dei gigli” realizzato in stucco dipinto. Egli è rappresentato nell’atto di avanzare recando in testa una
corona di foglie di giglio; i frammenti del busto e del braccio che si sono conservati fanno pensare
che conduca, legato all’altro capo della corda visibile, un animale, forse un grifone. La decorazione
del fondo era a grandi iris o gigli stilizzati, fra i quali volava una farfalla.
La vita di corte ritorna nelle rappresentazioni degli spettacoli rituali, come i giochi sul toro,
animale sacro e totemico, elevato a simbolo mitologico nella leggenda del Minotauro.
Il salto sul toro faceva parte del culto religioso minoico, con il significato della vittoria dell’abilità e
dell’intelligenza umana sulla forza bruta della bestia. L’esercizio, praticato da ragazzi e ragazze,
consisteva nell’attendere fermi il toro, scavalcandolo poi con un salto mortale e ricadendogli alle
spalle. L’affresco mostra queste fasi con tre distinte figure, una maschile e due femminili.
Ma la pittura minoica sembra dare i frutti più interessanti quando si sofferma a rappresentare
elementi naturalistici. Fiori, piante, animali marini si affollano sulle pareti che dovevano presentare
una vivace policromia, con i toni dell’azzurro, del bianco, giallo, verde e rosso.
Non c’è monumentalità né resa volumetrica delle figure che sono realizzate a tinte piatte, nella
quale risalta la grande inventiva e originalità degli artisti cretesi.
Persino una scena funebre come quella del sarcofago di Haghia Triada, vicino Festo, può essere
rappresentata con grande vitalità, distaccandosi dalle ieratiche rappresentazioni del mondo egizio ed
orientale: su un lato due cortei di tre persone procedono in direzioni opposte, avanzando a sinistra
verso un simbolo religioso costituito da due pali con la bipenne e, a destra, portando offerte verso il
defunto, rappresentato in piedi davanti all’ara. Sul lato opposto, un altro corteo di donne preceduto
da una flautista, a fianco di un tavolo con le offerte, si conclude con una figura femminile che reca
doni all’altare.
Dagli affreschi traspaiono le caratteristiche fondamentali della civiltà minoica: una civiltà aulica, in
cui la donna occupa un posto di primo piano; la corte è raffinata, viva; si avverte una concezione
vitalistica della natura, al tempo stessa selvaggia e addomesticata, perennemente in movimento, in
cui l’uomo si immerge con gioia.
La ceramica
Nel periodo neopalaziale le forme dei vasi diventano più slanciate per l’utilizzo del tornio più
veloce; viene dato maggior risalto al piede del vaso e la produzione riprende forme e modelli del
repertorio metallico. Per la decorazione si utilizza il marrone scuro su fondo chiaro, con rari colori
sussidiari come il bianco o il rosso-arancio, rinunciando agli effetti policromi che caratterizzano la
produzione protopalaziale. I motivi decorativi sono soprattutto piante, gigli, papiri, papaveri, motivi
marini come polpi, pesci, alghe e conchiglie.
Le rappresentazioni religiose
A Creta non esistono testimonianze relative all’esistenza di una plastica monumentale. Sembra che i
Cretesi abbiano avuto poca propensione a tradurre le forme in volumi, prediligendo opere di piccole
dimensioni, come le dee dei serpenti di Cnosso, la divinità principale onorata dai Minoici.
La statuette che ritraggono la dea sono spesso in maiolica, di altezze varianti dai 29,5 cm ai 38,5
cm. La maggior oparte di esse è stata rinvenuta nella camera sotterranea del tesoro del santuario
centrale del palazzo di Cnosso, nei livelli rferibili al 1600-1580 a.C. La statuetta ha il tipico abito a
falde ricadenti bloccato sui fianchi da un elemento a selle che sembrerebbe realizzato in stoffa più
pesante. Uno stretto corpetto, che comprime e lascia scoperti i seni, cinge anche la parte superiore
delle braccia. Le mani della piccola dea stringono e mostrano due serpenti.
In origine, nell’isola di Creta, la divinità maggiore fu una donna steatopigia, una divinità legata
essenzialmente alla fertilità femminile.
Con il passar del tempo, l’immagine della dea comincia a definirsi in maniera più precisa e dalla
nudità iniziale dell’idolo la dea comincia a essere vestita, ma per non diminuire l’effetto di
propiziare la fecondità, vengono lasciate scoperte le parti del corpo femminile più direttamente
legate ad essa. Ecco perché la dea ha il busto stretto in una sorta di corpetto che lascia scoperti i seni
già dal 2200 a.C. circa., e questa sarà una costante della sua iconografia.
La dea viene rappresentata con le braccia strette sotto i seni o nell’atto di premersi i seni con le
mani. Progressivamente viene poi rappresentata con le braccia sollevate in segno di benedizione.
La dea diventa la Grande Madre, legata non soltanto alla fecondità femminile, ma alla della natura
in generale. Madre degli uomini, è anche madre degli animali e protettrice delle fiere, dei serpenti,
degli uccelli e dei pesci e sui sigilli viene spesso raffigurata seguita da un corteo di animali
Il “feticismo” e il “totemismo”
Prima dell’avvento delle divinità antropomorfiche, gli antichi Minoici dovettero credere negli
elementi della natura che venivano rappresentati attraverso determinati simboli.
Molti animali erano ritenuti sacri e tra questi il toro occupava un posto particolare.
Anche per la rappresentazione di queste divinità totemiche, insieme alle altri elementi della natura,
prevale un’esigenza di una forte e vigorosa resa naturalistica come appare evidente da un vaso
rituale in pietra e da un rilievo rinvenuti a Cnosso, databili intorno al 1500 a.C. e raffiguranti una
protome di toro.
La scrittura
Durante lo scavo del palazzo di Cnosso Evans scoprì nei livelli databili tra il 1800 e il 1370 a.C. i
resti di tre scritture da lui chiamate geroglifica, lineare A e lineare B.
La prima scrittura venne definita geroglifica per la somiglianza con quella geroglifica egiziana. Le
altre due scritture vennero chiamate lineari perché i segni erano disposti orizzontalmente sui vari
supporti.
Alla civiltà minoica appartengono la scrittura geroglifica e la lineare A, mentre alla civiltà micenea
appartiene la lineare B, decifrata nel 1952 da Micheal Ventris.
Le prime testimonianze di scrittura geroglifica appaiono verso il 2300 a.C., quando, in seguito ai
contatti con il mondo medio-orientale e l’Egitto, anche i principi minoici cominciano a far incidere i
loro simboli e i loro nomi sui sigilli.
Con l’avvento dei primi palazzi (2000-1600 a.C.) accanto alla scrittura geroglifica comincia ad
apparire un nuovo tipo di scrittura che veniva usata esclusivamente per redigere documenti di
contabilità: la lineare A, una scrittura sillabica costituita da cifre, ideogrammi e segni fonetici.
Le due scritture, geroglifico e lineare A coesistono per tutto il periodo dei Primi palazzi, ma dopo la
distruzione di questi ultimi in seguito ad una catastrofe naturale, e quindi con il periodo dei Secondi
palazzi, la lineare A è l’unica a sopravvivere in tutta l’isola, diffondendosi anche nelle isole del Mar
Egeo sotto diretto controllo di Creta.
La scrittura geroglifica e la lineare A non sono state ancora decifrate. I documenti rinvenuti non
sono abbastanza numerosi per permettere una decifrazione. Non si sa nemmeno se la scrittura
geroglifica corrisponda realmente a una lingua minoica; per quanto riguarda invece la lineare A, si
tratta di circa 300 tavolette per un numero di segni compreso tra 1550 e 7440. Si tratta nella
maggior parte dei casi di documenti di contabilità, e di poche iscrizioni di carattere sacro, e per di
più non ci sono segni che si ripetono sui due tipi di documenti, facendo addirittura ipotizzare
l’esistenza di due lingue diverse: una lingua sacra sulle tavolette di libagioni dai santuari, e una
lingua profana utilizzata per la contabilità.
I Micenei, nei quali si può riconoscere il popolo degli Achei, stanziati in Grecia, erano di stirpe
indoeuropea, come ha dimostrato la decifrazione della lineare B. È possibile che gli Achei siano
calati in Grecia verso l’inizio del II millennio a. C. e che successivamente abbiano subito l’influsso
della cultura e della società minoica.
Lo sviluppo del mondo miceneo è da porsi tra il XVI e il XII sec. a.C., nell’ultima fase dell’età del
bronzo, mentre la massima fioritura di questa civiltà si colloca tra il 1400 e il 1200 a.C.,
all’indomani della conquista dei secondi palazzi di Creta.
I principali centri dove sono state rinvenute consistenti tracce della civiltà micenea sono Micene,
Argo, Tirinto, Pilo, Tebe, Orcomeno e Atene.
La scoperta di Troia
Il 1870 segna l’inizio delle scoperte archeologiche nel mondo preellenico grazie alla figura di
Henrich Schliemann, imprenditore tedesco, appassionato di archeologia, che sulla scorta della
lettura dei poemi omerici e di Pausania, si mise alla ricerca della Troia dell’Iliade.
Schliemann era convinto che la Troia raccontata da Omero si nascondesse nella collina di Hissarlik
in Turchia, un'altura in posizione favorevole per una roccaforte, dalla quale si poteva dominare tutta
la piana circostante. Tra il 1871 e il 1873 intraprese la prima grande campagna di scavo. La collina
fu sezionata tramite enormi trincee, rivelando i resti sovrapposti di sette insediamenti diversi.
Schliemann identificò i resti della città omerica nella cosiddetta “città bruciata” (secondo strato,
datato in seguito al 2600-2450 a.C.), nella quale trovò ciò che venne chiamato il “tesoro di Priamo”,
più di 200 oggetti d’oro, che vennero clandestinamente trasferiti ad Atene (e per questo l'archeologo
fu processato dalle autorità locali). In realtà il tesoro risultò databile alla prima età del Bronzo e la
Troia omerica venne individuata da Wilhelm Dörpfeld (un architetto che proseguì le ricerche con
maggiore rigore scientifico) nel sesto livello della collina, e da C. Blegen (che diresse la missione
americana attiva nel sito) nello strato VIIa, databile al 1300-1200 a.C. circa.
Grazie all'analisi degli oggetti rinvenuti e delle tecniche costruttive utilizzate dagli archeologi che
hanno portato a termine il lavoro iniziato da Schliemann, datando i vari strati e tracciando le piante
delle ricostruzioni, in cui si notano i cerchi concentrici delle cinte murarie:
I strato (3000 a.C.): villaggio dell'Età del Bronzo Antico, con ritrovamenti di utensili in
pietra e di abitazioni dalla struttura elementare
II strato (2500-2000 a.C.): piccola città con mura caratterizzate da porte enormi, presenza
del megaron (palazzo reale) e case in mattoni crudi che recano segni di distruzione da incendio,
che Schliemann suppose potessero riferirsi ai resti della reggia di Priamo rasa al suolo dagli
Achei
III - IV - V strato (2000-1500 a.C.): tre villaggi distrutti ognuno dopo poco tempo dalla
fondazione
VI strato (1500-1250 a.C.): grande città a pianta ellittica disposta su terrazze ascendenti,
fortificata da alte e spesse mura, costituite da enormi blocchi di pietra squadrati e levigati, con
torri e porte. La distruzione della città dovrebbe essere avvenuta intorno alla metà del XIII
secolo a.C. forse a causa di un terremoto.
VII strato(1250-1200 a.C.): la città precedente fu immediatamente ricostruita, ma ebbe vita
breve. I segni di distruzione da incendio hanno indotto Blegen ad identificare questo strato come
quello corrispondente alla Troia omerica
VIII strato (VII secolo a.C.): colonia greca priva di fortificazioni
IX strato (dall'età romana al V secolo ): costruzioni romane edificate sulla sommità spianata
della collina e rifacimento.
L’insediamento decadde con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente.
L’identificazione di Hissarlik con la Troia omerica è ancora oggetto di dibattito. Altre campagne
furono condotte da Schliemann tra il 1878 e il 1879, nel 1882 e nel 1889. Il suo metodo di indagine,
creato sulla base dell’esperienza e sorretto da intuizioni piuttosto che da basi scientifiche, fu
purtroppo causa di distruzioni irrimediabili, ma costituì una delle prime applicazioni dell’uso
sistematico dei sondaggi preliminari, della pratica di trincee nei siti pluristratificati e della datazione
degli strati archeologici tramite manufatti tipologicamente riconosciuti.
Micene
Situata all’estremità nord-orientale della pianura argiva, Micene rappresenta la cerniera di
collegamento tra la Corinzia a nord e lo sbocco del golfo Saronico a Sud, presso cui si apriva
Tirinto. La cittadella occupa un terrazzo roccioso che si erge tra due alture che chiudono ad Est la
pianura di Argo. Occupata fin dall’età neolitica, la città conosce un grande sviluppo intorno alla
metà del XVII sec. a.C.
Al 1270-1180 a.C. risale la costruzione della cinta muraria, che determina anche il riassetto del
palazzo. La planimetria dell’ultimo impianto architettonico comprende tre distinti blocchi di
costruzioni, ciascuno separato da lunghi corridoi assiali; la parte settentrionale risulta occupata da
magazzini e depositi per derrate; la parte centrale corrisponda ad un’ala di rappresentanza,
organizzata intorno alla successione assiale di un portico, una corte centrale e della sala del re, con
il caratteristico focolare delimitato da quattro colonne. A S/O si sviluppa la Grande Scala che
collega il palazzo con la parte sottostante la cittadella, da dove prendeva avvio la via delle
processioni che conduceva al santuario centrale.
A Est del palazzo si estendevano il cd. quartiere artigianale, forse sede di botteghe che operavano
per conto del palazzo, e la Casa delle Colonne che per la particolare planimetria e il rinvenimento di
alcuni documenti in lineare B, potrebbe essere identificata come la residenza di un funzionario
palatino di rango.
Recenti ricognizioni di superficie hanno permesso di evidenziare un’estensione di 35 ettari
dell’impianto urbano, organizzato in maniera organica secondo assi viari regolari che si sviluppano
in senso N/S, seguendo le principali direttrici di traffico che conducevano al palazzo e alla piana
argiva. Le abitazioni sorgono su ampie terrazze, allineate lungo i principali assi viari.
La tomba di Atreo
La più famosa delle tombe a tholos è la cd. tomba di Atreo (1400-1300 a.C.) rinvenuta all’esterno
del perimetro urbano di Micene. La tomba presenta un ampio dromos, costituito da muri laterali di
pietre ordinatamente disposte, che conduce alla facciata monumentale. In essa si apre la porta
sovrastata da un triangolo di scarico del peso. All’interno la camera circolare è costituita da blocchi
di pietra che ad una certa altezza si dispongono ad anelli concentrici aggettanti e sempre più stretti,
realizzando così una falsa cupola.
Tirinto
Esempio più significativo dell’architettura micenea e dell’importanza nel sistema sociale del
palazzo, della residenza del re.
A Tirinto il palazzo è fortificato. Possenti mura cingono la rocca su cui sorge il palazzo. Le mura
vennero continuamente rafforzate e quello che si vede oggi a Tirinto è il rifacimento più tardo,
risalente al XIII sec.; passaggi interni realizzati con corridoi dalle volte ad arco acuto, permettevano
spostamenti veloci. Grandi blocchi, larghi 2 m, costituivano la possente difesa della cittadella.
L’accesso all’area del palazzo era sul lato est ed era seguito da un propileo, cioè da un ingresso
monumentale porticato verso l’interno e verso l’esterno. Da esso si entrava in un vasto cortile dal
quale, attraverso un secondo propileo si accedeva ad una seconda corte porticata e colonnata su tre
lati; il quarto lato costituiva l’ingresso del megaron: il salone preceduto da un doppio vestibolo era a
pianta rettangolare con il caratteristico focolare circondato da quattro colonne.
Il palazzo di Tirinto aveva probabilmente ricche decorazioni, ora scomparse. Rimane un unico
frammento che indica un chiaro influsso cretese raffigurante un profilo femminile.
Pilo
Il palazzo di Pilo rappresenta per lo stato di conservazione delle pitture e per la completa
documentazione archeologica uno dei migliori esempi di architetture palatine micenee.
Il primo impianto dell’edificio viene costruito tra il 1600-1580 a.C.: si tratta di un complesso di
vani rettangolari che subisce numerose modifiche e ampliamenti fino alla realizzazione, tra il 1390-
1330 a.C. di una grandiosa struttura palatina, che risulta dalla aggregazione di 4 differenti nuclei.
L’edificio principale è costituito da un doppio propileo di accesso, attraverso i quali si raggiunge un
cortile. Davanti al cortile si apre il grande megaron del re, preceduto da un doppio vestibolo; al
centro della sala si trova un focolare circolare delimitato da quattro colonne lignee montate su basi
litiche. Il pavimento era di stucco colorato, suddiviso a riquadri irregolari, ciascuno decorato con
linee ondulate e altri motivi geometrici policromi. Accresceva ancora di più l’effetto di accesa
policromia il ciclo pittorico sulle pareti della sala.
Dal secondo vestibolo si poteva accedere su un lungo corridoio assiale sul quale si aprivano diversi
magazzini.
Il piano superiore era riservato all’appartamento privato della famiglia reale, ma di esso nulla è
sopravvissuto.
Separato dall’edificio principale si estende l’Edificio S/O che riproduce, su scala minore, le
caratteristiche di un palazzo, con sala del megaron. Sul lato opposto, sempre separato dal corpo
principale si erge l’edificio N/E che è stato interpretato come una bottega artigiana, con annesso
sacello, per la fabbricazione e la riparazione di oggetti in bronzo e per la produzione di ruote
destinate ai carri da guerra.
L’ultimo corpo di fabbrica è un edificio rettangolare a Nord noto come Magazzino del Vino per la
presenza di 35 pithoi e di un certo numero di cretule con l’ideogramma del vino.
I pugnali di Pilo - 1500 a.C.
Anche in alcune sepolture di Pilo sono stati rinvenuti pugnali del tutto analoghi a quelli rinvenuti
nel Circolo A di Micene.
Nel primo caso si tratta di un pugnale in bronzo lavorato con la tecnica della ageminatura e della
niellatura (in oro) e con la presenza di una scena a soggetto marino del tutto analoga a quelle del
mondo minoico.
Nel secondo caso di un pugnale completamente in argento che presenta su tutta la superficie con un
raffinato motivo di cerchi e spirali resi a incisione.
La pittura
I palazzi micenei presentano un complesso sistema decorativo che in molti casi occupava l’intera
superficie della parete, producendo un effetto “a carta da parati”. La maggior parte delle pitture si
conserva in frammenti, in molti casi con evidenti tracce di annerimento provocato dall’incendio che
distrusse gli ultimi palazzi.
La più antica pittura micenea, databile al 1390-1330 a.C., presenta numerosi punti di contatto con la
pittura minoica. Gli affreschi della Casa della Rampa di Micene o del Palazzo di Pilo rappresentano
le stesse tematiche, quali scene di salto acrobatico su toro e di processione.
Il legame con la pittura minoica è sottolineato dalla disposizione delle figure sul limite inferiore del
riquadro e l’uso del fondo neutro; dal punto di vista stilistico esso si rivela nella resa tecnica e
iconografica delle figure umane.
I palazzi di Micene, Tebe e Orcomeno hanno restituito solo scarni lacerti dei grandi cicli pittorici.
L’unico edificio palatino che offre la possibilità di ricostruire un ciclo pittorico è quello di Pilo. Il
nucleo del sistema iconografico del palazzo è il Complesso del Megaron. Si tratta di una scena di
processione, al centro della quale domina un gigantesco toro seguito da numerosi personaggi
disposti su livelli differenti. Tra i personaggi si distinguono alcuni inservienti che recano sulle
spalle seggiolini pieghevoli e l’occorrente per una cerimonia, e una figura di dimensioni maggiori
che è stata identificata con il wanax. La decorazione si sviluppa anche sulle altre pareti della sala:
alle spalle del trono si trova la rappresentazione del wanax seduto su una roccia nell’atto di suonare
una lira, ai lati dell’uomo si vede un toro disposto su una mensa sacrificale e intorno ad essa figure
maschili a coppie su sgabelli pieghevoli, davanti a tripodi, nel gesto di sollevare una coppa biansata.
Si tratta quindi di un unico fregio figurato, in cui la scelta dei temi e delle immagini risulta
subordinata alla funzione delle sale. Nel caso delle pitture del megaron di Pilo la rappresentazione si
presenta come una glorificazione della figura del wanax, il quale è raffigurato come colui che
media, attraverso il suono della lira, strumento per eccellenza della regalità, tra il mondo degli
uomini e quello degli dei.
L’organizzazione militare
Per ricostruire l’organizzazione militare del mondo miceneo, per la scarsità delle testimonianze,
bisogna ricorrere all’analisi delle pitture, della decorazione dei vasi o dei corredi funerari pertinenti
a sepolture di guerrieri.
Il nerbo dell’esercito miceneo era la fanteria come si ricava dall’iconografia di affreschi e oggetti
mobili. L’evidenza archeologica consente di ricostruire due differenti livelli di truppe appiedate: la
prima categoria comprende una fanteria leggera munita di armi offensive (due lance, una spada, e
un pugnale) e difensive con elmo e scudo rettangolare o a forma di 8. La testa era protetta da un
elmo di cuoio rivestito da placchette rettangolari ricavate da zanne di cinghiale.
La seconda categoria include una fanteria pesante che si differenzia dalla prima per l’impiego di
corazze in metallo con un’alta protezione per il collo. La corazza vera è propria sembra sia stata
costituita da una serie di lastre sovrapposte a squame, formanti una sorta di cotta metallica.
Considerando l’eccessivo peso dell’armatura e la difficoltà dei movimenti, è possibile che questa
fanteria pesante, alla quale appartenevano probabilmente personaggi dell’aristocrazia militare, si
muovesse su carri da guerra e che tali armature fossero funzionali a proteggere il soldato da colpi di
dardi e frecce più che a parare i colpi di una spada.
La ceramica
La ceramica occupa un posto privilegiato nello studio della civiltà micenea, non soltanto per
stabilire importanti linee di cronologia relativa me perché essa si configura soprattutto come un
prezioso indicatore per la ricostruzione delle singole identità regionali e del sistema di relazione tra
il mondo miceneo e le altre culture del Mediterraneo nel II millennio a.C.
Lo “stile miceneo” propriamente detto si diffonde a partire dal 1680-1580 a.C. nella Grecia
meridionale ed è caratterizzata da un forte sincretismo tra forme vascolari elaborate nella Grecia
continentale e un repertorio decorativo insulare o minoico come gli elementi floreali o marini. Tra il
repertorio vascolare di questo periodo una delle fogge più note è la tazza dal profilo tronco-conico,
alla quale si associa vasellame da mensa (tazze convesse e brocche a becco), vasi destinati al
trasporto (pithoi) o alla conservazione (alabastra).
Tra il 1580 e il 1480 a.C. la produzione si amplia, crescono i centri artigianale e la ceramica
micenea comincia a circolare in tutto l’Egeo. La produzione si standardizza, le forme sono locali,
soprattutto anfore-pithoi, mentre il repertorio decorativo è sempre quello vegetale o marino di
derivazione minoica (Cd. stile di palazzo).
Dal 1480 al 1390 si abbandona lo stile di palazzo, vengono introdotte nuove forme: viene introdotta
la cd. tazza efirea, una coppa biansata su alto stelo, decorata su entambi i lati da un motivo unico,
come argonauta, rosetta o combinazione dei due.
Tra il 1390-1180 periodo che coincide con l’apogeo della civiltà micenea, la produzione ceramica si
contraddistingue per una produzione vascolare assai omogenea, con l’introduzione di nuove forme,
mentre si registra un distacco dal repertorio figurativo minoico.
La forma per eccellenza è l’anfora a staffa, destinata al trasporto di olio e vino e per questo
largamente diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. Perdura l’alabastron con vasca a pareti dritte
e acquista una rapida diffusione il cratere. Tra le forme aperte si afferma la kylix su alto stelo che
deriva dalle coppe efiree, e lo skyphos biansato a vasca profonda e piede ad anello. Si diffonde in
quest’epoca l’uso di decorare i crateri o le anfore con scene figurate di carattere militare (cd. stile
pittorico).
L’ultima fase della produzione ceramica è rappresentata dal cd. stile serrato tra il 1190 e il 1110
a.C., che rivela la tendenza a ricoprire l’intera superficie del vaso in modo invasivo, come nel caso
delle anfore a staffa decorate con un polipo rappresentato frontalmente con i tentacoli che si
allargano delimitando ampi spazi campiti con uccelli, pesci o elementi geometrici. Questa
produzione è ben documentata in Attica, in Argolide, nel Dodecanneso, nelle Cicladi e a Creta,
dove è certa la presenza di importanti officine locali.
La lineare B
I testi in lineare B sono stati trovati dall’archeologo britannico Arthur Evans nel 1900 a Creta, nel
Palazzo di Cnosso; altri esemplari furono rinvenuti in Grecia, a Pilo, Micene eTebe.
La decifrazione della Lineare B si deve a Micheal Ventris, nel 1952. Nel secondo dopoguerra la
decifrazione è stata agevolata dal ritrovamento di un grande numero di tavolette negli archivi del
palazzo di Pilo, per un totale di 30.000 segni. Si tratta essenzialmente di documentei di carattere
ecomomico, tavolette o sigilli, sui i quali venivano registrati la contabilità e le transazioni
all’interno delle strutture palaziali.
La lineare B è un sistema di scrittura, probabilmente derivato dalla linaeare A, composto da circa
200 segni, che si articola in segni fonetici e ideogrammi, oltre a un certo numero di segni relativi a
unità di misura. Ciascun segno fonetico può identificare una sillaba, mentre gli ideogrammi sono
segni che rappresentano un concetto specifico attraverso una rappresentazione schematica.
La lingua dei testi in lineare B è in realtà un dialetto proto greco, termine con il quale si indica il
greco anteriore alla suddivisione nei vari raggruppamenti dialettali della Grecia di epoca storica.
I contatti precoloniali
Esperti marinai e commercianti come i Minoici, i Micenei, intesserono un’ampia rete di contatti e
scambi in tutto il bacino del Mediterraneo, raggiungendo, oltre al Vicino Oriente (Anatolia) e
all’Egitto e alle coste settentrionali dell’Africa, la penisola balcanica e il Mediterraneo occidentale,
con numerose regioni dell’Italia (Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna), fino alla penisola iberica.
Per quel che riguarda l’Italia, la frequentazione delle coste italiane da parte di genti egee è un
fenomeno assai complesso e diversificato nel tempo e nello spazio.
La più antica frequentazione delle coste italiane da parte di genti egee coincide con il momento di
formazione della civiltà palatina nella Grecia continentale tra il XVII e il XVI secolo a.C.
La vasta dispersione delle prime testimonianze micenee in diversi punti della penisola (coste
pugliesi, Calabria ionica, area del basso Tirreno), in Sicilia meridionale e orientale, nelle isole Eolie
e nell’arcipelago flegreo (Vivara) indica forme di contatto a vasto raggio che, con ogni probabilità,
erano favorite da una fitta rete di relazioni trans marine che dominavano il basso Tirreno in un
momento iniziale della media età del Bronzo.
In questo periodo, i siti da cui proviene ceramica micenea condividono le stesse caratteristiche
topografiche, con una particolare predilezione per promontori costieri che offrivano buone
possibilità di approdo e di rifornimento. Lo stesso vale anche per la Sicilia.
La scelta di esplorare l’Italia meridionale deve essere inserita all’interno del più ampio raggio di
relazioni che si instaurano tra il mondo miceneo e l’Europa balcanica. Il commercio dei metalli
preziosi che i Micenei immettevano sul mercato Egeo aveva portato a privilegiare i contatti con le
regioni transdanubiane, ricche di metalli e di ambra.
Se tra il XVII e il XVI sec. le rotte orientali erano controllate dai Minoici, ai Micenei non restava
che la via verso Occidente, ricco anch’esso di metalli e di altre importanti materie prime.
L’evidenza di Vivara, dove sono attestate tracce di attività fusoria di oro e di rame nei livelli con
ceramica micenea di XVII-XVI sec. a.C. rende ancora più probabile questa ipotesi: l’arcipelago
flegreo si colloca infatti di fronte alla costa tirrenica dell’alto Lazio che risulta ricca di rame e altri
minerali (colline metallifere della Tolfa).
Tra il 1425 e il 1330 a.C. periodo di rafforzamento delle strutture palatine, si registra il
potenziamento e l’estensione della presenza micenea nell’Adriatico meridionale e nello Ionio. In
questa fase i contatti tra i micenei e la popolazione indigena sono mediati da pochi centri principali,
sedi di attività artigianali e di gruppi di potere: Thapsos in Sicilia, Scoglio del Tonno a Taranto, che
si configurano come scali commerciali e centri di ridistribuzione verso l’interno dei prodotti
micenei.
L’ultima fase dei contatti si colloca tra il 1190-1110 a.C. ed è caratterizzata da un ulteriore
rafforzamento della presenza micenea nel settore centro-adriatico e nella fascia ionica. In questo
periodo il vero elemento di novità è costituito dall’introduzione di un artigianato specializzato nella
produzione di ceramiche dipinte (ceramica italo-geometrica), della classe grigia al tornio e di dolia
cordonati di argilla figulina.
Tutte queste classi che si ispirano ad un repertorio egeo sono di produzione locale, realizzate
essenzialmente a Termitito (Matera), nella Sibaritide o nel Salento, in Sicilia e in Sardegna
probabilmente da artigiani specializzati itineranti di origine egea.
CRONOLOGIA DEL MONDO MINOICO
L. R. Palmer, Minoici e Micenei: l’antica civiltà egea dopo la decifrazione della lineare B, Torino
1969.