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L’età della pietra

La presenza dell’uomo in Italia risale a circa 750 mila anni fa con l’uomo erectus, tracce più recenti sono
quelle dell’uomo sapiens durante il Paleolitico. L’uomo era un cacciatore, si vestiva con le pelli degli
animali, viveva in ripari sotto la roccia o in grotte, che illuminava con torce e lucerne in pietra, alimentate
da grasso di animale. Vivevano in piccoli gruppi, praticavano la caccia e pesca e raccoglievano ciò che la
natura produceva. Con il ritiro dei ghiaccia, circa 12 mila anni fa, anche le valli alpine cominciarono ad
essere frequentate da gruppi umani. Con la scoperta dell’agricoltura nacquero le prime comunità di villaggi,
costruivano case di mattoni d’argilla, allevavano bestiame e coltivavano orzo, frumento, farro e legumi.

L’età del rame


A partire dal V millennio a.C. si diffuse il rame, un metallo raro e presente solo in determinate regioni,
infatti in molti casi veniva importato e per questo venne considerato un bene prezioso e la presenza di
oggetti in rame nelle tombe contraddistingueva i personaggi di alto rango, appartenenti a un ceto
guerriero, che cominciava ad emergere e ad acquistare un ruolo di guida all’interno della società. A questo
periodo appartengono anche la realizzazione delle prime statuette, che ritraevano molto spesso i
capostipiti delle famiglie dell’aristocrazia guerriera.

Civiltà dell’età del bronzo


L’età del rame termina in Europa verso il 2300-2200 a.C. con l’affermarsi dell’uso del bronzo (una lega di
rame e stagno più facile da lavorare del rame). La necessità di procurarsi lo stagno, presente solo in
determinate zone, favorisce lo sviluppo di una fitta rete di commerci marittimi e fluviali. In questo periodo
la popolazione aumenta, i centri abitativi si fanno più ampi e complessi e alcune di essi si cingono di mura.
Le sepolture mostrano ancora la differenza fra i vari strati della popolazione, i membri della classe
dominante, venivano sepolti con un ricco corredo di armi e oggetti in bronzo. Si diffonde l’uso di
accumulare la ricchezza, mettendola in appositi ripostigli lingotti, armi…

Palafitte e terramare
Durante l’età del bronzo, nella zona corrispondente al Veneto, al Trentino e in parte alla Lombardia,
vivevano cacciatori e pescatori in villaggi di case di legno sostenute da alti pali infissi nell’acqua di fiumi,
terre paludose o laghi. Queste palafitte avevano un duplice vantaggio: costante riserva idrica ed efficace
difesa contro l’assalto di nemici e animali selvatici. In Emilia venivano costruite palafitte sul terreno asciutto
ma ricco di umidità, chiamate “terramaricoli” da “terra marna” ovvero terra grassa. Gli abitanti delle
terramare coltivavano grano, orzo e miglio, allevavano pecore, capre e maiali e furono tra i primi ad
utilizzare il cavallo per il trasporto e la guerra, erano abili produttori di ceramica ed esperti lavoratori del
legno e dei metalli.

Il popolo dei nuraghi


In Sardegna nel II millennio a.C. la popolazione era composta da contadini e da pastori-guerrieri che
abitavano in villaggi di capanne situate su altopiani. In caso di pericolo insieme ai loro animali si rifugiavano
dentro a torri in pietra a tronco di cono, chiamati nuraghi. Oggi si conservano 7000 nuraghi, raggiungono
l’altezza di 20 metri di altezza e sono dotati di una scala a chiocciola che permetteva di raggiungere la cima,
che funzionava come punto di avvistamento e di osservazione. Ci sono giunte a noi oggi numerose statuette
che raffigurano guerrieri armati, sacerdoti e sacerdotesse ma anche la classe più umile. Statuette
raffiguranti buoi e pecore dimostrano l’importanza dell’agricoltura e dell’allevamento nell’economia
nuragica.

La cultura villanoviana e gli inizi dell’età del ferro


Intorno al 1000 a.C. nell’Italia centrale gli abitanti villanoviani, del villaggio di Villanova vicino Bologna,
vivevano in capanne, lavoravano il bronzo ma conoscevano anche il ferro. Cremavano i defunti cioè li
bruciavano i loro morti. Deponevano le ceneri dei defunti in piccole urne di terracotta che riproducevano al
forma delle capanne in cui vivevano o in urne a doppio cono, chiuse da un elmo per indicare gli uomini, da
una ciotola per le donne. I villanoviani si svilupparono in Emilia, Umbria, Toscana. Alto Lazio e parte della
Campania. Nella stessa epoca i Veneti di origine illirica (provenienti dall’entroterra balcanico) si stanziarono
nella parte orientale della pianura padana e nell’area prealpina. Raggiunsero il massimo sviluppo fra il V e il
II secolo V a.C.

I popoli appenninici nell’età del ferro


Lungo la dorsale appenninica vivevano diversi popoli: nell’entroterra di Genova fino alle Alpi e
all’Appennino erano stanziati i montanari Liguri, nell’Italia centrale, nell’entroterra adriatico fino all’alto
corso del Tevere, gli Umbri, fra Abruzzo e Lucania, i Sanniti, fra Abruzzo e Marche, i Piceni, più a sud i
Messapi, Lucani e Bruzzi, in Toscana e nell’alto Lazio, gli Etruschi, a sud del Tevere, i Latini, in Sicilia, i Siculi.

L’espansione dei Celti in Europa


I Celti erano un popolo che abitava nel bacino del Danubio e del Reno, durante l’età del bronzo, intorno al X
secolo a.C., i celti cominciarono a spostarsi anche nel resto dell’Europa: nella Francia centrale, in Spagna, in
Inghilterra e in Irlanda. Verso il VII secolo a.C. cominciarono ad emergere numerosi centri di potere di
signori locali, iniziarono così fitti scambi commerciali.

I Celti a sud delle Alpi


I contatti commerciali fra i Celti e le popolazioni italiche erano già avviati da tempo quando, verso il 600
a.C., i primi gruppi di Celti passarono i valichi alpini per stabilirsi nella nostra penisola. Nei secoli successivi,
bande di Celti desiderose di prede e ricchezze, puntarono sui ricchi centri della valle del Po. Per quanto
riguarda l’arte, i Celti si esprimevano in un linguaggio fortemente essenziale ma accolsero la cultura etrusca
e magnogreca con cui vennero i contatto. I primi ad arrivare furono gli Insubri che si stabilirono nelle
vicinanze dell’odierna Milano, poi i Boi si stanziarono in Umbria raggiungendo la costa adriatica. Una parte
dei Celti si stabilì nelle terre da poco conquistate.

La cultura dei Celti


I Celti non formarono mai un regno unitario e stabile ma erano divisi in varie tribù che parlavano dialetti
diversi. Erano un popolo guerriero che aveva imparato a lavorare i metalli. Erano anche abili nello sfruttare
le risorse minerarie de loro territorio, soprattutto il sale. I Celti costruirono solidi carri da trasporto a
quattro ruote di legno, ma protette da sottili lamine di ferro. Praticavano sacrifici umani, poiché ritenevano
che solo in questo modo si potessero placare gli dei.

I Fenici nel mar Tirreno


I Fenici cominciarono molto presto, forse nel XII secolo a.C. a solcare il Mediterraneo e a fondare empori
commerciali che col tempo divennero vere e proprie colonie. Cartagine fu la colonia più famosa e fiorente,
e con essa Roma si misurerà in tre lunghe guerre. Cartagine divenne ben presto una potenze e forte furono
i contatti con la cultura etrusca.

I Greci nell’Italia meridionale


Nell’VIII secolo a.C. era iniziata la colonizzazione greca dell’Italia meridionale e insulare. Le colonie fiorirono
rapidamente grazie allo sviluppo dell’agricoltura e dei commerci: si coltivavano soprattutto i cereali, ma
anche la vite e l’ulivo con cui si producevano vino e olio che venivano poi esportati. Quando i coloni
giunsero, la regione era abitata da popolazioni locali: in alcuni casi la convivenza fu pacifica, ma in altri
scoppiarono guerre durissime, come quelle che opposero per decenni i Tarentini a Messapi, Lucani e Bruzi.
Conflitti nacquero anche fra le stesse colonie greche come quelle tra Crotone e Sibari e la sconfitta di
quest’ultima.

Greci e Cartaginesi in Sicilia


Negli stessi anni in cui nascevano le colonie greche in Italia, anche sulle coste della Sicilia venivano fondate
nuove poleis. Qui gli scontri con le popolazioni locali furono minori, ma i Greci dovettero affrontare i
Cartaginesi. Nel 480 a.C. Siracusa, la più potente delle colonie greche, alleata con Agrigento, riuscì a
sconfiggere i Cartaginesi a Imera. Alla fine del V secolo a.C., dopo settanti di pace, i Cartaginesi scatenarono
una nuova e durissima offensiva. In quell’occasione Selinunte fu cancellata quasi del tutto, Agrigento venne
conquistata. Ancora una volta fu Siracusa a guidare la riscossa: a quel tempo vi regnava Dionisio il Vecchio.
Dopo la sua morte nel 367 a.C. prese il suo posto Timoleonte, inviato da Corinto in aiuto dei siracusani. Con
le sue vittorie fece diventare il fiume Alico il confine fra le zone d’influenza dei Greci e dei Cartaginesi.

L’influsso della cultura greca


Le fondazioni di colonie greche in Italia meridionale e in Sicilia avvennero quasi esclusivamente sulla costa,
ma i Greci stabilirono presto contatti con le popolazioni locali. Le colonie commerciavano raffinati prodotti
trasmettendo la loro lingua e la loro cultura. L’influsso della cultura ellenica giunse presto fino a Roma e
riguardò non solo l’arte, la letteratura e la religione, ma anche il pensiero politico.

La questione dell’origine degli Etruschi


Secondo Erodoto, gli Etruschi sarebbero arrivati in Italia nel II millennio a.C. dall’Anatolia, costretti a lasciare
il loro paese per le continue carestie. Precisamente dalla città di Tirra si sarebbero mossi i “Tirreni”.
Secondo Dionigi di Alicarnasso, gli Etruschi sarebbero un antichissimo popolo indigeno. Invece per la
maggior parte degli studiosi moderni ritiene gli Etruschi autoctoni.

L’espansione in Italia e il predominio sul Tirreno


La civiltà etrusca si sviluppò nell’odierna Toscana, nel Lazio settentrionale e in parte in Umbria. Da qui
estese gradualmente la sua influenza sia verso nord che verso sud. Nel periodo di massimo splendore (VI-V
secolo a.C.) città etrusche erano sparse in buona parte dell’Italia, dalla pianura Padana fino alle coste della
Campania. Gli etruschi furono commercianti e navigatori ed ebbero contatti con i Fenici e con i Greci.

Le città etrusche
La potenza e floridezza degli Etruschi la si può notare dalle loro necropoli e dalle città circondate da mura
imponenti. Furono infatti il primo popolo ad abitare in vere e proprie città. L’impiego dell’arco fu un
grandissimo progresso, applicato largamente dagli Etruschi ed ereditato dai Romani. Infatti l’arco può
sopportare un grande peso ed essere molto ampio, senza bisogno di sostegni intermedi. Gli Egiziani, che
ignoravano l’arco, ebbero bisogno di molte colonne per sostenere le travi dei loro templi. Gli Etruschi
furono abili a scavare canali, a bonificare terreni e a costruire strade. Sfruttarono a fondo il loro territorio
ricco di risorse naturali: miniere di ferro (isola Elba), d’argento (Argentario), d’allume (monti della Tolfa e
nel Lazio).

L’organizzazione politico e sociale


Le città etrusche sorgevano su altopiani con le pareti a strapiombo che le proteggevano dagli avversari e
dominavano le piani sottostanti. Erano città-stato, autonome e indipendenti, unite però in confederazioni
da dodici. I legami erano unicamente religiosi ed economici: solo in caso di pericolo diventavano politici,
per far fronte comune al nemico. Inizialmente a capo c’era un re, il “lucumone” in seguito da magistrati
elettivi. Il re era accompagnato da dodici littori, cioè guardie scelte. La civiltà etrusca ebbe un carattere
fortemente aristocratico, il potere era nelle mani di una classe di nobili proprietari terrieri. Il resto della
popolazione viveva dei prodotti della terra, coltivavano cereali, vite, ulivo e lavoravano i metalli e i minerali
come stagno, rame e ferro.

La sepoltura de defunti
I morti venivano adagiati con i loro abiti e gioielli migliori su letti di pietra o chiusi dentro sarcofaghi di
terracotta. Ai loro piedi erano lasciati vasi in bucchero o dipinti, e tutti gli oggetti che potessero essere utili a
continuare a vivere bene. Amavano tanto la musica e il buon cibo.

La cultura
Erano un popolo abile nella lavorazione dell’argilla e dei metalli. Ogni città aveva al suo interno vari templi,
uno dedicato a Tinia, il dio dei fulmini, a Uni, sua moglie e a Menrva. Pensavano che gli uomini potessero
conoscere il futuro assegnato, infatti gli auguri e gli auspici, sacerdoti esperti nell’interpretazione dei segni,
osservavano i fulmini o il volo degli uccelli o come beccavano i polli nel pollaio sacro o esaminavano con
cura il fegato degli animali sacrificati dividendolo in 16 zone, favorevoli o sfavorevoli.

Decadenza degli Etruschi


Le città etrusche raggiunsero la massima potenza nel VI secolo a.C., poi gli attacchi dei Greci a sud e dei
Celti al nord ridussero notevolmente il territorio etrusco, che vene limitato fra l’Arno e il Tevere. L’etrusca
Veio si scontrò a lungo con Roma per il controllo delle saline situate alla foce del Tevere e alla fine nel 396
a.C., fu vinta. Importantissimo era il sale nel mondo antico, poiché era usato per conservare gli alimenti e
per preparare i formaggi. L’ultima città etrusca ad essere conquistata da Roma fu Volsinii, cioè Orvieto, nel
264 a.C. Poi questo popolo decadde e Roma divenne l’unica protagonista in Italia, ma accolse e fece propri
molti usi e abitudini degli Etruschi.
La leggenda di Romolo e Remo
Secondo la tradizione, Roma sarebbe stata fondata il 21 aprile 753 a.C. Partendo da antiche leggende, il
poeta Virgilio ne raccontò la storia nel poema Eneide. Enea, figlio di Venere, accolto dal re Laino, sposò la
figlia del sovrano, fondando poi la città di Albalonga. Qui l’Eneide finisce ma altri storici di Roma lo hanno
continuato. Passarono gli anni, il re di Albalonga divenne Numitore, ma il fratello Amulio lo spodestò e
costrinse la figlio di lui, Rea Silvia, a diventare sacerdotessa della dea Vesta. Ma il dio Marte, innamoratosi
della bellezza della ragazza, si unì a lei e nacquero due gemelli Romolo e Remo. Temendo di perdere il
trono, Amulio li fece abbandonare in una cesta buttata nel Tevere. Protetta dagli dei, la cesta si impigliò nei
rami; una lupa, giunta sul posto, allattò i due gemelli consentendo loro di sopravvivere. Poi una coppia di
pastori li allevò. Raggiunta l’età adulta Romolo e Remo si vendicarono di Amulio uccidendolo e riportarono
Numitore sul trono.

La nascita di Roma: il rito di fondazione


Secondo la leggenda, Romolo e Remo stabilirono di costruire una loro città. Consultarono quindi gli dei,
secondo al pratica etrusca di osservare il volo degli uccelli. Gli auspici furono favorevoli a Romolo, che
scelse il colle Palatino. Romolo fondò Roma seguendo il rituale etrusco: in ambito sacerdotale tracciò un
solco quadrato, il confine della città, usando un aratro con il vomere di bronzo, tirato da un toro e da una
vacca bianchi. L’uso del bronzo segnala l’antichità del rito. Il solco era sacro e rimarrà per i Romani il
“pomerium”, lasciato libero, al cui interno non si poteva entrare con le armi, pena la morte. Remo profanò
il solco e vene ucciso da Romolo che diventò l’unico re.

Le risposte dell’archeologia
Si pensa piuttosto al progressivo costruirsi e crescere della città bel corso del tempo. L’area dei colli di
Roma era già abitata dal 1500 a.C. circa.

Una posizione geografica particolarmente felice


Già gli antichi autori sottolinearono la posizione favorevole di Roma. La città si trova in una regione dal
clima mite, ad una giusta distanza dal mare. Costruita sui colli era facilmente difendibile dalle insidie dei
nemici e al riparo dalle malsane paludi che occupavano la sottostante piana del Tevere. Proprio il Tevere
costituì la principale risorsa della città. Roma controllava il punto in cui l’isola Tiberina ne divide in due la
corrente, rendendolo più facile da attraversare. Infatti se c’è un ponte, la gente si ferma, si incontra e nasce
un mercato, per mantenere efficiente un ponte occorre che la collettività si organizzi e si aiuti. Chi era
incaricato della tutela del ponte è un’autorità sacrale, un pontifex (sacerdote). Il Tevere, allora navigabile,
costituiva un’importante via di comunicazione con l’interno e offriva uno sbocco al mare. Alla sua foce vi
erano le saline, alle quali si riforniva tutta la regione circostante.

I Latini e le risorse della regione


Roma era solo una delle città fondate dai Latini. Questi centri, chiamati oppida, erano nati dall’associazione
di più villaggi e sorgevano su colli sovrastanti la piana del Tevere. La popolazione viveva dei prodotti della
terra, orzo, farro e dell’allevamento, fiorente era anche il commercio del legname. I Latini non usavano il
denaro, ma barattavano il bestiame in cambio di quanto era loro necessario. Queste comunità erano
indipendenti fra di loro ma riunite in una confederazione o lega, a capo della quale c’era Albalonga.

La tradizione dei sette re


Nei primi secoli della sua storia Roma fu governata dai re (753-509 a.C.). La tradizione ne ricorda sette ma
sicuramente ce ne sono stati molti altri. Romolo, il fondatore secondo la tradizione regnò insieme a Tito
Tazio, re dei Sabini. Durante questo periodo, Roma si ampliò, prendendo con sé il Quirinale e il Campidoglio
e le due stirpi latina e sabina si fusero. Il re successivo fu Numa Pompilio, fu un sovrano pacifico, diede al
popolo nuove leggi e organizzò gli antichi riti della religione romana. Poi ci fu Tullo Ostilio, con lui Roma
sconfisse Albalonga e la sostituì alla guida della confederazione. Sotto Anco Marzio, invece, la città estese il
suo controllo fino alla foce del Tevere, dove fu fondato il porto di Ostia. In seguito salì al trono un re etrusco
Tarquinio Prisco e dopo di lui ci fu Servio Tullio. Mentre l’ultimo re fu un etrusco Tarquinio il Superbo, così
chiamato per il suo atteggiamento.

L’ordinamento “romuleo”: il re. Il senato e i comitia curiata


Romolo divise la popolazione in tre tribù (Ramnes, Tities, Luceres), ciascuna delle quali a sua volta era divisa
in dieci “curiae”. Le curie erano associazioni di famiglie e l’appartenenza veniva trasmessa di padre in figlio.
Questa divisione era alla base delle più antiche assemblee cittadine, i “comitia curiata”, che non riunivano
tutto il popolo, ma solo i membri delle “gentes”, le grandi famiglie aristocratiche. Le curie avevano una
funzione sia militare che politica: partecipavano alle decisioni relativa alla pace, alla guerra e alla vita della
comunità, inoltre fornivano ciascuna cento fanti e dieci cavalieri all’esercito. Il popolo dei piccoli contadini,
artigiani e pastori che non appartenevano a nessuna gens, ne restava escluso. Inoltre Romolo riunì i più
influenti capifamiglia, in un consiglio, il senato che aveva il compito di aiutare e sostenere il re. Il re
deteneva il sommo potere, era capo dell’esercito, gran sacerdote e giudice, con diritto di vita e di morte sui
sudditi. Il trono non era ereditario ma il re veniva eletto dal senato e poi riceveva l’investitura ufficilae per
acclamazione da parte delle curie.

Roma etrusca
Gli Etruschi per espandere i propri traffici commerciali e raggiungere la Campania, fiorente centro di cultura
greca, aveva bisogno di passare per Roma. Fu così che la fecero dipendere sotto la propria influenza e la
città conobbe il governo di re etruschi. Il primo fu Tarquinio Prisco che fece costruire un tempio a Giove, il
grandioso Circo Massimo, prosciugò le zone paludose e introdusse l’uso dei littori. Servio Tullio invece viene
ricordato per le sue riforme: introdusse la moneta, riorganizzò l’esercito e lo stato. Il suo successore fu
Tarquinio il Superbo, che venne cacciato nel 509 a.C. Durante la dominazione etrusca Roma si ingrandì
arrivando ad includere anche i colli Celio, Esquilino, Aventino e Gianicolo.

Le riforme di Servio Tullio: l’ordinamento centuriato


Prima di Servio Tullio Roma era governata con un sistema “gentilizio”, il potere era nelle mani delle gentes,
i clan familiari che formavano le curie. Tullio divise la città in quattro zone corrispondenti a quattro tribù
urbane. Riorganizzò la popolazione sulla base del reddito in cinque classi, suddivise in 193 centurie. Le
prime tre classi (più ricche) fornivano la fanteria pesante, con la costosa armatura oplitica, le ultime due la
fanteria leggera (giavellotti, archi, fionde). Al di sopra della prima classe c’erano i cavalieri, tanto ricchi da
poter mantenere un cavallo da guerra, mentre al di sotto della quinta classe c’erano i “inermes” i senza
armi; fabbri, falegnami, che accompagnavano l’esercito suonando la tromba.

Effetti della riforma di Servio Tullio


La riforma ebbe ripercussioni decisive per Roma. Nacque un esercito di cittadini, in cui tutto il popolo dei
liberi contribuiva alla difesa della città. Contribuì anche a creare un maggiore spirito civico e servì ad
amalgamare una popolazione in cui vivevano Sabini, Etruschi e Latini. All’impiego militare Servio fece
corrispondere un ruolo politico, creando una nuova assemblea, i “comizi centuriati”. Il nuovo sistema
aumentò il potere dei ricchi: il popolo votava infatti diviso per centurie e ogni centuria disponeva di un
voto: poiché la prima classe e i cavalieri insieme contavano già 98 centurie, i cittadini più benestanti
acquistarono un peso maggiore nella vita pubblica.
Il passaggio dalla monarchia alla repubblica
Nel 509 a.C. Sesto, il figlio di Tarquinio il Superbo, fece violenza alla nobile Lucrezia, che per la vergogna si
uccise. Il marito Collatino, allora insieme ad altri nobili romani si vendicarono chiudendo le porte della città
e lasciando fuori il re, il quale era partito per una spedizione. Il re allora chiese aiuto al potente re etrusco
Porsenna ma che i Romani riuscirono eroicamente a respingerlo. Secondo la realtà invece, la rivolta fu
scatenata per l’atteggiamento tirannico dell’ultimo re Tarquinio r dell’insofferenza dei Romani. Con la
vittoria su Porsenna, iniziarono una serie di scontri con il popolo dei Latini, che si erano uniti in una lega,
detta lega latina. La guerra si concluse con la battaglia al lago Regillo (496 a.C.), vinta da Roma. La sconfitta
degli etruschi sul mare dianzi a Cuma nel 474 a.C. ne segnò il rapido declino commerciale.

Consoli e senato
Con la caduta della monarchia si affermò la repubblica. I nobili che avevano guidato la rivolta, fecero in
modo che il potere fosse affidato non più solo ad un uomo ma a due magistrati: i consoli. Essi detenevano il
supremo comando civile e militare e il loro grado era pari in tutto, guidavano l’esercito, convocavano il
senato e presiedevano i “comizi”. Rimanevano in carica un anno solo ed erano assistiti dal senato, di cui
diventavano membri allo scadere del loro incarico. In circostanze particolarmente difficili e di pericolo, i
consoli potevano nominare un “dittatore” unico, che durava in carica sei mesi e aveva poteri assoluti. Il
senato era formato soprattutto dai ricchissimi patrizi e la sua funzione era consultiva. I senatori restavano in
carica tutta la vita, erano considerati figure di altissimo prestigio.

I patrizi e i plebei
Già sotto il re, i patrizi avevano cominciato ad affermarsi come classe dominante. Appartenevano a famiglie
di grandi proprietari terrieri. Mentre tutti gli altri abitanti di Roma come la povera gente, gli artigiani e i
commercianti facevano parte della classe dei plebei. Anche loro erano cittadini romani ma non avevano gli
stessi diritti dei patrizi, infatti non potevano sposarsi fra di loro. Furono proprio i patrizi a causare la caduta
della monarchia, intimoriti dall’atteggiamento degli ultimi re, troppo favorevoli al popolo.

I clienti
Il “clientes”, termine latino che deriva dal verbo “cluere” che significa “obbedire”, si indicavano gli uomini
liberi ma in condizioni economiche disagiate. Inizialmente venivano assegnati ai patres, in modo che
ricevessero aiuto e protezione in campo economico e giuridico e in cambio i clienti si mettevano a
disposizione dei padroni. Gli obblighi dei clienti verso i padroni prevedevano la prestazione di servizi diversi,
anche a carattere militare e la garanzia di una fedeltà assoluta, in seguito con la repubblica, gli obblighi si
estesero all’ambito elettorale.

La rivendicazione dei plebei


Nei primi due secoli della storia della repubblica le troppe diseguaglianze e ingiustizie provocarono violente
lotte fra i patrizi e i plebei, infatti i plebei non potevano essere eletti alle cariche dello stato, che erano
riservate ai patrizi, non ottenevano gli stessi benefici delle vittorie in guerra, poiché i territori conquistati
erano spartiti solo fra i patrizi, inoltre erano oppressi dai debiti che non potevano pagare, rischiando di
essere ridotti in schiavitù. E una delle richieste più insistenti era che le terre pubbliche di appartenenza allo
stato, fossero divise fra la plebe. Ma nel 494 a.C. i plebei esasperati uscirono da Roma e si ritirarono
sull’Aventino, minacciando di non tornare più in città e così la vita economica fu paralizzata. A quel punto i
patrizi scesero a patti e questo episodio è ricordato come la “secessione della plebe”.
Le vittorie dei plebei
La crisi fu risolta grazie all’intervento di un senatore, Menenio Agrippa che attraverso il famoso discorso del
corpo e delle membra, placò l’animo dei plebei, inoltre i patrizi si piegarono al alcune concessioni
importanti. I plebei ottennero la creazione di una magistratura apposita che tutelasse i loro diritti.
Nacquero così i tribuni della plebe (da 2 si arriva fino a 10) che avevano il diritto di veto contro ogni legge o
provvedimento dannosi per i plebei. I tribuni inoltre vennero dichiarati inviolabili: chiunque facesse loro del
male era punibile co la morte e la confisca dei beni. Nel 451 a.C. venero nominati dieci magistrati, i
“decemviri” che scrissero una serie di norme incise su dodici tavole di bronzo ed esposte nel foro. Le leggi
sono state definite “primitive e crudeli”: sancivano il potere del padre di famiglia sulla moglie e sui figli,
confermavano il diritto di vendere come schiavi i debitori e ponevano un limite alle decisioni dei magistrati
patrizi. In seguito fu abolito il divieto fra patrizi e plebei e gradualmente anche i plebei furono ammessi a
ricoprire le cariche più alte dello stato. Nel 366 a.C. l’elezione del primo console plebeo segnò anche la
pacificazione fra i due ordini.

Le magistrature repubblicane
Nel corso del V e del IV secolo a.C. furono a poco a poco create tutte le magistrature della Roma
repubblicana. Oltre ai due consoli e ai senatori, c’erano i questori che amministravano le finanze dello
stato. Gli edili furono istituiti negli stessi anni dei tribuni della plebe, si occupavano della cura della città
(facevano lastricare e pulire le strade, controllavano gli edifici pubblici e i bagni), i pretori affiancavano e
sostituivano i consoli soprattutto nelle questioni giudiziarie, quando entravano in carica promulgavano
editti in cui illustravano i principi che avrebbero seguito nei processi. Queste norme si accumularono nel
tempo e divennero la base del diritto civile romano e furono poi fatte raccogliere dall’imperatore Adriano. I
censori, magistrati importantissimi, che ogni cinque anni si occupavano del censimento, ovvero stabilire la
ricchezza dei cittadini e di ripartirli nelle cinque classi, indicavano i cittadini che potevano diventare membri
del senato e aggiornavano le liste dei senatori.

Il cursus honorum
Il cittadino prima di ambire alle cariche politiche più alte, doveva dimostrare le proprie capacità e il proprio
valore rivestendo cariche inferiori. A poco a poco era possibile salire fino al vertice più alto e questo
percorso di cariche costituiva il “cursus honorum” (il percorso degli onori). Prima di poter accedere alle
magistrature il giovane romano doveva aver servito nell’esercito e ricoperto almeno per un anno il grado di
tribuno militare. Verso i trent’anni poteva diventare questore, la prima delle cariche politiche, il passo
successivo era la carica di edile. Dopo l’edilità, verso i 39 anni, si poteva diventare pretori, verso i 42 si
accedeva al consolato, la magistratura più importante della repubblica. Il grado più alto della carriera
politica era infine la censura: la sua importanza stava non tanto nel potere, quanto nell’altissimo prestigio e
nella dignità che circondavano questa carica per via della sua funzione. Coloro che erano stati pretori o
consoli, alla fine potevano essere ammessi in senato.

Le assemblee popolari; i comizi centuriati e i comizi tributi


I cittadini romani si riunivano e votavano in diverse assemblee, che si chiamavano “comizi”. I più antichi
erano i comizi curiati. Dopo le riforme di Servio essi persero tutto il potere politico, che passò ai nuovi
comizi centuriati. In queste assemblee i cittadini-soldati votavano, divisi per centurie. Ogni centuria aveva a
disposizione un voto. Poiché le prime e più ricche fra le cinque classi censitarie avevano un numero
maggiore di centurie, il voto dei comizi centuriati rispecchiava di solito la volontà dei cittadini più agiati. I
comizi centuriati erano di fatto i più importanti perché a loro spettava l’elezione delle cariche più alte dello
stato. A fianco dei comizi centuriati vi erano i comizi tributi nei quali ogni tribù aveva diritto ad un voto.
All’inizio queste assemblee erano riservate alle plebe poi vennero ammessi anche i patrizi.

Il pater familias e la famiglia


Il pater familias era il capo assoluto del nucleo familiare. Aveva potere di vita e di morte sui figli e sulla
moglie. Era lui che decideva di allevare il neonato che gli era posto ai piedi, sollevandolo fra le braccia,
oppure rifiutarlo lasciandolo a terra, questi bambini erano esposti in un luogo pubblico e lasciati morire, a
meno che qualcuno, passando, non li avesse raccolti e allevati come schiavi. Il padre toglieva al figlio
sedicenne la bulla, gli faceva indossare la toga bianca e lo accompagnava al foro dove il figlio, con la
registrazione del nome, diventava cittadino romano. Il figlio adulto rimaneva comunque sottomesso al
padre fin che questi aveva vita.

Il ruolo della donna


Nella famiglia la donna era destinata al matrimonio, che poteva avvenire secondo il rito della “confarreatio”
(riservato ai patrizi, aveva carattere religioso e prendeva il nome dalla focaccia di farro che gli sposi
consumavano davanti al pontefice massimo) o della “coemptio” (prevedeva l’”acquisto” della sposa da
parte del futuro marito). Il mondo della donna era la casa, nella quale passava il tempo a tessere e a filare,
se ricca, a farsi bella. Le donne non partecipavano alla vita pubblica e non potevano neppure esercitare
alcuna attività professionale. Col tempo le matrone romane riuscirono ad amministrare direttamente il
proprio patrimonio cercandosi, alla morte del padre, un tutore compiacente che non ostacolasse la loro
volontà.

I nomi dei Romani


I Romani maschi avevano sempre tre nomi: il “praenomen”, cioè il nome proprio; il “nomen” della gens, che
corrisponde al nostro cognome; il “cognomen” che corrisponde al nostro soprannome. La gens era
costituita da un gruppo di famiglie che aveva antenati in comune. Il nome del capostipite, cioè
dell’antenato da cui tutte le famiglie discendevano, diventava il nome della gens. Le donne etrusche
avevano diritto ad un nome proprio, ma nella società romana questo diritto scompare.

Schiavi e liberti
Gli schiavi erano considerati come delle cose, proprietà del capofamiglia. Si diventava schiavi perché
prigionieri di guerra o per debiti. La schiavitù era ereditaria. Chi da libero era stato medico, insegante o
giurista, da schiavo godeva di condizioni di vita migliori perché le sue capacità erano apprezzate.
Ovviamente c’erano anche padroni che trattavano con umanità o che addirittura affrancavano, cioè
liberavano i loro schiavi, che venivano chiamati liberti. Anche se liberati, gli schiavi non potevano avere
cittadinanza romana e mantenevano degli obblighi verso il padrone.

La religione domestica
Nella religione romana un aspetto di fondamentale importanza era il rituale, per propiziare la benevolenza
delle divinità invocate. All’interno della casa erano venerati i Lari, le divinità protettrici dei luoghi abitati, vi
erano poi i Penati, gli dei che vegliavano sul benessere del padrone di casa e dei componenti della sua
famiglia. In origine la sede dei Penati era il focolare domestico, in seguito nelle case romane vennero
costruite per i Penati apposite cappellette all’ingresso. Infine vi erano i Mani, gli spiriti degli antenati
divinizzati.

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