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1) L’ITALIA PREROMANA

1.1 L’ITALIA DELL’ETÀ DEL BRONZO E DELL’ETÀ DEL FERRO

Tra il III e il I millennio a.C., la penisola italiana conosce uno sviluppo di


imponenti proporzioni.
Tra il Bronzo medio e la prima età del Ferro in Italia si passa dalla presenza di
una miriade di gruppi umani, alla formazione di complesse realtà
protostatali, cosa che andava in qualche modo a colmare il distacco con il
Mediterraneo orientale.
Una cesura importante è quella avvenuta tra l’ultima età del Bronzo (1200-900
a.C.) e la prima età del Ferro (IX-VIII sec. a.C.): la cultura materiale delle due
età differisce moltissimo in Italia.
L’Italia del Bronzo si era contraddistinta per la sua uniformità, quella del
Ferro invece è caratterizzata da una vasta differenziazione.
Durante l’età del Bronzo i siti sono dislocati ovunque lungo la penisola, ma
tendono a concentrarsi lungo la dorsale appenninica; due delle caratteristiche
principali di questo momento storico sono la crescita demografica e il
maggiore sfruttamento del suolo.
Con l’aumentare dello sfruttamento del suolo, cominciano a ridursi i centri
abitati, segno di uno sfruttamento più intensivo del suolo: un fenomeno
testimoniato dalla ‘’cultura terramaricola’’, sviluppatasi a sud del Po’ tra il
XVIII e il XII secolo a.C.
Questa cultura diede vita a villaggi di pianta trapezoidale, circondati da un
fossato e attraversati da due strade tra loro perpendicolari, fatti di capanne
rette da impalcature in legno, utilizzate come difese dagli attacchi degli
animali selvatici.
Il nome ‘’terramare’’ deriva invece dal nome dei tumuli formatisi su questi
insediamenti nel corso dei secoli.
Durante l’età del Bronzo è documentata anche un’intensa circolazione di
merci e persone, come dimostrato dal ritrovamento di merci provenienti
dall’area micenea.
Risulta comunque fuori luogo parlare di traffici commerciali o di
colonizzazione, anche se è indiscutibile che questi contatti favorirono tra gli
indigeni la formazione di aggregazioni più grandi e forti.
Con l’età del Ferro si assiste come detto ad una maggiore differenziazione tra
le varie comunità, dimostrata in primo luogo dalle modalità di sepoltura:
alcune popolazioni praticano la sepoltura, altre la cremazione.
Alcune culture degne di nota sono quella detta ‘’Golasecca’’, collocata tra i
laghi di Lombardia e Piemonte, e la ‘’cultura Este’’, posta nelle vicinanze di
Padova.
In Etruria e in Emilia si sviluppa invece la cultura ‘’Villanoviana’’, molto
diversa da quelle ricordate poco fa e importante in quanto dai suoi centri si
svilupperanno le città etrusche.
Quella Villanoviana tra l’altro, è una cultura che ha numerosi punti in
comune con altre culture europee: si pensi a quella di Hallstat in Austria.
I Villanoviani utilizzavano armi ed utensili in ferro e abitavano insediamenti
circondati da fossati.
Il fatto che la zona d’irradiazione della cultura villanoviana corrisponde di
fatto a quella etrusca ha portato numerosi studiosi a ritenere che le due civiltà
abbiano tra di loro un rapporto di parentela diretta.
La diversità delle culture presenti in Italia è dimostrata anche dal quadro
linguistico, molto vario e organizzato in due macro ceppi: quello
indoeuropeo, a cui sono riconducibili il latino/il falisco e la lingua italica, a
sua volta divisibile in tre famiglie: l’umbro-sabino nel centro-Nord (Sabinia,
Umbria e Piceno), l’osco nel centro-Sud (Sanniti. Lucani e Brettii) ed infine la
lingua di Enotri e Siculi.
Indoeuropei erano anche il celtico e il messapico (Puglia meridionale), mentre
le lingue non indoeruopee erano l’etrusco, il sardo, il retico (Alto Adige) e il
ligure.
Nell’Italia preromana un posto importante è occupato dalle colonie della
Magna Grecia, sorte a partire dall’VIII secolo a.C., che ebbero un’influenza
straordinaria sulle popolazioni indigene.
Menzione a parte merita la civiltà dei Sardi, detta anche ‘’nuragica’’, dal
nome delle costruzione tipica di questa popolazione, il ‘’nuraghe’’, un torre a
forma di tronco di cono (inizialmente con funzione difensiva, poi cuori di
centri abitati).
La civiltà sarda venne fortemente influenzata dalle colonie fenicie lungo le
coste: Tharros, Sulcis, Nora e altre.
1.2 I PRIMI FREQUENTATORI DELL’ITALIA MERIDIONALE

Le fonti letterarie e storiografiche antiche, a partire dal V secolo a.C.,


forniscono alcuni dati sull’origine delle popolazioni italiche.
A Dionigi di Alicarnasso, che scrive al tempo di Augusto (fine I secolo a.C.), si
deve la descrizione dei più antichi frequentatori dell’Italia meridionale,
ovvero gli Arcadi, che sarebbero giunti nella penisola ‘’17 generazioni prima
della guerra di Troia’’.
Il racconto di Dionigi ha tutti i tratti dell’etnografia antica, in cui è sempre
presente un personaggio dai tratti mitici (in questo caso Enatro figlio di
Licaone) che è responsabile dello sviluppo di una regione.
I dati archeologici dimostrano che il periodo indicato dallo storico greco in
effetti fu caratterizzato da un grande popolamento: siamo infatti nel
passaggio tra Bronzo antico e Bronzo medio.
Il riassetto avvenuto in questo momento non fu però dovuto all’arrivo di
coloni arcadi, in quanto l’archeologia ha recuperato dei reperti che fanno
pensare ad una popolazione indigena.
Il racconto di Dionigi parla anche di una frequentazione dell’Italia da parte di
popoli orientali: in effetti la ricerca ha dimostrato che i rapporti tra Italici e
Micenei andavano oltre il semplice scambio commerciale, erano molti infatti i
commercianti egei che si stabilirono in villaggi del Meridione.
Le forme di insediamento a cui accenna Dionigi (‘’centri abitati vicini gli uni
agli altri’’) è accertabile tramite l’osservazione dell’area del golfo di Sibari: gli
insediamenti sorgevano su creste collinari, per motivi difensivi e per
controllare il territorio agricolo circostante.
Per quattro secoli, a causa della fine del mondo miceneo, i commerci con il
Mediterraneo orientale si limitarono di molto, solo nell’VIII secolo ricomincia
la circolazione di ceramica greca, dovuta in primo luogo all’attività
colonizzatrice.
Nel frattempo le società indigene si erano irrobustite: cominciarono a sorgere
anche insediamenti di una certa grandezza, che giunsero a contare anche
20.000 unità.

1.3 LE TRASFORMAZIONI DELL’ITALIA CENTRALE

Tra VIII e V secolo a.C. si assistette ad un’imponente espansione delle


popolazioni dell’Appennino centro-meridionale, un fenomeno per noi molto
chiaro specialmente sul versante tirrenico: gruppi etnici di lingua non latina,
come Volsci/Equi/Ernici, che occuparono il Lazio.
Questi movimento tocca il proprio apice tra V e IV secolo a.C., con
l’espansione dei Sanniti.
In Abruzzo si osserva la presenza di insediamenti grandi anche dieci ettari,
mentre in area picena si assiste alla formazione di una cultura simile a quella
dell’Etruria e del Lazio.
L’area, sempre grazie alla mediazione etrusca, conosce anche la circolazione
di prodotti orientali.
Le prime testimonianze scritte lasciano poi intravedere un’organizzazione
articolata secondo gruppi etnici con a capo re e principi.
2) GLI ETRUSCHI

2.1 ORIGINE ED ESPANSIONE DEGLI ETRUSCHI

Gli Etruschi sono senza dubbio la più importante popolazione dell’Italia


preromana.
Essi erano noti ai Greci col nome di ‘’Tirreni’’, in quanto secondo Erodoto si
trattava di una popolazione originaria della Lidia giunta dall’Asia minore
sotto la guida di Tirreno.
Dionigi di Alicarnasso sosteneva invece che fossero degli autoctoni, mentre
altri ancora li ritenevano una popolazione originaria del nord.
La ricerca storico-archeologica spiega invece l’origine etrusca, collocata tra
VIII e VII secolo a.C., tramite l’incontro di due fenomeni: un’evoluzione delle
civiltà locali (Villanoviani) e l’importanza di influenze esterne, in primo
luogo quella delle città greche.
A far propendere per quest’ultima tesi è il dato archeologico, che non ci
induce a teorizzare una cesura con le precedenti forme di insediamento
villanoviane.
La civiltà etrusca si sviluppa in primo luogo lungo la valle dell’Arno e del
Tevere: uno sviluppo come detto favorito anche dall’incontro con gruppi
extraitalici, caratterizzati da elementi propri delle civiltà orientali (sull’isola
greca di Lemno è stata rinvenuta un’iscrizione in una lingua simile
all’etrusco).
Questa popolazione conobbe il proprio apogeo nel corso del VII-VI secolo
a.C., quando gli Etruschi controllavano gran parte dell’Italia centro-
occidentale, competendo con Greci e Cartaginesi per il controllo delle rotte
marittime.
Gli Etruschi erano organizzati in città indipendenti governati da sovrani detti
‘’lucumoni’’, sostituiti poi da magistrati annuali detti ‘’zilath’’ (corrispondenti
ai pretori romani).
L’unica forma di aggregazione conosciuta dalle comunità etrusche fu la lega
delle 12 città, in cui erano riunite Chiusi/Veio/Volterra/Vulci/Roselle/Cere/
Vetulonia/ Arezzo/ Fiesole/ Perugia/ Cortona/ Tarquinia , che aveva in primo
luogo degli scopi religiosi.
La società etrusca era profondamente aristocratica: il governo cittadino era in
mano ad un ristretto numero di ricchi proprietari terrieri e commercianti.
L’espansione etrusca si sviluppò in relazione alla fondazione di nuove città, e
conobbe una battuta d’arresto nel 530 a.C., quando una flotta etrusca venne
sconfitta dai Greci di Focea ad Alalia (colonia fondata da questi in Corsica e
vista dagli Etruschi come una minaccia ai propri commerci).
L’espansione etrusca in area meridionale fu invece interrotto nel 474 a.C.,
quando un esercito etrusco venne sconfitto a Cuma dai Greci di Siracusa.
Decisivo per il collasso etrusco fu però l’espansionismo romano: nel 396 a.C. i
Romani presero Veio, mentre i Celti strapparono agli Etruschi numerose
posizioni in area padana.
Infine, durante il corso del III secolo a.C., l’Etruria passò definitivamente sotto
il dominio romano.

2.2 RELIGIONE E CULTURA

Gli scrittori antichi ammiravano molto l’eccezionale sviluppo che i riti


religiosi conobbero nel mondo etrusco.
La sfera religiosa etrusca era composta da culti e riti ben codificati, rivolti ad
un pantheon che aveva assimilato divinità greche e autoctone: Hercle è
Eracle, Apulu è Apollo, mentre Selvans (Silvano) e la divinità suprema Tinia
(come Zeus sottomessa al Fato) sono autoctone.
Le divinità erano ordinate secondo gerarchie e distribuite in collegi e in regni
di supremazia, come quello dei mortali e degli inferi.
Il più lungo documento giuntoci scritto in lingua etrusca, il ‘’libro di lino di
Zagabria’’ (un pezzo di stoffa utilizzato per avvolgere una mummia), riporta
le prescrizioni rituali dell’anno liturgico, le preghiere e i cerimoniali di offerta
nella forma di un calendario di giorni e mesi.
Nella religiosità etrusca aveva poi una grande importanza la concezione
dell’aldilà: il defunto continuava a vivere nella tomba, concepita dunque
come una dimora dove trovano posto cibi e bevande.
A quest’immagine dell’aldilà si sostituì poi quella di un lungo viaggio,
effettuato a piedi o tramite mezzi di locomozione.
Molto importante era anche la corretta interpretazione della volontà divina,
cosa che spiega l’importanza che questo popolo dava all’aruspicinia, la
lettura delle viscere degli animali sacrificati per scopi religiosi.
Negli organi infatti sarebbe descritto l’ordine dell’universo, dunque in essi vi
erano le risposte delle domande fatte alla divinità; un famoso monumento
dell’aruspicinia è il ‘’Fegato di Piacenza’’, uno strumento o un modello
didattico in bronzo su cui erano segnati dei nomi divini.

2.3 IL PROBLEMA DELLA LINGUA

I testi etruschi, scritti in un alfabeto di ventisei lettere riadattato da quello


greco, è perfettamente leggibile, tuttavia non si può affermare che
conosciamo l’etrusco.
Come già ricordato l’etrusco è una lingua non-indoeuropea, di cui noi
possediamo solo poche testimonianze scritte (circa 8000 parole) di ridotta
lunghezza, composte tra l’altro soprattutto da nomi propri.
Mancano poi testi bilingui di sufficiente ampiezza attraverso cui fare un
raffronto: un progresso notevole è arrivato dalle lamine di Pyrgi (il porto di
Cere, l’odierna Santa Severe vicino Civitavecchia), che presentano un testo
fenicio e in etrusco relativo alla dedica di un tempio alla dea Uni (Astarte in
fenicio) da parte dello zilath Tefarie Velianas.

2.4 TECNICA E ARTE

I siti delle città etrusche sono relativamente modesti, se si fa eccezione per


quello di Marzabotto (vicino Bologna), per quelli di Volterra/Vetulonia/
Tarquinia e per le necropoli.
Queste ultime sono disseminate un po' ovunque nell’area d’influenza etrusca:
si tratta di abitazioni sotterranee scavate nel tufo o costruite in pietra; per
quanto concerne la sepoltura invece, nel corso dell’VIII secolo a.C. le tombe
‘’a pozzo’’ furono sostituite da quelle ‘’a fossa’’.
Le tombe ‘’a camera’’ (VII secolo a.C.) avevano una struttura architettonica
complessa, si trattava infatti di veri e propri appartamenti per i vari membri
della famiglia.
Per quanto riguarda l’architettura si deve notare l’alto livello di maestria
raggiunto da questa popolazione, inventrice della copertura a volta.
Le manifestazioni più significativi dell’arte etrusca vera e propria sono
comunque legate all’edilizia sepolcrale: gli affreschi delle camere
riproducono scene di vita quotidiana , vi sono ricchi vasellami , ceramiche e
argille cotte fino al raggiungimento del nero più lucente.
Per quanto riguarda le attività economiche, gli Etruschi praticarono con
successo agricoltura (gli scavi di Talamone dimostrano che conoscevano
l’aratro), metallurgia, orificeria: i prodotti venivano poi venduti per tutti il
Mediterraneo.
Furono abili anche nell’estrazione di minerali e nel trattamento dei metalli
grezzi.
La lavorazione dell’oro e dei metalli nobili in particolare raggiunge un livello
molto elevato, come dimostrato dai corredi funebri recuperati nelle tombe.
3) ROMA

3.1 LE ORIGINI DI ROMA

La storia di Roma arcaica ha rappresentato per molto tempo un campo di


indagine molto simile a quello dell’Antico Testamento.
In questo preciso ambito si era infatti realizzata una coincidenza di posizioni
tra conservatorismo politico e accettazione storica della tradizione letteraria
sulle origini di Roma.
Solo il progresso scientifico ha liberato la storia delle origini dal contorno
mitologico e religioso: si ricorda in questo caso la posizione dello storico
danese Niebuhr, che all’inizio del XIX secolo propose ricostruzione della
storia arcaica tramite una critica delle fonti basata sull’analogia storica.
Un contributo decisivo venne però dall’archeologia, che a fine Ottocento fece
emergere delle testimonianza che confermavano la veridicità della tradizione
letteraria sulla Roma arcaica.
In questo modo la tradizione ‘’ipercritica’’, che negava a priori quanto detto
dalle fonti antiche, non apparve più accettabile: si giunse così alla posizione
proposta da Gaetano de Sanctis nel suo Storia dei Romani del 1907, in cui
proponeva una ‘’critica temperata’’, basata sulla mediazione delle fonti antiche
con i dati archeologiche.
L’archeologia ci ha testimoniato la precoce influenza greca e orientale sulla
Roma delle origini, verificabile già a partire dall’VIII secolo a.C.; una
posizione che faceva venire meno quella tradizionale, che voleva una
maggiore influenza etrusca (sono presenti prodotti greci, prima di quelli
etruschi).
La tradizione letteraria non ha però testimoniato nulla su questo legame con
il mondo Orientale.
Il contributo dell’archeologia si è dunque rivelato fondamentale in quanto ha
permesso di non accettare aprioristicamente quanto detto dalla tradizione,
ma allo stesso tempo ha fatto venire meno l’ipercriticismo più assoluto.
3.2 LE FONTI LETTERARIE

Le fonti letterarie forniscono il primo e fondamentale blocco di informazioni


sulla storia delle origini: ogni dato emerso dalla ricerca archeologica viene
dunque confrontato con quanto presente in esse.
Si deve però constatare che si tratta di opere scritte molto tempo le vicende
arcaiche, e soprattutto che esse danno spazio a vicende mitiche o
leggendarie.
I primi storici ad occuparsi dell’Italia furono greci, e in greco scrissero anche i
primi storici romani: Quinto Fabio Pittore e Cincio Aliento, entrambi attivi
alla fine del III secolo a.C; Marco Porcio Catone (234-148 a.C.) è invece il
primo storico romano a scrivere in latino.
La compara della scrittura a Roma (IV sec. a.C.) non comportò delle
trasformazioni radiali, e infatti le poche inscrizioni giunte a noi da questo
periodo ci dicono poco o nulla.
Risulta evidente che è stata la tradizione orale ad esercitare un ruolo decisivo
nella trasposizione scritta della vicenda delle origini.
Una situazione che non muta nemmeno nella prima età repubblicana:
sicuramente sono esistiti dei documenti scritti, tuttavia non sappiamo in che
modo i primi storiografi se ne siano serviti.
Il primo importante storico romano, Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) di Padova, è
attivo al tempo di Augusto ed è autore di un’imponente opera sulla storia di
Roma dalla sua fondazione.
Il primo libro della sua opera è interamente dedicato alla vicenda regia,
tuttavia è lo stesso autore a ricordare come dopo l’incendio della città da
parte dei Galli (390 a.C.) si siano persi numerosi documenti, e quindi anche
la sua opera poggia su delle poco solide fondamenta.
Molto importante è anche il lavoro di Dionigi di Alicarnasso, che nelle sue
Antichità romane, in venti libri, tratta del periodo compreso tra la fondazione
dell’Urbe e la prima guerra punica (264 a.C.).
La storiografia greca cominciò ad interessarsi a Roma solo nel IV secolo a.C.,
dunque all’emergere della sua potenza.
Lo scopo dell’opera di Dionigi era dimostrare la natura ellenica dei Romani,
ed infatti nel primo libro delle Antichità si racconta di come Roma sia nata
dalla fusione di ondate migratorie provenienti dall’Ellade.
La versione più nota della leggenda delle origini di Roma è senza dubbio
quella che vede Enea come ancestrale fondatore della città: egli, fuggito
dall’Asia con i superstiti di Troia, sarebbe giunto nel Lazio e avrebbe fondato
la città di Lavinium.
Il figlio dell’eroe celebrato nell’Eneide di Virgilio, Ascanio/Iulo, avrebbe poi
fondato la città di Alba Longa: il nome si lega alla vicenda della scrofa bianca
(‘’alba’’), che diede alla luce trenta porcellini.
Secondo questa versione il fondatore di Roma, Romolo, è figlio di Rea Silvia,
figlia di Numitore re di Alba Longa (detronizzato con l’inganno dal fratello
Amulio), e del dio Marte.
In questa tradizione trovava spazio anche la spiegazione dell’antagonismo
tra Roma e Cartagine: Enea infatti, durante le sue peregrinazioni, sarebbe
giunto presso la città punica e si sarebbe innamorato della regina Didone.
Gli dei obbligarono però Enea ad abbandonare l’amata, che decise così di
suicidarsi maledicendo i discendenti dei Troiani.
Il territorio di Alba Longa era dominato dal monte Cavo, in latino mons
Albanus, su cui sorgeva il santuario di Iuppiter Latiaris, teatro di una delle più
antiche vicende del Latium vetus.
Si tratta della vicenda dei populi Albenses, riunito sotto la guida di Alba, a cui
si sostituì Roma.
Il sito di Alba non è ancora stato identificato, tuttavia tra le più accreditate
ipotesi vi è quella secondo cui la città si sarebbe trovata sulla dorsale che
domina i lago di Albano (il sito dell’odierna Castel Gandolfo).

3.3 I SETTE RE DI ROMA

La tradizione è unanime nell’indicare l’età regia tra il 754 e il 509 a.C.: in


questo periodo avrebbero regnato su Roma sette re, ognuno al potere per 35
anni.
Il primo è Romolo, creatore delle prime istituzioni politiche, come un senato
di cento membri; vi è poi Numa Pompilio, a cui sono attribuiti i primi istituti
religiosi; a Tullo Ostilio sono invece attribuite le prime campagne militari e la
conquista di Alba Longa; Anco Maricio è invece fondatore della colonia di
Ostia.
Con Tarquinio Prisco si fa iniziare il periodo di maggiore influenza etrusca: a
lui viene attribuita la costruzione di importanti opere pubbliche; il suo
successore Servio Tullio è invece il costruttore delle prime mura (dette infatti
‘’serviane’’) e il creatore dell’assemblea elettorale romana: i comizi centurati.
L’ultimo re è Tarquinio il Superbo, descritto coi tratti tipici del tiranno greco,
capace di infliggere ai cittadini le peggio vessazioni.
Questa narrazione presenta sicuramente una problematica legata alla sua
credibilità di fondo: il fatto che gli stessi Romani abbiano accettato queste
informazioni senza indagarle a fondo è qualcosa che ci invita alla prudenza.
Le fonti degli storici che si occupati della vicenda arcaica dovevano essere
opere purtroppo perdute ad oggi, Livio e Dionigi ebbero sicuramente modo
di consultare le opere degli ‘’annalisti’’, storici che organizzavano il loro
materiale in ordine cronologico.
Sicuramente molto materiale proveniva anche dalle varie tradizioni
familiari, che avevano grande importanza in età repubblicana, in quanto ogni
famiglia nobile cercava di legittimare la propria superiorità tramite la
celebrazione della gloria degli antenati (da qui la tradizione dell’elogium
funebris).
Non deve dunque stupire il fatto che i primo storici fossero dei membri
dell’aristocrazia senatoria.
Molto importante fu come detto anche la tradizione orale, che però è una
materia da sempre oggetto di manipolazioni e distorsioni.
Sicuramente i primi storici si servirono anche di materiali d’archivio: liste di
eventi cronologicamente ordinati e liste con i nomi dei magistrati principali
anno per anno.
Si pensi agli Annali dei pontefici, scritti dalla suprema autorità religiosa, in
cui erano ricordati anno per anno gli avvenimenti fondamentali.
Si trattava di tavolette di legno sbiancate con la calce: sappiamo che queste
vennero pubblicate nel 130 a.C. dal pontefice Mucio Scevola con il nome di
Annales Maximi, in ottanta libri che risalgono fino all’età regia.
Oltre a queste fonti annalistiche si devono segnalare anche le informazioni
fornite dagli ‘’antiquari’’, che a partire dal II secolo a.C. conducono ricerche
su vari aspetti della romanità arcaica (specie in ambito politico-militare).
Un interesse molto forte era rivolto alla lingua e all’etimologia delle parole:
in questo senso è fondamentale il De lingua latina dell’erudito del I secolo a.C.
Marco Terenzio Varrone.

3.4 LA STORIOGRAFIA MODERNA

La tradizione storiografica antica lasciava quella moderna con diversi


problemi interpretativi, risolti in parte solo grazie all’intervento
dell’archeologia.
Gli storici moderni si trovarono davanti in sostanza due versioni sulla nascita
di Roma: quella delle migrazioni greche e quella del viaggio di Enea.
Al di là degli avvenimenti mitologici, in effetti il racconto della tradizione
contiene numerosi elementi storici, come per esempio la compresenza di
Latini e Sabini o il dominio etrusco nell’ultima parte dell’epoca regia.

3.5 LA FONDAZIONE DI ROMA

Sicuramente i problemi più grandi sono dati dalla figura del fondatore,
Romolo.
Si tratta evidentemente di una figura che non può essere sorta all’improvviso,
quanto piuttosto la figura dietro cui si cela un cambiamento graduale, che
portò i più antichi villaggi sul Palatino (nucleo originario di Roma) ad
aggregarsi.
Il Palatino in origine presentava tre piccole cime, appianate già in età
imperiale: la vetta principale era il Palatium (guarda verso il Circo Massimo),
poi vi era il Germalo (guarda Foro e Campidoglio), ed infine la Velia (guarda
verso il Colosseo).
Le vicende della Roma delle origini si svolgono soprattutto a ridosso del
basso Tevere, il confine di due aree etnicamente differenti: la zona etrusca e il
Latium vetus.
Questa distinzione etnica è netta già al tempo della fondazione della città,
quindi all’VIII-VII secolo.
Il nome Roma sembra invece derivare non da Romolo, quanto piuttosto dalla
parola ‘’ruma’’, che significa ‘’mammella’’, oppure da ‘’Rumon’’, il nome
arcaico usato per chiamare il Tevere.

3.6 IL ‘’MURO DI ROMOLO’’

Gli importanti scavi condotti sulle pendici del Palatino hanno portato alla
luce nel 1998 i resti una palizzata e di un muro più a valle, entrambi databili
all’VIII secolo a.C.
L’importante scoperta di Andrea Carandini venne interpretata come
l’originario solco di confine, il pomerio, largo un 1 metro e 20: il ‘’muro di
Romolo’’.
La scoperta dunque confermava il racconto tradizionale: un re sacerdote
eponimo avrebbe dunque celebrato nell’VIII secolo a.C. un vero e proprio rito
di fondazione tracciando con l’aratro i limiti della città.

3.7 IL POMERIO E I RITI DI FONDAZIONE

Varrone ricorda nella sua opera in cosa consistesse il rito di fondazione di una
città: si tratta di un rito etrusco, in cui un toro e una vacca trainano un aratro
che avrebbe indicato il confine della città, dove sarebbero state collocati il
muro e la fossa.
L’antiquario romano ricorda soprattutto l’importanza religiosa del pomerio,
dal latino ‘’postmoerium’’, ovvero ‘’che si trova al di la’ della porta’’: in sostanza
la linea sacra che delimitava il perimetro della città.
In un secondo momento il nome servì ad indicare la zona che separava le case
dalle mura, un luogo dove non era permesso piantare alberi/fabbricare/
seppellire.
Il pomerio spesso non coincideva con le mura, in quanto la procedura
religiosa non teneva conto delle esigenze difensive del territorio: tra le due
linee dunque poteva esserci una notevole distanza (cosa che ci fa capire
perché si potesse allargare il pomerio solo in occasioni particolari).
Il pomerio originario di Roma era in realtà molto più esteso rispetto alle mura
poste sul Palatino; l’area sacra era delimitata da cippi infissi nel terreno, che
in caso di allargamento venivano rimossi e conservati.
La tradizione vuole anche che per allagare il pomerio fosse necessario
allargare la superficie dello Stato romano con territori sottratti ai nemici; in
realtà il pomerio non venne allargato se non al tempo di Silla (I secolo a.C.),
mentre fu l’imperatore Aureliano ad allargarlo maggiormente (III secolo
d.C.).

3.8 LO STATO ROMANO ARCAICO

Alla base dell’organizzazione sociale dei Latini vi era la figura del pater,
depositario di un potere assoluto su tutti i membri della famiglia, compresi
schiavi e clienti.
Le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano una
gens, un gruppo organizzato in senso politico-religioso.
La gens è una componente di grande rilievo in età arcaica, e continuerà ad
esserlo anche con l’evoluzione degli organismi statali.
La popolazione dello Stato arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari
detti ‘’curie’’, che comprendevano tutti gli abitanti del territorio tranne gli
schiavi.
L’origine delle curie risulta essere molto incerta: si sa solo infatti che
praticavano i propri riti religiosi e il fondamento della più antica assemblea
cittadina, quella dei comizi curiati.
Non conosciamo la loro funzione in età arcaica, né sappiamo se fossero
organizzate su base territoriale o gentilizia; in epoca più tarda ai comizi
curiati rimasero attribuite funzioni inerenti al diritto civile (adozioni e
testamenti).
Ai comizi spettava anche il compito di votare la lex de imperio, che conferiva il
potere al magistrato eletto.
Poco sappiamo anche sul ruolo delle ‘’tribù’’, un’altra forma di
raggruppamento creata secondo la tradizione da Romolo.
Le tre tribù originarie erano quelle dei Tities, dei Ramnes e dei Luceres: già
gli antichi collegarono i nomi delle ultime due tribù al mondo etrusco, mentre
la prima venne legata ai Sabini di Tito Tazio.
Solo in epoca tarda lo Stato romano si organizzò in modo più preciso: ogni
tribù fu divisa in dieci curie, e da ogni tribù vennero scelti cento senatori (la
prima assemblea degli anziani aveva trecento membri).
Su questa organizzazione venne fondata anche l’organizzazione militare:
ogni tribù doveva fornire un contingente di cavalleria di cento uomini ed uno
di fanteria di mille.
La componente fondamentale della legione era dunque composta da tremila
fanti e trecento cavalieri.

3.9 LA MONARCHIA ROMANA

La caratteristica principale della monarchia romana era la sua natura elettiva:


il re era infatti eletto dai membri delle più importanti famiglie.
In origine il re era affiancato da un consiglio di anziani, i patres, il nucleo di
quello che sarebbe poi divenuto il senato.
Della realtà storica della Roma monarchica rimangono due testimonianze
fondamentali: l’esistenza del rex sacrorum, che doveva svolgere i riti che
prima erano eseguiti dal re, e il termine interrex, con cui era indicato il
magistrato che subentrava nel caso di indisponibilità di entrambi i consoli.
Il potere del re trovava poi una limitazione nell’autorità in possesso dei capi
delle gentes principali.
In ambito religioso il re era affiancato dai collegi dei sacerdoti, tra tutti quello
più importante è senza dubbio quello dei pontefici, depositari ed interpreti
delle norme giuridiche, prima che si elaborasse un corpus di norme scritte.
Il collegio degli àuguri era invece incaricato di interpretare la volontà divina,
mentre il collegio delle vestali, composto da donne votate ad una castità
trentennale, aveva il compito di custodire il perpetuo fuoco sacro presente nel
tempio di Vesta.

3.10 PATRIZI E PLEBEI

La storia più antica di Roma è dunque il risultato di ricostruzioni ed


interpretazioni controverse, tuttavia una grande incertezza regnava sulla
divisione sociale alla base della città arcaica: quella tra patrizi e plebei.
Per la tradizione i patrizi erano i discendenti dei primi patres, nominati da
Romolo, mentre i plebei sarebbero stati i clienti di questi; un’altra versione
vuole che i patrizi fossero i Latini abitanti del Palatino, mentre i plebei i
Sabini del Quirinale.
Un’altra ipotesi è invece legata al possesso della terra: i patrizi erano i grandi
proprietari terrieri, mentre i plebei erano gli artigiani e le altre classi
emergenti.
Nessuna di queste teorie sembra però tenere conto del fatto che la società
arcaica conobbe grandi trasformazioni sociali: è dunque probabile che la
distinzione nelle due classi sia il risultato di un’evoluzione complessa, forse
neppure esistente nella Roma arcaica.

3.11 L’INFLUENZA ETRUSCA

Roma conobbe un’importante crescita nel corso del VI secolo a.C., il periodo
in cui essa fu controllata dagli Etruschi, il cui predominio lascia segni
importanti anche nella tradizione letteraria.
La supremazia etrusca emerge nella tradizione attraverso il racconto della
salita al potere di Tarquinio Prisco, figlio di un ricco uomo greco originario di
Corinto (Demarato) sposato ad una donna di Tarquinia.
Alla morte del padre Tarquinio ne ereditò il patrimonio, ma abbandonò la sua
città poiché la sua condizione di straniero gli impediva l’accesso al governo.
Arrivato a Roma, Tarquinio entra subito nelle grazie di Anco Marcio e cambia
il suo nome in Lucio Tarquinio, venendo eletto re alla morte del fondatore di
Ostia.
Un’altra versione, che potremmo indicare come ‘’latina’’, ricorda come
all’inizio del VI secolo a.C. Roma fosse inserita in un contesto molto ampio:
quello dei contatti tra mondo greco ed etrusco.
Gli Etruschi erano interessati ad occupare la Campania, motivo per il quale
giunsero probabilmente ad occupare Roma.
Una teoria che trova riscontri nella tomba François a Vulci: qui i fratelli
Vibienna sono raffigurati mentre combattono assieme ad un certo Mastarna
contro uno Gneo Tarquinio di Roma.
Anche la vicenda di Porsenna, signore di Chiusi, che riuscì ad occupare Roma
per qualche tempo dopo aver cacciato i Tarquini, si inserisce in un contesto
più ampio: probabilmente egli si allontanò dalla città dopo che Aristodemo di
Cuma e i Latini giunsero in aiuto dei Tarquini.

3.12 SERVIO TULLIO E TARQUINIO IL SUPERBO

Il nome ‘’Mastarna’’, ricordato poco fa, si lega da vicino alla vicenda del sesto
re di Roma: Servio Tullio, che talvolta è identificato proprio con questo
nominativo.
La tradizione latina intorno a Servio Tullio è ricca di elementi eroici: figlio di
una schiava di nome Ocresia e da un Tullio signore di Cornicoli, Servio
sarebbe stato molto caro a Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco.
Quando quest’ultimo venne assassinato dai figli di Anco Marcio, Servio
ottenne i poteri regi senza però che la sua successione fosse pienamente
legittima: una vicenda che ci testimonia forse un momento in cui il principio
elettivo si piega a quello dinastico.
Per quanto riguarda Tarquinio il Superbo, l’ultimo tirannesco re di Roma, egli
sarebbe stato autore di alcune conquiste e di grandi opere pubbliche, tuttavia
era inviso al popolo, che guidato da Publio Valerio ‘’Publicola’’ lo avrebbe
infine cacciato, aprendo così la stagione repubblicana.

3.13 LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA

La documentazione archeologica ci ha offerto riscontri problematici con


quanto è emerso dalla tradizione letteraria: la scoperta nel santuario di Veio
di un calice che al centro dello stelo presentava la dedica ‘’mine muluv (an) ece
Avile Vipiennas’’ (‘’mi dedicò Avile Vipienna’’), ci testimonia un passaggio di
Aulo Vibienna in questa città a metà del VI secolo a.C.
Il nome dei ‘’Vibienna’’ compare in numerosi documenti arcaici: doveva
trattarsi di una potente famiglia del VI secolo a.C., probabilmente
proveniente da Vulci.
Nonostante la loro storicità vada ancora dimostrata, non si può negare che
essi stando alle fonti giocarono un ruolo importante nella lotta che oppose
Vulci alle altre città etrusche, tra cui Roma.
Quanto invece a Publio Valerio, il suo nome trova riscontro onomastico nel
tempio di Mater Matuta, una divinità laziale, a Satricum.

3.14 RAFFORZAMENTO DELLA MONARCHIA

Il predominio etrusco su Roma ebbe come conseguenza il rafforzamento


dell’istituzione monarchica, come dimostrato dalle insegne del potere regio:
corona, scettro, fasci, trono e manto.
In questo periodo venne costituita la residenza del re, detta per l’appunto
regia, e nel frattempo si definì anche l’area riservata all’attività politica del
popolo e del senato.
L’archeologia ha dimostrato come nel VII e nel VI secolo a.C. venne costituito
un comitium, un luogo dove il popolo si riuniva per deliberare; allo stesso
periodo risale anche la curia Hostilia, la prima sede del Senato romano.
A Tarquinio Prisco viene additato l’aumento del numero dei senatori, mentre
a Servio Tullio l’introduzione dell’ordinamento centuriato, che prevedeva la
divisione della popolazione in ‘’classi’’, articolate in centurie secondo un
criterio basato sul censo.
L’ordinamento centuriato non risale probabilmente ad un’età così antica,
tuttavia è probabile che la comunità fosse già a questo punto organizzata in
qualche modo in raggruppamenti.
Il censo era anche il criterio con cui si stabiliva l’arruolamento nell’esercito
serviano, che prese il nome di classis, e che era formato da cittadini in grado
di procurarsi un armamento pesante; con il termine infra classis si indicavano
invece i soldati armati alla leggera.
A Servio è anche attribuita la creazione delle quattro tribù territoriali, dette
poi ‘’urbane’’ (per distinguerle da quelle extra cittadine dette ‘’rustiche’’) e
sostituzione della antiche tribù istituite da Romolo su base gentilizia.
Le nuove ripartizioni rispecchiano i cambiamenti della società romana: esse
infatti rispecchiano le aree in cui Servo divise la città ormai unificata del tutto;
in poche parole Esquilino e Celio entrarono a far parte di questa grande
Roma, che venne dotata di una prima cerchia di mura.
Questa importante azione riorganizzatrice ci dimostra l’alto livello di
sviluppo raggiunto da Roma già a questo punto della sua storia.

3.15 TRADIZIONE ORALE E STORIOGRAFIA

Oggigiorno il ruolo della tradizione orale gode di maggior prestigio


nell’elaborazione storiografica, anche e alcune questioni rimangono: chi
trasmette e perché lo fa, e quanto della tradizione orale è entrato nella
trasposizione storica.
Le tradizioni orali variano a seconda degli usi e dell’ambiente sociale che le
elabora, le conserve e le trasmette: le tradizioni gentilizie sono differenti da
quelle popolari.
A loro volta materiali giuridici e contenuti legislativi hanno avuto una loro
vita indipendente, lontana dalla tradizione storica vera e propria.
Un certo numero di dati relativi ad eventi storici è stato sicuramente
trasmesso nell’ambito delle famiglie nobili e nelle liste dei consoli.
Ovviamente vi era però sempre il rischio della falsificazione, a volte ricercata
da un gruppo sociale intenzionato a legittimare delle fittizie ascendenze.
Le manipolazioni genealogiche presupponevano però un patrimonio già
molto ampio di notizie sui re, e allo stesso tempo questo è stato
inevitabilmente ingrandito dalle prime.
A Roma la letteratura storiografica compare come visto nel III secolo a.C., i
testi che trattano dell’età regia sono scritti dunque quasi tre secoli dopo la sua
fine.
Sicuramente però i Romani già prima avevano cominciato a ragionare su loro
stessi e sulle modalità di esprimere l’idea che avevano di loro stessi.
Le fonti scritte non forniscono prove di una cultura preletteraria, tuttavia
questo non significa rinunciare ad una comprensione più completa del
periodo arcaico.
Il fondatore della moderna storiografia su Roma è il già citato Barthold
Georg Niebuhr (1771-1831), che ad inizio del XIX propose una teoria per cui
le vicende leggendarie della Roma arcaica fossero nate durante i banchetti.
Il modello è evidentemente quello del mondo greco, dove gli εταιροι (i
sodales del mondo romano) si intrattenevano tramite la poesia.
In effetti oggi sappiamo che tra il VII e l’VIII secolo a.C. si diffuse presso
l’aristocrazia latina ed etrusca la pratica del convivium, il banchetto
aristocratico.
Questo ovviamente non significa che la teoria di Niebuhr sia corretta, anche
perché se effettivamente fosse così, i canti delle vicende arcaiche dovevano
essere molto differenti, e soprattutto non si potrebbe parlare di una
tradizione largamente condivisa, visto che era esclusa la parte popolare.
Gli storici della romanità odierni sono alla ricerca dunque del punto di
congiunzione tra la componente favolistica e quella storiografica.
Una teoria recente è quella avanzata dallo storico britannico Peter Wiseman
(1940), secondo cui al formarsi della tradizione su un individuo la
celebrazione del suo successo seguiva due strade: una per la componente
colta nei carmina, un’altra per la massa illetterata (egli parla di cantastorie
iteneranti).
Il contenuto di una tradizione è però più facilmente riscontrabile in delle
forme di rappresentazione drammatica: in sostanza per capire quale teoria sia
corretta è necessario scoprire quali forme di rappresentazioni esistessero nella
Roma del V e del IV secolo a.C.

3.16 UN ESEMPIO DI ELABORAZIONE STORIOGRAFICA:


SERVIO TULLIO

La figura di Servio Tullio occupa sicuramente un posto particolare nella


tradizione dei re di Roma.
Egli infatti opera non solo una trasformazione urbana, costruzione delle mura
e unificazione delle varie aree urbane, ma riorganizza anche la popolazione:
si può guardare ad esso come ad un rifondatore.
Un ruolo che ci è quasi suggerito dalle fonti sulla Roma arcaica: le origini di
Servio sono avvolte nell’incertezza, ma allo stesso tempo la tradizione non
nasconde l’illegalità alla base del suo potere.
È evidente che ci troviamo di fronte ad un personaggio eccezionale: egli è
figlio di una schiava, ma cresce nel palazzo di Tarquinio Prisco; rimane illeso
al contatto con delle fiamme; gode della protezione della regina Tanaquilla e
ne sposa la figlia.
Anche il modo in cui prende il potere è molto particolare: due sicari al soldo
dei figli di Anco Marcio colpiscono a morte Tarquinio Prisco, che viene
ricoverato a palazzo dalla moglie, che nasconde la morte del marito
annunciando che sta guarendo e che ha disposto che Servio regni in sua vece.
Pochi giorni dopo Tanaquilla annuncia la morte del re e Servio prende il
potere durante i funerali del predecessore.
Di fronte a questo tipo di vicenda, chiaramente di natura mitologica, l’azione
riformatrice di Servio passa nettamente in secondo piano.
Egli nella tradizione opera in modo quasi funzionale al suo riconoscimento
come re votato alla giustizia sociale e alla difesa dei modesti; appare poi
ovvio che le riforme attribuite a Servio non siano state qualcosa di
improvviso, ma risultati di processi graduali.
Soprattutto a quest’ultimo aspetto bisogna fare particolarmente attenzione,
considerando come, specialmente in età tarda, gli storici romani parlassero di
una ‘’statalità romana’’ già dalle origini.
Come sempre dunque la ricostruzione del passato va letta anche alla luce di
interessi contingenti ad un determinato presente.
L’organizzazione centuriata per esempio implicava un valutazione
economica e numerica della popolazione, un’operazione che nella storiografia
antica è descritta con dovizia di particolari.
Si tratta di un’operazione fondamentale, in quanto portava ad un
superamento della parità voluta da Romolo nei comizi curiati (un voto a testa
senza distinzioni).
Con la riorganizzazione di Servio venne introdotta diversità tra i cittadini,
distribuiti nelle curie in rapporto alla nascita, distinguendoli così ‘’secondo gli
ordini’’, definiti in relazione a dignità e livello di ricchezza.
In alcune versioni Servio diviene anche l’ideatore di numerosi usi della
moneta: per esempio l’idea di riprodurre l’effige di un bue o di una pecora
sui lingotti di bronzo.
La tradizione assegna dunque al sesto re di Roma il ruolo di ‘’novello Romolo’’,
un riorganizzatore che era andato anche a creare le tribù territoriali, in cui i
cittadini erano iscritti su base domiciliare.
A Servio erano anche attribuite anche le feste religiose di competenza delle
nuove componenti, come i Paganalia (dai nuovi distretti territoriali, i pagi).

3.17 LA FAMIGLIA

La prima forma di organizzazione del mondo romano è senza dubbio la


‘’familia’’, una nozione che comprendeva un raggruppamento sociale molto
ampio (manca nel vocabolario latino un termine in grado di indicare l’idea
moderna di famiglia nucleare).
A Roma coloro che appartenevano alla medesima familia erano sottoposti
all’autorità del paterfamilas, a cui spettava il controllo sui beni: il vero
vincolo familiare era rappresentato proprio dalla potestas che questo
possedeva.
La famiglia romana si presenta dunque come un’unica grande unità religiosa,
politica ed economica il cui unico fine era quello di perpetuarsi nel tempo.
Si tratta di aspetti che si riflettevano anche sulle norme giuridiche del diritto
romano, e in particolar modo su alcune sue caratteristiche che si possono
spiegare solo per la necessità di adottare, in uno Stato evoluto, elementi del
primitivo diritto della famiglia.
In età arcaica il primo diritto di un padre è quello di poter rifiutare i figli alla
loro nascita, ma anche quello di poter accettare come propri quelli illegittimi;
l’alternativa era ‘’esporli’’, una pratica tipica dell’età arcaica e applicata spesso
quando il neonato era una bambina, elemento visto come poco utile in un
contesto agricolo.
Tra i vincoli familiari più importanti vi era quello religioso: i ‘’sacra privata’’,
i riti familiari, si trasmettevano di padre in figlio e la loro osservanza era
doverosa; gli antenati del padre erano i manes (‘’anime dei defunti’’), oggetto di
culto da parte della famiglia; era il capofamiglia a controllare la corretta
esecuzione dei riti ad essi indirizzati.
Secondo il diritto romano un figlio doveva poi rimanere sotto l’autorità
paterna fino a quando questo era in vita, si deve ricordare che un padre
poteva sempre diseredare un figlio.
Per salvaguardare questo principio si arrivò a concedere la possibilità di
annullare il testamento, al fine di salvaguardare i figli illegittimi (la pratica
consisteva nel dimostrare l’insanità del defunto al momento della stesura).
Il genitore aveva comunque il compito di mantenere il figlio assicurandogli
una rendita proporzionale alla sua ricchezza; è però evidente che nel
momento in cui questa non fosse bastata, il figlio era costretto a chiedere
prestiti agli usurai.

3.18 LA DONNA

Per comprendere la posizione della donna nel mondo romano basta leggere
il testo di una celebre epigrafe latina, che recita: ‘’casta fuit, domum servavit,
lanam fecit’’ (‘’fu casta, si prese cura della casa, lavorò la lana’’).
In realtà il ruolo della donna nel mondo aristocratico era molto diverso e non
si riduceva alla sola vita domestica: la moglie, che aveva ricevuto
un’educazione intellettuale, accompagnava il marito nella vita pubblica e
aveva il compito di educare i figli.
In epoca arcaica, ma anche per buona parte dell’età repubblicana, il carattere
patriarcale della famiglia si rifletteva nella supremazia dell’uomo sulla
donna.
Il potere del marito sulla moglie si definisce ‘’manus’’: esso non conosce
limiti, potenzialmente il marito può uccidere la moglie se questa è colpevole
di adulterio.
La castità femminile era severamente tutelata, mentre erano duramente
puniti i comportamenti non sobri e riservati: comportamenti legati ad un’idea
di matrimonio finalizzato alla procreazione di figli legittimi.
La donna aveva in questo senso un ruolo importante a tal punto da sfavorire
ogni costume più ‘’libero’’; i Romani si sposavano abbastanza presto, anche se
la legge proibiva le unioni prima dei dodici anni: era sempre il padre a
trovare uno sposo per le figlie ancora bambine, che veniva promesse tramite
una cerimonia di fidanzamento.
La felicità della sposa dipendeva quasi sempre dalla sua capacità di avere dei
figli, e questo soprattutto alla luce del fatto che le donne sterili erano
ripudiate.
Fino all’età arcaica il matrimonio rimase un’istituzione privata, che aveva
comunque importanti conseguenze giuridiche.
Esistevano diverse modalità di contrarre il matrimonio: l’usus, il sistema più
comune, che prevedeva l’ininterrotta convivenza dei coniugi per un anno; la
confarreatio, la divisione di una focaccia di farro tra i due sposi; la
mancipatio, una sorta di compravendita.
In mancanza di un atto che provasse la nuova unione era molto importante il
ruolo dei testimoni; ugualmente informale il divorzio, più semplice il
ripudio, che consisteva in una decisione unilaterale dell’uomo (al divorzio
consensuale si arrivò solo successivamente).

3.19 AGRICOLTURA E ALIMENTAZIONE

La riorganizzazione dell’economia pastorale è uno dei caratteri fondamentali


della prima età del ferro.
Ad un effettivo salto di qualità si arrivò tra X e IX secolo a.C., attraverso un
processo, consistito in un abbandono del seminomadismo, che si può dire
compiuto nell’VIII secolo a.C.
Questo vale soprattutto per i popoli dell’Italia centrale, per quelle genti
umbro-sabelliche, che iniziarono a costituire i caratteri distintivi del loro
ethos.
L’istituto della ‘’primavera sacra’’, vivo presso gli Italici ancora in epoca
tarda, si conserva memoria della trasmigrazione verso i pascoli estivi,
divenuta in epoca storica un trasferimento permanente di popolazioni
impossibilitate ad avere uno sviluppo idoneo nei luoghi d’origine.
Roma sorgeva in un’area di frontiera, il Tevere infatti era il confine fra il
mondo etrusco e quello laziale, una differenziazione in realtà percepibile solo
a partire dal IX-VIII secolo a.C.
L’importanza di Roma era dovuta in primo luogo al fatto che alla foce del
Tevere vi fossero delle saline: il sale era poi trasportato verso l’interno lungo
il corso della successiva via Salaria.
L’agricoltura arcaica non era particolarmente evoluta, viste soprattutto le
cattive condizioni del terreno e la bassa qualità delle tecniche agricole: nel
Lazio arcaico esisteva solo un’economia di sussistenza.
Oltre ai cereali, soprattutto farro e orzo, i Latini associavano anche questi con
le leguminose come la veccia: quella che i latini chiamavano ‘’farrago’’.
Lo scopo di questa era assicurare un minimo di sussistenza rispetto alle
calamità atmosferiche che potevano colpire un raccolto; si deve notare che
essa verrà consumata ancora in età medievale.
Il cereale maggiormente coltivato in età arcaica era senza dubbio il farro,
anche se ogni tentativo di determinare la quantità della produzione è di fatto
impossibile (anche se sappiamo che la sua resa era inferiore al grano).
Oltre alla scarsa produttività si deve anche ricordare quanto fosse poco il
territorio disponibile per la coltura nella Roma arcaica.
Il farro era macinato solo dopo essere stato abbrustolito e battuto, anche se la
farina di farro non era usata per la panificazione, quanto piuttosto per la
‘’mola salsa’’ (una sorta di grano sostato) e per la ‘’puls’’, il piatto tipico
romano (una sorta di farinata).
Nella Roma delle origini agricoltura e allevamento sono compresenti
secondo caratteristiche specifiche, in primo luogo uno stretto legame di
interdipendenza: si trattava di attività complementari.
I Romani guardavano alle attività dei loro antenati in modo preciso, anche se
storicamente inaccettabile: si pensi a quanto scrive Varrone su questo mito
della Roma pastorale: ‘’Chi nega che il popolo romano abbia avuto un’origine
pastorale?’’ (Varrone, De re rustica, II, 1,9).
L’autore è molto attento alla dialettica tra pastorizia ed agricoltura, e questo
lo porta ad entrare in polemica con chi aveva indicato l’agricoltura come
attività originale del popolo romano.
Le difficoltà conosciute da Roma nel V secolo a.C., all’indomani della nascita
della Repubblica, offrono un riscontro importante della povertà di risorse
agricole: nel primo secolo della Repubblica Roma non riuscì mai a trarre
vantaggio dalle sue conquiste.
Una circostanza negativa è senza dubbio rappresentata dalla venuta dei
Volsci nel Lazio meridionale all’inizio del V secolo a.C., che causò numerose
carestie e tensioni sociali; solo dopo un secolo l’agro pontino tornerà sotto il
controllo dei Romani.

3.20 LA PROPRIETÀ DELLA TERRA IN ROMA ARCAICA

La questione sulla prima forma di proprietà agraria a Roma è controversa:


secondo la tradizione la prima assegnazione di lotti di terra in proprietà
privata risale a Romolo.
Inizialmente sarebbe però esistita una proprietà collettiva della terra, mentre
la prima forma di proprietà era limitata solo alla casa e all’orto: si tratta
dell’heredium, ovvero ‘’orto’’ (compare anche il termine alternativo ‘’sors’’).
Il termine si applica sia alla proprietà trasmissibile per via ereditaria che a
quella assegnata per sorteggio (come succederà in età repubblicana).
La piccola proprietà individuale e le forme di appropriazione collettiva risale
in origine alle condizioni ambientali delle aree appenniniche e
subappenniniche, in contesti prevalentemente silvo-pastorali.
I primi due secoli della Roma repubblicana (V-IV secolo a.C.) furono di
assestamento, mentre a partire dal IV secolo a.C. cominciarono le
assegnazioni del terreno conquistato.

3.21 L’IDEOLOGIA ‘’INDOEUROPEA’’ NEI RACCONTI SULLE ORIGINI


DI ROMA

‘’Indoeuropei’’ è il nome con cui si indica una popolazione vissuta in un’epoca


molto remota (III, IV o addirittura VI millennio a.C.) in una regione oggi
identificata nella grande pianura russa.
Intorno al III e al II millennio a.C. essi si mossero in varie direzioni per motivi
a noi ignoti: in genere imposero la loro lingua ai popoli conquistati,
adottandone però la scrittura (questo spiega i rapporti di dipendenza tra le
varie lingue e quella madre).
Nel II millennio a.C. si trovano Indoeuropei in Asia, gli Hittiti, e in Grecia, i
Micenei, e anche in Italia; altri popoli indoeuropei sono gli antenati degli
odierni Indiani, i Celti, gli Iraniani, gli Slavi e altri popoli.
Nel corso del XX secolo lo storico delle religioni francese George Dumézil
(1898-1986) ha cercato di ricostruire il mondo degli Indoeuropei, elaborando
l’idea di ‘’ideologia trifunzionale’’.
In sostanza società/mondo/cose erano percepite dagli Indoeuropei in
riferimento a tre funzioni distinte e complementari.
Esse sono, in ordine crescente: la potenza del sovrano, che si manifesta
nell’aspetto giuridico e in quello magico; la forza fisica, quella del guerriero
in primo luogo; la fecondità degli uomini, degli animali e della natura, la
funzione della prosperità materiale.
Nel caso specifico di Roma arcaica, Dumézil notava un’importante eredità
indoeuropea, visibile in alcuni episodi: per esempio il ratto delle Sabine,
costruito secondo uno schema di origine indoeuropea (come mostra la
mitologia scandinava).
Anche nella teologia romana vi erano delle tracce indoeuropee: si veda
l’associazione di Giove a due divinità minori come Terminus (dio tutelare dei
confini) e Iuventus (dio della giovinezza).
Si tratta di un’associazione di cui si perdono le tracce dopo l’età arcaica, ma
che trova spiegazione nella mitologia indo-iranica.
Per quanto riguarda invece Servio Tullio, la sua vicenda ricorda molto da
vicino quella di un re indiano.

3.22 LA SCOPERTA DEL ‘’LAPIS NIGER’’

Come ricordato più volte, la ricostruzione della storia della Roma arcaica
deve molto all’archeologia.
Una stagione di scavi decisamente importante è quella cominciata alla fine
del XIX secolo, soprattutto nel Foro per opera di Giacomo Boni (1859-1925),
che nel Gennaio del 1898 ritrovò nell’angolo settentrionale dell’area una
pavimentazione in marmo nero distinta dalla restante in travertino.
La scoperta fu immediatamente legata ad una fonte letteraria che
contrassegnava un luogo funesto, forse la tomba di Romolo.
Al di sotto del pavimento venne ritrovato un complesso monumentale arcaico
in cui era presente anche un altare vicino al quale era presente il tronco di
una colonna (o la base di una statua) recante il testo mutilo di un’iscrizione
scritta in latino arcaico in cui si minacciavano terribili pene i profanatori del
santuario.
È evidente che si dovesse trattare della tomba di un vero e proprio monarca,
forse dunque un luogo di culto di Romolo, una cosa che non va letta come la
conferma della sua reale esistenza, quanto piuttosto come la prova
dell’esistenza storica dell’antichità della tradizione che lo voleva come
fondatore di Roma.

3.23 LE ORIGINI DI ROMA SECONDO UN IMPERATORE ROMANO

La tradizione sulle origini di Roma poneva in difficoltà gli stessi antichi: lo


stesso Cicerone, a metà del I secolo a.C., riconosceva ‘’l’oscurità’’ della storia
romana arcaica.
Nel 48 d.C. l’imperatore Claudio pronunciò un discorso in senato a favore
dell’ammissione nell’assemblea di alcuni illustri rappresentanti della
provincia della Gallia Comata.
Nel suo Claudio voleva dimostrare che fin dall’età arcaica Roma era stata
aperta agli stranieri: fornisce così informazioni sulle antiche tradizioni
etrusca e romana.
Il testo venne trasposto su una tavola di bronzo e venne collocato nel
santuario del culto imperiale nei pressi di Lione; il contenuto del testo è
riportato da Tacito nei suoi Annales, e in esso si ricorda di come Numa
Pompilio (sabino), Tarquinio (greco-etrusco) e Servio Tullio fossero stranieri.

3.24 LA GRANDE ROMA DEI TARQUINI

Alla salita al potere dei Tarquini il quadro politico del Lazio è già
condizionato dall’espansione romana: si ricordi infatti che già nel VII secolo
a.C. Tullo Ostilio aveva distrutto Alba Longa.
Roma avrebbe dunque avuto già il controllo della fascia di terra che arrivava
al mare, comprese le città di Ficana/Pilitorium/Tellenae, che furono prese da
Anco Marcio.
Queste conquiste permisero ai Romani di impossessarsi delle saline; il
controllo del fiume si rivela dunque strategico, motivo per cui venne costruito
un ponte in legno a valle dell’isola Tiberina.
Il secolo che separa la salita al potere di Tarquinio Prisco dalla cacciata di
Tarquinio il Superbo ha un riscontro in un documento eccezionale: il testo del
primo trattato tra Roma e Cartagine (conservato nell’archivio).
Nel trattato, risalente al 508 a.C. e ricordato da Polibio, i Cartaginesi si
impegnavano a non molestare Ardea/Anzio/Laurento/Circei/Terracina e a
non costruire fortezze in terra latina.
Questo documento ci testimonia quanto cresciuta fosse la potenza romana
alla fine dell’età regia: Roma è già la più importante città del Lazio, sei volte
più grande di Gabii e Fidene.
Si devono comunque ricordare due aspetti: che i vari centri del Lazio
conservano la loro identità specifica, e che nelle aree sotto il diretto dominio
romano vi sia una densità abitativa che sarà eguagliata solo diversi secoli
dopo, nella prima età imperiale.

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