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Sicuramente i problemi più grandi sono dati dalla figura del fondatore,
Romolo.
Si tratta evidentemente di una figura che non può essere sorta all’improvviso,
quanto piuttosto la figura dietro cui si cela un cambiamento graduale, che
portò i più antichi villaggi sul Palatino (nucleo originario di Roma) ad
aggregarsi.
Il Palatino in origine presentava tre piccole cime, appianate già in età
imperiale: la vetta principale era il Palatium (guarda verso il Circo Massimo),
poi vi era il Germalo (guarda Foro e Campidoglio), ed infine la Velia (guarda
verso il Colosseo).
Le vicende della Roma delle origini si svolgono soprattutto a ridosso del
basso Tevere, il confine di due aree etnicamente differenti: la zona etrusca e il
Latium vetus.
Questa distinzione etnica è netta già al tempo della fondazione della città,
quindi all’VIII-VII secolo.
Il nome Roma sembra invece derivare non da Romolo, quanto piuttosto dalla
parola ‘’ruma’’, che significa ‘’mammella’’, oppure da ‘’Rumon’’, il nome
arcaico usato per chiamare il Tevere.
Gli importanti scavi condotti sulle pendici del Palatino hanno portato alla
luce nel 1998 i resti una palizzata e di un muro più a valle, entrambi databili
all’VIII secolo a.C.
L’importante scoperta di Andrea Carandini venne interpretata come
l’originario solco di confine, il pomerio, largo un 1 metro e 20: il ‘’muro di
Romolo’’.
La scoperta dunque confermava il racconto tradizionale: un re sacerdote
eponimo avrebbe dunque celebrato nell’VIII secolo a.C. un vero e proprio rito
di fondazione tracciando con l’aratro i limiti della città.
Varrone ricorda nella sua opera in cosa consistesse il rito di fondazione di una
città: si tratta di un rito etrusco, in cui un toro e una vacca trainano un aratro
che avrebbe indicato il confine della città, dove sarebbero state collocati il
muro e la fossa.
L’antiquario romano ricorda soprattutto l’importanza religiosa del pomerio,
dal latino ‘’postmoerium’’, ovvero ‘’che si trova al di la’ della porta’’: in sostanza
la linea sacra che delimitava il perimetro della città.
In un secondo momento il nome servì ad indicare la zona che separava le case
dalle mura, un luogo dove non era permesso piantare alberi/fabbricare/
seppellire.
Il pomerio spesso non coincideva con le mura, in quanto la procedura
religiosa non teneva conto delle esigenze difensive del territorio: tra le due
linee dunque poteva esserci una notevole distanza (cosa che ci fa capire
perché si potesse allargare il pomerio solo in occasioni particolari).
Il pomerio originario di Roma era in realtà molto più esteso rispetto alle mura
poste sul Palatino; l’area sacra era delimitata da cippi infissi nel terreno, che
in caso di allargamento venivano rimossi e conservati.
La tradizione vuole anche che per allagare il pomerio fosse necessario
allargare la superficie dello Stato romano con territori sottratti ai nemici; in
realtà il pomerio non venne allargato se non al tempo di Silla (I secolo a.C.),
mentre fu l’imperatore Aureliano ad allargarlo maggiormente (III secolo
d.C.).
Alla base dell’organizzazione sociale dei Latini vi era la figura del pater,
depositario di un potere assoluto su tutti i membri della famiglia, compresi
schiavi e clienti.
Le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano una
gens, un gruppo organizzato in senso politico-religioso.
La gens è una componente di grande rilievo in età arcaica, e continuerà ad
esserlo anche con l’evoluzione degli organismi statali.
La popolazione dello Stato arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari
detti ‘’curie’’, che comprendevano tutti gli abitanti del territorio tranne gli
schiavi.
L’origine delle curie risulta essere molto incerta: si sa solo infatti che
praticavano i propri riti religiosi e il fondamento della più antica assemblea
cittadina, quella dei comizi curiati.
Non conosciamo la loro funzione in età arcaica, né sappiamo se fossero
organizzate su base territoriale o gentilizia; in epoca più tarda ai comizi
curiati rimasero attribuite funzioni inerenti al diritto civile (adozioni e
testamenti).
Ai comizi spettava anche il compito di votare la lex de imperio, che conferiva il
potere al magistrato eletto.
Poco sappiamo anche sul ruolo delle ‘’tribù’’, un’altra forma di
raggruppamento creata secondo la tradizione da Romolo.
Le tre tribù originarie erano quelle dei Tities, dei Ramnes e dei Luceres: già
gli antichi collegarono i nomi delle ultime due tribù al mondo etrusco, mentre
la prima venne legata ai Sabini di Tito Tazio.
Solo in epoca tarda lo Stato romano si organizzò in modo più preciso: ogni
tribù fu divisa in dieci curie, e da ogni tribù vennero scelti cento senatori (la
prima assemblea degli anziani aveva trecento membri).
Su questa organizzazione venne fondata anche l’organizzazione militare:
ogni tribù doveva fornire un contingente di cavalleria di cento uomini ed uno
di fanteria di mille.
La componente fondamentale della legione era dunque composta da tremila
fanti e trecento cavalieri.
Roma conobbe un’importante crescita nel corso del VI secolo a.C., il periodo
in cui essa fu controllata dagli Etruschi, il cui predominio lascia segni
importanti anche nella tradizione letteraria.
La supremazia etrusca emerge nella tradizione attraverso il racconto della
salita al potere di Tarquinio Prisco, figlio di un ricco uomo greco originario di
Corinto (Demarato) sposato ad una donna di Tarquinia.
Alla morte del padre Tarquinio ne ereditò il patrimonio, ma abbandonò la sua
città poiché la sua condizione di straniero gli impediva l’accesso al governo.
Arrivato a Roma, Tarquinio entra subito nelle grazie di Anco Marcio e cambia
il suo nome in Lucio Tarquinio, venendo eletto re alla morte del fondatore di
Ostia.
Un’altra versione, che potremmo indicare come ‘’latina’’, ricorda come
all’inizio del VI secolo a.C. Roma fosse inserita in un contesto molto ampio:
quello dei contatti tra mondo greco ed etrusco.
Gli Etruschi erano interessati ad occupare la Campania, motivo per il quale
giunsero probabilmente ad occupare Roma.
Una teoria che trova riscontri nella tomba François a Vulci: qui i fratelli
Vibienna sono raffigurati mentre combattono assieme ad un certo Mastarna
contro uno Gneo Tarquinio di Roma.
Anche la vicenda di Porsenna, signore di Chiusi, che riuscì ad occupare Roma
per qualche tempo dopo aver cacciato i Tarquini, si inserisce in un contesto
più ampio: probabilmente egli si allontanò dalla città dopo che Aristodemo di
Cuma e i Latini giunsero in aiuto dei Tarquini.
Il nome ‘’Mastarna’’, ricordato poco fa, si lega da vicino alla vicenda del sesto
re di Roma: Servio Tullio, che talvolta è identificato proprio con questo
nominativo.
La tradizione latina intorno a Servio Tullio è ricca di elementi eroici: figlio di
una schiava di nome Ocresia e da un Tullio signore di Cornicoli, Servio
sarebbe stato molto caro a Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco.
Quando quest’ultimo venne assassinato dai figli di Anco Marcio, Servio
ottenne i poteri regi senza però che la sua successione fosse pienamente
legittima: una vicenda che ci testimonia forse un momento in cui il principio
elettivo si piega a quello dinastico.
Per quanto riguarda Tarquinio il Superbo, l’ultimo tirannesco re di Roma, egli
sarebbe stato autore di alcune conquiste e di grandi opere pubbliche, tuttavia
era inviso al popolo, che guidato da Publio Valerio ‘’Publicola’’ lo avrebbe
infine cacciato, aprendo così la stagione repubblicana.
3.17 LA FAMIGLIA
3.18 LA DONNA
Per comprendere la posizione della donna nel mondo romano basta leggere
il testo di una celebre epigrafe latina, che recita: ‘’casta fuit, domum servavit,
lanam fecit’’ (‘’fu casta, si prese cura della casa, lavorò la lana’’).
In realtà il ruolo della donna nel mondo aristocratico era molto diverso e non
si riduceva alla sola vita domestica: la moglie, che aveva ricevuto
un’educazione intellettuale, accompagnava il marito nella vita pubblica e
aveva il compito di educare i figli.
In epoca arcaica, ma anche per buona parte dell’età repubblicana, il carattere
patriarcale della famiglia si rifletteva nella supremazia dell’uomo sulla
donna.
Il potere del marito sulla moglie si definisce ‘’manus’’: esso non conosce
limiti, potenzialmente il marito può uccidere la moglie se questa è colpevole
di adulterio.
La castità femminile era severamente tutelata, mentre erano duramente
puniti i comportamenti non sobri e riservati: comportamenti legati ad un’idea
di matrimonio finalizzato alla procreazione di figli legittimi.
La donna aveva in questo senso un ruolo importante a tal punto da sfavorire
ogni costume più ‘’libero’’; i Romani si sposavano abbastanza presto, anche se
la legge proibiva le unioni prima dei dodici anni: era sempre il padre a
trovare uno sposo per le figlie ancora bambine, che veniva promesse tramite
una cerimonia di fidanzamento.
La felicità della sposa dipendeva quasi sempre dalla sua capacità di avere dei
figli, e questo soprattutto alla luce del fatto che le donne sterili erano
ripudiate.
Fino all’età arcaica il matrimonio rimase un’istituzione privata, che aveva
comunque importanti conseguenze giuridiche.
Esistevano diverse modalità di contrarre il matrimonio: l’usus, il sistema più
comune, che prevedeva l’ininterrotta convivenza dei coniugi per un anno; la
confarreatio, la divisione di una focaccia di farro tra i due sposi; la
mancipatio, una sorta di compravendita.
In mancanza di un atto che provasse la nuova unione era molto importante il
ruolo dei testimoni; ugualmente informale il divorzio, più semplice il
ripudio, che consisteva in una decisione unilaterale dell’uomo (al divorzio
consensuale si arrivò solo successivamente).
Come ricordato più volte, la ricostruzione della storia della Roma arcaica
deve molto all’archeologia.
Una stagione di scavi decisamente importante è quella cominciata alla fine
del XIX secolo, soprattutto nel Foro per opera di Giacomo Boni (1859-1925),
che nel Gennaio del 1898 ritrovò nell’angolo settentrionale dell’area una
pavimentazione in marmo nero distinta dalla restante in travertino.
La scoperta fu immediatamente legata ad una fonte letteraria che
contrassegnava un luogo funesto, forse la tomba di Romolo.
Al di sotto del pavimento venne ritrovato un complesso monumentale arcaico
in cui era presente anche un altare vicino al quale era presente il tronco di
una colonna (o la base di una statua) recante il testo mutilo di un’iscrizione
scritta in latino arcaico in cui si minacciavano terribili pene i profanatori del
santuario.
È evidente che si dovesse trattare della tomba di un vero e proprio monarca,
forse dunque un luogo di culto di Romolo, una cosa che non va letta come la
conferma della sua reale esistenza, quanto piuttosto come la prova
dell’esistenza storica dell’antichità della tradizione che lo voleva come
fondatore di Roma.
Alla salita al potere dei Tarquini il quadro politico del Lazio è già
condizionato dall’espansione romana: si ricordi infatti che già nel VII secolo
a.C. Tullo Ostilio aveva distrutto Alba Longa.
Roma avrebbe dunque avuto già il controllo della fascia di terra che arrivava
al mare, comprese le città di Ficana/Pilitorium/Tellenae, che furono prese da
Anco Marcio.
Queste conquiste permisero ai Romani di impossessarsi delle saline; il
controllo del fiume si rivela dunque strategico, motivo per cui venne costruito
un ponte in legno a valle dell’isola Tiberina.
Il secolo che separa la salita al potere di Tarquinio Prisco dalla cacciata di
Tarquinio il Superbo ha un riscontro in un documento eccezionale: il testo del
primo trattato tra Roma e Cartagine (conservato nell’archivio).
Nel trattato, risalente al 508 a.C. e ricordato da Polibio, i Cartaginesi si
impegnavano a non molestare Ardea/Anzio/Laurento/Circei/Terracina e a
non costruire fortezze in terra latina.
Questo documento ci testimonia quanto cresciuta fosse la potenza romana
alla fine dell’età regia: Roma è già la più importante città del Lazio, sei volte
più grande di Gabii e Fidene.
Si devono comunque ricordare due aspetti: che i vari centri del Lazio
conservano la loro identità specifica, e che nelle aree sotto il diretto dominio
romano vi sia una densità abitativa che sarà eguagliata solo diversi secoli
dopo, nella prima età imperiale.