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CAPITOLO 1
L’osservazione degli “altri” L’osservazione diretta di società diverse da quella originale dell’osservatore è
stato un obiettivo perseguito già partire dalla seconda metà del ‘700. Ma si trattava di esperienze
occasionali e la conoscenza del mondo dipendeva dai resoconti di viaggiatori, mercanti e missionari. Fu
Morgan per la prima volta a sperimentare un’interazione continuata e prolungata all’interno di una società,
gli irochesi, al punto da essere adottato da uno dei loro clan. Da questa esperienza scaturì la prima
monografia etnografica di carattere scientifico. Doveva passare però ancora molto tempo prima che si
affermasse la pratica per gli antropologi di muoversi personalmente alla ricerca dei loro dati. Sarà
successivamente Malinowski, a sviluppare l’istituzionalizzazione della ricerca sul terreno definita come
“osservazione partecipante”. L’*osservazione partecipante * consiste nell’osservare una realtà sociale,
immergendosi nella sua vita quotidiana al fine di coglierne tutti gli aspetti. Gli antropologi si sono, infatti,
resi conto che l’obiettivo di ottenere informazioni sui costumi e le idee di popoli diversi non poteva essere
realizzata semplicemente sottoponendo gli informatori ad una serie di domande, senza preoccuparsi di
verificare le risposte attraverso la partecipazione attiva. Malinowski ha prescritto la regola di mantenere
separata l’osservazione dall’inferenza. Questo significa due cose, innanzitutto indica di non esprimere un
giudizio su ogni dato dell’osservazione, ma di attendere per poter effettuare dei riscontri capaci di sostenere
un giudizio più fondato; e in secondo luogo, significa che bisogna mantenere separati i dati dell’osservazione
dalle spiegazioni dell’antropologo allo scopo di garantire l’esame critico delle fonti. È una prescrizione che fa
riferimento all’idea che l’osservazione etnografica sia un’attività sempre oggettivamente controllabile e che
il prodotto di tale attività sia a sua volta qualcosa di oggettivo, non costruito dall’osservatore, che si
trasformi automaticamente in fonte di conoscenza scientifica. I due livelli di giudizio che l’osservatore
normalmente utilizza sono il livello di senso comune e quello della teoria. Questo ci permette di capire che il
dato dell’esperienza osservative non è di staccabile dal giudizio di senso comune che immediatamente se ne
fa l’osservatore, ed è questo che gli permette poi qualsiasi elaborazione. La separazione dell’osservazione
dell’inferenza è persona accorgimento che può rischiare di rimanere solo ipotetico.
Malinowski fu tra i primi ad indicare con chiarezza l’obiettivo della ricerca etnografica: afferrare il punto di
vista dell’indigeno, i suoi rapporti con l’esistenza, rendersi conto della sua visione del suo mondo. Tra le sue
disposizioni metodologiche, possiamo distinguere la necessità dell’esplicitazione delle fonti. Da un lato,
l’antropologo deve esplicitare le sue fonti e le condizioni del suo lavoro; dall’altro, deve separare i dati
etnografici dalle sue inferenze, cioè dalle sue spiegazioni e interpretazioni. La separazione dell’osservazione
dell’inferenza. La sospensione del giudizio allo scopo di tutelare la neutralità e la purezza del dato. Tuttavia,
egli afferma l’esigenza di comparare e classificare allo scopo di valutare scientificamente la posizione
dell’elemento quel dato empirico si riferisce nel quadro complessivo della società. Malinowski elenca poi i
tre principi metodologici dell’etnografia in un terreno extra europeo: lo studioso deve possedere reali
obiettivi scientifici e vivere in mezzo agli indigeni. La conoscenza linguistica è indispensabile e spesso può
essere appresa solo a destinazione. Il procedimento di apprendimento linguistico coincide con il primo
approccio con la comunità da studiare e rappresenta un ottimo veicolo di contatto. Per quanto riguarda
l’altro aspetto, il ricercatore deve evitare di rimanere isolato rispetto alla vita quotidiana. Vuol dire che deve
evitare di farsi ospitare in sedi di missione religiose o in case di personaggi di rilievo, poiché queste soluzioni
rischiano di isolare il ricercatore. La sistemazione ideale è la costruzione di una casa all’interno di un
contesto qualsiasi: risiedere insieme locali significa anche dimostrare di voler condividere con loro la loro
vita quotidiana. Infine, secondo Malinowski, il ricercatore deve applicare “un certo numero di metodi
particolari per raccogliere, elaborare e definire le proprie testimonianze”.
A proposito di questo terzo principio, Malinowski propone tre obiettivi:
1) dare un profilo chiaro della costituzione sociale per identificare le leggi che governano la società
3) scoprire i modi tipici di pensare registrando i giudizi, le opinioni e le espressioni degli indigeni
L’osservazione della partecipazione significa che l’osservatore non solo si sottopone ad un esercizio di
autoriflessione, ma anche che osserva gli altri che osservano la sua partecipazione. Per problematizzare la
nozione di osservazione partecipante possiamo farci due domande:
1) come possiamo essere certi che osservare partecipando costituisca una tecnica di ricerca efficace?
Per quanto riguarda la prima domanda, la definizione di osservazione partecipante non fornisce di per sé
una percezione del metodo scientifico: essa sembra piuttosto veicolare una certa idea dello stile di vita
professionale del ricercatore nel suo contesto di ricerca. Evoca il fascino del contatto con l’alterità, la magia
del viaggio in un mondo non è ancora del tutto esplorato. L’osservazione partecipante è come sostiene
Bourdieu, una contraddizione in termini, e la partecipazione è essa stessa oggetto di auto-osservazione e
quindi di auto-rappresentazione. Secondo Copans, l’espressione “osservazione partecipante” implica un
nonsenso perché sottintende la partecipazione alla vita sociale, culturale, rituale così com’è, mentre
l’osservatore estraneo è costretto a farsi accettare. L’osservazione della partecipazione mette in evidenza
che la partecipazione non può essere solo una percezione del ricercatore, né può essere totalmente libera.
L’osservazione partecipante non potendo trasformare la partecipazione in identificazione non può garantire
un’adesione perfetta dell’osservatore alla realtà. D’altronde, nessuno può dire se, identificandosi
l’antropologo ne potrebbe fornire una comprensione più vera. Il ricercatore antropologo deve quindi
accontentarsi di convivere sempre con un margine più o meno ampio di indeterminazione. Questo ci porta
al secondo quesito: osservare non è mai un’attività neutrale e non è mai possibile separarla dei giudizi di
senso comune. Il dato non è quindi mai puro, ma sempre culturalmente costruito. Kilani afferma che alla
base della pretesa di oggettivazione che ha caratterizzato l’antropologia ci sono due illusioni: La prima è
credere che l’esteriorità dell’oggetto implichi di per sé l’oggettività; la seconda illusione è credere nella
simultaneità fra l’oggetto da vedere e l’atto di vedere. Kilani conclude sostituendo il concetto di
osservazione con quello di mediazione bensì un dialogo tra soggetti che intendono un’operazione di
comprensione reciproca.
L’osservazione dipende da facoltà sensoriali, analitiche e riflessive. La partecipazione dipende invece dalla
capacità del ricercatore di interagire con i suoi interlocutori. L’osservatore deve cioè costruire una legittimità
che gli consente di partecipare con naturalezza. Bisogna dire che l’osservazione non è automaticamente
partecipante; ad esempio, io posso partecipare ad un funerale, osservando il comportamento degli altri
partecipanti, ma questo non vuol dire che io stia realmente partecipando. È possibile, infatti, che nessuno
dei partecipanti a quel funerale mi conosca e che quindi nessuno di loro attribuisco un particolare valore
alla mia presenza. Può esservi, quindi, osservazione senza partecipazione, e può essere di partecipazione
dell’osservatore senza che gli osservati partecipano alla sua partecipazione. Cosa distingue allora il
partecipare dal semplice esserci? Si potrebbe rispondere che un certo grado di coinvolgimento è
indispensabile, così come è indispensabile l’attiva partecipazione degli interlocutori locali. Questo introduce
il problema della perturbazione a causa proprio della sua presenza e del suo coinvolgimento. Il dramma
dell’antropologo è la rappresentazione che gli fa di sè sul palcoscenico del suo terreno di ricerca, che cosa
del tutto diversa dalla rappresentazione che gli farà nella scrittura etnografica. Parliamo di dramma
dell’antropologo, perché da un certo momento in poi diviene sempre più difficile distinguere la realtà dalla
finzione.
Legittimazione e restituzione
Ci sono tre rilevanti i piani in cui si confrontano le poste in gioco dei soggetti coinvolti nel setting
etnografico, al di fuori dei quali non può darsi una ricerca antropologica scientificamente professionale. Il
primo è il piano dell’etica, il secondo è quello della legittimazione reciproca e il terzo è quello della politica.
Riguardo il piano dell’etica, la finzione dell’osservazione partecipante impone il controllo della propria
condotta di vita perché quella finzione deve conquistarsi uno statuto di realtà. Per quanto riguarda il
problema della legittimazione, bisogna domandarsi quale sia la legittimità della stessa ricerca e quale
giustificazione essa possa avere per entrambe le parti nella prospettiva di una restituzione. Il piano della
politica è infine quello in cui si confrontano le capacità e livelli di rappresentatività politica dell’antropologo
e dei suoi interlocutori.
CAPITOLO 2
Premessa
La svolta riflessiva in antropologia è preannunciata da alcune importanti opere di Bourdieu e di Geertz che
pongono in discussione, da una parte, la pretesa oggettivante dell’osservazione etnografica insieme
all’assoluta centralità dell’osservatore, e dall’altra, la natura unitaria ed omogenea dei contesti sociali e
culturali. Entra in crisi il concetto di tradizione. Ci si comincia ad interrogare sulla legittimità delle idee di
cultura e di etnia come di realtà date una volta per tutte. Non è più possibile pensare la cultura come un
insieme organico. Al suo posto si trovano invece dei frantumi di cultura.
Bourdieu elenca tre modi di conoscenza: la conoscenza fenomenologica, l’esperienza prima di un soggetto
sperimenta fin dall’inizio della sua vita. Il secondo modo è la conoscenza oggettivista che rappresenta un
livello di conoscenza secondario, di cui la conoscenza scientifica è un caso particolare. Bourdieu sostiene
cioè che bisogna andare oltre la conoscenza fenomenologica e darsi una giustificazione del modo con cui la
conoscenza viene costruita. Il terzo modo è la conoscenza prassilogica. Bourdieu si preoccupa di chiarire
che le pratiche che si possono osservare in un qualsiasi contesto sociale non sono, in primo luogo, degli
oggetti di osservazione ma “ingranaggi di gesti e di parole”, e dunque per poter comprendere un punto di
vista è necessario avvicinarsi alla realtà in un modo che “presuppone una rottura con la conoscenza
oggettivistica. Questa conoscenza si costruisce attraverso il situarsi dell’osservatore dentro le pratiche
stesse, lasciandosi trasportare dal flusso degli eventi senza però farsi trascinare da esso.
Geertz da una parte, sostiene che “non può capire l’azione umana chi assume la posizione di osservatore
esterno che vede solo le manifestazioni fisiche dell’azione”. Dall’altra, ritiene che si debba tener conto della
differenza tra concetti vicini all’esperienza e concetti lontani dall’esperienza. I primi sono concetti che gli
agenti sociali usano naturalmente. I secondi, invece, vengono usati per scopi specifici.
L’interpretazione antropologica deve fare i conti con una duplice complicazione. Da una parte, è necessario
cogliere le idee vicine all’esperienza degli agenti e tradurli in concetti vicini all’esperienza dell’osservatore. La
seconda operazione consiste nell’inserire i concetti in un modello mentale capace di dare una
interpretazione scientificamente plausibile.
CAPITOLO 3
Il “terreno” è un termine che denota l’attività di ricerca dell’antropologo e condensa in una sola parola
almeno tre idee diverse: il viaggio, il luogo dove si conduce la ricerca e la ricerca etnografica stessa. E’
contemporaneamente lo spazio e il tempo.
Per Grottanelli la ricerca sul terreno è fonte di “dati di fatto” e di “cognizioni obiettive che rispondano a
verità”. È l'affermazione del terreno come oggetto e pratica scientifica, ed è la negazione dell’idea del lavoro
di campo come esperienza esistenziale dell’etnologo. La concezione del terreno come oggetto scaturisce
dall’identificazione di etnologica ed etnografia. Si fa etnologia studiano una comunità sul terreno, si fa
etnografia scrivendone.
Il terreno come pratica etnologica impone la presenza e la partecipazione, ma allo stesso tempo, esige
anche una giustificazione. La sovrapposizione del terreno come metafora della pratica di ricerca e come
luogo reale era resa possibile nel passato per la convinzione che l’antropologia dovesse studiare solo popoli
diversi, lontani e non civilizzati. Oggi, i luoghi delle ricerche sono raggiungibili rapidamente. Per un
antropologo, condurre una ricerca in un quartiere della propria città o in un antro continente, implica
intraprendere un viaggio che dura mediamente da pochi minuti a poche ore. La contiguità di tutti i luoghi
possibili ha rotto l’incantesimo del viaggio come “rottura” esistenziale. Inoltre, le cosiddette “differenze”
culturali non hanno più la stessa rilevanza che avevano fino a non molti decenni fa.
Ci sono due tipi diversi di rivisita, quella che dopo molti anni è effettuata dallo stesso antropologo che ha
condotto la ricerca la prima volta e in questo caso parliamo di studi diacronici; e quella che altri studiosi
realizzano recandosi in terreni già esplorati da precedenti ricercatori e in questo caso parliamo di restudies,
che hanno come obiettivo fondamentale l’indagine sui processi di mutamento culturale.
Negli studi diacronici, il mutamento non concerne solo la realtà osservata, ma anche gli osservatori
modificano i loro punti di vista e i loro interessi.
Un iperluogo è un contesto che ne contiene altri e in cui è possibile vivere contemporaneamente più
dimensioni dell’esistenza quotidiana. Il termine mira a mettere in evidenza la natura complessa del terreno
etnografico e far luce su alcuni aspetti dell’etnografia problematici. Augè ha elaborato una sorta di teoria
dell’ipermodernitá, caratterizzata da “tre eccessi”: un eccesso di eventi che rende la storia difficilmente
pensabile; un eccesso di immagini che hanno l’effetto paradossale di richiudere su di noi lo spazio del
mondo; e un eccesso di riferimenti individuali. L’esperienza di questa condizione conferisce, in realtà, ad
ogni luogo dell’esistenza quotidiana degli agenti sociali il carattere di iperluogo, più che quello di non-luogo.
Il carattere, cioè, di una dimensione esistenza le in cui si combinano molte dimensioni. Il terreno è un
iperluogo anche in molti altri sensi, in particolare due: in primo luogo l’insieme delle convenzioni, sia
istituzionali che informali; in secondo luogo, possiamo rappresentarci un terreno come un iperluogo nel
senso che implica l’intrecciarsi di diversi ambiti di interesse in cui il ricercatore stesso può essere coinvolto.
Infine, il terreno come imperluogo si manifesta ogniqualvolta l’osservatore, dopo pause più o meno
prolungate, torna per continuare la sua ricerca. Torna e riconosce i luoghi e le persone, e viene riconosciuto
quasi come un parente lontano che ritorna a casa.
CAPITOLO 3
Visione e ascolto
2) strategie dell’ascolto.
Relativamente alla prima, bisogna fare una distinzione tra ciò che si può, e si deve, osservare solo a occhio
nudo, e ciò che invece è possibile fissare solo con strumenti come la macchina fotografica o la videocamera.
La prima e fondamentalmente strategia della visione è di ordine metodologico e riguarda la conoscenza
dell’etichetta sociale che si impara osservando attentamente i comportamenti, le posture e la gestualità.
Una tale conoscenza è strategia per saper come si deve osservare senza disturbare. Per quanto riguarda le
strategie dell’ascolto, bisogna sottolineare che saper ascoltare è una qualità che spesso bisognare imparare.
Dimostrare piacere nell’ascolto è una tattica che induce gli interlocutori a parlare sempre più volentieri.
L’osservazione entrografica ha dei limiti che scaturiscono dal suo essere un’interazione libera. I limiti
empirici sono imposti dalla sua natura indeterminata dell’osservazione stessa; dal contesto di interazione.
L’osservatore ricostruisce sempre i prodotti della propria osservazione. Quindi, la natura della descrizione
etnografica non può essere ricostruita in enunciati logici che possono essere verificati o falsificati. Perciò la
descrizione etnografica resta solo una narrazione. Ma affinché la descrizione non assuma una dimensione di
pura letteratura, deve essere sostenuta da una critica rigorosa delle proprie fonti e da una pratica
sistematica di messa in discussione del modo di osservare. Questa pratica, se condotta con coerenza,
implica sempre un paradosso perché presuppone la non certezza di un’osservazione completa. Le due
conseguenze più immediate di questo principio di indeterminazione sono, da una parte, che una ricerca
antropologica è infinibile perché non può avere una conclusione, e dall’altra che il prodotto
dell’osservazione è incommensurabile rispetto al campo osservativo.
I limiti epistemologici sono: Il limite dell’autorefenzialità, della non riproducibilità dei fenomeni osservati,
dello scarto rappresentativo e dell’arbitrarietà della generalizzazione. Nel tentativo di annullare questi
quattro limiti si sono moltiplicati i suggerimenti e li possiamo raggruppare in due rubriche:
2) multivocalità etnografica.
Nella prima rubrica l’osservatore è sempre al centro del campo, ma le sue caratteristiche possono essere
diverse. Può, da un lato, preoccuparsi di conseguire il massimo di oggettività attraverso l’uso di metodi
quantitativi. Dall’altro, invece, può rinunciare alla pretesa di oggettivazione, puntando a livelli sempre più
elevati di comprensione. Nella seconda rubrica, l’antropologo scompare dal centro della scena e viene
sostituito da situazioni in cui informatori ed altri soggetti dal terreno di indagine parlano direttamente al
lettore.
Il paradigma indiziario esclude la possibilità che si possa fare una causalità lineare semplice capace di
spiegare immediatamente i fenomeni sociali così come appaiono allo sguardo dell’osservatore. Al contrario,
ammette la possibilità di pluralità di ipotesi. Il paradigma olistico è stato il quadro di riferimento di una
scienza antropologica triplo fiduciosa dell’oggettività dei suoi dati e della veridicità delle sue
rappresentazioni. La scala di osservazione può essere attualmente solo plurale, nel senso che ciò che
importa osservare, più che è una totalità, sono i particolari e le loro connessioni nello spazio e nel tempo. La
discussione su metodi di stile indiziario è iniziata con la crisi dei cosiddetti paradigmi forti: funzionalismo e
strutturalismo. Entrambi sostenevano che alla conoscenza delle funzioni, o delle strutture, si potesse
arrivare mediante un procedimento di analisi oggettivante.
Il paradigma indiziario esclude la possibilità che si possa fare una causalità lineare semplice capace di
spiegare immediatamente i fenomeni sociali così come appaiono allo sguardo dell’osservatore. Al contrario,
ammette la possibilità di pluralità di ipotesi. Il paradigma olistico è stato il quadro di riferimento di una
scienza antropologica triplo fiduciosa dell’oggettività dei suoi dati e della veridicità delle sue
rappresentazioni. La scala di osservazione può essere attualmente solo plurale, nel senso che ciò che
importa osservare, più che è una totalità, sono i particolari e le loro connessioni nello spazio e nel tempo. La
discussione su metodi di stile indiziario è iniziata con la crisi dei cosiddetti paradigmi forti: funzionalismo e
strutturalismo. Entrambi sostenevano che alla conoscenza delle funzioni, o delle strutture, si potesse
arrivare mediante un procedimento di analisi oggettivante. Il paradigma indiziario fa quindi riferimento ad
una concezione complessa della realtà etnografica, ad un campo di indagine in cui l’investigatore è
personalmente coinvolto, e ad un metodo che privilegia l’indagine a tutto campo finalizzata a mettere a
fuoco non tanto i singoli elementi, quanto soprattutto le loro interrelazioni, molto spesso enigmatiche. In
questo procedimento, l’osservatore sperimenterà spesso l’esigenza di mutare di volta in volta il suo punto di
vista.
La mediazione culturale
La mediazione culturale è un processo in cui sono coinvolti sia l’osservatore che i suoi interlocutori nella
continua ricerca di comprendersi reciprocamente, ma questo a condizione che il ricercatore conosca la
lingua locale, altrimenti una mediazione non è completamente possibile. Essa consiste in uno sforzo che
deve essere compiuto dall’antropologo che deve smontare e rimontare continuamente i propri concetti sia
scientifici che di senso comune. Attraverso questo processo costante di de-oggettivazione, è possibile
costituire le condizioni per una comprensione profonda della realtà locale. Sui fondamenti teorici di questo
procedimento di mediazione culturale si può fare riferimento ai contributi di Geertz, Ernesto De Martino e
Kilani. Le condizioni in cui la mediazione culturale si rende possibile sono: la presenza fisica del ricercatore
nel setting etnografico, la condivisione del setting con la comunità sotto osservazione e una sorta di
estraniamento che consente all’osservatore uno sguardo distaccato. Inoltre, è importante che l’antropologo
stabilisca con la propria cultura di provenienza un rapporto del tutto simile a quello che istaura con la
società che lo ospita. Questo non consiste nel ripudiare la propria cultura di origine, ma nell’osservarla da
lontano attraverso un procedimento autoriflessivo. In questo procedimento, il ricercatore mette in
discussione le proprie categorie di giudizio e le proprie teorie. La mediazione culturale implica una rigorosa
comparazione dei modelli scientifici con le idee locali. Tale comparazione deve essere condotta sul piano
linguistico. In conclusione, attraverso la mediazione culturale, l’antropologo non si limita a mettere in
discussione i propri concetti ma deve porre anche continuamente domande al materiale prodotto per
riflettere sulle condizioni in cui è stato prodotto.
Una volta che un determinato fenomeno è stato osservato e registrato, si procede all’analisi di ogni singolo
elemento con una tecnica simile alla decostruzione del segno linguistico. Come nella linguistica, si
distinguerà il significante (l’elemento) e il significato (ciò che l’elemento significa secondo la spiegazione
data localmente). Si avranno così due coppie di elementi: traduzione provvisoria e descrizione il lingua
locale. Procederemo col significante, e a questo punto, si dovranno identificare altri termini che risultino
avere con esso delle proprietà in comune sia formali, sia di contenuto semantico. Se prendiamo il termine
matrimonio, questo potrà essere messo in relazione con una serie di termini con cui condivide qualche
elemento morfologico (es. patrimonio), e avremmo un asse 1, e con un’altra serie di termini con cui
condivide proprietà che riguardano il significato (es. famiglia) e avremo un asse 2. Accanto a ciascun
elemento metteremmo il presunto corrispondente lessicale locale.
I limiti dell’osservazione etnografica imposti dal contesto ospitante possono essere determinati da
condizioni molto varie. La situazione che si produce più spesso è quella in cui gli interlocutori non dicono
tutto quello che il ricercatore si attenderebbe da loro. Allo stesso modo, l’osservatore spesso non è spinto a
rivolgere alcune domande perché magari le ritiene banali. In tutti questi casi, siamo in presenza di un non
detto quasi sempre inconsapevole. Il non detto può dipendere sua da una disattenzione sia da una censura
inconscia. Totalmente diversa è la questione del taciuto che riguarda non ciò che si tralascia di dire, ma ciò
che si evita consapevolmente di dire. In questo caso, è l’interlocutore locale che non vuole dire qualcosa.
Ancora diverso è il caso di ciò che non viene rivelato perché secretato. In questo caso, abbiamo a che fare
con una pluralità di scenari che vanno dal cosiddetto tabù, ai segreti legati alla storia. Uno dei campi in cui
più spesso emerge la censura del segreto è proprio la storia.
CAPITOLO 1
Per ricerca fondamentale si intende una ricerca scientifica motivata dall’esigenza dell’avanzamento della
conoscenza teorica o empirica, è quindi una ricerca che deve rispondere soltanto agli interessi e agli
obiettivi della comunità scientifica. È un tipo di ricerca libera e risponde unicamente alle finalità e alle
esigenze del ricercatore che l’ha progettata. La ricerca applicata è invece quella che serve per il
conseguimento di obiettivi pratici, che nel caso dell’antropologia, si riferiscono essenzialmente alle
problematiche sociali, socio-sanitarie ed educative, alle relazioni interculturali, alla cooperazione allo
sviluppo e alla valorizzazione del patrimonio culturale. Si tratta di un tipo di ricerca che ha la finalità di
applicare le conoscenze già esistenti per la soluzione di un problema pratico. Mentre la ricerca
fondamentale, seguendo la prescrizione di Malinowski, pretende una lunga consuetudine con il terreno, la
ricerca applicata è svolta, in genere, con brevi permanenze e rapide indagini.
L’aspetto più rilevante nella progettazione di una ricerca fondamentale è la definizione chiara del problema
scientifico; la definizione chiara degli obiettivi di indagine e si dovrà definire l’obiettivo principale da cui
scaturiscono uno o più livelli di obiettivi secondari. Bisogna tenere presente che ad ogni obiettivo deve
corrispondere una o più azioni di ricerca. Dopo la definizione chiara degli obiettivi si deve preparare lo stato
dell’arte, ovvero la definizione delle conoscenze disponibili. Nel progetto vanno esplicitate le opzioni
teoriche, epistemologiche e soprattutto metodologiche. Un ulteriore elemento primario nella preparazione
di un progetto di ricerca è la definizione delle fonti, dei risultati, dei prodotti e del terreno di ricerca.
CAPITOLO 2
Il termine “fonte” indica ogni entità, oggetto, persona, luogo o documento utile a fornire conoscenza.
Distingueremo tra grandi categorie di fonti: le fonti scritte le fonti materiali e le fonti orali. Le fonti scritte si
distinguono in: fonti documentali e fonti scritte secondarie. Le prime consistono in documenti prodotti
direttamente da una fonte umana (atti ufficiali, fonti di natura pubblica, politica, giudiziaria, ecc.; giornali,
cronache, bilanci; manifesti elettorali). Le fonti scritte secondarie possono essere classificate in due
categorie: copie o rielaborazioni di documenti originali e campionamenti scritti che non rientrano nelle
categorie delle cronache e delle autobiografie.
Le fonti materiali si dividono in: biotiche e abiotiche. Le componenti biotiche si riferiscono alle
caratteristiche biologiche della popolazione, delle piante, degli animali e dell'ambiente. Per quanto riguarda
le componenti abiotiche, ci si riferisce agli oggetti, ai luoghi, alle abitazioni e alle strade.
Le fonti che preesistono all'osservazione sono le fonti bibliografiche, le fonti statistiche, le fonti
cartografiche e le fonti documentali.
Le prime sono soprattutto le cosiddette note di terreno che distinguiamo in: osservative, riflessive e
immaginative. Le seconde sono gli appunti che il ricercatore prende durante il suo lavoro di campo, e che
riguardano informazioni, testimonianze o recitazioni. Le note di terreno possono essere riflessive e
immaginative. Un altro tipo di fonti prodotte dal solo ricercatore sono le fotografie e le riprese video
generiche. Per quanto riguarda le fonti che il ricercatore produce con la partecipazione dei suoi informatori
distinguiamo: le tradizioni orali e le testimonianze.
CAPITOLO 3
Le fonti orali
Si diceva, un tempo, che l’etnologia, fosse lo studio dei popoli “illetterati”, ovvero delle società dell’“oralità”
in opposizione alle società moderne caratterizzate dall’uso della scrittura. Ma le fonti orali non possono
identificarsi strettamente con i racconti, i proverbi e le narrazioni. Le fonti orali si identificano con:
Persone viventi
Messaggi
Testi
Gli informatori
Le fonti orali, concepite in quanto persone viventi, possono essere suddivise in quattro categorie:
Tutte queste categorie di persone si definiscono “informatori”. E’ opportuno distinguere gli informatori in
tre categorie separate:
I collaboratori sono persone che aiutano l’antropologo in una condizione praticamente professionale. I
testimoni privilegiati sono quelle persone che rivestono particolari posizioni all’interno della società
indagata o che sono depositarie di saperi specifici. Gli informatori generici sono potenzialmente tutti i
membri della società locale.
I messaggi
1. Performance verbali
2. Performance non verbali
Discorso quotidiano
Discorso formalizzato
Discorso provocato
Gli eventi comunicativi del discorso quotidiano possono essere classificati in:
Informazioni
Testimonianze
Narrazioni
Il discorso provocato comprende, invece, tutti gli eventi comunicativi messi in atto da un soggetto in seguito
ad una provocazione specifica. Nella maggior parte dei casi il discorso provocato scaturisce da un’intervista.
I testi derivanti da fonti orali sono suscettibili di interesse scientifico in diversi campi disciplinari.
Letteratura orale
Storia orale: storiografia di un passato recente ricostruito attraverso le testimonianze orali di
testimoni oculari
Tradizioni orali: corpus di testi trasmessi oralmente da generazioni passate alle generazioni attuali
Ogni messaggio proveniente da una fonte orale deve essere registrato e trascritto. La trascrizione deve
essere perfettamente aderente al testo registrato. Una volta che il messaggio ha subito il trattamento di
riduzione alla forma scritta, va analizzando tenendo conto:
La storia di vita è considerata il duplice aspetto di oggetto di indagine, cioè come documento o
testimonianza, e di strumento metodologico. Sotto il primo aspetto, è una testimonianza orale di grande
efficacia. Sotto il profilo metodologico, può essere classificata come una forma di intervista, e come tale
offre una peculiare modalità di interazione tra ricercatore e agente sociale osservato. La storia di vita è
testimonianza di un passato recente di cui è testimone diretto il narrante stesso, e dunque può considerarsi
come fonte o documento; ma al tempo stesso è testimonianza di memoria culturale in cui eventi e
strutture, messaggi e codici, linguaggio e discorso sono tutt’uno nel racconto di sé e del proprio passato.
Per l’antropologia, la storia di vita trasmette al ricercatore elementi essenziali per la comprensione del
modo in cui gli attori sociali percepiscono la loro storia e identità. Per la storia, è un documento che fornisce
informazioni su eventi e sul modo in cui quegli eventi sono raccontati.
Per l’antropologia, una storia di vita non è mai un documento neutrale perché l’autoricognizione che il
soggetto compie ricostruendo la memoria della propria vita si articola secondo gli stimoli che il ricercatore
produce. L’unico modo di conseguire un livello di elevata indipendenza dalla perturbazione è disporre di
differenti versioni della storia di vita di un soggetto narrate ad interlocutori diversi. Per esempio, una
persona anziana racconterà la storia della sua vita in modo diverso ad un ricercatore estraneo e ad una sua
nipotina. La produzione del documento non è tuttavia esente da perturbazione neppure da parte del
ricercatore. Generalmente gli antropologi sono indotti a ritenere che gli anziani siano informatori
preferenziali, perché l’età appare garanzia di conoscenza.
Come nel caso della nozione di cultura, possiamo assumere l’identità solo come un’ipotesi, e considerare
che essa si fonda su una pluralità di discorsi, di idee e di pratiche che non può prescindere dai soggetti
narranti. Ma in che modo una storia di vita è discorso e rappresentazione? Essa può variare da un carattere
essenzialmente intimista ad uno di maggiore respiro storico e sociale, da un livello costituito da una
continua interazione con il mondo ad uno più legato alla valutazione soggettiva delle esperienze. Una storia
di vita è in anzitutto la contestualizzazione di un individuo nel quadro del suo sistema di riferimento
familiare. Una storia di vita rappresenta inoltre una mappa mentale dinamica, cioè storica, dello spazio
vissuto.