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DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, VOLUME 1

PARTE PRIMA: DOTTRINA E CONCETTI GENERALI DEL PROCESSO


LA GIURISDIZIONE

Generalmente la giurisdizione è considerata uno dei tre poteri dello stato, accanto a potere legislativo ed
amministrativo o di governo. Questi devono essere affidati ad organi indipendenti l’uno dall’altro per
garantire uno Stato libero di diritto.

La funzione giurisdizionale entra in campo per reprimere le violazioni delle norme. Il giudice, per mezzo di
essa, dopo aver accertato la violazione, applica le sanzioni previste per quel caso. L’interesse dello stato alla
concreta applicazione delle norme di diritto è completamento e prosecuzione della funzione legislativa, che
ha origine nell’esigenza di conservare la pace sociale. Da questo risulta la concezione tradizionale di
giurisdizione, che individua nella stessa tre caratteri fondamentali: secondaria (rispetto alla funzione
legislativa, sia perché è a questa che spetta di costituire il diritto sia perché la funzione giurisdizionale entra
in gioco dopo); strumentale (rispetto alle norme sostanziali, essendo un mezzo per reprimere le violazioni
di questo e le conseguenze negative derivanti dalla violazioni) e sostitutiva (il giudice con l’esercizio della
giurisdizione si sostituisce alle parti, facendo ciò che avrebbero dovuto fare queste se avessero rispettato i
precetti normativi).

Questa tesi è la manifestazione del normativismo, una corrente del positivismo giuridico. Questa corrente
identifica il diritto nella norma di legge generale ed astratta di produzione statale. Alla base di questa
concezione ci sono i concetti di stato, inteso come ente originario nei suoi elementi costituitivi e
depositario della sovranità e di ogni altro potere, il quale non accetta né riconosce autorità o poteri al di
sopra dello stesso; e di norma, strumento di cui si avvale lo stato per regolare ed ordinare la vita dei
consociati, le quali sono “eteronome”, cioè non sono espressione di autonomia degli individui ma sono
imposte dall’alto. La fase giurisdizionale in questa concezione è quella in cui si provvede all’applicazione in
concreto della volontà della legge, ed è uno strumento coattivo e sanzionatorio.

Però, il diritto non è qualcosa di staccato dalla vita degli individui, invece è un aspetto essenziale della storia
dell’uomo. In particolare, è l’espressione di due esigenze: ordine, perché senza questo non possono
nascere rapporti tra gli individui; certezza, ovvero affidamento, che le relazioni si svolgano effettivamente
secondo quell’ordine, così da garantire sicurezze a tutti.

L’uomo agisce sulla spinta dei propri bisogni e nel farlo crea una trama di regole: ogni azione concreta ha
due strati, due livelli, il primo è più superficiale e fa riferimento al soddisfacimento dell’esigenza immediata,
il secondo invece pone nel fatto un ordine, cioè una legge di carattere generale: è la legge intrinseca
dell’azione, cioè l’ordinamento giuridico dei rapporti umani.

Ponendo al centro dell’esperienza giuridica l’uomo e le sue azioni come artefici del diritto, lo stato non
appare più come un ente originario, ma come un ente complesso, creato da un insieme di persone legate
da vincoli etnici, territoriali, spirituali, linguistici … lo stato diventa quindi un prodotto umano, che ha
dentro e sopra di sé gli uomini, ed è soggetto alle vicende storiche. Il legislatore se prova a imporsi nella
realtà concreta o dà vita ad un regime dittatoriale o la legge che crea rimane inapplicata, con la
conseguenza che viene meno il diritto, quindi, non è vero che la norma è eteronoma, invece vengono dal
basso.
Il momento della violazione di legge nasce quando l’azione, invece di porsi come fonte dell’ordinamento si
pone in contrasto con esso. Ecco che nel rapporto tra alcuni soggetti, le cui azioni concrete collidono, il
diritto viene meno, venendo meno l’ordine e la certezza. Occorre che qualcuno, avuta cognizione dei fatti,
estragga l’ordinamento in crisi, lo accerti e lo dichiari ai soggetti in contrapposizione, dichiarando qual è il
diritto (iuris dictio). Si tratta del giudice, che può essere chiunque meno le parti in contesa, altrimenti la
parte imporrebbe il suo punto di vista: la terzietà, l’imparzialità del giudice, sono condizioni senza la quale
non può esistere il giudizio e la giurisdizione.

Quindi tornando alla concezione tradizionale, la giurisdizione non è secondaria, perché è lei che
ricostituisce l’ordine e la certezza quando vengono meno. Non è strumentale, poiché è essa stessa il diritto,
che si manifesta solo in quella fase. Non è sostitutiva perché abbiamo detto che giudice e parti non possono
coincidere.

Appare chiaro che la concezione tradizionale stia entrando in crisi, e lo si vede anche dalla crescente
importanza che si dà alle manifestazioni dell’autonomia soggettiva per la composizione di contrasti
giuridici, come l’arbitrato e la negoziazione assistita: si inizia a sganciare la funzione giurisdizionale dalla
tradizionale nozione di stato e dei suoi poteri.

PROCESSO PARTI E CONTRADDITTORIO

La giurisdizione si manifesta nel giudizio e si impersona nel giudice. Il giudice però nono conosce, e non
deve conoscere i fatti che danno origine al contrasto tra le parti (anzi, vige il principio del divieto di scienza
privata del giudice: c’è una incompatibilità ontologica tra il testimone e il giudice. Se il giudice sa qualcosa
sui fatti, smette di essere giudice e diventa testimone). Però per poter giudicare deve essere messo in
condizione di conoscere quei fatti, ed è per questo motivo che nasce il processo, il quale serve per
riattualizzare quanto già accaduto tra le parti affinché il giudice ne abbia la cognizione. Le parti sono quindi
protagoniste del processo: il processo serve alle parti quanto le parti servono al processo. C’è quindi una
esigenza di prove e le parti, in quanto artefici dei fatti, sono le prime a doverle enunciare al giudice. Queste
prove esprimono un punto di vista parziale, mentre è necessario un accertamento oggettivo, che verrà
fatto dal giudice.

Le parti sono al centro del processo giurisdizionale, sono almeno due e in contrapposizione tra di loro, le
loro azioni e affermazioni hanno a priori lo stesso valore giuridico (se avessimo un accordo, o il prevalere
dell’una sull’altra non ci sarebbe necessità di ricorrere al giudice), stanno sullo stesso piano. Si tratta
dell’attore, che propone l’azione, e il convenuto, contro cui è proposta la domanda giudiziale. Questo
significa che il processo giurisdizionale è l’organizzazione giuridica del contraddittorio, e il processo è il
contraddittorio nel suo svolgersi (processo, giurisdizione, giudizio e contraddittorio sono sinonimi). Il
contraddittorio è la cellula da cui nasce tutto il giudizio, può manifestarsi e organizzarsi in schemi diversi ma
non può mancare. Ci sono anche manifestazioni di giurisdizione che non si estrinsecano nel giudizio: nel
qual caso non si identificano nel contraddittorio (es esecuzione forzata).

Il giudice è anch’esso fondamentale nel processo, che senza di lui non esiste. La teoria del normativismo lo
poneva al di sopra delle parti, ma bisogna rigettare anche questa tesi. Autorità e supremazia del giudice
sono connaturali al suo compito, il giudizio, e non derivano dall’attribuzione di poteri processuali superiori
rispetto a quelli delle parti. Il processo è quindi il complesso delle attività delle parti e del giudice per
arrivare al giudizio e il suo fine è la ricomposizione dell’ordine giuridico ed è il momento in cui si manifesta
l’ordinamento giuridico quando c’è una situazione di incertezza e contrasto.

L’AZIONE

L’azione giurisdizionale delle parti è decisiva ed è ciò che dà l’avvio al processo (senza l’azione di parte, non
si ha processo). Ci sono molte discussioni sulla sua qualificazione, discussioni che non intaccano la sua
essenza per cui, per quanto attiene alla giurisdizione, è quella forma dell’agire umano che consente di dare
avvio al processo per giungere al giudizio. Quindi il processo civile nasce sempre subordinatamente ad un
atto di parte, in particolare con un attore che propone nei modi di legge una domanda giudiziale, con atto
di citazione o ricorso.

Anche nel processo penale è necessaria l’azione di parte per questo è stato creato un organo pubblico il PM

IL GIUDICE E LA SUA FUNZIONE

Guardando sempre alla concezione del positivismo giuridico, la giurisdizione dovrebbe essere una
appendice della legislazione e il compito del giudice quello di interpretare ed applicare al caso concreto la
norma generale ed astratta mediante un sillogismo.

Bisogna però ammettere che in ogni caso resta sempre un ambito in cui è decisiva la discrezionalità del
giudice, che quindi non riuscirà mai ad essere completamente oggettivo come vorrebbe quella teoria. Il
giudice poi non è chiamato a dare alle parti un parere ma a giudicare, a dirimere una controversia e quindi
la interpretazione della disposizione di legge non è il suo compito ma un mezzo per giungere al fine del
giudizio. Il sillogismo poi è una figura aristotelica che deve fondarsi su premesse certe, e il processo invece è
tutto meno che certo, nasce dall’incertezza e rimane tale fino al passaggio in giudicato della sentenza.

La funzione del giudice è analoga a quella che ha il legislatore, il quale però la svolge in astratto. Infatti,
entrambi soddisfano esigenze di ordine e certezza. La funzione del giudice, quindi, è creativa di diritto, non
meramente interpretativa di una norma eteronoma. Questo non significa mettere il giudice al posto del
legislatore: egli non produrrà mai norme generali ed astratte, neanche con riferimento al caso concreto, ma
crea diritto nel senso che lo estrae dei fatti e dalle azioni vissute dalle parti, che vengono provate nel
processo attraverso il contraddittorio e si fissano con il passaggio in giudicato della sentenza.

Il giudice è soggetto soltanto alla legge ed è ad essa vincolato. Il vincolo risiede nei fatti e nelle azioni
concrete, portate alla sua cognizione e nei quali è immanente il diritto, cioè la regola ordinante delle azioni
e dei rapporti umani. Il vincolo si traduce quindi nel rispetto ai fatti giuridicamente rilevanti, che deve
accertare, ed anche ad una fedeltà al processo e al contraddittorio. Infatti, solo attraverso questo il giudice
deve formare il suo convincimento. Il rapporto tra il giudice e la legge è di convergenza, infatti, la matrice
del diritto è unica, l’azione e l’esperienza concreta, e la valutazione fatta dal legislatore è più generale ma
tende a coincidere con quella fatta dal giudice nel caso particolare. Essendo la matrice del diritto l’azione
concreta, la valutazione del legislatore tende a coincidere con quella del giudice in relazione al caso
concreto.

L’imparzialità deve essere una connotazione genetica del giudice, è una sua qualità decisiva ed importante
e porta con sé altri due attributi, l’indipendenza e l’autonomia, senza i quali non si ha imparzialità. Se
venissero a mancare, mancherebbero anche l'ordinamento basato sul diritto. Per questo è necessario far
venire meno qualsiasi influenza dei giudici, sia da parte del potere esecutivo che da qualsiasi altra cosa che
potrebbe influenzarli, anche in maniera occulta.

Con la L. 2/1999 è stato modificato l’art. 111 Cost. aggiungendo norme in materia di giurisdizione. A questa,
devono applicarsi i principi:

- La giurisdizione è esercitata con il processo giusto e regolato dalla legge


- Principio del contraddittorio delle parti che stanno in giudizio in condizione di parità
- Terzietà ed imparzialità del giudice
- Ragionevole durata del processo
Non sempre nel nostro ordinamento questo è rispettato. Infatti, il nostro codice di procedura civile fu
varato nel 1940 ed è in vigore dal 1942, in pieno fascismo, esalta il ruolo del giudice (che ha una posizione
sbilanciata rispetto alle parti) e le riforme successive invece di stemperare questo lo hanno accentuato.

N.B.

Il processo è l’organizzazione giuridica del contraddittorio tra le parti in conflitto, volto a fornire al giudice la
cognizione dei fatti che hanno determinato tale conflitto, cosicché questo sia in grado di accertare e
dichiarare il diritto nei confronti delle parti.

La procedura civile è il complesso di norme che disciplina struttura e svolgimento del processo civile, una
species del genus di processo.

PARTE SECONDA: LE DISPOSIZIONI GENERALI DEL CODICE DI PROCEDURA CIVILE


IL GIUDICE ORDINARIO E LA GIURISDIZIONE CIVILE

L’articolo 1 del Codice di procedura civile ci dice che “la giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di
legge, è esercitata dai giudici ordinari, secondo le norme del presente codice”, ed è rafforzata dall’art. 2907
c.c. che specifica che alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte
e quando la legge lo dispone anche su istanza del PM o d’ufficio. Quindi la giurisdizione civile ha come
oggetto la tutela giurisdizionale dei diritti, ed è attribuita ai giudici ordinari, che in materia civile sono il
giudice di pace, il tribunale, la corte d’appello, la corte di cassazione e il tribunale per i minorenni. Sono i
giudici istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

Il giudice di pace ha preso il posto del giudice conciliatore con la L. 374/1991, ne ha assorbito le
competenze e altre gliene sono state attribuite ex novo, ha sede in ogni comune già capoluogo di
mandamento, ed è giudice di primo grado. Il tribunale, la cui impostazione è stata modificata con la L.
353/1990 e il cui assetto è quello entrato in vigore nel 1999 (prima era solo collegiale con tre membri, ora
ha una fisionomia mista, in alcune materie è monocratico, in altre è collegiale) le cui sedi sono state
aumentate in seguito alla soppressione delle preture circondariali. Il tribunale è giudice di primo grado per
le materie di sua competenza, e di secondo grado per il giudice di pace. La corte d’appello è giudice di
secondo grado e la cassazione, che ha sede unica a Roma, giudica sulla legittimità.

L’art. 102 esprime il principio di unicità e unità di giurisdizione, per cui vieta la costituzione di tribunali ad
hoc e speciali, lasciando però in vita i tribunali esistenti, quali i giudici amministrativi (TAR, Consiglio di Stato
e consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana), le commissioni tributarie, la Corte dei conti, i
tribunali militari, tribunale superiore delle acque pubbliche.

La coesistenza di varie magistrature implica l’insorgere di questioni di giurisdizione, sul quale è competente
a decidere la Corte di cassazione.

La differenza tra giudice ordinario e giudice amministrativo si è consolidata, e poi recepita all’art. 103 della
Costituzione, nel fatto che il giudice ordinario doveva occuparsi dei diritti soggettivi, il giudice
amministrativo degli interessi legittimi (più alcune materie in cui ha competenza esclusiva). Ciò ha
comportato incertezze per le difficoltà di dare una definizione a questi due concetti. In generale, se l’atto
emanato dalla P.A. nell’esercizio di un potere pubblico di supremazia rimesso ad una valutazione
discrezionale della PA e di fronte a questo il destinatario è in situazione subordinata, allora è competente a
giudicare il giudice amministrativo; viceversa, se la PA e l’altro soggetto agiscono sullo stesso piano è
competente il giudice ordinario, tranne che non si tratti di una materia rientrante nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo.

Non esistono dunque giudici speciali, però abbiamo sezioni specializzate all’interno dei tribunali, la cui
specialità consiste nella composizione dell’organo collegiale integrata da esperti. Fra le sezioni specializzate
c’è quella delle imprese, la cui specialità in realtà finisce in una certa competenza per materia, vista
l’assenza di esperti (composto solo da magistrati ordinari).

Il rapporto con il processo penale è cambiato dopo l’introduzione del nuovo codice di procedura penale del
1988. Le due giurisdizioni si svolgono in modo autonomo, salvo alcune interferenze. Intanto il giudice
penale ha il potere di risolvere ogni questione che incida sulla cognizione del reato, anche non penale, ma
la sua decisione incidentale non ha efficacia vincolante in nessun altro processo.

L’azione civile volta al risarcimento del danno cagionato dal reato può proporsi sia davanti al giudice civile,
sia davanti a quello penale, costituendosi parte civile (e il processo civile non deve obbligatoriamente
essere sospeso dall’instaurazione del processo penale). L’azione iniziata in sede civile può trasferirsi nel
processo penale se non sia stata pronunciata su essa sentenza di merito e se quando si iniziò era ancora
ammesso la costituzione di parte civile. Il trasferimento comporta la estinzione e la non ulteriore
proponibilità della questione in sede civile. È anche possibile che l’azione civile venga promossa in sede
civile, ma se l’azione è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile
nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, opera la sospensione obbligatoria fino alla
definizione del processo penale.

La sentenza penale di condanna pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato nei confronti
del condannato e del responsabile civile o amministrativo per le restituzioni e risarcimenti per i punti di
esistenza del fatto, la sua illeceità penale e il suo essere stato commesso dall’imputato. La sentenza penale
irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato nel processo civile
e amministrativo nei confronti del danneggiato solo se questi si sia costituito parte civile nel processo
penale o sia stato posto in condizione di farlo per i punti: il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha
commesso, l’imputati ha commesso il fatto in adempimento di un dovere o nell’esercizio di legittima
facoltà. La sentenza penale fa stati nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile in
ogni altro giudizio in cui abbia efficacia giuridica determinante l’accertamento dei fatti materiali, oggetto
principale e rilevante del giudizio (salvo che la legge civile ponga limitazioni probatorie sui fatti giuridici
controversi).

Riguardo al cittadino straniero la riforma del diritto internazionale privato del 1995 rende decisivo, per la
giurisdizione italiana, che lo straniero abbia residenza o domicilio nello Stato o un rappresentante
autorizzato a stare in giudizio in Italia. Sussiste poi tutte le volte che spetterebbe al giudice italiano in base
ai criteri stabiliti alla Convenzione di Bruxelles del 1968. Sono escluse da questa convenzione le materie di
stato e capacità delle persone, regime patrimoniale tra i coniugi, testamenti e successioni ereditarie,
fallimento e concordati (più in generale le procedure affini basate sull’insolvenza), la sicurezza sociale e
l’arbitrato. Sussiste poi una competenza territoriale per il giudice italiano.

Questi sono i principi generali, esistono poi criteri sussidiari. È ammessa l’accettazione, o la deroga,
convenzionale della giurisdizione italiana in base a quei principi, se risulti da patto provato per iscritto. In
materia di giurisdizione volontaria, il giudice può pronunciarsi quando il provvedimento volontario riguardi
un cittadino italiano, persona residente in Italia, situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana.
In materia cautelare anche quando il provvedimento debba eseguirsi in Italia. C’è invece un difetto assoluto
di giurisdizione per le azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero. La giurisdizione italiana
conosce in via incidentale le questioni preliminari influenti sulla decisione della lite, ma queste non vanno
oltre l’ambito della domanda giudiziale decisa.

Il difetto di giurisdizione italiana rispetto allo straniero può essere rilevato in ogni stato e grado del
processo dal convenuto costituito che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione
italiana (ma in realtà il non eccepire il difetto di giurisdizione nella comparsa di risposta equivale ad
accettazione tacita, per cui non si vede dove potrebbe applicarsi). Se contumace il cittadino straniero può
chiedere la rimessione nei termini per eccepire il difetto di giurisdizione. In caso di difetto assoluto di
giurisdizione però può essere rilevata di ufficio in ogni stato e grado del processo.

Nel caso di litispendenza con il giudice straniero, che sia eccepita davanti al giudice italiano, questi
sospende il giudizio se ritiene che il provvedimento straniero possa avere effetto in Italia, altrimenti il
processo prosegue regolarmente. Se il processo è sospeso, ma il giudice straniero declina la propria
giurisdizione o emette un provvedimento non riconosciuto dall’Italia, il processo prosegue dopo
riassunzione dell’interessato.

La giurisdizione si fissa, come ci dice l’art. 5 c.p.c. nel momento della proposizione della domanda che
avviene con notificazione nelle controversie introdotte con atto di citazione e con il deposito del ricorso
nella cancelleria del giudice per le controversie introdotte con ricorso; quindi, qualsiasi mutamento di fatto
o di diritto posteriore a quel momento non comporta mutamenti di giurisdizione. La sua formulazione
precedente lo prevedeva solo per i cambiamenti di fatto. Questo principio, chiamato della “perpetuatio
jurisdictionis” opera nei confronti dello straniero solo se i fatti e le norme posteriori alla proposizione della
domanda potrebbero determinare il difetto sopravvenuto di giurisdizione.

LA COMPETENZA

DELLA COMPETENZA IN GENERALE

Il problema della competenza nasce perché nel territorio dello stato coesistono organi giurisdizionali
ordinari di diverso ordine e grado. Da un lato c’è una distribuzione orizzontale o territoriale, di giudici di
uguale grado, dall’altro una distribuzione verticale, con giudici di diverso grado (al cui apice c’è la
Cassazione). Il problema è quello di stabilire a quale giudice spetti la competenza, che può definirsi come la
misura o la quantità di giurisdizione in astratto attribuita a ciascun giudice ordinario, e da questo
legittimamente esercitabile. Abbiamo quindi un sistema di leggi che stabiliscono quale sia a priori e in
astratto.

Le norme attributive della competenza si collegano a due principi. Quello stabilito all’art. 25 Cost., che
stabilisce che nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostruito per legge (cioè quello a cui è
attribuita la competenza dalla legge) e il principio della domanda, sancito all’art 99 c.p.c. per cui chiunque
voglia far valere in giudizio un diritto deve proporre domanda al giudice competente. A questi si ricollega il
principio del contraddittorio: ci si assicura così la parità delle parti in causa. La domanda fatta al giudice
incompetente però non è radicalmente priva di effetti, ma improcedibile: è consentita la traslatio iudicii, la
notificazione della domanda giudiziale al giudice incompetente comunque ha effetto interruttivo sulla
prescrizione e se la sentenza del giudice incompetente non viene impugnata tempestivamente e per questa
ragione, passa egualmente in giudicato.

I criteri assunti dalla legge per la distribuzione della competenza sono:

1. Materia. Consiste nell’identificare l’oggetto delle controversie e attribuirle ad un giudice. Assorbe


quella per valore.
2. Valore. Consiste nell’attribuire le controversie ai giudici in base al loro valore economico, entra in
funzione solo se manca quella per materia.
3. Per territorio. Individua i giudici distribuiti sul territorio. Si sdoppia in due, quella derogabile e i casi
sanciti all’art. 28 c.p.c. in cui invece è assoluta e inderogabile

Esistono deroghe a queste competenze in caso di cause connesse tra loro. Questioni sulla competenza sono
anche la litispendenza e la continenza delle cause.

L’incompetenza per materia, valore e territorio inderogabile può essere rilevata di ufficio entro la prima
udienza ex art. 183. Quella per territorio derogabile deve essere eccepita dal convenuto nella comparsa di
risposta, il quale deve anche indicare il giudice territorialmente competente a pena di decadenza. Solo le
violazione di competenze per materia e territorio inderogabile possono dare luogo alla proposizione del
regolamento di competenza d’ufficio. I rapporti tra la questione di giurisdizione e di competenza non sono
pacifici. Si riteneva bisognasse stabilire prima la giurisdizione (è il giudice che ha la giurisdizione a stabilire la
competenza) ma in alcuni casi può non essere adeguato, come nei casi verso gli stranieri: va stabilito caso
per caso.

Vale il principio dell’art. 5 c.p.c. per cui la competenza si determina in base alla situazione di fatto e di
diritto esistente al momento della proposizione della domanda e sono irrilevanti i mutamenti successivi.

DELLA COMPETENZA PER MATERIA E VALORE

La competenza del giudice di pace è stata ampliata e accorpata a quella del giudice onorario con il D.lgs.
116/2017. Parte delle nuove competenze è entrata in vigore a ottobre 2021, per cui il giudice di pace è
competente sulle cause per materia:

- Distanze tra fondi (no tra costruzioni)


- Luci e vedute (ma non per le distanze tra loro)
- Stillicidio di acque
- Occupazione, invenzione, specificazione, unione, commistione, concernenti i modi di acquisto della
proprietà
- Enfiteusi
- Servitù prediali
- Impugnazione del regolamento delle comunioni di beni e delle relative deliberazioni
- Diritti ed obblighi del possessore per i frutti, riparazioni, miglioramenti, addizioni al bene,
pagamento indennità e ritenzione del possessore in buona fede.

Entro il limite di 30.000 € giudicano sulle cause in materia di:

- Usucapione immobili e diritti reali immobiliari (cade così la tradizionale distinzione per cui il giudice
di pace giudicava solo su questioni di beni mobili).
- Accessione e superficie

Il giudice di pace inoltre ha adesso la competenza a condurre l’espropriazione forzata mobiliare. A partire
dall’ottobre 2025 cambierà anche il limite di competenza per valore, che nelle cause relative ai beni mobili
sarà accresciuto da 5.000 € a 30.000 €; e per le cause risarcitorie da circolazione di veicoli e natanti che da
20.000 € passerà a 50.000 €. Tutto ciò ha lo scopo di alleggerire il carico delle corti d’appello.

In passato era prevista anche la figura del pretore, il quale è stato eliminato nel 1998.

Il tribunale ha la competenza per materia in cause di imposte e tasse, fatte salve le competenze delle
commissioni tributarie, e quelle relative allo stato e capacità delle persone, diritti onorifici, querela di falso
e quelle dal valore indeterminabile più in generale (cioè quelle relative a diritti non suscettibili di
valutazione economica). Alla sezione specializzata del tribunale delle imprese è attribuita la competenza
per materia di controversie riguardanti il codice della proprietà industriale, di diritto d’autore, sulla legge
antitrust e le sue violazioni, sulle società e le controversie relative ai rapporti societari. Inoltre, estende la
sua competenza a quelle cause che presentano con queste ragioni di connessione.

Le regole per la determinazione del valore della causa ai soli fini della competenza sono elencate agli artt.
10-15 del c.p.c. dire che la determinazione del valore vale solo ai fini della competenza significa che tale
determinazione non vincola la pronuncia finale del giudice.

Secondo il principio generale, enunciato all’art. 10, il valore della causa si determina dalla domanda, il
petitum, dell’attore e se contro lo stesso convenuto sono fatte più domande nello stesso processo, anche
se non connesse tra loro, si sommano, e si sommano anche interessi, spese e danni enunciati nella
domanda (mentre non rilevano nel caso siano posteriori alla stessa). In linea di principio le difese e le
eccezioni del convenuto non ampliano l’oggetto del giudizio, al massimo ampliano la cognizione, però se
vengono fatte domande riconvenzionali o pregiudiziali potrà aversi uno spostamento di competenza per
connessione. Se l’attore nel corso del giudizio amplia legittimamente il petitum o introduce domande in cui
viene accettato il contraddittorio, e così si eccede la competenza del giudice adito, questo deve dichiarare
la propria incompetenza per valore. Però in forza dell’art. 5 non si ammette che l’attore riduca l’ammontare
della domanda per sanare l’originaria incompetenza.

Ci sono poi delle regole particolari, che si sommano a questa generale:

- Per le cause relative a rapporti obbligatori, locazioni o divisioni di beni immobili non urbani il valore
si determina in base a quella parte del rapporto che è in contestazione.
- Per le cause relative a prestazioni alimentari o rendite con il titolo controverso, si cumulano le rate
per il periodo fissato nel titolo.
- Per le cause relative a beni mobili o somme di denaro, in mancanza di una indicazione precisa
dell’attore, si presume la competenza del giudice adito. Questa norma è anche un’eccezione alla
regola per cui la determinazione del valore ai fini della competenza non influisce ai fini della
decisione. Il convenuto ha l’onere di contestare nella comparsa di risposta il valore dichiarato
dall’attore o presunto e se il giudice dovesse accorgersi nel corso della causa che il valore della
stessa è più elevato non può dichiararsi incompetente. Secondo la giurisprudenza la contestazione
del convenuto riguarda solo le cause relative ai beni mobili e non anche alle somme di denaro.
- Per le cause relative ai beni immobili il valore si determina moltiplicando il reddito dominicale del
terreno o la rendita catastale del fabbricato per 200 nelle cause relative alla proprietà; per 100 per
quelle relativo ai diritti di godimento del bene e per 50 per quelle relative alla servitù con riguardo
al fondo servente.

Nelle cause relative all’esecuzione forzata la ripartizione avviene secondo il valore. Se si tratta di
opposizione all'esecuzione promossa dal debitore, il valore è dato dal credito per cui si procede, se si tratta
di opposizione di terzi dal valore dei beni controversi. Per le controversie nella fase di distribuzione del
ricavato indipendentemente dal valore decide sempre il giudice dell’esecuzione.

COMPETENZA PER TERRITORIO

La competenza per territorio di norma è derogabile dalle parti e non rilevabile d’ufficio, salvo i casi previsti
all’art. 28 c.p.c. e per la disciplina del foro erariale.

Si articola in un foro generale e alcuni fori speciali. I fori speciali possono essere facoltativi o esclusivi.
Quello facoltativo concorre con quello generale, quello esclusivo lo esclude, fermo restando la sua
derogabilità e la non rilevabilità d’ufficio. Il foro generale delle persone fisiche è il luogo dove il convenuto
ha la residenza o il domicilio, se sconosciuti la dimora, se sconosciuto o è all’estero il luogo in cui risiede
l’attore. Il foro generale delle persone giuridiche è quello dove la persona giuridica ha la sede o uno
stabilimento con rappresentate abilitato a stare in giudizio, quello delle associazioni non riconosciute la
sede in cui svolge le attività in modo continuativo.

I fori speciali sono:

- Foro facoltativo per le cause relative alle obbligazioni. È anche quello del giudice nel luogo in cui è
sorta o deve eseguirsi l’obbligazione.
- Foro del tribunale delle imprese, che funziona come sezione specializzata del tribunale ordinario e
ha sede nei capoluoghi di regione più Catania, Brescia e Bolzano (mentre per la Val d’Aosta ha
competenza territoriale presso il tribunale di Torino). La legge non specifica se sia o meno
derogabile.
- I fori speciali esclusivi riguardano le cause relative a diritti reali ed azioni possessorie (che è quello
del luogo dell’immobile o l’azienda), cause ereditarie (giudice del luogo dove è aperta la
successione), cause tra soci e condomini (giudice del luogo in cui ha sede la società o di dove si
trovino i beni comuni), cause sulle gestioni tutelari e patrimoniali (luogo dell’esercizio della tutela o
dell’amministrazione). L’incompetenza di questi può essere fatta valere solo su eccezione di parte
da sollevarsi a pena di decadenza in comparsa di risposta.
- Foro del consumatore, che è un foro speciale, esclusivo e inderogabile e coincide con la residenza o
il domicilio del consumatore. Sulle clausole derogative della competenza territoriale in danno al
consumatore c’è una presunzione di vessatorietà che può essere vinta solo se il professionista
prova che sia stata frutto di un’apposita trattativa individuale.
- Foro per le cause in cui fossero parti magistrati, escluso dalla Corte costituzionale salvo che si tratti
di azioni risarcitorie derivanti da fatto illecito costituente reato.

Un diverso criterio di competenza territoriale si applica quando siano parti in causa l’amministrazione
statale o altra PA che goda per legge del patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura di stato. La causa viene
attribuita al giudice del luogo dove ha sede l’Avvocatura distrettuale, la quale coincide con le sedi delle
corti d’appello, per cui per individuarla si individua quale sarebbe il foro competente seguendo le norme
generali, si individua il distretto di corte d’appello e la causa sarà attribuita al giudice di pari grado del luogo
dove questa ha sede (che è lo stesso in cui ha sede l’Avvocatura di Stato). La competenza territoriale in
questo caso è assoluta e inderogabile, rilevabile d’ufficio ed eccepibile in ogni stato e grado della causa. Le
norme ordinarie invece riprendono nei giudizi davanti al giudice di pace. Se l’amministrazione è chiamata in
garanzia, sia la questione di garanzia che quella principale sono spostate dove ha sede l’Avvocatura.

Nei procedimenti esecutivi e di opposizione agli stessi la competenza territoriale spetta al giudice dove si
trovano i beni. Per l’esecuzione forzata su autoveicoli, motoveicoli, rimorchi, è competente il giudice del
luogo dove il debitore ha residenza, domicilio, dimora o sede. Per espropriazione dei crediti, se il debitore
escusso è una PA è competente il giudice del luogo dove ha la residenza, domicilio, dimora o sede il TERZO
DEBITORE; altrimenti, se non è una PA, quello del luogo del DEBITORE MEDESIMO.

Il giudice competente per l’opposizione all’esecuzione in linea generale è il giudice del luogo
dell’esecuzione, ma l’opposizione può essere promossa dal debitore prima dell’inizio dell’esecuzione, in
questo caso la competenza territoriale si forma con riguardo al luogo in cui il creditore ha eletto domicilio
nell’atto di precetto, o se non lo ha fatto, nel luogo in cui è notificato l’atto di precetto.

La competenza territoriale è derogabile dalle parti mediante accordo, che deve risultare da atto scritto e
riferirsi ad affari determinati (no deroga generica), il quale crea un foro concorrente, per tutti i casi non
previsti dall’art. 28, cioè nei casi in cui è prescritto l’intervento obbligatorio del PM, per i casi di esecuzione
forzata e di opposizione alla stessa, di procedimenti cautelari e possessori, di procedimenti in camera di
consiglio. Una simil specie di deroga si ha quando le parti eleggono un domicilio, in un atto, di modo che la
parte può essere convenuta anche davanti al giudice del domicilio eletto.

REGIME DELL’INCOMPETENZA

Secondo l’art. 38 c.p.c. il convenuto ha l’onere di eccepire tempestivamente, cioè nella comparsa di
risposta quando si costituisca in giudizio entro i termini fissati dall’art. 166, l’incompetenza del giudice, per
materia, valore e territorio. Per quella di territorio derogabile deve anche essere indicato a pena di
decadenza il foro territoriale competente. In questo caso le altre parti possono aderire a tale indicazione e
se il processo viene riassunto entro tre mesi dalla cancellazione dal ruolo davanti al giudice indicato dal
convenuto, la competenza territoriale rimane fissata. Il difetto di tempestiva eccezione non esime il giudice
dall’obbligo di riscontrare e controllare la propria competenza e dichiararne il difetto, a meno che non si
tratti di competenza territoriale NON ex art 28, entro la prima udienza ex. Art. 183. Ciò porta a ritenere che
se non sia eccepita o rilevata d’ufficio, l’incompetenza non può essere sollevata in sede di impugnazione.

Ci sono inconvenienti a riguardo: questa rigida preclusione potrebbe rendere inutile il sistema legale di
distribuzione delle controversie e ci sono problemi applicativi poiché sono stati conservati i regolamenti di
competenza (si lascia al giudice la facoltà di decidere subito sulla competenza o di disporne l’esame con il
merito).

DELLE MODIFICAZIONI DELLA COMPETENZA PER RAGIONE DI CONNESSIONE

La connessione è un termine utilizzato per indicare quell’insieme di collegamenti che rende opportuna la
trattazione in un unico processo davanti al giudice. La connessione in senso proprio è quella specie di
collegamento tra cause che consente una deviazione dalle regole generali della competenza giudiziale per
permettere la trattazione congiunta delle stesse davanti lo stesso giudice. I nessi sono accessorietà,
garanzia, oggetto o titolo, pregiudizialità, compensazione e riconvenzione. Sono anche presupposto per
altri istituti processuali, quali il litisconsorzio facoltativo, l’intervento volontario, intervento litisconsortile e
intervento coatto ad istanza di parte. La connessione impropria invece consente a più parti di agire o essere
chiamate nello stesso processo quando la decisione delle varie cause dipende totalmente o parzialmente
dalla risoluzione di identiche questioni. Per esempio, controversie di lavoro, più domande alla stessa parte.
Questa disciplina è manifestazione del principio dell’economia dei giudizi.

La connessione per accessorietà è regolata dall’art. 31 c.p.c. il quale stabilisce che la domanda accessoria
può essere proposta davanti al giudice territorialmente competente per la domanda principale, in modo da
permettere la trattazione congiunta a quella accessoria. Questo articolo può determinare una eccezione
alle regole della competenza per territorio, ma non a quella per valore, infatti ci dice sempre l’art. 31 che il
valore si determina secondo l’art. 10 c.p.c., per cui il giudice competente per valore deve essere individuato
dalla somma del valore delle due domande. Questo ci fa capire, altrimenti non si potrebbe applicare l’art.
10, che le due domande devono essere proposte contro la stessa persona, cosa utile perché non si dà una
definizione di causa accessoria. Inoltre, prendendo in esame le altre cause di connessione, in modo da dare
a quella di accessorietà una propria fisionomia, si può dire che una domanda può qualificarsi come
accessoria quando trova il suo fondamento in quella principale, così che rigettando questa nel merito anche
quella cade, ma non viceversa. Quindi la causa accessoria ha petitum e causa petendi autonoma, ma è
conseguenza logica della principale. Per esempio, la domanda di danni conseguente alla lesione del
possesso. Abbiamo lo spoglio violento, un fatto, il quale da luogo alla azione diretta alla reintegrazione del
bene nel possesso dello spogliato e al risarcimento dei danni derivanti da questo ex. Art 2043. C’è una
distinzione nel titolo e nell’oggetto ma se viene negato in giudizio il fondamento dell’azione di spoglio cade
anche l’illecito e l’obbligazione risarcitoria.

La connessione per garanzia è regolata dall’art. 32 c.p.c. il quale dice che la causa di garanzia può essere
proposta al giudice competente per la causa principale perché sia decisa nello stesso processo ma se
eccede la competenza per valore del giudice adito entrambe le cause si spostano verso il giudice superiore
(prima rimanevano in quello della causa principale). Quindi lo spostamento opera sempre a favore del
tribunale.

A lungo si è distinto tra garanzia propria e impropria, si sosteneva che la deroga alla competenza valesse
solo per quella propria, ma una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, nel 2015, ha stabilito che
tale distinzione non ha rilievo giuridico ma solo classificatorio, con la conseguenza che la connessione e gli
spostamenti per competenza trovano sempre applicazione. La garanzia impropria si ha quando c’è una
connessione esteriore ed economica tra le varie controversie, cioè una catena di rapporti giuridici autonomi
ed indipendente collegati da un nesso teleologico o di strumentalità economica.
La garanzia propria, invece, presuppone un obbligo legale o contrattuale in forza del quale un soggetto è
tenuto a rispondere personalmente delle conseguenze pregiudizievoli derivanti da altri, soccombenti in
giudizio. Si tratta del garante, che appunto è responsabile per il garantito. Il fondamento della domanda di
garanzia proposta dal convenuto nei confronti del garante sta nel fatto che il garante è tenuto a tenere
indenne la sua posizione giuridica ed economica, che potrebbe essere compromessa all’azione giudiziaria
dell’attore. Il garante ha un preciso interesse ad assumere la difesa giudiziale del garantito quindi: in questo
modo difende sé stesso. Per questo si esclude che egli sia un sostituto processuale del garantito: partecipa
al processo per difendere un diritto proprio. La garanzia propria a sua volta si distingue in garanzia propria
reale, nella quale il garantito è convenuto in giudizio come detentore di un bene; e semplice, nel caso in cui
il garantito sia personalmente obbligato verso l’attore. La connessione consente la trattazione unitaria delle
varie azioni e la formazione del giudicato nei confronti di tutte le parti, cosa che non avverrebbe se il
garante restasse fuori dal giudizio. La causa di garanzia non può essere trattata insieme alla principale se sia
attribuita alla cognizione del giudice speciale. Se l’amministrazione fa da garante allora lo spostamento
opera all’inverso, ovvero è la causa principale a spostarsi su richiesta della PA davanti al giudice
competente a conoscere la causa di garanzia. Nel caso in cui una causa connessa per garanzia fosse
compromessa in arbitri, la competenza degli arbitri non è esclusa dalla connessione con altra causa
precedente innanzi al giudice ordinario.

L’art. 33 c.p.c. prevede il caso di più cause contro soggetti diversi connesse per l’oggetto o per il titolo. La
competenza per territorio, che potrebbe appartenere a giudici diversi, attraverso questo articolo si può
derogare, infatti, permette all’attore di chiamare in giudizio i vari convenuti innanzi al giudice del luogo di
residenza/domicilio/dimora/sede di uno di essi. Per quanto riguarda la competenza per valore sia l’art. 10
(si tratta di più convenuti, no di più domande ad un solo convenuto), sia l’art. 11 (non si tratta di un
adempimento pro-quota di una stessa obbligazione, ma di diverse obbligazioni con stesso titolo) non
possono applicarsi. Quindi si richiama l’art. 103 sul litisconsorzio facoltativo, che prevede il medesimo caso
e dice che il giudice superiore può trattenere e decidere anche le cause cumulate di valore inferiore alla sua
competenza, salvo che preferisca separarle e rimetterle al giudice inferiore. Tale interpretazione è oggi
confermata da quei mutamenti legislativi che portano il tribunale a prevalere sempre sul giudice di pace
nelle connessioni. Queste connessioni però hanno dei limiti. Se c’è una competenza territoriale
inderogabile, allora il cumulo dovrà avvenire lì, se ce n’è più di una dovrà aversi una trattazione separata.
Circa il foro della amministrazione statale vale lo stesso, a meno che le cause connesse siano proposte
contro varie amministrazioni, allora si applica per analogia l’art. 33.

L’art. 34 c.p.c. disciplina il caso in cui nel corso di una controversia ne insorga un’altra avente carattere
pregiudiziale con competenza per materia o valore di un giudice superiore. Le questioni pregiudiziali si
differenziano dalle questioni preliminari. Le prime sono quelle in cui convergono tre elementi: decisione
con autorità di giudicato, esistenza di una disposizione di legge o domanda di parte che imponga un
accertamento che abbia tale autorità, competenza per materia o valore del giudice che deve pronunciarsi
sulla stessa. Sono quindi cause autonome con proprie parti, petitum e causa petendi distinti dalla causa
pregiudicata. L’art. 34 quindi non si applica quando semplicemente nel corso del giudizio emerga un punto
non idoneo a dar vita a una causa autonoma. Le questioni preliminari, o questioni pregiudiziali in senso
tecnico giuridico, sono parte inscindibile dell’oggetto del giudizio, non ampliano questo, non costituiscono
giudicato autonomo. Essendo poi la questione pregiudiziale una controversia piena, per la stessa devono
sussistere tutti i requisiti e le condizioni per il legittimo esercizio dell’azione (legittimazione parti, interesse,
di una posizione sostanziale di cui si chiede l’accertamento). Dall’art. 34 poi si evince un principio generale,
e cioè che non ogni questione esaminata in giudizio viene coperta dall’autorità di giudicato, ma solo
l’accertamento della domanda di parte. Gli spostamenti di competenza previsti dall’art 34 sono di due
specie. Se nella competenza per materia o valore del giudice investito della controversia iniziale rientra
anche la controversia di quella pregiudiziale si sposta la seconda nel foro della prima. Ciò non avviene, e
sono trattate separatamente, se per la causa pregiudiziale è previsto un foro di competenza territoriale ex.
Art. 28 o un foro di competenza per materia. In caso di connessione per pregiudizialità la causa si sposta
sempre dal giudice di pace al tribunale.

L’art. 35 fa riferimento alla compensazione. La compensazione opera in due modi, può essere legale,
quando i crediti sono liquidi, omogenei ed esigibili, per cui il soggetto interessato ha solo l’onere di eccepire
la avvenuta estinzione: non è a questo che fa riferimento l’art 35. Al contrario, si riferisce alla
compensazione giudiziale, la quale determina l’estinzione dei crediti contrapposti solo attraverso la
cognizione del giudice quando venga opposto in compensazione un credito non liquido ma di pronta e
facile liquidazione. In particolare, l’art. 35 fa riferimento al caso in cui al creditore agente per la condanna
del debitore sia contrapposto un credito, che egli contesta, che superi la competenza del giudice adito.
Quando ciò accade il giudice può accogliere la domanda iniziale (se non controversa o facilmente
accertabile) ma con riserva delle eccezioni del convenuto, quindi, rimette le parti al giudice competente (se
occorre può anche subordinare l’esecuzione della sentenza alla prestazione di una cauzione). Altra
possibilità è che rimette le parti per la decisione di tutto il merito al giudice superiore competente per
valore. L’eccezione di compensazione, quindi, implica in realtà un accertamento, quello del credito vantato
dal convenuto contro l’attore. La giurisprudenza ha introdotto una distinzione tra il caso in cui il debitore
convenuto si limiti a chiedere in via d’eccezione il rigetto della domanda e quello in cui chieda la condanna
dell’attore al pagamento dell’eccedenza a lui favorevole: in quest’ultimo caso viene qualificata
riconvenzionale, cosa giustificabile solo se difettano i presupposti della compensazione giudiziale, per cui
bisognerebbe applicare l’art. 36 (cause riconvenzionali). La giurisprudenza estende anche alla competenza
per materia e per territorio inderogabile la disciplina dettata per la competenza per valore. Non si può
avere spostamento, e quindi le cause avranno svolgimento separato, quando il giudice inferiore sia
competente oltre che per valore.

Le cause/domande riconvenzionali sono regolate all’art. 36 e ricorrono quando il convenuto non si limita a
difendersi chiedendo il rigetto delle domande proposte contro di lui ma ne formula a sua volta contro
l’attore. La legge esige che queste domande siano fondate sullo stesso titolo portato in giudizio dall’attore
o su quello ricompreso nel titolo stesso come mezzo di eccezione rispetto alla domanda iniziale. La
giurisprudenza ammette che quando non nasce un problema di competenza, la domanda riconvenzionale è
ammissibile anche in difetto di questi criteri di collegamento purché esista un qualche nesso obiettivo tra le
cause e l’attore abbia accettato il contraddittorio difendendosi nel merito. L’attore può a sua volta porre
altre domande riconvenzionali dopo quelle proposte dal convenuto (reconventio reconventionis). In
presenza di cause riconvenzionali intanto bisogna stabilire se rientrino nella competenza per materia o
valore del giudice adito: se si, allora sulla riconvenzionale statuisce legittimamente quel giudice anche se
territorialmente incompetente (deroga alla competenza per territorio ordinaria). Se la causa per materia o
valore appartiene alla competenza del giudice superiore (secondo le norme degli artt. 34 e 35) se la
domanda iniziale è fondata su titolo non controverso e facilmente accertabile può essere accolta con
riserva della statuizione sulla riconvenzionale da parte del giudice competente , subordinando
eventualmente l’esecuzione della sentenza a prestazione di cauzione, mentre in ogni altro caso si rimette la
causa al giudice superiore. In queste ipotesi è la causa iniziale che si sposta davanti al giudice competente
per materia o valore della riconvenzionale, ma non avviene lo spostamento se sulla domanda iniziale
sussiste una competenza funzionale del giudice adito. Nel rapporto tra giudice di pace e tribunale prevale
sempre il tribunale. Ai fini del valore, essendo domande contro soggetti diversi, non si sommano la
domanda iniziale e la riconvenzionale.

LITISPENDENZA – CONTINENZA – CONNESSIONE

La litispendenza in questo caso non sta a indicare la pendenza di un qualsiasi giudizio ma il caso in cui la
stessa causa sia stata proposta davanti a organi o uffici giudiziari diversi. Un caso del genere mina al
principio di economia dei giudizi e comporterebbe l’eventualità del formarsi di giudicati contrastanti.
Quando si parla di giudici diversi si intendono uffici giudiziali diversi facenti parte della giurisdizione
ordinaria. Infatti, se uno facesse parte di una giurisdizione speciale, si avrebbe questione di giurisdizione.
Dall’altro lato il caso in cui più controversie identiche siano instaurate nel medesimo ufficio, stesso giudice
o diverse sezioni, è una situazione diversa, il cui rimedio è la riunione obbligatoria di tutti i procedimenti: il
giudice è lo stesso, non c’è un problema sulla competenza. La litispendenza è regolata all’art. 39 c.p.c. il
quale prevede che il giudice successivamente adito dichiari in qualunque grado e stato del processo, anche
d’ufficio, la litispendenza e disponga la cancellazione della lite. Dal 2009 è dichiarato con ordinanza. Si ha
litispendenza quando si hanno cause identiche, questo significa identità di soggetti (può essere difficile da
capire, se una pluralità di soggetti è legittimata a promuovere la stessa azione, oppure nel caso di
interposizione surrogatoria), oggetto e titolo (per i quali deve stabilirsi di volta in volta), mentre è
irrilevante la posizione assunta dalle parti in giudizio. Anche se dibattuta in dottrina, e c’è stata in merito
una giurisprudenza altalenante, adesso questa sembra ferma nel ritenere che la questione di litispendenza
abbia la precedenza su ogni altra, compresa la competenza, per cui il giudice adito successivamente prima
di dichiarare la litispendenza non deve accertare in via preliminare la propria o l’altrui incompetenza. La
pendenza della lite si verifica o con la notifica dell’atto di citazione o con il deposito del ricorso in
cancelleria, e non si esclude la pendenza se la parte non si siano costituite in giudizio. La litispendenza deve
valutarsi con riferimento alla situazione processuale esistente e maturatasi (es. estinzione di uno dei
giudizi) al momento in cui viene emessa l’ordinanza che dovrebbe dichiararla. La litispendenza è rilevabile
per la prima volta in cassazione, anche se le parti non possono rivolgersi direttamente a questa per farla
dichiarare. È comunque onere della parte, secondo il principio della domanda, di eccepire la litispendenza
in giudizio e fornire le prove. L’ordinanza dichiarativa della litispendenza è impugnabile con regolamento di
competenza. Se la stessa causa è instaurata davanti agli arbitri e al giudice ordinario non si applica questa
disciplina, dandosi invece prevalenza al criterio della competenza su quello della prevenzione.

La continenza è regolata al comma 2 dell’art. 39 c.p.c. e non è una forma o una sottospecie di connessione
in senso proprio, ma è un particolare caso di litispendenza. Di questa ha tutti i caratteri fondamentali, meno
la totale identità del petitum -dell’oggetto- tra le cause. In questo caso i due oggetti divergono, ma una
delle cause contiene in sé quantitativamente e qualitativamente l’oggetto e dell’altra: il petitum di una è
più ampio e assorbe l’altro. Quindi a fondamento della disciplina, oltre all’esigenza di economia
processuale, c’è quella del prevenire il formarsi di giudicati contradditori. Secondo un orientamento
giurisprudenziale, se ne afferma la sussistenza anche nel caso in cui la questione sollevata in una delle liti
costituisca presupposto necessario per la decisione dell’altra controversia. In ipotesi del genere non solo il
petitum, ma anche la causa petendi è diversa, ma le due cause sono legate dal nesso di pregiudizialità-
dipendenza. Quando si verificano i presupposti della continenza la legge stabilisce che le cause devono
essere unite in un solo processo, davanti lo stesso giudice. Questo è individuato con due criteri: quello della
priorità temporale e quello della competenza. Se il giudice adito prima è competente anche per la causa
proposta successivamente, è il secondo che dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine
perentorio per la riassunzione davanti al primo. Se il primo giudice invece non è competente è lui a
dichiarare la continenza e a fissare il termine per la riassunzione davanti al secondo.

L’art. 40 c.p.c. regola il regime della connessione. Secondo questo entro la prima udienza le parti o il giudice
possono rilevare la connessione, quindi, il cumulo processuale può realizzarsi anche ex post e l’ordinanza
che pronuncia la connessione è impugnabile per regolamento. Nel 1990 sono stati aggiunti a questo
articolo altri tre commi, i quali prevedono il caso che le cause connesse e congiunte in un unico processo
siano sottoposte ad un diverso regolamento processuale. Nel caso, prevale sempre quello ordinario, salvo
che per le controversie di lavoro o di previdenza es assistenza. Se le cause sono connesse a più regimi
processuali speciali verrà applicato il rito della causa in ragione della quale viene determinata la
competenza ovvero, in subordine, si applicherà il rito previsto per la causa di maggior valore. Nel 1991 sono
stati aggiunti altri due commi, che stabiliscono che la competenza del tribunale assorbe sempre quella del
giudice di pace e in questo caso non sussiste il limite preclusivo della prima udienza.
REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE E DI COMPETENZA

I regolamenti di giurisdizione e di competenza sono strumenti introdotti dal legislatore volti ad ottenere
nella fase iniziale del processo una decisione rapida e definitiva, da parte della Corte di Cassazione, sulle
questioni di giurisdizione e di competenza. Hanno però perduto la loro rapidità nel corso del tempo, per
cui, essendo prevista la sospensione (che prima era automatica) spesso era utilizzato con scopi dilatori.

Il difetto di giurisdizione è regolato all’art. 37 il quale prevede l’ipotesi nei confronti dei giudici speciali,
della P.A. o dei giudici stranieri. “Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica
amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.
Il difetto è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo. In forza di una sentenza della
Cassazione è stato introdotto il principio per cui quando venga pronunciato il difetto di giurisdizione da
parte del giudice gli interessati possono proseguire il processo davanti all’organo munito di giurisdizione
senza incorrere nelle decadenze. La Cassazione ha anche stabilito che il difetto di giurisdizione non può
essere rilevato d’ufficio in sede di gravame in difetto di espresso motivo di impugnazione: infatti in questo
caso si formerebbe un giudicato implicito a riguardo nella pronuncia di merito.

Le parti, nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che dichiara il difetto
di giurisdizione, possono riproporre la domanda davanti al giudice nazionale che nella stessa è indicato
come quello munito di giurisdizione, e in tal caso sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della
domanda. Il giudice ad quem però può investire in via preventiva la corte di cassazione perché si pronunci
sulla giurisdizione. Se la domanda non è riproposta nel termine il processo si estingue.

Il regolamento di giurisdizione, regolato dall’art. 41, abbraccia tutte le questioni previste all’art. 37, è
proponibile in cassazione e ha carattere preventivo: per questo non rientra tra i mezzi di impugnazione. È
proponibile dal momento in cui il giudizio è pendente quindi dalla notificazione della citazione o dal
deposito del ricordo. È consentito anche per i procedimenti speciali e cautelari (non è precluso
dall’emanazione del decreto ingiuntivo o di provvedimenti urgenti) e in quelli innanzi a giudici speciali. È
proponibile finché non sia assunta la causa in deliberazione. Una volta superata questa non è più ammesso,
anche se non sia pubblicata la sentenza. È precluso anche in caso di decisione parziale sul merito o da
pronuncia con contenuto esclusivamente processuale: è per questo che è preventiva. La cassazione ha
affermato l’improponibilità del regolamento di giurisdizione in seguito alla sentenza di primo grado sulla
giurisdizione, la quale sarà impugnabile con l’appello. Fino al 1990 quando si proponeva regolamento di
giurisdizione operava una sospensione automatica del processo. Nel 1990 invece la norma è stata
modificata nel senso che il giudice di merito sospende il processo se non ritiene l’istanza manifestamente
inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. La sua valutazione non ha
influenza sul giudizio della Cassazione. Se la Cassazione conferma la giurisdizione del giudice adito questa
non potrà più essere contestata. Il regolamento si propone nelle forme del ricorso per cassazione, anche se
non è richiesta la illustrazione dei motivi e delle norme di diritto che si assumono violate, è indispensabile
l’esposizione dei fatti rilevanti ai fini della pronuncia sulla giurisdizione.

Se la P.A. non sia parte in causa e ritenga che un affare sottoposto al giudice ordinario difetti di
giurisdizione può chiedere alla Cassazione, con decreto motivato del prefetto in ogni stato e grado del
processo fino a che la giurisdizione non sia affermata con sentenza passata in giudicato, che sia pronunciato
il difetto di giurisdizione. Questo perché la Cassazione, secondo la costituzione, è competente di decidere
dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello stato.

Il regolamento di competenza è regolato dagli artt. 42 e seguenti. Ogni pronuncia sulla competenza è fatta
con ordinanza dal 2009, ma se prima di decidere sulla competenza il giudice decida altre questioni di natura
processuale o materiale, sarà emessa una sentenza. Prima di pronunciarsi sulla competenza il giudice deve
invitare le parti a precisare le conclusioni, fissando a tal proposito un’udienza. È disputato se si tratti di un
mezzo di impugnazione, perché manca del requisito della soccombenza (non è necessario, cioè, aver avuto
torto nella lite per sollevare il regolamento di competenza, anche la parte vincente ha interesse a sollevarlo
per avere un provvedimento che risolva definitivamente questo problema). In realtà questo requisito non è
previsto esplicitamente in nessuna norma e il regolamento di competenza è inserito tra i mezzi di
impugnazione dall’art. 323 e gli articoli 42 e 43 parlano dello stesso come di impugnazione, ergo nel
sistema della legge è preferibile la tesi che lo considera un mezzo di impugnazione. Non è invece un mezzo
di impugnazione il regolamento di ufficio, essendo uno strumento a disposizione del giudice non delle parti.
Il regolamento di competenza decide su qualsiasi questione attinente alla competenza, mentre sono
escluse quelle che riguardano la ripartizione delle materie dentro lo stesso ufficio giudiziario, quelle
attinenti alla riunione di processi e quelle che comportano solo un mutamento di rito. Secondo la
giurisprudenza trova applicazione anche rispetto ai provvedimenti emessi in grado di appello.

Il regolamento di competenza su istanza di parte può essere:

- Necessario. In questo caso è l’unico mezzo di impugnazione consentito contro l’ordinanza che
pronuncia sulla competenza, senza decidere il merito della causa (se il giudice decide sulle spese
però rimane comunque necessario). L’ordinanza sulla sola competenza è definitiva se è negativa o
declinatoria, salva la riassunzione davanti al giudice indicato come competente, cosa che comporta
la prosecuzione del processo che sarà retto dall’atto introduttivo originale. Non è definitiva invece
se afferma la competenza del giudice adito.
- Facoltativo. Quando una sentenza abbia pronunciato anche sul merito, il regolamento di
competenza non è più l’unico mezzo di impugnazione, ma concorre con quelli ordinari. La parte
interessata propone regolamento di competenza se vuole impugnare solo le statuizioni sulla
competenza, se vuole invece impugnarle unitamente al merito utilizza i mezzi di impugnazione
ordinari. Se impugna solo il merito la statuizione sulla competenza passa in giudicato per
intervenuta acquiescenza. Se viene proposta impugnazione ordinaria, le altre parti possono
comunque proporre regolamento di competenza avverso il capo della sentenza che abbia statuito
sulla competenza stessa. Nel caso, se il regolamento di competenza è proposto per primo, i termini
per l’impugnazione ordinaria si sospendono e ricominciano a decorrere dalla comunicazione della
sentenza. Se invece viene proposto prima, si ha la sospensione del processo.

L’ordinanza sulla competenza è idonea alla formazione del giudicato formale (cioè passa in giudicato, non è
più impugnabile) ma non a quello sostanziale, e quindi la sua immutabilità non si proietta al di fuori del
processo. Quindi, non vincola il giudice in essa indicato come competente, che potrebbe negare la sua
competenza, infatti, teoricamente ogni giudice è libero di valutare la propria competenza. Questo però è in
contrasto all’economia dei giudizi e alla ragionevole durata dei processi. Per questo motivo si stabilisce che
l’ordinanza dichiarativa dell’incompetenza del giudice non impugnata con il regolamento, diventa
incontestabile in caso di riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente nei termini
stabiliti nella stessa ordinanza o, in mancanza, entro tre mesi. Se l’incompetenza è dichiarata per criteri di
materia o territorio inderogabile, il giudice ad quem può sollevare il regolamento di ufficio trasmettendo gli
atti alla cassazione, entro la prima udienza a pena di decadenza.

Il regolamento di competenza ad istanza di parte non si applica nei giudizi innanzi al giudice di pace: per le
stesse questioni possono usarsi solo i mezzi di impugnazione ordinari.

L’istanza di regolamento si propone con ricorso alla corte di cassazione che decide a sezione semplice ed in
camera di consiglio. Deve proporsi entro 30 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza o dalla proposizione
del gravame ordinario nel caso in cui questo venga proposto. Le parti che aderiscono al regolamento
possono sottoscrivere il ricorso, in modo che a loro non debba essere notificato. Invece al contumace a cui
non viene comunicata l’ordinanza sulla competenza, decorre il termine lungo dalla pubblicazione
dell’ordinanza. Il ricorso per regolamento può essere sottoscritto anche dal procuratore costituito nel
giudizio di merito. La parte che propone l’istanza deve depositare il ricorso, con i documenti necessari, nel
termine perentorio di 20 giorni dall’ultima notificazione alle parti. Se il regolamento è sollevato di ufficio il
giudice emette ordinanza, che comunica alla parte dispone la trasmissione del fascicolo di ufficio alla
cancelleria della cassazione (e le parti possono sempre, entro 20 giorni, depositare difese e documenti). La
corte decide in camera di consiglio con ordinanza praticamente entro sessanta giorni dalla notifica del
ricorso, termine ordinatorio mai rispettato. Con l’ordinanza la corte statuisce sulla competenza e sui
provvedimenti necessari per la prosecuzione del processo, eventualmente rimette le parti nei termini.

Il processo prosegue se viene riassunto, nel caso si regge sugli originari atti introduttivi, in mancanza di
riassunzione si estingue, ma la statuizione della competenza continua ad avere efficacia tra le parti se
ripropongono lo stesso giudizio.

ASTENSIONE, RICUSAZIONE, RESPONSABILITA’ CIVILE DEI GIUDICI

All’art. 51 comma 1 è prevista una serie di casi in cui, presupponendosi il venire meno dell’imparzialità del
giudice, questo abbia l’obbligo di astenersi. Si tratta di cinque punti:

1. Interesse nella causa o in altra causa vertente su identica questione di diritto (impedisce l’identità
tra giudice e parte).
2. Il giudice o il coniuge sono parenti fino al quarto grado, convivente, commensale abituale di una
parte o di un difensore.
3. Se lui o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito/debito con parti o
difensori.
4. Se ha dato consiglio, patrocinio, testimonianza alla causa o l’ha conosciuta come giudice di altro
grado, arbitro o consulente tecnico.
5. Se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, agente, datore di lavoro di una delle parti o di
una società che ha interesse nella causa.

Il secondo comma introduce la facoltà discrezionale di astensione in ogni altro caso in cui esistono gravi
ragioni di convenienza, ma deve essere autorizzata dal capo dell’ufficio e se riguarda lui dal capo dell’ufficio
superiore.

L’art. 52 regola la ricusazione del giudice, per il quale nel caso in cui ci sia per il giudice l’obbligo di
astenersi, ma questi non lo faccia, l’interessato ne richiede, mediante la ricusazione appunto, la
sostituzione con un altro magistrato. Secondo l’orientamento giurisprudenziale attuale (sviluppato dopo
una serie di sentenze della cassazione) l’ordinanza che decide sulla ricusazione non è immediatamente
impugnabile con ricorso straordinario in cassazione ex art. 111, ma una volta sollevata la questione, la
sentenza può essere impugnata per tutti i casi contemplati all’art 51. (ma per poter impugnare la sentenza
del giudice la parte deve aver chiesto la sua ricusazione). La ricusazione si chiede con ricorso contenente
l’indicazione specifica dei motivi e delle prove ed è rivolto al presidente del tribunale (se concerne il giudice
di pace) o al collegio (per tribunale o corte d’appello). Deve essere depositato almeno due giorni prima
l’udienza se si conosce il magistrato, altrimenti prima dell’inizio della trattazione. Il giudice competente
decide con ordinanza non impugnabile udito il giudice ricusato ed assunte le prove eventualmente offerte.
L’istanza di ricusazione sospende il giudizio che deve essere riassunto nel termine perentorio di sei mesi
dalla comunicazione dell’ordinanza che pronuncia su di essa.

La disciplina sulla responsabilità civile del giudice era contenuta agli artt. 55 e 56 ma sono stati abrogati da
un referendum popolare e ora la materia è regolata nella L. 117/1988. Le norme in questione si applicano a
tutte le magistrature e presupposto della responsabilità risarcitoria è aver causato un danno ingiusto per
effetto di un comportamento/atto/provvedimento giudiziario posto in essere con dolo o colpa grave (si
attenua il regime ordinario fondato sulla colpa ordinaria). La legge precisa i casi di colpa grave, che è
generalmente connessa a negligenza inescusabile, violazione della legge o del diritto UE, accertamento dei
fatti, emissione provvedimento cautelare fuori dai casi previsti dalla legge, diniego di giustizia. Il
danneggiato agisce contro lo stato in persona del presidente del consiglio, proponendo l’azione al tribunale
del capoluogo del distretto di corte d’appello più vicina a quello della sede del giudice cui è imputato
l’illecito. Se si riconosce la responsabilità dello stato, questo ha due anni per rivalersi nei confronti del
giudice, e la misura della rivalsa non può superare la metà della annualità di stipendio al netto delle
trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui fu proposta l’azione di risarcimento. Non si
applicano queste norme in caso di giudice che commette reato nell’esercizio delle sue funzioni.

DEL PUBBLICO MINISTERO

L’ufficio del PM è affidato a magistrati dell’ordine giudiziario e il loro compito è di vegliare sull’osservanza
delle leggi e alla pronta e regolare amministrazione della giustizia. È costituito presso i tribunali (procure
della repubblica), corti di appello e cassazione (procure generali). Il PM esercita l’azione civile ed interviene
nei processi civili nei casi stabiliti dalla legge. Quando sia richiesto dalla legge il suo intervento e questo
manchi, l’udienza non può essere tenuta.

Molto si è detto sulla natura giuridica del PM, andandolo ad analizzare però possiamo notare che il suo
ufficio è affidato a magistrati compresi nell’ordine giudiziario, quindi facenti parte della magistratura
ordinaria. Non emette però provvedimenti amministrativi impugnabili innanzi organi giudiziari. Per questo
motivo qualcuno ha teorizzato la natura di parte del PM, cosa che non convince perché non sta in giudizio
per difendere un proprio diritto, anzi è soggettivamente estraneo ai diritti che può dedurre in giudizio
nell’esercizio della azione civile. Quindi nel processo il PM è un mezzo tecnico volto a realizzare un fine
diverso, un interesse generale e pubblico: l’attuazione corretta della legge in un caso concreto. La sua
funzione, quindi, è assimilabile e concorrente al fine proprio della giurisdizione: il PM è uno dei modi di
concorrere all’esercizio della giurisdizione quando si voglia evitare che sia il giudice a procedere, così da
conservare la sua imparzialità. Il PM, quindi, sta nel processo come una parte ma esercita quei poteri al
diverso fine di affiancare il giudice per una corretta applicazione della legge, è un organo ausiliario del
giudice.

Il PM agente non è un sostituto processuale della parte, infatti la sua azione è concorrente, non sostitutiva
e trova un autonomo fondamento nella legge, a prescindere da ogni rapporto con il titolare del diritto e da
interessi particolari. Essendo che può agire in giudizio solo nei casi previsti dalla legge, si esclude che possa
agire quando la legge conferisce una azione a chiunque ne abbia interesse: non esiste un interesse del PM.
L’azione civile per il PM poi non hai il carattere dell’obbligatorietà tipica del processo penale. La cosa
giudicata si forma solo tra i soggetti del rapporto dedotto in lite.

I casi di intervento obbligatorio o necessario sono tassativamente indicati dalla legge e sono quei casi in cui
si esige che venga rimossa una situazione antigiuridica con il massimo rispetto delle norme di legge (cause
che egli stessi potrebbe proporre, cause matrimoniali comprese quelle di separazione personale dei
coniugi, cause riguardanti lo stato e le capacità delle persone, altri casi previsti dalla legge, anche davanti la
Cassazione ex. Art. 70). Altre leggi prescrivono l’intervento obbligatorio del PM nell’accertamento
processuale del documento in caso di querela di falso e nei giudizi di nullità per marchi di impresa.

Secondo l’art. 71, quando il giudice si trovi una causa per cui è previsto l’intervento obbligatorio del PM
ordina la comunicazione degli atti al PM perché possa intervenire (la comunicazione degli atti può essere
richiesta anche dallo stesso PM). L’intervento ha luogo mediante deposito in udienza o in cancelleria di una
comparsa di costituzione davanti al giudice istruttore, oppure, sempre mediante comparsa o prendendo
conclusioni orali da inserire a verbale, davanti l’udienza collegiale. Ma il PM non può considerarsi un
litisconsorte in senso stretto, il suo interesse è la corretta applicazione della legge, per cui non si applicano
le norme sull’integrazione del contraddittorio. Secondo la cassazione la prescrizione per cui in mancanza di
intervento obbligatorio l’udienza non può avere luogo, è rispettata quando il PM sia informato del
processo, anche se poi decida di non parteciparvi.

La nullità derivante dalla mancata informazione del processo è insanabile e può essere rilevata d’ufficio.
Perché la sentenza sia valida, però, il PM deve essere presente all’udienza collegiale. In caso contrario la
sentenza è nulla, con insanabilità rilevabile d’ufficio ma che può essere fatta valere nei limiti e secondo le
regole dei mezzi di impugnazione, ovvero opera il principio di assorbimento dei mezzi di gravame, inoltre
resta al PM il potere di chiedere la revocazione della sentenza entro 30 giorni dal momento in cui ne abbia
avuto conoscenza. Se il PM sia intervenuto in un giudizio e non gli sia notificato il gravame la giurisprudenza
applica l’art. 331, quindi si ritiene che il giudice dell’impugnazione debba impartire un termine perentorio
per integrare il contraddittorio nei riguardi del PM, e solo dopo il suo infruttuoso decorso l’inammissibilità
del gravame. Nel procedimento in Cassazione non si richiede la previa notifica del gravame al PM o
l’integrazione del contraddittorio, quando esso non abbia un autonomo potere di impugnazione della
sentenza -anche se ha l’obbligo di intervenire-.

Quando la legge prescrive l’intervento del PM bisogna assicurare la sua partecipazione anche nelle fasi
dell’impugnazione. In linea generale quindi l’impugnazione deve essere notificata all’ufficio del PM presso il
giudice che ha emesso la sentenza. Se il PM abbia il potere di azione o, anche se manchi questo, un diritto
autonomo ad impugnare la sentenza e sia l’unico contraddittore, la mancata o erronea notifica comporta
l’inammissibilità del ricorso. Se invece ci siano più parti, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio
in un termine perentorio e in caso di inottemperanza, il ricorso è inammissibile. Se il PM invece non ha il
potere di impugnare autonomamente la sentenza, l’omessa o irregolare notifica nel processo in cassazione
non comporta l’inammissibilità, mentre in appello il difetto è sanato dalla volontaria costituzione del PM
presso il giudice.

L’intervento facoltativo, regolato al comma 2 dell’art. 70, consente al PM di intervenire in ogni causa in cui
ravvisi un interesse pubblico. La valutazione può anche essere fatta dal giudice che può ordinare la
comunicazione al PM. Il PM in questo caso potrebbe non ritenere sussistente l’interesse per il suo
intervento e viceversa, il giudice potrebbe estromettere il PM intervenuto se non ritenga che sussisti il
pubblico interesse. Non è prescritta nella fase di gravame una integrazione del contraddittorio a favore del
PM. È stato previsto anche un intervento facoltativo per le azioni di classe istituite nel codice del consumo.
L’atto di citazione con la domanda risarcitoria nei confronti del consumatore in questo caso deve essere
notificato anche all’ufficio del PM, il quale può intervenire limitatamente al giudizio di ammissibilità.

L’art. 72 regola i poteri del PM. Il PM agente, cioè colui che sia legittimato ad agire, ha i medesimi poteri
processuali di una parte e li esercita nelle stesse forme. La sua posizione processuale, quindi, è autonoma
rispetto agli altri soggetti, anche se si esclude che possa compiere atti di disposizione del diritto sostanziale
o rinunciare all’azione (invece può rinunciare agli atti del giudizio o accettare la rinuncia da parte
interposta: si estingue il processo, ma si può riproporre l’azione). Il PM ha gli stessi poteri ma non gli stessi
obblighi processuali delle parti (specie quelli di natura pecuniaria). Egli può anche impugnare
autonomamente la sentenza, facoltà che spetta al PM presso il giudice a quo (per questo deve essere
notificata a lui l’impugnazione ed è ordinata presso di lui l’integrazione del contraddittorio).

Per quanto riguarda l’intervento senza legittimazione ad agire, l’art 72 ci dice che le possibilità per il PM
sono molto più limitate, infatti può solo produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusione nei
limiti delle domande poste dalle parti, non può sollevare eccezioni sostanziali riservate alle parti (per
esempio la prescrizione), la sua presenza non ostacola una transazione tra le parti e non impedisce di
rinunciare all’azione o di determinare l’estinzione del giudizio per inattività, non ha la facoltà di impugnare
la sentenza. Nei casi di sentenza di scioglimento del matrimonio, limitatamente agli interessi di figli minori,
di incapaci o dei coniugi, può impugnare la sentenza, e si applicano le norme sulle notifiche del gravame.

Per il PM sono valide le stesse norme in tema di responsabilità e astensione del giudice.
LE PARTI E I DIFENSORI. LE SPESE GIUDIZIALI

LE PARTI

Per il processo è essenziale individuare chi è che ha la legittima facoltà di promuovere l’esercizio della
giurisdizione attraverso l’azione giudiziale con la proposizione della domanda al giudice.

L’espressione parte è usata in una triplice accezione: parte del processo; quindi, gli autori dei fatti e delle
azioni da cui nasce il rapporto giuridico in contestazione; parti rispetto al tutto, quindi rispetto al complesso
di rapporti da loro posti in essere, e parti nel senso di titolari di diritti e obblighi nei confronti dei quali si
avverte l’esigenza di tutela giurisdizionale. Secondo l’art. 81 solo il titolare di un diritto è legittimato a farlo
valere in giudizio, ma questa definizione fa riferimento solo alle posizioni giuridiche sostanziali, mentre
occorre che questa sia trasferita sul piano processuale, dove le posizioni giuridiche sono appunto messe in
contestazione. Dal punto di vista del processo le parti si individuano attraverso la considerazione della
domanda giudiziale: è parte il soggetto che, in proprio nome, propone la domanda giudiziale e il soggetto
contro quale la domanda è rivolta.

Il riferimento alla domanda giudiziale come elemento individuante delle parti è inteso in senso formale, si
astrae cioè la titolarità dei diritti dedotti in lite. Il ragionamento muove dalla osservazione che chiunque
può proporre domanda giudiziale su un dato oggetto contro chiunque, senza che si possa sapere a priori se
attore e convenuto siano i reali titolari del rapporto giuridico. Questi acquistano la qualità di parte per il
solo fatto di aver provocato la pendenza del processo. Quando il giudice si pronuncia si potrà sapere se
queste siano anche i soggetti del rapporto in contesa, ovvero le “giuste parti”. Abbiamo quindi una
duplicazione del concetto di parte, da una quella puramente formale e dall’altra quella di giusta parte, da
cui emerge la scissione tra posizione processuale e sostanziale. Questa definizione però non permette di
individuare a priori chi abbia il diritto di proporre una determinata domanda. In quel momento l’unica
realtà giuridicamente ed effettivamente esistente è il processo e i suoi atti, in particolare la domanda
giudiziale, che contiene l’affermazione dell’esistenza di un diritto e della sua titolarità, per cui chi l’ha
proposta è al tempo stesso parte e giusta parte, così come il soggetto chiamato in giudizio. Non è infatti
corretto anticipare all’inizio del giudizio il suo esito finale. Quando si avrà la emanazione della sentenza si
saprà quale fosse la parte giusta. Il concetto di parte, quindi, comporta sempre un riferimento a posizioni
giuridiche sostanziali portate davanti al giudice; quindi, è connesso sia al processo che al merito. Il
rappresentante quindi, che agisce in nome e per conto altrui, non acquista la qualità di parte, a differenza
del sostituto processuale che agisce in nome proprio.

Il codice non definisce il concetto di parte ma detta le condizioni che devono sussistere perché chi agisca
compia degli atti processuali validi ed efficaci. Il compimento degli atti processuali è espressione di
autonomia soggettiva, ovvero del potere di libera autodeterminazione spettante ad ogni soggetto di diritto.
Perché il giudice possa esaminare le domande, queste devono provenire da soggetti che abbiano la
legitimatio ad processum (diversa dalla legitimatio ad causam, che riguarda la titolarità dell’azione e dei
diritti con essa dedotti) che è la capacità di proporre domande giudiziali e difendersi in giudizio. È un
presupposto della regolarità formale del processo e attiene pure alla regolare costituzione del
contraddittorio. Ci sono diverse categorie di soggetti che possiedono la capacità processuale:

- Persone fisiche. Si tratta delle persone che hanno il libero esercizio dei diritti che si fanno valere, e
di cui sono titolari (non si può esercitare un diritto se non ti appartiene). Processualmente coincide
con quella che in diritto privato è la capacità di agire. Chi ne è privo sta in giudizio per mezzo di altri
secondo le norme che regolano la loro capacità (rappresentante, curatore, ecc.). Il processo
condotto contro un incapace è invalido e il difetto può essere rilevato d’ufficio. Se non è rilevato si
sana retroattivamente con la costituzione del legale rappresentante dell’incapace o con
l’acquisizione da parte dello stesso della capacità processuale. La cessazione della rappresentanza
legale dell’incapace nel corso del processo, se dichiarato dal procuratore in giudizio, comporta la
sospensione del giudizio, altrimenti è irrilevante e il processo prosegue.
- Persone giuridiche. In questo caso si seguono le regole della rappresentanza organica, le persone
giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma di legge o dello statuto (se
muta l’individuo non ha rilievi pratici). Vale sia per enti privati che pubblici.
- Enti sprovvisti di personalità giuridica (associazioni, società di persone, comitati …) stanno in
giudizio a mezzo di coloro ai quali è conferita la presidenza o la direzione.

La rappresentanza processuale si divide in legale e volontaria. La prima serve per permettere a chi non ha la
capacità processuale di essere rappresentato in giudizio, la seconda invece è regolata all’art. 77. La
rappresentanza volontaria è ammessa alla duplice condizione che il soggetto a cui è conferita sia già il
procuratore generale o il procuratore preposto ad alcuni affari del soggetto e che sia conferita
espressamente per iscritto, tranne che per le misure urgenti e cautelari. Si presume conferita all’institore o
al procuratore generale di chi risieda o sia domiciliato all’estero. Si disputa, ma sembra implicitamente
escluso dalla legge, se sia giuridicamente possibile conferire volontariamente la rappresentanza mediante
procura solo per atti processuali. Dalle regole precedenti si desume però che essa è consentita solo se la
procura abbia ad oggetto anche i rapporti giuridici sostanziali. La sentenza emessa, e quindi il giudicato,
non sono opponibili al falsamente rappresentato, cioè nell’ipotesi in cui li processo sia stato condotto da o
contro il falsus procurator (colui che dichiari di stare in giudizio come rappresentante in nome e per conto
di un altro senza averne il potere). Si ritiene che il falso rappresentato conservi ogni mezzo di difesa
processuale contro la sentenza pronunciata illegalmente nei suoi confronti: opposizione ordinaria di terzo,
impugnazione ordinaria, eccezione in sede esecutiva. Oggetto di disputa è se il falsamente rappresentato
abbia l’onere di impugnare la sentenza notificatagli, parificata alla domanda giudiziale: Monteleone crede
che ciò non valga a sanare il difetto di contraddittorio, per cui non c’è questo onore e la sentenza non è
opponibile al falsamente rappresentato. Il soggetto può ratificare ex post l’operato del falso
rappresentante, infatti, l’invalidità della sentenza nasce da un vizio che lede la parte falsamente
rappresentata, ed oggi questa teoria, prima oggetto di disputa, è sancito all’art. 182 c.p.c. Nel caso manchi
il legale rappresentante dell’incapace o dell’ente o quando ci sia conflitto di interessi tra rappresentante e
rappresentato si nomina uno speciale curatore provvisorio.

L’art. 81 c.p.c. stabilisce che fuori dai casi espressamente previsti per legge nessuno può fare valere nel
processo in nome proprio un diritto altrui. Quando ciò è possibile si parla di sostituzione processuale,
diverso dalla rappresentanza in quanto il soggetto acquista la qualità di parte. Questo articolo, di matrice
dottrinale (Chiovenda) è criticato da Monteleone, perché in questo modo si dà alla nozione di parte una
connotazione esclusivamente processuale che astrae sia l’effettiva titolarità del diritto dedotto in giudizio,
si l’azione e la legittimazione ad agire. Infatti, i casi di sostituzione processuale sono previsti dal legislatore
per rendere possibile la difesa di un diritto o l’esercizio di un potere giuridico del sostituto (non si tratta di
mera sostituzione processuale di un soggetto con un altro), per esempio si ha nell’azione surrogatoria che è
un mezzo di conservazione patrimoniale (il creditore ha un interesse giuridico a conservare la massa
patrimoniale del debitore). Quindi il sostituto in realtà agisce per la difesa di una posizione giuridica propria
e lo fa in virtù di una facoltà conferitagli dalla legge, e questo spiega anche perché acquista la qualità di
parte. Inoltre, i casi di sostituzione processuale, proprio per questo motivo, sono anche casi di litisconsorzio
necessario. L’art. 81 comunque ci è utile perché fa intendere come nel disegno legislativo la qualità di parte
sia connessa alle posizioni giuridiche sostanziali e non divisa dalle stesse.

IL DIFENSORE

Secondo l’art. 82 la parte generalmente non può stare in giudizio da sola ma, per assicurare un adeguato
sostegno difensivo, sono gli avvocati a compiere gli atti del processo e a provvedere alla difesa giudiziale,
salvo alcuni casi espressamente regolati. Davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio
personalmente nelle cause di valore inferiore a 1.100 euro o se il giudice di pace, su istanza di parte e in
considerazione della natura e dell’entità della causa autorizzi con decreto a stare in giudizio di persona.
Davanti la Corte di Cassazione la parte sta in giudizio con il ministero di un avvocato iscritto all’apposito
albo. La parte o la persona che la rappresenta o assiste possono stare in giudizio senza altro difensore se
hanno le qualità necessarie per esercitare l’ufficio di difensore con procura (art. 86).

Nel 1997 sono state unificate le figure di procuratore e avvocato, rimanendo solo quest’ultima. All’avvocato
quindi spetta lo ius postulandi (facoltà di proporre domande in giudizio per il proprio patrocinato) e la
procura speciale di cui parla l’art. 83. Questa unificazione ha fatto venire meno la limitazione territoriale
che gravava sui procuratori (che potevano esercitare solo nel distretto di corte d’appello dell’albo in cui
erano iscritti).

L’incarico di rappresentare in giudizio la parte è dato tramite procura, che può essere generale (se riguarda
una categoria di liti indeterminata, a priori) e speciale (se è conferita per una specifica controversia). La
procura deve essere in forma scritta con atto pubblico o scrittura privata autenticata. La procura speciale
può essere apposta in calce o a margine di alcuni atti processuali elencati tassativamente (in tal caso
l’autografia è accertata dal difensore) o a margine della memoria di nomina di un nuovo difensore. Si
considera apposta in calce o a margine se in un foglio separato unito fisicamente all’atto. Se il giudice rileva
un vizio che determina la nullità della procura assegna alle parti un termine perentorio per sanarlo, e la
sanatoria ha effetto retroattivo. Se non disposto diversamente, la procura speciale si presume conferita per
un solo grado di giudizio. Dovrebbe essere conferita subito, ma si consente di conferirla dopo la notifica
della citazione ma prima della costituzione in giudizio (se non è conferita prima di questo momento la
costituzione in giudizio è nulla e la parte si considera contumace, salva la sanatoria). Con la procura il
difensore ha la rappresentanza processuale della parte, la quale riguarda solo la capacità di compiere e
ricevere nell’interesse dell’assistito tutti gli atti del processo. Non può compiere gli atti di disposizione. La
procura è l’atto con cui si manifesta il rapporto contrattuale, un rapporto di prestazione di opera
intellettuale, tra assistito e difensore, per cui sorgono obblighi reciprochi. Entrambi possono sempre
revocare o rinunciare alla procura, ma nel qual caso la cosa non è opponibile finché non si attribuisce la
procura al sostituto (altrimenti si utilizzerebbe come espediente per rallentare il processo). L’assistito deve
pagare l’onorario, la cui determinazione è rimessa alla trattativa tra le parti, in mancanza si usano i
parametri ministeriali e l'avvocato per conseguirli ha a disposizione le normali azioni giudiziali e un
procedimento speciale particolarmente rapido.

SPESE E DANNI NEL PROCESSO CIVILE. DOVERI TRA LE PARTI E DEI DIFENSORI

Il processo civile è molto costoso (onorari, spese giudiziali, consulenze tecniche, depositi …) per questo il
problema della ripartizione delle spese tra le parti è importante. Il sistema delinea due momenti. Il primo,
durante il processo, quando in via preventiva ciascuna parte anticipa le spese degli atti che compie e di
quelli che chiede, e di ogni altro atto necessario. Il secondo momento, in cui il giudice chiude il processo
emettendo la sentenza e condanna al pagamento alle spese le parti. Quindi è il giudice dopo a ripartire tra
le parti le spese del processo. In linea di principio segue il criterio della soccombenza: chi perde in giudizio
paga tutte le spese processuali. Ma non è sempre così, infatti nel caso di soccombenza reciproca o nel caso
di assoluta novità della questione trattata o cambiamento di orientamento giurisprudenziale il giudice può
operare una compensazione totale o parziale (prima non si prevedevano altre possibilità, ma la norma è
stata dichiarata parzialmente incostituzionale per questo motivo, quindi, è possibile anche per altre
ragioni). Secondo l’art 91, che regola appunto la condanna alle spese, nel caso di accoglimento di una
domanda in misura non superiore ad una proposta conciliativa che la parte abbia rifiutato senza giustificato
motivo, può comportare per questa la condanna alle spese successive alla detta proposta. La parte
vittoriosa può essere condannata a pagare le spese anche nel caso di violazione del dovere di lealtà e
probità sancito all’art. 88 c.p.c. è possibile distrarre il risarcimento delle spese a favore dell’avvocato della
parte, se questo dichiari di aver anticipato le spese giudiziali e di non aver percepito l’onorario.
Ma quale è il fondamento di questa condanna alle spese al soccombente? L’agire o il resistere in giudizio
non comportano un illecito giuridico, anzi è un diritto. Allo stesso tempo la necessità di ricorrere al giudice
non deve tornare a danno a chi ha ragione. Allora si usa il criterio della soccombenza in maniera oggettiva
come soluzione basata sul buon senso. Ma comunque restano perplessità, perché se la parte soccombente
non ha commesso illecito, si trova esattamente nella stessa posizione della parte vittoriosa, e questo
prescinde da qualsiasi valutazione normativa. Monteleone, quindi, ritiene di dover distinguere due facce:
agire o resistere in giudizio, in rapporto con l’autorità statale, è un diritto e una facoltà pienamente
legittima (siamo nel campo però del diritto pubblico). Ma nel rapporto tra le parti in causa costringere
qualcuno ad agire in giudizio per far valere un proprio diritto o trascinarlo in giudizio rivendicando un diritto
inesistente è un comportamento illecito generatore di responsabilità. Tale responsabilità è di natura
contrattuale – la colpa è sempre presunta- ma in caso di gravi ed eccezionali ragioni il giudice può negare in
tutto o in parte la condanna alle spese.

L’art. 96 disciplina la responsabilità per danni nascente dall’abuso dello strumento processuale e si
aggiunge alle spese, si tratta di una sottospecie dell’art. 2043 c.c. e profila due ipotesi. Nella prima i
presupposti per il risarcimento sono la soccombenza, l’avere agito o resistito in giudizio con mala fede o
colpa grave, l’istanza della parte danneggiata e l’esistenza di un danno patrimoniale che ecceda le spese
giudiziali normalmente ripetibili. Nella seconda i presupposti sono l’aver eseguito senza la normale
prudenza uno degli atti elencati (esecuzione di un provvedimento cautelare, trascrizione della domanda
giudiziale, iscrizione ad ipoteca giudiziale, inizio o compimento dell’esecuzione forzata), l’accertamento
della inesistenza del diritto in base al quale l’atto è stato compiuto, domanda della parte danneggiata e
danno patrimoniale. Nel caso in cui non si possa applicare l’art. 96 non è applicabile quello dell’art. 2043
c.c. essendo in rapporto di genus a specie tra loro. L’inconveniente dell’art. 96 è che è richiesto per il primo
comma la colpa grave o il dolo, mentre all’art. 2043 si richiede anche solo una colpa normale o lieve.
L’istanza risarcitoria basata sull’art. 96 deve essere rivolta al giudice davanti al quale pende il giudizio o che
accerti l’inesistenza del diritto, salvo ciò sia impossibile. All’art. 91 si aggiunge che in ogni caso il giudice può
d’ufficio, insieme alla condanna alle spese, condannare la parte soccombente al pagamento della
controparte una somma equitativamente determinata.

L’art. 88 impone alle parti e ai difensori di comportarsi con lealtà e probità in giudizio, esprimendo il
principio per cui la difesa del proprio non può giungere a comportamenti che paralizzino o menomino la
difesa altrui. Quando l’azione sleale e scorretta è tale da determinare l’emanazione di una sentenza ingiusta
interviene uno speciale mezzo di impugnazione, la revocazione, se non si giunge a tanto questi
comportamenti sono comunque sanzionati: il giudice ha l’obbligo di riferirli alle autorità che esercitano il
potere disciplinare sugli avvocati e può condannare (ex art. 92) anche la parte vittoriosa al pagamento delle
spese cagionate da essi. C’è poi un divieto di utilizzare espressioni sconvenienti o offensive negli scritti e nei
discorsi difensivi.

DELL’ESERCIZIO DELL’AZIONE

AZIONE, LEGITTIMAZIONE, INTERESSE

La facoltà di adire i tribunali, il diritto astratto del cittadino di agire in giudizio per chiedere al giudice una
sentenza, è una condizione fondamentale per l’esistenza stessa dell’ordinamento giuridico e di uno stato di
diritto, motivo per cui è sancito all’art. 24 Cost. “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti
ed interessi legittimi”. Il problema è capire il rapporto tra diritto soggettivo e diritto di agire in giudizio. Se si
guarda alla teoria per cui chiunque può agire in giudizio si capisce che è erronea in quanto, in primo luogo
non dà nessuna risposta a quell’interrogativo, in secondo luogo porta a conseguenze inaccettabili sul piano
del processo civile (se tutti possono agire contro tutti per tutelare diritti che siano propri o no si giunge ad
una negazione della giurisdizione stessa).
Inizialmente l’azione era concepita come una facoltà o un potere ricompreso nel diritto soggettivo
sostanziale. Fu Chiovenda a rompere con questa tradizione e a teorizzare un’azione giudiziale che fosse
essa stessa un autonomo diritto soggettivo attraverso cui il diritto sostanziale fosse portato alla cognizione
del giudice, adesso è opinione unanime in dottrina. L’azione, quindi, è diversa dal diritto sostanziale in più
punti:

- Nell’oggetto, perché a questo diritto non corrisponde nessun obbligo in capo al convenuto, che
semplicemente subisce l’azione giudiziaria
- Nella direzione soggettiva, perché ha due destinatari, il convenuto e il giudice a cui si chiede
l’emanazione di un provvedimento che dichiari il diritto sostanziale controverso
- Nella disciplina, l’azione soggiace alla disciplina processuale che è di carattere pubblicistico

Dopo lo studio di Chiovenda si aprì un dibattito sul problema del carattere dell’azione giudiziale: cioè se sia
concreto, come sostenuto da Chiovenda, o astratto. Il primo vuol dire che il diritto di azione spettava
soltanto all’effettivo titolare del diritto sostanziale; cioè a chi ha ragione, quindi non a chiunque sic et
simpliciter. I diritti sostanziale e d’azione sono strettamente connessi, perché quello d’azione è
conseguenza del primo. Chiovenda sapeva perfettamente ovviamente che il processo può essere
incardinato da chi non è il titolare del diritto e infine risulti soccombente, e allora distinse ulteriormente tra
azione e processo: la prima spetta solo a chi ha ragione, effettivo titolare del diritto sostanziale; il secondo
invece è quel complesso strumento che serve a ottenere un provvedimento giudiziale di qualunque tipo.
Dall’impostazione di Chiovenda si configurarono poi due scuole di pensiero:

1. Teoria processuale: l’azione è un diritto alla prestazione giudiziaria in astratto, è volto ad ottenere
un provvedimento giudiziale qualunque esso sia.
2. Teoria sostanziale: il diritto di azione è volto ad ottenere un provvedimento favorevole.

Il diritto di azione dal punto di vista astratto è di importanza fondamentale per l’impostazione
costituzionale dell’ordinamento.

Coerentemente con questa impostazione Chiovenda distinse tra le condizioni dell’azione da un lato, e i
presupposti processuali dall’altro.

Condizioni dell’azione: sarebbero quelle che devono sussistere per l’accoglimento della domanda, cioè per
vincere la causa. Sono: legittimazione ad agire, interesse ad agire e possibilità giuridica, cioè l’esistenza di
una norma di legge che garantisca il bene della vita richiesto dall’attore. Si tratta di questioni di merito.

I presupposti processuali, invece, attengono alla titolarità del diritto. Viene ancora considerata una
questione di merito. Si sostanzia nell’effettiva titolarità del diritto dedotto in lite. Essendo che il diritto
sostanziale all’inizio del processo non esiste, non è certo la giurisprudenza ha affermato che è legittimato
ad agire chi si afferma titolare del diritto. Questa legittimazione è oggetto di una verifica da parte del
giudice che può avvenire in ogni stato e grado del giudizio. Secondo la giurisprudenza più recente l’effettiva
titolarità del diritto è una questione di merito, che attiene al merito della causa, mentre la legittimazione ad
agire è annoverata tra le questioni di rito e consiste nell’asserita titolarità della posizione giuridica
soggettiva dedotta in lite. Secondo Monteleone invece in questo modo si avrebbe la facoltà di
autolegittimarsi, cosa che sostanzialmente coincide con la legittimazione diffusa ad agire. Egli sostiene che
la legittimazione ad agire integri una questione di merito, per cui la domanda è legittima se proviene dal
titolare del diritto e dell’azione o se è rivolta contro il soggetto titolare della posizione giuridica
contrapposta rispetto a quella invocata dall’attore, che quindi abbiano un reale interesse a contraddire e a
difendersi. La legittimazione ad agire e contraddire è una questione preliminare di merito il cui oggetto è
costituito dall’appartenenza effettiva delle parti delle posizioni giuridiche attive e passive dedotte in
giudizio.
Secondo l’art. 100 c.p.c. per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi
interesse. L’interesse ad agire quindi, a differenza della legittimazione, è codificato. Questo articolo
contiene una norma che vale per qualsiasi attività processuale: l’interesse deve essere presente per
qualunque attività processuale rimessa all’iniziativa delle parti, altrimenti questa sarà inammissibile.
Secondo Chiovenda l’interesse ad agire rientra tra le condizioni per l’accoglimento della domanda, con la
conseguenza che non solo debba sussistere all’inizio del processo ma deve perdurare durante tutto il
giudizio. L’interesse deve essere concreto, attuale e giuridicamente rilevante. Secondo la formula adottata
dalla giurisprudenza consiste nell’utilità concreta del provvedimento richiesto al giudice per tutelare il
diritto dedotto in lite. Questa utilità si atteggia in modo diverso a seconda dal tipo di azione che si
intraprende. Il suo difetto può essere rilevato di ufficio in ogni stato e grado del processo.

L’ultima condizione è che il bene della vita di cui si chiede la tutela deve essere espressamente previsto da
una norma di legge. (legittimazione ad agire, interesse ad agire e previsione legislativa del diritto o
interesse legittimo sono le condizioni per l’accoglimento della domanda).

LA DOMANDA ED IL CONTRADDITTORIO

Secondo l’art. 99, chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente.
Secondo l’art. 2907 c.c. alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di
parte. Si enuncia così il principio della domanda: l’esercizio della giurisdizione civile è rimesso alle parti, che
hanno la facoltà esclusiva di esercitarlo. Questo principio costituisce un aspetto fondamentale della
soggettività del diritto, perché solo il suo titolare può decidere se agire o no in sua difesa, senza ingerenze
di sorta. Compito degli stati liberi è garantire a tutti la facoltà di agire e difendersi in giudizio per la tutela
dei propri diritti e interessi e il corretto esercizio della funzione giurisdizionale. Quando sorge la
controversia il diritto soggettivo è oggetto di incertezza, che verrà sciolta solo dalla sentenza (essendo
contrastato dall’altra parte). Dal momento in cui viene proposta, l’azione produce effetti sostanziali, ovvero
è produttiva di effetti giuridici sul diritto o sulla posizione giuridica portata alla cognizione del giudice
questo perché la pendenza della lite non deve tornare in danno a chi abbia necessità di promuoverla e,
secondo Monteleone, perché il diritto sostanziale nella fase del processo si manifesta ed esiste solo come
azione. Possiamo dire che la domanda giudiziale è la forma attraverso cui si esercita l’azione (diritto di
rivolgersi al giudice). Quindi azione e domanda sono due concetti diversi.

La domanda giudiziale è l’atto processuale di parte nel quale si concreta l’azione e costituisce il processo in
ogni senso. Determina una serie di effetti. Quelli processuali sono:

- Litispendenza, nell’eccezione generica di pendenza del giudizio


- Fissazione della competenza e della giurisdizione, per il principio della perpetuatio jurisdizionis.
- Identificazione delle parti in giudizio
- Oggetto del giudizio, la domanda, infatti, circoscrive il potere decisionale del giudice.

Gli effetti sostanziali sono:

- Interruttivo- sospensivo della prescrizione


- Impedisce la decadenza
- Decorso di nuovi interessi, diritto ai frutti

Gli elementi costitutivi della domanda giudiziale sono:

- Le parti, ovvero la componente soggettiva. L’attore è chi propone la domanda giudiziale, e il


convenuto è il soggetto contro cui è rivolta. Si può avere anche un processo con pluralità di parti
(dal lato attivo, da quello passivo o da entrambi i lati), la quale può essere originaria o sopravvenuta
nel corso del giudizio instaurato.
- Il petitum o l’oggetto, è ciò che l’attore chiede nella domanda giudiziale. Si distingue tra petitum
immediato, cioè il provvedimento che si chiede al giudice, e il petitum mediato, il bene della vita in
concreto chiesto dall’attore attraverso il provvedimento. Secondo Monteleone questa distinzione è
un’illusione, poiché ciò che davvero interessa alla parte è se il bene della vita, per mezzo del
provvedimento del giudice, può essere dalla stessa ottenuto. La distinzione riporta al fatto che la
domanda giudiziale è rivolta al convenuto e al giudice. Secondo Monteleone però il petitum è il
bene della vita richiesto dall’attore al convenuto, giuridicamente inteso e determinato, cioè
l’oggetto della posizione giuridica sostanziale.
- La causa petendi, che in linea generale si può definire come la ragione della domanda, più nello
specifico il titolo giuridico su cui la domanda si fonda, in una definizione che resta molto generica.
Secondo alcuni è il fatto costitutivo da cui sorge il diritto, secondo altri è il diritto stesso, altri
ancora dicono che sono entrambi. Possiamo dire insomma che è l’insieme dei fatti giuridici
costitutivi del diritto dedotto in giudizio (fatti non come accadimenti storici ma nella loro rilevanza
giuridica).

La domanda giudiziale si identifica sulla base di questi elementi. Ma il loro cambiamento non sempre
determina il mutamento della domanda giudiziale. Questo cambiamento avviene sempre se muta il
petitum, cioè l’oggetto della domanda. Può invece mutare la causa petendi senza che muti la domanda, per
i diritti o domande autodeterminate, cioè i diritti assoluti e reali, poiché rispetto ad essi la vicenda
acquisitiva è irrilevante. Ciò non può avvenire per quelli eterodeterminati, cioè per i diritti relativi e
personali, in cui mutando i soggetti muta anche il diritto e con esso la domanda giudiziale. Tendenzialmente
al mutare degli elementi c’è una domanda nuova, ed è vietato il mutamento della domanda nel corso del
processo, infatti, è la domanda che determina l’oggetto del giudizio, e il giudice ha l’obbligo di pronunciare
su di essa, e non oltre i suoi limiti, per rispettare il principio della domanda. L’oggetto del giudizio a sua
volta non può essere cambiato ma può essere ampliata la cognizione del giudice, per l’azione del convenuto
o dello stesso attore, per mezzo di eccezioni in senso proprio. Quindi, l’oggetto del giudicato che risulta
dalla sentenza non sempre e non necessariamente si modella sull’oggetto della domanda, anche se sussiste
una tendenziale coincidenza tra l’uno e l’altro.

La domanda giudiziale è la prima fase per l’instaurazione del contraddittorio, che è il fondamento del
processo civile ed è assicurato formalmente all’art. 101 c.p.c. Il giudice sarà investito del potere di
conoscere la controversia solo dopo la chiamata in giudizio del convenuto attraverso i modi di legge. Quelle
che sembrano eccezioni a questo principio sono solo apparenti, in realtà si tratta di casi in cui lo stesso
viene differito o rimesso all’iniziativa del soggetto contro il quale è indirizzata la domanda. Oltre all’aspetto
formale (deve instaurarsi secondo i modi di legge) il contraddittorio ne ha uno sostanziale, infatti la
chiamata in giudizio, per un corretto suo instaurarsi, deve essere rivolta alla persona che ha interesse a
contraddire. Da tutto ciò si evince la necessaria bilateralità della domanda giudiziale. Tutti i requisiti formali
imposti dalla legge ad integrare lo schema dei vari atti introduttivi, di conseguenza, sono sempre funzionali
alla instaurazione del contraddittorio. Il secondo comma dell’art. 101 invece regola l’eventualità che il
giudice decide su una questione rilevabile d’ufficio e non sollevata dalle parti e recita “se (il giudice) ritiene
di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione,
assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a 20 giorni e non superiore a 40 giorni
dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazione sulla medesima
questione”. In mancanza la sanzione è la nullità della sentenza, ma a questo vizio si applica il principio
generale dell’assorbimento delle nullità processuali nei mezzi di gravame.
Si può avere concorso di azioni, o concorso di diritti, nel caso in cui uno stesso bene della vita può essere
chiesto ed ottenuto in giudizio sulla base di diversi fatti costitutivi e quindi diversi diritti soggettivi. Si
differenzia dal concorso di norme giuridiche, che si ha quando uno stesso diritto è tutelato da più norme di
legge, nel qual caso il concorso è solo apparente. Il concorso di azioni può essere soggettivo, quando una
pluralità di soggetti è titolare di un diritto e di una azione aventi identico oggetto e contenuto; e oggettivo,
quando un medesimo bene può essere chiesto ed ottenuto tra le stesse persone in base a diversi diritti e
fatti costitutivi. L’esperimento di una solo di esse estingue tutte le altre (uno stesso bene non può essere
ottenuto più volte). Se una viene invece respinta si possono esercitare le altre, nel qual caso comporta un
mutamento della domanda.

PLURALITA’ DI PARTI E SUCCESSIONE: LITISCONSORZIO

Con il termine litisconsorzio si indicano tutti i casi in cui un processo sia condotto in confronto ad una
pluralità di soggetti (ci sono più delle due parti indispensabili).

Il litisconsorzio necessario è regolato all’art. 102 c.p.c. secondo il quale quando una sentenza debba essere
pronunciata nei confronti di più parti, queste devono agire o essere convenute nello stesso processo, e se
ciò non avvenga il giudice ha l’obbligo di ordinare l’integrazione del contraddittorio impartendo un termine
perentorio alle parti per la chiamata in giudizio del litisconsorte necessario, il cui decorso infruttuoso
comporta l’estinzione del processo (questo per ragioni di economia processuale, in modo da conservare la
domanda giudiziale che altrimenti sarebbe nulla). Si tratta di una norma in bianco, infatti non dice
esplicitamente quali siano i casi. Dal punto di vista del processo il litisconsorzio necessario è una
conseguenza dei principi della domanda, del contraddittorio e della legittimazione ad agire. Ci sono due
grandi categorie di litisconsorzi necessari: i casi in cui sono le norme di legge a imporlo, in cui non ci sono
margini di dubbio (Monteleone considera indifferente la distinzione tra litisconsorzio reso necessario da
ragioni sostanziali o da opportunità processuali); i casi in cui sussiste la necessità del litisconsorzio
necessario non predeterminabili, che i giudici lo riscontrano nelle situazioni e nei rapporti giuridici (es. soci
di società di persone). Chiovenda, per spiegare la ragione giustificatrice del litisconsorzio necessario, disse
che esso sussiste quando una sentenza pronunciata nei confronti di alcune e non di tutte le parti, è
inutiliter data. L’utilità di cui parla Chiovenda è un’utilità giuridica, perché si tratta di casi in cui la sentenza
è pronunciata a contraddittorio non integro, per cui non ha valore giuridico. Infatti, il suo contenuto non fa
stato nei confronti del litisconsorte pretermesso che ha diritto che si giudichi di nuovo nei confronti di tutte
le parti. Questo anche se è passata in giudicato, infatti in mancanza di contraddittorio un processo è tale
solo in apparenza. I litisconsorti pretermessi conservano verso la sentenza ogni possibilità di difesa.

Il litisconsorzio facoltativo, regolato all’art. 103, è l’istituto che consiste nel cumulo processuale di una
pluralità di cause intercorrenti i tra parti diverse o (nel caso regolato all’art. 104) tra le stesse parti. La ratio
dell’istituto è l’economia processuale. Il litisconsorzio facoltativo può essere:

- Proprio, quando le cause siano connesse per l’oggetto o per il titolo, in questo caso può derogarsi la
competenza territoriale ordinaria (richiama l’art 33 c.p.c.). Inoltre, la causa di valore inferiore può
essere spostata davanti al giudice superiore.
- Improprio, quando la decisione delle varie liti cumulate dipenda totalmente o parzialmente dalla
risoluzione di questioni identiche. In questo caso non è ammesso nessuno spostamento di
competenza, quindi, è possibile solo se tutte le cause appartengono alla competenza dello stesso
giudice.

Se il fine di economia processuale non si può raggiungere il giudice di ufficio, sia nella fase istruttoria che in
quella decisoria, può disporre la separazione delle cause. Lo stesso può fare su istanza concorde di tutte le
parti. Quindi si tratta solo formalmente di un processo unico, ma al suo interno si divide in tante cause.

L’art. 104 regola il caso di pluralità di domande contro la stessa parte, domande che tra loro non sono
connesse: si ha in questa ipotesi un cumulo processuale di liti tra le stesse parti. Secondo l’art. 10, essendo
proposte contro la stessa persona, il valore si calcola sommando il valore di tutte le domande proposte.

: INTERVENTO

Il codice differenzia le varie forme di intervento di terzi in una causa già pendente tra altri soggetti. Si deve
distinguere tra intervento volontario del terzo e intervento coatto. L’intervento coatto può essere ad
istanza di parte o per ordine del giudice. L’intervento volontario, secondo una dottrina recepita del codice,
è un istituto triplice, dovendosi distinguere tra intervento volontario principale, litisconsortile o adesivo
autonomo. Riguardo ai vari gradi di giudizio devono distinguersi gli interventi in prima istanza e quelli in
appello. Per inquadrare le varie forme di intervento deve guardarsi alle posizioni giuridiche sostanziali che il
terzo porta al processo, da cui discendono gli aspetti processuali. Il principio ispiratore di questa disciplina è
l’economia dei giudizi, che è realizzata nel senso di evitare uno spreco di attività giurisdizionale e nel senso
di evitare eventuali conflitti di pretese basate su giudicati divergenti.

L’intervento volontario principale è il mezzo formale con cui si pongono nuove domande e si instaura un
nuovo giudizio contro le parti di una causa pendente, verso le quali si deduce e si oppone un autonomo
diritto sull’oggetto del contendere. Il terzo quindi fonda la propria pretesa su un diritto soggettivo su un
bene che è autonomo ed esclusivo. Di conseguenza è titolare dell’azione e della legittimazione ad agire
volte alla sua tutela giurisdizionale, che può esercitare proponendo una domanda giudiziale
autonomamente, impugnando la sentenza pronunciata inter alios con opposizione di terzo ordinaria o con
l’intervento. Con l’intervento, quindi, si crea un cumulo di cause in un processo unico (come nel
litisconsorzio facoltativo e nella riunione), con la giustificazione di una particolare forma di connessione
data dall’incompatibilità dei rapporti giuridici e dei diritti soggettivi aventi il medesimo oggetto o contenuto
(la stessa che giustifica il litisconsorzio facoltativo e lo spostamento di competenza). È regolato dall’art. 105
comma 1, che dice che si ha nel caso in cui il terzo faccia valere contro tutte le parti un diritto proprio
dipendente da titolo dedotto in giudizio e il cui oggetto coincida (anche solo parzialmente, anche se non è
esplicitato nell’articolo) con quello delle pretese delle parti originarie.

Nell’intervento litisconsortile (o intervento adesivo autonomo) si verifica il caso in cui un terzo interviene
per far valere in confronto di una o alcune parti già in lite un proprio diritto dipendente dal titolo, o relativo
all’oggetto, portato in giudizio. Rispetto all’intervento principale autonomo, manca l’oggettiva
incompatibilità tra tutti i diritti e le pretese delle parti: l’azione dell’interveniente si affianca a quella di una
delle parti originarie con la quale si ha coincidenza di interessi (es: più soggetti titolari dello stesso diritto
sullo stesso bene). Si tratta sempre di una posizione giuridica autonoma collegata per l’oggetto o per il
titolo a quelle delle parti in causa: il terzo interveniente è legittimato ad agire per la difesa giudiziale di
questa sua posizione (si ha anche qui un cumulo di cause giustificato da una particolare forma di
connessione per l’oggetto o il titolo). L’intervento litisconsortile è, quindi, un mezzo facoltativo di difesa.
Questi casi sono quelli in cui ci sia una contitolarità di uno stesso diritto o una titolarità autonoma in base a
diversi interessi di una azione che sia volta allo stesso fine (es: ci sono più soggetti che per motivi diversi
chiedano la dichiarazione di nullità di un atto). Si distinguono dai casi di collegittimazione all’esercizio della
stessa azione o legittimazione congiunta, in cui l’esercizio di azioni identiche nasce dallo stesso titolo o dalla
stessa situazione giuridica: in questi il terzo che non interviene o promuove tempestivamente un autonomo
giudizio che si riunisce a quello già proposto, non potrà più esercitare l’azione, perché quando sono
esercitate si consumano per tutti i collegittimati.

Al comma 2 l’art. 105 ci dice che il terzo può intervenire per sostenere le ragioni di alcune delle parti
quando vi ha un proprio interesse. Stiamo parlando dell’intervento adesivo dipendente. L’interesse qui non
è un mero interesse di fatto, ma deve essere giuridicamente qualificato e nasce da quel nesso di
pregiudizialità- dipendenza che collega la posizione del terzo con la posizione della parte adiuvata. Tra i due
deve sussistere un rapporto giuridico tale per cui il terzo può essere pregiudicato dal disconoscimento delle
ragioni della parte adiuvata: se questa soccombe in giudizio, il terzo ne è pregiudicato, e da qui il suo
interesse. Per esempio, nel giudizio promosso dal locatore contro il conduttore per la risoluzione del
contratto, interviene il sub-conduttore per sostenere le ragioni del conduttore. O ancora nella fideiussione,
il fideiussore interviene per sostenere le ragioni del debitore. Il terzo che interviene in questo caso ha
facoltà e poteri più limitati delle parti originarie, poiché non c’è un diritto connotato da autonomia: non
introduce nuove azioni o domande ma si limita a sostenere le ragioni di una delle due parti in quanto
interessato ad acquisire al proprio patrimonio la sentenza che verrà pronunciata sul rapporto principale,
non può svolgere difese contrastanti e deve subire la eventuale rinuncia o acquiescenza della parte, non
può impugnare autonomamente la sentenza. Alcuni hanno sostenuto che il terzo interverrebbe per non
subire gli effetti vincolanti del giudicato reso inter alios, ma parte della dottrina dissente: il giudicato, ex.
Art 2909 c.c. fa stato solo nei confronti delle parti, eredi ed aventi causa. Se il terzo non interviene non
subisce l’autorità di cosa giudicata ma piuttosto, in ragione del nesso pregiudizialità -dipendenza, ne
subisce gli effetti che derivano da quello stesso rapporto.

In tutti e tre i casi si tratta di intervento volontario del terzo nel processo. Si attua processualmente con
deposito ad opera del terzo interveniente, udienza o in cancelleria, di una comparsa modellata su quella di
risposta, con le copie per le altre parti, i documenti e la procura. Può aver luogo fino all’udienza di
precisazione delle conclusioni. L’intervento del terzi non può essere un modo per superare le preclusioni
formatesi tra le parti originarie, per cui se il terzo fa valere diritti propri e autonomi può richiedere prove a
sostegno delle proprie domande e si riapre l’istruttoria, poiché le parti hanno diritto a controdedurre. Se
invece aderisce soltanto alla posizione di una delle parti subisce tutte le preclusioni che sono state formate
al momento del suo intervento

All’art. 106 è regolato l’istituto dell’intervento su istanza di parte: “ciascuna parte può chiamare nel
processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita”. Al suo interno si
distinguono due istituti: la chiamata del terzo per essere garantita e l’intervento su istanza di parte per
comunanza di causa. L’art. 106 non fa riferimento alla chiamata del terzo da parte dell’attore, la quale
sarebbe un’estensione al terzo della domanda originariamente già proposta al convenuto giustificata dalla
connessione per oggetto o per il titolo (cumulo soggettivo di domande). Siamo, quindi, di fronte al caso
della chiamata del terzo su istanza della parte convenuta. La chiamata si attua con citazione a comparire ad
un’udienza fissata dal giudice e il convenuto che intenda chiamare il terzo deve dichiararlo a pena di
decadenza nella comparsa di risposta e chiede al giudice lo spostamento della prima udienza di
comparizione per permettere il rispetto del termine dilatorio nei confronti del terzo chiamato in giudizio. Ci
sono tre ipotesi in cui il convenuto ha interesse a farlo:

1. Se nega la propria legittimazione passiva (connessione per alternatività), sostenendo che la


legittimazione passiva appartiene al terzo che chiama in giudizio. Si instaura una controversia in cui
si cerca la reale titolarità dei rapporti dedotti in lite, da qui la comunanza di causa che legittima la
chiamata del terzo.
2. Ipotesi che potrebbero dare ingresso all’intervento volontario litisconsortile ex. Art 105, con il fine
di avere un accertamento nei confronti di tutti i legittimati all’azione.
3. Ipotesi che potrebbero dare ingresso all’intervento volontario adesivo dipendente, in presenza
quindi di rapporti di pregiudizialità- dipendenza, con lo scopo del convenuto di riversare sul terzo le
conseguenze pregiudiziali che possono derivare da un giudicato sfavorevole.

Anche l’attore può chiamare il terzo, qualora il suo interesse sorga dalle difese spiegate dal convenuto in
comparsa di risposta (all’inizio non sarebbe chiamata di un terzo ma instaurazione di un processo contro
due convenuti). Deve chiedere l’autorizzazione a chiamare un terzo, a pena di decadenza al giudice
istruttore, nella prima udienza di trattazione. Se concessa, il giudice fissa la nuova udienza per consentire la
citazione del terzo nel rispetto del termine di comparizione e fissa un termine perentorio entro cui l’attore
deve procedere alla notificazione di essa.

In generale, la parte che chiama un terzo deve depositare la citazione entro dieci giorni dalla notifica. In
caso manchi, la legge non dice nulla ma Monteleone ritiene che le domande contro il terzo siano
improcedibili. Il terzo chiamato deve costituirsi con comparsa di risposta da depositarsi in cancelleria con i
documenti e la procura almeno venti giorni prima dell’udienza in cui è chiamato.
L’art. 107 regola l’intervento per ordine del giudice che, quando ritiene opportuno che il processo si svolga
nei confronti di un terzo al quale la causa è comune, ordina alle parti di chiamare il terzo. Può farlo in ogni
momento per un’udienza appositamente fissata, e questo comporta la riapertura dell’istruzione per quanto
riguarda le domande, eccezioni, prove, difese del terzo, il quale può anche chiamare nella comparsa di
costituzione (a pena di decadenza) un altro terzo. Se le parti non ottemperano all’ordine del giudice la
causa viene cancellata dal ruolo, ma se queste la riassumono, il processo continua regolarmente tra di loro.
Bisogna intanto dire che siamo al di fuori del campo di applicazione del litisconsorzio necessario, infatti,
l’art 107 riconnette la chiamata del terzo da parte del giudice a una sua valutazione di opportunità, l’art.
102 obbliga il giudice ad integrare il contraddittorio. L’art. 102 è posto a presidio del principio della
domanda e del contraddittorio, l’art 107 ha fini di economia processuale. L’art. 102 in caso di inosservanza
comporta l’estinzione del processo, l’art 107 conduce alla sola cancellazione della causa dal ruolo. Per
capire il campo di applicazione dell’art. 107, bisogna ricordare che il giudice non ha il potere di costringere
qualcuno a porre delle domande; quindi, bisogna escludere tutti i casi che legittimerebbero l’intervento
volontario principale e litisconsortile (essendo espressione del potere di azione autonomo della parte).
Restano i casi caratterizzanti l’intervento adesivo dipendente e la giurisprudenza lo ha utilizzato quasi
esclusivamente nei casi di connessione per alternatività. In questo caso al terzo devono essere spiegate le
domande e le azioni e sono riconosciuti i poteri tipici delle parti. Se non è destinatario di pretese differenti
da quelle prodotte dalle parti originarie in giudizio (non c’è un ampliamento in seguito al suo intervento,
dell’oggetto del giudizio) ha gli stessi poteri che avrebbe nel caso di intervento volontario di tipo adesivo
dipendente.

: SUCCESSIONE

Secondo l’art. 110 “quando la parte viene meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal
successore universale o in suo confronto”. I fenomeni successori modificano la compagine originale del
processo, quindi. Se siamo davanti le persone fisiche, il caso tipico è quello della morte, nel qual caso
l’erede subentrerà in tutti i rapporti sostanziali o processuali facenti capo al defunto. Ci sono altri casi,
come la perdita di capacità processuale in seguito al fallimento dell’imprenditore, nel qual caso subentra il
curatore, la perdita della capacità di stare in giudizio della parte o del suo rappresentante. Se siamo davanti
persone giuridiche, non si può parlare di morte ma di estinzione o di perdita di capacità di stare in giudizio,
con il conseguente subentro dei soci che a quel punto sono i legittimati passivi alla prosecuzione del
giudizio. Non sussiste successione in caso di sola trasformazione dell’organizzazione della struttura interna
della persona giuridica o nel caso di un suo cambio di nome. Nell’ipotesi di fusione per incorporazione,
l’evento è considerato come un mutamento organizzativo dell’ente che continua ad esistere. La
successione nel processo ha come presupposto la dichiarazione di morte o evento estintivo da parte del
procuratore, in mancanza del quale il processo continua regolarmente nei confronti della parte come se
l’evento non fosse accaduto. Quando accadono questi eventi il processo viene interrotto per evitare che
incidano negativamente sul contraddittorio e sul diritto di difesa. Si ha sospensione anche nel caso si morte,
radiazione o sospensione dall’albo del procuratore, mentre non accade per rinuncia o revoca del mandato,
che ha effetti per l’altra parte solo quando sia avvenuta la sua sostituzione. L’interruzione si verifica
immediatamente quando questi eventi colpiscono la parte dopo la notificazione della citazione e prima
della scadenza del termine per la costituzione. Può essere impedita se gli aventi diritto si costituiscono
volontariamente o se l’attore provvede a citarli con riassunzione. Se la parte invece si era già costituita a
mezzo di procuratore l’interruzione si verifica quando il procuratore dichiari in udienza o notifichi l’evento,
se personalmente l’interruzione opera ipso iure. Se la parte è dichiarata contumace l’interruzione opera
quando l’evento è notificato alle parti o certificato dall’ufficiale giudiziario che doveva notificare un atto al
contumace. Quando il processo è interrotto si applicano il divieto di compiere atti processuali e la
sospensione dei termini processuali in corso. L’interruzione opera dalla data in cui si sono perfezionati i fatti
che la determinano e non da quella del giudice che la dichiari. Deve essere proseguita o riassunta entro tre
mesi dal momento in cui le parti abbiano avuto legale conoscenza degli eventi. La prosecuzione è fatta dai
soggetti che subentrano alla parte, che si costituiscono in udienza o in cancelleria volontariamente
chiedendo al giudice (o al presidente del tribunale) la fissazione dell’udienza di prosecuzione del processo.
Il ricorso con il decreto sono notificati dall’istante alle altre parti. La riassunzione è opera della controparte
che chiede la fissazione dell’udienza e provvede alla notifica del ricorso e del decreto alle altre parti (per
morte può farsi all’ultimo domicilio del defunto collettivamente ed impersonalmente ai suoi eredi, entro un
anno dalla morte). In entrambi i casi devono effettuarsi innanzi all’organo presso il quale il processo
interrotto pendeva.

L’art. 111 regola il caso della successione a titolo particolare del diritto controverso che si verifica dopo la
pendenza della lite ma prima della sua definizione. Se la successione a titolo particolare avviene per un atto
inter vivos il processo continua tra le parti originarie. Se invece avviene per mortis causa il processo
continua nei confronti dell’erede (anche se il diritto a titolo particolare è traferito al legato). La ratio è il
rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa: si vuole cautelare la parte che non traferisce nulla, per
evitare che la cessione diventi un modo per intralciare lo svolgimento del processo. L’art. 111 dà due
possibilità: o il processo prosegue senza che il sopravvenuto acquirente vi partecipi (dal p.o.v. processuale il
trasferimento è irrilevante); o al processo prende parte anche il successore a titolo particolare, se egli
interviene o è chiamato in causa nel processo. Inoltre, con il consenso di tutte le parti l’alienante o il
successore universale possono essere estromessi e il processo continua nei confronti del successore
particolare, anche se la cosa giudicata si forma nei confronti anche degli estromessi. L’intervento del terzo
avente causa è un intervento adesivo autonomo fondato sulla connessione per pregiudizialità-dipendenza
tra la posizione giuridica del cedente e dell’alienante. Questi ha anche la facoltà autonoma di impugnare la
sentenza in qualunque grado. Se il processo continua tra le parti originarie o con l’erede, la sentenza,
secondo espressa disposizione dell’art. 111, fa stato anche nei confronti del terzo acquirente, sebbene non
abbia preso parte al processo: è l’unico caso legislativamente previsto, in cui si amplia l’ambito soggettivo
del giudicato. Tuttavia, l’art. 111 fa salve le norme sulla trascrizione. Quindi, se la controversia ha ad
oggetto diritti reali immobiliari e il titolo di acquisto sia stato trascritto prima della trascrizione della
domanda giudiziale, il giudicato sfavorevole non è opponibile al terzo acquirente. Se la controversia ha ad
oggetto beni mobili e l’avente causa ne abbia acquistato il possesso in buona fede è protetto dalla sua
buona fede (possesso vale titolo), quindi non è opponibile il giudicato sfavorevole. Essendo che salvo questi
casi il giudicato vincola anche il successore particolare, egli non può promuovere opposizione ordinaria di
terzo, ma può impugnare con opposizione di terzo revocatoria.

DEI POTERI DEL GIUDICE

Il primo comma dell’art 112 enuncia il principio tra il chiesto e il pronunciato “il giudice deve pronunciare su
tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”. Se il superamento della domanda fosse consentito verrebbe
meno il principio della domanda e il carattere dispositivo e contraddittorio del processo, perché il giudice
verrebbe a pronunciarsi su domande non poste dalle parti ma da lui stesso. Il principio è essenziale, così
tanto che non viene meno neanche quando ci sia un interesse pubblico nel processo. Infatti, in questo caso
il PM affianca la parte privata, ma il giudice rimane in una situazione di estraneità ed imparzialità. Ma
quand’è che il giudice pronuncia oltre la domanda?

- Il giudice è vincolato dai fatti giuridici concreti e/o dalle situazioni di fatto allegati in giudizio, nella
loro portata ordinante, dalle parti in relazione al petitum e alla causa petendi.
- Il giudice non è vincolato dalla qualificazione o interpretazione giuridica che i difensori delle parti
danno ai fatti allegati.
- Il giudice non è vincolato dalle motivazioni addotte dalle parti e ha il potere/dovere di ricercare
d’ufficio ed applicare le norme idonee a rendere giustizia.
- Per determinare l’oggetto del giudizio il giudice non si ferma solo alle enunciazioni formali degli atti
introduttivi, ma deve ricostruire la volontà delle parti e individuare la effettiva esigenza
giurisdizionale che si prospetta dall’insieme. Inoltre, una domanda più ampia può contenere una
più ristretta, che è implicitamente posta, quindi.
- Il giudice non può sostituire un’azione con un’altra.

L’art. 112 al comma 1 però parla anche di pronunciarsi su tutta la domanda, che anche essa un obbligo del
giudice, in mancanza del quale la parte potrà impugnare la sentenza. Non si verifica questo caso se la
domanda sia stata implicitamente rigettata o la domanda sia dichiarata assorbita. Invece, sussiste il vizio se
una domanda non sia in tutto (se vi siano più domande) o in parte esaminata e decisa. È diverso dal diniego
di giustizia, in cui omette completamente la pronuncia, non redige o non deposita la sentenza o altro
provvedimento giudiziale che gli è stato richiesto.

Le pronunce sono ultra petita se, sebbene in linea con la domanda giudiziale, hanno un contenuto che
concretamente supera quello richiesto dall’attore. Sono extra petita se invece emerge dalle stesse un
mutamente del petitum o della causa petendi. La sentenza così costituita può essere impugnata dalla parte
interessata deducendo la nullità.

All’art. 112 comma due si dice che “(il giudice) non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono
essere proposte solo dalle parti”. Si sofferma quindi sul termine eccezione. Con il termine ci si può riferire
genericamente a tutte le iniziative difensive del convenuto. Possiamo distinguere le eccezioni di rito, che
danno origine a questioni processuali con un’attività difensiva volta a far valere la mancanza di una
condizione per statuire nel merito (eccezione di incompetenza, per esempio), ed eccezioni di merito, che
non attendono al processo ma solo al diritto. Queste ultime sono definite all’art. 2967 del c.c. “l’eccezione
di merito consiste nell’allegazione in giudizio di fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto soggettivo
dedotto in giudizio dall’attore”. Mirano al rigetto della domanda (il rigetto presuppone un esame nel
merito), un esempio è l’eccezione di prescrizione. Le eccezioni devono distinguersi dalle “mere difese” del
convenuto, che mirano sempre al rigetto della domanda ma si sostanziano alla negazione o contestazione
del diritto dedotto dalla controparte. Con l’eccezione si amplia l’oggetto della cognizione del giudice, a
differenza che con la mera difesa (la differenza è importante perché su di loro operano preclusioni diverse,
per esempio questo articolo si applica solo alle eccezioni). Il secondo comma fa riferimento alle eccezioni in
senso stretto, cioè quelle che possono essere sollevate solo dalle parti (quelle in senso lato posso rilevarsi
d’ufficio, di cui è un esempio quella di incompetenza). Il problema è capire quando ci si trova davanti a
eccezioni in senso stretto. Il legislatore indica sempre qual è il regime delle eccezioni di rito (che hanno
contenuto processuale), mentre si pone il problema per quelle di merito, di cui il legislatore non sempre
indica il regime. Secondo la giurisprudenza sono eccezioni in senso stretto quelle che lo sono per espressa
disposizione di legge, che dice che rientrano nella disponibilità esclusiva della parte. Si è posto il problema
per la violazione del giudicato esterno (sollevare una domanda giudiziale sulla quale vi sia sentenza passata
in giudicato). Secondo Monteleone le eccezioni sono rilevabili solo dalla parte interessata e possono essere
rilevabili di ufficio solo se ci sono norme che attribuiscono al giudice questo potere, perché secondo
l’interpretazione precedente l’art. 112 comma 2 è solo una norma di rinvio, perfettamente inutile.

Secondo l’art. 113 “nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la
legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità” questo significa introdurre il principio di legalità,
ovvero che il giudice deve seguire le norme di diritto nel pronunciarsi, cosa che è anche sancita dalla
costituzione, quando dice che i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Si suole esprimere con il brocardo
“jura novit curia”. Per questo articolo, quando il giudice si deve pronunciare, deve verificare la legittimità
costituzionale. La questione è una delle pregiudiziali in senso logico. Le questioni sulla costituzionalità
hanno un carattere misto, il primo diffuso, ed è quello che interessa i giudici, che ogni volta che, trovandosi
davanti ad una norma da applicare, ritengano sia in contrasto con la costituzione: sospendono il processo e
rimetto gli atti alla Corte costituzionale. A quel punto entra in gioco l’altro carattere, quello accentrato: solo
la Corte costituzionale può decidere della costituzionalità di una legge.

Il giudizio secondo equità è permesso quando sia previsto dalla legge (per esempio il giudice di pace può
decidere secondo equità per le cause non superiori a 1100 euro) e quando le parti ne facciano richiesta. Il
giudizio di equità può essere integrativo (quando una disposizione attribuisca al giudice un potere
integrativo secondo equità per la determinazione di un elemento di un diritto/obbligo/rapporto giuridico,
nel caso non ci sono limiti di impugnazione perché l’equità è introdotta da una norma) e sostitutivo (se il
giudice ha la facoltà di decidere affidandosi ad un criterio che si fondi solo sulla sua coscienza e sensibilità,
nel caso è possibile impugnare la sentenza solo per violazione di norme processuali: quelle sostanziali non
si applicano). L’equità è espressione di diritto allo stesso modo delle norme generali e astratte e quindi si
tratta sempre di giudizi a tutti gli effetti, quindi, il giudizio deve essere motivato (anche meglio di uno
secondo diritto).

Secondo l’art. 115 comma 1 “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della
decisione le prove proposte dalle parti o dal PM, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte
costituita”. Quando si dice salvo i casi previsti dalla legge si intende che le prove possono essere, in taluni
casi, fornite ad impulso da soggetti diversi o dal magistrato. Le prove sono fondamentali perché è tramite
queste che il giudice ha la cognizione dei fatti (che sono con queste ricostruiti) e può ricercare e dichiarare il
diritto tra le parti, quindi, sulle stesse verte il contrasto delle parti. La prova presenta aspetti sostanziali o
statici, per cui rileva come onere delle parti in contesa e come ente da cui discende un determinato grado
di certezza; ed aspetto processuali o dinamici, per cui rileva come rappresentazione processuale dei passati
accadimenti e come diritto delle parti di fornirla al giudice.

L’onere della prova è regolato dall’art. 2697 c.c. che stabilisce la distribuzione dell’onere della prova. Chi
vuole fare valere un diritto deva provare i fatti che ne costituiscono il fondamento e chi eccepisce
l’inefficacia di tali fatti o la modificazione o l’estinzione del diritto, deve provare i fatti su cui si fonda
l’eccezione. L’onere della prova può essere modificato o quando la legge autorizza il giudice a fondare il
proprio convincimento su fonti o mezzi non rimessi alla esclusiva disponibilità delle parti. L’art. 2698 c.c.
consente agli interessati di stipulare prima dell’inizio del processo patti con cui si modifica o si inverte
l’onere probatorio, a patto che si tratti di diritti disponibili e che il patto non renda eccessivamente gravoso
l’esercizio di un diritto. Si può avere l’inversione anche uno dei contendenti difendendosi assuma l’onere
probatorio dell’altro, ma se non riesce a adempierlo comunque i termini del giudizio non sono spostati
(rigetto per la domanda non provata).

Il catalogo dei mezzi di prova è contenuto nel Codice civile, agli artt. 3699-3739. Ci sono le prove
documentali, anche dette preformate o precostruite, che sono l’atto pubblico, la scrittura privata, la
sottoscrizione autenticata, il telegramma, carte e registri domestici, annotazioni in calce, a margine o a
tergo di un documento, scritture contabili, riproduzioni meccaniche e taglie o tacche di contrassegno. Le
prove costituende o di cognizione, cioè la testimonianza, la confessione e il giuramento. La confessione e il
giuramento decisorio sono mezzi di prova solo formalmente infatti, secondo Monteleone, si tratta di
manifestazioni del potere dispositivo delle parti sui diritti in contesa, anche perché sono permessi solo per
diritti disponibili e quando le parti abbiano capacità di agire, e il giudice deve solo prenderne atto. Esistono
poi le presunzioni “le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto
ignorato”, che possono essere legali (stabilite dalla legge e si distinguono in assolute, quando non è
ammessa la prova contraria, e relative, quando è invece ammessa) e semplici (stabilite dal giudice, devono
essere gravi precise e concordanti). Oltre alle prove il giudice ha altri poteri di indagine dei quali può
disporre d’ufficio e sono le stesse parti a diventare fonti. Per quanto riguarda le fonti atipiche, cioè quelle
non previste dalla legge non possono essere ammesse in modo indiscriminato, altrimenti ogni giudice
diverrebbe arbitro incontrollato. Queste però possono essere utilizzate quando sia consentito dalle norme
processuali e sostanziali, quindi, da sole non possono formare il convincimento del giudice ma fornire al
massimo un elemento aggiuntivo, avere valore indiziario o aiutare il giudice nella valutazione delle altre
prove.

Solo le parti e il PM possono disporre delle prove. In ogni caso va conservato il sistema dispositivo, senza
sfociare in quello inquisitorio, che è l’espressione di un pubblico potere di tipo autoritario a scapito delle
parti.

Attraverso le prove il giudice può ottenere la rappresentazione dei fatti. Emerge quindi un diritto delle parti
ad assumere le prove, sempre in conformità di legge, e quindi a rispettare il loro onere probatorio. I fatti da
provare devono essere allegati dalle parti ed incerti. Non sono incerti i fatti non contestati dalla
controparte. Infatti, se la controparte non nega il fatto allegato né esplicitamente né implicitamente,
parzialmente o totalmente, manca l’esigenza della prova perché lo stesso è ammesso. Le parti sono la
migliore e più diretta fonte di prova, per questo ciò non inficia al libero convincimento del giudice, inoltre
se così non fosse ci sarebbe un inutile spreco di risorse. L’art. 115 inoltre autorizza il giudice a porre a
fondamento della sua decisione i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Parla però
della parte costituita, quindi, la norma non vale per i casi di contumacia, possiamo dunque affermare che la
contumacia a fini probatori non equivale ad omessa contestazione specifica. I fatti devono anche essere
rilevanti e decisivi, devono cioè rivestire una importanza per la statuizione finale. L’esigenza probatoria,
comunque, si pone per i fatti in senso stretto, ovvero gli accadimenti passati che devono essere
rappresentati davanti al giudice, e sono frammenti di una realtà che non esiste più. esistono anche le
situazioni di fatto, che si protraggono nel tempo anche al momento della proposizione della domanda
giudiziale che si fonda sulle stesse. In questo caso il giudice ha il potere-dovere di percepire direttamente
tali situazioni di fatto allegate in giudizio, essendo esistenti e quindi non essendo necessario fare ricorso a
mezzi o fonti di prova per la loro rappresentazione processuale. I mezzi istruttori che per questo motivo la
legge concede ai giudici sono l’ispezione di persone e cose e la consulenza tecnica.

L’art. 115 permette il giudice di porre a fondamento della sua decisione il fatto notorio, ovvero i fatti che
rientrano nella comune esperienza- in questo caso non c’è la necessità di una rappresentazione processuale
probatoria, si tratta di quelle conoscenze oggettivamente e collettivamente acquisite o facilmente
acquisibili da tutti i consociati: il giudice non utilizza la propria scienza privata (cosa che è vietata). la
rappresentazione processuale del fatto non si ottiene con le prove ma il fatto, per la sua certezza, si
inserisce nel giudizio (per es. un terremoto). Tutto ciò se il fatto notorio è assunto in giudizio nella sua
portata generale, altrimenti se costituisce la fonte immediata di un diritto o un obbligo si impone la prova.

Le prove possono distinguersi, oltre che in costituite e costituende, in dirette (rappresentano


immediatamente il fatto da provare o sotto altro profilo quando la fonte e il fatto da provare coincidono) e
indirette (ovvero le fonti di prove indiziarie, non rappresentano il fatto costitutivo con immediatezza ma
fatti diversi dai quali si può desumere il primo). L’art. 116 poi distingue tra prove ed argomenti di prova.
Questi ultimi sono desunti dal giudice dalle risposte date dalle parti all’interrogatorio libero, dal rifiuto di
consentire ispezioni, dal contegno probatorio e dalle prove raccolte in un processo estinto allorché venga
riproposta l’azione tra le stesse parti. Non è possibile crearne altre, quindi è un elenco tassativo. Inoltre, gli
argomenti di prova possono essere usati solo per valutare le prove e non possono essere posti a
fondamento esclusivo della decisione. Sempre secondo l’art. 116 “il giudice deve valutare le prove secondo
il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti”. Considerando però quanto sopra
detto, e che le prove sono quelle indicate dalla legge, non si può pensare che il prudente apprezzamento sia
la stessa cosa del libero convincimento del giudice, che invece è escluso perché porterebbe a un giudice con
una insindacabile facoltà di assumere prove al di là della legge. Inoltre, la maggior parte delle prove del
processo civile hanno condizioni di ammissibilità e un grado di certezza e stabilità predeterminato per
legge; quindi, anche il libero apprezzamento del giudice ha un campo ristretto (per lo più alla
testimonianza).

Il giudice può disporre l’interrogatorio formale delle parti o l’ispezione di cose e persone (sono i suoi mezzi
istruttori). Questo perché le parti sono le più dirette fonti di prova (anche se non possono fungere da
testimoni). L’interrogatorio libero o formale è lo strumento con cui il giudice cerca chiarimenti dalle parti e
trae dalle loro risposte semplici argomenti di prova. Le risposte date non costituiscono confessione ma al
massimo possono integrare delle semplici ammissioni. Si può avvalorare questa tesi perché non si richiede
alla parte capacità di disporre del bene, non si richiede l’anumus confitendi, si esclude la confessione
spontanea e non fa prova piena contro colui che la fa. L’ispezione di persone e cose può essere disposta per
lo stesso motivo. Dal rifiuto di una parte di prestarsi il giudice può desumere argomenti di prova, mentre se
si tratta di terzi il potere è giustificato dal potere di percepire immediatamente situazioni di fatto da
allegare in giudizio e se si rifiutano si dispone una pena pecuniaria.

Le prove si assumono nella fase di trattazione del processo, e non sempre questa fase è seguita da quella
istruttoria, che non è necessaria se le domande, le pretese, le difese delle parti, si basano su fatti giuridici
concordemente ammessi, non contestati o provati a mezzo di prove precostituite. Il giudice, dopo la loro
allegazione nei fascicoli, avrà il compito di valutarne la concludenza, rilevanza ed efficacia probatoria al
momento della decisione. Se, invece, si rende necessaria la rappresentazione processuale di fatti passati, o
la loro valutazione in base a particolari regole scientifiche-tecniche, avrà ingresso la fase istruttoria, che
serve per la cognizione giudiziale dei fatti da dove è scaturito il contrasto tra le parti in causa. L’assunzione
di una prova in giudizio passa attraverso due fasi. Nella prima c’è l’istanza di parte in contraddittorio con
l’altra, nella seconda abbiamo il giudizio di ammissibilità di rilevanza del giudice istruttore che si esprime
con un’ordinanza, di accoglimento o di rigetto, con l’eventuale acquisizione nel processo della prova. Le
ordinanze in questione sono modificabili e revocabili dal giudice che le ha emesse e non possono
pregiudicare la decisione della causa. Il giudizio di ammissibilità delle prove riguarda il se un mezzo di prova
sia consentito dalla legge in relazione all’oggetto del giudizio e alla qualità delle parti, il giudizio di rilevanza
riguarda la congruenza del tema della prova con il tema del giudizio. Spetta sempre al giudice istruttore
decidere i tempi e i modi per l’acquisizione delle prove in giudizio, e per questo motivo egli stabilisce,
sentite le parti, un calendario preventivo delle udienze (che, ripeto, ha valore solo per le acquisizioni
probatorie). Il giudice istruttore ha anche il potere di decidere con ordinanza le questioni che sorgono nel
corso dell’assunzione delle prove. Le parti hanno diritto ad assistere personalmente all’assunzione delle
prove, di cui si redige verbale. La parte che ha chiesto l’assunzione delle prove decade da tale diritto se non
si presenta all’udienza, a meno che la controparte non chieda a sua volta l’assunzione o non chieda e
ottenga all’udienza successiva la revoca della decadenza, dimostrando di non essere potuta comparire per
causa non imputabile. Può sorgere la necessità che la prova venga assunta fuori dalla circoscrizione del
tribunale, in tal caso il giudice istruttore può delegare un altro giudice di quella circoscrizione ad assumere
la prova, oppure il presidente del tribunale lo autorizza a trasferirsi altrove. Il giudice con l’ordinanza di
delega fissa un termine, che può essere prorogato anteriormente, per l’assunzione della prova, che se non
rispettato ne provoca nullità, e l’udienza di comparizione delle parti per proseguire il processo. Il giudice
delegato rimette di ufficio al giudice delegante il verbale di acquisizione della prova. Se all’estero, si
procede all’assunzione della prova tramite rogatoria. Il giudice dichiara chiusa la fase istruttoria quando le
prove ammesse siano state assunte o quando le parti incorrano in decadenze e non ci siano altri mezzi
istruttori da espletare. Ha anche il potere di farlo quando gli appaia superflua l’ulteriore assunzione.

GLI ATTI PROCESSUALI

GLI ATTI DI PARTE

Gli atti processuali sono quegli atti che rappresentano le fasi dello svolgimento del processo e che
consentono allo stesso di giungere alla sua conclusione nei modi previsti dalla legge. Il loro contenuto può
essere il più vario e possono provenire sia dalle parti che dai vari organi giurisdizionali che si incontrano nel
processo.

Gli atti processuali sono atti formali, poiché è il diritto processuale ad essere un diritto formale: è il rispetto
delle forme che assicura l’osservanza della legge nel processo ed è ciò che impedisce il contatto diretto tra
le parti in contesa. Per questo motivo quello che importa è che gli atti rispettino lo schema che viene
stabilito dalla legge. L’art. 121 mette in relazione gli atti processuali con il loro scopo, ponendo la forma
come un fine per il raggiungimento dello scopo dell’atto. È però una norma residuale che poco rispetta la
realtà perché dice “gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere
compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Tutti gli atti del processo sono redatti in
modo chiaro e sintetico”, infatti gli atti processuali hanno praticamente sempre un regolamento formale.
L’art. 125 smentisce quasi subito l’art. 121, infatti prende in considerazione alcuni dei più importanti atti di
parte (citazione, ricorso, comparsa, controricorso e precetto) e fissa i requisiti minimi degli stessi, quali
l’indicazione dell’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda, le conclusioni o l’istanza, la
sottoscrizione della parte che sta in giudizio personalmente o del difensore. A quest’ultimo requisito la
giurisprudenza attribuisce una particolare importanza, in quanto in sua assenza si fa discendere una nullità
assoluta ed insanabile dell’atto. Per la sottoscrizione del difensore questi deve avere la procura, che può
essere dato anche dopo la notifica dell’atto di citazione, purché prima della costituzione in giudizio.

GLI ATTI DEL GIUDICE

I provvedimenti del giudice assumono una particolare importanza perché è tramite questi che si esercita il
potere giurisdizionale. Si tratta della sentenza, dell’ordinanza e del decreto. L’art 131 dice che “la legge
prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto e, in mancanza di tali prescrizioni, i
provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo”. Generalmente la legge
prescrive la forma dell’atto, che viene stabilito dalla legge. Oltre ad uno specifico regolamento formale ogni
provvedimento ha dei connotati che lo rendono adatto allo scopo determinato, anche se anche qui il
legislatore si è concentrato più sul raggiungimento dello scopo dell’atto, per cui la forma è un mezzo. In
ogni caso si è imposto nella giurisprudenza il considerare “sentenza” ogni provvedimento decisorio anche
se avente per legge una forma diversa ai fini del ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost.

La sentenza è l’atto a contenuto decisorio, cioè quello con cui il giudice esercita il suo potere giurisdizionale
sulla domanda di parte per definire in tutto o in parte il giudizio e può investire questioni processuali o di
merito. È sempre irrevocabile da parte del giudice che l’ha emessa, che con la pronuncia giudiziale consuma
il suo potere giurisdizionale. Il suo cambiamento può avvenire solo in seguito ad impugnazione e con un
altro giudice. La sentenza ha l’attitudine di acquistare l’autorità di cosa giudicata, ovvero quella qualità di
immutabilità anche rispetto a leggi sopravvenute. L’art. 132 stabilisce cosa deve contenere. A pena di
nullità assoluta ed insanabile della sentenza, la stessa deve contenere la motivazione (imposta anche
dall’art. 111 Cost.) e la sottoscrizione. Deve poi contenere l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata,
delle parti e dei loro difensori, le conclusioni delle parti e del PM e il dispositivo e la data della
deliberazione, in mancanza di questi si può correggere. La sottoscrizione deve essere fatta dal presidente
del collegio e dal giudice che ha redatto la sentenza facente parte del collegio o del giudice monocratico
che ha assunto la decisione e deliberato su essa. Se il presidente o l’estensore sono impediti si menziona
l’impedimento e sottoscrive il giudice anziano al posto del presidente o il presidente per sé e l’estensore. Se
l’ordinanza ha contenuto decisorio a pena di nullità assoluto deve ricevere le stesse sottoscrizioni. La
sentenza è pubblicata con deposito nella cancelleria del giudice, del quale il cancelliere dà atto apponendo
data e firma: la decisione è irrevocabile in questo momento. Il cancelliere da comunicazione alle parti del
deposito della sentenza con biglietto di cancelleria che contiene il testo integrale della sentenza.

L’ordinanza in comune con la sentenza è pronunciata nel contraddittorio tra le parti ed è succintamente
motivata. Però ha contenuto ordinatorio, nel senso che dispone per consentire lo svolgimento del processo
in vista del compimento di determinati atti processuali. Se la legge non dispone altrimenti è revocabile e
modificabile dal giudice che l’ha emessa. Non acquista l’autorità di giudicato. L’ordinanza collegiale è
sottoscritta solo dal presidente ed è comunicata dal cancelliere alle parti.

Il decreto non presuppone il contraddittorio tra le parti e può essere emesso su istanza di una parte
inaudita altera parte. Non esige motivazione salvo diversa disposizione di legge. Ricorre nei procedimenti
speciali, camerali di giurisdizione volontaria o nei processi di cognizione per preparare e consentire la
trattazione della causa nel contraddittorio tra le parti. Può essere emesso dal giudice singolo o dal collegio
(sottoscritto dal presidente).

COMUNICAZIONI E NOTIFICAZIONI

La comunicazione è un atto del cancelliere mediante il quale dà notizia a uno dei soggetti del processo di
fatti rilevanti processualmente o di provvedimenti del giudice, quando ciò sia disposto dallo stesso o dalla
legge. Si esegue mediante biglietto di cancelleria che contiene o gli estremi o la riproduzione -parziale o
totale- dell’atto comunicato. Il biglietto è consegnato direttamente al destinatario che ne rilascia ricevuta o
a mezzo PEC. Se non è possibile con il telefax o si notifica. Secondo la giurisprudenza è valida anche se fatta
in forme diverse quando risulti che il destinatario l’abbia ricevuta.

La notifica è un atto dell’ufficiale giudiziario la cui funzione giudiziale è dare ad un soggetto la notizia
qualificata (perché ha sempre la forma della consegna di una copia conforme ed integrale all’atto) di un
atto di parte o di un provvedimento giudiziale. È un atto formale perché non si ispira alla conoscenza del
destinatario dell’atto, ma alla conoscibilità garantita a priori alle particolari forme imposte dalla legge. La
conoscenza aliunde quindi (a differenza che nella comunicazione) non equivale a notifica anche se i vizi
formali si sana per raggiungimento dello scopo (es. notifica atto citazione sanata dalla costituzione in
giudizio dell’altra parte). La notifica si fonda su tre elementi in assenza dei quali essa è affetta da nullità
insanabile:

1. L’istanza di parte, difensore, PM o cancelliere (no d’ufficio)


2. Deve compierla l’ufficiale giudiziario, o quello del luogo in cui l’atto deve notificarsi o quello
addetto all’ufficio giudiziario investito della controversia. Se eseguito da organo incompetente la
nullità si sana solo per raggiungimento dello scopo
3. Relazione di notifica, con cui l’ufficiale riferisce sui modi, forme, data, persona a cui è consegnato
l’atto, apposta nell’originale e nelle copie dell’atto, sottoscritta dall’ufficiale che la esegue. È la
documentazione della notifica: senza la stessa non viene ad esistenza.

La Corte costituzionale ha introdotto la scissione temporale per il momento in cui si perfeziona la notifica:
per il notificante dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario; per il destinatario dalla data di consegna
dell’atto. L’assetto è stato recepito dalla legge.

La forma di consegna ideale è quella a mani proprie del destinatario, presso la sua casa di abitazione o se
ciò non è possibile, ovunque si trovi nell’ambito della circoscrizione dell’ufficio giudiziario al quale è
addetto. Se si rifiuta di ricevere la copia l’ufficiale lo scrive nella relazione e la notificazione si considera
fatta in mani proprie. Se non avviene in mani proprie, la notifica deve darsi nel comune di residenza del
destinatario, ricercandolo nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio. Se non viene trovato, l’ufficiale
consegna copia a persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda (non a minore di 14 anni o
a incapace). In mancanza si consegna al portiere dello stabile dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, se
manca a un vicino che accetti di riceverla (sottoscrivono una ricevuta) e l’ufficiale giudiziario dà notizia al
destinatario della notifica con lettera raccomandata. Se non è noto il comune di residenza, tutto ciò si fa in
quello di dimora, se non è noto in quello di domicilio (ordine tassativo). La notifica si perfeziona con
l’effettiva ricezione dell’avviso o con il decorso infruttuoso di 10 giorni dalla sua spedizione. Se la notifica
deve eseguirsi all’estero devono applicarsi prima le forme previste dalle convenzioni internazionali vigenti
con lo stato estero, poi se sia impossibile trovare il destinatario con affissione di una copia all’albo
dell’ufficio giudiziario presso cui si procede, spedizione di altra copia al destinatario in piego raccomandato,
consegna terza copia al PM che la inoltra al Ministero degli esteri perché la consegni al destinatario.
Trascorsi 20 giorni da questi adempimenti la notifica si ha per eseguita. Se sono sconosciuti residenza,
domicilio e dimore del destinatario l’ufficiale deposita una copia presso la casa comunale dell’ultima
residenza, se sconosciuta nel luogo di nascita. Se non sono noti l’ufficiale consegna l’atto al PM. Dopo 20
giorni, la notifica si dà per eseguita. La notifica alle persone giuridiche, agli enti di fatto e agli enti sprovvisti
di personalità giuridica si esegue presso la sede con consegna dell’atto al rappresentante o alla persona
incaricata della ricezione degli atti o in mancanza ad altra persona addetta alla sede stessa purché non
occasionale. È validamente fatta al portiere dello stabile o alla persona del rappresentante (se si indichino
nell’atto da notificare le qualità dello stesso e la residenza/dimora/ domicilio. Se non è possibile si
applicano le norme sopra dette. La notifica all’amministrazione dello stato o ad altra che godi del patrocinio
dell’avvocatura erariale si esegue negli uffici di questa, altrimenti, se non ne gode, all’amministrazione
destinataria, a chi la rappresenta nel luogo in cui risiede il giudice davanti al quale si procede..

Quando non sia proibito dalla legge gli ufficiali giudiziario possono avvalersi del servizio postale per
effettuare la notifica (nel caso non deve sottostare a limiti territoriali) e si perfeziona dal momento in cui il
destinatario ne ha la legale conoscenza. Forme speciali di notificazione invece autorizzate dal giudice sono
quelle per pubblici proclami o quelle di volta in volta dettate dal giudice quando lo consigliano le
circostanze particolari.

DEI TERMINI

I termini processuali sono imposti per legge o dal giudice quando ne è autorizzato. Sono di regola
ordinatori, e quando previsto dalla legge perentori (imposti a pena decadenza e non possono essere
prorogati o abbreviati). I termini si sospendono nel periodo tra l’1 e il 31 agosto. Se iniziano a decorrere in
questo periodo per legge l’inizio è differito alla sua fine. Non si applica alle controversie di lavoro e
previdenziali. Nel computo del termine non si calcola il giorno iniziale ma si contano i festivi, se il giorno di
scadenza invece è festivo (a cui è equiparato il sabato) si proroga fino al primo giorno non festivo seguente.

La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al
giudice di essere rimessa nei termini e il giudice vi provvede secondo le norme sulla rimessione dei termini
del contumace.

NULLITA’ E RINNOVAZIONE DEGLI ATTI PROCESSUALI -1 NULLITA’: REGOLE GENERALI

Spesso nella dottrina processuale civile si distingue tra inesistenza (quando l’atto processuale presenta tali
vizi da non riconoscersi come atto di una specie e forma, che non richiede di essere dichiarata dal giudice e
può essere rilevata da chiunque in qualunque momento, impedisce il passaggio in giudicato), nullità (che
viene eliminata con il passaggio in giudicato della sentenza e richiede la pronuncia giudiziale) e l’irregolarità
(vizio lieve che non comporta nullità ma solo opportuni correttivi, utile per evitare che imperfezioni non
gravi diano luogo a nullità). Di questa distinzione però non c’è un fondamento nel diritto positivo, la legge al
contrario parla di nullità che non ammettono sanatoria alcuna e impediscono il formarsi del giudicato. Si
ritiene in base al principio di tassatività enunciato in via generale dall’art. 156, la tassatività di questi casi.

In ogni caso la nullità ha diverse specie. Le nullità sono regolate solo dal c.p.c. e non anche dal c.c. quindi
non opera la distinzione tra nullità e annullabilità e le altre norme sostanziali in merito. Le specie sono:

1- Nullità assolutamente insanabili che impediscono il passaggio in giudicato della sentenza, rilevabili
di ufficio in qualunque stato e grado del processo ed in qualsiasi sede, possono essere accertata e
dichiarare con autonomo azione e opera ipso jure rendendo l’atto originariamente improduttivo di
effetti. Es: sentenza priva di sottoscrizione del giudice
2- Nullità rilevabili di ufficio e relativamente insanabili. Sono rilevabili solo entro il grado di giudizio nel
quale si sono verificate e sono relativamente insanabili perché su di esse opera la regola della
conversione in motivi di gravame: se il difetto non è impugnato, sono sanate dal passaggio in
giudicato totale o parziale della sentenza. Però non sono sanati dal raggiungimento dello scopo
dell’atto.
3- Nullità relative e sanabili, non rilevabili di ufficio ma solo su eccezione di parte nei modi e limiti di
legge, si sanano per conseguimento dello scopo.

l’art. 156 parla di nullità per inosservanza di forme, cosa che ha fatto sorgere il problema: e se non si
trattasse di un vizio di forma? Monteleone risponde che essendo negli atti processuali prevalente la forma,
quando un elemento assume una particolare importanza per un atto è calato nel suo schema formale. Se
poi si parla di elementi soggettivi il problema è solo apparente, infatti ci sono discipline che regolano
eventuali vizi (per esempio legittimazione ad agire) inoltre non si tratta di nullità di singoli atti ma di
questioni attinenti alle condizioni dell’azione o ai presupposti processuali impedienti una decisione di
merito.

Presupposto della nullità processuale è la sua difformità rispetto allo schema predisposto dalla legge per
l’atto stesso. Oltre a questa difformità è necessaria la pronuncia del giudice per dichiarare la nullità,
altrimenti il processo continua regolarmente a svolgersi. È eccessiva, e non trova fondamento nel diritto
positivo, l’idea che la declaratoria di nullità del giudice sia una questione pregiudiziale di rito, da risolvere
cioè immediatamente. Guardando all’art. 156, al terzo comma si dice che “può tuttavia essere pronunciata
(la nullità) quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”.
Significa che può dichiararsi la nullità di un atto se manchi dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento del suo scopo, e lo scopo non sia di fatto raggiunto. Invece al secondo comma si dice che
“la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo per cui è destinato”. Lo scopo è
la funzione obiettiva processuale dell’atto, che è stato compiuto quando vengono compiuti gli ulteriori atti
o attività materiali che hanno come presupposto necessario l’atto viziato. L’atto in questo caso si è posto
proficuamente all’interno del processo.

2- RILEVABILITA’ DELLA NULLITA’

L’art 157 sancisce l’ulteriore principio secondo cui le nullità possono essere dichiarate d’ufficio solo quando
sia consentito dalla legge. Se un vizio è considerato dalla legge come causa di nullità rilevabile d’ufficio,
leggendo questo combinato con l’art. 156, ma l’atto si è sanato per raggiungimento dello scopo, il giudice
non può dichiararne la nullità, a meno che lo stesso non sia qualificato come insanabile (seconda categoria
di nullità). Quindi insanabilità e rilevabilità di ufficio sono due attributi diversi e non necessariamente
abbinati delle nullità processuali civili: anche l’insanabilità deve essere dichiarata dalla legge.
L’orientamento giurisprudenziale e della dottrina è orientato nel senso che la rilevabilità di ufficio di un
vizio di un atto possa risultare anche implicitamente dalla natura e dalla importanza del vizio che inficia
l’atto processuale.

Al di fuori dei casi in cui la legge permette la rilevabilità di ufficio, la nullità non può pronunciarsi senza
istanza di parte, considerata come una eccezione processuale in senso proprio. È legittimata a sollevarla
solo la parte nel cui interesse sia stabilito quel requisito dell’atto, la cui mancanza o imperfezione ha
causato il vizio: correlazione tra interesse ed eccezione di nullità (non sempre richiedere un pregiudizio
effettivo però). La parte ha l’onere di sollevarla alla prima istanza o difesa successiva all’atto nullo,
altrimenti si ha decadenza dell’eccezione di nullità. Non si può eccepire la nullità nel caso la parte vi abbia
dato luogo o vi abbia rinunciato, espressamente o tacitamente (la rinuncia assume rilievo nel caso in cui si
ancora possibile sollevare l’eccezione, per questo è diversa dalla sua mancata proposizione)

Una tendenza pone sullo stesso piano il raggiungimento dello scopo dell’atto processuale viziato e il difetto
dell’istanza di nullità, quasi considerando il secondo effetto del primo. In realtà, sebbene portino alla
conseguenza di impedire la dichiarazione di nullità entrambe, nel caso di raggiungimento dello scopo
processuale, il vizio viene meno, è sanato retroattivamente, mentre in mancanza di istanza di nullità il vizio
è sanato.

3 – VIZI DI COSTITUZIONE DEL GIUDICE E DELL’INTERVENTO DEL P.M.

In caso di vizi relativi alla costituzione del giudice è prevista una nullità rilevabile d’ufficio e insanabile, salva
l’impugnazione della sentenza emessa a conclusione del procedimento con questo vizio con apposito
motivo di impugnazione. Nei casi di intervento obbligatorio del PM la nullità è rilevabile d’ufficio e per farla
valere deve essere eccepita con specifico motivo di impugnazione.

4 - ESTENSIONE DELLA NULLITA’

L’art. 159 al comma 1 guarda alle conseguenze esterne della nullità di un atto processuale e ci dice che la
nullità di questo non inficia quella degli atti precedenti e di quelli successivi. Logicamente è così per gli atti
precedenti, mentre per gli atti successivi bisogna specificare che questo accade quando si tratta di atti
processuali che si reggono autonomamente (e quindi non risentono dell’invalidità derivata e non
pregiudicano gli atti successivi con la loro nullità, come ad esempio atti di acquisizione probatoria). Se gli
atti nulli sono atti propulsivi del procedimento o volti ad assicurare il contraddittorio o il diritto di difesa
delle parti invece la loro invalidità si ripercuote sugli atti successivi. La nullità di un atto processuale si
riflette sulla sentenza -ma non sempre: altrimenti sarebbe nulla anche la sentenza che dichiara la nullità
processuale! – rendendola nulla ogni volta che il giudice, violando la legge del processo, anziché dichiarare
la nullità dell’atto si pronuncia nel merito. E la sentenza è nulla per un vizio derivante da un altro atto nullo,
non per un suo vizio (possiamo dire che almeno questo effetto è proprio dell’atto nullo).

Il 2 e il 3 comma dell’articolo 159 si occupano dei limiti interni e obbediscono al principio di economia.
Infatti, dicono che la nullità parziale di un atto non si estende alle parti dello stesso indipendenti da quella
nulla, e che se il vizio impedisce di prodursi un determinato effetto, possono prodursi quegli effetti per cui
invece sia idoneo. Si è parlato impropriamente di conversione in atto nullo in atto produttivo di effetti, ma
è errato perché a differenza che nel campo del diritto civile qui la volontà del soggetto agente è irrilevante
(rileva solo la funzione oggettiva dell’atto) e perché gli effetti scaturiscono sempre dallo stesso atto
parzialmente nullo, non da uno diverso.

5 -NULLITA’ DELLA NOTIFICAZIONE

L’art 160 regola la nullità della notificazione facendo salvi gli articoli 156 e 157. “la notificazione è nulla se
non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi è
incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data”. Queste nullità sono sanabili nei modi di legge,
anche se la giurisprudenza tende ad escludere la nullità se sia possibile, anche se vi sono incertezze o errori
materiali nella relata di notifica, individuare il destinatario effettivo ed accertare l’avvenuta consegna
dell’atto. Dove poi sa configurabile l’invalidità per un errore attinente alla persona cui deve essere
consegnato l’atto per irreperibilità del destinatario, è possibile la sanatoria ex tunc. Interpretando tale
disposizione, inoltre, la giurisprudenza ha configurato vizi talmente gravi da determinare l’inesistenza della
notificazione, anche se secondo Monteleone si tratta di casi in cui di fatto, materialmente prima che
giuridicamente, manchi la notificazione: se fatta a persona diversa, al difensore privo di rappresentanza
processuale, se sia priva di ricevuta di ritorno.

L’ASSORBIMENTO DELLE NULLITA’ NEI MEZZI DI GRAVAME

L’art. 161 è una norma di chiusura e prevede che la nullità della sentenza soggetta ad appello o a ricorso
per cassazione può essere fatta valere solo nei limiti e secondo le regole di questi mezzi di impugnazione:
opera così la conversione della nullità in motivo di gravame. Il principio si estende a tutti gli atti processuali
antecedenti alla sentenza, infatti, in questi casi la nullità della sentenza si avrebbe dal fatto che ci sia una
decisione di merito in seguito ad un processo invalido. Il principio dell’assorbimento opera per i vizi proprio
e specifici della sentenza quindi, ma anche per i vizi di atti precedenti a ripercuotersi su di essa e non sanati.
La norma impone alle parti l’onere di sollevare le nullità attraverso l’appello o il ricorso in cassazione, per
cui se non è seguita questa via la nullità perde rilievo giuridico: il passaggio in giudicato formale elimina
ogni vizio del processo e dei suoi atti. Ma i vizi perdono rilevanza anche quando la sentenza sia impugnata
ma questi non vengono sollevati: la nullità diviene irrilevante per mancanza di istanza di parte.

L’assorbimento dei mezzi di gravame ha delle limitazioni che emergono nel caso in cui la sentenza non passi
in giudicato perché impugnata dal soccombente che però non ha sollevato l’eccezione di nullità tra i mezzi
di gravame. Infatti, esistono nullità processuali rilevabili d’ufficio, per cui si pone il problema di stabilire se il
giudice dell’impugnazione abbia il potere di rilevarle di ufficio. L’onere di eccepire la nullità c’è solo se nella
sentenza vi sia una pronuncia implicita o esplicita sulla nullità, quindi, se il giudice abbia cioè respinto nel
grado precedente l’eccezione di nullità. Se manca e il vizio non è rilevabile d’ufficio se ne impedisce il
rilievo, se invece c’è non opera questo effetto preclusivo. Si discute invece se il giudice possa dichiarare la
nullità ex officio nel caso in cui nella decisione impugnata non si menzioni la nullità processuale. La
giurisprudenza riconosce che il giudice di appello, riscontrata una nullità del grado precedente diversa da
quelle elencate per la rimessione al giudice precedente, deve trattenere la causa per la decisione nel
merito, dopo aver consentito alle parti di svolgere le attività e le difese pregiudicate dalla rilevata invalidità.
Un’altra limitazione si fa quando la sentenza sia priva della sottoscrizione, cosa che può farsi valere senza
limitazione di tempo e di modi, senza ostacolo dalla formazione del giudicato formale, secondo
l’orientamento della cassazione che afferma la nullità assoluta e insanabile della sentenza a prescindere.
Quest’ultimo non è l’unico caso di nullità del tutto insanabile della sentenza (es. sentenza pronunciata
verso soggetto defunto prima dell’inizio della lite). Le disposizioni dell’art. 161 si applicano a tutti i
provvedimenti in forma diversa della sentenza a contenuto decisorio, contro cui è sempre esperibile il
ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost. Degli altri invece si può fare valere la nullità con azione autonoma o
eccezione.

7 – LA RINNOVAZIONE DELL’ATTO NULLO

L’art. 162 obbliga il giudice a disporre la rinnovazione dell’atto quando sia possibile. Intanto, per aversi
rinnovazione è necessaria la dichiarazione di nullità dell’atto, perché rinnovarlo significa sostituire con un
altro l’atto viziato, e i due sono tra loro incompatibili. Non si può considerare una forma di sanatoria della
nullità in senso stretto, ma la rinnovazione serve per togliere dal processo un difetto che impedisce la
decisione della causa, quindi, ha efficacia sanante con riferimento al processo nel suo complesso. Si disputa
se possono essere oggetto di rinnovazione (oltre agli atti del giudice e degli altri organi giurisdizionali, atti di
acquisizione probatoria) anche gli atti di parte, però ci sono disposizioni del codice che prevedono questa
possibilità (per esempio nel caso di nullità della citazione). Deve essere disposta dal giudice quando
possibile, cioè quando non si sia verificata una decadenza, sia intervenuto un termine perentorio o siano
stati acquistati dei diritti definitivamente. La giurisprudenza ammette che possa essere disposta dal giudice
di appello per atti nulli del giudizio di primo grado se non ricorrano le ipotesi tassative di rimessione in
primo grado. Non è possibile ordinarla nel caso di radicale inesistenza dell’atto processuale. È discusso, ma
si propende verso l’idea che la rinnovazione operi ex tunc e non retroattivamente: non è una sanatoria
degli atti viziati e la legge non gli attribuisce efficacia retroattiva (come fa solitamente quando ha voluto
attribuire tale efficacia).

Il cancelliere, l’ufficiale giudiziario o il difensore che con causa a loro imputabile abbiano determinato
l’invalidità dell’atto sono condannati dal giudice, con il provvedimento che ordina la rinnovazione, a pagare
le spese per la stessa. Gli stessi su domanda di parte possono essere condannati al risarcimento dei danni
provocati dalla nullità se sia ad essi imputabile a titolo di dolo o colpa grave, e il giudice dispone il
risarcimento con la sentenza che chiude il giudizio.
PARTE TERZA: IL PROCESSO DI COGNIZIONE DI PRIMO GRADO
INTRODUZIONE. LA CODIFICAZIONE DEL 1940/1942 E LE SUCCESSIVE RIFORME PARZIALI DEL PROCESSO
CIVILE.

Il primo Codice di procedura civile in Italia fu emanato nel 1865, aveva uno spirito liberale e di garanzia e si
rifaceva alla legislazione francese. Questo codice nel giro di mezzo secolo iniziò ad essere considerato
obsoleto, era detto processo scritto e c’era una buona parte della dottrina che lo considerava troppo lungo
e pernicioso. Si chiedeva un processo che avesse le caratteristiche di oralità, immediatezza e
concentrazione, schema portato avanti soprattutto da Chiovenda. Lo schema sollevò anche obiezioni sulla
sua realizzabilità ed opportunità. La riforma arrivò tra il 1936 e il 1940, quando il regime fascista si propose
di riformare i codici. Era una questione politica prima che tecnica, così il nuovo codice accentava i caratteri
pubblicistici del processo civili e rafforzava i poteri del giudice. Si crea un codice autoritaristico, che in realtà
non è orale, ma rigidamente scritto, non garantisce l’identità tra magistrato che istruisce e quello che
decide e non è immediato, né concentrato. La sua inidoneità la si può evincere dalle numerose riforme che
si sono succedute a partire dagli anni ’50, a finire con il dlg 149/2022 (Riforma Cartabia) con le quali il
codice ha perso la sua organicità.

MEDIAZIONE OBBLIGATORIA NEL PROCESSO CIVILE. LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA

1-MEDIAZIONE

La disciplina sulla mediazione obbligatoria e la negoziazione assistita è contenuta nel d.lgs. 28/2010. All’art.
2 si dice che chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e
commerciale vertente su diritti disponibili: è uno strumento di espressione del potere negoziale delle parti
sull’oggetto dei loro diritti. L’avvocato, a pena di nullità del contratto di prestazione di opera professionale
stipulato con il cliente, deve avvisare la parte della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione e
delle agevolazioni fiscali e dei casi in è imposto a pena di improcedibilità. In mancanza il giudice assegna un
termine di 15 giorni per presentare la domanda di mediazione o informa la parte della facoltà di richiederla.
La mediazione preliminare è obbligatoria nelle controversie di condominio, diritti reali, divisione,
successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato e affitto aziende, risarcimento del danno per
responsabilità medica o sanitarie, diffamazione a mezzo stampa o altra pubblicità, contratti assicurativi,
bancari e finanziari. L’improcedibilità per omesso tentativo di mediazione deve essere eccepita dal
convenuto a pena di decadenza o rilevata di ufficio entro la prima udienza. Il giudice può rinviare ad altra
udienza se la mediazione sia richiesta ma non sia scaduto il termine per il suo esperimento, se non c’è
richiesta assegna un termine di 15 giorni per provvedervi e rinvia l’udienza. Se le parti persistono
nell’omissione la domanda può essere dichiarata improcedibile (o si può considerare che vi hanno
concordemente rinunciato). Il procedimento dura massimo tre mesi, ed essendo che non ha natura
processuale sfugge alla sospensione feriale, e inizia a decorrere dalla data di deposito della domanda di
mediazione. Si considera avverata la condizione se il primo incontro davanti il mediatore si conclude senza
accorso. Il procedimento di mediazione può anche essere disposto in appello dal giudice, prima dell’udienza
di precisazione delle conclusioni, o se non sia prevista, prima della discussione.

La condizione di procedibilità per queste materie del procedimento di mediazione è sancita all’art. 5 dlg
28/2010, ma prevede anche delle eccezioni, ovvero la possibilità di richiedere anteriormente alla pendenza
del giudizio la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari e la trascrizione della domanda giudiziale.
Inoltre l’obbligo viene meno nei procedimenti di ingiunzione fino alla pronuncia sulle istanze di concessione
e sospensione della provvisoria esecuzione, per la convalida di licenza o sfratto fino al mutamento del rito,
nei procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, nei procedimenti
possessori fino alla pronuncia dei provvedimenti, nei procedimenti di opposizione o incidentali di
cognizione relativi all’esecuzione forzata, nei procedimenti in camera di consiglio e nell’azione civile
esercitata nel processo penale.

All’art 3 dlg 28/10 si regola il procedimento di mediazione e si stabilisce che a questo si applica il
regolamento dell’organismo prescelto dalle parti, che non può comunque essere contrario alla legge o
sovrapporsi alla stessa. Le parti devono essere assistite da un avvocato e viene adito un organismo di
mediazione con deposito di una istanza che deve indicare le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa. Se
presentate più istanze con lo stesso affare, prevale l’organismo adito per primo. La domanda deve
presentarsi presso un luogo del giudice territorialmente competente per la controversia. Il procedimento
ha durata massima di tre mesi dalla data di deposito dell’istanza. La mediazione si svolge senza formalità.
Interrompe le prescrizioni dei diritti in contesa e impedisce la decadenza, ma se fallisce prende a decorrere
un nuovo termine di decadenza dal deposito del verbale con cui si certifica l’insuccesso.

Se viene raggiunto un accordo che elimina la controversia si forma processo verbale sottoscritto dalle parti
e dal mediatore e lo stesso vale titolo esecutivo: il presidente del tribunale controlla la sua forma e il
rispetto delle norme imperative. Il procedimento fallisce in due casi: 1) quando una o entrambe le parti non
si presentano agli incontri fissati. In questo caso se non vi è giustificato motivo il giudice li condanna a
pagare una somma a favore del pubblico erario pari all’importo del contributo unificato, inoltre può
desumere argomenti di prova a carico della parte che non si è presentata. 2) quando si presentano ma
rifiutano la mediazione. In questo caso non viene raggiunto l’accordo. Il mediatore può fare una proposta di
conciliazione (sua sponte o su richiesta di parte). Le parti possono rifiutare ma se il provvedimento che
definisce il giudizio corrisponde a questa, il giudice esclude la ripetizione delle spese alla parte vittoriosa
che aveva rifiutato e la condanna a pagare una somma pari al contributo unificato. Se non vi è totale
coincidenza può escludere parzialmente la ripetizione delle spese dando adeguata motivazione. La legge
prevede agevolazioni tributarie per invogliare le parti ad avvalersene.

2-NEGOZIAZIONE ED AFFINI

Nel 2014 è stato introdotto l’espediente del trasferimento in sede arbitrale di cause civili su diritti
disponibili pendenti in tribunale o in grado di appello. Si tratta di un negozio giuridico sottoposto a pena di
nullità alla forma scritta, con cui le parti di una controversia convengono di cooperare in buona fede e con
lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza degli avvocati iscritti all’albo. Ne
sono escluse le cause vertenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale e quelle che hanno ad
oggetto i procedimenti di ingiunzione, di consulenza tecnica preventiva, di opposizione o incidentali di
cognizione relativi all’esecuzione forzata, in camera di consiglio, se l’azione è esercitata nel processo
penale, concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti conclusi tra professionisti e
consumatori, quando la parte può stare in giudizio personalmente. Questo si fonda su una istanza
congiunta delle parti. Ha trovato scarsissima applicazione in quanto ha il limite delle cause sopradette
inoltre comporta dei grandi esborsi, in primis infatti si pagano i contributi unificati e le tassazioni
processuali, inoltre le spese di un arbitrato. Inoltre, si può continuare ad accordarsi di deferire ad arbitri la
risoluzione della controversia secondo le norme previgenti senza ricorrere alle complicazioni che comporta
questa nuova normativa. La convezione deve contenere il termine di durata della trattativa (più di un mese,
meno di tre, prorogabile per accordo delle parti di trenta giorni) e l’oggetto della controversia. È imposta a
pena di improcedibilità in alternativa ai casi in cui la legge prevede mediazione obbligatoria per le
controversie di risarcimento del danno di circolazione di veicoli e natanti, domande di pagamento a
qualsiasi titolo di somme non eccedenti 50.000 E. il suo esperimento non preclude la concessione di
provvedimenti urgenti e cautelari o la trascrizione della domanda giudiziale.

Il procedimento inizia con l’invito da una parte all’altra tramite l’avvocato, e produce gli stessi effetti sulla
prescrizione di una domanda giudiziale. Se ha esito positivo la causa è evitata e l’accordo sottoscritto dalle
parti (sottoscrizione autenticata dagli avvocati) vale come titolo esecutivo per l’iscrizione di ipoteca
giudiziale e come precetto se si procede esecutivamente. Per essere trascritta deve essere autenticata
anche da un pubblico ufficiale.

I MODELLI DI PROCESSO DI COGNIZIONE ESISTENTI NEL NOSTRO ORDINAMENTO

Esiste una pluralità di schemi processuali per la tutela giurisdizionale dei diritti. Con il dlg 150/2011 si ha
avuto una semplificazione riguardanti una serie di materi per le quali la legge prevedeva disposizioni
processuali divergenti dal codice di procedura civili. Queste, a seconda dei loro caratteri prevalenti, sono
stati ricondotti a tre tipologie processuali: controversie di lavorio, procedimento sommario di cognizione e
processo ordinario di cognizione. Le tipologie sono:

1. Processo ordinario di cognizione disciplinato dal Codice di procedura civile. Inizia con l’atto di
citazione e il suo svolgimento è caratterizzato da preclusioni -soprattutto per il convenuto – e si
fonda sulla prevalenza dei poteri del giudice rispetto a quelli delle parti, che sono in posizione di
soggezione.
2. Processo nelle controversie di lavoro. Inizia con ricorso da depositare in cancelleria del giudice
competente, che poi fissa con decreto l’udienza di comparizione, che l’attore notifica al convenuto.
Il processo è scritto, c’è un massimo grado di preclusioni e di poteri del giudice, che possono anche
ammettere qualsiasi mezzo di prova in ogni stato e grado del processo.
3. Processo sommario di cognizione con attitudine al giudicato. Procedimento speciale che si pone in
alternativa a quello ordinario di cognizione, che si chiude con un provvedimento idoneo a passare
in giudicato materiale.
4. Il processo sommario-anticipatorio di cognizione senza attitudine al giudicato. Introdotto per le
controversie societarie ed esteso ad ogni altro diritto da farsi valere in giudizio da quando i
provvedimenti di urgenza o cautelari, per essere posti in essere, non necessitano più di una
instaurazione di un processo di cognizione ordinario per l’accertamento del diritto. Si richiede
l’esigenza di prestare un rimedio immediato alla lesione di un diritto. È caratterizzato dalla rapidità
(una udienza) e dal contraddittorio pieno, anche se la decisione non acquista la qualità di cosa
giudicata.
5. Il procedimento camerale. Rudimentale e poco disciplinato, caratterizzato dall’ufficiosità e
dall’assenza di contraddittorio e della difesa -o comunque di una loro forte attenuazione-. Creato
per la trattazione di affari non contenziosi, il legislatore ne ha esteso l’applicazione a casi sempre
più numerosi di giurisdizione contenziosa. Questo ha portato all’integrazione della disciplina con i
principi di contraddittorio e difesa e di impugnazioni (decisioni impugnabili ex art. 111 Cost in
Cassazione).

Per quanto riguarda i gravami, nei procedimenti sommario-anticipatori non è possibile appello e non
avendo questi provvedimenti carattere definitivo e qualità di cosa giudicata non possono impugnarsi in
Cassazione, ma può farsi reclamo al collegio contro i provvedimenti emessi in prima battuta. In appello la
disciplina, salvo delle norme parzialmente divergenti per le controversie di lavoro e assimilate, ha una certa
uniformità per tutti i tipi processuali. Il ricorso in Cassazione, invece, è uguale per tutti i casi.

IL PROCESSO ORDINARIO DI COGNIZIONE INNANZI AL TRIBUNALE

1-IL GIUDICE DI PRIMO GRADO


Il tribunale può essere in composizione collegiale o monocratica. Quasi tutte le materie spettano ad oggi al
giudice monocratico, anche se permangono delle cause riservate al tribunale in composizione collegiale,
quali:

1- Cause in cui è obbligatorio l’intervento del PM


2- Cause di opposizione, impugnazione, revocazione e in quelle conseguenti a dichiarazioni tardive di
crediti durante di cui i procedimenti fallimentari e altre leggi speciali sulla liquidazione coatta
amministrativa
3- Cause devolute alle sezioni specializzate
4- Cause di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo
5- Cause di impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea e del consiglio di amministrazione, si
responsabilità promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali, ecc.,
della società, mutue assicurazioni, consorzi.
6- Cause di impugnazioni di testamenti e riduzione per lesione di legittima.
7- Nelle cause aventi soggetti appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile,
militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle
funzioni, nonché agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria
8- Nelle azioni di classe collettive regolate nel codice del consumo
9- Procedimenti in camera di consiglio

L’art. 50-quater dice che le disposizioni di cui gli art. 50-bis e 50-ter non si considerano attinenti alla
costituzione del giudice, ma alla loro inosservanza si applica l’art. 161, sulla nullità della sentenza. Questo
significa che la causa decisa dall’organo a cui non appartiene comporta la nullità della sentenza e a questa
nullità si applica il principio di assorbimento dei mezzi di gravame. Nel caso però che la nullità sia eccepita
in secondo grado, che si fa? La soluzione non è pacifica, il giudice dovrebbe limitarsi a dichiarare la nullità, o
rimettere in primo grado (ma molti studiosi battono sulla tassatività dei casi in cui è possibile rimettere in
primo grado) o dichiarare la nullità e poi entrare nel merito in appello (cosa che fa perdere alle parti un
regolare grado di giudizio e rende inutile questa normativa). Il processo davanti al giudice collegiale è
disciplinato sempre dalle stesse norme antecedenti alla riforma che ha reintrodotto il giudice monocratico.
Queste ultime cause invece sono disciplinate agli artt. 281-bis fino a 281-sexies.

Nel 2012 fu creata la sezione specializzata del tribunale delle imprese, composta da magistrati ordinari. Per
quanto riguarda la competenza territoriale, hanno sede nei capoluoghi di regione più Brescia, Bolzano e
Catania, e sono competenti per le controversie sorte nella regione o nel distretto di corte d’appello in cui
sorgono. La competenza per materia ricomprende le controversie di: proprietà industriale, diritto d’autore,
legge antitrust, norme comunitarie antitrust, controversie societarie, relative a pubblici contratti di appalto
di lavori, servizi e forniture. Nel caso la società coinvolta abbia sede all’estero la competenza è di alcune
delle sezioni specializzate. Tutte le cause che con quelle che per materia spettano alla sezione hanno una
connessione sono attratte dalle sezioni. L’incompetenza per materia è rilevabile d’ufficio e non è derogabile
dalle parti.

Per quanto riguarda la ripartizione tra giudice di pace e tribunale, con una serie di riforme diffidenti verso il
giudice di pace, sostanzialmente si impedisce che nelle cause di connessione si determini uno spostamento
dal tribunale al giudice di pace. In questo modo è aumentato notevolmente il lavoro dei tribunali, quindi
furono create sezioni distaccate, che però creavo problemi di coordinamento e ripartizione delle materie
tra la sede centrale e quella distaccata, e alla fine sono state eliminate.

2-FASE INTRODUTTIVA DEL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO

L’atto di citazione, con il quale ha avvio il processo di cognizione ordinario, contiene la proposizione della
domanda giudiziale. È un atto sempre rivolto verso un altro soggetto che con questo è citato a comparire in
udienza. I suoi requisiti sono fissati all’art. 163 e sono:
1. Indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta
2. Generalità dell’attore e del convenuto e delle persone che li rappresentano o l’assistono
3. Determinazione della cosa oggetto della domanda, cioè il petitum

3bis. l'indicazione, nei casi in cui la domanda è soggetta a condizione di procedibilità, dell'assolvimento
degli oneri previsti per il suo superamento;

4. La causa petendi costituita dalla esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di
diritto costituenti le ragioni della domanda, che hanno assunto un certo rilievo con la riforma che
prevede che il giudice può decidere in base ai fatti qui esposti non contestati in modo specifico. La
citazione priva di ciò impedisce al giudice l’esercizio della funzione decisoria e viola il principio del
contraddittorio e di difesa del convenuto. Ci sono poi le conclusioni, che contengono le richieste
esplicite.
5. L’indicazione dei mezzi di prova dei quali l’attore deve avvalersi
6. Nome e cognome del procuratore e la procura se lasciata separatamente. Sebbene la legge non lo
specifichi, anche la PEC di questo.
7. L’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione, l’invito a costituirsi nel termine di 20 giorni
(o 10 in caso di abbreviazione dei termini) prima dell’udienza di comparizione, con l’avvertimento
che la mancata comparizione provoca delle decadenze, che la difesa tecnica con avvocato è
obbligatoria (salvo le eccezioni) e che a certi presupposti si può presentare istanza per il patrocinio
a spese dello stato.

La citazione deve essere sottoscritta dalla parte se sta personalmente in giudizio o dal suo difensore. Può
integrare la confessione se sottoscritta dalla parte e contiene la dichiarazione di fatti a sé sfavorevoli. Viene
consegnata all’ufficiale giudiziario perché esegua la notifica. Dal momento della notifica la domanda
produce i suoi effetti processuali e sostanziali.

È l’attore che fissa la prima udienza di comparizione, sulla base del decreto che all’inizio di ogni anno
giudiziario pubblica il presidente di ogni tribunale, in cui stabilisce i giorni della settimana e le ore delle
udienze destinate alla prima comparizione delle parti. Per la fissazione poi deve rispettare un termine
dilatorio nell’interesse del convenuto di 90 giorni, se il luogo della notifica è in Italia, 150 all’estero. Il
convenuto può chiedere che venga anticipata l’udienza di prima comparizione costituendosi prima della
scadenza del termine minimo e rivolgendosi al presidente del tribunale che provvede con decreto che deve
essere comunicato dal cancelliere all’attore almeno cinque giorni prima della nuova udienza.

Ultimamente è rinata la distinzione, all’interno dell’atto di citazione, di due funzioni, la edictio actionis, per
specificare la pretesa di chi agisce, e la vocatio in ius, per chiamare in giudizio. Il pericolo è pensare che la
citazione contenga due sotto atti distinti, il primo rivolto al giudice, il secondo al convenuto. È sbagliato
perché la domanda giudiziale non è rivolta al giudice, ma a questi arriva solo in modo mediato, ma al
convenuto, che non potrebbe difendersi senza sapere quali sono le pretese dell’attore. Inoltre, la chiamata
in giudizio condiziona la pronuncia del giudice: senza essa non si può pronunciare. Quindi si, vari aspetti, ma
atto unitario.

La nullità della citazione è regolata all’art 164. Ci sono due categorie di difetti. 1) La citazione è nulla se è
omesso o risulta incerto l’indicazione del tribunale davanti al quale la domanda è proposta e
l’identificazione delle parti; se manca la data dell’udienza di comparizione o non rispetta i termini dilatori
imposti per legge, se mancano gli avvertimenti in caso di non costituzione tempestiva del convenuto. In
questi casi se il convenuto non si costituisce il giudice, rilevata la nullità della citazione, ne dispone la
rinnovazione entro un termine perentorio. La rinnovazione correttamente eseguita sana retroattivamente
la citazione, che quindi dispiega i suoi effetti sostanziali e processuali dal momento della sua prima
proposizione. Perché ciò avvenga l’attore deve essersi costituito in giudizio. Se non viene eseguita il giudice
ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue. Il difetto, comunque, è rilevabile
d’ufficio in tutto l’arco del processo, anche in sede decisoria -secondo Monteleone-. Se il convenuto si
costituisce ciò sana retroattivamente i vizi della citazione, anche se può lamentare i vizi dell’atto e il giudice
fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini per consentirgli di preparare la difesa senza incorrere nelle
decadenze di legge. 2) la citazione è nulla se è omessa o incerta la determinazione della cosa oggetto della
domanda o l’esposizione dei fatti. Quando il giudice rileva tale nullità impartisce l’ordine di rinnovare la
citazione entro un termine perentorio, se il convenuto non si è costituito, se lo ha fatto ne ordina
l’integrazione. Rinnovazione ed integrazione non hanno in questo caso effetto retroattivo, operano ex
nunc. Non si prevede che alla mancata rinnovazione o integrazione dell’atto segui cancellazione del ruolo;
quindi, in questi casi il giudice deve assumere la causa e dichiarare con sentenza la nullità della citazione e
l’improcedibilità della domanda. L’art. 164 non prevede la nullità per mancanza di conclusioni ed
esposizioni degli elementi di diritto, ma si deve ritenere che la loro mancanza impedirebbe al convenuto di
approntare una efficace difesa e quindi la citazione mancherebbe dei requisiti indispensabili per il
raggiungimento del suo scopo, cosa che ex. Art 156 è causa di nullità dell’atto.

Nel caso in cui la nullità della citazione venga accertata per la prima volta in appello, il giudice di appello,
essendo tassative le ipotesi di rimessione in primo grado, ha due alternative. O trattiene la causa e decide
nel merito o dichiara la nullità della citazione e l’improcedibilità dell’azione. Secondo Monteleone è più
corretta la seconda soluzione, perché seguendo la prima si danneggerebbe il convenuto per un danno
dell’attore e del giudice, essendo che questo va in contro a preclusioni e in ogni caso perde un grado di
giudizio.

Le parti hanno l’onere di costituirsi in giudizio e iscrivere a ruolo la causa, attraverso questo adempimento il
tribunale viene materialmente investito della controversia. L’iscrizione a ruolo è un atto di impulso
processuale che condiziona la procedibilità della domanda, e solo quella. L’attore deve costituirsi entro
dieci giorni dalla notifica della citazione (se più notificazione il termine inizia dopo l’ultima notificazione),
entro 5 in caso di abbreviazione del termine di comparizione, con il deposito in cancelleria del giudice della
nota di iscrizione al ruolo e il proprio fascicolo, contenente l’originale della citazione, la procura, i
documenti offerti in comunicazione (se si costituisce personalmente deve dichiarare residenza o eleggere
domicilio dove ha sede il tribunale). Quindi paga il contributo unificato e le marche di iscrizione. Il
convenuto ha l’onere di costituirsi in cancelleria venti giorni prima dell’udienza, o dieci giorni prima in caso
di abbreviazione dei termini, con deposito del proprio fascicolo, il quale contiene la copia notificata della
citazione, la comparsa di risposta, la procura e i documenti offerti in comunicazione. L’art 167 rubricato
“comparsa di risposta” impone al convenuto si proporre nella comparsa di risposta tutte le sue difese,
prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui
intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione e formulare le conclusioni. A pena di decadenza
deve proporre le eventuali domande riconvenzionale, le eccezioni processuali e di merito non rilevabili di
ufficio, e fare la chiamata del terzo. Il convenuto può anche costituirsi alla prima udienza, ma queste
decadenze rimangono, cosa molto gravosa dal momento in cui la mancata contestazione in modo specifico
dei fatti esposti nella citazione comporta il fatto che il giudice può ritenere gli stessi provati e fondare su
questi la propria decisione. Per quanto riguarda invece le difese che non siano eccezioni in senso stretto
non rilevabili d’ufficio, la preclusione non sussiste. Per le prove invece la decadenza scatta con la prima
udienza di comparizione. Questo sistema non arreca alcun beneficio, ma è fonte solo di possibili ingiustizie
e di allungamenti processuali visto che il convenuto, dato che le cose stanno così, sollevare un numero
esagerato di eccezioni, anche discordanti, e difese. Se nessuna delle due parti si costituisce nel termine il
processo può essere riassunto entro il termine perentorio di tre mesi decorrente dalla scadenza di quello di
costituzione del convenuto. Se non avviene il processo è dichiarato estinto di ufficio.

Anche il convenuto può iscrivere la causa al ruolo, sebbene sia molto raro. Al momento della costituzione in
giudizio di una delle parti, quindi non solo dell’attore, e della presentazione della nota di iscrizione a ruolo,
il cancelliere iscrive la causa in un registro annuale dove viene annotata in ordine cronologico insieme alle
altre, con un proprio numero e le indicazioni essenziali. Viene anche formato il fascicolo di ufficio, dove
sono inseriti la nota di iscrizione a ruolo, i fascicoli delle parti, le copie in carta libera della citazione, i verbali
di udienza, i provvedimenti del giudice, gli atti di istruzione e il dispositivo delle sentenze. Il fascicolo è
presentato al Presidente del tribunale che designa o la sezione (se ci sono più sezioni) o il giudice istruttore.
Sarà poi il presidente della sezione, se c’è, a designare all’interno della sua sezione il giudice istruttore. Se il
giudice istruttore non tiene udienza di prima comparizione nella data fissata, si intende spostata
automaticamente al giorno successive in cui le tiene. È possibile per il giudice spostare fino a un massimo di
45 giorni con decreto l’udienza di prima comparizione (termine che Monteleone reputa superabile).

Con la costituzione in giudizio si ha la rappresentanza legale della parte a mezzo del procuratore legalmente
esercente, per cui è stabilito che tutte le comunicazioni e notificazioni debbano farsi allo stesso, e che basta
una se sia procuratore di una pluralità di parti. Con le nuove norme debbono farsi a mezzo PEC per cui la
Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che le disposizioni sulla elezione del domicilio sono derogate da
questo obbligo di fornire il proprio indirizzo di posta certificata, perché il domicilio in loco è a questo punto
irrilevante.

IL GIUDICE ISTRUTTORE ED IL GIUDICE UNICO

Il processo è diviso nella fase istruttoria e nella fase decisoria. Quando fu creato il codice tutte le cause
erano decise dal tribunale in composizione collegiale, ad oggi però è un’ipotesi residuale e la maggior parte
delle cause è decisa dal giudice monocratico, motivo per cui anche la figura del giudice istruttore ha perso
significato. Questo giudice, componente e relatore del collegio, aveva il potere di ordinanza,
provvedimento destinato a impartire le determinazioni riguardanti la trattazione della causa, modificabili e
revocabili dallo stesso e che in linea di principio non vincolavano il collegio. Il giudice istruttore ha il potere
discrezionale ed esclusivo di rimettere la causa in decisione dopo aver invitato le parti a precisare davanti a
lui le conclusioni. Al collegio era poi riservato l’esclusivo potere decisorio.

Il giudice istruttore, secondo l’art. 174 può essere sostituito solo in caso di assoluto impedimento o di gravi
esigenze di servizio e con decreto del presidente. In concreto non ha mai trovato applicazione, anzi capita
frequentemente e la giurisprudenza ammette che la sostituzione può essere fatta in forma orale dal
presidente all’udienza collegiale: è priva di rilievo pratico. Il giudice istruttore, secondo l’art. 175 esercita
tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento (non si sa bene in cosa consistono),
fissa le udienze, i termini entro i quali le parti devono compiere gli atti processuali. I rinvii delle udienze non
potrebbero essere superiore a 15 giorni, termine che nella pratica è ampiamente superato. Per cercare di
risolvere nel 2009 è stato introdotto il calendario delle udienze: il giudice sentite le parti fissa il calendario
del processo, anche se i termini possono essere prorogati e riguarda solo le ipotesi in cui ci siano mezzi
istruttori da assumere in giudizio. Se il giudice istruttore non fissi l’udienza successiva o il termine per il
compimento degli atti processuali, le parti hanno l’onere di chiedere l’integrazione nel termine di sei mesi
dalla pronuncia/notifica/comunicazione degli stessi a pena dell’estinzione del processo.

Il provvedimento di cui si avvale il giudice istruttore è, ex art. 176, l’ordinanza. Queste se pronunciate in
udienza si presumono note, altrimenti vanno comunicate alle parti, e presuppongono il contraddittorio. Le
ordinanze emesse dal giudice istruttore non sono vincolanti per il collegio. Non sono modificabili o
revocabili solo quelle pronunciate sull’accordo delle parti in materie da esse disponibili (salvo concordino
una revoca), dichiarare dalla legge non impugnabili, per le quali sia previsto uno speciale mezzo di reclamo.
Le parti, senza bisogno di mezzi di impugnazione possono proporre al collegio quando la causa è rimessa a
questo e l’ordinanza del giudice istruttore sia revocabile. È stato soppresso il reclamo immediato al collegio
contro le ordinanze che risolvono questioni relative all’ammissibilità e alla rilevanza dei mezzi di prova
proposti dalle parti o ammissibili di ufficio. Certo se decide il collegio, questo può revocare le ordinanze
istruttorie in fase decisoria. Il reclamo è stato, quindi, conservato solo per le ordinanze con le quali il giudice
istruttore dichiari estinto il processo. Questo deve proporsi entro 10 giorni dalla pronuncia/comunicazione
dell’ordinanza con ricorso al giudice istruttore da depositarsi in cancelleria. Scaduti i termini per le memorie
di replica del giudice istruttore il collegio provvede nei 15 giorni successivi.

LA TRATTAZIONE DELLA CAUSA

L’udienza di prima comparizione e la prima udienza di trattazione nel 2005 sono state unificate. L’art. 181
disciplina il caso della mancata comparizione. Se nessuna delle parti compare il giudice fissa un’udienza
successiva comunicata alle parti costituite, e se continuano a non comparire dichiara d’ufficio l’estinzione
del processo e la cancellazione dal ruolo. Se l’attore costituito non compare ed il convenuto non chiede che
si proceda in sua assenza, il giudice fissa un’altra udienza che viene comunicata all’attore. Se la situazione si
ripete il giudice ordina l’estinzione del processo e la cancellazione dal ruolo. La fusione delle due udienze
non è possibile nei casi:

1) Il giudice ex art. 182 alla prima udienza verifica d’ufficio la regolare costituzione delle parti e se
riscontra difetti le invita ad emendarli. Se rileva un difetto di rappresentanza, assistenza,
autorizzazione o un vizio che determina la nullità (nullità, non inesistenza!) assegna alle parti un
termine perentorio per sanarli. Il tempestivo adempimento sana i difetti retroattivamente. Il
rilascio di nuova procura con effetti sananti si ritiene che si abbia solo nel caso in cui a causa di un
difetto di rappresentanza debba costituirsi in giudizio una persona diversa.
2) Il giudice verifica d’ufficio la regolarità del contraddittorio e della notifica dell’atto di citazione
quando il convenuto non si sia costituito, e alla fine può dichiarare la nullità della citazione o
l’integrazione del contraddittorio per litisconsorzio necessario non integro ex art. 102.
3) Le parti possono fare richiesta congiunta di tentativo di conciliazione e il giudice può ordinarne la
comparizione personale a fini conciliativi, quando il giudice la disponga deve fissare una nuova
udienza per sentirle e una successiva per la trattazione se il tentativo di conciliazione fallisce.

La trattazione della causa, salvo che si verifichino i tre casi sopradetti, ha luogo nella prima udienza. Si
divide in diverse fasi

1. Richiesta di chiarimenti da parte del giudice. Se ne ravvisi l’esigenza può chiederli alle parti in base
ai fatti allegati, per avere i chiarimenti necessari, indicando le questioni rilevabili d’ufficio delle quali
ritiene opportuna la trattazione. Questa è sempre stata considerata una facoltà non un obbligo del
giudice, ed è una prassi consolidata il fatto che il giudice non studi la causa prima dell’udienza,
motivo per cui risulti impossibile fare ciò. In realtà in vista della modifica dell’art. 101 (obbligo a
pena nullità di sottoporre alla cognizione e alla difesa le questioni che rileva d’ufficio) dovrebbero
cambiare.
2. Domande ed eccezioni. L’attore può proporre le domande e le eccezioni conseguenti alla domanda
riconvenzionale e alle eccezioni che il convenuto deve proporre a pena di decadenza nella
comparsa di risposta. Sempre riguardo queste può essere autorizzata a chiamare un terzo. Il
convenuto e l'attore possono precisare o modificare domande, eccezioni e conclusioni già proposte
(mai proporle ex nuovo, solo emendatio libelli).
3. Prove. Le parti hanno l’onere di indicare negli atti introduttivi i documenti che producono e i mezzi
istruttori di cui chiedono l’ammissione, altri mezzi di prova e documenti possono essere chiesti in
relazione ai concreti sviluppi dell’udienza.
4. Concessione di termini a richiesta di parte. Le attività deduttive delle parti possono essere svolte
oralmente in udienza e raccolte a verbale, o su richiesta di parte il giudice può concedere dei
termini perentori per il loro svolgimento. Questi sono 30 giorni per il deposito di memorie per la
precisazione o modificazione di domande, eccezioni, conclusioni già proposte. 30 giorni per
replicare alle prime o proporre eccezioni conseguenziali. 20 giorni per l’indicazione di prove
contrarie a quelle richieste dalla controparte (intese come qualsiasi prova che serva a contrastare il
risultato della prova dedotta dall’altra parte).
5. Provvedimenti del giudice. Il giudice può decidere seduta stante sull’ammissione dei mezzi
istruttori richiesti fissando l’udienza successiva per la loro assunzione o riservarsi la decisione. In
quest’ultimo caso deve emettere ordinanza fuori udienza entro 30 giorni dal perfezionamento della
richiesta di parte che deve essere comunicata dal cancelliere entro 3 giorni dal deposito. Il giudice
può disporre l’interrogatorio libero delle parti e se sorge l’esigenza di ammettere mezzi istruttori
richiesti dalle parti può fissare un calendario preventivo delle udienze.
6. Prove disposte dal giudice. Se il giudice dispone con ordinanza mezzi di prova di ufficio
(Monteleone ritiene si tratti solo della prova testimoniale) deve concedere alle parti dei termini
perentori per formulare le richieste istruttorie conseguenziali e depositare memorie di replica. Il
giudice procede su queste deduzioni con ordinanza fuori udienza. A questo punto scattano le
preclusioni definitive per le parti e l’ulteriore attività processuale dovrebbe consistere
nell’assunzione in udienza delle prove ammesso o nell’espletamento di altri mezzi istruttori.
7. Conversione in rito sommario di cognizione ex art. 183-bis. Il giudice può disporlo nei casi per cui
non è prevista la decisione collegiale, dopo che sente le parti. Emette quindi ordinanza non
impugnabile e converte il rito, invitando le parti a indicare a pena di decadenza i mezzi di prova di
cui intendono avvalersi e se richiesto può fissare una nuova udienza concedendo termini perentori
per le deduzioni istruttorie.

Secondo l’art 186-bis è possibile su istanza della parte interessata, ottenere ordinanza di pagamento
per le somme non contestate, in modo da permettere il rapido soddisfacimento di questi crediti. I
presupposti per l’ordinanza sono il fatto che la parte è costituita; l’oggetto dell’ordinanza deve essere
un credito in denaro almeno in parte liquido (la sua liquidazione non può dipendere dall’accertamento
giudiziale), il credito in questione non deve essere contestato. Può essere richiesta fino al momento
della precisazione delle conclusioni. Costituisce titolo esecutivo, e l’estinzione del processo non
travolge il provvedimento. L’ordinanza però è revocabile, motivo per cui non acquista l’autorità di
giudicato e la non contestazione potrebbe successivamente essere superata e contraddetta dalle
ulteriori difese del debitore (però mai sa eccezioni in senso stretto, perché operano le preclusioni).
Inoltre, se venga dichiarata l’estinzione del processo, l’efficacia dell’ordinanza permane, ma essendo
revocabile il debitore in sede di esecuzione o con autonomo processo di cognizione può far valere ogni
ragione idonea all’accertamento dell’inesistenza del credito. Se l’istanza per l’emissione dell’ordinanza
è proposta fuori udienza, il giudice dispone la comparizione delle parti e assegna un termine per la
notificazione del decreto che fissa l’udienza di comparizione.

Nel ’90 fu introdotta l’istanza di ingiunzione in corso di causa, che può essere proposta dall’interessato
in ogni stato del processo fino al momento di precisazione delle conclusioni. Si tratta di un trapianto del
procedimento ingiuntivo nel processo di cognizione. Può essere proposto anche contro il contumace e
l’ingiunzione può essere concessa anche se il giudizio sia sospeso o interrotto. Ha le stesse condizioni di
ammissibilità del procedimento di ingiunzione (art. 633 e 634). L’ingiunzione è pronunciata con
ordinanza (non con decreto) e deve contenere la liquidazione delle spese e delle competenze
professionali. L’ordinanza è immediatamente esecutiva nei casi di esecuzione provvisoria del decreto
ingiuntivo e se la parte si sia costituita anche nei casi di esecuzione provvisoria in pendenza di
opposizione (artt.642 e 648). Non può essere concessa se la controparte abbia disconosciuto la
scrittura privata o sottoposto a querela di falso l’atto pubblico costituenti la prova documentale del
credito. L’ordinanza non acquista l’autorità di giudicato. L’ordinanza non viene travolta dall’estinzione
del processo, pur restando, quindi, modificabile o revocabile, per cui l’estinzione del processo non
impedisce all’ingiunto di sollevale in ogni sede le contestazioni riguardanti l’esistenza del credito. Se
l’ingiunto è contumace deve essergli notificata l’istanza di ingiunzione altrimenti il giudice non può
provvedere e, se resta contumace, anche l’ordinanza entro 60 giorni a pena di inefficacia. Il contumace
ingiunto ha l’onere di costituirsi entro 20 giorni con l’avviso che in mancanza l’ingiunzione diverrà
esecutiva. Monteleone ritiene che in mancanza di costituzione del contumace l’ordinanza di
ingiunzione diventi immutabile e quindi in questo caso l’ordinanza è perfettamente equiparata a
decreto ingiuntivo: nel processo di cognizioni qui cessa anche la materia del contendere. È dubbio se
nei confronti del contumace costituitosi tardivamente operino le decadenza o possa svolgere
liberamente qualsiasi attività difensiva. Altro dubbio si ha nel caso in cui il contumace ingiunto si sia
costituito nell’imminenza dell’udienza di precisazione delle conclusioni, caso in cui dovrebbe operare la
preclusione che gli consente la costituzione tardiva solo fino all’udienza in cui la causa è rimessa al
collegio. Secondo Monteleone dovrebbe interpretarsi nel senso più favorevole all’ingiunto, anche
perché l’istanza di ingiunzione è una domanda nuova della controparte. Monteleone ritiene anche che
preso atto della costituzione del contumace dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni il giudice
debba rimettere la causa nel ruolo, fissando un’altra udienza istruttoria. L’ordinanza dichiarata
esecutiva è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Se l’istanza per l’ordinanza di ingiunzione è
proposta fuori udienza il giudice ordina la comparizione delle parti ed assegna un termine per la
notifica.

L’art 186-quater prevede la possibilità dell’emanazione di un’ordinanza successiva alla chiusura


dell’istruzione se si verificano i presupposti che: una delle parti abbia proposto domanda di condanna al
pagamento delle somme, alla consegna o al rilascio di beni; che la stessa proponga istanza per
l’ordinanza in questione, che sia stata raggiunta la prova totale o parziale dei fatti giuridici costituenti il
fondamento della pretesa giudiziale. Il giudice istruttore pronuncia in questo caso ordinanza di
condanna per il pagamento delle somme o la consegna/rilascio dei beni, la quale è titolo esecutivo ma
è revocabile con la sentenza. Si ritiene che non trovi ingresso quando ci siano in giudizio una pluralità di
domande e trovi il suo presupposto giuridico su altra e diversa pronuncia di accertamento o costitutiva
perché non può emettersi una condanna separata e anticipata rispetto alle altre. Monteleone non
condivide la tesi per cui se ne esclude l’ammissibilità quando non ci sia bisogno di istruire la causa,
perché sostiene non ci sia né nella lettera della legge né nei suoi scopi, inoltre la locuzione “esaurita
l’istruzione” può estendersi anche al caso in cui si sia esaurita perché non deve procedersi
all’assunzione di prove costituende e non si capisce perché nelle cause che non hanno bisogno di
istruzione debba negarsi. La domanda volta all’emanazione del provvedimento presuppone che sia
stata chiusa l’istruzione, quindi, non può presentarsi prima, ma il giudice istruttore nell’udienza in cui
dichiara eseguiti i mezzi istruttori deve indire quella di precisazione delle conclusioni che comporta
l’assunzione della causa in decisione: fino a quando può chiedersi? Se sì dà per scontato che può
proporsi nell’udienza di precisazione delle conclusioni, si rende la stessa inutile, perché non dà nessun
vantaggio. Appare funzionale proporla alla chiusura dell’istruzione o nell’intervallo di tempo tra questa
e l’udienza di precisazione delle conclusioni. Nel momento in cui è emanata, il giudizio si estingue se la
parte intimata non manifesta entro trenta giorni dalla pronunzia/comunicazione la volontà che sia
pronunciata la sentenza. Secondo Monteleone la parte intimata è quella a cui il giudice abbia ordinato
di eseguire la prestazione in accoglimento dell’istanza proposta.

Il giudice istruttore ha il compito di sovraintendere l’istruzione e la trattazione della causa per


prepararla e rendere possibile al collegio la pronuncia. I provvedimenti di cui si avvale sono soprattutto
le ordinanze. Secondo l’art. 186 sulle domande e sulle eccezioni delle parti, il giudice istruttore, sentite
le loro ragioni, dà in udienza i provvedimenti opportuni; ma può anche riservarsi di pronunciarli entro i
cinque giorni successivi. In realtà raramente si pronuncia in udienza e difficilmente lo fa entro il termine
ordinatorio di cinque giorni. È potere esclusivo del giudice istruttore disporre sull’ammissione delle
prove richieste dalle parti (è soppresso il reclamo al collegio e la facoltà di questo di remissione
anticipata al collegio le sole questioni probatorie) e rimettere la causa in decisione. La remissione al
collegio avviene:

- Quando il giudice ritiene la causa matura per la decisione senza bisogno di assumere mezzi di prova
- Quando dopo avere assunto le prove ritenga esaurita l’istruttoria della causa
- Quando ritenga opportuno promuovere la decisione separata di questioni preliminari di merito, la
cui soluzione possa consentire la definizione del giudizio (es: eccezione di prescrizione)
- Quando insorgano questioni pregiudiziali di rito impedenti la pronuncia di merito (es di
giurisdizione o competenza). In questo caso può disporre che queste siano decise unitamente nel
merito.

La remissione al collegio investe l’organo decisorio di tutta la causa; quindi, prima di rimettere in causa la
decisione, il giudice istruttore deve invitare le parti a precisare integralmente le conclusioni che intendono
sottoporre all’organo deliberante. In questa sede non è più consentito modificare domande ed eccezioni
già formulate o richiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova. Ci si chiede quindi l’utilità dell’udienza per
la precisazione delle conclusioni, la cui funzione unica residuale è quella di consentire l’abbandono di
domande o eccezioni in vista del regolamento delle spese contrattuali.

L’ISTRUZIONE PROBATORIA

1-REGOLE GENERALI SULL’ASSUNZIONE DEI MEZZI ISTRUTTORI

Rimando a parte II capitolo VIII §2

2-LA CONSULENZA TECNICA

Il consulente tecnico è un organo ausiliario del giudice, la cui nomina è necessaria quando ritenga di farsi
assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo da persona provvista da particolare
competenza tecnica. Di norma sono scelti in base ad albi in cui sono iscritti nei tribunali, diversificati per
disciplina. Il consulente iscritto all’albo ha l’obbligo di accettare l’incarico, salvo che ricorra un giusto motivo
di astensione (= a quelli del giudice). Deve essere assicurata la rotazione dei consulenti. Se ricorrono valide
ragioni può essere nominato consulente non iscritto nell’albo di quel tribunale, il quale però può rifiutare
l’incarico. Le parti hanno la facoltà di ricusare il consulente per le stesse ragioni previste per il giudice. Egli
incorre nella responsabilità penale prevista per i periti ed in caso di colpa grave nell’esecuzione di atti che
gli si sono richiesti. È quindi posto sullo stesso piano di imparzialità e indipendenza del giudice, questo
anche a causa del divieto di scienza privata che grava su quest’ultimo.

La consulenza, secondo l’opinione condivisa, non rientra tra i mezzi di prova, sia per la particolare posizione
del consulente che per la posizione distaccata delle norme che a essa fanno riferimento rispetto alle altre
concernenti le prove. In linea di principio si tratta di un mezzo istruttorio disponibile d’ufficio la cui funzione
è permettere al giudice la cognizione e valutazione dei fatti giuridici. Ma quando si utilizza? Se si tratta di
fatti ancora esistenti il giudice può nominare il consulente tecnico per fare ispezioni circa lo stato dei luoghi
o le condizioni di cose (cosa che può percepire lo stesso giudice, se vuole), oppure se sia necessaria
l’applicazione, a quelle osservazioni, di particolari regole o cognizioni tecnico-scientifiche. Il giudice ha il
dovere di nominare un consulente per accertare, in quest’ultimo caso, quanto dedotto dalla parte, la quale
non è vincolata all’onere della prova ma può chiedere al giudice di provvedere alla nomina di un consulente
tecnico (il suo diniego equivale a diniego di giustizia). La consulenza può servire anche per assolvere l’onere
della prova in relazione a fatti passato, quando quanto allega in giudizio non può essere provato con i mezzi
previsti dalla legge e a disposizione delle parti: quando è necessaria una indagine tecnica (es. valore di
mercato di un bene). Quindi la nomina del consulente non è preclusa dall’onere della prova, ma anzi è con
la stessa coerente. Infine, ci sono i fatti giuridici dimostrabili per mezzo delle fonti previste dalla legge ma
che necessitano di una consulenza tecnica per la valutazione delle conseguenze da esse derivanti (es nel
caso di domanda risarcitoria: prima si prova il fatto allegato, per il quale vale l’onere della prova, e poi con
la consulenza l’entità del danno da risarcire). Quindi, la consulenza tecnica è un mezzo istruttorio
disponibile d’ufficio, ma che la parte ha il diritto di chiedere e sollecitare, e non può considerarsi del tutto
estraneo all’ambito della prova. Le valutazioni del consulente non vincolano il giudice, ma se questi vuole
discostarsi ha un obbligo di motivazione che altrimenti non persiste.
La consulenza tecnica può essere disposta dal giudice istruttore, dal collegio o in appello. È disposta con
ordinanza, e con lo stesso provvedimento è designato il consulente e si invita a comparire n udienza per
prestare giuramento di adempiere bene e fedelmente alle funzioni affidategli. Nell’ordinanza il giudice gli
sottopone i quesiti, e le parti hanno il diritto di indicare al giudice punti o questioni da sottoporgli. Se il
giudice rifiuta o si astiene dall’incarico deve farne dichiarazione al giudice almeno tre giorni prima
dell’udienza di comparizione per il giuramento (stesso termine per la ricusazione di parte). Il consulente
svolge la sua attività o assistendo alle udienze in cui è invitato, dove esprime le sue valutazioni e il suo
parere, può farlo in camera di consiglio, oppure può compiere le indagini fuori udienza, con o senza il
giudice. Se senza il giudice, questi lo autorizza a chiedere chiarimenti alle parti, assumere informazioni da
terzi, eseguire piante/calchi/rilievi e lo incarica di riferire con relazione scritta. Il giudice fissa in questo caso
il termine entro cui deve trasmettere alle parti la propria relazione; il termine entro cui le parti possono
trasmettere a quello le proprie osservazioni sulla relazione e il termine entro il quale il consulente tecnico
deve depositare in cancelleria la relazione principale con le osservazioni di parte e la sintetica risposta ad
esse. Segue udienza innanzi al giudice. Per il rispetto del contraddittorio le parti alla nomina del consulente
tecnico hanno diritto ad un termine per la designazione di un proprio consulente, il quale ha il diritto di
assistere tutte le attività compiute da quello di ufficio, di intervenire nelle udienze dove questi è chiamato.
Il consulente che faccia le indagini fuori udienza deve avvertire le parti e i loro consulenti del luogo e data
dell’inizio delle operazioni e di quelle ulteriori, perché vi possano partecipare, poi riferisce al giudice quanto
avvenuto nel corso delle indagini redigendo il verbale. Se sono violate le norme per il contraddittorio la
consulenza è nulla ma la nullità deve essere eccepita entro la prima udienza successiva al deposito della
relazione. Se è dichiarata nulla, si procede con rinnovazione della consulenza. Il giudice può sempre
disporre la rinnovazione delle indagini e per gravi motivi può sostituire il consulente. Se sorgano questioni
sui poteri del consulente durante le operazioni questi o le parti lo riferiscono al giudice che provvede con
ordinanza.

Nell’esame contabile il consulente incarica ha il compito di tentare la conciliazione tra le parti (cosa che può
in verità fare qualsiasi consulente) e con il consenso di tutte le parti può esaminare documenti non prodotti
in causa, dei quali però non può fare menzione negli atti processuali. Se la conciliazione riesce ne redige
verbale che è sottoscritto dalle parti, inserito nel fascicolo d’ufficio e acquisisce efficacia di titolo esecutivo
con il decreto del giudice. Se non riesce la consegna la propria relazione e la causa continua. Le
dichiarazioni rese dalle parti riportate nella relazione di consulenza possono essere valutate dal giudice
come argomenti di prova.

3-LE PROVE DOCUMENTALI

La disciplina delle prove documentali si trova, per le norme che regolano la loro efficacia probatoria nel
Codice civile, artt. 2699 e ss. Le norme sulla loro acquisizione in giudizio (tramite produzione ad opera delle
parti, che le inseriscono nel fascicolo, dando possibilità ad ogni parte di esercitare il diritto di esaminarle e
ottenere dal cancelliere copia autenticata) e quelle sul disconoscimento/verifica della scrittura privato o di
querela di falso dell’atto pubblico, si trovano nel Codice di procedura civile.

Il documento come fonte di prova è ogni cosa atta a rappresentare mediante segni o tracce qualsiasi
genere di fatto. Nel documento bisogna distinguere il contenitore, che è lo strumento per rappresentare il
fatto, dal contenuto, che è il fatto rappresentato. La legge può chiedere la forma scritta a fini probatori
(direttamente o indirettamente se vieta la prova per terstimoni o per presunzioni per determinati atti) o
per la validità dello stesso atto. A volte il documento incorpora il diritto (titoli di credito). Quando lo scritto
rappresenta un atto o un negozio giuridico in difetto di sottoscrizione perde importanza, poiché non si può
attestare la paternità o l’imputabilità del fatto.

L’atto pubblico è definito all’art. 2699 c.c. “il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o
altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato”. L’atto
pubblico fa piena prova fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo
ha formato e delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua
presenza o da lui compiuti. Non si tratta di una prova legale, non si limita il potere del giudice, ma la sua
efficacia probatoria discende dalla funzione attestativa attribuita per legge a determinati pubblici ufficiali.
Per produrre i suoi effetti l’atto pubblico occorre che il pubblico ufficiale sia competente, che sia capace di
ricevere l’atto e che siano osservate le formalità prescritte nello svolgimento della funzione attributiva di
pubblica fede. In difetto, ha valore di scrittura privata. L’atto pubblico è per definizione autentico. La sua
forza probatoria riguarda il lato esteriore dell’atto d non il contenuto intrinseco delle dichiarazioni o i
giudizi e le valutazioni espresse dal pubblico ufficiale nel corpo di esso. La giurisprudenza riconosce la
natura di atti pubblici ad altri atti posti in essere da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, aventi
per legge la funzione attestativa o certificativa in ordine a determinati fatti o attività di rilievo giuridico.

La scrittura privata è quel documento formato direttamente dai soggetti interessati senza l’intervento del
pubblico ufficiale. Sorge quindi il problema della sua autenticità. L’unico elemento che consente di
individuare gli autori è la sottoscrizione. Se questa è riconosciuta dalla parte che l’ha apposto e contro il
quale il documento è prodotto fa piena prova fino a querela di falso (ma solo al fatto della provenienza
della scrittura autenticata). Può essere prodotto questo effetto anche se questa viene per legge considerata
come riconosciuta (per es. quando l’autenticazione della sottoscrizione sia fatta da un notaio o da un
pubblico ufficiale a ciò autorizzato, che attestano che x soggetto ha firmato y documento). La parte contro
cui è prodotta la scrittura privata deve negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione,
mentre gli eredi o aventi causa possono limitarsi a dichiarare di non conoscerle (art. 214). Dichiarazioni che
devono farsi a pena di decadenza nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. In
mancanza la sottoscrizione si ha per riconosciuta. Se la parte è contumace, conserva la facoltà di
disconoscimento nel momento in cui si costituisce, anche tardivamente, motivo per cui la Corte
costituzionale ha sancito la necessita di notificargli i verbali attestanti la produzione di scritture private in
corso di causa e non menzionate negli atti già notificati ad esso. Il disconoscimento impedisce che ne risulti
provata la provenienza. La parte interessata ad avvalersene può chiedere la verificazione giudiziale per
accertarne la autenticità, che se si conclude con sentenza favorevole allo stesso, comporta gli effetti
probatori del riconoscimento.

L’efficacia probatoria della scrittura privata deriva dal fatto che è imputabile alle parti della controversia,
motivo per cui la scrittura privata del terzo non ha gli stessi effetti probatori ma può al più costituire mezzo
di prova atipico o mezzo indiziario o presuntivo. Se la scrittura privata del terzo documenti fatti rilevanti per
una parte in causa questa può chiamare a testimonianza il terzo autore.

Se alla scrittura privata autenticata manchi la firma perde del tutto efficacia probatoria non potendosi
attestare la volontà del soggetto di assumersi la paternità dell’atto. Questo anche se risulti che egli abbia
materialmente scritto l’atto, a meno che non lo abbia prodotto in giudizio. Se il documento sia solo
ricognitivo o dichiarativo di fatti o situazioni processualmente rilevanti che non si concretino in atti o negozi
giuridici allora può ammettersi la conferma della provenienza attraverso l’esame grafico.

La data degli atti giuridici è molto importante soprattutto quando della anteriorità di essi rispetto ad altri la
legge fa discendere conseguenze. Nel caso dell’atto pubblico, è il pubblico ufficiale ad apporre la data,
quindi nulla accade. Nella scrittura privata, per proteggere i terzi da eventuali frodi, la data non è di norma
certa e computabile rispetto ai terzi (tra le parti ha piena validità) a meno che non ricorrano le circostanze
di: autenticazione scrittura privata, la stessa sia stata fiscalmente registrata, morte o impossibilità fisica
sopravvenuta di uno degli autori, fatto che stabilisca in modo certo l’anteriorità del documento. Se
contiene dichiarazioni unilaterali non dirette a persona determinata invece può accertarsi la data con ogni
mezzo di prova. Se si tratta di quietanza il giudice può ammettere ogni mezzo di prova per accertare la
data, tenuto conto delle circostanze.
Scopo sia della querela di falso che della verificazione della scrittura privata, anche se hanno presupposti ed
oggetti diversi, è accertare se un documento corrisponda al vero nelle parti e per gli aspetti costituenti la
prova in giudizio. La loro natura giuridica è quella dell’azione, infatti possono proporsi oltre che in via
incidentale anche in via principale: non si tratta di semplici procedimenti istruttori/a fini istruttori. Quindi si
tratta di azioni di accertamento, non di azioni costitutive (al massimo azioni di accertamento costitutivo).
Ciò se vi sia un adeguato interesse, e nel caso è competente il tribunale (domanda di valore indeterminato)
L’oggetto è il fatto della falsità o della verità del documento nella misura in cui questo fatto riveste un
interesse giuridico per le parti e il processo. L’interesse è dato dall’attitudine probatoria nel processo in
corso o in quello futuro (non dalla verità/falsità del documento, è l’effetto di prova che viene dedotto in
giudizio).

La verificazione della scrittura privata presuppone che la parte contro cui sia stata prodotta l’abbia
disconosciuta, così che il documento non ha alcuna efficacia probatoria. La parte che intende avvalersi della
scrittura privata disconosciuta ha l’onere di chiederne la verificazione. Non è ammissibile questo
strumento: se manca la firma, essendo la verificazione della scrittura privata volta a fare prova della
provenienza delle dichiarazioni sa chi l’ha sottoscritta (ex. Art. 2702 c.c.); se si disconosca non la firma ma il
contenuto dell’atto (per esempio se si affermi l’abusivo riempimento di un foglio firmato in bianco) nel qual
caso bisogna proporre querela di falso. Verificazione e querela di falso sono due rimedi tra loro alternativi
ed incompatibili, non si può impugnare con querela di falso la scrittura privata invece di disconoscerla (non
fa prova fino a querela di falso e manca l’interesse, potendosi raggiungere lo scopo con il semplice
disconoscimento). Secondo l’art. 216 la verificazione si richiede con istanza da proporsi in giudizio con ogni
atto idoneo a raggiungerne lo scopo, e si può chiedere anche in appello se il disconoscimento avvenga in
questo grado di giudizio. Generalmente il giudice dispone una consulenza tecnica grafologica con la quale si
compari la firma con altre che siano accertate di pugno della parte che contesta. Sulla verificazione si
pronuncia sempre il collegio (quando la causa debba essere decisa dal tribunale in composizione collegiale).

La querela di falso è l’azione con cui si contesta l’efficacia probatoria dell’atto pubblico e della scrittura
privata riconosciuta o presunta tale per lege. Se si riferisce all’atto pubblico ha contenuto più ampio,
essendo che questo fa fede sia per il lato esteriore dell’atto che per il suo contenuto, a differenza della
scrittura privata riconosciuto che fa fede solo per il lato esteriore dell’atto (poi per contestare il suo
contenuto si usano le normali deduzioni difensive da usarsi in giudizio). Se la scrittura privata sia stata
oggetto di verificazione giudiziale non può presentarsi per gli stessi aspetti la querela di falso, non essendo
consentita una duplice pronuncia di merito sullo stesso punto. Secondo la giurisprudenza si deve proporre
querela di falso per contestare il testamento olografo, nonostante questi abbia natura di scrittura privata.
La querela di falso può proporsi oltre che in via principale, in via incidentale in ogni stato e grado del
processo finché non sia accertata la verità del documento con sentenza passata in giudicato. Se proposta
davanti a giudice diverso dal tribunale il processo è sospeso fino alla sua risoluzione (se davanti la
Cassazione solo riguardo documenti prodotti per la prima volta in sede di legittimità e non attinenti al
merito). Sempre se proposta in via incidentale, l’istanza deve essere presentata dalla parte personalmente
o da procuratore munito di mandato speciale con indicazione specifica dei documenti da contestare. Deve
contenere anche a pena di inammissibilità la indicazione degli elementi e delle prove della falsità. Il giudice,
quindi, chiede alla controparte se intende ancora avvalersene, se no esso non è utilizzabile nel giudizio e
non si dà luogo a procedere, se si il giudice valuta la rilevanza dell’atto e se lo giudica tale autorizza la
prosecuzione del processo introdotto con la querela di falso. In esito all’istruzione il collegio pronuncia la
sentenza, che se rigetta la querela ordina la restituzione del documento, che sia menzionato nell’originale e
condanna il querelante a una pena pecuniaria. Se accolta si applicano le disposizioni del c.p.p. in materia di
pronunce sulla falsità dei documenti. È sempre obbligatorio l’intervento del PM, quindi, è necessaria la
decisione collegiale. L’esecuzione delle sentenza ha luogo dopo il passaggio in giudicato e se non vi
provvedono le parti lo fa il PM.
La legge nel Codice civile disciplina anche l’efficacia probatoria di:

- Telegramma. Se sottoscritto dal mittente o da lui consegnato o fatto consegnare dall’ufficio di


partenza è equiparato a scrittura privata. La sottoscrizione può essere autenticata da un notaio. Il
suo testo si presume conforme al testo originale fino a prova contraria.
- Carte e registri domestici. Non richiedono sottoscrizione, fanno prova contro chi li ha scritti quando
enunciano un pagamento ricevuto o suppliscono alla mancanza di titolo a favore del creditore. Vale
anche per le annotazioni
- Scritture contabili di imprese soggette a registrazione. Anche se non sottoscritte fanno prova
contro l’imprenditore (ma non si può scindere il contenuto se si intende avvalersene). Se bollate e
vidimate fanno prova nei rapporti tra imprenditori, ma è rimesso al prudente apprezzamento del
giudice la loro efficacia probatoria. La comunicazione integrale può essere ordinata solo nelle cause
di scioglimento di società, comunione dei beni e successione mortis causa.
- Riproduzioni meccaniche. Prova di quanto rappresentato salvo disconoscimento
- Tacche o taglie di contrassegno per somministrazione periodica di merci.
- Copie di atti. Se gli originali sono depositati presso gli uffici pubblici le copie rilasciate nelle forme di
legge dagli stessi fanno fede come gli originali. Se mancano gli originali le copie fanno piena prova
salvo difetti esteriori (li apprezza il giudice nel caso). Le copie rilasciate dai pubblici ufficiali per il
resto hanno valore di un principio di prova per iscritto. Le fotocopie sono parificate agli originali se
la loro conformità è attestata da un pubblico ufficiale competente e non sono disconosciute
espressamente.
- Atti di ricognizione o rinnovazione, con cui le parti riconoscono o rinnovano il contenuto di un
documento. Piena prova salvo che nel raffronto con lo stesso non ci siano errori.

Il giudice su istanza di parte può ordinare all’altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o
altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo (art. 210). Se comporta una spesa, è anticipata
dalla parte richiedente. Se ordinata ad un terzo il giudice cerca di conciliare l’interesse della giustizia ai
diritti del terzo e può disporre che questi sia citato in giudizio assegnando alla parte istante un termine per
provvedervi. L’istanza di esibizione deve indicare il documento o la cosa e quando necessario offrire la
prova che il destinatario dell’ordine li possieda. È diversa dall’ispezione giudiziale, che invece è disposta di
ufficio ed è un mezzo di inquisizione giudiziale. È un modo delle parti per assolvere all’onere probatorio che
si atteggia come un surrogato ella produzione spontanea delle prove documentali. Può avere ad oggetto
solo le prove documentali espressamente considerate e disciplinate dalla legge sostanziale e solo se abbia
per legge o per volontà delle parti una intrinseca destinazione probatoria. Se la parte si rifiuta di
ottemperare all’ordine di esecuzione il giudice ne può desumere argomenti di prova, ma ciò si esclude se
sia il terzo a rifiutarsi.

Secondo l’art. 213 il giudice può richiedere informazioni alla p.a. per avere la conoscenza di atti e
documenti dell’amministrazione inerenti a situazioni di fatto allegate in giudizio (salvo che la p.a. sia parte
in causa). La giurisprudenza esclude gli enti pubblici ed economici dalla amministrazioni a cui si possono
chiedere (senza che ciò sia scritto all’art. 213).

4-LE PROVE NEGOZIALI

La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli
all’altra parte. Per la sua efficacia la persona deve avere capacità di disporre del diritto e questo diritto deve
essere tra quelli disponibili. La confessione forma piena prova contro colui che l’ha fatta. Se diretta a un
terzo o contenuta in un testamento o provenga solo da alcuni litisconsorti nel processo litisconsortile,
perde la sua efficacia di piena prova ed è liberamente apprezzabile dal giudice. Se aggiunge fatti o
circostanze che ne bloccano gli effetti forma piena prova nella sua globalità, salva la contestazione dell’altra
parte, e anche in questo caso sarà il giudice a valutare secondo il suo libero appressamento. Non può
provarsi confessione per testimoni se verte su un oggetto per cui è esclusa questa prova. Per quanto
riguarda la natura giuridica della confessione, essa è di solito qualificata come prova legale, ma Monteleone
non è d’accordo e dice che essa è un surrogato della prova e ha come fondamento l’autonomia negoziale e
il potere dispositivo delle parti. Il giudice ne è vincolato quindi non tanto per l’imposizione della legge ma
perché la legge e lo stesso giudice prendono atto che gli interessati hanno disposto in questo modo di un
loro diritto. Lo si evince sia dalla regolamentazione della confessione sia dall’indirizzo giurisprudenziale che
richiede per aversi confessione l’animus confitendi: è l’intenzione di rendere una dichiarazione di fatti a sé
sfavorevoli che distingue la confessione con altri istituti simili, che non hanno la stessa efficacia. In
mancanza di questi requisiti la dichiarazione della parte è inidonea a formare piena prova contro colui che
l’ha fatta ed è assimilata alle prove normali. La confessione ha per oggetto esclusivo dei fatti, anche se una
parte può riconoscere la fondatezza del diritto/pretesa della controparte (che verrà così esonerata
dall’onere probatorio) e si distingue dall’ammissione implicita ed esplicita di fatti dedotti dall’avversario:
con questa si esclude la necessità della prova ma non ha efficacia vincolante per il giudice. Può essere
stragiudiziale (contenuta in qualsiasi documento formato da una parte e diretto all’altra) o giudiziale, la
quale a sua volta può essere provocata o spontanea. Quella provocata è ottenuta solo mediante
l’interrogatorio formale, che viene richiesto dalla parte al giudice e verte sui fatti dedotti e rilevanti in
giudizio, che sono enunciati in articoli separati e specifici su cui si chiede la verità. Il giudice ne verifica
ammissibilità e rilevanza, quindi lo ammette (non si può più modificare nulla, il giudice può chiedere
chiarimenti) ed è fatto dalla parte personalmente senza scritti preparati (in caso note/appunti). Se la parte
non si presenta i fatti sono considerati ammessi. In sede di interrogatorio libero non si può avere né
confessione spontanea né provocata. La confessione giudiziale spontanea è quella contenuta in qualsiasi
atto processuale firmato personalmente dalla parte. L’atto di citazione, non essendo formato dalla parte e
non potendo integrarsi in esso la volontà di dichiarare fatti a sé sfavorevoli, non la può contenere (al più si
tratta di ammissioni).

Il giuramento decisorio è quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o
parziale della causa. Comporta, quindi, la decisione irreversibili della causa, senza lasciare al giudice
margine di apprezzamento e può essere deferito ed ammesso in ogni stato e grafo del processo, per cui
può anche ribaltare l’esito di un giudizio. Non consente prove contrarie e la sua falsità accertata in sede
penale non può dare ingresso alla revocazione della sentenza. Per il suo deferimento e la sua prestazione le
parti devono essere capaci di disporre del diritto controverso e questo deve essere disponibile. Inoltre, non
può essere disposto sopra un fatto illecito o un contratto per cui sia richiesta la forma scritta, per negare un
atto pubblico né su un fatto che non sia comune a entrambe le parti (2739 c.c.). Ai fini della decisione è
irrilevante la corrispondenza al vero di quanto giurato. Non si tratto di un mezzo di prova quanto più di uno
strumento sostitutivo della prova costituente manifestazione del potere dispositivo delle parti nel processo.
Può distinguersi in de veritate, nel qual caso verte su un fatto proprio della parte e può essere a sua volta
rinviato al mittente perché giuri chi ne aveva chiesto per primo la ammissione (se sia un fatto comune ai
contendenti) e al rifiuto di prestarlo senza giustificato motivo si ha la soccombenza rispetto alla domanda o
al punto di fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso della parte chiamata a giurare. C’è
poi il giuramento de scientia, nel quale si gira sulla conoscenza che la parte abbia di un fatto, nel qual caso il
rifiuto di prestarlo comporta la soccombenza della parte che lo ha deferito (nel senso che si nega la risposta
favorevole alla parte che lo ha chiesto). La dichiarazione relativa al deferimento deve provenire dalla parte
personalmente o dal procuratore munito di mandato speciale ad hoc. Può essere deferito anche ad una
persona giuridica. Quando il giudice lo ammette non può mutare la formula che la parte ha l’obbligo di
articolare in modo preciso ed univoco, a pena di inammissibilità: se lo fa la parte può revocarlo. Oggetto del
giuramento sono i fatti controversi decisivi (non solo rilevanti) o la notizia di essi. Il giuramento è ammesso
con ordinanza del giudice istruttore, che può essere revocata dal collegio nelle cause di sua pertinenza o al
momento della decisione se lo ritenga inammissibile. Si deve notificare l’ordinanza di ammissione
personalmente alla controporta che finché non dichiari di essere pronta a giurare può riferirlo anche alla
controparte (se si tratti di giuramento de veritate su fatti comuni). Quando si dichiari pronta il giuramento
non può più essere revocato. Si dice che le contestazioni sono decise dal collegio, ma l’articolo risulta
abrogato con la riforma del '90 e di conseguenza a queste provvede il giudice istruttore ex. Art 186. Il
giuramento decisorio deve essere prestato personalmente dalla parte in udienza appositamente fissata,
previa ammonizione del giudice sull’'importanza dell’atto e delle conseguenze penali derivanti dalle
dichiarazioni false.

Ci sono infine il giuramento estimatorio e quello suppletorio, che sono mezzi di integrazione delle prove
che possono essere disposti dal giudice in seguito ad una sua valutazione discrezionale quando le prove
addotte in giudizio non siano pienamente convincenti. Il giuramento estimatorio serve a determinare un
valore, nel caso il giudice indica una somma massima superata la quale il giuramento non ha efficacia.
Vengono deferiti dal collegio nelle cause ad esso riservate. Il giuramento deferito di ufficio ad una parte
non può essere da queste deferita all’altra parte.

La testimonianza è una fonte rappresentativa e indiretta (il testimone non è l’autore del fatto) di prova,
poiché serve a portare alla cognizione del giudice fatti giuridici allegati a fondamento delle domande,
eccezioni o difese. il testimone deve essere una persona fisica e la fonte della prova stanno nella sua mente
e nella sua memoria. Deve essere un terzo, quindi è una figura incompatibile con le parti e con il giudice.
Riferisce sui fatti che siano decisivi e rilevanti ai fini della statuizione su domande, eccezioni e difese, che ha
avuto occasione si osservare, percepire, conoscere, mai su opinioni, valutazioni o giudizi. La prova
testimoniale è sottoposta a limiti di legge. I limiti oggettivi dicono che non può essere ammessa per
contratti che abbiano per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento se si afferma che
siano stati stipulati prima o contemporaneamente ad esso. Meno rigido il divieto per l’ammissione riguardo
a contratti con valore superiore a 5.000 £ (tutti) e se i patti aggiunti o contrari fossero stipulati
posteriormente: in questi due casi il giudice può ammettere la testimonianza nel primo caso in
considerazione della qualità delle parti, della natura del contratto o per altre circostanze, nel secondo se la
circostanza (patto) appare verosimile sempre per gli stessi motivi sopra detti. Non è ammessa se un
contratto richiede la forma scritta ad substantiam o ad probationem tantum prevista dalla legge o dalle
parti (a meno che il contraente abbia perduto senza colpa il documento probatorio). Il divieto si riferisce al
contratto inteso come negozio giuridico, non alla sua stipulazione generica. È in ogni caso ammessa se vi sia
un principio di prova per iscritto che faccia apparire verosimile il fatto allegato o se il contraente si sia
trovato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi prova scritta o abbia perso senza sua colpa il
documento probatorio. Per i limiti soggettivi, non possono essere assunti come testimoni coloro che
abbiano nella causa un interesse giuridico concreto ed attuale tale da legittimare la loro partecipazione al
giudizio. Questi stessi limiti si applicano anche al pagamento e alla rimessione di debito. La richiesta di
assunzione della testimonianza deve essere fatto entra la prima udienza di comparizione e trattazione della
causa (rinvio art. 183). Il giudice la ammette quando sia permessa dalla legge e rilevante, e l’ammissione
può essere anche parziale. L’ammissione è disposta con ordinanza, contro la quale non è più consentito
reclamo al collegio, il quale però può revocarla in fase di decisione. Con la stessa si fissa l’udienza nella
quale dovranno essere escussi i testimoni che la parte dovrà fare intimare, almeno sette giorni prima
dell’udienza, mediante ufficiale giudiziale (non è necessario se si presenti spontaneamente in udienza) o gli
avvocati se la testimonianza è richiesta dalla parte, i quali depositano copia della lettera raccomandata e
della ricevuta di ritorno. Se il teste non si presenta spontaneamente il giudice può ordinare una nuova
intimazione o l’accompagnamento in udienza per mezzo della forza pubblica. In caso di mancata
comparizione il testimone può essere condannato al pagamento di una pena pecuniaria tra i 200 e i 1000
euro. I testimoni sono identificati, dichiarano eventuali legami di parentela, affinità o interesse con le parti,
prestano giuramento e poi sono interrogati. Il giudice rivolge le domande dell’articolato e di ufficio o su
richiesta di parte se ritenute utili a chiarire i fatti. In caso di deposizioni discordanti può disporre che i teste
diano messi a confronto. È possibile che la testimonianza sia resa in forma scritta, a due condizioni: che vi
sia l’accordo delle parti e che il giudice vi acconsenta in relazione alla natura della causa e tenuto conto di
ogni altra circostanza. La parte che ha richiesto la prova predispone il modello scritto della testimonianza
con gli articolati e lo fa notificare al teste. La risposta deve contenere la sottoscrizione autenticata del teste
anche in ogni foglio intercalare e alla fine e deve essere spedita nel termine alla cancelleria del tribunale
con raccomandata o consegna diretta. In mancanza di risposta nel termine il giudice può condannarlo alla
pena pecuniaria. Il giudice può sempre chiamare il testimone a deporre davanti a lui.

L’ispezione può avere ad oggetti cose mobili, immobili o persone. Il giudice la dispone con ordinanza, in cui
fissa tempo, luogo, e modalità. È eseguita dal giudice personalmente eventualmente accompagnato da un
consulente tecnico. Le parti hanno diritto di partecipare, ma comunque è redatto della stessa un verbale. Il
giudice può ordinare che si eseguano calchi, rilievi, planimetrie, riproduzioni, riprese e simili, esperimenti
per riprodurre un fatto. Può ascoltare testi per informazioni e dare disposizioni all’esecuzione dei mezzi.

La procedura di rendimento dei conti si inserisce nell’ambito delle prove anche se può condurre a
provvedimenti decisori. Deve esserci un obbligo legale o contrattuale in forza del quale un soggetto sia
tenuto a rendere ad un altro il conto di una gestione economica o patrimoniale. Al di fuori di questi casi il
giudice ha la facoltà discrezionale di ricorrere a questo procedimento probatorio accertando l’obbligo sopra
detto. Il procedimento presuppone sempre la domanda di parte e si apre con l’ordine del giudice di
presentazione del conto e la fissazione di una udienza per la sua discussione, preceduta dal deposito in
cancelleria almeno cinque giorni prima del conto e dei documenti giustificativi. Se il conto è accettato dalla
controparte o le parti concordino un nuovo risultato del conto il giudice con ordinanza non impugnabile
costituente titolo esecutivo dispone il pagamento delle somme dovute. Se il conto è respinto e non si
raggiunge un accordo il giudice può disporre con ordinanza non impugnabile costituente titolo esecutivo il
pagamento dell’eventuale sopravanzo risultante dal conto contestato. È previsto l’uso del giuramento, in
una particolare forma di giuramento decisorio. Se la parte abbia approvato il rendiconto la sua revisione
può essere chiesta solo in caso di errore materiale, omissione, falsità o duplicazione di partite.

LE VICENDE ACCIDENTALI DEL PROCESSO LE MODALITA’ PROCESSUALI DELL’INTERVENTO: rimanda a parte


II capitolo VII “dell’esercizio dell’azione” sezione III §B: INTERVENTO

LA RIUNIONE DEI PROCEDIMENTI

Presupposto essenziale per la riunione dei procedimenti è il fatto che le controversie pendono davanti lo
stesso ufficio giudiziario o addirittura davanti lo stesso giudice. Si tratta in questi casi solo di eliminare una
anomalia giudiziale che darebbe luogo a uno spreco di giurisdizione. Ci sono due casi:

1. Simultanea pendenza innanzi al medesimo ufficio giudiziario di cause identiche o continenti, in un


fenomeno analogo alla litispendenza con la sola differenza che non sorge questione di competenza
non essendo poste davanti giudici diversi. In questo caso devono essere necessariamente riunite,
con la piena unificazione dei procedimenti che perdono la propria individualità
2. Cause connesse (connessione propria o impropria) che pende davanti lo stesso g.i. che può disporre
la riunione, o davanti giudici/sezioni diversi dello stesso tribunale, nel qual caso il primo che ne ha
notizia lo riferisce al presidente che ordina che siano chiamate davanti allo stesso giudice che poi
deciderà se riunirle o no. Quindi, salvo che si tratti di controversie di lavoro o del giudice di pace,
per cui la connessione è obbligatoria, il giudice ha un margine di discrezionalità. La riunione qui non
fa venire meno la individualità delle liti connesse. Secondo la S.C. (Monteleone non condivide
l’orientamento) l’interruzione di una si estende a tutte.

RAPPORTI TRA GIUDICE UNICO E COLLEGIO IN TRIBUNALE

Con lo sdoppiamento del tribunale in giudice in composizione monocratica e collegiale sono state
necessarie delle norme di coordinamento. Se il collegio è investito di una causa di pertinenza del giudice
unico l’organo collegiale rimette la causa al singolo con ordinanza non impugnabile e questi fa precisare di
nuovo le conclusioni per poi rimettere la causa in decisione innanzi a sé. Viceversa, se il giudice istruttore
rilevi che la causa da lui assunta in decisione spetti all’organo collegiale, invita le parti a precisare di nuovo
le conclusioni e poi rimette la causa al collegio. Se sussiste connessione IN SENSO PROPRIO tra cause
attribuite al collegio e al giudice istruttore il giudice unico ne ordina la riunione (che è obbligatoria e non
più discrezionale) e il collegio attrae a sé il potere di decidere su tutte, se non si voglia avvalere della facoltà
di separare alcune cause che richiedano una ulteriore istruttoria o siano di competenza di un giudice
inferiore. la ripartizione del potere decisorio nell’ambito del tribunale non costituisce questione di
competenza. L’errore circa la individuazione del giudice non attiene alla costituzione dello stesso ma è
causa di nullità sanabile con il passaggio in giudicato della sentenza, quindi, opera il principio
dell’assorbimento della nullità nei mezzi di gravame. Il giudice che rilevi la nullità della sentenza per difetto
di composizione del giudice probabilmente ne dichiarerà solo la nullità, costringendo le parti a iniziare da
capo, questo per evitare di rendere sostanzialmente privo di valore la ripartizione delle cause tra giudice
unico e collegio.

IL PROCEDIMENTO IN CONTUMACIA

Perché ci sia contumacia è necessario che: un soggetto acquisisca la qualità di parte avendo proposto o
essendo colui contro è proposta una domanda giudiziale; che detto soggetto non si sia costituito in giudizio
o che la sua costituzione sia irregolare o nulla. La contumacia non fa perdere la qualità di parte ma
comporta delle modifiche per salvaguardare il diritto di difesa della parte contumace e il diritto ad evitare
eccessive lungaggine della controparte. La contumacia non può essere di entrambi, perché se nessuno si
costituisce entro il termine impartito per legge sopravviene una stasi processuale per tre mesi, durante il
quale il processo deve essere riassunto (assimilabile alla cancellazione dal ruolo) e infine l’estinzione
rilevabile d’ufficio. Si ha contumacia dell’attore quando non si sia costituito nel termine di legge e il
convenuto lo abbia fatto. a questo punto, se il convenuto comprare alla prima udienza e chiede la
prosecuzione del giudizio, il giudice istruttore provvede all’istruzione della causa e dichiara l’attore
contumace. Se il convenuto non compare/non richiede la prosecuzione il giudice ordina la cancellazione dal
ruolo e si ha estinzione immediata. Se il convenuto non si sia costituito il giudice prima controlla la validità
della notificazione, ordinando eventualmente la sua rinnovazione se rileva un vizio, che deve essere fatta
entro un termine perentorio: se non la si fa, o anche questa sia irregolare, è ordinata la cancellazione dal
ruolo e il processo si estingue. Questo sempre se non sia tanto vizia da considerarsi come non data, nel qual
caso di può ordinare la rinnovazione. Se l’attore adempie alla rinnovazione o la citazione era regolare, il
convenuto è dichiarato contumace.

Alcuni provvedimenti giudiziali e atti di parte devono essere notificati al contumace personalmente per le
conseguenze sfavorevoli a suo carico che da questi discendono, per gli altri basta il deposito in cancelleria.
Si tratta di un elenco tassativo: l’ordinanza che ammette l’interrogatorio formale o il giuramento, atti che
contengono domande nuove o riconvenzionali (ammissibile e consentita dalla legge del processo), il verbale
in cui si da atto della produzione in giudizio di una scrittura privata non precedentemente menzionata, per
Monteleone anche l’istanza di ingiunzione di pagamento o di consegna in corso di causa, le sentenze. Il
contumace ha facoltà di costituirsi tardivamente in giudizio entro l’udienza di precisazione delle
conclusioni, in udienza o in cancelleria, con il deposito di una comparsa con la procura e i documenti. Alla
prima udienza conserva la facoltà di disconoscere le scritture private prodotte contro di lui. In caso di
istanza di ingiunzione di pagamento o di consegna o in corso di causa, se emessa o notificata dopo l’udienza
di precisazione delle conclusioni, sussistendo in tal caso l’onere per il contumace di costituirsi entro 20
giorni, può farlo nonostante sia passato quel termine. Nel costituirsi tardivamente il contumace subisce
tutte le preclusioni maturate nel processo a meno che non chieda e ottenga un provvedimento di
rimessione dei termini, dimostrando la nullità della citazione o della sua notificazione, che gli abbiano
impedito di avere conoscenza del processo o che la costituzione in giudizio gli sia stata impedita da causa a
lui non imputabile. È dubbio se possa avvalersi della clausola generale di rimessione per decadenza incorsa
per causa non imputabile.

LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO

Secondo l’art. 295 il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in egli stesso o un altro giudice
deve risolvere una controversia, della cui definizione dipende la decisione della causa. È una previsione
generale, che ha comportato un abuso di questo istituto, poiché i giudici operavano una sospensione, che
risultava essere anche obbligatoria, non solo nei casi previsti dalla legge, avendo quindi, facoltà
discrezionale di decidere quando disporla: si è trasformata in uno strumento legalizzato di ritardata, o
anche denegata, giustizia. E la situazione è peggiorata con la riforma del ’90, fino a che la Corte di
Cassazione non ha stabilito che al di fuori dei casi previsti espressamente dalla leffe il giudice non ha il
potere di sospendere il processo in base a proprie valutazione discrezionali e provvedimenti del genere, se
impugnati, devono essere annullati. La sospensione facoltativa su istanza di parte, che ha una durata
massima di tre mesi, è irrilevante considerando il tempo che intercorre tra un’udienza e l’altra.

Il provvedimento che dispone la sospensione ha natura ordinataria, è emesso con ordinanza ed è


impugnabile con regolamento di competenza (dubbio se sia revocabile: c’è un apposito mezzo di
impugnazione). L’ordinanza è emessa dal giudice istruttore senza necessità di rimettere la causa in
decisione, se è di competenza del collegio è uguale, a meno che non sia diversamente imposto dalla legge.
Sospeso il processo, non possono essere compiuti atti processuali salvo quelli previsti dalla legge, i termini
si sospendono e riprendono a decorrere con il giudizio. per la prosecuzione abbiamo due ipotesi: il
provvedimento del giudice fissa l’udienza in cui il processo deve proseguire, nessun problema. Il giudice
non lo sa, le parti hanno l’onere di chiederne la fissazione entro 3 mesi dal passaggio in giudicato della
sentenza che definisce la causa pregiudiziale; se si tratta di sospensione su istanza di parte 10 giorni prima
della scadenza del periodo di sospensione. Altrimenti il processo si estingue. Il ricorso e il decreto di
fissazione dell’udienza devono essere notificati a cura dell’istante a tutte le parti nel termine stabilito dal
giudice.

L’INTERRUZIONE DEL PROCESSO: parte II, capitolo VII, sezione III; §C SUCCESSIONE

L’ESTINZIONE DEL PROCESSO

Un processo che pende indefinitamente è una patologia che l’ordinamento cerca di prevenire ed eliminare.
Si ha in due eventualità: se continua a pendere in condizione di stasi in assenza di atti processuali, nessun
problema. Nella seconda, nella quale ci sono problemi, consiste nello stato di incertezza derivante dalla
controversi sul diritto in contesa. Il rimedio escogitato nel processo civile è l’estinzione, che è conseguenza
del mancato compimento ad opera delle parti di alcuni fondamentali atti di impulso processuale entro il
termine perentorio fissato per legge o dal giudice, o come conseguenza della rinuncia agli atti del giudizio.
Suole dirsi che l’estinzione sia un modo anormale di conclusione del processo, a differenza di quello
normale che è la sentenza: tale distinzione non ha significato, perché l’estinzione non ha nulla di anormale
e perché è oggetto di provvedimento dichiarativo (sentenza o ordinanza) che conclude il processo. Se
avviene in sede di gravame comporta poi il passaggio in giudicato della sentenza.
L’art. 306 regola la fattispecie di estinzione per rinuncia agli atti del giudizio. Questa è diversa dalla rinuncia
all’azione o alla domanda perché opera su un piano puramente processuale, le altre su un piano sostanziale
e solo in via indiretta si riflettono sul processo. Non hanno attinenza con questo tema le rinunce a domande
o conclusioni in precedenza precisate, con le quali il processo non si estingue. La rinuncia agli atti deve
provenire dalla parte personalmente o dal suo procuratore speciale munito di procura speciale ex. Art. 83,
e deve essere accettata dalle altre parti costituite che potrebbero avere interesse nella sua prosecuzione.
Quando c’è un litisconsorzio necessario o intervento adesivo dipendente o intervento coatto la rinuncia
deve provenire o essere accettata da tutte le parti. Quando vi siano più liti cumulate in un unico processo,
cumulo processuale per intervento principale o adesivo autonomo, può prospettarsi la rinuncia per alcuna
delle liti congiunte da parte dei soggetti ad esse interessati. La rinuncia agli atti e la sua eventuale
accettazione sono atti processuali unilaterali che non tollerano riserve o condizioni. Le dichiarazioni
possono essere fatte in udienza e raccolte in verbale sottoscritto dalle parti, o con atti extragiudiziali
sottoscritti e notificati alle parti. Il giudice, dopo aver verificato il rispetto delle norme in materia di
rinuncia, dichiara l’estinzione del processo. Le spese fanno carico al rinunciante, salvo accordo contrario tra
le parti nelle dichiarazioni di rinuncia e accettazione. Le spese sono liquidate da giudice istruttore con
ordinanza non impugnabile ma contro cui è proponibile ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost.

In tutti gli altri casi il fenomeno si verifica a causa dell’inattività delle parti, da intendersi come il mancato
compimento di specifici atti processuali entro il termine perentorio fissato dalla legge o dal giudice. È
questione di discrezionalità legislativa stabilire quali siano questi atti. Quando entro un termine perentorio
debba compiersi un atto e questo sia viziato da nullità insanabile, oppure questa non sia sanata, non si
impedisce il verificarsi dell’estinzione e non rileva che quell’atto, seppur viziato, sia stato posto in essere.
Prima dell’estinzione si ha la cancellazione dal ruolo, a cui segue un periodo di tre mesi di stasi giudiziaria
entro cui è consentito riassumere il giudizio per evitarne l’estinzione, ma può farsi solo una volta nel corso
dello stesso processo: la seconda cancellazione, dopo la prima sanata, comporta l’estinzione. In caso di
mancata riassunzione il processo si estingue. Nel libro si riporta qualche caso controverso: la mancata
comparizione in udienza di prima comparizione della parti comporta, previa fissazione di altra udienza di cui
viene data comunicazione alle parti, estinzione rilevabile d’ufficio. Se nessuna delle parti si costituisce il
processo vive una stasi di tre mesi, entro cui può essere riassunto, poi si estingue (no cancellazione perché
non è proprio stato iscritto a ruolo), se l’iscrizione al ruolo segui una tardiva costituzione in giudizio se ne
può rilevare il difetto e ordinare la cancellazione anche di ufficio, ma se non lo si fa e si arriva alla decisione
di merito non si verifica nessuna conseguenza negativa.

L’estinzione del processo è dichiarata anche di ufficio con ordinanza del giudice istruttore ovvero con
sentenza del collegio, ex. Art. 307 (estinzione del processo per inattività delle parti). L’ordinanza è
pronunciata dal giudice istruttore nelle cause di pertinenza collegiale e questo è l’unico caso in cui è ormai
ammesso il reclamo al collegio, da proporsi entro il termine perentorio di dieci giorni dalla
comunicazione/emanazione in udienza dell’ordinanza. Se il giudice istruttore respinge l’eccezione il
provvedimento non è reclamabile ma potrà proporsi la questione in sede decisoria davanti al collegio. La
legge non precisa se il giudice istruttore quando è giudice unico decida sull’estinzione con ordinanza o con
sentenza, anche se si propende per quest’ultima. In ogni caso, anche se decidesse con ordinanza, questa
equivarrebbe ai fini dell’impugnazione come sentenza, quindi si può impugnare in appello. È dubbio se il
giudice istruttore possa anche, piuttosto che decidere, rimettere la causa al collegio. Alcuni dicono che
mancherebbe la ragione della rimessione, potendo egli decidere da solo la questione, per Monteleone
potrebbe anche scegliere se agire in un senso o nell’altro. L’ordinanza che rigetta l’eccezione di estinzione
non è autonomamente impugnabile ma lo sarà la sentenza emessa dal collegio a conclusione del processo.
Se il collegio emette un’ordinanza invece che una sentenza, equivale per l’appello a una sentenza.
L’estinzione è dichiarata dal collegio con sentenza quando sia eccepita davanti ad esso (in questo caso si
svolge nei modi consueti) e in sede di reclamo avverso l’ordinanza del giudice istruttore. In questo secondo
caso il collegio decide in camera di consiglio, cosa che si ripete anche in appello. Se il giudice di appello
riformi la sentenza di primo grado dichiarando l’estinzione rimette le parti innanzi al giudice di primo grado;
se, invece, riforma la sentenza di estinzione dicendo che non vi è estinzione, trattiene la causa e decide nel
merito.

L’estinzione del processo non estingue l’azione, anche se la giurisprudenza è costante nell’affermare,
contrariamente a quello che dice la dottrina, che comporta la decadenza dell’azione quando sia prevista
per legge, ma a causa della decadenza non può attribuirsi all’atto introduttivo del giudizio alcun effetto
processuale o sostanziale, ma questo non corrisponde al sistema di legge. Al massimo si può dire che con il
venire meno degli effetti processuali della domanda si determina il perfezionarsi della decadenza
dell’azione. In ogni caso, l’estinzione del processo non estingue l’azione, secondo l’art. 310, per cui rende
inefficaci gli atti compiuti ma non le sentenze di rito pronunciate nel corso del processo e le sentenze che
regolano la competenza. All’art. 2945 si dice che “Se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto
interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo”., anche se non si
applica nel caso di sentenza emessa nel corso del giudizio estinto: qui, l’effetto interruttivo della
prescrizione rimane sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza. Le sentenze di cui si parla sono
quelle non definitive di merito, cioè quelle che statuiscono su questioni preliminari di merito e che pur non
esaurendo la materia sono definitive per la parte decisa. Quelle a contenuto processuale, invece, essendo
strumentali al processo sono travolte dall’estinzione (salvo le ordinanze della S.C. in sede di regolamento di
competenza). Da queste due norme si evince il principio generale che l’estinzione del processo incide solo
sugli effetti processuali e degli atti in esso compiuti, non sugli effetti diversi che agli stessi è possibile
ricollegare in base ad altre disposizioni di legge. Questo per gli atti processuali anteriori al verificarsi degli
elementi della fattispecie estintiva (non alla dichiarazione di estinzione, che essendo una dichiarazione
retroagisce al momento in cui si è verificata la fattispecie), quelli successivi sono radicalmente nulli. Dopo
l’estinzione la domanda giudiziale può essere proposta in altro giudizio. È ammissibile l’estinzione parziale
nel caso di cumulo di liti quando le cause siano distinte, mentre nel cumulo oggettivo di cause con stesse
parti o di giudizio unico con più parti, non è possibile. L’unico mezzo di prova che risente dell’estinzione è il
giuramento decisorio, che ha effetto vincolante rispetto alla decisione giudiziale solo all’interno del
processo in cui è stato raccolto (le prove documentali si possono riprodurre, la confessione al massimo vale
come stragiudiziale, la prova testimoniale o le presunzioni semplici sono sempre lasciate all’apprezzamento
e alla valutazione discrezionale del giudice). Le spese del processo così estinto stanno a carico delle parti
che le hanno anticipate. Secondo la giurisprudenza, questo se non sorga contrasto tra le parti sulla
estinzione, se invece è oggetto di contestazione il giudice chiamato a dirimere la questione decide sulle
spese secondo il regime ordinario della soccombenza.

LA SENTENZA E LA FASE DECISORIA DEL PROCESSO

LA CLASSIFICAZIONE DELLE SENTENZE

La classificazione delle sentenze non si trova nel Codice di procedura civile, ma è frutto di un’elaborzione
concettuale, motivo per cui vi sono stati in materia diversi contrasti. Appare comunque preferibile riferire la
distinzione alle parole delle sentenze o alle domande, non alle azioni. La classificazione poi deve essere
collegata alla natura delle posizioni giuridiche di cui si invoca la tutela giudiziaria.

Le prime sentenze sono quelle di accertamento. In realtà l’accertamento delle posizioni giuridiche è una
caratteristica costante e indefettibile di tutte le sentenze, e che quindi si trova in ogni sentenza, di ogni
denominazione. Le sentenze di accertamento però a differenza delle altre producono solo o principalmente
questo effetto: dichiarano l’esistenza o l’inesistenza di una posizione giuridica (nelle altre di aggiungono
altri effetti a quello dichiarativo). Questo perché statuiscono su diritti reali/assoluti, per cui la titolarità degli
stessi è accompagnata sempre dal loro godimento, il quale non dipende da prestazioni, obblighi o doveri
altrui. Questi diritti possono essere violati o minacciati e nel caso il titolare ha il diritto di agire in giudizio
per la difesa degli stessi e perché cessi l’illecito. La sentenza che dichiara l’accertamento del diritto è
sufficiente per attuare la piena tutela giurisdizionale. Lo stesso vale per le sentenze che dichiarino la nullità.
Può capitare anche sorga la necessità di eliminare in concreto le conseguenze di fatto degli abusi posti in
essere, nel caso all’accertamento si accompagnano ulteriori statuizioni suscettibili di essere eseguite
coattivamente mediante i procedimenti di esecuzione specifica. Ma queste statuizioni, che sono accessorie,
eventuali e accidentali non trasformano la tipologia di sentenza, che rimane dichiarativa (per Monteleone
sono accertamenti con funzione esecutiva). Altra questione è se esista una azione generale di accertamento
positivo o negativo svincolata da qualunque presupposto sostanziale e di contenuto meramente
processuale. La risposta che dà Monteleone è in linea di principio negativa, perché si farebbe così della
certezza un bene a sé stante tutelabile in giudizio, ma così non è nel nostro ordinamento, per cui
mancherebbe l’interesse ad agire. Si possono proporre delle azioni atipiche di accertamento, ma alle
condizioni che la domanda giudiziale deduca in giudizio un diritto/obbligo/status che si pretenda violato o
minacciato concretamente e che vi sia un interesse concreto ed attuale ad agire. Non è ammissibile
un’azione di accertamento meramente preventiva. Non possono considerarsi ammissibili neanche le azioni
volte ad ottenere l’interpretazione teorica di clausole, cioè volte a sollecitare un parere preventivo del
giudice. Secondo Monteleone il creditore non può decidere di optare per avere solo un accertamento del
proprio diritto di credito, perché mancherebbe l’interesse ad agire. Le sentenze di accertamento hanno
efficacia retroattiva e l’effetto dichiarativo diventa pienamente operante solo con il suo passaggio in
giudicato.

Le sentenze di condanna sono quelle per la tutela dei diritti relativi/personali, di cui prototipo è il diritto di
credito frutto dell’obbligazione civile. Infatti, il suo titolare per soddisfare il suo diritto, che non è il bene,
ma AL bene, necessita della prestazione dell’obbligato. Per questo motivo questa categoria di diritti è stata
ricompresa nella più ampia categoria di diritti strumentali. Per la loro natura, il semplice accertamento non
basta a completare la difesa giudiziaria del creditore: una volta acquisita la certezza la sentenza deve
contenere la condanna all’adempimento della prestazione dovuta, in previsione di un persistente
inadempimento dell’obbligato. La sentenza, quindi, costituisce titolo esecutivo (consente al creditore di
agire per la espropriazione forzata). La domanda di condanna si ritiene implicitamente e comunque
proposta quando si deduca un diritto relativo in giudizio. La sentenza di condanna ha effetto novativo,
quindi non retroagisce. L’efficacia esecutiva si differenzia dall’autorità di giudicato, e infatti questa può
essere eseguita coattivamente e costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale anche prima del
passaggio in giudicato della sentenza.

Accanto allo schema ordinario, ci sono forme speciali di sentenze di condanna:

A- Condanna generica. In questo caso si opera una scissione tra l’accertamento giudiziale di un diritto
e la determinazione quantitativa della prestazione dovuta. Il giudice accertato il diritto condanna il
debitore a adempiere senza liquidare o quantificare economicamente l’oggetto della pretesa, che
potrà essere stabilito più avanti nel corso del processo o in un altro (possono costituire oggetto di
domande e giudizi separati). Difetta dell’efficacia di titolo esecutivo e ciò ha generato in dottrina
dubbi sulla sua natura, ma secondo Monteleone rimane di condanna in virtù del fatto che è
connessa ad un rapporto giuridico obbligatorio e strumentale.
B- Condanna con riserva. La legge a volte consente al giudice di pronunciare sentenza di condanna
all’adempimento dell’obbligazione quando la fonte del diritto è in determinati atti o documenti con
sufficiente grado di attendibilità, riservandosi di esaminare le difese o le eccezioni del debitore in
una fase successiva e il cui accoglimento può comportare l’eliminazione della condanna.
C- Condanna in futuro. Ricorre nelle obbligazioni ad esecuzione differita o periodica, quando sia lecito
ritenere che il debitore non adempierà l’obbligazione nelle scadenza prefissate, evitando così di
instaurare giudizi ad ogni scadenza. (es. materia di locazione)
D- Provvedimenti anticipatori di condanna. Si tratta delle ordinanze di pagamento di somme non
contestate, le ordinanze di ingiunzione in corso di causa e le ordinanze posteriori alla chiusura
dell’istruzione. Anticipano in via provvisoria la condanna all’adempimento della prestazione dovuta
dal debitore.

Le sentenze costitutive fanno riferimento ai diritti potestativi, che possono qualificarsi anche come poteri di
diritto privato. Se un soggetto non è in grado di determinare la produzione di nuovi effetti giuridici,
costituire, modificare o estingue rapporti giuridici, cioè, senza una pronuncia giudiziale. La pronuncia
costituisce in concreto questi diritti (es. servitù prediale costituita coattivamente, azioni di annullazione,
inadempimento dell’obbligo di contrarre). Caratteristica comune è il produrre situazioni giuridiche nuove,
per cui l’accertamento da solo non basta. Possono riscontrarsi statuizioni latamente o propriamente
condannatorie, a seconda che dalla creazione discendano obblighi di ripristinare un diritto assoluto o di
eseguire una prestazione, nel caso valgono come tutolo esecutivo per la esecuzione specifica o per
l’espropriazione forzata (solo in questi casi). Non ha efficacia retroattiva e produce i suoi effetti solo fino al
passaggio in giudicato, prima sono provvisori.

Alcuni studiosi annoverano un’altra categoria di sentenze, quelle determinative o nominative,


caratterizzate dal potere discrezionale del giudice che ha per legge, in determinate ipotesi, la facoltà di
specificare e disporre in base al proprio apprezzamento. Secondo Monteleone la pronuncia che attua la
tutela del diritto dedotto sarebbe sempre di accertamento, di condanna o costitutiva, per cui questa
categoria non esiste.

LA COSA GIUDICATA §1-CONCETTO D NATURA DELL’AUTORITA’ DI COSA GIUDICATA

La cosa giudicata nasce per rispondere all’esigenza di rendere incontestabile l’accertamento giurisdizionale,
accertamento da cui discende l’esigenza del giudizio. La forza del giudicato è la speciale attitudine dell’atto
giurisdizionale che consolida irreversibilmente l’accertamento giudiziale, è un effetto della decisione della
sentenza. Non è un effetto della sentenza, infatti la sentenza esplica i suoi effetti, o comunque alcuni di
essi, a prescindere dal passaggio in giudicato, è invece una qualità della sentenza.

L’art. 324 c.p.c. regola la cosa giudicata formale, cioè fissa il momento temporale e le condizioni processuali
assolti i quali la sentenza passa in giudicato (nel momento in cui non è più soggetta ai mezzi di
impugnazione c.d. ordinari), si applica ad ogni sentenza e a qualsiasi provvedimento di contenuto decisorio,
anche se queste siano dal contenuto totalmente o parzialmente processuale. L’art. 2909 c.c. disciplina la
“cosa giudicata” che in questo caso è sostanziale, presuppone la verifica delle condizioni processuali e
stabilisce che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le
parti, i loro eredi o aventi causa. Il giudicato sostanziale è quindi attributo di un accertamento, che riguarda
quindi, la domanda giudiziale ed il diritto dedotto in giudizio, non il processo. Per questo motivo non si
applica alle sentenze a contenuto processuale: in questi casi pur essendo la sentenza passata in giudicato
formale, se le parti propongono ad un altro giudice identica questione questi potrà giudicare su di essa. Una
parziale eccezione è costituita dai regolamenti di competenza e di giurisdizione emessi dalla S.C. che invece
assumono un valore autonomo.

Quale sia il meccanismo giuridico che permette l’operatività della cosa giudicata è un argomento
controverso e ci sono diverse teorie: teoria sostanziale (sentenza come nuova fonte regolatrice del
rapporto giuridico dedotto in lite come una legge speciale, che prevale sulla legge nel caso in cui la
sentenza non sia in linea con essa); teoria processuale (divieto giurisdizionale che impedisce ai giudici di
entrare in merito di una domanda giudiziale sulla quale si sia pronunciata una sentenza passata in
giudicato); teoria dell’efficacia positiva (vincola le parti e il giudice a giudicare una seconda volta in modo
conforme alla prima) dell’efficacia negativa (divieto di una ulteriore pronuncia di merito), richiamo il
principio del ne bis in idem. Tutte hanno una parte di vero nel momento in cui arrivano al risultato di porre
l’accento sull’immutabilità dell’accertamento giudiziale, e ciò è funzionale allo scopo di impedire che si
giudichi più volte sullo stesso oggetto tra le stesse parti, cosa che farebbe venire meno la certezza giuridica.
L’immutabilità comunque è relativa: esistono i mezzi di impugnazione straordinaria.

La distinzione tra giudicato interno e giudicato esterno ha origine dal fatto che esistono sentenze non
definitive o comunque parziali atte ad acquistare l’autorità di cosa giudicata formale e sostanziale -se
statuiscono sul merito-. . Il giudicato interno esprime il concetto che vi è stata una pronuncia parziale e
produttiva di effetti vincolanti anteriormente alla sentenza che chiude definitivamente il giudizio. Queste
sentenze vincolano il giudice che le ha emesse che non può pronunciarsi di nuovo su questioni già decise, e
negli ulteriori gradi vincolano gli altri giudici, che non possono pronunciarsi su di esse in difetto di
impugnazione. In caso di violazione del giudicato interno l’eventuale decisione è nulla e la sua nullità è
rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del processo. Viceversa, il giudicato esterno è il caso normale della
sentenza passata in giudicato. Se si rimette in discussione la causa, solo le parti, con eccezione in senso
stretto, possono far valere la violazione del giudicato, mai il giudice di ufficio, infatti si tratta di un bene
della vita che rientra nel patrimonio e nella disponibilità della parte.

Il giudicato civile è garantito dalla costituzione. In primis perché l’art 111 ha introdotto una generalizzata
forma di ricorso in cassazione per tutte le sentenze, interpretata dalla S.C. come immediatamente
precettiva e considerando sentenze tutti i provvedimenti a contenuto decisorio. Questo significa che
ognuno di questi deve essere assunto nel rispetto del contraddittorio e deve consentire il controllo da parte
della S.C. ma soprattutto che a tutti è garantita l’acquisizione di cosa giudicata. Inoltre, quando di stabilisce
il diritto di agire in giudizio all’art 24 ci si riconnette al giudicato, perché senza questo l’agire in giudizio si
svuoterebbe di significato.

§2 LIMITI DELLA COSA GIUDICATA MATERIALE

Il giudicato materiale si forma sull’oggetto del giudizio, e qui sorge il primo problema perché sebbene
questo coincida in larga parte con la domanda, ci sono eventi che nel corso del processo lo possono
modificare. L’oggetto su cui si forma il giudicato, quindi, è individuato attraverso la sentenza. La sentenza
però si compone del dispositivo e della motivazione: solo il primo è coperto dal giudicato, la motivazione
invece (diversamente a quanto si sosteneva nel medioevo) ha la funzione di enunciare, a garanzia delle
parti, le ragioni di fatto e di diritto delle concrete statuizioni giudiziali. Ha funzione esplicativa e
giustificatrice e può influire sul giudicato solo come strumento per fissare in concreto il contenuto
dell’accertamento. Per quanto riguarda le questioni, invece, se sono questioni semplici, ovvero tappe logico
giuridiche che si devono attraversare per giungere alla decisione di merito, non idonee a costituire oggetto
di autonoma domanda giudiziale, non sono altro che il contenuto della motivazione della sentenza. Se
invece sono idonee a costituire oggetto di domanda autonoma e distinta rispetto a quella portata alla
cognizione del giudice e ciò sia imposto dalla legge o da una esplicita domanda di parte che allarghi
l’oggetto del giudizio, esse passano in giudicato.

La proposizione della domanda giudiziale su un oggetto comporta implicitamente la deduzione in giudizio


anche di tutte le ragioni di fatto e di diritto che ne impedirebbero l’accoglimento, a prescindere dal fatto
che siano state effettivamente dedotte o rilevate nel processo, con la conseguenza pratica che
l’accertamento intorno alla domanda giudiziale copre anche tutte le ragioni: è il principio dell’estensione
oggettiva della cosa giudicata al dedotto e al deducibile. Se così non fosse il giudice sarebbe chiamato a
giudicare più volte sullo stesso oggetto ma sotto profili diversi.

Guardando alle diverse tipologie di sentenza:

- Sentenze di accertamento. Accolta la domanda e passata in giudicato la sentenza, essendo che ha


ad oggetto un diritto reale/assoluto, il soccombente non potrà più in alcun modo contestare il
diritto della parte vittoriosa se non per fatti e ragioni sopravvenuti. Viceversa, se respinta, il
soccombente non potrà più riproporla che per fatti e ragioni sopravvenuti.
- Sentenza di condanna. Ha ad oggetto diritti relativi, diritti che possono nascere ed esistere tra le
stesse parti più volte. L’accertamento contenuto nella sentenza che passa in giudicato ha come
oggetto lo specifico e particolare diritto dedotto in giudizio nelle sue indissolubili componenti del
fatto giuridico costitutivo e del bene o della cosa richiesto. Se da un rapporto giuridico nascono una
pluralità di rapporti con ad oggetto beni diversi di uguale natura, e se viene proposta domanda
limitatamente a qualcuno di essi, e solo su questi che si forma il giudicato, non si estende l’intera
obbligazione a meno che non sia il convenuto a contestarla per intero. Infatti, non si avrebbe
identità di oggetto. Analogamente, se il creditore di diverse prestazioni obbligatorie con identica
fonte propone una domanda e si riserva espressamente di agire in altro giudizio per il resto,
l’accertamento fa stato tra le parti circa l’esistenza o meno del fatto illecito generatore delle varie
obbligazioni, mentre i presupposti di ciascuno delle obbligazioni per cui non si è agito rimangono
impregiudicate.
- Sentenze costitutive. L’accertamento della sentenza passata in giudicato ricade sull’oggetto del
giudizio identificato dal fatto costitutivo, rappresentato dal complesso dei presupposti di fatto e di
dirtitto legittimanti l’azione esercitata e dal bene della vita assunto ad oggetto della domanda. Se si
chiede l’annullamento invece l’oggetto del giudizio è il fatto giuridico costitutivo, ovvero le azioni
integranti il vizio che ha comportato l’annullamento. Restano estranei la validità in assoluto
dell’atto giuridico impugnato e il rapporto giuridico eventualmente nascente dall’atto. L’autorità di
cosa giudicata non impedisce la proposizione di azioni diverse e domande basate su fatti costitutivi
diversi, l’estensione al dedotto e al deducibile si applica nei limiti dell’oggetto del giudizio e non
può servire ad estendere il giudicato a domande e azioni che non sono state proposte e sulle quali
non c’è accertamento.

I limiti soggettivi del giudicato sono fissati all’art. 2909 c.c.: esso fa stato tra le parti, tra gli eredi e gli aventi
causa intervenuti dopo il formarsi della cosa giudicata. Se facesse stato verso i terzi si violerebbe il principio
per cui ognuno ha il diritto di agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e interessi legittimi ex art. 24
Cost. Si è provato a estendere ai terzi l’autorità di giudicato. Si è detto che ciò era possibile per riflessione o
efficacia riflessa (modo normale, nei casi di rapporti giuridici connessi per pregiudizialità-dipendenza) e per
estensione o efficacia indiretta (modo anormale, nel caso di sentenze emesse a litisconsorzio necessario
non integro o per sentenza ottenuta dal sostituto processuale in mancanza di chiamata in giudizio del
sostituito). In realtà le norme nel nostro ordinamento vanno in tutt’altra direzione. Certo, le sentenze
hanno effetti nei confronti dei consociati, per questo è bene distinguere tra autorità di giudicato ed
efficacia della sentenza. L’autorità di giudicato c’è solo tra le parti gli eredi e gli aventi causa, mentre può
produrre i suoi effetti anche verso oggetti e soggetti a priori indeterminabili. La differenza è che i terzi
possono mettere giudizialmente in discussione questi effetti e respingerli nei limiti dei loro obblighi o diritti,
le parti non possono.

LA FASE DECISORIA

Il tribunale decide nelle cause ad esso riservate ex art 50-bis. La causa gli viene rimessa dal giudice
istruttore previa precisazione della conclusioni in udienza. Dopo di ciò le parti decono depositare le
comparse conclusionali entro 60 giorni, ed entro il successivo termine di 20 giorni successivi le memorie di
replica, dopo di ciò la sentenza viene deliberata in camera di consiglio, in segreto, a maggioranza, anche se
secondo la prassi si delibera ad unanimità, decidendo prima le questioni pregiudiziali e poi il merito. Il
Presidente scrive e sottoscrive il dispositivo e il relatore stende la motivazione, a meno che il presidente
non decida di scriverlo lui stesso o affidare il compito ad altro giudice. La sentenza è depositata in
cancelleria entro 60 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. I termini
delle parti sono perentori, quello dei giudici ordinatori. Ciascuna delle parti ha il diritto di chiedere la
fissazione di una udienza per la discussione orale innanzi al collegio, che deve essere avanzata per la prima
volta in sede di conclusione delle precisazioni e poi ripetuta al presidente del tribunale alla scadenza del
termine per il deposito delle memorie di replica. Il presidente fissa tale udienza entro 60 giorni. Celebratasi
la stessa si mette la causa in discussione e in questo caso, a pena di nullità in radice, la deliberazione è
presa dagli stessi giudici che hanno assistito alla discussione.

Il giudice, quando decide in composizione monocratica, impersona il tribunale nelle cause a lui demandate
ed assume tutti i poteri del collegio. Può disporre di ufficio la prova testimoniale quando le parti nella
esposizione dei fatti si sono riferite a persone in grado di conoscere la verità, anche se secondo un
orientamento ormai consolidato quel potere è escluso dopo che siano maturate le preclusioni istruttorie a
carico delle parti, con una tesi consolidata dalla Corte costituzionale. La fase decisoria di fronte il giudice
monocratico può avere due forme: 1) ordinaria. Il giudice fatte precisare le conclusioni in udienza, dispone
lo scambio delle conclusioni e delle memorie di replica (termini perentori 60+20) e deposita la sentenza
entro 30 giorni dal giorno di scadenza per il deposito delle memorie. Ciascuna parte può chiedere la
discussione della causa, in questo caso il giudice che dispone lo scambio delle conclusioni dispone
un’udienza di discussione entro 30 giorni dalla scadenza del termini per il deposito delle conclusioni. Nei 30
giorni successivi all’udienza deposita la sentenza. 2) susseguente la trattazione orale. Il giudice dopo la
precisazione delle conclusioni può ordinare che nella stessa udienza, o su istanza di parte all’udienza
successiva, si discuta la causa che viene immediatamente decisa con lettura del dispositivo e concisa
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto. Si intende pubblicata con la sottoscrizione del verbale da parte
del giudice, che è depositato in cancelleria.

Le sentenze, oggi, si differenziano in definitive e non definitive e la riserva di gravame è ammessa solo per
le seconde. Inizialmente questa era obbligatoria con le sentenze parziali, se non si voleva che le stesse
passassero in giudicato, e poi l’impugnazione di queste doveva necessariamente cumularsi a quella
eventualmente proposta contro la sentenza definitiva, così da non dividere il giudizio. Nel 1950 la riserva di
gravame è diventata facoltativa, permettendo l’impugnazione immediata, quindi, si è distinto tra sentenze
definitive e no. L’art. 277 fissa il principio della sentenza unica su tutte le domande ed eccezioni, ma poi
introduce la facoltà del giudice di limitare la decisione ad alcune domande se riconosce che per esse non sia
necessaria una ulteriore istruzione e che la loro definizione è di un interesse apprezzabile per la parte che
ne ha fatto istanza. Secondo Monteleone, sono sentenze definitive:

1) Quelle che decidono tutto il merito


2) Decidono alcune domande per le quali non sia necessaria ulteriore istruzione
3) Definiscono l’intero giudizio in accoglimento di eccezioni o difese da cui scaturiscono questioni di
giurisdizione o competenza (con ordinanza quest’ultima); questioni pregiudiziali processuali o
preliminari di merito
4) Disposizione con ordinanza della separazione delle liti e decisione di alcune di esse.

Sono sentenze non definitive:

1) Quelle che risolvono questioni di giurisdizione o competenza senza definite il giudizio


2) Questioni inerenti al merito o preliminari di merito senza che si definisca il giudizio
3) Sentenza di condanna generica.

La ricostruzione non è pacificamente accolta e il contrasto è nello stabilire le la sentenza che decida su
alcune domande sia da considerarsi o no definitiva: alcuni studiosi la considerano non definitiva a meno che
non contenga un formale provvedimento di separazione e la condanna alle spese per la pronuncia emessa.
Questa è la tesi maggioritaria. Per il ricorso in Cassazione si distinguono tre categorie di sentenza, quelle
che si limitano a giudicare su questioni che non definiscono neanche parzialmente il giudizio, non sono
immediatamente impugnabili. Quelle non definitive che risolvono parzialmente il giudizio, per le quali è
necessaria la riserva per l’impugnazione differita. Quelle definitive, verso quale si propone impugnazione
con i modi ordinari.
Il collegio dopo la rimessione è investito di tutta la causa e ha i poteri di emettere ordinanze collegiali
istruttorie. Le ordinanze non possono pregiudicare la decisione della causa, sono sempre revocabili. Se,
invece, sono connesse ad una sentenza non definitiva passata in giudicato, non sono revocabili perché
comporterebbero la violazione del giudicato interno. Sono sempre esecutive. Se sono connesse a sentenza
non definitiva contro la quale sia proposta impugnazione immediata il giudice su concorde istanza delle
parti può sospendere l’esecuzione fino alla definizione del giudizio di appello.

ESECUTORIETA’, NOTIFICAZIONE, CORREZIONE DELLE SENTENZE

All’art. 282 c.p.c. si stabilisce che tutte le sentenze di primo grado sono provvisoriamente esecutive tra le
parti, ergo attribuisce alle stesse la qualità di titolo esecutivo. Questo indipendentemente dal passaggio in
giudicato della sentenza. Quando si dice “provvisoriamente” il legislatore, inoltre, si riferisce alla
eventualità che la sentenza sia riformata in appello (quindi non significa che vale di meno), e si può dire lo
stesso delle sentenze di secondo grado, considerando la possibilità del ricorso in Cassazione. L’art. 282
parla di esecuzione forzata, quindi si riferisce solo alle sentenze condannatorie, mentre l’efficacia
dichiarativa e gli effetti costitutivi non soggiacciono alla normativa di questo articolo e, salvo disposizione di
legge contraria, per potersi produrre la sentenza deve passare in giudicato. All’art. 283 si dice che la parte
soccombente può chiedere con l’appello principale o incidentale che sia sospesa l’esecuzione o l’efficacia
esecutiva della sentenza di primo grado quando sussistono gravi e infondati motivi anche in relazione alla
possibilità di insolvenza di una delle parti. Si tratta in primis di sentenze di condanna a contenuto
pecuniario. Inoltre, non fa riferimento al caso in cui ci sia la possibilità di riformare la sentenza, altrimenti
l’art. 282 non avrebbe senso, ma secondo Monteleone, l’articolo si riferisce a qualche ulteriore circostanza
di fatto, seria e fondata, che renda opportuno bloccare la forza esecutiva della sentenza. In caso di
inammissibilità dell’istanza di sospensione o manifesta inammissibilità, il giudice può condannare la parte
che l’ha richiesta ad una pena pecuniaria di 250 -10.000 E, con ordinanza non impugnabile ma revocabile
con la sentenza che definisce il giudizio (e per questo non è impugnabile in Cassazione ex art. 111 Cost). la
giurisprudenza riconosce validità ed efficacia al patto per cui le parti si impegnano a non eseguire
coattivamente la sentenza prima del suo passaggio in giudicato.

Una volta emessa la sentenza, inizia a decorrere il termine per le impugnazioni. Il termine lungo, di sei mesi,
decorre in mancanza di notifica della sentenza, mentre il termine breve è di 30 giorni. Per questo è
importante l’impugnazione della sentenza. Questa è regolata dagli artt. 285 e 286 c.p.c. viene fatta ad
istanza di parte (ammesso anche che venga fata ad opera del procuratore munito di mandato) al
procuratore costituito (dopo la sua costituzione vengono fatte allo stesso tutte le notifiche). Se lo stesso
procuratore rappresenti più parti è sufficiente una unica copia. Se questo non ha eletto domicilio la notifica
si fa nella cancelleria del giudice. Se dopo la chiusura della discussione una parte sia colpita da un evento
interruttivo la notificazione può essere fatta entro l’anno collettivamente ed impersonalmente e a tutti gli
eredi nell’ultimo domicilio del defunto. Se la parte non si è costituita o de è avvenuto uno degli eventi
interruttivi a carico del procuratore la sentenza deve essere notificata alla parte personalmente.

La correzione delle sentenze e delle ordinanze irrevocabili è uno strumento per eliminare le omissioni o gli
errori materiali o di calcolo in cui sia incorso il giudice, considerando questi come quelli che hanno
esteriormente falsato la rappresentazione linguistico-formale della decisione e non gli errori che hanno
influito sull'iter logico-giuridico che ha condotto ad essa. La Corte costituzionale ha stabilito che per le
sentenze di primo grado si può chiedere la correzione in qualunque tempo, anche se non sia trascorso il
termine per impugnare, e anche se non siano state impugnate. Se le parti concordano sulla correzione il
giudice che ha pronunciato la sentenza provvede con decreto. Se è chiesta da una sola parte il giudice fissa
con decreto l’udienza di comparizione notificando al procuratore costituito con tante copie quanto sono le
parti (prima era così anche per la sentenza, poi è stato modificato l’art. 283, ma il legislatore si è
dimenticato di modificare anche questo), se però si chiede oltre un anno dopo la pubblicazione della
sentenza istanza e decreto si notificano alle parti personalmente. Le sentenze possono essere impugnate
nel termine di 30 giorni relativamente alle parti corrette. Per quanto riguarda, invece, l’integrazione dei
provvedimenti istruttori, ha luogo quando non contengano l’indicazione dell’udienza successiva o il termine
entro cui le parti devono compiere gli atti processuali. Deve essere disposta nel termine perentorio di sei
mesi dall’udienza in cui il provvedimento è adottato, pena l’estinzione del processo.

PROCEDIMENTI INNANZI AL GIUDICE DI PACE

Il d.lgs. 51/1998 ha modificato il Titolo II del Libro II del codice, che comprendeva la disciplina del
procedimento innanzi al pretore, e ora comprende solo la disciplina regolatrice dei procedimenti davanti al
giudice di pace. All’art 311 si dice che esso è retto dalle norme processuali applicabili davanti al tribunale in
composizione monocratica, salve le regola speciali per il giudice di pace. Nel caso di proposizione di querela
di falso al giudice di pace questi, se ritiene il documento rilevante per la decisione, deve sospendere il
giudizio e rimettere le parti innanzi al tribunale perché decida sulla querela di falso. Può disporre che si
proceda a trattazione separata per le domande che non sono condizionate dal documento impugnato. La
domanda al giudice di pace si propone con atto di citazione con i termini a comparire in tribunale dimezzati.
La domanda in teoria può proporsi verbalmente ma questa dovrebbe essere verbalizzata e notificata
dall’attore al convenuto, quindi la norma è praticamente inutile. Il contenuto minimo della domanda
giudiziale è diverso, ed è costituito da indicazione del giudice e delle parti, esposizione sommaria dei fatti e
indicazione dell’oggetto. Le parti invece che comparire personalmente possono farsi rappresentare da
persone munite di mandato scritto in calce alla citazione o in atto separato, salvo il potere del giudice di
ordinare la comparizione personale. Il mandato comprende il potere di transigere e conciliare la lite e non
rientra nella rappresentanza procuratoria secondo Monteleone, ma si tratta di una rappresentanza
personale e negoziale della parte. Le parti possono indifferentemente costituirsi in cancelleria o in prima
udienza, depositando gli atti processuali e i documenti che intendono produrre. Nella prima udienza il
giudice li interroga e tenta la conciliazione, se fallisce li invita nella stessa udienza a precisare fatti difese e
eccezioni, a produrre documenti e a richiedere mezzi di prova. Può fissare per ulteriori atti istruttori solo
un’ulteriore udienza. Non opera per le parti nessuna preclusione fino alla prima udienza di trattazione.
Esaurita la fase di istruzione e trattazione il giudice invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la
causa fissando apposita udienza. La sentenza è depositata in cancelleria entro 15 giorni dalla discussione.

LE IMPUGNAZIONI

Secondo l’art. 323 c.p.c. “I mezzi per impugnare le sentenza, oltre al regolamento di competenza nei casi
previsti dalla legge, sono: l’appello, il ricorso per cassazione, la revocazione e l’opposizione di terzo”. La
sentenza o l’ordinanza sulla competenza passa in giudicato formale quando non è più impugnabile per
appello, ricorso per cassazione, revocazione ordinaria (n. 4 e 5 art. 395). Il concetto di impugnazione si
inserisce tra gli strumenti giuridici che permettono ad un soggetto di attaccare un atto che gli arrechi
pregiudizio quando ne abbia interesse. Il suo scopo, infatti, è eliminare o emendare l’atto che si assume
viziato per respingerne gli effetti dannosi. La sua particolarità sta nel fatto di attaccare una sentenza che
contiene un giudizio, sperando di sostituirlo, e si inserisce nel processo giurisdizionale il cui scopo ultimo è
l’acquisizione di una certezza tramite il raggiungimento del giudicato. E l’impugnazione è una sua fase. È
inoltre espressione del diritto di agire in giudizio, nel senso che per suo tramite sono riproposte domande,
eccezioni e difese ad un giudice diverso e che ad ogni gravame corrisponde un’azione.

Nella tradizione romana si distinguevano gli errores in procedendo, ovvero le violazioni del processo che
incidono sulla sua validità, e gli errores in iudicando, che censuravano l’accertamento di merito. Ma con la
regola dell’assorbimento delle nullità processuali ai mezzi di gravame, quali appello e cassazione questa
regola ha perso significato (anche per influenza francese). Questo perché si potrebbe prospettare l’idea di
una sentenza giusta ma nulla, quando in realtà una sentenza che non rispetti le norme processuali è fonte
di arbitro, e l’arbitro è la massimo espressione di ingiustizia. Con l’art. 324 si distinguono i mezzi di
impugnazione che condizionano il passaggio in giudicato formale, chiamati anche ordinari, da quelli che
sono indifferenti ad esso poiché possono proporsi anche dopo quel momento, anche detti straordinari.

Possiamo fare una distinzione tra mezzi di impugnazione a critica libera o a critica vincolata. L’appello è
l’unico ad essere a critica libera, ovvero per cui la legge non stabilisce a priori i motivi o i vizi per cui può
proporsi appello, ma lascia libera la parte di sollevare ogni possibile censura alla sentenza. L’appello, quindi,
assume la forma di un secondo grado di giudizio in cui potenzialmente si può riesaminare tutta la materia
del contendere dibattuta in prima istanza. Ha un effetto devolutivo, ovvero si ripropone al giudice di
secondo grado la cognizione sulle domande. Non si distingue tra fase rescindente (volta alla eliminazione
della sentenza impugnata) e una rescissoria (volta a una nuova pronuncia di merito): i due aspetto sono
fusi. Infine, la sentenza di appello sostituisce ed assorbe quella di primo grado. Ricorso per cassazione e
revocazione ordinaria invece sono a critica vincolata, ovvero la legge stabilisce i motivi e i vizi sulla quale
devono fondarsi. Se esistono, la sentenza viene eliminata, altrimenti viene confermata. Si può ben
distinguere la fase rescindente e quella rescissoria, non c’è un effetto devolutivo e la sentenza pronunciata
non si sostituisce a quella impugnata ma si aggiunge ad essa.

Sebbene non ci sia nessuna norma che lo specifica, è chiaro che debba esserci interesse ad impugnare,
poiché l’impugnazione è una fase attinente all’esercizio dell’azione e alla proposizione delle domande
giudiziali, di cui è espressione con riguardo ad una sentenza già emessa, e quindi bisogna applicare il
principio generale per cui per proporre una domanda o contraddire ad essa occorre avevi interesse. Il
primo sintomo dell’interesse è la soccombenza, anche se non sempre vale l’equazione soccombenza=
interesse (basti pensare al regolamento di competenza). Si è distinto tra soccombenza formale, che indica il
fatto che la sentenza abbia rigettato la domanda o accolto quella dell’avversario, e soccombenza materiale,
che riguarda il rigetto di eccezioni, difese o prospettazioni avanzate dalla parte che alla fine risultò
totalmente vittoriosa. Secondo Monteleone, salvo particolari casi, in linea generale si deve escludere
l’esistenza dell’interesse all’impugnazione per la parte interamente vittoriosa nel merito qualunque sia la
motivazione (questa non passa in giudicato) e in qualsiasi modo siano state risolte le questioni pregiudiziali
di rito o preliminari di merito (queste questioni sono suscettibili solo di giudicato formale e non materiale).
Nel caso di soccombenza parziale, che sussiste quando di fronte ad una pluralità di domande diverse alcune
vengono accolte ed altre respinte (compresi i casi in cui siano proposte delle domande subordinate e ne sia
stata accolta una -e quindi respinte le altre- e i casi di condanna alle spese per la parte vittoriosa) e
l’accoglimento parziale in caso si petitum frazionabile (chiedo 100, ottengo 50). Sono legittimati a proporre
impugnazione (salvo il caso di opposizione di terzo) le parti in causa, altri soggetti che vi abbiano interesse
(successori, creditori, difensore che abbia chiesto la distrazione delle spese) e il PM che non è subordinato
al requisito della soccombenza.

Sorge dunque il problema di quali provvedimenti possono essere impugnati. In primis, le sentenze come
esplicitato all’art. 323. Inizialmente gli altri provvedimenti non erano impugnabili se non con i rimedi
eventualmente previsti caso per caso, ma questo sistema si rivelò inadeguato (subito sorge il caso in cui il
giudice sbaglia nell’adottare una o l’altra forma. Con l’introduzione dell’art 111 Cost che ha esteso ad ogni
sentenza la garanzia del ricorso in cassazione per violazione di legge, la giurisprudenza ha interpretato la
parola sentenza in modo elastico, dando prevalenza alla sostanza sulla forma: ogni contenuto
sostanzialmente decisorio è impugnabile alla stregua di una sentenza anche con forma diversa. Bisogna
però fare alcune precisazioni a riguardo. Il problema non sorge quando il giudice abbia usato al posto di una
sentenza un altro provvedimento, anzi quel provvedimento rischia di essere nullo se mancano le dovute
sottoscrizioni. Questo principio trova applicazione quando non ci sono precise disposizioni e il giudice è
libero di adottare la forma da lui ritenuta più adeguata allo scopo oppure quando la legge imponga una
forma diversa dalla sentenza per l’emanazione di un provvedimento sostanzialmente decisorio (es.
competenza). Inoltre, secondo la giurisprudenza per individuare il mezzo di gravame correttamente
proponibile è decisiva la qualificazione data dal giudice all’azione e alla pronuncia, quindi, bisogna guardare
al gravame in concreto esperibile contro un determinato provvedimento. La erronea qualificazione
processuale del giudice in questo caso si rileva e si accerta nella sede prevista dalla legge. È ammesso il
ricorso straordinario in Cassazione contro ogni provvedimento dal contenuto sostanzialmente decisorio
contro cui sia escluso l’appello o qualunque altro rimedio, in caso contrario bisogna prima esperire il
gravame ordinario.

Sono imposti dei termini a pena di decadenza per impugnare: decorsi questi la sentenza passa in giudicato
formale. Ci sono i termini brevi e i termini lunghi. I primi decorrono dalla notificazione della sentenza (o
dalla scoperta delle circostanze per la revocazione e per la opposizione di terzo revocatoria) e sono per tutti
30 giorni e 60 per la Cassazione, mentre non è previsto nessun termine per la proposizione dell’opposizione
di terzo ordinaria. La notificazione fa decorrere i termini anche nei confronti di colui che la notifica nel caso
in cui abbia interesse ad impugnare. Se le parti in causa sono più di due, nei casi di litisconsorzio necessario
e cumulo di liti inscindibili la notificazione fa decorrere nei confronti di chi notifica il termine breve per
proporre impugnazione contro tutte le parti, anche se lei non abbia effettuato a tutti le notificazioni, salva
la necessità di disporre l’integrazione del contraddittorio se la sentenza non sia impugnata contro tutte le
parti. Se il chiamato ad integrazione impugna a sua volta il chiamante può sollevare impugnazione
incidentale tardiva. Nel caso in cui ci sono più di due parti in cause scindibili trova applicazione questo
principio limitatamente alla controversia e alle parti cui si riferisce la notificazione della sentenza. Ma
l’impugnazione del soccombente contro una parte fa decorrere in suo danno il termine breve per proporre
impugnazione contro le altre. Guardando invece al termine lungo, esso è di sei mesi e inizia a decorrere
automaticamente dalla data di pubblicazione della sentenza per tutte le impugnazioni che sono correlate al
suo passaggio in giudicato ed è sospeso nel periodo feriale con esclusione delle controversie per cui non
decorre. Il contumace involontario, cioè colui il quale dimostri di non aver avuto conoscenza del processo
per nullità della citazione o della sua notificazione o degli altri atti da notificare al contumace, può
impugnare la sentenza dopo la scadenza del termine lungo, perché non decorre nei suoi confronti. A partire
dall’acquisita conoscenza è dubbio se in suo danno decorra il termine breve o quello lungo. Ci si chiede se si
può applicare il più ampio art. 153 sulla rimessione nei termini che è subordinato solo all’impedimento
dovuto da causa non imputabile, Monteleone dice di sì. Nel caso in cui durante la pendenza dei termini
sopravvenga a carico della parte soccombente qualcuno degli eventi interruttivi, se in corso il termine
breve, ricomincia a decorrere quando la notificazione della sentenza venga rinnovata ai soggetti a cui
spetta stare in giudizio al posto della parte colpita dall’evento. La Corte costituzionale ha esteso questa
previsione ai casi in cui subisca l’evento interruttivo il procuratore della parte soccombente.

All’art. 329 è disciplinata l’acquiescenza della sentenza, la quale comporta la rinuncia ad il diritto di
impugnarla e ne determina il suo consolidamento immediato e irreversibile: il passaggio in giudicato
formale. Per questo motivo deve provenire dalla parte legittimata ed interessata al gravame. Può essere
espressa, quando sia frutto di un’accettazione esplicita della sentenza o una rinuncia esplicita ad
impugnarla. Si tratta di un atto unilaterale non recettizio che non richiede accettazione dalla controparte.
Se l’impugnazione è proposta non è più configurabile (al massimo è una rinuncia al gravame). Questa
acquiescenza è rilevabile solo per eccezione di parte, non di ufficio. L’acquiescenza può essere anche tacita
quando deriva da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge,
norma interpretata nel senso che deve esserci una incompatibilità assoluta ed inequivoca: è molto rara.
All’art. 329 però è prevista una acquiescenza tacita qualificata, quella che sovviene nel caso di
impugnazione parziale con riguardo alle parti della sentenza non impugnate, che passano in giudicato.
Intanto bisogna specificare che quest’articolo fa riferimento al giudicato formale; quindi, la suddivisione
della sentenza in parti tra loro autonome può anche basarsi su questioni o oggetti inidonei ad acquisire il
giudicato materiale. Riguarda infatti quella preclusione endoprocessuale che discende dalla decadenza di
impugnare una statuizione di qualsiasi contenuto e non importa se questa abbia anche attitudine al
giudicato materiale. L’unica differenza è che eventualmente essa sarà vincolante per la sua immutabilità al
di fuori del processo. Per parte della sentenza nell’articolo non si intende, inoltre, solo il capo, ma anche la
soluzione di singole questioni, processuali o di merito, che essendo strumentali al giudizio non sono idonee
a costituire oggetto di autonoma domanda, quindi per parte, deve intendersi oltre alla statuizione sulle
domande anche la decisione su questioni o eccezioni. Può configurarsi l’acquiescenza da impugnazione
parziale solo se le varie parti della sentenza siano autonome, se fossero connesse o indipendenti la riforma
o cassazione della principale si estenderebbe a queste. È rilevabile d’ufficio. In ogni caso l’acquiescenza non
preclude l’impugnazione incidentale tardiva della parte convenuta con quella principale o delle parti
chiamate ad integrare il contraddittorio in sede di gravame.

L’art 330 disciplina il luogo di notifica dell’impugnazione, che può assumere la forma della citazione o del
ricorso. L’ordine preferenziale stabilito deve essere osservato a pena di nullità. Si notifica alla parte se
questa nell’atto di notifica della sentenza ha dichiarato la residenza o eletto domicilio nella circoscrizione
del giudice che l’ha pronunciata. Altrimenti si notifica presso il procuratore costituito. Altrimenti nella
residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Le ultime due sono alternative. Se il procuratore
cambi il proprio domicilio deve essere notificata lì. Se non abbia il domicilio nella circoscrizione del giudice
si può eseguire presso la cancelleria dello stesso giudice. Se ci sono più procuratori è valida la notifica fatta
a uno solo di essi. Il vizio della notificazione è sanabile ex tunc con la costituzione della parte intimata o con
la rinnovazione impartita dal giudice, ma è considerata non suscettibile di sanatoria se si notifica a persona
e in luogo che non hanno nessun riferimento con la controparte a cui è destinata. In caso di pluralità di
parti rappresentate dallo stesso procuratore ad oggi è valida la notificazione del gravame in unica copia al
difensore costituito. Se il procuratore o la parte contro cui è diretta l’impugnazione sono colpiti da evento
idoneo alla interruzione: se è il procuratore, si notifica alla parte personalmente, anche se la parte
impugnante ignora l’evento che lo ha colpito -salva la mala fede- si ritiene valida la notifica; se ha colpito la
parte dopo l’assunzione della causa in decisione e la cosa sia stata comunicata l’impugnazione è notificata
ai soggetti subentrati alla parte colpita dall’evento, se ignoto viene notificata al procuratore costituito.

Nel caso in cui la sentenza sia stata pronunciata nei confronti di più di due parti, si pone un problema che
sorge dal principio della personalità/individualità dell’impugnazione. La legge cerca sempre di evitare il
formarsi di giudicati contraddittorii e questo potrebbe verificarsi se alcune parti impugnassero nei confronti
di altre, mentre per altre ancora la sentenza passasse in giudicato. In questo caso la legge distingue le cause
scindibili da quelle inscindibili. Nelle inscindibili (litisconsorzio necessario originario, litisconsorzio
necessario sopravvenuto, casi di intervento ordinati dal giudice o adesivo dipendente, casi in cui la
decisione della causa intercorrente tra alcune parti sia indispensabile presupposto logico di quella corrente
tra parti nel medesimo processo) se l’impugnazione non è proposta contro tutte le parti il giudice ordina
l’integrazione del contraddittorio fissando un termine. Se si adempie tempestivamente si sana ex tunc,
altrimenti l’impugnazione è dichiarata inammissibile e la sentenza passa in giudicato nei confronti di tutte
le parti. Il termine fissato è prorogabile solo nei casi di forza maggiore e l’inammissibilità si deve dichiarare
d’ufficio. Nelle cause scindibili se non tutte le parti sono presenti nel giudizio di impugnazione il giudice ne
ordina la notificazione alle altre e fissa il termine e se necessario l’udienza di comparizione. Se suddetto
termine non viene osservato viene disposta la sospensione del processo finché non siano decorsi i termini
per il passaggio in giudicato della sentenza nei riguardi dei non chiamati. La preposizione dell’impugnazione
contro una parte da decorrere in danno del soccombente che l’ha proposta il termine di decadenza contro
l’altra: vale come notificazione della sentenza. In questa categoria rientrano tutte quelle che non sono
inscindibili. Inoltre, si evita che sorgano distinti processi di impugnazione contro la stessa sentenza
imponendo la riunione degli stessi nel caso in cui sorgessero.

L’art. 333 rubricato “impugnazioni incidentali” disciplina tali impugnazioni, le quali sono chiamate così
perché vengono proposte dopo un’altra impugnazione sulla stessa sentenza, chiamata principale e si
chiamano incidentali perché incidono sul gravame già pendente. È la forma necessaria di impugnazione
dopo la proposizione dell’impugnazione principale. È uno strumento con cui la legge assicura unitarietà al
processo quando la sentenza sia impugnata da più parti. Si tratta di una impugnazione a tutti gli effetti:
presuppone interesse, rispetto dei termini, non serve a resistere alla principale o a lamentare parti della
sentenza che non inducono effettiva soccombenza ma ad attaccare la pronuncia. È contrapposta o
riconvenzionale quando rispetto alla principale, venga proposta dalla parte intimata o convenuto con
quest’ultima, è adesiva quando proviene da una parte che abbia interesse comuni con l’impugnante
principale, è autonoma quando, nel caso di liti scindibili e distinte cumulate in unico processo, sia avanzata
da una parte in base ad un interesse proprio e diverso rispetto a quello delle altre parti. Nel caso in cui sia
proposta come impugnazione principale l’errore non comporta la sua decadenza, se siano rispettati i
termini per impugnare, ma deve essere disposta la riunione dei procedimenti, in mancanza l’esame e la
pronuncia sulla prima comporta l’improcedibilità di tutte le altre successive: le parti avuta conoscenza della
pluralità di gravami hanno l’onere di chiederne la riunione. Ex. Art. 334 l’impugnazione tardiva può essere
avanzata anche tardivamente -dopo la scadenza dei termini o la prestata acquiescenza- dalle parti
convenute con l’impugnazione principale o chiamate ad integrare il contraddittorio. In questo caso però se
la principale è dichiarata inammissibile anche quella incidentale perde efficacia. Per quanto riguarda i limiti
oggetti, a lungo la giurisprudenza ha ritenuto che questa fosse consentita solo nel caso di soccombenza
parziale e reciproca rispetto al medesimo capo della sentenza o a quello ad esso connesso o dipendente,
con opinione contraria di parte della dottrina, ma non di Monteleone, che adesso che è cambiato
l’orientamento giurisprudenziale nel senso di ammettere il gravame incidentale tardivo senza limitazioni di
oggetto, lamenta che la sua regolazione induce a pensare che la riapertura dei termini per impugnare
dovrebbe essere circoscritta si soli capi impugnati in via principale.

All’art 336 si regola il caso di una sentenza che contenga più capi o parti, si cui solo alcuni sono impugnati.
L’impugnazione parziale comporta l’acquiescenza delle parti non impugnate e il loro passaggio in giudicato,
se le varie statuizioni siano distinte ed autonome, infatti, secondo il c.d. effetto espansivo interno (primo
comma), riforma o cassazione parziale travolge anche le parti della sentenza dipendenti dalla parte
riformata o cassata. Secondo il c.d. effetto espansivo esterno (secondo comma) invece, la riforma o la
cassazione estende i suoi effetti ai procedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata,
senza esigerne il suo passaggio in giudicato (cosa che prima esigeva), e quindi per esempio la immediata
caducazione del titolo con la riforma della sentenza di primo grado esecutiva.

All’art 337 “sospensione dell’esecuzione e dei processi” si stabilisce che l’esecuzione della sentenza non è
sospesa per effetto della sia impugnazione, confermando in questo modo il fatto che ogni sentenza emessa
sia produttiva di effetti giuridici a prescindere dalla sua impugnazione. Al comma due ci dice che quando in
un altro processo si invoca l’autorità di una sentenza, e questa venga impugnata, il processo in cui è
invocata può essere sospeso. Nei casi in cui i processi in cui sono esperiti i mezzi di impugnazione ordinari si
estinguano, le sentenze che questi impugnavano passano in giudicato e non è più proponibile nuovamente
impugnazione, a meno che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel
procedimento estinto, secondo le norme sull’estinzione del processo.

L’APPELLO

La cognizione del giudice di secondo grado ha ad oggetto, nei limiti del gravame, delle domande, eccezioni
e difese già proposte dalle parti, la pronuncia di appello assorbe e sostituisce quella di primo grado,
nell’appello non si può dividere una fase rescindente e una rescissoria. Da questo nasce il principio del
secondo grado di giudizio, che ha origine nella Rivoluzione francese e nel nostro attuale ordinamento è
potenziale ma non necessario. L’estensione del giudizio di secondo grado dipende poi dalle iniziative delle
parti interessate: non può eccedere l’oggetto di quello di primo grado ma può essere ristretto. Si tratta di
un doppio e completo esame nel merito delle domande da parte di giudici diversi, e le ragioni di politica
legislativa per cui è previsto è che se una controversia viene esaminata per intero due volte da giudici
diversi è più probabile che la decisione finale sia giusta e che si ponga rimedio agli errori di fatto e di diritto
contenuti nella sentenza. Questa probabilità si accresce dal momento che l’appello è svolto da magistrati
più esperti, che poi è il motivo per cui la sentenza di secondo grado prevale sulla prima (non per questioni
di gerarchia, che non esiste in magistratura). Negli ultimi anni ci sono state delle modifiche legislative per
cui l’appello non da più luogo a novum judicium ma a revisio prioris istantiae, con cui il giudice di appello si
limita a riesaminare la materia del contendere dibattuta in primo grado senza poter aggiungere nulla ad
essa, salvo casi eccezionali. Sono anche state irrigidite le condizioni di ammissibilità al gravame per
scoraggiarne la proposizione mediante mera ripetizione delle difese di primo grado.

Secondo l’art. 339, tutte le sentenze di primo grado sono appellabili, salvo quelle che hanno un unico grado
per espressa disposizione (quelle per cui le parti si siano accordare per impugnare direttamente la sentenza
in cassazione e quella in cui il giudice abbia deciso secondo equità su concorde richiesta delle parti in
merito a diritti disponibili. Se il giudice di pace si pronuncia secondo equità su cause di valore inferiore a
1.100 E sono appellabili solo per violazione delle norme sul procedimento, costituzionali, comunitarie o dei
principi regolatori della materia). In ogni caso queste sono ricorribili in Cassazione. Il giudice di appello è
individuato dalla legge in relazione a quello di primo grado. Contro le sentenze del giudice di pace decide il
tribunale, contro quelle del tribunale la corte d’appello. Se si pone impugnazione davanti al giudice
incompetente per territorio è consentita la traslazione a quello competente, se per violazione della
competenza funzionale secondo Monteleone non dovrebbe essere sanabile, ma la Cassazione sostiene che
lo è per mezzo della translatio iudicii.

L’art 340 consente la riserva contro le sentenze non definitive con lo scopo di permettere alla parte
interessata di differire l’appello ad un momento successivo, generalmente quando viene emessa la
sentenza definitiva, senza incorrere nelle decadenze. La riserva si fa con dichiarazione a verbale in udienza,
oppure in foglio separato allegato al verbale, oppure con atto notificato negli stessi modi dell’appello. Deve
esprimere le volontà di impugnare e di volerne differire la proposizione e deve farsi entro il termine per
appellare ma in ogni caso il termine ultimo è l’udienza innanzi al giudice istruttore successiva alla
comunicazione della sentenza stessa. La riserva vincola chi l’ha fatta che non può più revocarla. La sua
mancata preposizione o la sua invalidità però non impediscono all’interessato di proporre appello
immediato. L’appello dopo la riserva deve essere proposto insieme a quello contro la sentenza definitiva (o
contro la non definitiva successiva eventualmente) e se l’appellante sia la stessa parte deve manifestare la
volontà di voler impugnare anche la sentenza definitiva, altrimenti passa in giudicato. Se il soccombente.
Però, propone appello contro la sentenza non definitiva non è più possibile fare riserva e se già fatta, perde
la sua efficacia e le altre parti hanno l’onere di proporre appello incidentale ed eventualmente tardivo. La
riserva, in goni caso, impedisce il decorso del termine di decadenza in danno del soccombente e il termine
inizia a decorrer insieme a quello delle successive sentenze definitive cui viene procrastinato, ma se questo
decorre inutilmente non può più appellarsi neanche quella sentenza. Se il processo si estingue e la sentenza
non definitiva decideva sul merito, la sentenza non definitiva si può appellare e il termine decorre dal
momento in cui passa in giudicato la decisione con cui è dichiarata l’estinzione. Se invece ha contenuto
processuale non c’è necessità di impugnarla (passaggio in giudicato formale, non materiale).

L’art. 342 disciplina la forma in cui deve proporsi l’appello. Nel processo ordinario di cognizione si propone
con atto di citazione che ha le stesse caratteristiche di quello del primo grado (artt. 163 e 163-bis) con
problemi analoghi, con la differenza che i vizi dell’atto di citazione non interrompendo il termine per
appellare, se questo è già decorso, comportano il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.
Sono particolari invece, ed imposti a pena di inammissibilità, i fatti e i motivi specifici dell’impugnazione che
devono essere esposti nell’atto di citazione, e più in particolare :

1. L’indicazione delle parti del provvedimento che di intende appellare e le modifiche che sono
richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado (con il fine di individuare le
parti della sentenza che sono impugnate, quelle eventualmente passate in giudicato e l’oggetto del
gravame)
2. Circostanze da cui deriva la violazione di legge e della loro rilevanza ai fini della decisione
impugnata (con il fine di enunciare al giudice di secondo grado quali sarebbero le ragioni che
determinano l’ingiustizia e che dovrebbero indurlo a riformarla).

Nell’appello vige il divieto di reformatio in peuis in danno dell’appellante, per cui il giudice può al massimo
rigettare il gravame e se si verifica un caso di soccombenza parziale/reciproca ed uno dei due proponga
appello principale chiedendo la riforma nel proprio interesse, la controparte ha l’onere di proporre appello
incidentale se vuole la possibilità di una riforma nel proprio interesse, in difetto al massimo la sentenza
viene confermata. L’art. 343, “modo e termine dell’appello incidentale” ha imposto una nuova decadenza a
carico di chi voglia proporre appello incidentale, il quale deve essere contenuto nella comparsi di risposta
nell’atto di costituzione in cancelleria, che si deposita almeno venti giorni prima la prima udienza. La norma
è rafforzata dal rinvio alle norme del giudizio di primo grado sui modi di costituzione, in cui vi è la stessa
decadenza per le domande riconvenzionali e dall’art 359, norma di rinvio generalizzato al primo grado e di
chiusura. Questo significa che le parti chiamate direttamente in giudizio dall’appellante, se si costituiscono
alla prima udienza decadono dalla facoltà di proporre appello incidentale. Invece per quei soggetti cui sia
ordinata l’integrazione del contraddittorio o la notifica dell’impugnazione la soluzione è dubbia, infatti il
giudice deve fissare l’udienza di comparizione delle parti e non è tenuto a rispettare i termini per
comparire, quindi non è infondato pensare che possa da questi essere proposto appello incidentale
nell’udienza fissata per la loro comparizione e costituzione, e questa interpretazione è confermata dall’art
343. È dubbio anche se l’appello incidentale debba essere notificato all’appellante principale se non si
costituisce in giudizio. Se si costituisce e compare avrà notizia dell’appello, se non si costituisce neanche il
convenuto l’appello verrà dichiarato improcedibile, se il convenuto si costituisce allora l’appellante
principale è dichiarato contumace e si deve notificare l’appello incidentale. In caso di pluralità di parti
chiamate in giudizio con appello principale, se qualcuna non si costituisce non si deve alla stessa notificare
l’appello incidentale proposto da un’altra parte.

L’art. 345 enuncia il divieto di proporre nuove domande di sollevare eccezioni nuove e di chiedere
l’ammissione di nuovi mezzi di prova, aggiungendosi alle preclusioni e decadenza già previste in primo
grado: ciò dà il carattere di riesame e non di nuovo giudizio all’appello. Il divieto di nuove domande
comporta che il giudice, se queste vengono proposte, deve dichiararle inammissibili di ufficio. Il problema è
capire quando si tratti di domanda nuova, e per capirlo bisogna individuare l’oggetto del giudizio, che
coincide con la domanda e che è identificato come l’insieme dei fatti costitutivi e giuridicamente rilevanti
posti a base di essa e del petitum richiesto. Per questo secondo la giurisprudenza è inammissibile anche che
vengano prodotti nuovi fatti giuridici costitutivi anche se resta immutato il bene richiesto, mentre non c’è
novità in caso di diverse ragioni per confermare fatti costitutivi già dedotti in primo grado. Nei diritti
assoluti il fatto costitutivo dedotto in giudizio è lo stesso diritto, non la vicenda del suo sorgere, quindi,
questa può mutare senza che l’azione sia nuova. Negli altri casi il cambiamento del fatto costitutivo
contrassegna la domanda e il suo cambiamento comporta la novità. Non può considerarsi nuova la
domanda con cui l’appellante chieda la restituzione/ripristino di quando dato per l’efficacia esecutiva della
sentenza di primo grado o la richiesta di frutti, interessi e accessori maturati dopo la sentenza impugnata o
la richiesta di risarcimento degli ulteriori danni sofferti dopo la sentenza di primo grado: sono
conseguenziali all’oggetto del giudizio di primo grado. Il divieto riguarda anche le eccezioni nuove in senso
stretto. Invece, le circostanze di fatto o processuali rilevabili di ufficio possono essere dedotte in appello
(ma più che eccezioni sono difese volte a sollecitare un potere del giudice). Questo divieto colpisce anche la
parte contumace in primo grado perché legata alle decadenze della comparsa di risposta. Nel caso si tratti
di eccezioni “riconvenzionali” la parte interessata può proporre per quei fatti una domanda autonoma in un
diverso giudizio. il divieto soffre delle deroghe: se si fonda su fatti sopravvenuti, su nuove disposizioni di
legge o sul contenuto o su vizi della sentenza impugnata. Infatti, la parte che incorre in decadenza per
cause non imputabili a essa può chiedere di essere rimessa nei termini. L’ultimo divieto posto dall’art. 345
riguarda le prove disponibili dalle parti. Il giudice, invece, può disporre di ufficio degli stessi mezzi istruttori
utilizzabili in primo grado. Ci sono alcune eccezioni a questo divieto: 1) il giuramento decisorio può deferirsi
all’appello 2) il giudice di appello può sempre disporre la rinnovazione totale o parziale della prova assunta
in primo grado 3) se la parte dimostra di non aver potuto richiedere prove o produrre documenti in primo
grado per causa ad essa non imputabile. Se poi l’appello riguarda la decisione di non ammissione della
prova richiesta e questo viene accolto, la prova sarà ammessa. È possibile ammettere prove anche se in
appello è riaperta l’istruzione.

È consentito l’intervento in appello che potrebbero proporre opposizione di terzo ordinaria o revocatoria,
di cui è una forma anticipata. Si tratta di coloro che subiscono un pregiudizio a un loro diritto dalla sentenza
emessa inter alios e dei creditori o aventi causa di una delle parti che adducono il dolo o la collusione a loro
danno. La giurisprudenza esclude l’ammissibilità in appello di ogni forma di appello coatto (la parte
coattivamente chiamata in giudizio perderebbe un grado), quindi è consentito solo l’intervento volontario,
sempre che l’intervenuto faccia valere un diritto autonomo ed eventualmente incompatibile rispetto alle
parti in causa (generalmente si esclude dunque l’intervento dipendente semplice, salvo che l’interveniente
adduca la frode in danno del proprio diritto). Si ammette sempre l’intervento volto a sanare l’integrità del
contraddittorio. Nei confronti del terzo interveniente non si applicano le preclusioni ex art. 345, quindi si
riapre l’istruzione.

Nel ’90 fu introdotta una legge con cui il procedimento di appello diveniva integralmente collegiale, ma nel
2012 è stata data possibilità al presidente del collegio giudicante la facoltà di delegare uno dei suoi
componenti all’assunzione dei mezzi istruttori, così che sebbene sull’ammissione teoricamente provvede il
collegio, in pratica de ne occupa il giudice ad esso delegato. La costituzione in appello avviene nelle forme e
nei termini per i procedimenti davanti al tribunale, cui si rimanda, con lo specifico obbligo per l’appellante
di inserire nel proprio fascicolo la copia della sentenza impugnata. L’appellato deve proporre appello
incidentale a pena di decadenza con la comparsa di risposta. Nel caso di estinzione per mancata
costituzione delle parti la giurisprudenza esclude che abbiano la facoltà di riassumere a differenza che in
primo grado: in questo caso il gravame è dichiarato improcedibile. È dichiarato improcedibile anche di
ufficio se l’appellante non si costituisce nel termini di legge (si presuppone però che l’appellato si sia
costituito), anche se ciò non impedirà l’appello incidentale eventualmente proposto. La costituzione
tempestiva dell’appellato non consente all’appellante di costituirsi in prima udienza e che l’appellante
principale che non si costituisca in giudizio possa proporre sotto forma di appello incidentale l’appello
principale: sarebbero dichiarati improcedibili di ufficio. Altra causa di improcedibilità è la mancata
comparizione dell’appellante alla prima udienza, anche se costituito. Quando manchi, il collegio rinvia con
ordinanza non impugnabile ad altra udienza, e se manca anche alle secando si avrà dichiarazione di
improcedibilità anche di ufficio. Se l’appellante non inserisce nel fascicolo la copia della sentenza
impugnata, secondo alcuni non comporta l’improcedibilità ma solo il rigetto o la dichiarazione di
inammissibilità, secondo Monteleone comporta la nullità della costituzione e quindi l’improcedibilità
dell’appello per mancata costituzione dell’appellante.

Il legislatore per risolvere la situazione di congestionamento dell’appello ha pensato che la soluzione fosse
quella di scoraggiare la proposizione delle cause che deflazionare il carico della corte. Ha quindi introdotto
con gli artt. 348- bis e 348-ter un filtro. L’art. 348-bis invece dice che l’impugnazione è dichiarata
inammissibile quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta, che significa quando l’appello è
manifestamente infondato (teoria della giurisprudenza a cui Monteleone non è d’accordo). In pratica la
corte d’appello farà uno scrutinio rapido e sommario. Non si tratta di violazione di norma procedurali ma il
merito della sentenza. Questa formulazione è criticata dalla dottrina perché sul piano concettuale un
appello che non ha una ragionevole probabilità di essere accolto non è inammissibile ma infondato. Il
meccanismo non opera nelle cause in cui sia obbligatorio l’intervento del PM e nel caso di appello nel rito
sommario di cognizione. Nella prima udienza, quella che l’appellante ha fissato nell’atto di citazione, il
giudice prima di procede alla trattazione, sente le parti e dichiara inammissibile l’appello con ordinanza
succintamente motivata. Lo scopo è stato eliminare gli appello “seriali”. Quella che emette la corte
d’appello è la c.d. ordinanza filtro. Infine, condanna alle spese. Nel caso di impugnazioni incidentali per
emettere tale ordinanza è necessario che entrambe le impugnazioni siano manifestamente infondate.
Emessa l’ordinanza, comunque, la sentenza non passa in giudicato ma è proponibile ricorso ordinario in
cassazione (invece la declaratoria di inammissibilità fa passare la sentenza di primo grado in giudicato) e il
termine per proporre ricordo per Cassazione decorre dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza
filtro o in mancanza dal suo deposito. Il ricorso in Cassazione può essere fatto perché l’ordinanza ha
contenuto decisorio, ma purché si deduca un vizio suo proprio (cioè non si può impugnare per contestare la
declaratoria di inammissibilità).

La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva però la parte soccombente può chiedere con
l’appello principale o quello incidentale al giudice di appello la sospensione parziale o totale dell’efficacia
esecutiva o dell’esecuzione già iniziata -quando ricorrano gravi motivi-. Si tratta della c.d. inibitoria. Alla
stessa il collegio provvede con ordinanza non impugnabile nella prima udienza, secondo Monteleone
questa decisione deve precedere ogni altro esame. Se la parte abbia interesse ad una decisione ancora più
rapida può chiedere al presidente del collegio con ricorso che sia anticipata rispetto alla prima udienza di
trattazione, e il presidente ordina con decreto la comparizione delle parti in camera di consiglio. Se
ricorrono giusti motivi di urgenza può concedere subito e provvisoriamente la sospensione, nel caso
l’udienza conferma modifica o revoca il decreto con ordinanza non impugnabile. La parte che chiede
l’inibitoria, quando questa viene dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, può essere
condannata al pagamento di una pena pecuniaria tra i 250 e i 10.000 E. Sempre nel corso della prima
udienza il collegio verifica la regolare costituzione del giudizio e in caso ordina l’integrazione del
contraddittorio o la notifica dell’impugnazione nei casi di cause scindibili. Può anche disporre che si rinnovi
la notifica dell’atto di appello se sua viziato e l’appellato non si sia costituito, in modo da impedire le
decadenze: la sua omissione o ulteriore nullità comporta il passaggio in giudicato della sentenza di primo
grado. Il collegio dichiara poi la contumacia dell’appellato (l’appellante non può essere contumace, se no si
estingue il processo), provvede alla riunione delle impugnazioni separate contro la stessa udienza, procede
al tentativo di conciliazione (secondo Monteleone non è obbligatorio ma lasciato alla discrezionalità del
collegio). Il trasferimento alla sede arbitrale su istanza congiunta delle parti surroga il tentativo di
conciliazione e può avvenire anche in appello. Infine, c’è durante la prima udienza una eventuale fase
istruttoria se venga disposta l’assunzione di nuove prove, la rinnovazione di prove già assunte in primo
grado. Il presidente può delegare a un giudice del collegio questo compito. Il collegio provvede con
ordinanza.

La fase decisoria è modellata su quella di primo grado. Il collegio può emettere ordinanze ammissive di
nuove prove anche prima della precisazione delle conclusioni e dell’assunzione della causa in decisione.
Esaurita l’attività di trattazione della causa e presi i provvedimenti sull’esecuzione provvisoria invita le paeri
a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparsi conclusionali e delle memoria di replica nei
termini di 60 giorni più 20 (art. 352). La sentenza poi dovrebbe essere depositata in cancelleria entro 60
giorni dal giorno di scadenza per il deposito delle memorie. Ciascuna parte può chiedere in sede di
precisazione delle conclusioni, e riproporre la domanda al presidente del collegio entro il termini di
scadenza per il deposito delle memorie, la discussione orale della causa. Il presidente fissa con decreto la
data dell’udienza di discussione che deve tenersi entro 60 giorni (termine ordinatorio) e nomina un
relatore. La discussione è preceduta dalla relazione della causa e la sentenza dovrebbe essere depositata
entro i successivi 60 giorni. Se si tratta di sentenza non definitiva il collegio non può disporre nuove prove
su domande e questioni su cui il giudice di primo grado si è riservato di decidere. C’è infine la possibilità per
il collegio di decidere a seguito di trattazione orale senza scambio di comparse conclusionali e memorie,
previa precisazione delle conclusioni. Avviene in due ipotesi: cognizione dell’istanza di sospensione
dell’esecuzione, se il giudice ritiene che la causa sia matura per la decisione; in sede ordinaria se il giudice
ritiene preferibile la decisione a seguito di trattazione orale.
L’appello è una impugnazione sostitutiva: la sentenza di appello si sostituisce a quella impugnata. Se si
rilevano eventuali nullità processuali assolute e insanabili di primo grado opera in via generale il principio
dell’assorbimento, c’è però il problema di decidere se in questi casi il giudice di appello debba dichiarare la
sola nullità (e quindi si chiude così il giudizio, e poi le parti potranno riproporre la domanda ex novo)
oppure dovrà decidere nel merito, stando che in entrambi i casi i principi del giudizio di appello sono
rispettati. Ci sono anche dei casi speciali, tassativamente indicati dalla legge (artt. 353 e 354) in cui il
giudice, rilevato il vizio, deve rimettere le parti in primo grado affinché il processo incominci ex novo:

- Difetto di giurisdizione. Se il giudice di primo grado neghi la sua giurisdizione sulle domande e il
giudice di appello la ritenga sussistente, le parti riassumono nel termine di tre mesi davanti lo
stesso, a partire dalla notificazione della sentenza di appello. Se contro la sentenza di appello si
propone ricorso in cassazione il termine è interrotto. Se invece dichiara il giudice incompetente
(solo nei casi si regolamento facoltativo o controversia innanzi al giudice di pace), il caso è diverso
(non siamo nell’ambito della rimessione obbligatoria, ma si ottiene lo stesso risultato) perché il
giudice individua chi è competente e le parti devono riassumere ex art. 50 di fronte ad esso.
- Nullità della NOTIFICAZIONE della citazione introduttiva, quando il convenuto non si sia costituito e
quindi sia stato dichiarato contumace.
- Irregolare costituzione del contraddittorio nell’ipotesi di violazione di litisconsorzio necessario
originario (si può ottenere lo stesso risultato proponendo l’opposizione di terzo). Se invece si ha
l’indebita estromissione di una parte che abbia comunque partecipato al primo grado non si
configura una ipotesi di rimessione.
- Nullità della sentenza di primo grado per difetto di sottoscrizione (non si sa se si possano equipare
altri difetti della sentenza che comportino la nullità assoluto ed insanabile).
- Estinzione del giudizio di primo grado quando avvenga con ordinanza del giudice istruttore e ci sia
una rigetto da parte del collegio del reclamo avverso tale ordinanza (se deciso con sentenza invece
il giudice di appello trattiene la causa e decide nel merito)

Per tutti gli altri casi al massimo il giudice di appello può rimettere le parti nei termini per svolgere le
proprie difese. Esistono però dei casi dubbi: quello della nullità non sanata della citazione introduttiva; il
caso in cui abbia deciso il tribunale in composizione monocratica invece che in composizione collegiale e
viceversa. In entrambi, secondo Monteleone il giudice di appello deve limitarsi a dichiarare la nullità e non
deve decidere nel merito.

Nel caso in cui si proponga querela di falso in via incidentale nel corso del giudizio di appello, se il
documento sia stato prodotto per la prima volta in appello e il giudice lo consideri indispensabile per la
decisione della causa, il giudice sospende con ordinanza il giudizio e fissa alle parti un termine perentorio
per la riassunzione della causa di falso innanzi la tribunale. Se l’appello è dichiarato inammissibile o
improcedibile non può essere riproposto anche se non è decorso il termine di legge (cosa impossibile per i
tempi attuali). La norma però è importante perché se ne ricava il principio che la parte interessate può nel
termine di legge, se si accorga di qualche difetto che comporterebbe l’inammissibilità o l’improcedibilità,
riproporre l’appello: solo il provvedimento giudiziale consuma la facoltà di impugnare la sentenza.
IL RICORSO PER CASSAZIONE

§1

La corte di cassazione è l’organo supremo della giustizia e assicura l’osservanza e l’uniforme interpretazione
della legge, l’unità del diritto soggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni, i conflitti
di competenza e attribuzioni. Il PM in persona della procura generale presso la cassazione interviene e
conclude in tutte le udienze civili e in forma scritta anche nelle adunanze in camera di consiglio. L’art. 111
Cost. stabilisce che è organo supremo di giustizia al vertice dell’ordine giudiziario e garantisce il ricorso ad
essa per violazioni di legge contro qualunque sentenza (prevalenza sostanza su forma) e contro i
provvedimenti sulla libertà personale. La sua creazione risale alla rivoluzione francese e nasce come organo
para legislativo per controllare l’operato dei giudici, è legato alla nascita del moderno stato libero di diritto.
In Italia c’è una tendenza verso una sempre più ampia ingerenza della cassazione nel giudizio di merito. In
ogni caso, è un’essenziale garanzia del cittadino contro gli errori e gli abusi di tutti gli altri organi giudiziari.

Sono impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado di appello e quelle in unico
grado (art. 360 1° comma), quelle pronunciate in tribunale ma le cui parti si siano accordate, anche prima
dell’emanazione della sentenza di primo grado, per omettere l’appello (ricorso per saltum) anche se in
questo caso solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (n. 3 art. 360, in sostanza solo per
errore in judicando, non in procedendo); se le sentenze di primo grado in cui l’appello viene dichiarato
inammissibile con ordinanza perché non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, secondo il c.d.
filtro in appello. Le decisioni emesse in sede giurisdizionali della corte dei conti, del consiglio di stato e del
consiglio di giustizia amministrativa per la regione Sicilia sono ricorribili solo per motivi inerenti la
giurisdizione. Per quanto riguarda il ricorso ex art. 111 Cost in cassazione, è esperibile verso tutti i
provvedimenti di contenuto sostanzialmente decisorio e con carattere definitivo, cioè verso cui non sia
permessa dalla legge altra impugnazione ordinaria. In caso contrario dovranno prima essere proposti quelli.
È proponibile per tutti i motivi di legge ex art. 360. Possiamo infine distinguere tre categorie di sentenze:

1) Sentenze che risolvono questioni senza definire neppure parzialmente in giudizio. Verso queste non
è ammesso il ricorso immediato, quindi non è necessaria riserva per la loro impugnazione insieme
alla pronuncia parzialmente o totalmente definitiva
2) Sentenze parziali che non esauriscono il giudizio, ovvero quelle di condanna generica e quelle che
decidono una o alcune domande: possono essere impugnate immediatamente o le parti possono
proporre riserva e impugnarle successivamente.
3) Quelle definitive

Secondo l’opinione tradizionale i motivi di ricorso per cassazione, che sono 5, possono dividersi in due
macro categorie, i numeri 1, 2, 4, 5 che integrano le violazioni di norme processuali (errore in procedendo)
e il n. 3, che invece riguarda la violazione o la falsa applicazione di norme di diritto sostanziale (errore in
iudicando). Si dice che le ragioni di questa differenza stiano nel fatto che la cassazione è tenuta a
controllare la regolarità formale del processo, e in questo non incontra limini nell’indagine di fatto, poiché il
fatto è lo stesso processo e il rispetto delle sue norme regolatrici. Quando è chiamata a stabilire se sia stata
o no applicata la legge sostanziale, invece, non può entrare nel merito dei presupposti di fatto della
sentenza impugnata, altrimenti non si tratterebbe di un giudizio di legittimità ma di merito. I fatti sono
quelli così come li ha valutati il giudice del precedente grado di giudizio (in Cassazione non si possono fare
nuovi accertamenti e nuove istruzioni per lo stesso motivo). Ex art 360 i motivi di ricorso in S.C. sono:

1) MOTIVI ATTINENTI ALLA GIURISDIZIONE. Secondo l’ordinamento giudiziario è compito della S.C.
assicurare il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni. Queste questioni possono arrivare in
cassazione tramite regolamento di giurisdizione (che ha carattere preventivo, e quindi non è un
mezzo di impugnazione); regolamento di giurisdizione di ufficio, tramite una pronuncia di merito
che statuisce esplicitamente o implicitamente sulla giurisdizione. Il fatto che il codice dica il
generico “motivi attinenti alla giurisdizione” è indice del fatto che ci sono diversi modi in cui la
questioni di giurisdizione può arrivare. Non rientrano i vizi attinenti alla costituzione mentre
potrebbe rientrare il c.d. eccesso di potere giurisdizionale in casi particolarmente gravi.
2) VIOLAZIONE DELLE NORME SULLA COMPETENZA QUANDO NON E’ PRESCRITTO IL REGOLAMENTO
(NECESSARIO). Non ci può essere uno scrutinio preventivo sulla competenza e il regolamento di
competenza su istanza di parte è una impugnazione. È ammissibile solo se la sentenza impugnata
abbia pronunciato anche nel merito, perché in caso contrario è consentito solo il regolamento di
competenza c.d. necessario. Il ricorso ordinario erroneamente proposto contro la sentenza avverso
cui doveva presentarsi regolamento necessario si converte in questa se ne sono rispettati i termini
per la decadenza.
3) VIOLAZIONE O FALSA RAPPRESENTAZIONE DI NORME DI DIRITTO E DEI CONTRATTI E ACCORDI
COLLETTIVI NAZIONALI DI LAVORO. Si tratta di violazioni delle norme di diritto sostanziale. Rientra
la ciolazione del giudicato esterno e secondo la più recente giurisprudenza del giudicato interno
quando l’eccezione sia stata sollevata nel giudizio di merito e il giudice si sia pronunciato su essa (la
pronuncia è censurabile per violazione dell’art 2909 c.c.). Nel caso in cui il giudice non abbia
provveduto sull’eccezione profila il caso si omessa pronuncia. La violazione o falsa applicazione dei
contratti e accordi nazionali collettivi di lavoro è una novità. Si tratta formalmente di diritto
comune ma hanno una portata normativa rispetto al rapporto di lavoro individuale, motivo per cui
potrebbe profilarsi una questione di costituzionalità per violazione dell’art 39 o dell’art 3 Cost che
può superarsi solo ammettando che il legislatore ha la facoltà politica e costituzionalmente
insindacabile di organizzare il ricorso in cassazione in modo diverso da un puro giudizio di
legittimità.
4) NULLITA’ DELLA SENTENZA O DEL PROCEDIMENTO. Comprende le violazioni di norme processuali
che colpiscano la sentenza o che ne inducano la nullità. Sono quelli sulla regolarità formale del
giudizio esclusi i n. 1, 2 e 5.
5) OMESSO ESAME CIRCA UN FATTO DECISIVO PER IL GIUDIZIO CHE E’ STATO OGGETTO DI
DISCUSSIONE TRA LE PARTI. È escluso quando la sentenza o l’ordinanza di inammissibilità,
pronunciate in appello, abbiano confermato la motivazione della decisione di primo grado quanto
ai fatti. La mancata motivazione non si esaurisce al numero 5, comportando anche la nullità della
sentenza perché la motivazione è garantita sia dalla costituzione che dalla convenzione europea dei
diritti dell’uomo. E comporterebbe anche la violazione delle norme di diritto (impugnabilità ex n. 3).

Il PM organizzato nell’ufficio della procura generale interviene in tutte le pubbliche udienza davanti le
sezioni unite o in quelle semplici civili, salvo che nella sezione filtro e redige, nei casi stabiliti dalla legge, le
requisitorie. Si tratta di una forma generalizzata di intervento che ha la sua spiegazione nella funzione di
custodia della legge della cassazione. Con l’art 363 può chiedere che la corte enunci il principio di diritto al
quale il giudice a quo avrebbe dovuto attenersi nel decidere la causa quando le parti destinatarie del
provvedimento impugnabile non abbia posto ricorso in cassazione o vi abbiano rinunciato determinandone
il passaggio in giudicato e quando il provvedimento non sia ricorribile e altrimenti impugnabile. Il principio
di diritto può essere pronunciato anche di ufficio se la corte ritiene la questione di particolare importanza.
L’enunciazione non ha effetti sulla decisione di merito. È dubbia però quale potrebbe essere la pratica
applicazione di questa norma.

Il ricorso per cassazione ha carattere limitato e inizialmente non aveva effetto devolutivo mentre adesso,
stante che la Cassazione può decidere nel merito della causa in casi di accoglimento del ricorso dove non
siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, non si può escludere che abbia un effetto devolutivo. Resta
la distinzione tra fase rescindente e rescissoria del gravame (non entra nel merito se non previo
annullamento della sentenza. Gli altri casi di ricorso oltre l’art 360 (in particolare l’art. 362 comma 1) sono
implicitamente abrogati dall’art 111 Cost in forza del quale ogni provvedimento decisorio definitivo è
ricorribile in Cassazione per tutti i motivi dell’art 360. L’art 362 comma 2 dice che possono essere
denunciati nelle forme del ricorso ordinario in ogni tempo i casi di conflitto reale (non virtuale, cioè i casi in
cui il conflitto è solo prospettato, che può sollevarsi solo a mezzo del regolamento preventivo di
giurisdizione) positivi e negativi di giurisdizione tra giudici speciali o tra giudici ordinari e speciali; negativi di
attribuzione tra la PM e il giudice ordinario. L’art 134 Cost, attribuendo alla Corte costituzionale i conflitti di
attribuzione tra i poteri dello stato abroga il n. 2 dell’art 362 comma 2.

Il ricorso, a pena di inammissibilità, deve essere sottoscritto da un avvocato iscritto all’apposito albo e
munito di mandato speciale da parte del ricorrente o dal suo rappresentante per l’impugnazione;
l’indicazione delle parti; della sentenza/decisione impugnata; esposizione sommaria dei fatti in causa (la
giurisprudenza della corte ha affermato il principio, in contrasto con la norma che richiede solo la
esposizione sommaria, dell’autosufficienza del ricorso, per cui è dichiarato inammissibile se non contiene la
trascrizione fedele degli atti in causa, potendo in questo modo la corte vagliarne il fondamento senza
attingere a diverse fonti), i motivi per cui si chiede la cassazione con le norme di diritto su cui si fonda la
richiesta, procura o decreto di ammissione al gratuito patrocinio se concesso; indicazione di atti
processuali, documenti, contratti o accordi collettivi sui quali si fonda il ricorso. Il ricorrente ha l’onere di
eleggere domicilio a Roma o indicare la PEC, nel caso in cui non lo faccia le notificazioni si eseguono nella
cancelleria della corte. In caso di revisio per saltum l’accordo della parti deve risultare da visto apposto al
ricorso da ognuna delle parti o mediante atto separato da unirsi al ricorso. All’art. 360-bis sono enunciati i
motivi per cui il ricorso è inammissibile, e cioè quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di
diritto in modo conforme alla giurisprudenza della corte e l’esame dei motivi non offre elementi per
confermare o mutare l’orientamento della stessa; quando è manifestamente infondata la censura relativa
alla violazione dei principi regolatori del giusto processo. Il ricorso deve essere notificato alle parti entro il
termine breve di 60 giorni o il termine lungo di 6 mesi, il suo difetto e la sua irreversibile nullità lo rendono
egualmente inammissibile. Se la corte ordina l’integrazione del contraddittorio questa integrazione deve
essere fatta a pena di inammissibilità del ricorso nei termini fissati dal giudice e poi deve essere depositata
in cancelleria entro 20 giorni dalla scadenza del termine assegnato, pena l’improcedibilità. L’originale del
ricorso deve essere depositato con relazione di notifica alla cancelleria della S.C., insieme agli altri atti
previsti all’art 369, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall’ultima notificazione (decreto di
concessione del gratuito patrocinio, copia della sentenza o della decisione impugnata con la relata di
notificazione, procura speciale se conferita con atto separato, atti processuali, documenti, contratti
collettivi sui quali il ricorso si fonda, copia della richiesta di trasmissione alla cancelleria della S.C. del
fascicolo di ufficio della causa cui si riferisce l’impugnazione. È possibile il deposito per mezzo del servizio
postale mediante piego raccomandato e si intende effettuato alla data della sua spedizione. Alla
proposizione del ricorso i difensori dichiarano il ruolo di residenza o la sede della parte e procedono al
pagamento del contributo unificato più un importo pari alla tassa fissa di registro sui provvedimenti
giudiziari, più 27 E.

Le parti contro cui è diretto il ricorso se intendono difendersi e contraddire per iscritto devono proporre
controricorso da notificare nel domicilio o nella PEC indicati nel ricorso dal ricorrente ovvero nella
cancelleria se questi mancano, entro 20 giorni dalla scadenza per il deposito del ricorso stesso (in pratica
entro 40 giorni dall’ultima notifica di esso). Se si omette quest’adempimento nasce un divieto di presentare
memorie scritte prima dell’adunanza. L’ufficiale giudiziario che effettua la notifica è quello del luogo dove
ha sede il giudice che ha pronunciato la decisione impugnata. Il controricorso viene poi depositato nella
cancelleria della cassazione entro 20 giorni dalla notificazione insieme al fascicolo degli atti e dei documenti
sui quali si fonda e alla procura speciale se conferita con atto separato. Si tratta di un atto difensivo che ha
lo scopo di opporsi all’accoglimento del ricorso principale. Se il convenuto vuole impugnare in via
incidentale la sentenza in cassazione deve farlo nei modi previsti per il ricorso incidentale, proponendolo
con atto da notificarsi a tutte le parti entro 40 giorni dalla ricevuta notificazione del gravame principale. Per
proporlo è necessario l’interesse di solito correlato alla soccombenza. La parte intimata con il ricorso
principale e quella chiamata ad integrare il contraddittorio possono impugnare la sentenza tardivamente in
via incidentale. Peculiare è il ricorso incidentale condizionato, che è appunto condizionato all’eventuale
accoglimento del ricorso principale, nel quale l’interesse non discende dalla soccombenza pratica della
parte ma ha come oggetto i motivi sollevati dal ricorrente: la parte vittoriosa, che malgrado la vittoria si sia
vista respingere con apposita statuizione una eccezione (no nel caso in cui non siano state esaminate e
respinte ma siano state assorbite), se non voglia farla passare in giudicato può utilizzare questo strumento.
Questo interesse diviene attuale solo se si profila l’accoglimento dell’impugnazione principale, altrimenti
non sussiste, motivo per cui la S.C. non esamina il ricorso incidentale condizionato se quello principale sia
respinto.
È vietato sollevare in cassazione questioni nuove, infatti il suo compito è fare un controllo di legittimità
processuale e sostanziale sulla materia dibattuta nei precedenti gradi di giudizio. Non rientrano in questo
divieto le questioni di natura processuale rilevabili di ufficio che incidono sulla ammissibilità e procedibilità
dell’azione, per esempio il difetto di giurisdizione. L’unico limite è l’eventuale pronuncia passata in
giudicato. Per quanto riguarda invece gli aspetti sostanziali, si escludono le questioni e i motivi che
presuppongono fatti nuovi o nuovi accertamenti di fatto. Anche qui opera il principio jura novit curia, per
cui possono prospettarsi in S.C. nuovo profili di diritto attinenti ai fatti e alle materia dibattuti o esaminati.
Può anche essere dedotto in cassazione il diritto sopravvenuto e la dichiarazione di incostituzionalità della
legge, rilevabili di ufficio se intervenuti successivamente alla proposizione del gravame. L’art 372 vieta il
deposito di atti e documenti non prodotti nelle precedenti fasi del giudizio anche se è ammessa nel caso in
cui riguardino la nullità della sentenza impugnato o l’ammissibilità del ricorso/controricorso (in
quest’ultimo caso si possono produrre anche dopo il deposito del ricorso/controricorso con elenco da
notificarsi alle parti).

Il ricorso in cassazione non sospende l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata ma l’art 373 permette
una forma di inibitoria che la parte può chiedere al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Si
può chiedere o la sospensione dell’esecuzione o l’imposizione di congrua cauzione. È interpretata nel senso
che l’esecuzione comporti cambiamenti irreversibili o difficilmente eliminabili, per questo di norma
l’espropriazione forzata di crediti in denaro non è vi è di norma soggetta, e nei suoi confronti, dipende dalla
condizione patrimoniale del creditore, si può richiedere che venga sottoposta a cauzione. Si chiede con
ricorso al giudice, il giudice con decreto in calce fissa la comparizione delle parti innanzi a sé o nel collegio
in camera di consiglio e si notifica l’atto alla controparte. Il giudice provvede con ordinanza. In casi di
eccezionale urgenza la sospensione può essere disposta provvisoriamente con decreto e poi
confermata/modificata/revocata con l’ordinanza. Non si ritiene impugnabile in cassazione ex art. 111 Cost.

Dopo l’iscrizione a ruolo il cancelliere trasmette il ricorso al primo presidente che decide se assegnare il
ricorso alla c.d. sezione filtro, la sezione speciale che ha lo scopo di vagliare i ricorsi, o alla sezioni unite.
Quando il ricorso è assegnata alla sezione filtro, se questa vaglia l’ammissibilità del gravame, rimette il
fascicolo alla sezione semplice che normalmente decide in camera di consiglio. Il presidente fissa con
decreto la data dell’adunanza che è comunicata agli avvocati delle parti e al PM almeno 40 giorni prima. Il
PM può depositare le sue memorie scritte almeno 20 giorni prima, le parti non oltre 10 giorni prima. Se
invece il giudice relatore della sezione filtro ritiene sussistere l’inammissibilità o la manifesta
fondatezza/infondatezza propone al presidente di fissare la data dell’adunanza camerale, che deve essere
notificata alla parti fino a 20 giorni prima. I difensori possono fino a 5 giorni prima depositare memorie
scritte. Dopo l’adunanza, se la sezione non ritiene che sussista un caso di pronuncia, rimette la causa a una
sezione semplice, che decide in pubblica udienza, altrimenti definisce con ordinanza dichiarando
inammissibile il ricorso o accogliendo per manifesta fondatezza o rigettando per manifesta infondatezza. Il
procedimento in camera di consiglio è la normalità in Cassazione. Sono decise con queste modalità la
dichiarazione di inammissibilità del ricorso principale o incidentale, le istanze di regolamento sulla
competenza e sulla giurisdizione, l’accoglimento o il rigetto del ricorso per manifesta fondatezza o
infondatezza, qualsiasi ricorso salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla
particolare rilevanza della questione di diritto o perché il ricorso sia rimesso alla apposita sezione dalla
sezione filtro. Si applica sempre per la decisione dei regolamenti. Di contro la fissazione della pubblica
udienza viene comunicata alle parti almeno 20 giorni prima e possono essere presentate memorie scritta
fino a cinque giorni prima. Tutte la parti hanno diritto di partecipare tramite difensori abilitati al patrocinio.
In essa il relatore riferisce brevemente sulla controversia, poi sono ammessi a discutere i difensori delle
parti, poi conclude il PM ed esaurita la discussione la corte delibera in camera di consiglio nella stessa
seduta. La corte decide a sezioni unite per le questioni di giurisdizione (anche se i ricorsi possono essere
assegnati alle sezioni semplici se vi sia stato su di esse un pronunciamento di quelle unite, salvo si tratti di
sentenze del consiglio di stato o della corte dei conti) e quando il primo presidente dispone che un ricorso
venga ad esse assegnato, quando presenti questioni di diritto su cui sono sorti contrasti in giurisprudenza o
quando si tratti di questioni di massima importanza. I difensori delle parti possono fino a 10 giorni prima
dell’udienza di discussione rivolgere istanza motivata al primo presidente perché il ricorso assegnato a una
sezione semplice venga rimesso a quelle unite, e lo stesso può fare il PM anche in pubblica udienza, ma la
rimessione può essere anche disposta di ufficio dal collegio con ordinanza. Se il ricorso è assegnato alle
sezione unite il primo presidente nomina il giudice relatore e fissa la pubblica udienza. Le sezioni semplici
devono seguire l’orientamento delle sezioni unite ma se non si trovano d’accordo possono sempre
rimettere alle stesse il ricorso o sollevare la questioni di costituzionalità alla Corte costituzionale. In
sostanza il ricorso può avere come esiti la dichiarazione di inammissibilità/improcedibilità, respinta nel
merito, accolto con cassazione della sentenza con rinvio proprio, improprio o senza rinvio, rigetto del
ricorso con correzione della motivazione. Quest’ultimo caso ricorre quando la corte riscontri errori giuridici
nella motivazione della sentenza impugnata ma ritenga il dispositivo conforme al diritto, per cui il ricorso
non può essere accolto, essendo che il dispositivo non è erroneo. La correzione è fatta in vista della
funzione nomofilattica della cassazione, serve cioè ad evitare che si formino precedenti che in futuro
potrebbero condurre a soluzioni sbagliate.

Tra i compiti della corte c’è la regolazione della giurisdizione e della competenza dei giudici. La corte decide
sulla giurisdizione quando le è proposto un regolamento preventivo, quando il prefetto sollevi la questione
a tutela della PM, in sede di ricorso ordinario ex art. 360 n1. Ha anche il potere, quando sulla statuizione
non si sia formato giudicato interno, di sollevare la questione anche di ufficio. La decisione sulla
giurisdizione è adottata in base al contenuto oggettivo della domanda giudiziale, quindi lascia libero in tutto
il resto il giudice di merito, che non può solo cambiare la qualificazione giuridica o l’interesse legittimo
dedotto in lite, altrimenti si inficerebbe la pronuncia della S.C. Dopo la dichiarazione di giurisdizione la
causa deve essere riassunta seguendo le norme dell’art. 50 e produce effetto vincolante anche in altro
giudizio. Se la corte statuisce sulla competenza, questa viene emessa o in sede di regolamento o di ricorso
ordinario ex art. 360 n2. La pronuncia pur non acquistando autorità di cosa giudicata materiale in caso di
proposizione della stessa azione vincola le parti circa la individuazione del giudice competente, e la
riassunzione del processo è regolata sempre dall’art. 50.

La cassazione decide senza rinvio quando la corte in accoglimento del ricorso che annulli la sentenza
impugnata, concluda definitivamente il giudizio poiché non è possibile una sua prosecuzione. Avviene
quando riconosce un difetto assoluto di giurisdizione (nessun giudice speciale o ordinario hanno la
giurisdizione) e quando ritiene che la causa non potesse essere proposta o il processo proseguito, nel caso
di impedimenti o vizi di natura processuale originari o sopravvenuti, che determinano l’inammissibilità,
l’improponibilità o l’improcedibilità dell’azione (es. pronuncia ultra/extra petita).

La Cassazione accogliendo il ricorso dispone il rinvio c.d. proprio quando siano necessari ulteriori
accertamenti di fatto (altrimenti decide la stessa nel merito), rinvia la causa ad altro giudice di parti grado di
quello che ha pronunciato la sentenza impugnata. Il rinvio è improprio quando in seguito alla cassazione
viene annullato l’intero processo, che quindi deve iniziare da capo, per cui si rinvia al giudice di primo grado

La S.C. deve enunciare il principio di diritto in ogni caso di decisione del ricorso fondata sull’art 360 n. 3 e
per ogni altro motivo di ricorso quando risolva una questione di diritto di particolare importanza (anche se
si ritiene superfluo il doverlo fare anche in casi di rigetto). Nel caso classico di rinvio della sentenza al
giudice di merito, ha efficacia vincolante non solo il principio di diritto ma anche quanto statuito dalla corte,
quindi anche in ordine ai presupposti di fatto su cui si fonda; esso preclude inoltre ogni eccezione o
dedizione nuova dovendosi esse ritenersi implicitamente decise e rigettate dalla pronuncia in Cassazione,
almeno che non vengano dedotti fatti nuovi e sopravvenuti rispetto al giudizio di legittimità. Per quanto
riguarda la natura del principio di diritto, esso costituisce un precedente privo di autorità di giudicato
materiale (è pronunciato anche in caso di rigetto o in merito a questioni processuali) e ha una funzione
uniformatrice. Il rinvio non ha luogo se la corte decide nel merito se non siano necessari ulteriori
accertamenti di fatto, sia che si tratti di errori in procedendo che in giudicando. Nel caso di errori sulle
norme processuali, in questo modo, il gravame assume la funzione di una terza istanza di merito. Inoltre, se
la corte individua di ufficio una questione risolutiva del gravame si riserva di decidere ed invita le parti ed il
PM a interloquire per iscritto su di essa.

Con la cassazione della sentenza nasce in capo alla parte vittoriosa il diritto autonomo alla restituzione di
quanto prestato in ottemperanza alla sentenza annullata, trovando la sua fonte nella eliminazione del titolo
sul quale si erano fondate le attribuzioni patrimoniali. Essendo autonomo, si prescrive in 10 anni, la sua
competenza funzionale è del giudice del rinvio o si quello che ha pronunciato la sentenza annullata dalla
S.C. e il giudice deve pronunciare senza dilazione. Si propone con citazione da notificarsi alle parti
personalmente. Il procedimento in cassazione non è influenzato da quegli avvenimenti che nel giudizio di
merito possono determinare interruzione o estinzione, ma l’unica causa che incide sul suo svolgimento è la
rinuncia del proponente, che deve farsi con atto scritto della parte o del difensore con mandato speciale
per la rinuncia. Non richiede l’accettazione delle controparti e non influenza l’eventuale ricorso incidentale
da queste proposto sulla sentenza. Deve essere fatto prima che inizia la relazione all’udienza o che sia
notificata la richiesta del PM in caso di camera di consiglio. Sulla rinuncia e sulla dichiarazione di estinzione
provvede con ordinanza la camera di consiglio, con sentenza la sezione se era stata fissata la pubblica
udienza, con decreto il presidente se non risulti fissata la data della decisione e ha efficacia esecutiva se
entro 10 giorni dalla comunicazione nessuna delle parti chiede la fissazione dell’udienza. Tutti e tre possono
condannare il rinunciante alle spese, salvo che le controparti abbiano aderito alla rinuncia.

L’art. 391-bis estende alle sentenze e alle ordinanze della cassazione la revocazione per errore di fatto e la
correzione di errori materiali o di calcolo. La revocazione per errore di fatto può essere chiesta con ricorso
in cassazione secondo le forme e i termini ordinari, mentre i termini sono eliminati per la correzione non
essendo quelli una forma di impugnazione (anche se secondo Monteleone dalla correzione si riaprano i
termini per proporre revocazione per errore di fatto). Se la corte ritiene inammissibile l’impugnazione
provvede con ordinanza in camera di consiglio (sezione filtro) altrimenti rinvia alla pubblica udienza della
sezione semplice. L’errore di fatto rilevante sussiste quando emerga dagli atti interni al procedimento
quando questi debbano essere esaminati direttamente ed autonomamente dalla S.C. se la corte respinge il
ricorso la sentenza impugnata e confermata passa in giudicato nonostante la pendenza del termine per
proporre la revocazione e l’istanza di revocazione non comporta la sospensione dell’esecuzione della
sentenza, in contrasto con le norme che regolano il passaggio in giudicato. Per cui la sentenza di merito
contro cui è proposto ricorso in cassazione che viene respinto passa in giudicato, quella di rigetto della
cassazione non si intende passata in giudicato e accolta la revocazione la prima anche se cosa giudicata
potrebbe essere travolta dall’ulteriore pronuncia della cassazione. Contro le sentenze che decidono nel
merito della cassazione possono proporsi anche gli altri motivi di revocazione e opposizione di terzo, con
ricorso alla S.C. entro il termine previsto per i due rimedi e con i requisiti richiesti per gli stessi. Se la corte
revoca la sentenza o accoglie l’opposizione del terzo decide nel merito se non sono necessari ulteriori
accertamenti oppure rinvia per la decisione al giudice che ha pronunciato la sentenza.

§2 IL GIUDIZIO DI RINVIO

Il giudizio di rinvio costituisce la fase rescissoria di merito e si apre dopo l’annullamento della sentenza in
cassazione. La sentenza così prende il posto della precedente, anche se oggi in virtù della possibilità di
decidere anche nel merito della cassazione ha funzione limitata alla eventualità che siano necessari ulteriori
accertamenti di fatto. Il rinvio può essere PROSECUTORIO per violazione o falsa applicazione di norme
sostanziali, nel caso in cui è volto alla rinnovazione della fase decisoria sulla base del principio di diritto
vincolante enunciato dalla S.C. le preclusioni operano in massimo grado: la sentenza vincola il giudice del
rinvio nell’interpretazione, applicazione della norma violata, ma anche sui fatti su cui si fonda
l’interpretazione e impedisce esami su ogni questione preliminare o pregiudiziale dedotta o deducibile di
ufficio. Resta salva la possibilità di invocare mutamenti normativi e fatti sopravvenuti. Si parla di rinvio
restitutorio (restituisce alle parti le condizioni processuali precedenti al vizio) nel caso di violazione di
norme processuali nel quale il processo deve ripartire dal giudice indicato dalla corte (se rinvio improprio
da quello di primo grado) ex novo, e in cui il giudice del rinvio non ha particolari vincoli e le parti non hanno
particolari preclusioni, salvo quelli che derivano dalle ragioni per cui la corte ha ritenuto sussistente il vizio.

Il giudizio di rinvio deve essere riassunto davanti al giudice designato dalla cassazione la cui competenza è
funzionale, assoluta e inderogabile, nel termine perentorio di tre mesi dalla pubblicazione della srntenza
con citazione da notificarsi personalmente alle parti su impulso di una di esse, e i suoi eventuali vizi sono
soggetti a sanatoria retroattiva ordinaria. Le parti presenti nel giudizio di cassazione devono essere
chiamate in rinvio e se il procuratore è abilitato a stare in giudizio in sede di rinvio non necessita di una
nuova procura. Il processo di rinvio è regolato dalle normali regole di quel processo. Se nessuna parte si
costituisce dopo la notifica della citazione si ha la cancellazione del ruolo con facoltà di riassunzione entro 3
mesi. Le parti hanno la stessa posizione processuale che avevano nel merito. Se la causa non è riassunto
segue l’estinzione dell’intero processo: nin c’è nessuna efficace decisione di merito. Si salvano solo le
sentenze /statuizione di merito contenute nelle precedenti sentenze passate in giudicato, quelle regolatrici
della competenze e della giurisdizione. Le prove diventano argomenti di prova. La sentenza della cassazione
se viene proposto un nuovo processo con la riproposizione della domanda conserva il suo effetto
vincolante ma con una efficacia normativa ed astratta, cioè affrancata dai presupposti e accertamenti di
fatto inerenti al processo estinto.

LA REVOCAZIONE

La revocazione è un mezzo di impugnazione a critica vincolata, infatti, la legge stabilisce a priori motivi per i
quali può essere proposto all’art. 395 c.p.c. Ci sono una fase rescindente e una rescissoria, entrambe
affidate allo stesso giudice, ovvero quello che ha emesso la sentenza impugnata. La cause determinante la
revocazione è una ingiustizia esterna al processo e al procedimento logico-giuridico di formazione della
sentenza, si tratta di fattori di perturbamento che hanno sviato il corretto svolgimento della funzione
decisoria ma che non si concretano in errori di giudizio: la sentenza è ingiusta ma in astratto non viziata.
Possono essere impugnate con revocazione le sentenze pronunciate in appello o in unico grado e le
sentenze di primo grado a condizione che siano passate in giudicato e solo per quella straordinaria.
L’appello assorbe i motivi di revocazione, per cui se i motivi di revocazione sono scoperti prima che scade il
termine per proporlo non è possibile esperire la revocazione, inoltre in questo caso viene prorogato il
termine per proporre appello di 30 giorni dalla scoperta della circostanza. Non si tratta di uno strumento
sostitutivo dell’appello. Infine sono impugnabili per revocazione le sentenze della cassazione. Possiamo
distinguere revocazione c.d. ordinaria, per i motivi n. 4 e 5 dell’art 395, la cui proposizione condiziona il
passaggio in giudicato e che non può essere proposta una volta avvenuto questo; c.d. straordinaria, per i n.
1,2,3,6 che può proporsi in ogni tempo nel termine di 30 giorni dalla scoperta della circostanza e non è
influenzata -e non influenza – dal passaggio in giudicato. I motivi per proporre revocazione sono (art. 395)

1) Se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra. Si ha quando una parte abbia fatto
artifici o raggiri tali da paralizzare o menomare gravemente la difesa avversaria (non ’'è un obbligo
di dire la verità, o di dichiarare x cose favorevoli alla controparte), il silenzio o la bugia non
integrano motivo di revocazione a meno che non facciano parte di un disegno fraudolento più
grande. Gli artifici o i raggiri devono avere influenza determinante sulla decisione e devono non
solo impedire alla controparte di difendersi ma al giudice di percepire l’esatta realtà processuale o
sostanziale, determinando così l’ingiustizia della sentenza. Il termine per proporre revocazione è 30
giorni dalla scoperta del dolo.
2) Se si è giudicato in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza o che la parte
soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate false prima la sentenza. Il
riconoscimento deve provenire dall’avversario e la dichiarazione da una sentenza -civile o penale-
passata in giudicato. Rientrano nell’ambito delle prove tutti i mezzi di legge, anche la consulenza
tecnica, per la quale però è necessaria una sentenza penale passata in giudicato pronunciata contro
il consulente.
3) Se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più di documenti decisivi che la parte non aveva potuto
produrre in giudizio per causa di forza maggiore o causa dell’avversario. Si tratta di qualsiasi prova
documentale che preesistono alla sentenza impugnata e che riguardano direttamente fatti giuridici
essenziali. Il termine per proporre revocazione è di 30 giorni dal ritrovamento.
4) Se la sentenza è un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Si ha quando la
decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa o
quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita; se il fatto non
costituì punto controverso sul quale la sentenza si ebbe a pronunciare. L’errore non riguarda la
formazione o manifestazione del giudizio (se no sarebbe impugnabile in cassazione) ma si tratta di
un errore su un presupposto che si dà per assodato per prendere la decisione ma che è in contrasto
con la realtà. È un errore ostativo o percettivo che si contrappone all’errore vizio o motivo. Il
termine decorre dalla notifica (30 giorni) o dalla pubblicazione della sentenza (6 mesi).
5) Se la sentenza è contraria ah altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché
non abbia pronunciato sulla relativa eccezione. Si tratta del giudicato esterno, che opera solo su
eccezione di parte. Deve investire due sentenze che hanno autorità di cosa giudicata materiale
pronunciata nei confronti delle stesse parti e con lo stesso oggetto: è un modo per sollevare ex post
l’eccezione di cosa giudicata (se non viene proposta la seconda sentenza prevale sulla prima).
L’eccezione nel corso del giudizio non deve mai essere stato sollevato, perché il giudice lo deve
ignorare del tutto, in caso contrario si farà ricorso in cassazione. Il termine per impugnare è 30
giorni dalla notifica della sentenza e in mancanza 6 mesi dalla sua pubblicazione.
6) Se la sentenza è effetto del dolo del giudice. Il dolo deve essere accertato con sentenza passata in
giudicato e il termine per proporla è di 30 giorni dal passaggio in giudicato di detta sentenza.

La revocazione viene proposta con citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza, da
intendersi come ufficio giudiziario non come persona fisica (per il motivo n. 6 escluso che possa esserci
identità di persona) e la competenza è funzionale e inderogabile e si determina in base alla decisione del
merito. La domanda, salvo che si tratti di controversie di lavoro, deve proporsi con citazione ma si ammette
la sanatoria in caso di errore. Deve indicare, a pena di inammissibilità, il motivo della revocazione e le prove
relative alla dimostrazione dei fatti di cui ai n 1, 2, 3 e 6 art 395, del giorno della scoperta o
dell’accertamento del dolo o della falsità o del recupero dei documenti. La citazione dev’essere sottoscritta
da un difensore munito da procura speciale. Se la revocazione è proposta davanti al tribunale o alla corte
d’appello la citazione dev’essere depositata, a pena di improcedibilità, entro 20gg dalla notifica della
citazione, nella cancelleria del giudice adito con la copia autentica della sentenza impugnata. Le altre parti
devono costituirsi nello stesso termine mediante deposito in cancelleria di una comparsa contenente le
loro conclusioni. Davanti al giudice adito si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui in
quanto non derogate da quelle del presente capo. Il giudice della revocazione può pronunciare, su istanza
di parte inserita nell’atto di citazione, l’ordinanza inibitoria, con lo stesso procedimento previsto per il
ricorso in Cassazione (art. 373). Con la sentenza che pronuncia la revocazione il giudice, se l’istanza è
ritenuta ammissibile procedibile e fondata, consentendolo lo stato della causa, decide il merito della causa
e dispone l’eventuale restituzione di ciò che si sia conseguito con la sentenza revocata. Se, invece, per la
decisione nel merito ritiene di dover disporre nuovi mezzi istruttori, pronuncia con sentenza la revocazione
della sentenza impugnata, e rimette con ordinanza le parti davanti all’istruttore. -> in corte d’appello è
sempre il collegio. Infine, non può essere impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di
revocazione. Contro di essa sono ammessi i mezzi di impugnazione a cui era originariamente soggetta la
sentenza impugnata per revocazione.

Secondo l’art. 397cpc “revocazione su istanza del PM”, nelle cause in cui l’intervento del pm è obbligatorio,
le sentenze previste negli artt precedenti, possono essere impugnate per revocazione dal pm:
1- Quando la sentenza sia stata pronunciata senza che egli sia stato sentito;
2- Quando la sentenza è l’effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge.

I termini sono di 30gg dalla conoscenza della sentenza o della collusione. Queste due ipotesi sono tassative,
nel primo caso si fa valere una causa di nullità della sentenza che dovrebbe cedere davanti al giudicato
formale ma che il PM ha la facoltà di far valere e con la seconda svolge un controllo per evitare che le parti
utilizzino il processo e la decisione per ottenere risultati non consentiti dalla legge, con un vizio assimilabile
a quelli dell’art. 395. Quando il PM ha l’autonomo potere di impugnare la sentenza, oltre a queste due
ipotesi, può proporre revocazione ex. Art 395.

OPPOSIZIONE DI TERZO

L’opposizione di terzo è un mezzo di impugnazione straordinaria a tutti gli effetti, ed è regolato dall’art.
404cpc. Al primo comma diche che un terzo può fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o
comunque esecutiva, pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti. (opposizione ordinaria).
Al secondo comma: gli aventi causa e i creditori di una delle parti possono fare opposizione alla sentenza
quando è l’effetto di dolo o collusione a loro danno. (opposizione revocatoria) è un rimedio concesso
contro una sentenza passata in giudicato comunque esecutiva, nei casi in cui ci siano dei terzi che sono
colpiti dagli effetti della sentenza stessa. Essendo il giudicato inamovibile solo per le parti, gli eredi e gli
aventi causa, i terzi hanno questo strumento in quanto nei loro confronti gli effetti della sentenza non sono
assistiti dall’immutabilità dell’accertamento giudiziale. La fonte del pregiudizio inoltre non sta nell’autorità
di giudicato ma negli effetti della sentenza (infatti non è necessario che questa passi in giudicato per poter
proporre opposizione di terzo). Possono essere impugnate:

• tutte le sentenze passate in giudicato o comunque esecutive;


• ordinanza di convalida di licenza per finita locazione;
• ordinanza di sfratto per morosità;
• opposizione tardiva alla convalida;
• ordinanza di affrancazione del fondo enfiteutico;
• sentenze con cui la cassazione ha deciso nel merito;
• decreto ingiuntivo definitivo.

Le condizioni per aversi opposizione di terzo sono:

1) la qualità di terzo dell’opponente. È terzo chi non viene colpito dall’autorità di cosa giudicata della
sentenza. Sono terzi i titolari di un diritto reale o autonomo e incompatibile con quello che
costituisce l’oggetto della sentenza, perché avente il medesimo oggetto; sono terzi i litisconsorti
pretermessi, infatti non possono proporre appello perché non avevano la qualità di parte in
1°grado. Non sono terzi gli eredi e gli aventi causa, non lo sono neanche i titolari dei diritti connessi
per pregiudizialità-dipendenza rispetto ai diritti delle parti in causa, infatti, tali diritti sono autonomi
ma non indipendenti e il titolari di questi, che avrebbe potuto proporre intervento adesivo, potrà
respingere gli effetti della sentenza solo quando qualcuno avanzerà pretese nei suoi confronti e
dimostrandone l’ingiustizia. e nemmeno il falso rappresentato (-> Monteleone non è d’accordo,
infatti sostiene che non essendo costui realmente parte in causa, anche se la sentenza è
pronunciata nei suoi confronti non è per lui vincolante, di conseguenza dovrebbe poter fare
opposizione di terzo).
2) Il pregiudizio. Deriva dalla sentenza ed è costituito dall’efficacia della sentenza che incide,
menomandolo, sul diritto del terzo. Si può distinguere tra esecutività intrinseca: gli effetti giuridici
nascono immediatamente dal contenuto della sentenza; esecutività estrinseca: la sentenza
costituisce titolo esecutivo per modificazioni attuabili con l’esecuzione forzata.
3) Il diritto del terzo dev’essere autonomo e incompatibile con la decisione. Viene individuato sulla
base dei soggetti legittimati; non dipende giuridicamente in alcun modo da una delle parti su cui la
sentenza ha statuito, ed è incompatibile con il diritto vantato dalla parte.

Al secondo comma dell’art 404 è regolata l’opposizione di terzo revocatoria. A questa sono legittimati i
creditori e gli aventi causa di una delle parti, quando la sentenza è l’effetto di dolo o collusione a loro
danno. È sempre un’impugnazione straordinaria ma a differenza dell’opposizione ordinaria, vi sono terzi
qualificati e motivi specifici. Secondo Monteleone questi non possono proporre opposizione di terzo
ordinaria perché titolari di posizioni giuridiche non autonome rispetto alle parti in causa. È un istituto affine
all’azione revocatoria. I creditori sono legittimati perché questo è per loro un mezzo di conserrvazione
della garanzia patrimoniale, invece, gli aventi causa sono solo i successori a titolo particolare (ex art
111cpc), perché quelli a titolo universale alla estinzione del dante causa assumono a tutti gli effetti la
qualità di parte. Se gli aventi causa non intervengono nel giudizio o non sono stati chiamati, subiscono
comunque il giudicato e quindi non possono proporre impugnazioni ordinarie né la revocazione o
l’opposizione di terzo ordinaria. Quindi la legge gli consente di proporre opposizione di terzo revocatoria.

L’opposizione è proposta davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza, secondo le forme
prescritte per il procedimento davanti a lui. La citazione deve contenere, oltre agli elementi ex 163cpc,
anche l’indicazione della sentenza impugnata e l’indicazione del giorno in cui il terzo sia venuto a
conoscenza del dolo o della collusione, e della relativa prova. Anche qui il giudice dell’opposizione può
pronunciare su istanza di parte ordinanza inibitoria, di sospensione dell’esecuzione. Secondo la
giurisprudenza la sentenza che decide sull’opposizione è impugnabile con le impugnazioni originariamente
previste per la sentenza opposta. L’opposizione ordinaria non è soggetta a termini di decadenza mentre
quella revocatoria deve essere proposta a pena di decadenza entro 30 giorni dalla scoperta del dolo o della
collusione (la giurisprudenza li distingue, la collusione vede la partecipazione delle parti in causa, il dolo è
anche unilaterale e può consistere anche in omissioni). Anche qui prevale la sostanza sulla forma, quindi,
non sono impugnabili solo le sentenze ma tutti i provvedimenti a contenuto decisorio. È disputato se il suo
accoglimento comparta il venire meno della sentenza anche tra le parti originaria.

PARTE QUINTA: CONTROVERSIE DI LAVORO, PREVIDENZIALI ED ASSIMILATE

OSSERVAZIONI E NOZIONI INTRODUTTIVE

La L 533/1973 ha riformato la disciplina delle controversie di lavoro in luce del mutato quadro politico,
sociale e giuridico. Siamo negli anni ’70, in cui c’era una società molto politicizzata, con scontri sociali
accentuati e le imprese tendevano ad essere grandi e ad avere migliaia di dipendenti (FIAT). È l’epoca delle
battaglie sindacali, gli anni si piombo, della stessa magistratura che sostiene che non essere politicizzati è
impossibile e dei provvedimenti dei giudici pretori quasi contra legem in materia di lavoro, in applicazione
dell’art. 3 Cost: i datori di lavoro sono le grandi imprese che dispongono di mezzi che il lavoratore non avrà
mai, quindi, i giudici intervengono per mettere equilibrio tra le parti. Da questo nasce la nuova disciplina,
che però non segna un marcato distacco dalla precedente regolamentazione, che era autoritaristica e
illiberale e l’architettura processuale è sostanzialmente la stessa: ci sono stringenti preclusioni a carico delle
parti, una supremazia assoluta del giudice sulle parti, un sistema inquisitorio con attribuzione al magistrato
di forti poteri istruttori. Questo regime processuale si rifà alle idee di Chiovenda e in particolare ai canoni di
oralità, immediatezza e concentrazione e si afferma che la diversa impostazione trova giustificazione nelle
esigenze di tutela giurisdizionale differenziata a favore delle parti più deboli. In realtà è n processo
ugualmente lento e farraginoso ma che ha in sé un pericolo latente di perpetuare ingiustizie.

Le caratteristiche del processo del lavoro sono diverse da quelle prospettate, le quali non esistono né in
fatto né in diritto. Per quanto riguarda l’oralità, si tratta di un processo essenzialmente scritto in cui si
impone ad attore e convenuto di mettere subito per iscritto nel ricorso introduttivo e nella memoria di
costituzione ogni domanda, difesa, eccezione, richiesta istruttoria e conclusione, a pena di decadenza. Non
si discute nulla davanti al giudice perché tutto ciò che non è dedotto per iscritto, salvo limitate eccezioni, è
colpito da preclusioni. La concentrazione in poche o pochissime udienze, che dovrebbe garantire un
processo rapido e che è il motivo per cui il giudice ha poteri pressoché illimitati è un’illusione, infatti il
processo inizia con un ricorso depositata in cancelleria. L’udienza è fissata dal giudice con decreto dopo
mesi dal deposito, a dispetto del termine ordinatorio di 60 giorni. La controversia poi non è mai discussa in
una sola udienza e sono frequenti, a dispetto del divieto, le udienze di solo rinvio. Inoltre con il sistema
delle preclusioni le parti sollevano ogni genere di questione, appesantendo il giudizio e moltiplicando le
udienze. L’immediatezza, che postula che sia lo stesso giudice che raccoglie le prove a decidere subito ed in
base ad esse la controversia, viene meno: il processo è scritto e si dilunga, quindi avviene spesso che nel
suo corso il giudice cambi, inoltre la decisione non viene presa in pubblica udienza ma dal giudice quasi
privatamente sulla base del materiale cartaceo e scritto. Si tratta, inoltre, di un processo inquisitorio, infatti
in base all’art 421 il giudice può disporre di ufficio in ogni momento l’ammissione di ogni mezzo di prova
anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice. Si applica dunque il c.d. principio di eventualità, che vuol dire
che le parti devono prendere posizione non solo su quello che è stato detto ma anche in previsione di ciò
che potrebbe essere contestato. I principi cardine sono la centralità del giudice (basta pensare che inizia
con ricorso), le forti preclusioni a carico delle parti e i forti poteri istruttori del giudice.

Alcuni, per le sue caratteristiche peculiari, avevano ritenuto che il processo in questione costituisse un
complesso legislativo a sé stante. In realtà non è oggetto di giurisdizione speciale ma è uno degli schemi
processuali previsti per la ordinaria tutela di giurisdizione dei diritti nella fase della cognizione giudiziale- è
uno dei possibili processi ordinari di cognizione, con alcune peculiarità e ad esso si applicano le disposizioni
generali contenute nel libro I del c.p.c. e tutti gli istituti previsti per il procedimento dinanzi al tribunale che
non siano con esso incompatibili con norme processuali dettate per le cause di lavoro.

Si applica questa disciplina processuale a una serie di materie, nella convinzione che questa disciplina
configuri un modello rapido ed efficace. Quindi, oltre che alle controversie di lavoro si applica alle
controversie in materia di contratti agrari, in materia previdenziale, in materia di locazione e comodato di
immobili urbani e di affitto di aziende, al procedimento di repressione della condotta antisindacale ex. art
28 dello statuto dei lavoratori.

IL PROCESSO DI PRIMO GRADO

§1 LA GIURISDIZIONE, LA CONCILIAZIONE, L’ARBITRATO

L’art 409 indica in quali controversie trovi applicazione il c.d. rito del lavoro:

1) Rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di una impresa (si sta
escludendo il lavoro autonomo).
2) Rapporti di mezzadria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti
derivanti da altri contratti agrari salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie. Nel 1990 è
intervenuta una legge per cui in pratica la competenza è delle sezioni specializzate agrarie (in
materia di contratti agrari o di conversione di contratti associativi di affitto) ma sono assoggettate a
questa tipologia di rito
3) Rapporti di agenzia, di rappresentanza ed altri rapporti di collaborazione coordinata e continuativa,
con carattere prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato. Non si applica
quando, nonostante ci siano queste condizioni, i rapporti non intercorrono tra persone fisiche. Si
ritiene che vi rientrino quelli attinenti all’impresa familiare e le attività professionali svolte da
medici o avvocati in rapporto di convenzionamento esterno anche con enti pubblici.
4) Rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici economici, ossia quelli che svolgono
esclusivamente o prevalentemente attività economica (aziende municipalizzate e istituti di credito).
Con la privatizzazione molte aziende che erano enti pubblici economici hanno assunto la forma di
SPA (es Trenitalia).
5) Rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di pubblico impiego, sempreché
non siano dalla legge devoluti ad altro giudice. I rapporti di pubblico impiego che originariamente
rientravano nella giurisdizione del giudice amministrativo furono trasferiti a quello ordinario, ma
esistono ancora rapporti di pubblico impiego, in particolare quelli non contrattualizzati come
magistratura, forza dell’ordine, che sono rimasti al giudice amministrativo.

Le norme sulla ripartizione di giurisdizione tra il giudice ordinario e quello amministrativo nelle materie di
pubblico impiego è oggi contenuto nel T.U. sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni. Appartengono alla giurisdizione ordinaria tutte le controversie relative ai rapporti di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e le cause inerenti a comportamenti antisindacali
delle PS e quelle promosse dalle organizzazioni sindacali per le procedure di contrattazione collettiva.
Restano attribuiti alla giurisdizione amministrativa le controversie di lavoro riguardanti i magistrati ordinari
amministrativi e contabili, gli avvocati di stato, militari e polizia, carriera diplomatica e prefettizia,
dipendenti degli enti che svolgono attività di borsa, commercio, concorrenza e mercato, tesoro, lavori
pubblici, agricoltura e foreste, industria; procedure concorsuali per l’assunzione di qualsiasi dipendente di
pubblica amministrazione, rapporti di impiego dei professori e ricercatori universitari. La competenza
territoriali è quella del giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio in cui il dipendente è o era addetto e
non si ha spostamento per il foro erariale. Nelle materie devolute al giudice civile il ricorso si notifica
all’amministrazione convenuta, mentre se si tratta di una amministrazione statale si notifica all’avvocatura
distrettuale di stato.

Salvo che a quelli sopradetti il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti è regolato dalle norme del codice
civile, si applica lo statuto dei lavoratori ed è stata istituita una contrattazione collettiva, il giudice civile
adotta nei confronti delle PA tutti i provvedimenti di accertamento richiesti dalla natura dei diritti tutelati e
le sentenze con cui riconosce l’assunzione/l’assunzione avvenuta in violazione di norme sostanziali o
procedurali, ha effetto costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. Può accadere che la controversia di
lavoro traggo origine da un provvedimento amministrativo di natura generale o organizzativa: se lesivo di
un interesse concreto e attuale va impugnato davanti al giudice amministrativo. Se ciò avvenga il
dipendente può adire il giudice civile per la tutela dei propri diritti. Il problema è che l’impugnazione
davanti al giudice amministrativo non è causa di sospensione della causa davanti al giudice ordinario, e
potrebbero crearsi dei contrasti tra i due giudicati, inoltre la cosa potrebbe danneggiare lo stesso
dipendente.

L’art 410 c.p.c. prevede un tentativo di conciliazione, che all’inizio era facoltativo, poi era stato reso
obbligatorio ed oggi è tornato facoltativo, anche se permane l’obbligo nelle controversie sulla certificazione
lavorativa. Il tentativo di conciliazione si svolge davanti alle commissioni paritetiche di conciliazione
istituite presso le direzioni provinciali di lavoro, alle quali la parte interessata presenta richiesta di
conciliazione con atto scritto che enunci le ragioni di fatto e diritto e altre indicazioni imposte dalla legge e
poi la comunica alla controparte. Questa comunicazione interrompe la prescrizione e impedisce le
decadenze per i venti giorni successivi. Se la controparte accetta il procedimento, deposita presso la
commissione la propria comparsa di risposta entro 20 giorni, contenente le difese, eccezioni ed eventuali
domande riconvenzionali. Se non deposita nulla il tentativo di conciliazione non ha luogo. Se il tentativo
riesce, l’ufficio entro 10 giorni fissa la comparizione delle parti entro 30 giorni per tentare la conciliazione.
Se riesce anche solo parzialmente, si redige un verbale sottoscritto dalle parti e dai commissari e viene reso
esecutivo con decreto del giudice su istanza di parte. Se non si raggiunge un accordo la commissione
formula una proposta bonaria di definizione della controversia che può essere respinta da una o da tutte e
due le parti (e i motivi si annotano a verbale che poi sarà prodotto nell’eventuale giudizio. Le rinunzie e le
transazione che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di
legge non sono valide e sono impugnabili a pena di decadenza entro sei mesi, nel tentativo di conciliazione
invece (anche se avviene davanti un giudice, ma non è questo caso specifico) è valido. Per esempio quindi il
lavoratore può mettersi d’accordo con il datore perché questi gli presti una somma di denaro in cambio del
non usufruire delle ferie.

Può accadere che nel corso di un giudizio sorga la necessità di risolvere in via pregiudiziale una questione
circa l’efficacia, validità o interpretazione delle clausole del contratto collettivo, la questione è regolata
all’art 420-bis. Nel caso il giudice deve definire subito la questione. Si tratta di un punto preliminare da
risolvere incidenter tantum, non si tratta di cause pregiudiziali perché manca la legittimazione ad agire
piene e autonomo delle parti per promuovere una controversia di natura collettiva, l’attitudine della c.d.
pregiudiziale a costituire oggetto di azione esercitabile autonomamente e una domanda di parte avente
come oggetto, titolo e interesse con riguardo al contratto collettivo. Solo per espressa disposizione di legge
la questione diventa punto di accertamento e giudicato autonomo. Secondo Monteleone se il dipendente
non è iscritto ad alcun sindacato o il sindacato a cui è iscritto non ha stipulato un contratto collettivo, la
norma non può essere applicata. Se siamo davanti a dipendenti della P.A. il giudice, nonostante in teoria è
soggetto solo alla legge, non può deciderla ma emette in una ordinanza non impugnabile con cui comunica
il ricorso introduttivo e la memoria difensiva all’ARAN e fissa una nuova udienza entro 120 giorni. L’ARAN
ha 30 giorni per convocare le organizzazioni sindacali firmatarie per raggiungere un accordo di modifica
della clausola o interpretazione autentica entro 90 giorni. Se si raggiunge, si ritorna al giudice. Se non si
raggiunge il giudice è costretto a decidere solo sulla pregiudiziale, che è impugnabile entro 60 giorni dalla
sua comunicazione solo in cassazione. Il processo è sospeso quando si deposita in cancelleria una copia del
ricorso in cassazione dopo la sua notifica. Nel processo possono intervenire l’ARAN e le organizzazioni
sindacali firmatarie dei contratti collettivi. Il processo sospeso deve essere riassunto entro 60 giorni dalla
comunicazione della sentenza della S.C. Se invece si tratta di lavoratori non dipendenti da P.A. insorta la
questione pregiudiziale il giudice la decide con sentenza rinviando la causa ad udienza successiva a data
non inferiore a 90 giorni. È impugnabile solo con ricorso in cassazione e una copia del ricorso deve essere
depositata a pena di inammissibilità nella cancelleria del giudice a quo entro 20 giorni dalla notifica,
sospendendo il processo.

C’è sempre stata diffidenza nei confronti dell’arbitrato nei rapporti di lavoro, anche se ora sta venendo
meno. Si può accedere all’arbitrato o quando i contendenti abbiano preventivamente adito le commissioni
di conciliazione e gli abbiano dato il mandato di risolvere la controversi, nelle modalità indicate nei contratti
collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative e quando le parti ricorrano ad un
collegio di conciliazione e arbitrato. non si tratta di arbitrato irrituale, anzi è regolato dalla legge, può essere
impugnato in appello, e da questo in cassazione e con il deposito e l’omologazione in tribunale diventa
titolo esecutivo.

§ IL PROCEDIMENTO

La competenza è regolata all’art 413, il quale ci dice che la competenza materiale nelle controversie sul
lavoro ex art 409 è del tribunale in funzione di giudice del lavoro. La competenza territoriale è il giudice
nella cui circoscrizione è sorto il rapporto o si trova l’azione o una sua dipendenza alla quale è addetto il
lavoratore, o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto: si tratta del foro
generale del convenuto. Per le controversie nei rapporti di agenzia, rappresentanza commerciale o altri di
collaborazione il giudice è quello nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, o degli altri
collaboratori. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti delle P.A. la competenza territoriale è del foro
dove il lavoratore è o era addetto. Di solito quando è parte la P.A. è competente il foro dello stato, mentre
qui si predilige il foto del lavoratore. Questi criteri di competenza sono inderogabili.

La domanda si propone con ricorso, il cui contenuto è simile all’atto di citazione con la differenza che
questa è diretta alla controparte e quindi deve contenere la data dell’udienza, il ricorso invece è rivolto al
giudice il quale fisserà l’udienza, per cui manca la citazione a comparire dell’interessato. Il ricorso deve
contenere l’indicazione del giudice, nome cognome residenza/domicilio eletto del ricorrente e quelli del
convenuto, oggetto della domanda, esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si fonda la
domanda, indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi in e in particolare i
documenti che si offrono in comunicazione. I mezzi di prova in particolare sono importantissimi poiché le
preclusioni sono stringenti e se si indicano subito non possono più ammettersi. Il ricorso è depositato in
cancelleria e il giudice entro 5 giorni fissa con decreto l’udienza di discussione- si chiama udienza di
discussione perché nell’idea del legislatore il processo avrebbe dovuto concludersi con questa
(immediatezza). Il ricorso e il decreto devono essere notificati dall’attore alla contro parte entro 10 giorni, e
devono intercorrere un minimo di 30 giorni tra la notificazione del ricorso e l’udienza, che può estendersi a
40 o a 80 se deve farsi notifica all’estero: si tratta di un termine di difesa del convenuto che deve essere
senz’altro rispettato. Se si tratta di lavoro presso la PM il ricorso è notificato all’amministrazione
destinataria, mentre per le amministrazioni statali si notifica presso gli uffici dell’avvocatura di stato.

In caso di nullità del ricorso introduttivo si applicano le stesse norme che si applicano nel processo
ordinario di cognizione in materia in caso di nullità dell’atto di citazione, poiché al riguardo il codice non
dice nulla. Quindi, in caso di nullità della citazione, qualsiasi suo difetto è suscettibile di sanatoria attraverso
la costituzione del convenuto o la rinnovazione dell’atto disposta dal magistrato.

All’art 416 è regolata la costituzione del convenuto, che deve avvenire almeno 10 giorni prima dell’udienza
(a differenza che nel processo di cognizione in cui sono 20 giorni), dichiarando residenza o eleggendo
domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito, anche se adesso il processo telematico prevede che le
comunicazioni vadano fatte all’indirizzo PEC indicato e la cassazione ha affermato che in caso di indicazione
dello stesso non si possono effettuare le comunicazioni in cancelleria. Si effettua mediante deposito in
cancelleria di una memoria difensiva in cui devono essere proposte a pena di decadenza le eventuali
domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Nella stessa
memoria il convenuto deve prendere posizione in maniera precisa e non muovendo una generica
contestazione, sui fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in
fatto ed in diritto e indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve
contestualmente depositare, tutto questo a pena di decadenza. La mancata costituzione comporta la
dichiarazione di contumacia della parte, disciplinata dalle norme ordinarie del processo di cognizione.

La parte può stare in giudizio personalmente in primo grado quando il valore della sua causa non eccede gli
129,11 E: si tratta di una eccezione all’obbligo per la parte di stare in giudizio a mezzo di un avvocato,
giustificato le il modico valore della causa e perché si compensa con i forti poteri di ufficio del giudice. La
parte che sta in giudizio personalmente propone la domanda nelle forme dell’art 414 già dette, quindi,
sempre con ricorso e si costituisce nelle forme dell’art 416, con elezione di domicilio nel territorio della
Repubblica. Può proporre la domanda anche verbalmente al giudice che ne fa redigere processo verbale. Il
ricorso o il processo verbale devono essere notificati al convenuto insieme al decreto di fissazioe
dell’udienza a cura della cancelleria. Alle parti che stanno in giudizio personalmente ogni ulteriore atto o
memoria deve essere notificato dalla cancelleria. Nel ’98 è stato introdotto l’art 417-bis rubricato “difesa
delle PA” e ci dice che le PA limitatamente al giudizio di primo grado possono stare in giudizio avvalendosi
dei propri dipendenti, nonostante persista l’obbligo di effettuare le notifiche presso l’avvocatura dello
stato, di cui però l’amministrazione non è tenuta ad avvalersi. Nel processo del lavoro il convenuto che
abbia proposto una domanda riconvenzione deve, con istanza contenuta nella memoria a pena di
decadenza della stessa riconvenzionale, chiedere al giudice la modifica del decreto di fissazione
dell’udienza perché tra la deposizione della domanda riconvenzionale e l’udienza di discussione non
devono decorrere più di 50 giorni. Il decreto che fissa la nuova udienza deve essere notificato all’attore
dall’ufficio delle cancelleria. Per quanto riguarda la comparsa di risposta, il decreto deve essere notificato
entro 10 giorni dalla data in cui è pronunciato (termine ordinatorio) e tra la notificazione all’attore del
decreto contenente la domanda riconvenzionale e la notificazione dell’udienza di discussione deve
intercorre un termine non inferiore e 25 giorni, e l’udienza deve avvenire almeno 25 giorni prima
dell’udienza fissata.

L’art 419 che regola l’intervento volontario ci dice che a meno che sia effettuato per l’integrazione
necessaria del contraddittorio, l’intervento del terzo (ex art 105) non può aver luogo oltre il termine per la
costituzione del convenuto e con le stesse norme sulla costituzione del convenuto. L’intervento volontario
può essere anche qui principale, adesivo autonomo, litisconsortile o adesivo dipendente/semplice.
L’intervento coatto invece si ha nel caso di chiamata in caisa a norma degli artt. 102 comma 2 e 106, 107- il
giudice fissa una nuova udienza e dispone che entro 5 giorni siano notificati al terzo il provvedimento, il
ricorso introduttivo e l’atto di costituzione del convenuto. Il termine massimo entro la quale deve tenersi la
nuova udienza decorre a partire dalla pronuncia del provvedimento e il terzo chiamato deve costituirsi non
meno di 10 giorni prima dell’udienza fissata a norma dell’art 416 (norme di costituzione del convenuto).

L’udienza di discussione della causa è disciplinata dall’art 420. Nella suddetta udienza il giudice interroga
liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva
o conciliativa. Il giudice può far una proposta senza anticipare l’esito del giudizio fino a quando non abbia
studiato la causa, facendo quindi una proposta allo stato degli atti. Nella prassi, non sempre i giudici le
fanno. La mancata comparizione delle parti o il rifiuto della proposta del giudice, senza giustificato motivo,
sono un comportamento valutabile dal giudice per il giudizio. Si richiama così l’art 116 secondo cui il giudice
può trarre argomenti di prova dal contegno delle parti o da alcuni comportamenti specifici. Le parti
possono se ricorrono gravi motivi modificare le domande, eccezioni e conclusioni formulate previa
autorizzazione del giudice. La prassi identifica per gravi motivi i casi in cui è necessaria la modifiche sono
necessaria in base alla difesa dell’altra parte (es la controparte eccepisce la compensazione). Le parti hanno
facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale il quale deve essere a conoscenza dei
fatti in causa. Non stiamo parlando di un avvocato ma di un procuratore, per esempio se va in causa la FIAT
non necessariamente deve essere Marchionne a presentarsi in giudizio, così come il lavoratore può farsi
rappresentare da un sindacalista. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata
autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. La mancata
conoscenza, senza gravi ragioni, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata dal giudice ai fini
della decisione. Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo. Se la conciliazione non riesce e il
giudice ritiene la causa matura per la decisione o se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla
competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice invita le parti alla
discussione e pronuncia sentenza anche se non definitiva dando lettura del dispositivo. Nella stessa
sentenza ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre
prima se ritiene che siano rilevanti, disponendo con ordinanza per la loro immediata assunzione, con
ordinanza. Si applica la rimessione nei termini ex art 153 se la parte dimostra di essere incorsa in decadenze
per cauda ad essa non imputabile. Se ciò non sia possibile fissa un’udienza non oltre 10 giorni dalla prima e
concede le parti, se ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a 5 giorni prima
dell’udienza di rinvio per il deposito in cancelleria delle note difensive. Nel caso in cui vengano ammessi
questi nuovi mezzi di prova la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in
relazione a quello ammessi con un termine perentorio di 5 giorni. Nell’udienza fissata il giudice ammette
(quindi il giudice è obbligato ad ammetterli) anche i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e
provvede alla loro assunzione. L’assunzione delle prove deve esaurirsi nella stessa udienza e in caso di
necessità nei giorni immediatamente successivi. Lo schema, infatti, è pensato per aversi una sola udienza
(immediatezza), anche se è ammessa questa eccezione. Anche in caso si chiamata del terzo il giudice fissa
una nuova udienza e dispone che entro cinque giorni siano notificati al terzo il provvedimento di chiamata
in giudizio, il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione del convenuto. Il termine massimo entro cui deve
tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione. Il terzo chiamato deve
costituirsi almeno prima di 10 giorni dell’udienza fissata depositando la propria memoria ex art 406. A dette
le notificazioni e comunicazioni provvede l’ufficio. Ciò per il principi del contraddittorio, così da concedere
al terzo la costituzione in giudizio. se si tratta di autorizzazioni o nuove domande il giudice concede solo dei
termini anche se nella giurisprudenza in materia locatizia si richiede ugualmente lo spostamento
dell’udienza. Sono vietate le udienza di mero rinvio.

Secondo l’art. 421 il giudice ha ampi poteri istruttori. Egli indica alle parti in ogni momento le irregolarità
degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli
eventuali diritti quesiti. Ciò da un enorme potere al giudice Può disporre d’uffizio in qualsiasi momento
l’ammissione di ogni mezzo di prova, ad eccezione del giuramento decisorio e la richiesta di informazione e
osservazioni alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Il giudice può disporre d’ufficio in qualsiasi
momento l’ammissione di ogni mezzo di prova ad eccezione del giuramento decisorio, anche al di fuori dei
limiti stabiliti dal codice civile (per esempio può ammettere la prova testimoniale per provare l’esistenza di
un patto o documento contrario successivo si cui si alleghi che la stipula sia stata anteriore o coeva al
contratto stesso) con la logica di riequilibrare gli squilibri delle parti. Il giuramento decisorio che ha uno
scarsissimo rilievo nel processo civile ultimamente è molto utilizzato nel processo del lavoro, in modo da
poter denunciare il datore per il reato di falso giuramento. Il giudice può inoltre chiedere la consulenza
scritta o orale dei sindacati e disporre su istanza di parte l’accesso sul luogo del lavoro e disporre
dell’esame dei testimoni sul luogo stesso. Ha il potere di chiedere la comparizione delle parti per
interrogarle liberamente sui fatti in causa, e può ordinare anche la comparizione di quelle persone che
siano incapaci di testimoniare perché hanno un interesse nella causa che potrebbe legittimare una loro
partecipazione a giudizio, in modo da permettere ai colleghi di testimoniare anche se hanno interesse nella
causa (es. causa pe mobbing che colpisce anche un altro collega) che spesso sono gli unici ad aver assistito
e a poter testimoniare. Il giudice può autorizzare la sostituzione della verbalizzazione da parte del
cancelliere con la registrazione su nastro delle deposizioni di testi e delle audizioni delle parti o di
consulenti. È palese che siamo davanti a un sistema inquisitorio dati i vastissimi poteri istruttori del giudice.

L’art 423 prevede due specie di ordinanze di pagamento di somme in corso di causa, la cui funzione è
anticipare il soddisfacimento del diritto dedotto in lite rispetto alla pronuncia della sentenza. Hanno però
presupposti e disciplina diversi. La prima è emessa a richiesta di qualsiasi parte e ha ad oggetto il
pagamento di somme NON CONTESTATE, ovvero di somme di denaro liquide che la parte ammetta di
dovere. Ha efficacia di titolo esecutivo, la legge non ne prevede la revocabilità con la sentenza che decide la
causa (secondo la giurisprudenza però è revocata, Monteleone non è d’accordo), la contumacia non
equivale a contestazione, comporta la risoluzione della controversia limitatamente al suo oggetto, non
viene travolta dall’estinzione del processo e non è impugnabile immediatamente perché destinata ad
essere assorbita nella futura sentenza. La seconda ordinanza, di pagamento di somme a titolo provvisorio
può essere emessa solo su richiesta del lavoratore quando il giudice ritenga il diritto accertato per la
quantità per cui sia raggiunta la prova. Quindi può essere richiesta anche dal contumace, può sempre
essere proposta la sua domanda indipendentemente dalle preclusioni, deve essere notificata al convenuto
contumace, può essere revocata dalla sentenza che decide la causa e secondo Monteleone è travolta
dall’estinzione del processo.

Il giudice può nominare in qualsiasi momento uno o più consulenti tecnici, che può essere autorizzato a
riferire verbalmente ed in tal caso le sue dichiarazioni sono raccolte a verbale. Il consulente può chiedere di
presentare una relazione scritta e nel caso il giudice fissa un termine non superiore a 20 giorni rinviando la
trattazione ad altra udienza. Su istanza di parte le associazioni sindacali hanno la facoltà si rendere
informazioni e osservazioni, anche nel posto di lavoro dove sia stato disposto l’accesso. Il giudice può
chiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da
applicare nella causa.

Nel caso in cui una causa sia stata erroneamente promossa nella forma del rito ordinario o del rito speciale
previsto per le controversie di lavoro, intanto l’applicazione delle forme processuali alla materia del
contendere non genera nullità soluta ed insanabile, ma deve farsi valere secondo le regole delle
impugnazioni ordinarie. Secondo l’art 426, quando il giudice si accorge che la causa promosso nei modi
ordinari riguarda uno dei rapporti previsti agli artt. 409 e 442 (previdenza sociale) fissa il termine perentoria
entro cui le parti devono provvedere all’integrazione degli atti introduttivi con deposito in cancelleria.
Questo se sia comunque competente. Infatti questo non è un problema di competenza, è sempre il
tribunale ad essere competente per le cause di primo grado. Se si configura un problema di competenza il
giudice affronterà tale questione nei modi ordinari, rimettendo la causa al giudice competente e
assegnando un termine per la riassunzione. L’art 427 prevede l’ipotesi inversa, cioè che il tribunale sia
investito nelle forme delle controversie di lavoro e previdenza di una causa che non vi rientra. Se questa è
comunque di competenza del giudice adito, questo dispone che gli atti siano messi in regola con le norme
tributarie e si procede secondo il processo ordinario di cognizione.

Secondo lo schema del codice il giudice dovrebbe svolgere tutte le attività di istruzione e trattazione della
causa in una sola udienza e quindi se ritiene la causa matura per la decisione, invitare le parti alla
discussione e pronunciare sentenza dando lettura del dispositivo in udienza ed esponendo la motivazione
dopo la discussione orale. In caso di particolare complessità il giudice fissa nel dispositivo un termine non
superiore a 60 giorni per il deposito della sentenza. Se il giudice lo ritiene necessario -sempre- su richiesta
delle parti può rinviare la decisione ad un’udienza successiva dando alle parti un termine (massimo 10
giorni prima l’udienza) per il deposito delle note difensive e la sentenza verrà emessa alla fine di questa. La
sentenza viene poi depositata in cancelleria entro 15 giorni. Il giudice quando pronuncia sentenza di
condanna oltra agli interessi deve calcolare la rivalutazione monetaria e il maggior danno eventualmente
subito per la svalutazione monetaria.

Le sentenze di condanna emesse dal giudice del lavoro sono provvisoriamente esecutive. Le sentenze di
condanna a favore del lavoratore danno a questi la possibilità di procedere all’esecuzione prima del
deposito della sentenza con copia del dispositivo. Per questo è consentito l’appello con riservo dei motivi,
per dare facoltà al datore di impugnare da subito il solo dispositivo, riservandosi di depositare i motivi di
appello dopo che verrà depositata la motivazione della sentenza. La necessità di chiedere subito appello è
data dalla fretta di proporre l’inibitoria. Comunque, l’appello con riserva dei motivi è concesso anche al
lavoratore. I presupposti per chiedere l’inibitoria sono leggermente diversi, infatti il giudice può concederla
al lavoratore purché ricorrano gravi motivi e al datore se dall’esecuzione possa derivare gravissimo danno.
Una particolarità dell’inibitoria in questa sede è che con essa si può chiedere solo la sospensione
dell’esecuzione e non anche la sospensione dell’efficacia esecutiva, quindi, può essere chiesta solo se
l’esecuzione sia stata già avviata.

L’APPELLO

L’art 433 dispone che l’appello contro la sentenza di primo grado nelle controversie a cui si applica il rito del
lavoro si propone dinanzi alla corte d’appello territorialmente competente. Presso le corti di appello è
istituita un’apposita sezione che si occupa dell’impugnazioni avverso la sentenza del tribunale in funzione
del giudice del lavoro. L’appello si propone con ricorso (la giurisprudenza ha elaborato il criterio della
ultrattività del rito: il gravame deve proporsi nelle stesse forme del giudizio di primo grado, anche se esse
siano state erroneamente applicate). I termini per l’appello, breve e lungo, sono gli stessi del rito ordinario,
30 giorni e 6 mesi, ma nel rito del lavoro ai fini del termine di decadenza vale il deposito del ricorso in
cancelleria e non la sua notificazione. L’appello deve essere motivato e la motivazione deve contenere a
pena di inammissibilità l’indicazione delle parti del procedimento che di intende appellare e delle modifiche
che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice; l’indicazione delle circostanze da cui
deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata, ferma restando la
possibilità di proporre appello con riserva dei motivi se la controparte abbia già avviato l’esecuzione sulla
base del dispositivo. In questo caso l’appellante dovrà depositare i motivi d’appello entro il termine di
decadenza. Si applicano anche a questo rito le norme relative al c.d. filtro in appello (artt. 348 bis e ter).
Una volta depositato il ricorso il presidente della corte d’appello entro 5 giorni dal deposito deve fissare con
decreto l’udienza di discussione dinanzi al collegio. L’udienza in questione deve avere luogo entro 60 giorni
dal deposito del ricorso (termine ordinatorio). L’appellante entro 10 giorni dalla comunicazione del decreto
deve notificarlo alla controparte insieme al ricorso, così si realizza la chiamata in giudizio e la costituzione
del contraddittorio. Tra la data della notifica e quella della discussione devono intercorrere almeno 25
giorni (termine dilatorio). Il codice non dice nulla sulla mancata comparizione in udienza dell’appellante
quindi si applica l’art 348 che affronta la questione per il rito ordinario.

L’art 436 dispone che il convenuto deve costituirsi attraverso il deposito in cancelleria di una memoria di
costituzione almeno 20 giorni prima l’udienza (quindi ha solo 15 giorni per apprestare le proprie difese)
anche se la giurisprudenza ammette che il convenuto possa costituirsi direttamente in udienza. Però, se
intende proporre appello incidentale, dovrà farlo a pena di decadenza nella memoria di costituzione e deve
essere notificato all’appellante principale almeno 10 giorni prima dell’udienza.

In appello non sono ammesse nuove domande ed eccezioni in senso stretto (lo sono quelle rilevabili
d’ufficio invece), come nel rito ordinario. C’è sempre un divieto a carico delle parti riguardo all’ammissione
di nuovi mezzi di prova ma il collegio può ammettere qualsiasi mezzo di prova se li ritiene indispensabili ai
fini della decisione della causa (nel rito ordinario solo se la parte non sia stata in grado di produrle in rpimo
grado per causa ad essa non imputabile). La fase decisoria è regolata dalle stesse norme del giudizio di
primo grado, e anche qui la lettura del dispositivo in udienza è una mera finzione, i termini per il deposito
della sentenza è disatteso e la parte vittoriosa ha la facoltà di procedere esecutivamente in base al solo
dispositivo.

CONTROVERSIE PREVIDENZIALI

L’art 442 ci dice che le norme sulle controversie del lavoro (libro II titolo IV capo I) si applicano anche alle
controversie derivanti dall’applicazione delle norme riguardanti le assicurazioni sociali, gli infortuni sul
lavoro, le malattie professionali, gli assegni familiari, quelle relative all’inosservanza degli obblighi di
assistenza e previdenza derivanti da contratti e accordi collettivi e ogni altra forma di previdenza e
assistenza obbligatoria. Le cause concernenti gli interessi per il ritardo di pagamento di questi sono di
competenza del giudice di pace e regolate dalle norme processuali ordinarie. Bisogna però tenere presente
la coesistenza in questa materia di giurisdizioni speciali, per esempio delle pensioni a carico dello stato è
competente la corte dei conti. La competenza territoriale è inderogabile e rilevabile d’ufficio e si articola in
tre criteri alternativi e non concorrenti. Il primo, generale, prevede che la causa è di competenza del
tribunale nella cui circoscrizione risiede l’attore, se risiede all’esterno dove aveva l’ultima residenza
all’interno dello stato, per gli eredi l’ultima residenza del defunto. Il secondo dice che se la controversia
riguarda addetti alla navigazione o alla pesca è competente il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio del
porto di iscrizione della nave. Il terzo che per le controversie inerenti agli obblighi previdenziali dei datori e
alle relative sanzioni civili è competente il tribunale del luogo dove ha sede l’ufficio dell’ente.

In caso di condanna al pagamento di somme dovute per prestazioni previdenziali o assistenziali il giudice
deve liquidare gli interessi legali e la svalutazione monetaria (il maggior danno) a meno che la causa non sia
proposta autonomamente davanti al giudice di pace, perché la cosa è esclusa dall’art 429 che regola la
disciplina.

Nelle controversie in materia di invalidità, chi vuole proporre domanda in giudizio per il riconoscimento dei
propri diritti presenta con ricorso al giudice competente ex art 442, presso il tribunale nel cui circondario
risiede l’attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie
legittimanti la pretesa. Il giudice procede con accertamento tecnico o ispezione giudiziale (art 696) o con
accertamento peritale. Questo espletamento costituisce condizione di procedibilità della domanda, e in sua
mancanza l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal
giudice entro la prima udienza. Se il giudice rilevi la sua mancanza il giudice orsina alle parti un termine di
quindi giorni per presentare l’istanza di accertamento tecnico, e se non è rispettato il giudizio è dichiarato
improcedibile. La richiesta di espletamento dell’accertamento tecnico interrompe la prescrizione.
Terminate le operazioni di consulenza il giudice con decreto comunicato alle parti fissa un termine
perentorio non superiore a 30 giorni entro le quali le stesse devono dichiarare, con atto scritto depositato
in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico. Se non contesta il giudice, a
meno che non ordini rinnovazioni, omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo la relazione del
consulente tecnico e provvede sulle spese. Il decreto così emesso non è modificabile né impugnabile (anche
se essendo decisorio è impugnabile con ricorso in cassazione ex art 360 n3). Se invece si ha contestazione le
conclusioni, la parte che contesta deve depositare presso il giudice nel termine di 30 giorni dalla
formilazione del dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando a pena di inammissibilità i motivi
della contestazione. La sentenza che definisce il giudizio è inappellabile (ma si può ricorrere in cassazione)

PARTE SESTA

IL PROCEDIMENTO DELLE CONTROVERSIE SOCIETARIE E ASSIMILATE: le norme processuali sono state


abrogate nel 2009.

IL NUOVO PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE

Il processo sommario di cognizione è stato introdotto nel 2009 e non è trattato con i procedimenti speciali
perché è un processo di cognizione che si aggiunge a quelli ordinari. Chi voglia far valere un diritto se ne
può avvalere e ottenere un provvedimento che acquista l’autorità di giudicato materiale ed è impugnabile
in appello.

Il procedimento sommario si può applicare a tutte le cause in cui il tribunale giudica in composizione
monocratica (unica condizione preliminare di ammissibilità). L’atto introduttivo è un ricorso, al tribunale
competente secondo le norme ordinarie, e deve contenere le indicazioni prescritte per l’atto di citazione ex
art 163. Il ricorso deve essere sottoscritto dalla parte se sta in giudizio in persona o dall’avvocato munito di
procura, la quale deve essere rilasciato prima o contestualmente al ricorso, perché non c’è costituzione
successiva alla notifica. Il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti e assegna al
convenuto un termine per costituirsi non oltre 10 giorni prima l’udienza. Il termine può essere dal giudice
esteso. Il decreto deve essere notificato al convenuto dal ricorrente almeno 30 giorni prima la data stabilita
per la sua costituzione. La costituzione avviene con il deposito in cancelleria di una comparsa di risposta,
che deve contenere a pena di decadenza le domande riconvenzionali, le eccezioni non rilevabili di ufficio e
fare la chiamata del terzo chiedendo lo spostamento dell’udienza al giudice per permettere a questo di
organizzare la difesa. Se il convenuto non contesta i fatti specificamente il giudice può porli a fondamento
della propria decisione. È incerto se possa costituirsi direttamente in udienza. Se non si costituisce il giudice
lo dichiara contumace oppure ordina la rinnovazione della notifica del decreto e del ricorso per correggerli,
secondo Monteleone comunque il contumace può costituirsi tardivamente. Se ne ricorrono i presupposti si
può avere rimessione nei termini. Il giudice in udienza delibera in modo preliminare la propria competenza
o l’inammissibilità della domanda. Il provvedimento dichiarativo di incompetenza è impugnabile solo con
regolamento di competenza necessario e quello di inammissibilità non è impugnabile (per cassazione? In
realtà si può riproporre la domanda).

Arrivati alla fase istruttoria il giudice fa una valutazione discrezionale: decide se rimettere al processo non
sommario le cause (con ordinanza non impugnabile fissa l’udienza ex art. 183 e si applicano le norme
ordinarie), cambia il rito se si tratta di controversia sul lavoro o a cui si applica detto rito. Se l’istruzione non
sommaria riguarda solo la riconvenzionale dispone la separazione. In caso accerti che sia sufficiente
l’istruzione sommaria (la legge non dice come) procede agli atti di istruzione sulla base delle richieste delle
parti negli atti introduttivi. Qualunque prova o mezzo istruttorio può essere disposto e assunto in giudizio.
la decisione finale è adottata con ordinanza di accoglimento o rigetto della domanda, che è
immediatamente esecutiva ed è titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione, e contiene la
condanna alle spese.

L’appello è regolato dall’art 702-quater e stabilisce che l’ordinanza che definisce il processo di esecutivo
gode della autorità di giudicato materiale se non è impugnata in appello entro 30 giorni dalla sua
comunicazione o notificazione. La legge non dice in che forma debba proporsi. Secondo un criterio classico
dovrebbe proporsi allo stesso modo in cui è stata proposta la domanda in primo grado, quindi con ricorso,
ma una recente corrente dice che se la legge non dice altrimenti l’appello si introduce sempre con atto di
citazione. Sono ammesse nuove prove e possono depositarsi nuovi documenti se il giudice li ritenga
indispensabili ai fini della decisione, se richieste dalle parti (a meno che non sia possibile ammetterle di
ufficio nei casi previsti dalla legge). Essendo che manca il divieto, si ritiene che siano ammesse anche nuove
eccezioni e l’appello acquista parzialmente la fisionomia di novum iudicium. Se sono assunte nuove prove il
presidente può delegarne l’assunzione a uno dei componenti del collegio fissando l’udienza davanti allo
stesso.

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE, VOLUME 2

PARTE PRIMA: L’ARBITRATO

L’arbitrato fa parte della famiglia dei mezzi di risoluzioni alternativi delle controversie rispetto al giudizio.
fanno parte di questi mezzi anche la negoziazione assistita e la mediazione e altre figure affini, che sono di
tipo conciliativo, mentre l’arbitrato è di tipo normativo. Questo significa che l’arbitrato è diretto ad
ottenere una decisione che vincoli le parti. L’arbitrato si differenzia dall’arbitraggio previsto dall’art 1439
c.c. con cui le parti deferiscono all’arbitratore l’integrazione di un contratto (es in un contratto di vendita di
frutta ne determina la quantità e il prezzo al momento del raccolto). Non si tratta di uno strumento di
risoluzione delle controversie. Nella mediazione e nelle conciliazioni commerciali c’è un soggetto terzo il
mediatore che cerca di facilitare un accordo o formula una proposta, nella negoziazione assistita non c’è un
terzo ma una negoziazione assistita dagli avvocati. Nell’arbitrato colui che decide è un terzo.

L’arbitrato può distinguersi in rituale e irrituale. L’arbitrato rituale si conclude con un lodo che ha efficacia
di sentenza ed è disciplinato quasi per intero dal c.p.c. secondo Monteleone, in contrasto con la dottrina,
non ha natura giurisdizionale (le parti possono disporre solo dei loro diritti, non dell’assetta costituzionale
dello stato o delegare agli arbitri un potere di diritto pubblico. Inoltre, in questo modo diventerebbero
giudici speciali, che sono vietati dalla costituzione), la cassazione cambia spesso idea a riguardo e nelle
ultime sentenze sembra accogliere la tesi di Monteleone. L’arbitrato irrituale si conclude con un lodo che
ha un’efficacia negoziale, che vale cioè come un contratto. Nel c.p.c. c’è una disciplina minima, dove si
stabiliscono i requisiti minimi di questo arbitrato. I vantaggi dell’arbitrato sono i tempo, la possibilità di
scegliere il giudice o i giudici, la possibilità di prevedere giudici non giuristi. Si tratta di vantaggi teorici a cui
si affiancano svantaggi pratici, per cui i tempi non sono così rapidi a causa delle impugnazioni e dei nuerosi
espedienti che usano i convenuto per prolungare i termini, i costi elevati, l’eccessiva
procedimentalizzazione dell’istituto che ha dato vita ad una disciplina complicata dove sono comuni gli
errori e i dubbio ermeneutici e nei cui confronti la giurisprudenza è molto dura, per cui questo spesso può
comportare un giudizio di nullità. Infine, il fatto che il giudice sia precostruito è perché esso sia terzo e
imparziale, quindi è davvero un vantaggio poter scegliere i giudici?

Un’altra distinzione è tra l’arbitrato ad hoc, che è quello comune relativo a una lite precisa, che è
disciplinato e trova il suo contenuto nella convenzione di arbitrato, che può avere forma di compromesso o
clausola compromissoria; e l’arbitrato secondo regolamenti precostituiti, che prevede l’ingresso di un altro
soggetto (es. camera di commercio) che ha un suo regolamento che revede sia le regole di rito che le regole
di nomina dell’arbitro. Sono previsti dalle leggi speciali l’arbitrato internazionale, quello in materia di
appalti pubblici, richiesto dalle parti in pendenza di processo civile, richiesto dai contratti collettivi nazionali
di lavoro, in materia societaria.

Secondo l’art 806 “le controversie arbitrali” le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di
loro insorte che non abbiano ad oggetto diritti indisponibili. Quindi il primo limite è la disponibilità del
diritto, salvo espresso divieto di legge (per esempio nei contratti dei consumatori la clausola
compromissoria è vessatoria).

La convenzione di arbitrato può avere come fonte:

- Il compromesso, il contratto attraverso il quale le parti deferiscono ad arbitri una controversia già
insorta, regolata all’art 807. Deve essere fatto a pena di nullità per iscritto e determinare l’oggetto
della controversia. La forma scritta si intende rispettata anche quando la volontà delle parti è
espressa per telegrafo, telescrivente, tele facsimile, messaggio telematico nel rispetto della
normativa concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi. Dunque, non si
chiede una forma scritta in senso proprio. Ha scarsa applicazione pratica, perché presuppone che le
parti trovino l’accordo sul deferimento in arbitri.
- Clausola compromissoria. È la clausola inserita in un accordo per disciplinare liti future nascenti dal
contratto medesimo. È disciplinata all’art 808. Anche in questo caso è richiesta la disponibilità del
diritto e la forma scritta. Un esempio in cui può essere spesso inserita è un contratto di fornitura. La
validità della clausola compromissoria si valuta in modo autonomo rispetto al contratto così se il
contratto ha una nullità, questo non si trascina sulla clausola compromissoria, altrimenti non
avrebbe senso di esistere, la nullità invece dovrà essere decisa dagli arbitri.
- Convenzione di arbitrato in materia non contrattuale, regolato all’art 808-bis che dice che le parti
possono stabilire, con apposita convenzione, che siano decise da arbitri le controversie future
relative a uno o più rapporti non contrattuali determinati. Deve risultare da un atto in forma scritta.
Ha una scarsa casistica, per esempio nei regolamenti di condominio o nei rapporti di vicinato.

All’art. 808-ter si regola l’arbitrato irrituale che dice che le parti, prevedendo espressamente per iscritto,
possono stabilire che, in deroga a quanto disposto dall’art 824-bis, la controversia sia decisa da arbitri
mediante determinazione contrattuale. Significa che il lodo non avrà natura di sentenza: è l’arbitrato
irrituale. Se le parti non dicono nulla, l’arbitrato è rituale e avrà efficacia di sentenza e si applicheranno
quelle regole. L’articolo 808-ter continua facendo un elenco non tassativo sui motivi in cui il lodo irrituale è
annullabile davanti al giudice competente di primo grado secondo le disposizioni del Libro I. lo è quando la
convenzione dell’arbitrato è invalida o se gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai
suoi limiti se l’eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale (e questa è una regola generale
dell’arbitrato: qualunque eccezione sulla competenza degli arbitri deve essere prima fatta valere davanti a
loro, se le parti non la eccepiscono viene sanata). Se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e i modi
stabiliti nella convenzione arbitrale; se il loro è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato
arbitro ex art 812, se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di
validità del lodo. Infine, se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio,
che è quello più importante perché anche se si tratta di un procedimento di natura contrattuale deve
rispettare un minimo di contraddittorio.

Passando al capo II del Titolo VIII, “degli arbitri”, ci sono norme sull’interpretazione della convenzione. Nel
dubbio l’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che
derivano dal contratto o dal rapporto cui la controversia si riferisce. Se l’arbitrato si conclude senza una
pronuncia di merito ciò non toglie efficacia alla convenzione, quindi le parti non sarebbero comunque libere
di agire in giudizio normalmente, in questo caso dovranno fare un nuovo arbitrato.
Gli arbitri possono essere uno o più, purché in numero dispari, infatti, un numero di arbitri pari può
determinare un blocco. Questo è uno dei pochi casi in cui in materia di arbitrato ci troviamo di fronte ad
una norma imperativa. La convenzione deve nominare gli arbitri oppure stabilire il numero e il modo di
nominarli. Se viene indicato un numero pari di arbitri sarà il presidente del tribunale a nominare il terzo
arbitro. Gli arbitri devono essere nominati con un atto notificato per iscritto. L’arbitrato comincia con un
atto di accesso agli arbitri, in cui la parte indica la clausola, denuncia la lite e nomina il suo arbitro per la
composizione. Non si tratta di un atto di citazione, le difese possono essere da queste contenuto, ma non
occorre che ci siano e devono ancora essere svolte. Serve per rendere noto che vuole avvalersi della
clausola e invita le altre parti a notificare a loro volta gli arbitri nei venti giorni successivi (chiaramente se è
previsto nella convenzione di arbitrato che siano le parti a nominare gli arbitri). Se non è previsto o l’altra
parte non risponde all’avviso o vuole boicottare l’arbitrato, la parte che ha nominato il suo arbitro dovrà
fare un procedimento davanti il tribunale in camera di consiglio per nominare il secondo arbitro. Poi
saranno i due arbitri a mettersi d’accordo per la nomina del terzo arbitro.

Gli arbitri possono essere sostituiti secondo le norme previste per la loro nomina, nel caso in cui vengano a
mancare. Non può essere arbitro chi è privo in tutto o in parte della capacità di agire, non importa che
l’arbitro sia un giurista.

L’arbitro deve accettare per iscritto e può risultare dalla sottoscrizione del compromesso o dal verbale della
prima riunione. Agli arbitri non compete la qualifica di primo ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. Dal
momento in cui accettano decorrono i tempi per il deposito del dolo in caso di arbitrato rituale, quindi gli
arbitri con più esperienza non accettano mai prima della prima riunione, anche perché in caso di
decorrenza dei termini la responsabilità è la loro.

Gli arbitri possono decadere (anche se l’art. comincia con “se le parti non hanno diversamente convenuto”
quindi è una norma derogabile) quando omettono o ritardano di compiere un atto relativo alle loro
funzioni. Possono poi essere sostituiti con accordo tra le parti o dal terzo a ciò incaricato dalla convenzione
d’arbitrato. In mancanza ciascuna delle parti può proporre ricorso al presidente del tribunale che, sentiti gli
arbitri e le parti, provvede con ordinanza non impugnabile e se accerta l’omissione o il ritardo dichiara la
decadenza dell’arbitro e provvede alla sua sostituzione.

L’art 813-ter affronta il tema della responsabilità arbitrale. Risponde dei danni cagionati alle parti l’arbitro
che con dolo o colpa grave ho omesso o ritardato atti dovuti ed è stato perciò dichiarato decaduto o ha
rinunciato all’incarico senza giustificato motivo, ha omesso o impedito la pronuncia del lodo nel termine
fissato. Fuori da questi casi gli arbitri possono rispondere per dolo o colpa grave entro i limiti previsti dalla L
117/1988 art. 2 commi 2 e 3. La responsabilità può farsi valere in giudizio arbitrale nel primo caso. Se
invece è stato pronunciato il lodo, l’azione di responsabilità può essere proposta solo con l’accoglimento
dell’impugnazione con sentenza. Se la responsabilità non deriva da dolo dell’arbitro la misura del
risarcimento non può superare la somma pari al triplo del compenso convenuto o, in mancanza di
determinazione, a quello previsto dalla tariffa applicabile. Nei casi di responsabilità dell’arbitro il
corrispettivo e il rimborso delle spese non gli sono dovuti, o in caso di nullità parziale del dolo sono
diminuiti. Ciascun arbitro risponde per il fatto proprio.

I diritti degli arbitri invece sono contenuti all’art 814. Hanno diritto al rimborso spese e all’onorario per
l’opera prestata se non vi hanno rinunciato al momento dell’accettazione o con atto scritto successivo. Le
parti sono tenute solidamente al pagamento salvo rivalsa tra loro. Spesso sono gli arbitri stessi a liquidare le
spese onorarie. Nell’arbitrato oltre alla statuizione delle spese tra le parti ci sono le statuizioni sul
pagamento del compenso degli arbitri. La liquidazione non è vincolante per le parti se non l’accettano. In
questo caso gli arbitri possono fare ricorso al presidente del tribunale che stabilirà il loro compenso.

Gli arbitri possono essere ricusati se non ha le qualifiche espressamente convenute dalle parti, se ha
interesse nella causa, in caso di parentela fino al 4 grado, convivente, commensale abituale, rappresentante
legale o difensore della parte; se lui o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia con una delle parti,
con il suo rappresentante legale o con uno dei suoi difensori; se è legato ad una delle parti o a una società
da questi controllata, da un rapporto di lavoro, patrimoniale o associativa, se è tutore o curatore di una
delle parti, se ha prestato consulenza, assistenza o difesa a una delle parti in una diversa fase della vicenda
o vi ha deposto come testimone. Si tratta di motivi quasi identici all’art 51 per l’astensione obbligatoria del
giudice (manca l’interesse nella causa vertente sulla stessa questione di diritto). Manca anche l’astensione
facoltativo. In generale la disciplina sull’astensione manca, ma si ricava in via interpretativa che se può
essere ricusato, l’arbitro potrà astenersi in questi casi. La parte non può ricusare l’arbitro che ha nominato
se non per motivi conosciuti dopo la nomina. La ricusazione si propone con ricorso al presidente del
tribunale nel termine perentoria di 10 giorni dalla nomina o dalla conoscenza della causa di ricusazione e il
presidente pronuncia con ordinanza non impugnabile sentito l’arbitro e le parti. Non si sospende il
procedimento arbitrale salvo diversa determinazione degli arbitri. Se l’istanza è accolta l’attività compiuta
dal ricusato o con il suo concorso è inefficace.

Le parti, nella convenzione o in un altro atto, determinano la sede dell’arbitrato nel territorio della
repubblica oppure provvedono gli arbitri. Se la sede non è nominata, verrà fissata nel luogo in cui è stata
stipulata la convenzione di arbitrato e se questo è all’estero, la sede è a Roma. Se la convenzione non
determina altrimenti gli arbitri potranno svolgere i lavori in luoghi diversi dalla sede.

Le regole procedurali le stabiliscono le parti nella convenzione o in un atto scritto anteriore all’inizio del
procedimento arbitrale. In mancanza sono glia arbitri, nel modo che ritengono più opportuno, a regolare le
procedure pensando alle soluzioni che sembrano le migliori per la risoluzione della controversia tra le parti,
cosa che è un gran vantaggio per la risoluzione della controversia, anche se spesso gli arbitri rimandano al
Codice di procedura civile. In ogni caso deve essere prevista la facoltà di assistenza del difensore (non è un
obbligo), le parti o gli arbitri possono autorizzare il presidente del collegio a deliberare ordinanze, deve
essere prevista la possibilità di un lodo non definitivo e la possibilità di ordinanze revocabili.

Le regole per l’istruttoria sono essenzialmente quelle del processo civile ma meno formali e
procedimentalizzate e sono regolate all’art 816-ter. I testimoni non giurano davanti agli arbitri, non
essendo questi pubblici ufficiali, gli arbitri possono chiedere che i testimoni depongano per iscritto e non
possono disporre direttamente l’accompagnamento coatto, quindi se uno non compare possono chiedere
al presidente del tribunale che ordini la comparizione, e il procedimento è sospeso.

Nel caso in cui più di due parti siano vincolate dalla stessa convenzione d’arbitrato ciascuna può convenire
tutte o alcune nello stesso procedimento arbitrale se la convenzione devolve a un terzo la nomina degli
arbitri. Se sono nominati con l’accordo di tutte le parti o le parti, dopo che la prima ha nominato gli arbitri,
nomina un ugual numero o ne affidano a un terzo la nomina (purché siano sempre dispari). Altrimenti
l’arbitrato si divide, si verifica il fenomeno della fissione arbitrale, in tanti procedimenti quanto sono le
parti. Se però mancando le condizioni si verifica un caso di litisconsorzio necessario l’arbitrato è
improcedibile. L’intervento volontario o la chiamata in arbitrato di un terzo sono ammesso solo con
l’accordo del terzo e delle parti con il consenso degli arbitri. Sono sempre ammessi l’intervento adesivo
dipendente e l’intervento del litisconsorte necessario (volontari, non coatti). Si applica l’art. 111 sulla
successione a titolo particolare nel diritto controverso (legato). In caso di morte, estinzione o perdita della
capacità della parte gli arbitri devono assumere le misure idonee a garantire l’applicazione del
contraddittorio per la prosecuzione del giudizio e possono sospendere il procedimento. Se nessuna delle
parti ottempera alle disposizione degli arbitri per la prosecuzione del giudizio gli arbitri possono rinunciare
all’incarico.

Gli arbitri possono subordinare la prosecuzione del procedimento l versamento anticipato delle spese
prevedibili. Salvo diverso accordo delle parti determinano la misura dell’anticipazione a carico di ciascuna
parte. Se una delle parti non presta l’anticipazione richiestale l’altra può anticipare la totalità delle spese. Se
non pagano entrambe non sono più vincolati alla convenzione di arbitrato. Gli arbitri tendono a
interpretare la norma in modo estensivo, ma qui in realtà non si parla dei compensi degli arbitri.

L’art 817 regola l’eccezione di incompetenza, che è il caso di eccesso di potere arbitrale. Se la validità, il
contenuto o l’ampiezza della convenzione d’arbitrato o la regolare costituzione degli arbitri sono contestate
nel corso dell’arbitrato gli arbitri decidono sulla propria competenza. Questa disposizione si applica anche
se i poteri degli arbitri sono contestati in qualsiasi sede per qualsiasi ragione sopravvenuta nel corso del
procedimento. La parte che non eccepisce nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri
l’incompetenza di questi per inesistenza, invalidità, inefficacia della convenzione d’arbitrato, non può per
questo motivo impugnare il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrale (quindi su un diritto
indisponibile). La parte, che non eccepisce nel corso dell’arbitrato che le conclusioni delle altre parti
esorbitano dai limiti della convenzione arbitrale, non può, per questo motivo, impugnare il lodo. Non si
tratta della competenza ai sensi del c.p.c. Gli arbitri sono competenti a conoscere l’eccezione di
compensazione nei limiti del valore della domanda, anche se il controcredito non è compreso nell’ambito
della convenzione di arbitrato. Gli arbitri non possono emettere provvedimenti cautelari, nel caso in cui li
ritengano necessari chiedono al giudice che sarebbe stato competente a conoscere il merito (art. 669-
quinquies) salvo che la legge preveda eccezioni. Per quanto riguarda le questioni pregiudiziali di merito e
sugli accertamenti incidentali si devono risolvere le questioni senza autorità di giudicato a meno che non
debbano essere decise con efficacia di giudicato per legge. In caso contrario possono essere accertata
incidentalmente pure se esorbitano dai limiti della competenza degli arbitri.

Gli arbitri sospendono il procedimento arbitrale con ordinanza motivata quando le parti siano prive della
capacità di stare in giudizio, se sorge questione pregiudiziale che non può essere oggetto di convenzione
d’arbitrato e deve essere decisa con autorità di giudicato, quando rimettono alla Corte costituzionale una
questione di legittimità costituzionale (che è una argomento a favore della tesi sulla natura giurisdizionale
dell’arbitrato). Possono sospendere se nel procedimento arbitrale è invocata l’autorità di una sentenza
impugnata. Disposta la sospensione il procedimento si estingue se nessuno deposita presso gli arbitri
istanza di prosecuzione nel termine da loro indicati (o in mancanza entro 1 anno dalla cessazione della
causa di sospensione). In caso di questione pregiudiziale che non può essere decisa dall’arbitro, il
procedimento si estingue se entro 90 giorni dall’ordinanza di sospensione nessuno deposita presso gli
arbitri copia autentica dell’atto con il quale la controversia sulla questione pregiudiziale è proposta davanti
l’autorità giudiziaria.

La competenza degli arbitri non è esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al giudice né alla
connessione. La sentenza in cui il giudice decide della propria competenza in relazione a una convenzione di
arbitrato è impugnabile con regolamento di competenza. L’eccezione di incompetenza del giudice in
ragione di convenzione di arbitrato deve essere proposta a pena di decadenza nella comparsa di risposta:
se non lo si fa si esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia decisa in quel giudizio. nei
rapporti tra arbitrato e processo non si applicano le regole su l’efficacia dell’ordinanza che pronuncia sulla
competenza (art. 44), il conflitto di competenza (art. 45), sospensione dei processi (art. 48), riassunzione
della causa (art. 50), sospensione necessaria (art. 295). La Corte costituzionale con la sentenza 223/2013 è
intervenuta sui rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria dichiarando l’illegittimità dell’art 819 nella parte in
cui esclude l’applicazione dell’art. 50 e quindi il meccanismo della translatio iudicii.

Con la convenzione di arbitrato o con accordo anteriore all’accettazione degli arbitri le parti possono
pronunciare un termine per la pronuncia del lodo, in mancanza del quale devono pronunciare il lodo entro
240 giorni dall’accettazione della nomina. Il termine può essere prorogato con dichiarazioni scritte di tutte
le parti indirizzate agli arbitri; dal presidente del tribunale, prima della sua scadenza, su istanza motivata di
una parte o degli arbitri, sentite le altre parti. Se le parti non hanno disposto diversamente, il termine è
prorogato di 180 giorno (non più di una volta ciascuno) se devono essere assunti mezzi di prova, se è
disposta consulenza tecnica di ufficio, se è pronunciato un lodo non definitivo o parziale, se è modificata la
composizione del collegio arbitrale o sostituito l’arbitro unico. Il termine inoltre si sospende durante la
sospensione del procedimento e se alla ripresa il termine residuo è inferiore a 90 giorni è esteso a tanto.
Arriviamo a 540 giorni senza che incorra sospensione, quindi si dice che la brevità dell’arbitrato è un
vantaggio solo teorico. Il decorso del termine non può essere fatto valere come causa di nullità se la parte
prima della deliberazione del lodo risultante dal disposto non abbia notificato alle altre parti e agli arbitri
che intende far valere la decadenza. Se invece una parte la fa valere gli arbitri, verificato che sia decorso il
termine, dichiarano estinto il procedimento.

Secondo l’art 822 “norme per la deliberazione” gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le
parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che pronuncino secondo equità.

Il lodo è deliberato a maggioranza dei voti con la partecipazione di tutti gli arbitri, ed è redatto per iscritto.
Ciascun arbitro può chiedere che il lodo o una sua parte, sia deliberato dagli arbitri riuniti in conferenza
personale. Il lodo deve contenere una serie di informazioni elencate all’art 823 (nome arbitri, sede, parti,
convenzione, conclusioni, esposizione sommaria dei motivi, dispositivo, sottoscrizione della maggioranza
degli arbitri e data della sottoscrizione).

Una volta depositato il lodo ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria dalla data della
sua ultima sottoscrizione. La parte che intende far eseguire il lodo in Italia ne propone istanza depositando
o l’originale o copia conforme, insieme alla convenzione di arbitrato, nella cancelleria del tribunale in cui c’è
la sede dell’arbitrato. Il lodo, quindi, è reso esecutivo e soggetto a trascrizione o annotazione allo stesso
modo della sentenza. Del deposito del provvedimento del tribunale è data notizia dalla cancelleria alle parti
con comunicazione. Contro il decreto che nega o concede esecutorietà al lodo, è ammesso reclamo con
ricorso alla corte d’appello entro 30 giorni dalla comunicazione, che provvede, sentite le parti, in camera di
consiglio. Si tratta, in sostanza, di una sorta di omologazione: prima di avere realmente efficacia, il tribunale
deve accertare la regolarità formale del procedimento e dell’atto.

Il lodo può essere corretto se ci sono errori materiali su richiesta di parte entro un anno dalla
comunicazione del lodo. Gli arbitri sentite le parti provvedono entro 60 giorni e della corruzione si dà loro
comunicazione. Se gli arbitri non provvedono, l’istanza di correzione è proposta al tribunale nel cui
circondario ha sede l’arbitrato. Se il lodo è stato depositato la correzione è richiesta al tribunale con
procedimento di correzione uguale a quello delle sentenze (ex art 288). Alla correzione può provvedere
anche il giudice di fronte il quale il lodo è stato impugnato o fatto valere.

Il lodo è soggetto all’impugnazione per nullità, per revocazione ed opposizione di terzo. I mezzi di
impugnazione possono essere proposti indipendentemente dal deposito del lodo. Il lodo che decide
parzialmente il merito della controversia è immediatamente impugnabile, ma se risolve alcune delle
questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo.
L’impugnazione per nullità si propone entro 90 giorni dalla notificazione del lodo, davanti la corte d’appello
nel cui distretto è la sede dell’arbitrato. L’impugnazione non è più impugnabile dopo un anno dalla data
dell’ultima sottoscrizione (se non c’è la notifica: termine lungo). L’istanza per la correzione del lodo non
sospende il termine per l’impugnazione però il lodo può essere impugnato per le parti corrette a partire
dalla comunicazione dell’atto di correzione. Non si tratta di impugnazione in senso proprio, ma è
un’impugnazione per nullità. I casi di nullità sono elencati all’art 829, che è la norma che regola
l’impugnazione del lodo, e sono l’invalidità della convenzione di arbitrato, la nomina degli arbitri in modo
non conforme a quando prescritto, se è dedotta nel giudizio arbitrale, se il lodo è pronunciato da chi non
poteva essere nominato arbitro, se il lodo è pronunciato fuori dai limiti della convenzione d’arbitrato, se
mancano il dispositivo, i motivi o la sottoscrizione degli arbitri, se pronunciato fuori la scadenza, se non
sono state osservate le forme prescritte dalle parti con espressa sanzione di nullità e la stessa non è stata
sanata, se il lodo è contrario ad altro precedente dolo non più impugnabile o a precedente sentenza
passata in giudicato tra le parti, purché tale dolo o tale sentenza sia stata prodotta nel procedimento, se
non è osservato il principio del contraddittorio, se non decide il merito della controversia e avrebbe dovuto
farlo, se contiene disposizione contraddittorie, se non ha pronunciato su alcune delle domande ed
eccezioni proposte in conformità alla convenzione di arbitrato. La parte che ha dato causa o motivo di
nullità, vi ha rinunciato, non la ha eccepita nella prima istanza o difesa successiva, non può impugnare il
lodo. L’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito, può essere fatta solo per
espressa disposizione di legge o delle parti, altrimenti è impugnabile solo per i motivi tassativi di nullità.
Sono sempre impugnabili nel merito le controversie individuali di lavoro o se la violazione delle regole
concerne la soluzione di questione pregiudiziale su materia che non può essere oggetti di arbitrato. Nei casi
dell’art 409 (controversie individuali di lavoro) può essere impugnato anche per violazione dei contratti e
accordi collettivi. La corte d’appello decide sull’impugnazione per nullità e se l’accoglie dichiara con
sentenza la nullità del lodo. Se il vizio incide su una parte del lodo scindibile dalle altre il giudice pronuncia
la nullità parziale. La corte d’appello può decidere nel merito (motivi n. 5,6,6,8,9,11,12 art 829) se le parti
non abbiano deciso diversamente nella convenzione. Decide nel merito se alla data della sottoscrizione di
arbitrato, una delle parti risiede ho la sede effettiva all’estero, solo se le parti hanno così stabilito nella
convenzione di arbitrato o ne fanno concorde richiesta. Se non decide nel merito, alla controversia si
applica la convenzione di arbitrato, a meno che la nullità dipenda dalla sua invalidità o inefficacia. Su istanza
di parte anche successiva alla proposizione dell’impugnazione la corte d’appello può sospendere con
ordinanza l’efficacia del lodo se ricorrono gravi motivi.

A prescindere da qualsiasi rinuncia il lodo è sempre soggetto a revocazione nei casi indicati ai numeri
1,2,3,6 dell’art 195 (revocazione straordinaria) osservati i termini e le forme stabiliti nel Libro II. Se questi
casi si verificano durante il corso del processo di impugnazione per nullità il termine per la proposizione
della domanda di revocazione è sospeso fino alla comunicazione della sentenza che pronuncia sulla nullità.
Revocazione straordinaria e opposizione di terzo si propongono nella corte d’appello nel cui distretto è la
sede dell’arbitrato (si può proporre anche quest’ultimo). La corte d’appello può unire le impugnazioni per
nullità, revocazione e opposizione di terzo nello stesso processo se lo stato della causa preventivamente
proposta consente l’esauriente trattazione e decisione delle altre cause.

La convenzione di arbitrato può fare riferimento a un regolamento arbitrale precostituito, si tratta dei c.d.
arbitrati amministrati (art 832).

PARTE SECONDA: L’ESECUZIONE FORZATA

LE VARIE SPECIE DI ESECUZIONE FORZATA ED I LORO PRESUPPOSTI SOSTANZIALI

Con il termine esecuzione forzata o il più generale “processo di esecuzione”, la cui regolamentazione è
contenuta nel Libro III c.p.c. si intendono quegli strumenti processuali che permettono al titolare di un
diritto espresso in un titolo esecutivo di giungere alla sua concreta attuazione. L’esecuzione è detta
“forzata” in quanto l’attività degli organi esecutivi si svolge nella sfera giuridico-patrimoniale dell’obbligato
senza che il suo volere o le sue posizioni giuridiche possano ostacolarli. Da questo discende che non si
possono considerare esecuzione forzata quegli strumenti, introdotti con l’art 614-bis, di coercizione
indiritta, che inducono ad adempiere spontaneamente all’obbligazione e hanno lo scopo di evitare
l’esecuzione forzata giurisdizionale.

L’esecuzione forzata ha natura giurisdizionale, infatti tutte le volte che le statuizioni contenute nel
provvedimento giurisdizionale devono avere attuazione pratica, e l’obbligato si rifiuta, il diritto è solo
affermato teoricamente e di fatto resta ancora quello stato di incertezza. L’esecuzione forzata, quindi, è un
indispensabile completamento della giurisdizione contenziosa, della cui natura e funzione è partecipe,
inoltre risponde alle esigenze di ordine e certezza dell’ordinamento giuridico (anche nel caso in cui il titolo
esecutivo derivi da un atto di formazione privato). Il processo esecutivo, in quanto presuppone sempre una
normativa che fissi un diritto, è assistito da un grado di certezza, per cui non è retto dal contraddittorio e il
contraddittorio non è la sua forma giuridicamente organizzata: le norme che impongono al giudice di
sentire il debitore prima di adottare certi provvedimenti hanno il solo scopo di consentire il migliore
esercizio dei poteri giudiziali. Nel caso in cui l’obbligato proponga opposizioni di merito o di forma,
riappaiono il contraddittorio e il processo di cognizione, ma come incidenti nel processo esecutivo.

La disciplina sull’esecuzione forzata è contenuta anche nel libro VI del Codice civile “della tutela dei diritti”
agli artt. 2910-2933. Queste norme sembrano far rientrare nello stesso genere due forme di esecuzione
forzata diverse tra loro, l’espropriazione forzata e la c.d. esecuzione in forma specifica (species del genus
esecuzione forzata). Non è convincente perché in contrasto con il resto del sistema di legge. Innanzi tutto,
chiamare esecuzione in forma “specifica” non ha molto senso nel nostro ordinamento, e non se ne parla
mai nel Codice di procedura civile, dove invece si parla di procedimento per consegna o rilascio, per
obblighi di fare o non fare. Inoltre, il Codice civile all’art 2932 fa rientrare sotto questa categoria
dell’esecuzione specifica anche un mezzo di tutela che non ha niente a che fare con l’esecuzione forzata,
l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto (che si ha, per esempio, nel caso di contratto
preliminare) ed è in realtà un normale processo di cognizione di tipo costitutivo e non ha nulla in comune
con il processo esecutivo e l’esecuzione forzata. Infine, ultimamente sono state introdotte misere di
coercizione indiretta, che non sono procedimenti esecutivi ma degli strumenti che servono ad evitare che si
arrivi agli stessi.

Per capire l’espropriazione forzata dobbiamo guardare a quella categoria di diritti ai quali si applica, ovvero
i diritti obbligatori, i diritte relativi, che si differenziato da quelli assoluti/reali perché a differenza di questi
non sono un diritto sul bene ma AL bene. Dai rapporti obbligatori nascono i diritti di credito, la cui tutela
giurisdizionale non si esaurisce con il suo accertamento ma comporta la necessità che ad esso segua la
condanna dell’obbligato ad adempiere alla prestazione. In questo tipo di rapporto ci sono sempre almeno
due soggetti, creditore e debitore, il primo ha il diritto di conseguire un bene, il secondo ha un dovere di
condotta. L’obbligazione civile deve avere carattere patrimoniale, cioè la prestazione dovuta dal debitore al
creditore deve essere suscettibile di valutazione economica. E questo è il motivo per cui la legge sostanziale
prevede come conseguenza dell’inadempimento il risarcimento del danno, e presume la colpa del debitore,
il quale per liberarsi dovrà provare l’impossibilità sopravvenuta: si tratta della responsabilità personale del
debitore ex art 1218 c.c. L’obbligazione risarcitoria ha anche la funzione di ridurre tutte le obbligazione in
una somma di denaro e alla responsabilità personale si aggiunge quella patrimoniale ex art 2740 c.c. per cui
il debitore risponde dell’adempimento dell’obbligazione con tutti i suoi bene presenti e futuri, quindi con il
suo intero patrimonio. Si tratta della responsabilità-garanzia patrimoniale. Rispetto ai vari creditori, è
concorsuale e paritaria salve le cause legittime di prelazione. Ci sono poi vari istituti che ne assicurano
l’applicazione, che conferiscono al creditore poteri di ingerenza e controllo verso il debitore con lo scopo di
mantenere/incrementale il suo patrimonio, definiti dalla legge come mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale (azione surrogatoria, azione revocatoria, sequestro conservativo, accettazione eredità,
eccezione di prescrizione sollevata dal creditore per il debitore). Se, nonostante ciò, l’obbligazione non sia
adempiuta il creditore “per conseguire conto gli è dovuto può fare espropriare i beni del debitore secondo
le regole del c.p.c.” ex art 2910 c.c. L’espropriazione forzata quindi è l’ultima parte dello sviluppo della
responsabilità-garanzia patrimoniale del debitore e ha funzione strumentale perché serve a soddisfare il
diritto quando il debitore non adempia.

Quindi l’espropriazione forzata è espressione del rapporto giuridico obbligatorio e della responsabilità-
garanzia patrimoniale ad esso inerente. Spostandoci verso i procedimenti esecutivi in forma specifica, si
tratta di procedimenti (vedi l’esecuzione per la consegna di beni mobili o per rilascio di beni immobili) volti
a ripristinare nella sua integrità un diritto su un bene che è stato menomato dal comportamento attivo o
omissivo di chi era tenuto a rispettarlo. Sono forme di responsabilità estranee alla responsabilità-garanzia
di cui parla l’art 2740 c.c. primo perché non riguardano l’intero patrimonio dell’obbligato ma solo un bene
individuato a priori. Sono incompatibili con il concorso dei creditori tipico della responsabilità patrimoniale:
servono alla tutela dei diritti reali o assoluti, diritti in cui la titolarità su un bene coincide con il suo
godimento. Secondo alcuni studiosi l’esecuzione in forma specifica serve anche alla soddisfazione dei diritti
di credito, ma in primis l’espropriazione forzata è perfettamente in grado di dare pieno soddisfacimento ai
diritti di credito, in secondo luogo non si farebbe altro che creare una gran confusione in cui si scambia il
risarcimento del danno in forma specifica con l’esecuzione forzata e si trasferisce sul piano processuale il
problema di diritto sostanziale di stabilire i modi in cui porre rimedio all’inadempimento delle obbligazioni.
Inoltre, non si terrebbe conto delle disposizioni di legge.

Nel nostro ordinamento sono previste sia procedure di espropriazione forzata singolare o individuale, sia
procedure concorsuali derivanti dalla dichiarazione di fallimento o dello stato di insolvenza del debitore.
Entrambe appartengono allo stesso ambito giuridico, hanno natura giurisdizionale, si sostanziano in un
procedumento esecutivo, sono espressione della responsabilità-garanzia patrimoniale come elemento
costitutivo delle obbligazioni civili e gravante sul debitore, mirano al soddisfacimento dei creditori a
prescindere dalla volontà dell’obbligato mediante espropriazione e liquidazione dei suoi beni. Le differenze
stanno però nei presupposti. Le procedure concorsuali si applicano solo agli imprenditori, soggetti che
attingono istituzionalmente al credito, per cui ci saranno molti creditori che devono rifarsi sul suo
patrimonio, ed è importante che si rispetti la par condicio creditorum. La seconda esigenza deriva dal fatto
che è necessario liquidare tutto il patrimonio dell’imprenditore insolvente, per cui l’espropriazione è
universale, non ha ad oggetto un solo cespite patrimoniale ma tutti i suoi beni presenti e futuri. Questo
comporta anche l’estinzione dell’impresa per permettere l’espropriazione completa del patrimonio
dell’imprenditore. L’imprenditore perde la capacità di amministrare i suoi beni che sono affidati per la
gestione a fini espropriativi e satisfattivi a un curatore. C’è un divieto ai creditori di promuovere azioni
esecutive individuali, mentre quelle in corso devono arrestarsi, inoltre si utilizzano le azioni revocatorie per
recuperare i pagamenti fatti entro un anno se l’imprenditore sapeva di versare in stato di insolvenza,
sempre per garantire la parità tra i creditori.

IL TITOLO ESECUTIVO ED IL PRECETTO

Nel diritto romano non esistevano procedimenti di esecuzione forzata e per ottenere il pratico
soddisfacimento del proprio diritto bisogna iniziare una nuova azione di cognizione. Per facilitare il ricorso
alla giustizia nacquero i titoli esecutivi dagli strumenti guarentigiati notarili con una fictio iuris che li
equiparava a sentenze. Da un altro canto si sviluppò l’idea che l’attività esecutiva successiva alla formazione
del titolo fosse estranea alla giurisdzione così il potere regio se ne appropriò rendendola una funzione
amministrativa così che i titoli esecutivi iniziarono a proliferare. Con l’evolversi dei tempi si affermò il
principio che per agire esecutivamente fosse necessario un titolo e con la moderna codificazione la loro
disciplina fu inserita nel Codice di procedura civile. Si è giunti quindi all’idea del titolo esecutivo come
condizione necessaria e sufficiente per procedere all’esecuzione forzata (cioè basta avere il titolo esecutiva,
non importa il diritto soggettivo in esso rispecchiato, e si può procedere con l’esecuzione forzata), anche se
permanevano diverse idee sulla qualificazione giuridica del titolo esecutivo.

Per processo di esecuzione, in via generale, si fa riferimento a strumenti processuali che consentono al
titolare di un diritto di ottenere la realizzazione pratica, il soddisfacimento concreto di questo nonostante
l’inerzia o addirittura contro la volontà del soggetto obbligato. Se il debitore persiste nell’inadempimento,
dopo il processo di cognizione che ha accertato il diritto, il creditore può agire esecutivamente per ottenere
il soddisfacimento coattivo del suo diritto. Nel processo esecutivo, rispetto al processo di cognizione, si ha
già un diritto certo. In linea generale si può dire che il fine del processo esecutivo sia dare attuazione
concreta ed effettiva ad un diritto certo. -> esecuzione forzata (exequor -> richiama qualcosa di
temporalmente successivo), cioè rivolgersi agli organi preposti per ottenere l’attuazione coattiva del diritto.

Il processo esecutivo non presuppone necessariamente un titolo giudiziale, quindi che promana dal giudice
ma possono esservi anche titoli stragiudiziali che consentono al sogg di agire.
Altro aspetto di macroscopica differenza tra i due processi, oltre la finalità, mentre il processo di cognizione
è retto dal principio del contraddittorio, quello di esecuzione no perché non si hanno due pretese
contrapposte che hanno lo stesso valore, bensì vi è una posizione prevalente essendo un diritto già
accertato, e una che invece subisce la procedura. Il processo di esecuzione quindi non è retto dal principio
del contraddittorio. Il sogg che subisce la procedura esecutiva può proporre opposizioni per contestare la
legittimità del procedimento; queste danno vita a processi di cognizione incidenti nella procedura
esecutiva. Salvo questa ipotesi il processo esecutivo va avanti senza necessità di azione da parte del sogg
obbligato che deve solo subire la procedura.

Tipi di esecuzione forzata previsti nel nostro ordinamento -> Sotto il genus esecuzione forzata possono farsi
rientrare due species:

- esecuzione in forma specifica (esecuzione diretta)


- espropriazione forzata

questa distinzione è espressamente prevista nel codice civile. Come accaduto per le prove la disciplina è
dislocata sia nel cpc che nel cc. Quest’ultimo prevede queste due species -> prima critica sottolinea che il cc
faccia rientrare sotto lo stesso genus due forme di esecuzione forzata molto diverse tra di loro. Il discrimen
tra queste due forme costituisce da sempre oggetto di ampio dibattito.

Esecuzione in forma specifica -> locuzione che si ritrova nel cc non c’è nel cpc, mentre l’espropriazione
forzata figura in entrambi i codici. In realtà infatti i procedimenti previsti dal cpc sono tra loro molto diversi
e non presentano caratteri di omogeneità che giustificano il farli rientrare nello stesso genus. Il cc fa
rientrare in questa categoria anche un mezzo di tutela, all’art 2932cc, che non ha niente a che fare con
l’esecuzione forzata. Questo art infatti sta descrivendo un processo di cognizione di tipo costitutivo, che
non ha nulla in comune con il processo esecutivo. Quindi si rilevano due cose strane: il cc parla di
esecuzione in forma specifica e poi disciplina l’esecuzione forzata per consegna o rilascio e l’esecuzione
forzata degli obblighi di fare o non fare, mentre il cpc il ma non parla di esecuzione in forma specifica da
nessuna parte, scelta più opportuna perché queste fattispecie non hanno caratteri tali da giustificare
l’accorpamento allo stesso genere; seconda cosa il cc annovera sotto l’esecuzione in forma specifica anche
un mezzo di tutela che non ha niente a che vedere con il processo esecutivo. Quindi secondo Monteleone
queste due fattispecie, esecuzione in forma specifica e espropriazione forzata, sono totalmente diverse
l’una dall’altra che non hanno alcun punto di contatto. L’esposizione del cc da adito ad alcune comprensibili
perplessità.

Espropriazione forzata -> particolare procedimento esecutivo finalizzato al soddisfacimento coattivo del
diritto di credito (diritto al bene la cui tutela giurisdizionale non può esaurirsi nell’accertamento ma
necessita anche della condanna).

Nel rapporto giuridico obbligatorio esistono due sogg ben individuati: creditore e debitore. Il primo ha
diritto a conseguire un determinato bene, il secondo deve adempiere la prestazione. Questa dev’essere a
carattere patrimoniale, quindi suscettibile di valutazione economica. Nel caso in cui il debitore non
adempia all’obbligazione scatta automaticamente l’obbligo del risarcimento del danno (art 1218cc). Questa
responsabilità personale è intrinseca in ogni obbligazione, ma il cc alla responsabilità personale del debitore
ne affianca un’altra, cioè quella patrimoniale (art 2740cc). La responsabilità patrimoniale assolve la
funzione di soddisfare in concreto il diritto del creditore qualora il debitore non adempia spontaneamente.

Art 2910cc: il creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del debitore,
secondo le regole stabilite dal cpc.

La responsabilità patrimoniale, ha caratteristiche peculiari, innanzitutto infatti è concorsuale e paritaria


(vale per tutti i creditori e allo stesso modo tra tutti salve le cause di prelazione) → art 2741cc: se vi sono
più creditori tutti possono agire esecutivamente sul patrimonio del debitore. Questa possibilità è prevista
per ogni creditore indifferentemente, salva la presenza di privilegio, pegno o ipoteca.

Esecuzione in forma specifica -> il cc vi fa rientrare alcuni procedimenti che trovano la loro disciplina anche
nel cpc. L’esecuzione forzata per consegna o rilascio ha per oggetto una res ben individuata, mobile o
immobile, che non appartiene al patrimonio del debitore e che dev’essere consegnata o rilasciata all’avente
diritto. Macroscopica differenza rispetto all’espropriazione forzata, perché l’oggetto di quest’ultima
almeno, all’inizio, è generico. Stesso discorso anche per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare o non
fare. Già dal punto di vista dell’oggetto si parla quindi di procedure estremamente diverse, non solo tra
loro, ma anche con riferimento all’espropriazione forzata. Le fattispecie incluse nell’esecuzione in forma
specifica sono in contrasto con il concorso tra più creditori. Quindi sono estranei all’applicazione dell’art
2740cc, non servono quindi alla tutela dei diritti di credito bensì dei diritti assoluti (diritti reali e diritti della
personalità). +

Quindi mentre l’espropriazione forzata mira alla tutela di diritti di credito, l’esecuzione forzata in forma
specifica mira alla tutela e alla soddisfazione di diritti assoluti. Questo è confermato da una serie di indici
normativi.

L’art 607cpc “cose pignorate”: fa capire come queste fattispecie siano incompatibili con il concorso dei
creditori. -> fa riferimento a un caso particolare, tizio ha intrapreso un’azione esecutiva per la consegna di
una cosa mobile, ma questa è stata già pignorata da un creditore precedentemente. Questo è possibile
perché il pignoramento mobiliare avviene con l’ufficiale giudiziario che si reca del debitore e pignora quello
che trova senza indagare sulla proprietà dei beni. In tale ipotesi la consegna non può avere luogo, quindi il
procedimento non può andare avanti e la parte istante, cioè quella attiva, deve fare valere le sue ragioni
con l’opposizione di terzo all’esecuzione (opposizione con cui il terzo fa valere la proprietà o altro diritto
reale sul bene pignorato; è un giudizio di cognizione a tutti gli effetti).

Dal complesso di questi indici normativi si ricava che l’esecuzione in forma specifica non ha niente a che
vedere con i diritti di credito e con le obbligazioni, ma ha la finalità di tutelare i diritti assoluti.

Questa distinzione così netta tra le finalità di espropriazione ed esecuzione in forma specifica non si può
accettare senza riserve, perché ci si deve chiedere se questa forma può trovare ingresso anche per la tutela
coattiva del credito, o per questa tutela esiste solo l’espropriazione forzata? Si deve rispondere che questa
distinzione è corretta ma non funziona sempre, ad esempio nel caso di iura ad rem, che sono diritti di
credito ad una cosa, cioè che hanno ad oggetto un bene determinato e non possono trovare
soddisfacimento coattivo se non nelle forme dell’esecuzione in forma specifica. Quindi l’esecuzione in
forma specifica tutela si i diritti assoluti ma anche alcuni diritti relativi come gli iura ad rem.

In tutti i casi, sia di espropriazione che di esecuzione in forma specifica, il diritto, sia di credito che assoluto,
deve avere delle caratteristiche particolari: certo, liquido, esigibile e consacrato in un titolo esecutivo. Chi
agisce esecutivamente vanta un diritto che ormai è certo, e questa certezza deriva dal fatto che il diritto è
consacrato in un titolo esecutivo -> atto/provvedimento che per legge può dare ingresso ad una delle
procedure esecutive previste dalla legge. Il Libro III si apre, infatti, con la disciplina del titolo esecutivo
(nulla executio sine titulo) e il precetto altro atto importante del procedimento esecutivo. Queste disp,
soprattutto da 474 a 482cpc sono la base di tutti i procedimenti esecutivi.

03/05/2021

Il Libro III del codice si apre con le disp relative al titolo esecutivo e al precetto; questo gruppo di norme si
applica a tutte le procedure esecutive.

Art 474cpc “titolo esecutivo”: consacra la regola fondamentale nulla executio sine titulo. L’esecuzione
forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. Il
titolo è la condizione necessaria per agire esecutivamente. Nei manuali si dice che sia condizione necessaria
e sufficiente per procedere a esecuzione forzata, ma Monteleone precisa che quest’affermazione non è
completamente corretta, perché il titolo è sì condizione necessaria quando la legge lo ritiene, ma non è
anche condizione sufficiente perché è necessario anche qualcos’altro, cioè il diritto consacrato nel titolo.
Quindi è necessario che il diritto contenuto nel titolo esecutivo esista per tutta la procedura esecutiva,
altrimenti questa diventa illegittima. La certezza del diritto non è assoluta perché questo può venire meno
per diverse ragioni. Quindi il titolo esecutivo si può definire come condizione necessaria ma non sufficiente.

Il titolo esecutivo deve essere certo nel senso che deve essere fatta una precisa individuazione del diritto
sia nella imputazione/direzione soggettiva, sia nel contenuto. Per esempio non possono costituire titolo
esecutivo le sentenze di condanna generica); liquido (riguarda la loro espressione in moneta, deve indicare
la determinazione del quantum dovuto o gli estremi per calcolarlo, per esempio è ammesso indicare gli
estremi per calcolare gli interessi piuttosto che il numero preciso); esigibile (legata alla inesistenza di
ostacoli giuridici alla immediata ed attuale riscuotibilità della prestazione dovuta. Nel caso sia dovuta ai
termini non si pongono questioni di provarli, basta il loro decorso. Se si tratta di condizioni deve essere
provato il loro superamento. Per esempio, se la condizione è costituita dalla prestazione della cauzione non
si può iniziare l’esecuzione senza prestarla e si deve rendere nota in calce o margine del titolo spedito o con
atto separato della cauzione).

I titoli esecutivi sono di due specie: giudiziali (atti e provvedimenti che promanano dal giudice) e
stragiudiziali (atti di origine e formazione privata). Tale disposizione inoltre individua quali siano gli atti che
sono titoli esecutivi:

1) sentenze (riferimento a quelle che contengono statuizioni condannatorie, e in generale suscettibili


di essere portate a esecuzione. Non è compresa la sentenza di condanna generica), provvedimenti
e altri atti a cui la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Vi sono numerosi
provvedimenti non aventi la forma di sentenza ai quali la legge attribuisce efficacia di titolo
esecutivo, come le ordinanze di pagamento di somme non contestate, le ingiunzioni in corso di
causa, le ordinanza di pagamento di pene pecuniarie, decreti di liquidazione dei compensi dei
consulenti tecnici di ufficio … bisogna poi ricordare che ad oggi è provvisoriamente esecutiva la
sentenza di primo grado. Questi sono i TITOLO GIUDIZIARI
2) Scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute,
le cambiali e gli altri titoli di credito a cui la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia;
3) gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli. Quindi, per
esempio, chi stipula un contratto di locazione in forma notarile per ottenere il rilascio dell’immobile
non avrà bisogno di procurarsi uno sfratto convalidato ma avrà già un titolo esecutivo.

Ultimo comma: l’esecuzione forzata per consegna o rilascio non può avere luogo che in virtù dei titoli
esecutivi di cui ai n (1 e (3. -> novità introdotta con le riforme del 2005, ha enorme rilievo pratico. I titoli
giudiziali sono titoli esecutivi idonei sia per l’espropriazione forzata sia per tutte le forme di esecuzione in
forma specifica. Per i procedimenti di esecuzione forzata per consegna o rilascio quindi si possono usare
anche titoli esecutivi stragiudiziali che siano però l’atto pubblico. Invece, nel caso di procedimenti per
esecuzione forzata di obblighi di fare o non fare è necessario il titolo giudiziale.

Per capire come si svolge il processo esecutivo bisogna porsi dall’angolo visuale di chi agisce
esecutivamente, cioè il titolare del titolo esecutivo. La legge dice che i titoli esecutivi, per valere come titolo
per l’esecuzione forzata, devono essere muniti della formula esecutiva, salvo che la legge disponga
altrimenti. (Questa formula è un residuo storico dell’epoca in cui l’esecuzione forzata non era un’attività
giurisdizionale, ma rientrava più nell’ambito dell’attività amministrativa). Questa formula è apposta dal
cancelliere se si tratta di titoli giudiziali (sentenze o altri atti) o dall’impiegato dell’archivio notarile. Quindi il
titolare del diritto deve recarsi in questi luoghi per avere il rilascio del titolo con l’apposizione della formula.
Il pubblico ufficiale annota sull’originale l’eseguita spedizione (spedizione in forma esecutiva), forma copia
autentica del titolo mediante quest’apposizione della formula e lo rilascia al richiedente. Secondo l’art 153
disp. Att. Al c.p.c. il cancelliere spedisce il titolo quando la sentenza o il provvedimento del giudice siano
formalmente perfetti. In pratica, si dice che deve fare un controllo formale (e questo obbligo si estende
anche al notaio) e apporre il proprio sigillo al documenti rilasciato. Solo il notaio che ha ricevuto l’atto è
abilitato alla spedizione esecutiva e quando questi cessi dalla propria funzione bisogna rivolgersi all’archivio
notarile. La formula esecutiva comunque non è un elemento costitutivo nel titolo esecutivo ma attiene al
suo corretto rilascio e quindi il suo difetto o irregolarità non incidono sul diritto a procedere a esecuzione
forzata ma possono dare materia all’opposizione agli atti esecutivi. Non può rilasciarsi alla stessa parte più
di una copia in forma esecutiva a meno che non ricorrano giusti motivi, in quel caso il soggetto potrà
richiedere il rilascio di altre copie al capo dell’ufficio che ha emesso il provvedimento o al presidente del
tribunale nella cui circoscrizione fu formato l’atto. L’art. 475 è importante perché individua i soggetti dal
lato attivo, legittimati a chiedere il rilascio del titolo esecutivo e quindi ad agire esecutivamente. Non è
invece richiesta la spedizione per gli atti di formazione privata come le cambiali. La spedizione può farsi solo
alla parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento o stipulata l’obbligazione (Soggetto che
risulta nominativamente menzionato nel titolo come titolare del diritto), o ai suoi successori (sia universali
che a titolo particolare), con indicazione in calce della persona a cui è spedita. L’art 477cpc indica quali
siano i soggetti dal lato passivo, cioè quelli nei cui confronti può essere attivata la procedura esecutiva. Il
titolo esecutivo contro il defunto (Anzitutto ovviamente nei confronti del soggetti che è menzionato nel
titolo come obbligato) ha efficacia contro gli eredi cioè solo i successori universali. Si può notificare agli
eredi il precetto solo dopo 10 giorni dalla notificazione del titolo. Se il titolo è stato già notificato al defunto
deve essere rinotificato agli eredi. Entro un anni dalla morte la notificazione può farsi agli eredi
collettivamente e impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto. L’art 475 e 477cpc individuano le
parti del processo esecutivo. Monteleone a commento di queste due norme, precisa che queste
menzionano dei terzi (cioè i successori); ma questi sono terzi solo apparentemente perché sono subentrati
in via successoria alla parte originaria. Ma è possibile che il soggetto attivo si rivolga a un terzo estraneo che
non sia un successore? Per rispondere si deve fare riferimento ad altro tipo di diritto rispetto a quelli di
credito, cioè quelli assoluti che possono essere fatti valere erga omnes. Quindi la realizzazione di questi
diritti può avvenire, dopo la formazione del titolo, contro chiunque si trovi nel possesso o nella detenzione
del bene che costituisce oggetto del diritto assoluto. Questo conferma come il diritto consacrato nel titolo
sia un aspetto fondamentale, perché condiziona la direzione soggettiva del procedimento esecutivo.

Il precetto è regolato dall’art 480, secondo cui esso consiste “nell’intimazione ad l’obbligo risultante dal
titolo esecutivo entro un termine minore di dieci giorni, salva l’autorizzazione ex art. 482 (del presidente del
tribunale competente per l’esecuzione immediata, con prestazione di cauzione, in caso di pericolo nel
ritardo); con l’avvertimento che in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata”. Con il precetto si dà un
ultimo avviso all’obbligato prima di dare inizio all’esecuzione forzata: si tratta di una intimazione, di un atto
di costituzione in mora non di una domanda giudiziale. È un atto sostanziale che produce anche effetti
processualmente rilevanti, interrompe la prescrizione ma non la sospende e non segna la pendenza del
processo esecutivo (non dà inizio al processo). Così lo intende la giurisprudenza, perché è richiesta la sua
sottoscrizione ed è escluso che ad esso si applichi la sospensione feriale dei termini processuali. Non
essendo una domanda non produce litispendenza, per cui se ne possono notificare una pluralità senza
conseguenza. È un atto neutro perché non individua il tipo di esecuzione che si andrà ad intraprendere.
Deve contenere:

1) l’indicazione delle parti


2) l’indicazione della data della notificazione del titolo esecutivo, se fatta separatamente.
3) la trascrizione integrale del titolo esecutivo nei casi in cui è prescritta della legge (in questi casi è
obbligatoria anche la notificazione congiunta del titolo esecutivo e del precetto). In questo caso
l’ufficiale giudiziario, prima della relata di notifica, deve controllare che la trascrizione sia stata
correttamente eseguita e cioè che corrisponda all’originale (quest’operazione è definita collazione).
Quindi si può dire che in tutti i casi in cui vi sia la collazione la notifica dei due atti, precetto e titolo,
è congiunta.
4) Terzo comma: la dichiarazione di residenza o elezione del domicilio del precettante nel comune in
cui ha sede il giudice competente per l’esecuzione -> questo però non è ancora concretamente
individuabile perché il precetto è un atto neutro (non individua il tipo di esecuzione che si andrà ad
intraprendere). Onere strano per il precettante. In mancanza le opposizioni al precetto si
propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato, e le notificazioni alla parte istante
si fanno presso la cancelleria del giudice stesso.
5) La legge nel 2015 ha inserito un avvertimento al debitore, che però non è previsto a pena di nullità;
il precetto deve contenere l’avvertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di
composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di
sovraindebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o
proponendo agli stessi un piano del consumatore. Quindi si vuole incentivare il debitore che non è
assoggettabile al fallimento ad avvalersi delle procedure di composizione della crisi. Se dovesse
mancare quest’indicazione si avrebbe un vizio di forma, quindi, potrà farsi valere il vizio con
opposizione agli atti esecutivi; è una mera irregolarità.
6) Sottoscrizione a norma art 125 c.p.c. dalla part personalmente, da un sua mandatario o dal
procuratore cui sia stata conferita la procura in calce o a margine di esso.

I requisiti previsti a pena di nullità dall’art 480 (in questo elenco i numeri 1,2 e 3) se si tratti di mancanza
assoluta. Devono farsi calere mediante opposizione agli atti esecutivi nel termine perentorio di venti giorni
dalla notifica del precetto o al più tardi di venti giorni dal primo atto esecutivo susseguente di cui il debitore
abbia avuto notizia. La mancata fissazione del termine dilatorio di 10 giorni al debitore non produce nullità
ma rende applicabile quello di legge. L’adempimento dell’obbligo del debitore all’interno del termine fa
venire meno il diritto ad esecuzione forzata e dà eventualmente luogo a risarcimento del danno se
l’esecuzione è già iniziata.

Secondo l’art 479, se la legge non dispone altrimenti, l’esecuzione forzata deve essere preceduta dalla
notificazione del titolo in forma esecutiva e dal precetto. Questo è un adempimento preliminare, imposto
dalla legge e nei modi da essa previsti. La notificazione del titolo esecutivo dev’essere fatta alla parte
personalmente a norma degli artt. 137ss. Questa disp (479) è stata modificata con la riforma del 2005, nel
senso di escludere ai fini esecutivi la notificazione del titolo giudiziale al procuratore costituito. Quindi nel
caso occorrono due notificazioni: una al procuratore per fare decorrere il termine breve per
l’impugnazione; l’altra direttamente all’avversario ai fini esecutivi. In alcuni casi è possibile scegliere se
notificare prima il titolo esecutivo e poi il precetto ovvero notificarli assieme (in questo caso
inderogabilmente alla persona). Ci sono però dei casi in cui la notificazione congiunta dei due atti è imposta
per legge, ovvero i casi in cui il titolo sia costituito da scritture private autenticate e da titoli di credito. La
mancanza del titolo impedisce di procedere ad esecuzione forzata. Dalla sua notificazione il precetto è
sottoposto a un termine di efficacia di 90 giorni, durante i quali deve iniziare l’esecuzione. L’inutile decorso
comporta la decadenza dello stesso, ma si può sempre riproporre (non è necessario riproporre il titolo
esecutivo). Il precetto deve concedere al debitore un termine dilatorio di dieci giorni prima del quale non
può iniziarsi l’esecuzione forzata. Se c’è pericolo di ritardo l’interessato può chiedere al capo dell’ufficio
competente per la esecuzione di essere autorizzato all’esecuzione immediata. Il giudice provvede nel caso
con decreto in calce al precetto.

DELLA ESPROPRIAZIONE FORZATA IN GENERALE

LIMITI, FORME ED ORGANI DELL’ESPROPRIAZIONE

§1
Gli artt. 483-512cpc contengono la disciplina comune ai vari tipi di espropriazione. Il soddisfacimento
coattivo del diritto di credito consiste sempre nell’attribuire al creditore una somma di denaro corrisponde
al valore economico della prestazione (che ha sempre carattere patrimoniale). La somma è reperita nel
patrimonio del debitore, con il quale egli garantisce il credito. Se si tratta di denaro, viene espropriato, se si
tratta di altri beni si hanno diverse forme di espropriazione forzata sulla base della natura giuridica dei beni:
espropriazione mobiliare, presso terzi e immobiliare. Trattandosi di un procedimento, la procedura
espropriativa è scandita da alcune fasi, essenzialmente quattro e non tutte necessarie: pignoramento,
intervento dei creditori (eventuale), vendita o assegnazione del bene, distribuzione del ricavato.

Nel caso in cui la P.A. sia inadempiente il creditore che voglia agire coattivamente contro essa incontra dei
limiti. È vietato al giudice ordinario di ingerire nell’attività amministrativa, per cui i provvedimenti giudiziari
emessi nel corso dell’espropriazione forzata non possono essere sottratti dalla loro destinazione se essa sia
stata stabilita con un provvedimento amministrativo o con la legge. I beni demaniali e i beni indisponibili
dello Stato, delle Province, dei Comuni e dele Regioni a statuto speciale sono sottratti al comune
commercio e quindi non possono costituire oggetto di pignoramento ed espropriazione forzata. Chi abbia
un titolo esecutivo per una somma in denaro nei confronti di una P.A. o dell’INPS non può procedere ad
esecuzione forzata o alla notifica dell’atto di precetto prima che siano trascorsi 120 giorni dalla notifica del
titolo (eccezione alle regole generali). Il denaro della P.A. non è nella piena disponibilità degli
amministratori, ma è gestito e destinato a fini specifici con strumenti contabili approvati con atti
amministrati, i quali possono essere anche atti formalmente legislativi, se l’esecuzione inciderebbe con i
provvedimenti deliberati dalla P.A., i beni non sarebbero espropriabili. Gli atti introduttivi del giudizio di
cognizione, gli atti di precetto, di pignoramento e sequestro, devono essere notificati a pena di nullità
presso la struttura territoriale dell’ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati
interessati. I pignoramenti di crediti promossi nei confronti di istituti esercenti forme di previdenza e
assistenza obbligatoria devono essere instaurati a pena di improcedibilità rilevabile di ufficio innanzi al
giudice dell’esecuzione della sede principale del tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’uffizio giudiziario
che ha emesso il provvedimento. Il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento è trascorso
un anno senza che sia disposta l’assegnazione. L’assegnazione perde efficacia se entro un anno
dall’emissione dell’ordinanza di assegnazione il creditore non provvede all’esazione della somma
assegnatagli.

Nel T.U. delle leggi in materia bancaria sono contenuto disposizioni agevolative per gli istituti di credito che
svolgano operazioni di credito fondiario (cioè ogni finanziamento a medio o lungo termine garantito da
ipoteca di primo grado su immobili), di credito alle opere pubbliche, di credito agrario e peschereccio
riguardanti l’espropriazione forzata in danno del debitore inadempiente. In caso di inadempimento di un
credito fondiario la banca è esonerata dalla notifica del titolo (non del precetto) e l’espropriazione forzata
può essere iniziata o proseguita anche in caso di dichiarazione di fallimento (non si lede la par condicio
creditorum: essendo che c’è una ipoteca di primo grado il creditore avrebbe sempre la priorità assoluta). I
crediti agrari e pescherecci, anche a breve termine, possono essere garantiti da un privilegio speciale e se il
debitore non adempie su istanza della banca il tribunale del luogo in cui si trovano i beni sottoposti a
privilegio, può disporne l’apprensione e la vendita. Inoltre sono stati introdotti gli istituti del pegno non
possessorio su beni mobili anche futuri, che comporta, nel caso di mancata restituzione di un
finanziamento, il trasferimento dei beni senza ricorrere al procedimento di espropriazione forzata; il
trasferimento dei beni immobili sottoposto alla condizione sospensiva della mancata restituzione di un
finanziamento. In entrambi si supera il divieto di patto commissorio e si elude la par condicio creditorum.

Sono stati introdotte nuove norme per permettere di gestire le crisi da sovraindebitamento gravanti su
soggetti che non possono essere sottoposti a procedure concorsuali per mancanza dei presupposti di legge.
Il sistema prevede la costituzione di organismi di composizione della crisi iscritti in un registro tenuto presso
il Ministero di giustizio, da parte (e solo da loro) delle Camere di commercio, segretariato sociale, ordini
professionali di avvocati, notai e commercialisti, comuni, province, regioni, città metropolitane. Il debitore
presenta un piano di pagamento dei creditori mediante liquidazione del proprio patrimonio, che deve
essere approvato almeno dal 60% dei creditori, e poi sarà omologato dal giudice (è competente il tribunale
in composizione monocratica del luogo in cui il debitore ha la residenza o la sede). Non si richiede il titolo
esecutivo per i creditore, il tribunale provvede con decreti camerali reclamabili al collegio (siamo
nell’ambito della giurisdizione volontaria), dopo la fissazione con decreto dell’udienza per la discussione del
piano non possono iniziarsi o proseguirsi azioni esecutive individuali/sequestri conservativi/acquisto di
diritti di prelazione sul patrimonio del debitore; i procedimenti esecutivi in corso sono sospesi, se dei beni
siano stati già pignorati il giudice nomina un liquidatore che dispone del bene pignorato e delle somme
incassate con la loro vendita.

§2

Il processo esecutivo è retto dal giudice dell’esecuzione, la cui nomina è fatta dal Presidente del Tribunale
(art. 484). Competente per materia è sempre il tribunale. La competenza per territorio è inderogabile e
appartiene al giudice del luogo in cui si trovano le cose mobili o immobili sottoposte a esecuzione forzata; il
luogo dove il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede nel caso di autoveicoli, motoveicoli,
rimorchi ed espropriazione di crediti. La nomina è fatta quando il fascicolo è depositato in cancelleria. L’art
485 dice che quando la legge richiede o un giudice ritiene necessario che le parti ed eventualmente altri
interessati siano sentiti, il giudice dell’esecuzione deve fissare con decreto udienza per sentire le parti e se
risulta o appare probabile che qualcuno non sia comparso per causa involontaria fissa un’altra udienza da
comunicarsi a questo. Questa norma però non è espressione del principio del contraddittorio, per l’ovvia
ragione che la posizione delle parti non è paritaria, ma è espressione di un criterio di opportunità. Questa
sta semplicemente dicendo che per il corretto e celere svolgimento della procedura il giudice può fissare
udienza e sentire le parti, e la conseguenza è che in caso di violazione non si sta violando il contraddittorio,
per cui non sarà rilevabile di ufficio in qualunque tempo ma deve farsi valere con tempestiva opposizione
agli atti esecutivi. Le domande o le istanze si propongono al giudice oralmente in udienza o con apposito
ricorso de depositarsi in cancelleria. Il giudice risponde con apposita ordinanza che può essere dallo stesso
revocata o modificata finché non abbia avuto esecuzione. In generale, essendo che non si tratta di cause a
contraddittorio pieno, provvede con decreto o ordinanza, ed emette sentenza solo quando sono sollevate
opposizioni di forma o di merito (che invece sono a contraddittorio pieno). Il giudice perde il proprio potere
quando il provvedimento giudiziale integrante un atto esecutivo abbia sortito i suoi effetti.

Art 483cpc “cumulo dei mezzi di espropriazione”: il creditore, dopo la notifica del titolo esecutivo e del
precetto, può valersi cumulativamente dei diversi mezzi di espropriazione ammessi dalla legge, senza che
ciò dia luogo a litispendenza. Se si tratta di creditore con diritto di prelazione, deve prima sottoporre a
esecuzione i beni gravati dalla garanzia reale. Su opposizione del debitore (da intendersi come semplice
reclamo da proporsi anche oralmente), il giudice dell’esecuzione può limitare l’espropriazione al mezzo che
il creditore sceglie o, in mancanza, a quello che il giudice determina, dopo aver convocato i creditori e averli
ascoltati. Provvede con ordinanza che non ha contenuto decisorio (non impugnabile in cassazione) ma
contro cui è proponibile opposizione agli atti esecutivi. Disposta la limitazione, cessano gli effetti del
pignoramento escluso. Consente al creditore, munito di titolo esecutivo, di aggredire il patrimonio del
debitore cumulando diversi mezzi di espropriazione, ma la disposizione si premura di evitare che l’azione
del creditore sia eccessiva.

Le comunicazioni e le notificazione degli atti nel corso del procedimento esecutivo si fanno al creditore
procedente ed a quelli intervenuti nel loro domicilio eletto o nella residenza dichiarata nell’atto di
intervento o nel precetto; al debitore o a eventuali terzi interessati nella loro residenza o domicilio (il
debitore ha l’onere di eleggere domicilio nella circoscrizione del giudice istruttore). In mancanza si fanno
nella cancelleria del giudice. Quando la legge impone che di una notizia di atto esecutivo deve darsi
pubblica notizia, esso deve essere inserito nel portale delle vendite pubbliche istituito presso il ministero
della giustizia. In caso di espropriazione di mobili registrati con valore superiore a 25.000 E o di immobili,
oppure su istanza del creditore, l’avviso deve essere pubblicato almeno 45 giorni prima del termine di
presentazione delle offerte. Sempre su istanza del creditore il giudice dell’esecuzione può disporre che
l’avviso di vendita sia pubblicato sui quotidiani. Il difetto di pubblicità della vendita forzata comporta la
nullità in caso di vendita e determina l’estinzione del processo esecutivo.

IL PIGNORAMENTO

Il pignoramento è un atto di competenza dell’ufficiale giudiziario, che determina il formale inizio della
procedura espropriativa (art 491cpc), a meno che i beni siano sottoposti a pegno o ipoteca immobiliare. È il
primo atto espropriativo e ad esso si ricollega l’effetto interruttivo-sospensivo della prescrizione. L’art
492cpc “forma del pignoramento” descrive i requisiti di contenuto e di forma comuni a tutti i tipi di
pignoramento. Il pignoramento assolve l’importante funzione di individuare precisamente, nel patrimonio
del debitore, i beni destinati a soddisfare il credito per cui si procede. Su questi si viene poi a creare un
vincolo di destinazione nell’interesse, non solo del creditore procedente, ma anche di eventuali altri
creditori intervenuti. Il pignoramento secondo questo articolo consiste in un’ingiunzione che l’ufficiale
giudiziario fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito
esattamente indicato i beni che si assoggettano all’espropriazione e i frutti di essi. Ci sono diverse tesi sulla
natura di questa ingiunzione, ma secondo Monteleone si tratta di un requisito formale, la cui mancanza
comporta vizio di forma e quindi nullità processuale che non impedisce il raggiungimento dello scopo
dell’atto e può essere fatto valere solo con opposizione agli atti esecutivi entro il termine perentorio di
legge, decorso il quale si sana.

Il pignoramento deve contenere l’invito al debitore di eleggere domicilio per le notificazioni nel circondario
del tribunale competente per l’esecuzione con l’avvertimento che se non lo fa queste verranno effettuate
nella cancelleria del giudice. Il debitore deve rendere la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio
alla cancelleria del giudice dell’esecuzione. In caso di mancanza dell’invito il pignoramento è valido ma non
trova applicazione la norma e le notificazione e comunicazioni devono essere fatte personalmente al
debitore. Il comma 3 comma dell’art 492 ci dice che il pignoramento deve contenere una serie di
avvertimenti

- Possibilità per il debitore di ricorrere alla conversione. Se non lo si fa c’è una nullità formale che
può essere fatta valere entro 20 giorni dal compimento o dalla notifica dell’atto di
pignoramento con opposizione agli atti esecutivi, e il debitore può chiedere la conversione
anche oltre i limiti fissati dall’art. 495.
- L’avvertimento che se vuole proporre opposizione potrà farlo solo prima che sia stata disposta
la vendita o l’assegnazione del bene, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti, altrimenti è
inammissibile.

I commi da 4 a 6 attribuiscono all’ufficiale giudiziario poteri per individuare i beni da pignorare nel caso in
cui quelli pignorati appaiano insufficienti. Se i beni hanno particolari caratteristiche che ne rendono difficile
la vendita, oppure all’intervento di altri creditori all’espropriazione questi si rivelino insufficienti (su istanza
del creditore procedente o di quelli intervenuto muniti di titolo esecutivo) l’ufficiale giudiziario invita il
debitore a indicare ulteriori beni utilmente pignorabili; la omessa o falsa dichiarazione costituisce reato per
“mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, della qual cosa il debitore deve essere
avvertito. Solo il pignoramento mobiliare si esegue con l’accesso materiale dell’ufficiale nei luoghi di
proprietà del debitore; negli altri casi, pignoramento immobiliare e quello presso terzi, il pignoramento
prevede la notifica di un atto e basta, per cui l’ufficiale non ha modo di interpellare il debitore, quindi,
questo potere dell’ufficiale giudiziario è concretamente utilizzabile solo in caso di pignoramento mobiliare.
Delle dichiarazioni del debitore è redatto processo verbale. Se sono indicati altri beni questi si considerano
pignorato. Se sono indicati crediti o beni presso terzi il pignoramento si considera perfezionato in confronto
del debitore escusso dal momento della sua dichiarazione e occorrerà perfezionare il pignoramento presso
terzi. Se il debitore indica beni immobili il creditore dovrà invece pignorarli nelle forme di legge. Il settimo
comma fu abrogato nel 2014, ma è stato introdotto l’art 492-bis. Questa disposizione disciplina, in modo
farraginoso, la ricerca da parte dell’ufficiale di beni utilmente pignorabili attraverso l’ispezione telematica in
banche dati pubbliche. Questa dev’essere previamente autorizzata dal presidente del tribunale dove il
debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, su istanza del creditore procedente. Se vengono
trovati beni mobili o crediti si procede al pignoramento nei modi indicati dalla stessa norma. Se il debitore è
imprenditore commerciale, e in casi di insufficienza dei beni da pignorare, l’ufficiale giudiziario può
accedere alle scritture contabili dell’impresa e nominare un consulente che predisponga una relazione sulla
situazione patrimoniale del debitore.

Per quanto riguarda gli effetti del pignoramento, di distinguono quelli processuali da quelli sostanziali.
Primo effetto è l’inizio dell’espropriazione forzata. Un altro effetto importante è che l’individuazione
dell’oggetto della procedura espropriativa: per mezzo del pignoramento il potere espropriativo attribuito al
creditore colpisce un bene o più beni determinati e si estende agli accessori, alle pertinenze e ai frutti di
questo. Infine, ha una funzione conservativo-cautelare, infatti comporta la custodia del bene pignorato per
conservarne l’integrità e la libertà giuridica in vista delle ulteriori fasi del processo esecutivo: se il debitore
potesse disporre liberamente dei beni pignorati la loro espropriazione sarebbe impossibile. Non si tratta
però di una misura cautelare in senso stretto o proprio.

Gli effetti sostanziali sono disciplinati dal Codice civile, negli artt. 2913-2918. Il debitore, nonostante il
pignoramento, non ha ancora perso la proprietà del bene quindi ne può disporre; ma se potesse disporne
totalmente liberamente non avrebbe senso il pignoramento, perché sul debitore non vi sarebbero
conseguenze. Invece la conseguenza è che gli atti di disposizione del bene pignorato sono validi ed efficaci
nei rapporti tra debitore e terzo, ma non producono alcun effetto nei confronti del creditore procedente e
anche degli eventuali creditori intervenuti nell’espropriazione forzata: si parla di inefficacia relativa. Il
problema qui è conciliare il diritto di proprietà del debitore sul bene pignorato e il suo potere di trasferirlo,
con l’inopponibilità ai creditori procedenti alle vicende giuridiche ad esso attinenti. Risulta che il diritto di
diritto di proprietà del debitore e il potere espropriativo del creditore sono su due piani diversi e non
interferiscono.

Nell’ambito del pignoramento vale il principio per cui la proprietà del debitore non costituisce un
presupposto del pignoramento, infatti ai fini espropriativi, si considerano come appartenenti allo stesso
beni che per le norme sostanziali sono di terzi. Gli atti di alienazione del bene posteriori al pignoramento
non sono mai opponibili al creditore procedente e a quelli intervenuto, salvo il possesso in buona fede del
bene mobile non iscritto (il possesso in questo caso cale come titolo originario di acquisto) e ciò costituirà
materia di opposizione. In alcuni casi anche alienazioni o disposizioni del bene anteriori al pignoramento
possono essere colpiti da inefficacia relativa: 1) beni sottoposti a trascrizione nei pubblici registri, quando la
trascrizione sia avvenuta dopo la trascrizione del pignoramento benché il trasferimento sia avvenuto prima
2) cessioni di credito anteriori al pignoramento ma notificate al debitore ceduto o da costui accettate dopo
il pignoramento. 3) alienazioni di università di mobili non seguite dalla trasmissione del possesso
all’acquirente che non abbiano data certa 4) alienazione di beni mobili non seguite dalla trasmissione del
possesso all’acquirente che non abbiano data certa. Nella distribuzione del ricavato non si tengono in conto
ipoteche e privilegi iscritti dopo il pignoramento, oppure di quelli non iscritti per crediti sorti dolo di esso.
Per quanto riguarda la posizione giuridica processuale del terzo, a lungo tempo la giurisprudenza
ammetteva solo l’opposizione del terzo, ma con una recente sentenza ha ammesso l’estensione dell’art.
111 c.p.c. ai terzi, con la conseguenza che possono sollevare l’opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi
per tutelare il proprio diritto in via surrogatoria. Monteleone non è d’accordo e sostiene che per tutelare il
terzo dall’inerzia del debitore, alla cui tutela questa sentenza è volta, bastava l’azione surrogatoria ex art.
2900 c.c.

L’art 493cpc, rubricato “pignoramenti su istanza di più creditori” ci dice che più creditori possono con unico
pignoramento colpire il medesimo bene, creando un concorso tra creditori che si manifesta
preventivamente (solitamente si manifesta con l’intervento) L’ipotesi è che ci siano più creditori che,
avvalendosi di un diverso titolo o di un titolo diverso rivolgano un’unica richiesta di pignoramento
all’ufficiale giudiziario, in modo da risparmiare sulle spese e di estendere quantitativamente il
pignoramento. Al 2 comma dice che il bene su cui è già stato eseguito un pignoramento può essere
pignorato successivamente su istanza di uno o più creditori: è una disposizione di carattere generico da
integrare con altre norme che disciplinano queste eventualità nei singoli procedimenti espropriativi.
Quando ciò avvenga i pignoramenti devono essere riuniti ad opera del cancelliere o del giudice in un unico
fascicolo e gli interventi successivi hanno l’effetto di un intervento. Il comma 3 dice che ogni pignoramento
ha effetto indipendente anche se unito ad altri in un unico processo: l’azione esecutiva eseguita da ogni
singolo creditore conserva la propria autonomia e individualità. Quindi ogni pignoramento, anche se
eseguito in forma congiunta, conserva sempre la sua individualità (per es. la rinunzia di un creditore non si
estende agli altri). In queste ipotesi non ha luogo alcuna forma di litisconsorzio, ma c’è solo una riunione di
procedimenti a fini di economia processuale.

L’art 494cpc: Prevede due fattispecie diverse:

1) il debitore può evitare il pignoramento versando nelle mani dell'ufficiale giudiziario la somma per
cui si procede e l'importo delle spese con l'incarico di consegnarla al creditore. Il debitore ha già
ricevuto la notifica del titolo esecutivo e dell'atto di precetto, quindi, sa che c'è una procedura
esecutiva che sta per iniziare. Questa evenienza è concepibile solo nel caso di pignoramento
mobiliare, perché solo in questo caso l'ufficiale giudiziario si reca nei luoghi di pertinenza del
debitore e procede al pignoramento redigendo apposito verbale. Negli altri due casi, pignoramento
presso terzi e pignoramento immobiliare, è prevista la notifica di un atto, quindi, è estremamente
improbabile che in occasione di quella notifica il debitore versi nelle mani dell'ufficiale giudiziario la
somma per cui si procede. All'atto del versamento si può fare riserva di ripetere la somma versata,
cioè affermare che il versamento non comporta una rinuncia a richiedere eventualmente indietro
quanto versato. Un comportamento di questo tipo, cioè versare le somme, non integrerebbe in
nessun caso acquiescenza tacita, ma per scongiurare quest'interpretazione il debitore lo dice.
2) Il debitore può evitare altresì il pignoramento di cose (non in radice ma solo di alcune cose) sempre
versando nelle mani dell'ufficiale giudiziario, in luogo di esse, come oggetto del pignoramento una
somma di denaro che è uguale all'importo del credito per cui si procede e delle spese aumentato di
2/10. -> il debitore tende ad evitare il pignoramento di beni specifici e il luogo di queste fa
pignorare una somma di denaro. I due decimi sono a garanzia di eventuali creditori intervenienti. In
questo caso il pignoramento viene eseguito, solo che ha ad oggetto direttamente una somma di
denaro. Si evita la vendita forzata.

Questi due versamenti sono diversi perché il primo evitando il pignoramento evita che la procedura
espropriativa abbia inizio, nel secondo invece il pignoramento avviene ma non ha ad oggetto le cose che il
debitore poteva pignorare ma una somma di denaro. L’art 495cpc regola la "conversione di pignoramento":
qui il pignoramento è stato eseguito, ma è prevista la facoltà del debitore di chiederne la conversione. Il
debitore vuole fare eliminare il vincolo pignoratizio e convertire l'oggetto, quindi al posto di questi beni, fa
pignorare una somma di denaro. Nell'atto di pignoramento si deve rendere edotto il debitore di questa
possibilità. Questa norma è stata oggetto di innumerevoli riforme, l'ultima nel 2019. Anche se la legge non
lo dice espressamente questa istanza comporta un rallentamento nella procedura. Per evitare che il
debitore proponga l'istanza solo per perdere tempo, il legislatore vuole che unitamente all'istanza debba
essere depositata in cancelleria, a pena di inammissibilità, una somma non inferiore a 1/6 dell'importo del
credito per cui è intervenuto il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti a garanzia della serietà
della richiesta. Il giudice poi deve individuare la somma da sostituire al bene pignorato, con ordinanza
sentite le parti in udienza non oltre 30gg dal deposito dell'istanza di conversione. La legge prevede poi un
ulteriore beneficio: che se le cose pignorate sono costituite da beni immobili o anche cose mobili il debitore
può chiedere e ottenere la rateizzazione della somma dovuta nel termine massimo di 48 mesi. L'altra novità
è che ogni sei mesi il giudice provvede a distribuire ai creditori le varie rate nel frattempo pagate. Se il
debitore non paga la somma determinata dal giudice o non rispetti il termine per il pagamento della rata,
succede che le somme versate a garanzia e le rate eventualmente inizialmente pagate diventano oggetto
del pignoramento. L'istanza è riproponibile. Quest'ipotesi ricorre spesso quando a fronte di un credito,
magari di modesta entità, viene pignorato un bene che vale molto di più.

L’art 496cpc dice che su istanza del debitore o anche d'ufficio, quando il valore dei beni pignorati è
superiore all'importo delle spese e dei crediti di cui all'art precedente, il giudice può disporre la riduzione
del pignoramento. La riduzione presuppone che siano pignorati diversi beni o un bene facilmente divisibile,
che sia preclusa la possibilità di interventi tempestivi di creditori (quindi può disporsi solo dopo l’udienza di
autorizzazione alla vendita) e che la vendita non sia eseguita. Il giudice provvede con ordinanza, sentiti tutti
i creditori, modificabile o revocabile finché non è stata eseguita, attaccabile per vizi formali con opposizione
agli atti esecutivi. Una volta che il creditore ha eseguito il pignoramento nei modi di legge deve, entro 45
dal pignoramento, chiedere con apposita istanza la vendita o l'assegnazione del bene altrimenti il
pignoramento perde efficacia e i beni sarebbero liberi. Il pignoramento perde efficacia quando dal suo
compimento sono trascorsi 45gg senza che sia stata chiesta l’assegnazione o la vendita. Con la cessazione
degli effetti il bene torna a essere libero; quindi, ogni atto di disposizione su di esso ha piena efficacia. Il
termine è sospeso in caso sia proposta opposizione agli atti esecutivi, che cessa quando sia emessa una
decisione definitiva. Ad esso si applica la sospensione feriale. Un’altra causa di inefficacia del pignoramento
è data dalla mancata iscrizione a ruolo nel termine di 15 giorni per la espropriazione mobiliare e
immobiliare e 30 giorni dall’espropriazione dei crediti, dal giorno in cui l’ufficiale giudiziario restituisce al
creditore procedenti il verbale di pignoramento con annotazione della data. Ad oggi anche nel processo
esecutivo l’estinzione è rilevabile d’ufficio (prima doveva essere eccepita dal debitore).

L’INTERVENTO DEI CREDITORI

La seconda fase del procedimento è l’intervento dei creditori. Il pignoramento eseguito nei modi di legge
vincola il bene colpito al soddisfacimento del credito per cui si procede, quindi rende specifica quella
responsabilità-garanzia patrimoniale ex art 2740cc che fino a prima del pignoramento è generica. Il
creditore pignorante, cioè colui che ha dato avvio alla procedura espropriativa, non gode di una particolare
posizione privilegiata rispetto agli altri eventuali creditori, è solo colui che ha dato inizio alla procedura. Non
gode di prelazione. Una volta che i creditori sono intervenuti si trovano in una posizione di assoluta parità
con quella del creditore procedente. Attraverso l'intervento questi creditori chiedono di partecipare alla
distribuzione della somma ricavata (come sancito dall'art 2741cc).

Quando si parla di intervento dei creditori si devono identificare con esattezza i creditori che possono
intervenire, perché con la riforma del 2006 le cose sono cambiate: prima potevano intervenire tutti i
creditori, ovviamente dimostrando di avere un diritto di credito. Dalla riforma non è più così perché l'art
499cpc sancisce una regola generale: possono intervenire nell'espropriazione già iniziata i creditori muniti
di titolo esecutivo, cioè quelli che in astratto avrebbero potuto eseguire il pignoramento. Monteleone
sottolinea che è stata vulnerata la par condicio creditorum e creduta questa scelta, di fatto un titolo
esecutivo è stato trasformato in una causa di prelazione non prevista dalla legge. Il legislatore però ha
inserito questa regola per un motivo preciso: la ratio è quella di rendere più celere la procedura, evitando
che, soprattutto in sede di riparto, potessero sorgere parentesi cognitive non solo sotto la forma di
opposizione ma contestazioni di vario tipo. Questa restrizione della par condicio creditorum è stata
parzialmente compensata dal legislatore del 2006, con l'inserimento tra i titoli esecutivi delle scritture
private autenticate. Scopo dell’intervento è l’ottenere una somma di denaro a soddisfacimento del credito
attraverso la fase distributiva dell’espropriazione forzata. All’ art 499 il legislatore ha individuato tre
eccezioni a questa nuova regola generale, cioè tre categorie di creditori che pur non avendo titolo
esecutivo sono legittimati a intervenire:

1. Creditori che al momento del pignoramento avevano eseguito un sequestro conservativo sul bene
pignorato
2. Creditori che avevano un diritto di pegno o prelazione risultante da pubblici registri sul bene
ignorato.
3. Creditori titolari di un credito di una somma di denaro risultante dalle scritture contabili che gli
imprenditori commerciali sono tenuti a tenere.

Questi creditori possono depositare il ricorso per l'intervento, cioè quello con cui si chiede di intervenire,
ma anche se sono ammessi ad intervenire il titolo dovranno procurarselo in ogni caso, specie se il debitore
disconosca il loro credito. A tal proposito l'art 499 prevede una procedura complessa: per i creditori titolati
devono semplicemente depositare il ricorso per l'intervento nella cancelleria del giudice per l'esecuzione
con allegato il titolo esecutivo e aspettare la continuazione della procedura. Quelli non titolati invece
devono depositare il ricorso, notificarlo nei successivi 10gg al debitore, e a quel punto il giudice fisserà
un'udienza di comparizione davanti a sé, con la stessa ordinanza con cui dispone poi la vendita o
l'assegnazione, sia del debitore che di questi creditori intervenuti sine titulo per sentire le parti e chiedere
al debitore se intende disconoscere i crediti. È da ritenere che l’inosservanza dell’obbligo di notificare il
ricorso al debitore determini la nullità dell’intervento in quanto impedisce il riconoscimento del credito in
udienza nei modi di legge. Si ha quindi un interpello del debitore che riguarda il fondamento di questi
crediti non assistiti da titolo esecutivo. All'udienza (che può essere al massimo dopo 60 giorni dall’ordinanza
che la dispone) il debitore deve dichiarare quali di questi crediti non titolati intende riconoscere, in tutto o
in parte, e quali invece contesti. Se il debitore non compare all'udienza tutti i crediti sprovvisti di titolo di
intendono riconosciuti (riconoscimento presunto), oppure si presenta all'udienza e riconosce i crediti
(riconoscimento effettivo). La cosa importante però è che questo riconoscimento, effettivo o presunto,
rileva ai soli effetti dell'esecuzione, quindi, intanto la procedura può andare avanti e il creditore non titolato
ma il cui credito è stato riconosciuto può partecipare; ma questo riconoscimento non integra gli estremi di
un accertamento con efficacia di cosa giudicata. Il debitore in futuro potrebbe agire per la ripetizione
dell'indebito o potrà contestare questi crediti. Se il debitore si presenta all'udienza e disconosce i crediti
non titolati, i creditori che sono intervenuti nella procedura hanno diritto solo ad un accantonamento
temporaneo, periodo non superiore a 3 anni, delle somme che spetterebbero loro al momento del riparto,
a condizione che lo chiedano e dimostrino di aver iniziato entro i 30gg successivi il processo di cognizione
per ottenere il titolo esecutivo. Il creditore pignorante può indicare ai creditori chirografari intervenuti
l'esistenza di altri beni utilmente pignorabili, invitandoli ad estendere a quelli il pignoramento se sono
muniti di titolo esecutivo, altrimenti ad anticipare le spese necessarie per l'estensione. Se i creditori
intervenuti non ottemperano a questo invito entro 30gg saranno postergati al creditore procedente in sede
di riparto. Si tratta di un istituto particolare, di una causa di postergazione nuova.

L’intervento si attua con deposito innanzi al giudice dell’esecuzione o alla sua cancelleria di un ricorso che
deve contenere l’indicazione del credito dell’interveniente, del duo titolo, la domanda di partecipazione alla
distribuzione del ricavato, la dichiarazione di residenza o elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il
giudice competente per l’esecuzione. Secondo l’art. 498 devono essere avvertiti dell'espropriazione i
creditori che sui beni pignorati hanno diritto di prelazione risultante dai pubblici registri dal creditore
pignorante, che deve notificare entro 5gg dal pignoramento un avviso che contiene l'indicazione del
creditore pignorante, il titolo e le cose pignorate. In mancanza della prova della notificazione il giudice non
può procedere sull'istanza di assegnazione o di vendita. Una volta che il bene pignorato viene venduto o
assegnato si produce l'effetto purgativo, cioè si cancellano i diritti di prelazione, motivo per cui la legge
prevede che si debbano avvertire i creditori con diritto di prelazione che sui beni oggetto del loro diritto sta
iniziando una procedura espropriativa. Quindi è per incentivare l'intervento dei creditori privilegiati. Se
questi non sono stati avvertiti e il giudice provvede comunque sull'istanza di vendita o assegnazione il
creditore procedente deve risarcire i danni ai creditori privilegiati non avvertiti (illecito extracontrattuale ex
art 2043cc). Una volta eseguito nei modi di legge, l'intervento dà diritto a partecipare alla distribuzione
della somma ricavata e all'espropriazione del bene e a provocarne i singoli atti. L'intervento è tempestivo se
eseguito, cioè se il ricorso viene depositato, entro la prima udienza di autorizzazione alla vendita. È tardivo
se eseguito dopo questo momento. Quindi è questa udienza che costituisce il termine per capire se
l'intervento è tempestivo o tardivo. I creditori privilegiati saranno sempre soddisfatti per primi anche se
sono intervenuti tardivamente, perché per legge godono di prelazione; tutti gli altri creditori, sia quello
procedente che tutti i creditori chirografari, concorreranno in condizione di parità a meno che non siano
intervenuti tardivamente, che invece possono concorre solo alla distribuzione dell’eventuale residuo.
Questo significa che la tardività dell'intervento comporta una postergazione del riparto ma solo per i
creditori chirografari.

LA VENDITA E L’ASSEGNAZIONE

La fase della vendita forzata non si avrà se il pignoramento ricade su una somma di denaro. La vendita
dev'essere chiesta dal creditore procedente o da altro intervenuto che abbia titolo esecutivo, perché
l'istanza di vendita è un atto espropriativo che impone il titolo esecutivo. La richiesta deve essere
depositata in cancelleria del giudice dell'esecuzione nel termine indicato dall'art 497cpc (45gg dal
pignoramento a pena di inefficacia dello stesso). La legge prevede anche un termine dilatorio di 10 giorni
dal pignoramento, entro cui la vendita non può essere chiesta (art 501cpc). Per quanto riguarda gli effetti
sostanziali della vendita forzata, questa realizza un trasferimento coattivo, contro la volontà del debitore,
quindi, non può essere soggetta alla disciplina sostanziale in tema di compravendita negoziale. Ogni
irregolarità o vizio attinenti alla vendita forzata non deve farsi valere, in linea di principio, con gli istituti
della successione del diritto sostanziale ma con opposizione agli atti esecutivi proponibile da chiunque vi
abbia interesse, nei modi e nei termini di legge. In casi particolari possono trovare ingresso istituti di diritto
privato della compravendita contrattuale, soprattutto per esempio nel caso di aliud pro alio.

È dubbio se questo trasferimento coattivo realizza un trasferimento a titolo derivativo, poiché non
procedente dall’incontro di due libere volontà negoziali, sarebbe più da ricondurre all’esercizio di un
pubblico potere, fermo restando che opera la regola fondamentale per cui l’oggetto del bene è costituito
dai diritti spettanti a colui che ha subito l’espropriazione. Questo principio è ribadito dall'art 2919cc: la
vendita forzata trasferisce all'acquirente i diritti sulla cosa che spettavano a colui che subisce
l'espropriazione, salvi gli effetti del possesso di buona fede. Attraverso questo articolo si può sostenere la
tesi opposta per cui effettivamente si realizza un trasferimento a titolo derivativo. Può accadere che la
persona del debitore e il proprietario del bene pignorato non coincidano. In questo caso il terzo può
presentare opposizione di terzo, cosa che può succedere sia in caso di pignoramento mobiliare che
immobiliare. Secondo Monteleone quanto enunciato dall’art 2919 c.c. contrariamente a quello che dicono
tutti gli altri, quando dice “salvi gli effetti del possesso in buona fede” non faccia riferimento all’acquirente
ma al debitore escusso: se non era il proprietario della cosa mobile ma ne aveva acquisito il possesso in
buona fede. Viceversa, l’art 2920 riguarda la buona fede dell’acquirente-aggiudicatario, e in questo caso se
l’effettivo proprietario della cosa mobile pignorata non propone opposizione id terzo non potrà più agire
nei suoi confronti. Se il creditore procedente è in mala fede sapendo che il bene pignorato non apparteneva
al debitore, il terzo proprietario potrà agire contro questi per i danni e le spese. L’art 1921 c.c. fa salvi la
garanzia per vizi e la rescissione per lesione nonostante si tratti di garanzie tipiche della vendita
contrattuale, anche se si atteggiano in modo diverso. L’aggiudicatario evitto può solo ripetere il prezzo
pagato, dedotte le spese del processo esecutivo, se non ancora distribuito ai creditori, altrimenti dovrà
rivolgersi a ciascuno di costoro e contro il debitore per l’eventuale residuo. Non può ripetere il prezzo nei
confronti dei creditori privilegiati o ipotecari cui non era opponibile la causa di evizione. Resta salva la
responsabilità per danni e spese del creditore procedente in mala fede. La nullità degli atti esecutivi
precedenti la vendita o l’assegnazione non hanno effetto riguardo all’acquirente o all’assegnatario.

Ex art 503 la vendita forzata può farsi con incanto o senza. Oggi la forma più frequente è quella senza
incanto che comporta meno formalità. Quella con incanto è residuale e viene disposta quando il giudice
dell'esecuzione ritenga probabile che l'incanto possa avere un realizzo superiore. La vendita con incanto
può essere disposta solo se il giudice ritiene probabile che con essa possa ricavarsi un prezzo superiore
della metà rispetto al valore del bene.

Quella che chiamiamo assegnazione forzata si ramifica in tre istituti distinti:

- Assegnazione satisfattiva, prevista all’art 529 nell’espropriazione mobiliare, quando il


pignoramento case sul denaro, titoli di credito o cose (oro, argento …) che possono essere
distribuiti ai creditori alla stregua del denaro.
- Assegnazione dei crediti, che ha luogo nell’espropriazione mobiliare presso terzi, e può essere
pro solvendo o pro soluto.
- Assegnazione sostitutiva della vendita, in cui la vendita forzata dei beni pignorati è fatta al
creditore invece che ad un terzo offerente. Se intervengono altri creditori l’assegnazione può
essere chiesta a vantaggio di uno o più creditori ma è necessario l’accordo di tutti. Il giudice
fissa il valore minimo dell’assegnazione sostitutiva di vendita, costituito dalla somma non
inferiore delle spese dell’esecuzione e dei crediti muniti di prelazione rispetto a quello
dell’assegnatario -offerente e rappresenta il prezzo minimo del bene pignorato. Se il prezzo è
superiore a questo concorrono sull’eccedenza il creditore offerente e tutti gli altri secondo i
rispettivi diritti di prelazione. Sa ciò si capisce che si può avere interesse a ciò o quando il
creditore gode di un diritto di prelazione o quando è solo.

Gli effetti sostanziali dell’assegnazione sono regolati dal Codice civile. Secondo l’art 2926 se l’assegnazione
ha ad oggetto cose mobili, i terzi proprietari o i titolari di diritti reali sulle stessa, possono rivolgersi entro 60
giorni dall’assegnazione al creditore assegnatario in buona fede per ripetere la somma corrispondente al
suo credito soddisfatto. Se è in mala fede è esposto alla rivendica del terzo. Quando l’assegnatario invece
debba restituire la somma al terzo, il credito verso il debitore escusso è conservato ma si estinguono le
garanzie prestate da altri, se il creditore-assegnatario subisce evizione, ha diritto di ripetere quanto hanno
incassato gli altri creditori.

LA DISTRIBUZIONE DEL RICAVATO

Ultima fase dell’espropriazione forzata è la ripartizione del ricavato, che è volta a soddisfare in concreto il
creditore procedente e quelli eventualmente intervenuti, attribuendo le somme ricavate dalla vendita
forzata, quindi dalla liquidazione dei beni pignorati. Questa fase, quindi, presuppone una fase liquidativa e
che quest’ultima si sia conclusa apportando nelle casse dell’esecuzione la somma necessaria a soddisfare i
creditori. L’art 509cpc individua gli elementi di cui si compone la somma da distribuire (massa attiva),
formata da quanto proviene a titolo di prezzo o conguaglio delle cose vendute o assegnate, di rendita o
provento delle cose pignorate, di multa e risarcimento di danno da parte dell’aggiudicatario. L’attività
principale di questa fase consiste nella formazione dello stato di graduazione dei crediti, cioè stabilire qual
è l’ordine progressivo con cui devono essere soddisfatti i creditori. L’art 510cpc dice che se vi è un solo
creditore pignorante, senza intervento di altri creditori, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore,
dispone a favore del creditore pignorante il pagamento di quanto gli spetta per capitale, interessi e spese. È
poco frequente nella pratica, perché è più frequente che intervengano altri creditori. Quindi in quest’ultimo
caso è necessario redigere un documento, il piano di riparto, in cui si indicano le somme che spettano ai
creditori concorrenti, secondo l’ordine di graduazione previsto dalla legge. Per prima cosa, nell’ordine di
graduazione, bisogna considerare i crediti corrispondenti alle spese di giustizia, cioè i costi della procedura
esecutiva che sono serviti per realizzare quella determinata somma da distribuire; queste spese vanno in
prededuzione. Successivamente vengono i creditori privilegiati; dopo ancora i creditori chirografari
tempestivi, e infine i creditori chirografari tardivi, che concorrono sull’eventuale sopravanzo. Infine, il
residuo, se esiste, della somma ricavata viene consegnata al debitore o al terzo che ha subito
l’espropriazione. In quest’ordine di distribuzione si deve differenziare, da un lato, la posizione dei creditori
che vanno soddisfatti subito in sede distributiva, che sono tutti i creditori titolati o quelli intervenuti senza
titolo il cui credito però è stato riconosciuto, in tutto o in parte, nell’apposita udienza ex art 499cpc.

L’art 512cpc tratta delle controversie in sede di riparto; norma novellata dalla riforma del 2006. Se, in sede
di distribuzione, sorge controversia tra i creditori concorrenti o tra creditore e debitore o terzo
assoggettato all’espropriazione, circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza
di diritti di prelazione, il giudice dell’esecuzione, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti,
provvede con ordinanza impugnabile con opposizione agli atti esecutivi. Il giudice ha la facoltà di
sospendere in tutto o in parte la distribuzione della somma ricavata. Una prima novità di questa norma è
che le controversie previste da tale articolo, vengono risolte dallo stesso giudice dell’esecuzione con
ordinanza. L’altra novità riguarda la sospensione della fase distributiva, perché prima era obbligatoria
mentre oggi è facoltativa. Questa disposizione disciplina una particolare categoria di controversie che
possono sorgere in sede di riparto, e che sono ben individuate nel loro oggetto: cioè la sussistenza o
l’ammontare dei crediti o la sussistenza dei diritti di prelazione. Quindi in sede di riparto, dopo che si è
stabilito l’ordine in cui i creditori devono essere soddisfatti, è possibile che uno di questi creditori o il
debitore escusso, sollevino una contestazione. Prima della riforma del 2005, questo incidente cognitivo,
imponeva l’istruzione della causa e la sua decisione con sentenza. Quindi quando sorgeva la controversia, il
giudice non era per forza quello dell’esecuzione ma era in generale il giudice della cognizione a deciderla.
Oggi invece, dopo la riforma, si occupa di queste controversie sempre e comunque il giudice
dell’esecuzione che decide con ordinanza. Questo provvedimento non contiene un accertamento idoneo ad
acquistare l’autorità di cosa giudicata, tant’è che si può proporre contro quest’ordinanza solo l’opposizione
agli atti esecutivi. Quindi la distribuzione del ricavato, con o senza contestazioni, viene considerata dalla
legge come un atto esecutivo, cioè non produce mai effetti preclusivi tali da impedire in futuro al debitore
di agire per un eventuale indebito. Altro aspetto di grande importanza, su cui la dottrina si è sempre
interrogata, è quello del rapporto tra controversia distributiva e opposizione all’esecuzione del debitore: il
debitore escusso può contestare la legittimità sostanziale della procedura esecutiva, cioè il diritto a
procedere ad esecuzione forzata; da ingresso a un autonomo processo di cognizione in cui asserisce che il
creditore non ha il diritto di procedere per il diritto contenuto nel titolo. Ma anche ex art 512 il debitore
può contestare uno dei crediti nella sua esistenza. E quindi ci si chiede in che rapporto stiano questi due
rimedi. Alcuni studiosi sostenevano l’importanza del titolo esecutivo anche in questa fase della procedura,
con la conseguenza che la contestazione del debitore contro un creditore munito di titolo esecutivo,
dovesse sempre incanalarsi nelle forme dell’opposizione all’esecuzione. Oggi questo problema va
ulteriormente ridimensionato perché l’opposizione all’esecuzione, che prima si poteva proporre anche in
fase distributiva, si può porre in casi limitati perché non è più ammissibile dopo che sia stata disposta la
vendita o l’assegnazione, a meno che non si fondi su fatti sopravvenuti a queste fasi o su fatti che
l’opponente dimostri di non aver potuto dedurre prima per causa a lui non imputabile. Esistono però
queste due ipotesi limitate in cui l’opposizione potrebbe aversi anche in fase di distribuzione, cioè quando è
fondata su fatto sopravvenuti o su fatti che il debitore dimostri di non aver potuto dedurre
tempestivamente. La soluzione, offerta dalla giurisprudenza, è che se il debitore contesta la legittimità di
tutto il procedimento esecutivo, perché manca il diritto consacrato nel titolo, deve proporre opposizione
all’esecuzione. Se invece contesta il diritto a partecipare alla distribuzione del ricavato, cioè il diritto di
credito in sede di riparto, allora trova ingresso l’art 512cpc. Monteleone fa notare la stranezza della
previsione di cui al secondo comma, che stabilisce che alla sospensione il giudice può procedere anche con
l’ordinanza di cui al primo comma. Ma se ha già risolto la controversia, non ci sarebbe motivo di
sospendere la procedura. Questa previsione può avere una residua utilità nei casi in cui l’ordinanza venga
impugnata con l’opposizione agli atti esecutivi. Ma quest’ultima è solo un’eventualità e quindi il giudice
dell’esecuzione non può profetizzare ex ante quando decide della controversia e quindi sospendere. Altro
problema è che l’ordinanza che dispone la sospensione è reclamabile al collegio nei modi di cui all’art 669-
terdecies (per i provvedimenti cautelari). Quindi contro questa ordinanza ex art 512cpc, che dispone la
sospensione, sarebbero esperibili due rimedi: da un lato l’opposizione agli atti esecutivi, nella parte in cui il
provvedimento decide le controversie; e dall’altro il reclamo nella parte in cui invece provvede sulla
sospensione. Per evitare questa commistione di rimedi, che andrebbero rivolti anche a giudici diversi, è da
ritenere che il giudice debba disporre la sospensione con un provvedimento separato e soprattutto
anteriore all’ordinanza con cui risolve le contestazioni. Anche la distribuzione del ricavato è una fase
dell’espropriazione dalla quale non derivano effetti preclusivi.

L’art 511 stabilisce che i creditori di un creditore avente diritto alla distribuzione possono chiedere di essere
a lui sostituiti, proponendo domanda a norma dell’art 499.2 (intervento nell’esecuzione dei creditori con
ricorso). Si tratta della domanda di sostituzione o di sub collocazione, con il quale il creditore, nelle forme
dell’intervento, si fa assegnare il credito che il suo debitore vanta verso un altro sottoposto ad
espropriazione forzata. È diverso dall’azione surrogatoria, perché intanto non presuppone un’inezia del
debitore ma anzi che questo sia intervenuto nell’espropriazione. È poi necessario che il credito sia liquido,
certo ed esigibile. Infine, ha fine satisfattivo. Se vengono sollevate contestazione avverso le domande di
sostituzione tali contestazioni non comportano la sospensione del riparto.

L’ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO IL DEBITORE

Nell’espropriazione mobiliare presso il debitore il pignoramento mobiliare è eseguito dall’ufficiale


giudiziario addetto al tribunale del luogo dove si trovano i beni da pignorare, al quale il creditore dovrà
presentare istanza (anche di persona e anche verbalmente), consegnandogli contestualmente il titolo
esecutivo e il precetto già notificati al debitore e l’ufficiale giudiziario effettuerà solo un controllo di
regolarità formale su questi atti: solo in caso di mancata esistenza o irregolarità formale può opporre rifiuti
al creditore specificandone le ragioni. Successivamente l’ufficiale giudiziario si recherà presso i luoghi di
pertinenza del debitore, individuati in base al fatto che il debitore vi lavori o risieda abitualmente, e andrà a
ricercare e individuare i beni che si trovano in questi luoghi: si tratta di una semplice relazione spaziale. Non
è necessario che questi luoghi siano di proprietà del debitore, basta che in essi viva o lavori stabilmente.
Non è un presupposto di legittimità della procedura che i beni siano di proprietà del debitore, infatti, può
capitare il caso che venga pignorato un bene di proprietà di un terzo e sarà questo che dovrà proporre
opposizione dimostrando di essere il proprietario del bene pignorato. Una volta che l’ufficiale giudiziario
abbia individuato le cose da pignorare redige processo verbale, da consegnare senza ritardo al creditore
procedente insieme al titolo esecutivo e al precetto. L’ufficiale giudiziario è munito di potere coercitivo e
può chiedere l’intervento della forza pubblica. Quando cose determinate, cioè individuate a priori, delle
quali il debitore abbia la disponibilità si trovino in luoghi diversi a lui non appartenenti possono essere
pignorati dietro autorizzazione del presidente del tribunale competente su ricorso del credito (es. cassette
di sicurezza). Se non sono nella diretta disponibilità del creditore occorre procedere al pignoramento presso
terzi. Per quanto riguarda la scelta dei beni mobili da pignorare, a riguardo dispone l’art 517, per cui
l’ufficiale giudiziario deve pignorare i beni che ritiene di più facile e pronta liquidazione nei limiti presunti di
un valore atto a soddisfare il credito precettato aumentato della metà (denaro contante, oggetti preziosi,
titoli di credito).

Il pignoramento mobiliare ha diverse fasi formali: ricerca, individuazione ed apprensione dei beni,
descrizione e stima approssimativa nel processo verbale, deposito e custodia, a cui è stata aggiunta
l’iscrizione a ruolo. Non può farsi nei giorni festivi e oltre gli orari indicati per la notificazione degli atti, salvo
autorizzazione del presidente del tribunale. Dopo aver individuato le cose, l’ufficiale giudiziario le descrive
mediante rappresentazione fotografica o altro mezzo di rappresentazione audiovisiva e ne determina il
valore (con l’aiuto di un estimatore se lo ritiene necessario o richiesto dal creditore). Può differire le
operazioni di stima redigendo un primo verbale e nel termine perentorio di 30 giorni (in caso l’inefficacia
colpisce i beni indicati nel primo verbale) completa con la perizia dell’esperto. Le spese e i compensi del
perito sono liquidati dal giudice dell’esecuzione e sono prededotte dalla massa prima della distribuzione. Su
istanza del creditore da presentarsi entro 45 giorni dal pignoramento il giudice dell’esecuzione può
ordinare l’integrazione del pignoramento se ritiene che il presumibile valore di realizzo si inferiore rispetto
a quello indicato nel verbale. Una volta che l’ufficiale giudiziario ha effettuato il pignoramento mobiliare
con tutte le formalità richieste dalla legge, deve consegnare al creditore il processo verbale, il titolo
esecutivo e il precetto affinché il creditore possa depositare questi documenti con la data di iscrizione al
ruolo, nella cancelleria del giudice dell’esecuzione competente (tribunale del luogo in cui si trovano i beni)
entro 15gg. A questo punto il cancelliere formerà il fascicolo d’ufficio e verrà poi designato il magistrato,
persona fisica, competente per l’esecuzione. La custodia dei beni è uno degli effetti automatici del
pignoramento. Per quanto riguarda i beni di valore e i titoli di credito verranno consegnati dall’ufficiale
giudiziario al cancelliere che ne effettuerà la custodia; mentre per gli altri beni la custodia può essere
attribuita al debitore stesso o al creditore, e poi il giudice disporrà le modalità della custodia. Generalmente
il custode dovrà dare rendiconto al giudice, ma se il creditore è contrario, il debitore non potrà essere
custode e viceversa e in questo caso dovrà essere nominato custode un terzo. L’art 521-bis regola la
custodia di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi, la quale può essere eseguita facoltativamente in due modi
dal creditore, o secondo le forme previste per l’espropriazione mobiliare o similmente all’espropriazione
immobiliare con la notifica al debitore dell’atto di pignoramento con l’identificazione esatta del veicolo da
pignorare e l’intimazione di consegnarlo entro 10 giorni con i documenti all’istituto vendite giudiziarie.
Contestualmente il debitore diventa custode. Il creditore entro 30 giorni dalla consegna deve poi
depositare i documenti per l’iscrizione a ruolo. Il pignoramento perde efficacia se l’istanza di vendita o
assegnazione del veicolo pignorato non sia fatta entro 45 giorni dal deposito della nota di iscrizione a ruolo.

Nella ricerca delle cose da pignorare però vi sono dei limiti imposti all’ufficiale giudiziario. All’art 514 “cose
mobili assolutamente impignorabili”, si dice che non possono essere assolutamente pignorati oggetti
destinati al culto e cose sacre, fede nuziale e cose indispensabili alla vita, commestibili e combustibili
necessari al mantenimento per un mese, armi e oggetti che ha l’obbligo di conservare per l’adempimento
di un pubblico servizio, decorazioni al valore, scritti di famiglia, manoscritti. L’impignorabilità assoluta,
essendo a favore del debitore, non può essere rilevata d’ufficio ma solo dal debitore il quale potrebbe
anche decidere di lasciare pignorare tali beni. Nel caso in cui invece la impignorabilità deriva da un suo
particolare regime giuridico (per esempio nei casi di espropriazione forzata verso la PA) è rilevabile
d’ufficio, essendo preposta per un interesse pubblico e non del solo debitore. L’impignorabilità comunque,
pur non essendo rilevabile dal giudice dell’esecuzione, si ritiene che possa esserlo dall’ufficiale giudiziario
che riscontrandola può evitare il pignoramento. L’art 515 “cose mobili relativamente impignorabili” tratta
dei beni che vengono destinati alla coltivazione del fondo allo studio o al lavoro del debitore. Per quanto
riguarda i primi sono pignorabili solo esclusivamente insieme al fondo stesso, a meno che non vi siano altri
beni utilmente pignorabili; in questo caso è consentito il pignoramento di questi. Il giudice potrebbe
consentire al debitore di utilizzare i beni destinati alla coltivazione del fondo finché vi è necessità per
l’azienda agraria. I secondi sono pignorabili nella misura di 1/5 sempre che non vi siano altri beni utilmente
pignorabili.

Si ha unione di diversi pignoramenti quando l’ufficiale giudiziario si reca nei luoghi appartenenti al debitore
e vi trovi un altro ufficiale giudiziario che sta già pignorando dei beni: le operazioni si svolgeranno
congiuntamente ma ogni azione esecutiva e ogni pignoramento hanno effetto indipendente l’uno dall’altro.
Il pignoramento successivo invece avviene quando l’ufficiale giudiziario trovi un pignoramento già concluso
e ne dà atto nel verbale compiendo una ricognizione dei beni pignorati, procede su altri beni o se non ce ne
sono lo dichiara nel verbale. Se il secondo precede la prima udienza di autorizzazione di vendita equivale a
intervento tempestivo all’espropriazione iniziata. Ogni pignoramento conserva la sua autonomia ma
l’espropriazione si svolge in un unico processo. Altrimenti equivale ad espropriazione tardiva. Se sono
pignorati successivamente altri beni per questi si svolge in ogni caso un processo separato.

Entro 45gg dal pignoramento il creditore, secondo la disciplina generale, dovrà depositare istanza di
vendita o assegnazione dei beni. La legge ai fini della tempestività dell’intervento dei creditori distingue due
ipotesi:

1) Caso in cui il valore dei beni presumibile è superiore ai 20.000€ -> la regola è quella secondo cui si
fa riferimento alla data di udienza fissata dal giudice per la vendita o l’assegnazione forzata. Quindi
se il ricorso per intervenire viene presentato dal creditore prima di questa data, sarà un intervento
tempestivo, altrimenti in caso contrario sarà tardivo.
2) Caso di piccola espropriazione -> valore dei beni inferiore ai 20.000€, si fa riferimento al momento
in cui viene presentata l’istanza dal creditore, perché il giudice dispone subito la vendita o
l’assegnazione, non vi è l’udienza, la procedura è molto più celere. In questo caso l’intervento è
tempestivo se si effettua il deposito del ricorso entro il termine dell’istanza.

Decorso il termine dilatorio di 10 giorni dal pignoramento (ma non più di 45) il creditore procedente e fli
intervenuti tempestivamente muniti di titolo possono chiedere con ricorso la vendita dei beni pignorati o la
distribuzione del denario. Al ricorso deve essere unito il certificato di iscrizione sei privilegi gravanti su essi
(per avvertire i creditori privilegiati). Il giudice dell’esecuzione fissa con decreto l’udienza di comparizione di
tutte le parti, a cui deve essere data comunicazione dello stesso, e la rinnova se qualcuno non compare per
ragioni indipendenti dalla sua volontà. Qui ciascuno può fare osservazioni sul tempo e la modalità della
vendita e a pena di decadenza vengono sollevate le opposizioni agli atti esecutivi non ancora precluse. Il
giudice dispone con ordinanza la vendita, se non ci sono contestazioni o osservazioni intorno ad esse o se si
raggiunge un accorso. Se sono sollevate opposizioni sono decise con sentenza ricorribile in cassazione ex
art 111 Cost., poi dispone la vendita con ordinanza.

La vendita delle cose può essere disposta con o senza incanto, attribuendo l’attività di vendita a un
commissionario, che può essere anche un professionista abilitato e iscritto al proprio albo. Il giudice
indicherà: il numero minimo di esperimenti di vendita, non inferiore a 3; il prezzo minimo da cui partire;
l’entità dei ribassi successivi. Se passato 1 mese il commissionario non dovesse riuscire a effettuare la
vendita il commissario restituisce gli atti alla cancelleria del giudice dell’esecuzione fornendo prova delle
attività svolte e della pubblicità, allora il giudice disporrà la vendita con incanto, che viene solitamente
affidato ad un istituto di vendite giudiziarie. Il pagamento deve avvenire subito e in contanti, in mancanza si
procede a un nuovo incanto e l’aggiudicatario inadempiente deve pagare l’eventuale differenza con la
nuova vendita. Gli oggetti d’oro e d’argento non possono essere venduti a prezzo inferiore rispetto al loro
valore intrinseco. La somma ricavata viene consegnata al cancelliere che la deposita. Se l’incanto è
infruttuoso si procede ad un altro incanto con prezzo base inferiore di un quinto. Le operazioni di vendita
possono essere delegate dagli istituti di vendita giudiziaria ad un notaio, commercialista o a un avvocato e
viene disposta dal giudice nell’udienza di autorizzazione alla vendita, sentiti gli interessati. Quando i beni
pignorati non sono venduti in seguito ad almeno due esperimenti infruttuosi o le somme non bastano il
giudice su istanza dei creditori ordina l’estensione del pignoramento ad altri beni di cui viene disposta la
vendita senza necessità di una nuova istanza. Generalmente se decorrono sei mesi e l’attività rimane
infruttuosa il commissionario dovrà dar conto al giudice dell’attività svolta, che chiuderà la procedura, con
esito negativo. Nell’ambito dell’espropriazione mobiliare coesistono due diverse forme di assegnazione:
quella sostitutiva di vendita (oggetto titoli di credito o cose il cui valore risulta da listino di vendita o di
mercato) e quella immediatamente satisfattiva (riguarda oggetti d’oro e d’argento, si tratta in questo caso
di una datio in solutum necessaria, perché sono equiparati al denaro).

Per la distribuzione del ricavato, se c’è un creditore unico si paga a lui quanto gli spetta per capitale,
interessi e spese e l’eventuale eccedenza va al debitore. In caso di pluralità di creditori, viene fissata una
udienza per deliberare su un progetto o un piano di riparto delle somme disposibili, in cui devono
partecipare tutti i creditori e il debitore (si deve dare loro comunicazione delle stessa). La legge prevede
due ipotesi. Secondo la prima, i creditori raggiungono una distribuzione concordata e il giudice può
decidere in conformità, svolgendo un controllo formale. Altrimenti, se non c’è accordo o il giudice non
decide in conformità, uno dei creditori può chiedere con istanza di effettuare un piano di riparto
individuato dal giudice; se gli altri creditori non saranno d’accordo si attiverà la procedura ex art 512cpc,
quindi si risolve la controversia in contraddittorio.

L’ESPROPRIAZIONE PRESSO I TERZI

A differenza del pignoramento mobiliare, l’espropriazione presso terzi nasce su iniziativa del creditore con
un atto, notificato al terzo. Ha ad oggetto crediti di somme di denaro di cui sia titolare il debitore escusso
verso il terzo, che quindi è debitor debitoris: i beni si trovano nella detenzione qualificata di un terzo. Si
tratta di rapporti giuridici obbligatori. La pretesa sarà soddisfatta mediante la cessione forzata del rapporto
giuridico al creditore procedente, e quindi con la sostituzione di questo al debitore escusso. Il terzo non
dovrà adempiere al proprio creditore ma direttamente al creditore di quest’ultimo, assume la veste di parte
del processo esecutivo (nel quale può sollevare nel suo interesse opposizione agli atti) ed è destinatario di
una pretesa dirette del creditore procedente che agisce verso di lui ex jire proprio. Il terzo non viene
espropriato di nulla, paga quanto doveva ma a un soggetto diverso. Si è anche sostenuto che sarebbe
soggetto alla efficacia c.d. riflessa del titolo esecutivo, che non è rivolto contro di lui.

All’art 543 si regola la forma del pignoramento. Questo deve contenere un atto del creditore procedente,
uno dell’ufficiale giudiziario e uno del terzo. Infatti, al primo comma dice che il pignoramento si esegue con
atto notificato al debitore e al terzo. Questo atto in realtà è duplice, perché proviene in parte dal creditore
procedente e in parte dall’ufficiale giudiziario. La parte riservata all’ufficiale giudiziario contiene
1)l’indicazione del credito per cui si procede, del titolo esecutivo e del precetto. 2) L’indicazione generica
delle somme dovute e l’intimazione al terzo di non disporne senza l’ordine del giudice. Prima del 2015 era
previsto che all’udienza il terzo dovesse comparire davanti al giudice dell’esecuzione dovendo rendere la
dichiarazione riguardo le somme oggetto di pignoramento. Oggi invece il terzo quando riceve la notifica
dell’atto di pignoramento non deve far altro che inviare la dichiarazione alla PEC dell’avvocato del creditore
affermando che ha trattenuto le somme. Quindi la competenza del tribunale per l’esecuzione presso terzi
adesso è quella del luogo in cui ha residenza il debitore, non più quello del terzo. Eccezione a questo
principio per le PA perché è competente il tribunale del luogo in cui la PA ha sede. Le somme dal momento
del pignoramento vengono bloccate, quindi si devono conoscere in anticipo; ovviamente però si possono
sapere solo quelle derivanti da titolo esecutivo e da precetto. 3) dichiarazione di residenza o l’elezione di
domicilio nel comune in cui ha sede il giudice dell’esecuzione competente. 4) la citazione del debitore a
comparire davanti al giudice con l’invito al terzo a comunicare la dichiarazione ex art. 547 con
l’avvertimento che in caso di mancata dichiarazione dovrà comparire in udienza per rendere la
dichiarazione. Se non fa neanche questo il credito si riterrà non contestato. Il terzo deve specificare di quali
cose o somme è debitore o si trova in possesso, e quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna.
Deve anche specificare i sequestri, precedentemente eseguiti presso di lui e le cessioni che gli sono state
notificate o che ha accettato. La parte dell’ufficiale giudiziario invece si compone dell’ingiunzione
sottoscritta da rivolgere al debitore (quella “classica” per il pignoramento ex art 492) in mancanza della
quale secondo la giurisprudenza il pignoramento è inesistente. Eseguite tutte le notifiche l’ufficiale
giudiziario consegna tutto al creditore procedente, che entro 30gg dalla notifica del pignoramento si deve
iscrivere al ruolo a pena di decadenza. All’udienza, davanti al giudice dell’esecuzione, egli controlla la
regolarità degli atti; si esibisce la dichiarazione del terzo e il creditore chiede l’assegnazione dei crediti.

Non possono essere pignorati i crediti dello stato e di altri enti pubblici aventi la loro origine nell’esercizio di
pubbliche potestà o che sono rivolte al conseguimento di finalità di pubblico interesse. Sono impignorabili,
ex art 545, i crediti alimentari, salvo che per cause di alimenti, in una misura determinata con decreto dal
giudice delegato dal presidente del tribunale o con autorizzazione dello stesso (sono tali solo quelli dovuti
per legge). Sono assolutamente non pignorabili i crediti aventi ad oggetto sussidi di grazia o di
sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri; oppure sussidi dovuti per maternità, malattie o
funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficienza. Sono relativamente
impignorabili le somme dovute in ragione di rapporti di lavoro privato subordinato, che possono essere
pignorati per cause alimentari nella misura autorizzata dal giudice, nella misura di un quinto per crediti
tributari e per ogni altro credito. In caso di più cause di pignoramento, non possono comunque essere
pignorate più della metà delle somme. L’articolo è stato modificato diverse volte, prima con sentenze della
Corte costituzionale, e poi il legislatore ha conformato la norma alle pronunce della Corte. Per il problema
della pignorabilità delle pensioni o degli assegni di quiescenza in cui le somme vengano versate in un conto
bancario, sono impignorabili nel limite massimo mensile pari all’importo dell’assegno sociale aumentato
della metà, mentre la parte eccedente è pignorabile. Le somme dovute a titolo di stipendio, salario o
indennità relative al rapporto di lavoro o impiego, possono essere pignorate per l’importo eccedente il
triplo dell’assegno sociale quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento. Quando ha luogo
alla data o successivamente al pignoramento possono essere pignorati nei limiti già detti. Il pignoramento
effettuato oltre i limiti di legge è inefficace per la parte eccedente e l’inefficacia è rilevabile d’ufficio. Dal
2011 non è possibile pagare somme superiori a una certa quantità, se non con strumenti tracciabili.

L’art 546cpc “Obblighi del terzo” ci dice che il terzo dal momento del pignoramento ha gli obblighi del
custode delle somme oggetto del pignoramento (non può disporre di esse o alterare per fatto proprio
l’assetto del rapporto giuridico con il debitore escusso e dedotto nell’espropriazione). L’estinzione del
credito oggetto del pignoramento dopo questo non ha effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei
creditori intervenienti. Diventa, quindi, importante determinare il momento in cui il pignoramento presso
terzi comincia a produrre i suoi effetti. Secondo Monteleone esplica la sua efficacia dal momento in cui
viene notificato l’atto di pignoramento, sebbene esso non sia ancora perfezionato, al debitor debitoris e il
vincolo opera nel limite dell’importo del credito precettato aumentato della metà. Questo obbligo di
custodia non opera sulle somme ritenute impignorabili. Nel caso di pignoramento verso più terzi il debitore
può chiedere la riduzione proporzionale dei singoli pignoramenti a norma dell’art 496cpc, oppure la
dichiarazione di inefficacia di uno di essi. Il giudice dell’esecuzione, convocate le parti, provvede con
ordinanza non oltre 20gg dall’istanza. In realtà la limitazione quantitativa rende del tutto inutile l’istituto
della riduzione previsto da questo articolo. La dichiarazione del terzo è disciplinata dall’art 547 il quale dice
che deve essere resa dal terzo personalmente (o mandatario speciale/difensore munito di potere) e deve
dire di quali cose o somme è debitore o si trova in possesso e quando ne deve eseguire il pagamento o la
consegna. se vuole opporre termini, condizioni, eccezioni che influenzano il suo obbligo o ne annullino
l’esistenza ho l’onere di dichiararlo (dichiarazione parzialmente o totalmente negativa) e se non lo faccia gli
rimangono precluse perché avrà riconosciuto integralmente il debito. Il terzo deve anche dichiarare i
sequestri del medesimo bene eseguiti presso di lui e le cessioni che gli sono state notificate o che ha
accettato. La dichiarazione del terzo è un atto di natura negoziale e dispositiva con funzione essenzialmente
esecutiva. Si ritiene che possa essere impugnata per errore di fatto o violenza o per altra causa invalidante.

L’art 548cpc “mancata dichiarazione del terzo” dispone invece che se all’udienza il creditore dichiari di non
aver avuto dichiarazione il giudice fissa con ordinanza una udienza successiva, che è notificata a terzi
almeno 10 giorni prima la nuova udienza. Se il terzo non compare o in ogni caso rifiuta di fare la
dichiarazione, il credito si considera non contestato (è una presunzione semplice, quindi può essere
provato il contrario). L’ordinanza di assegnazione vale come titolo esecutivo nei confronti del terzo. Tramite
questa si può aggredire direttamente il terzo. Quest’ultimo però, avendosi notificata quest’ordinanza, può
impugnare nelle forme e nei termini dell’opposizione di atti esecutivi se prova di non aver avuto tempestiva
conoscenza della procedura. L’art 549cpc “contestata dichiarazione del terzo” dice che se vi sono
contestazioni sulla dichiarazione o in caso di mancata dichiarazione si può procedere all’accertamento del
credito, su istanza del creditore. Fino al 2012 si apriva un giudizio di cognizione vero e proprio, che si
concludeva con una sentenza. Oggi invece non vi è più questo incidente con sospensione, ma solo un
passaggio in cui lo stesso giudice dell’esecuzione deve accertare l’esistenza del credito. Quindi compie in
contraddittorio con il terzo e le parti l’accertamento sugli obblighi del terzo. Questo procedimento si
conclude con ordinanza, che produce effetti ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul
provvedimento di assegnazione. Se viene impugnata l’accertamento verrà recepito con sentenza
impugnabile ex art 111 Cost in Cassazione.

Art 550cpc “pluralità di pignoramenti”. Regola il caso in cui più pignoramento siano stati notificati al
medesimo terzi che nella dichiarazione deve indicare i pignoramenti che sono stati eseguiti presso di lui. Se
ne vengono notificati altri dopo la prima udienza il terzo nelle dichiarazioni può semplicemente richiamare
le altre. Questi pignoramenti sono parificati all’intervento tempestivo o tardiva a seconda che avvengano o
no prima dell’udienza di comparizione delle parti, che è quella fissata nell’atto di pignoramento. Quando
finisce l’accantonamento del pignoramento precedente, può iniziare l’accantonamento per il creditore
procedente (assegnazioni in coda). Li limitazione quantitativa introdotta però costituisce una remora per
l’utilizzo di questo istituto perché si rischia, con gli interventi, che nessuno riesca a soddisfare il proprio
credito.

Art 552 “assegnazione e vendita di cose dovute dal terzo”. Bisogna distinguere se oggetti del pignoramento
siano beni mobili nella detenzione qualificata del terzo o un somme da questo dovute al debitore escusso.
Nel primo caso si procede a vendita e assegnazione nei modi e nelle forme dell’espropriazione mobiliare,
nella seconda il giudice assegna il pagamento. All’assegnazione il giudice provvede con ordinanza avverso la
quale è proponibile opposizione agli atti esecutivi. L’assegnazione è fatta pro soluto e l’ordinanza di
assegnazione ha efficacia di titolo esecutivo. La distribuzione avviene secondo i modi dell’espropriazione
mobiliare nel caso di venduta di cose mobili e crediti, nell’assegnazione di crediti viene fatta pro quota.

L’ESPROPRIAZIONE IMMOBILIARE

§1 IL PIGNORAMENTO

L’espropriazione immobiliare è il procedimento espropriativo che ha ad oggetto un bene immobile del


debitore (da intendersi come qualsiasi diritto reale su un bene tranne la servitù) e comprender accessori,
pertinenze e frutti dello stesso. Riguardo al bene, non i frazionare o alterare, ma dece essere rispettata
l’individualità impressa dal proprietario all’immobile; le pertinenze possono essere oggetto di
pignoramento autonomo ma gli accessori no (non si può pignorare separatamente all’edificio, per esempio,
l’ascensore). Il creditore che vuole dare avvio a questa procedura, come in tutte le altre, deve notificare al
debitore titolo esecutivo e precetto (fase preliminare, ma la procedura non è ancora iniziata, serve solo per
spingere il debitore a adempiere. Si esegue quindi la notificazione al debitore dell’“atto di pignoramento
immobiliare” così formato, in cui si indicano esattamente, con gli estremi richiesti dal cc (art 2826) per
l’individuazione dell’immobile ipotecato, i beni e i diritti immobiliari che si intendono sottoporre a
esecuzione, e gli si fa l’ingiunzione prevista dall’art 492cpc, che deve essere sottoscritta dal creditore a
pena di nullità del pignoramento. Si deve indicare la natura del bene, il comune in cui si trova e tutti i dati
che identificano catastalmente l’immobile. La trascrizione dell’atto deve avvenire nei pubblici registri
immobiliari, e può essere eseguita o dallo stesso creditore procedente o dall’ufficiale giudiziario. Secondo la
giurisprudenza prevalente il pignoramento è perfetto ed efficace con la notificazione al debitore dell’atto di
pignoramento immobiliare, e la trascrizione ha una finalità di pubblicità dichiarativa nei riguardi dei terzi
(altrimenti anche dopo la notifica del pignoramento il debitore potrebbe disporre liberamente del suo
bene, con atti di disposizione che sarebbero efficaci anche nei confronti del creditore). La trascrizione in
questione ha un’efficacia di vent’anni, che può essere rinnovata prima della scadenza con nota da
presentare al conservatore dei registri immobiliari. Secondo la cassazione la scadenza del termine è
rilevabile d’ufficio, non può essere sanata con la rinnovazione postuma e travolge il pignoramento e il
processo esecutivo eventualmente iniziato.
A questo punto il creditore procedente deve iscrivere al ruolo la procedura così iniziata, cioè entro i 15
giorni dalla data in cui l’ufficiale giudiziario consegna al creditore l’atto di pignoramento, deve depositare
presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione (è competente il tribunale del luogo in cui si trova
l’immobile), l’atto di pignoramento e la nota di trascrizione, insieme al titolo esecutivo e al precetto. Il
cancelliere formerà il fascicolo d’ufficio. La cosa importante è che l’iscrizione avvenga entro questo
termine, perché il mancato rispetto è sanzionato con l’inefficacia del pignoramento. Quindi ulteriore causa
di inefficacia del pignoramento è collegata all’omessa iscrizione al ruolo della procedura entro il termine. Il
creditore procedente (e solo lui può dare impulso a ciò) può sottoporre congiuntamente e
contemporaneamente a pignoramento l’immobile e i mobili che lo arredano: ci sono due pignoramenti che
vengono poi congiunti e depositati presso la cancelleria del tribunale. Il creditore garantito da ipoteca non
può espropriare altri beni se non pignora quelli ipotecati, inoltre se il creditore garantito estenda il
pignoramento a beni immobili non ipotecati il giudice dell’esecuzione può disporre la riduzione o
sospendere la vendita di questi in attesa che si vendano quelli ipotecati. Le norme sulla custodia dei beni
pignorati, gli articoli 559 e 560cpc sono stati modificati negli ultimi anni. L’art 559 afferma che con il
pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e di tutti gli accessori, comprese le
pertinenze e i frutti senza diritto a compenso (custodia ope legis che si basa sul presupposto che il debitore
occupi quell’immobile, perché vi abita o per attività professionale). Quindi il debitore è soggetto alle norme
che disciplinano la custodia ma non ha diritto al compenso. Vi sono però casi in cui la legge prevede che sia
costituito custode un altro soggetto: per istanza del creditore procedente o di uno intervenuto (munito di
titolo esecutivo); quando l’immobile non sia occupato dal debitore (anche ex officio); nel caso in cui il
debitore nominato custode non adempie agli obblighi a cui è soggetto, anche ex officio, e in tal caso la
custodia è affidata all’incaricato della vendita. L’ordinanza con cui il giudice procede è sempre non
impugnabile, ma secondo Monteleone la non impugnabilità esclude solo la modifica o la revoca
dell’ordinanza, ma resta la possibilità di proporre opposizione agli atti esecutivi o all’esecuzione: si tratta di
provvedimenti che possono incidere sui diritti delle parti non altrimenti impugnabili e se così non fosse si
violerebbe l’art 24 Cost. Una volta che il giudice dell’esecuzione pronuncia l’ordinanza che autorizza la
vendita, o dispone la delega per le relative operazioni, nominerà come custode sempre un soggetto diverso
dal debitore (o un professionista delegato o un istituto vendite giudiziarie). Il custode provvede alla
gestione e all’amministrazione del bene sotto la vigilanza e direzione del giudice e con le sue autorizzazioni.
Rende conto della gestione e in caso di violazione degli obblighi viene sostituito. È rimasta invariata la
regola per cui il debitore e i suoi familiari con lui conviventi, non perdono possesso dell’immobile e delle
sue pertinenze fino al decreto di trasferimento. Questo in concreto significa che il giudice fin quando non
abbia emesso il decreto di trasferimento in favore dell’aggiudicatario, cioè colui che comprerà all’asta il
bene pignorato, debitore e coloro che con lui convivono mantengono il diritto di abitare nell’immobile.
Prima del decreto di trasferimento il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato;
questa regola non si applica solo nel caso in cui il debitore non adempia ai suoi obblighi. Il decreto di
trasferimento contiene anche l’ingiunzione per il debitore di lasciare l’immobile. Il legislatore per cercare di
velocizzare la fase di rilascio, nel 2020 ha previsto che dopo la notifica o la comunicazione del decreto di
trasferimento, corredato dall’ordine di rilascio, il custode (che non è più comunque il debitore) su istanza
dell’aggiudicatario, entro 120gg da questa, può attuare l’ordine di liberazione senza l’osservanza delle
formalità previste per il rilascio coattivo dell’immobile. Quindi se il debitore non rilasciava immediatamente
l’immobile in favore dell’aggiudicatario, in passato si doveva aprire un ulteriore procedura esecutiva, cioè
quella per il rilascio coattivo, allo scopo di far ottenere il possesso dell’immobile all’aggiudicatario. Questa
ulteriore procedura oggi non è più necessaria, perché questa norma dice che il custode può attuare l’ordine
di liberazione dell’immobile senza fare ricorso alla procedura per il rilascio coattivo dell’immobile, quindi,
previa autorizzazione del giudice dell’esecuzione può avvalersi della forza pubblica per far lasciare
l’immobile dal debitore.

§2 IL CONCORSO DEI CREDITORI


L’art 561 disciplina il caso dei pignoramenti sullo stesso bene contro lo stesso debitore, che è una forma di
concorso dei creditori. Si ricava dalle iscrizione nei pubblici registri, e quando si verifica il conservatore ne fa
menzione nella nota di trascrizione che restituisce al creditore pignorante o all’ufficiale giudiziario. È
equiparato all’intervento. Se sono pignorati altri beni si svolge un distinto processo esecutivo, altrimenti
l’esecuzione si svolge in un unico processo anche se ogni pignoramento conserva la propria autonomia. Il
meccanismo di riunione opera automaticamente, ma se non dovesse funzionare il giudice dell’esecuzione
in qualunque sede ne ordina di ufficio la riunione con provvedimento che non ha funzione e natura
esecutiva.

Non è più ammesso l’intervento di creditori sottoposti a termine o condizione, ma devono essere tutti
(salve le dovute eccezioni) muniti di titolo esecutivo. Il ricorso del creditore interveniente (proposto tramite
difensore legalmente esercente) da diritto a partecipare alla distribuzione del ricavato e a provocare i
singoli atti espropriativi. L’intervento è tempestivo se attuato anteriormente alla prima udienza di
autorizzazione della vendita dell’immobile e dà diritto a partecipare alla distribuzione del ricavato in
condizione di parità con gli altri creditori (salvi i diritti di prelazione). È tardivo se fatta dopo, ma sempre
prima della udienza indetta per l’approvazione del progetto di distribuzione del ricavato. In questo caso il
creditore verrà soddisfatto successivamente ai creditori intervenuti tempestivamente (non vale per i crediti
assistiti da ipoteca o privilegio).

§3 LA NUOVA DISCIPLINA DELLA VENDITA FORZATA

La regola generale è che entro 45 giorni dall’eseguito pignoramento ma non prima di 10 giorni il creditore
pignorante (o un creditore intervenuto) deve presentare istanza di vendita o assegnazione. Entro i
successivi 60 giorni il creditore istante deve depositare una serie di documenti (Estratto del catasto,
certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato, effettuate nei 20 anni anteriori alla
trascrizione del pignoramento-documentazione sostituibile con una certificazione notarile attestante le
risultanze catastali e quelle dei registri immobiliari). Il termine per il deposito è perentorio, sanzionato con
l’inefficacia del pignoramento dichiarabile anche di ufficio con ordinanza da parte del giudice
dell’esecuzione, dopo aver sentito le parti. Se non ci sono altri beni pignorati, in questo caso, il giudice
dell’esecuzione dichiara anche l’estinzione dell’intero processo esecutivo. Il termine di 60 giorni può essere
prorogato una volta e per non più di 60 giorni su istanza dei creditori o dell’esecutato per giusti motivi. Se il
giudice, invece, ritiene che la documentazione allegata sia insufficiente, assegna un ulteriore termine di 60
giorni per fare le dovute integrazioni, la cui infruttuosa scadenza produce le stesse conseguenze.

Una volta che si è depositata tutta questa documentazione, entro i successivi 15gg il giudice dell’esecuzione
nomina il perito estimatore (tecnico che valuterà l’immobile), che presta giuramento mediante
sottoscrizione del verbale di accettazione dell’incarico in cancelleria. Il consulente non solo fa una
valutazione di mercato del bene ì, ma inserisce anche tutti i dati per la sua identificazione, esamina la
documentazione allegata all’istanza di vendita segnalandone al giudice eventuali difetti. Invia la relazione ai
creditori e al debitore almeno 30 giorni prima dell’udienza di autorizzazione a vendita e questi possono
muovere osservazioni depositando apposite note da inviare all’esperto almeno 15 giorni prima detta
udienza in modo da poter fornire chiarimenti. Il termine entro cui deve depositare la sua relazione è fissato
dal giudice e questa è pubblicata insieme all’avviso di vendita e all’ordinanza del giudice dell’esecuzione
sugli appositi siti internet.

Il giudice con il provvedimento di nomina dell’esperto fissa l’udienza per la comparizione delle parti e dei
creditori. Tra il provvedimento e la data fissata per l’udienza non dovrebbero intercorrere più di 90 giorni
(termine ordinatorio). L’udienza di autorizzazione alla vendita costituisce il termine ultimo per l’intervento
dei creditori. All’udienza il giudice dispone la vendita dell’immobile pignorato e fissa le sue modalità
esecutive, potendo anche stabilire che il pagamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario avvenga
rateizzato in non più di dodici mesi. La regola generale è la vendita senza incanto, mentre quella con
incanto è disposta solo quando il giudice ritenga che si possa realizzare un prezzo superiore alla metà del
valore dell’immobile pignorato con questa. Se non ci sono opposizioni o su di esse si è raggiunto un accordo
il giudice dispone la vendita, altrimenti il giudice decide le opposizioni con sentenza e quindi emette
l’ordinanza di vendita. L’ordinanza che dispone la vendita è oggetto di una pubblicità prescritta dalla legge,
in modo che chiunque sia interessato alla vendita di un immobile oggetto a procedura espropriativa possa
venire a conoscenza di tutti gli elementi che possano interessare. Una volta che ha proceduto con
quest’udienza di disposizione alla vendita e ha pubblicizzato adeguatamente l’ordinanza, incarica delle
relative operazioni il professionista o l’istituto delegato. Si sono delle direttive ministeriali per quanto
riguarda le tecniche per la pubblicazione degli avvisi e il difetto di pubblicità comporta nullità della vendita
forzata ed estinzione del processo esecutivo.

Eseguita la pubblicità e la notifica ai creditori iscritti ma non intervenuti (la mancanza dà facoltà al creditore
pregiudicato non avvisato di agire per il risarcimento del danno contro il responsabile dell’omissione).
Ammessi a proporre offerte di acquisto sono tutti tranne il debitore, per espressa previsione di legge, e i
creditori (per evitare la sostanziale violazione del patto commissorio). Le offerte si fanno in busta chiusa da
depositarsi in cancelleria e consistono in una dichiarazione contenente l’indicazione del prezzo, tempo e
modo di pagamento e ogni elemento utile per la sua valutazione comparativa. È inefficace (e l’inefficacia è
rilevabile d’ufficio) se perviene oltre il termine indicato nell’ordinanza o se il prezzo è inferiore di oltre un
quarto rispetto al prezzo base in essa stabilito o se l’offerente non presta cauzione superiore al decimo del
prezzo proposto. L’offerta è irrevocabile, a meno che il giudice ordini l’incanto o siano trascorsi più di 120
giorni dalla sua presentazione senza che sia stata accolta. All’udienza fissata il giudice, sentite le parti e i
creditori iscritti e non intervenuti, delibera sulle offerte. Se l’offerta è pari o superiore al valore
dell’immobile stabilito nell’ordinanza è accolta, se è inferiore fino a un quarto è accolta se il giudice ritenga
che non ci siano serie possibilità di ottenere un prezzo superiore con una nuova vendita, se vi sono più
offerte è assegnato al migliore offerente. Se ha esito positivo i giudice stabilisce con decreto modo e
termine per il versamento del prezzo. Una volta che si sono concluse le operazioni di vendita,
l’aggiudicatario dovrà versare il prezzo nel termine e nei modi fissati nell’ordinanza di vendita. Ma se
l’aggiudicatario non adempie si applica l’art. 587: se non versa il prezzo stabilito nell’ordinanza che dispone
la vendita, o anche una sola delle rate eventualmente previste dal giudice dell’esecuzione, questi lo dichiara
decaduto. L’altra conseguenza è che la cauzione versata dall’aggiudicatario viene a far parte della massa
attiva da distribuire tra i creditori concorrenti, e quindi viene persa dall’aggiudicatario a titolo di multa. E
siccome l’immobile non è ancora stato venduto, si procederà a una nuova vendita forzata. Se però il prezzo
che se ne ricava unito alla cauzione conquistata, è inferiore a quello della vendita precedente,
l’aggiudicatario inadempiente dovrà versare la differenza. Se invece l’aggiudicatario adempie, il giudice
pronuncia decreto di trasferimento in suo favore, e questo sarà corredato con l’ordine di rilascio
(costituisce titolo esecutivo).

La vendita all’incanto, caratterizzata da maggiore solennità e dal pubblico svolgimento, ha inizio con la
pubblicazione dell’ordinanza che la dispone e deve contenere tutte le indicazioni necessarie o utili perché
possa aggiudicarsi immediatamente il bene. È sottoposta comunque a pubblicità e il suo esperimento è
ipotetico e condizionato dall’insuccesso della vendita senza incanto. L’ordinanza che la dispone deve
contenere tutte le informazioni previste all’art 576 c.p.c. Le offerte possono farsi personalmente, a mezzo
di mandatario munito di procura speciale o per persona da nominare se si tratta di avvocato. Non sono
efficaci se non superano il prezzo base o quello precedente aumentato della misura indicata nell’ordinanza.
Ogni offerente cessa di essere impegnato quando la sua offerta sia superata da una successiva e dopo ogni
offerta si deve attendere tre minuti, in mancanza di offerte in questo tempo l’immobile viene aggiudicato
all’ultimo offerente. Potrebbero sempre intervenire ulteriori offerte in aumento, ma se ciò non accade
l’aggiudicatario deve versare il prezzo e le spese di vendita nei termini e modi fissati nell’ordinanza e
consegnare al cancelliere i documenti comprovanti il pagamento. È possibile stipulare un finanziamento
bancario garantito da ipoteca di primo grado sul bene per pagare il prezzo di aggiudicazione. Pagato il
prezzo il giudice emette il decreto di trasferimento del bene che comporta la cancellazione della
trascrizione del pignoramento, delle iscrizioni ipotecarie, l’ingiunzione al debitore o al custode di rilasciare il
bene, è titolo per la trascrizione nei pubblici registri e titolo esecutivo contro chiunque possieda o detenga
l’immobile. Secondo la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria l’aggiudicazione ha solo efficacia
obbligatoria mentre l’effetto traslativo si produce con il decreto di trasferimento. Quest’ultimo, come atto
esecutivo, non è impugnabile in cassazione ex art 111 Cost, ma con opposizione agli atti o con azione di
accertamento. La cauzione deve essere restituita all’offerente non aggiudicatario dopo la chiusura
dell’incanto ma se non ha partecipato all’asta senza comprovato e giustificato motivo perde il decimo della
cauzione. Potrà però impugnare con ogni mezzo tale provvedimento del giudice.

Dopo l’incanto possono essere fatte offerte di acquisto nel termine perentorio di 10 giorni, il cui prezzo
deve superare almeno di un quinto quello raggiunto nell’incanto. Si fanno con deposito ex art 571,
prestando cauzione pari al doppia di quella versata per l’incanto. Il giudice, verificata la regolarità delle
offerte, indice la gara della quale il cancelliere deve dare pubblico avviso e comunicazione
all’aggiudicatario, poi fissa il termine perentorio entro il quale si possono fare ulteriori offerte. Alla gara
possono partecipare, oltre agli offerenti in aumento, l’aggiudicatario, gli offerenti del precedente incanto
che abbiano integrato la cauzione(sembra non ammettere la partecipazione di altri). Se nessuno egli
offerenti in aumento partecipa l’aggiudicazione precedente diventa definitiva e ciò comporta la perdita
della cauzione salvo il documentato e giustificato motivo.

L’inadempienza dell’aggiudicatario che non adempie ai suoi obblighi nel termine stabilito dal giudice nel
decreto emesso in caso di vendita senza incanto, comporta che il giudice dichiara con decreto la decadenza
dello stesso, comunicato all’aggiudicatario dal cancelliere. Con esso è fissata l’udienza per l’audizione delle
parti per deliberare in merito ad una nuova vendita. Contro questo decreto è proponibile opposizione agli
atti esecutivi. Nello stesso provvedimento il giudice pronuncia la perdita della cauzione a titolo di multa,
anche se non si tratta di una perdita definitiva: la responsabilità consiste nel dare l’eventuale differenza che
c’è tra il prezzo che aveva offerto ma non versato e quello per cui viene venduto il bene a cui si somma il
prezzo della cauzione. Il giudice dell’esecuzione pronuncia quindi decreto di condanna al pagamento delle
somme dovute, e questo è titolo esecutivo contro l’aggiudicatario decaduto a favore dei creditori, ai quali
deve versare le somme, se il nuovo prezzo di vendita è inferiore. Il decreto è impugnabile per cassazione ex
art 111 Cost.

Nell’espropriazione immobiliare l’assegnazione del bene pignorato può essere chiesta da ogni creditore
purché sia intervenuto se la vendita non ha luogo. Si tratta di assegnazione sostitutiva di vendita, datta al
creditore ad un prezzo predeterminato che non può essere inferiore alle spese di cauzione e ai crediti
aventi diritti di prelazione anteriore a quello dell’offerente, e comunque al prezzo base stabilito per
l’esperimento di vendita per cui si è presentata. L’istanza di assegnazione deve essere fatta 10 giorni prima
dell’udienza fissata per la vendita. Il creditore può fare istanza di assegnazione a favore di un terzo. Se ci
sono più domande di assegnazione il giudice provvede su di esse e fissa il termine entro cui deve versare
l’eventuale conguaglio. Se non c’è differenza tra il valore del bene e il credito questo non deve versare
nulla. Alla distribuzione del conguaglio partecipano gli altri creditori, se non ce ne sono va al debitore
escusso. Se invece dopo l’incanto andato a vuoto nessun creditore chieda l’assegnazione il giudice può
ordinare che un altro incanto anche mutando le condizioni di vendita, altrimenti può disporre
l’amministrazione giudiziaria dell’immobile.

In caso di estinzione o chiusura anticipata del processo esecutivo avvenuta dopo l’aggiudicazione anche
provvisorio, o l’assegnazione, si anticipano l’aggiudicazione o l’assegnazione sebbene non ancora
perfezione con il decreto di trasferimento, e i loro effetti.

Il giudice ad oggi può delegare le operazioni di vendita ad un professionista, e anzi non la dispone solo
quando creda, sentiti i creditori, di procedere egli stesso alla vendita a tutela degli interessi delle parti:
scopo della norma è accelerare le operazioni di vendita. Con l’ordinanza con cui dispone la delega il giudice
stabilisce i termini e i modi in cui deve svolgersi la vendita, con o senza incanto e dispone la revoca se non
sono rispettati, salvo che il delegato non dimostri che il mancato rispetto sia dipeso da causa a lui non
imputabile. Il delegato non può pronunciare la decadenza dell’aggiudicatario, il decreto di trasferimento, la
distribuzione del ricavato, la sospensione della vendita: sono riservati al giudice dell’esecuzione. Le somme
versate dall’aggiudicatario sono depositate presso un istituto di credito o un conto postale designato dal
giudice dell’esecuzione. Il professionista delegato può rivolgersi al giudice in caso di difficoltà, che provvede
con decreto. Le parti possono impugnare con ricorso al giudice gli atti compiti dal professionista. Il ricorso
delle parti non comporta la sospensione che però può essere disposta dal giudice.

Distribuzione del ricavato -> se vi è un solo creditore procedente non vi sono problemi, perché in questo
caso il giudice dell’esecuzione, d’ufficio, gli attribuisce quanto gli spetta (sorte, capitale, interessi e spese)
dopo avere sentito il debitore. Se invece vi sono più creditori, il giudice dell’esecuzione o il professionista
delegato provvede, sempre d’ufficio, entro 30gg dal versamento del prezzo dell’aggiudicatario che ha
adempiuto, a formare il piano di riparto che dev’essere depositato in cancelleria. Di questo deposito
dev’essere data comunicazione ai creditori, e il giudice deve fissare un’udienza per l’audizione di tutte le
parti, compreso il debitore. Tra la comunicazione e l’udienza devono intercorrere minimo 10 giorni. Il
progetto può essere suddiviso in due parti: graduazione, cioè collocazione dei vari creditori concorrenti
sulla base dei diritti di prelazione che eventualmente hanno; e poi vi è la liquidazione che serve per capire
in concreto quali somme andranno attribuite a ogni singolo creditore che ha partecipato. Se le parti non
compaiono all’udienza per la discussione del progetto, e questo non dipenda da irregolarità della
comunicazione, il progetto si intende approvato e il giudice ordina il pagamento delle singole quote. Stessa
cosa se le parti si presentano all’udienza ma non hanno nulla da ridire sul piano di riparto. In udienza i
creditori possono anche raggiungere un accordo che modifichi il piano predisposto e il giudice deve
prenderne atto. Stessa Potrebbe però accadere che in sede di riparto sorgano le contestazioni inerenti o
alla graduazione o alla liquidazione, ma in questo caso si applicherà l’art 512cpc. Il provvedimento sulla
distribuzione è impugnabile per vizi formali con opposizione agli atti esecutivi.

FORME PARTICOLARI DI ESPROPRIAZIONE

L’Art 599cpc ammette il pignoramento di un bene indiviso e quindi, della quota ideale di un bene indiviso. Il
presupposto in questo caso è che il debitore escusso sia comproprietario o contitolare di altro diritto reale
su un certo bene e che il suo creditore particolare voglia espropriare la sua quota; non può espropriare
anche le quote degli altri perché questi non sono obbligati nei suoi confronti. Non sorgerebbe alcun
problema se invece tutti i comproprietari fossero obbligati verso il creditore, potendosi in questo caso
pignorare l’intero bene nei modi ordinari. Per conseguire questo risultato occorre anzitutto evitare che i
comproprietari colludano con il debitore per attuare una divisione in pregiudizio del creditore. Quando
oggetto della comunione è un’universalità di beni (es l’eredità) prima della pignorazione deve procedersi
alla divisione, mentre il procedimento non è esperibile quando la legge vieta lo scioglimento della
comunione (es beni condominiali) Eseguito il pignoramento, il creditore pignorante deve notificare
apposito avviso agli altri comproprietari con atto sottoscritto dallo stesso creditore pignorante, con
l’indicazione di costui, del bene, della data di pignoramento, della trascrizione (se immobile) e il divieto di
lasciare che il debitore separi la sua parte senza ordine del giudice; contiene anche l’avviso a tutti gli
interessati (non solo ai comproprietari) di comparire davanti al giudice dell’esecuzione. Una volta che il
creditore procedente ha pignorato la quota ideale spettante al debitore, si svolge un’udienza davanti al
giudice dell’esecuzione, in cui dovranno comparire tutti gli interessati. L’atto di avviso non è un elemento
costitutivo del pignoramento. Le forme del pignoramento sono quelle inerenti alla natura del bene
(mobiliare o immobiliare: se si tratta di credito non si applicano queste norme, potendo il creditore
pignorare nei modi ordinari la quota del debitore).
Il giudice sentirà tutte le parti e provvederà alla separazione in natura della quota che spetta al debitore
purché sia richiesta o materialmente possibile. Se questa non può avvenire il giudice può ordinare la
vendita della quota indivisa, se ritiene che questa avvenga ad un prezzo pari o superiore al valore stimato
della stessa ovvero disporre che si proceda alla divisione secondo le norme del Codice civile: si aprirà un
processo di cognizione che avrà ad oggetto la divisione giudiziale del bene, il cui atto introduttivo sarà
l’ordinanza che dispone la divisione. In quest’ultimo caso l’esecuzione è sospesa perché bisogna aspettare
che sulla divisione intervenga o un accordo delle parti o una pronuncia del giudice avente i requisiti di cui
all’art 627cpc. È l’unico caso di sospensione del processo esecutivo previsto espressamente dalla legge, gli
altri casi che esistono sono previsti su istanza dell’interessato. Una volta che avviene la divisione, la vendita
o l’assegnazione dei beni attribuiti al debitore ha luogo secondo le norme contenute nei capi precedenti. La
peculiarità in questo caso è che trattandosi della quota ideale di un bene indiviso, bisogna procedere alla
separazione. Il creditore non va a pignorare tutto il bene indiviso. Se tutte le parti non sono presenti
all’udienza il giudice fissa una nuova udienza di comparizione e onere le parti a notificare il provvedimento
a quelle non comparse. L’inosservanza del termine comporta l’estinzione del processo esecutivo.

Espropriazione contro il terzo proprietario: artt. 602-604cpc. L’espropriazione è condotta sempre verso il
debitore però ha ad oggetto, legittimamente, un bene che è di proprietà del terzo; che quindi subisce
l’azione esecutiva pur essendo estraneo al rapporto obbligatorio che è presupposto del pignoramento.
Questo perché il terzo è gravato da responsabilità per un debito altrui, nelle due ipotesi previste dall’art
602: o il bene pignorato è gravato da pegno, ipoteca o privilegio con sequela a favore del creditore
procedente, perché il terzo ha acquistato il bene già onerato oppure perché lui stesso ha fornito la garanzia
reale sul bene; oppure quando l’alienazione del bene da parte del debitore al terzo sia stata revocata per
frode, e quindi dichiarata inefficacie nei confronti del creditore. il terzo non risponde di nulla ma subisce
l’esercizio del diritto reale altrui che limita quello proprio. Il titolo esecutivo e precetto devono essere
notificati anche al terzo proprietario e nel precetto dev’essere fatta espressa menzione del bene del terzo
che si intende espropriare. Questa notificazione serve semplicemente per informare il terzo che si intende
procedere a esecuzione forzata. Il pignoramento e i successivi atti espropriativi si compiono nei confronti
del terzo, al quale si applicano tutte le disposizioni relative al debitore, salvo il divieto di presentare offerta
di acquisto del bene subastato. Ogni volta che dev’essere sentito il debitore, andrà sentito anche il terzo, il
quale è legittimato anche a proporre tutte le opposizioni che può proporre il debitore, tranne quella di cui
all’art 619cpc (opposizione di terzo), proprio perché la procedura esecutiva in questo caso ha
legittimamente ad oggetto un bene che è di proprietà del terzo.

L’ESECUZIONE DIRETTA (C.D. IN FORMA SPECIFICA) LE MISURE DI COERCIZIONE DIRETTA

§L’ESECUZIONE PER CONSEGNA O RILASCIO

Il Codice civile accomuna sotto il titolo di esecuzione in forma specifica dei procedimenti esecutivi
particolari, e indica i presupposti di questi. Abbiamo: l’art 2930cc “esecuzione forzata per consegna o
rilascio”. Se non è adempiuto l’obbligo di consegnare una cosa determinata, mobile o immobile, l’avente
diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzati a norma delle disp del cpc; l’art 2931cc “esecuzione
forzata degli obblighi di fare”, se non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può ottenere che esso
sia a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal cpc; l’art 2932cc che non tratta di un procedimento
esecutivo vero e proprio ma dà la possibilità di ottenere una pronuncia giurisdizionale che valga come il
contratto concluso; l’art 2933cc “esecuzione forzata degli obblighi di non fare”, se non è adempiuto un
obbligo di non fare l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è stato
fatto in violazione dell’obbligo. Non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può
conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa è pregiudizio per l’economia nazionale.

Nel Codice di procedura civile la materia è trattata nel libro III, Titoli III e IV e comprende due procedimenti
distinti, uno di consegna di bene mobile o rilascio di bene immobile e una per gli obblighi di fare o non fare.
L’esecuzione per consegna o rilascio deve essere preceduta dalla notifica del titolo esecutivo e del precetto
all’obbligato. Il precetto per consegna di beni mobili o per rilascio di beni immobili deve contenere, ex art
605, oltre alle indicazioni di cui all’art 480 (forma del precetto), anche la descrizione sommaria dei beni
stessi, a meno che non siano contenuti nel titolo. Se il titolo esecutivo dispone circa il termine della
consegna o del rilascio, l’intimazione va fatta con riferimento a tale termine. Il titolo esecutivo esplica i suoi
effetti contro qualunque terzo si trovi nel possesso o nella detenzione dei beni sa rilasciare o consegnare.

L’esecuzione per consegna non è un’espropriazione, la quale comporta il passaggio della proprietà di un
bene da un soggetto all’altro, ma di consegna, appunto, quindi di immissione coattiva nel possesso del
soggetto con la contestuale perdita della detenzione abusiva altrui. Il giudice competente è il tribunale in
composizione monocratica del luogo dove si trovano i beni e la sua investitura concerta si ha quando sarà
richiesto il suo ufficio per dettare provvedimenti temporanei o in seguito alla proposizione di opposizioni di
merito o di forma (non subito, quindi). Decorso il termine indicato nel precetto, l’ufficiale giudiziario,
munito del titolo esecutivo e del precetto si reca sul luogo in cui le cose si trovano e le ricerca a norma
dell’art 513 (ricerca a norma del pignoramento dell’espropriazione mobiliare); ne fa consegna alla parte
istante o a persona da lei designata (art 606). Se le cose da consegnare sono pignorate la consegna non può
aver luogo, e la parte istante deve far valere le sue ragioni tramite opposizione di terzo all’esecuzione.
Questo significa che l’esecuzione per consegna non dà luogo a concorso con i creditori ed è estranea alla
responsabilità-garanzia patrimoniale e alle obbligazioni in senso proprio; che il soggetto procedente è
considerato dalla legge come il proprietario o il titolare di un diritto reale dul bene.

La procedura dell’esecuzione per rilascio dell’immobile inizia con la notificazione, a cura dell’ufficiale
giudiziario, dell’atto di avviso a chi deve rilasciare l’immobile con cui si avvisa del giorno e dell’ora in cui
l’ufficiale giudiziario si recherà per far rientrare nel possesso dell’immobile il suo proprietario: quel giorno si
recherà sul posto e immetterà l’avente diritto nel possesso dell’immobile nei modi più idonei, e per farlo
può avvalersi dei poteri attribuitegli ex art 513 (ricercare, aprire, ecc.) e richiedere l’assistenza della forza
pubblica. Se nell’immobile ci sono terzi detentori il cui diritto non sia incompatibile con quello del soggetto
procedente (es immobile locato) vengono ingiunti a riconoscere il nuovo possessore. L’esecuzione si
estingue se la parte istante, prima della consegna o del rilascio, rinuncia con atto da notificarsi alla parte
esecutata e da consegnarsi all’ufficiale giudiziario procedente. C’è una procedura complessa per il caso in
cui l’inquilino lasci l’immobile ma al suo interno rimangano beni mobili, regolata dall’art 609-bis. Se nel
corso dell’esecuzione sorgono difficoltà che non ammettono dilazione, ciascuna parte può chiedere al
giudice dell’esecuzione, anche verbalmente, i provvedimenti temporanei occorrenti. L’ambito di
applicazione sono quelle difficoltà materiali che si frappongono all’esecuzione e sfuggono ai poteri
dell’ufficiale giudiziario. Se il giudice si limita a queste, il provvedimento può essere impugnato solo con
opposizione agli atti esecutivi o opposizione a decreto ingiuntivo (a meno che non si pronunci anche su
controversie giuridiche, nel qual caso ha contenuto sostanzialmente decisorio ed è impugnabile). Di tutte le
operazioni deve essere redatto, processo verbale, in cui l’ufficiale giudiziario specifica anche tutte le spese
anticipate dalla parte istante. La liquidazione delle spese è fatta dal giudice dell’esecuzione con decreto.

§2 L’ESECUZIONE DI BBLIGHI DI FARE E DI NON FARE

L’ambito di applicazione sono le sentenze di accertamento con funzione esecutiva, infatti l’obbligo di fare o
non fare non è inerente ad un rapporto obbligatorio ma a diritti reali/assoluti, che si assumono violati.
Anche perché il rimedio in caso di non adempimento la tutela giurisdizionale si esplica con le sentenze di
condanna e con l’espropriazione forzata per mezzo della garanzia-responsabilità patrimoniale.

Chi vuole ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di fare o
non fare deve intanto notificare il precetto. Se non vi sia adempimento spontaneo l’interessato deve
chiedere con ricorso al giudice dell’esecuzione competente (quello del luogo dove devono compiersi le
attività esecutive) che siano determinate le modalità dell’esecuzione. Questa inizia quindi con il deposito
del ricorso nella cancelleria del giudice dell’esecuzione. Quest’ultimo provvede, sentita la parte obbligata
con ordinanza, nella quale designa l’ufficiale giudiziario che deve procedere all’esecuzione e le persone che
devono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta. Se vi sono
difficoltà di ordine pratico, materiale, nel corso dell’esecuzione l’ufficiale giudiziario si fa assistere dalla
forza pubblica e deve chiedere al giudice le opportune disposizioni per eliminare le difficoltà. Il giudice
provvede con decreto, ma può anche emettere ordinanza se ritiene opportuno ascoltare tutte le parti in
contraddittorio sulle difficoltà insorte e sui modi per superarle. Se il giudice con tale provvedimento
dovesse decidere questioni di carattere giuridico, non sarebbe più un decreto ma una sentenza appellabile,
fermo restando le eventuali opposizioni all’esecuzione. Al termine dell’esecuzione la parte istante presenta
al giudice dell’esecuzione la nota delle spese anticipate vistata dall’ufficiale giudiziario, con domanda di
decreto di ingiunzione. Il giudice provvede con decreto. È un’ipotesi di liquidazione giudiziale del
risarcimento in forma specifica.

§3 MISURE DI COERCIZIONE INDIRETTA

Le misure di coercizione indiretta (art 614-bis) sono sanzioni date nel nostro ordinamento all’avente diritto,
per gli obblighi infungibili, cioè quando gli obblighi di fare o non fare non fossero surrogabili, cioè non
possono essere soddisfatti ricorrendo al giudice dell’esecuzione, è situata al di fuori dei procedimenti
esecutivi veri e propri. La disposizione fu introdotta nel 2009, riprendono l’astreintes francese. L’art 614-bis
non si applica ai rapporti di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa. Si tratta della
facoltà del giudice, su istanza dell’interessato, di imporre all’obbligato il pagamento di una o più somme di
denaro se egli non esegua spontaneamente i dettami di un provvedimento giudiziario di condanna.
L’istanza può essere fatta in qualsiasi momento. Si può distinguere una duplice funzione della misura
coercitiva: dal lato dell’obbligato, ha la funzione di spingerlo a adempiere all’obbligo nel più breve tempo
possibile, da quello dell’avente diritto ha natura di risarcimento del danno derivante da inadempimento:
altrimenti, si potrebbe dire che queste misure coercitive hanno introdotto nel nostro ordinamento i danni
punitivi, quantificati in maniera autonoma rispetto al danno effettivamente subito. Il giudice, quindi, deve
tenere conto del risarcimento del danno quantificato o prevedibile. Ma in un eventuale giudizio di
risarcimento del danno, si dovrebbe tenere in considerazione, nella quantificazione complessiva dei danni,
anche quanto ricevuto dall’obbligato a titolo di astreinte. In merito vi sono state due pronunce della corte
di Cassazione: una afferma che non possano trovare ingresso nel nostro ordinamento i danni punitivi,
perché sono delle somme pagate ulteriormente, a titolo di danni, ma che non corrispondono al danno
effettivo bensì a una sanzione per il danneggiante. Una seconda sentenza invece afferma orientamento
parzialmente discordante. Se l’obbligato persiste nell’inadempimento l’obbligazione primaria e quella
aggiuntiva possono soddisfarsi solo con espropriazione forzata.

LE OPPOSIZIONI NEL PROCESSO ESECUTIVO (in generale, se l’opposizione è proposta in forma diversa è
irrilevante purché possieda i requisiti per raggiungere lo scopo)

L’esecuzione forzata, in tutte le sue forme, ha uno scopo ben preciso, cioè realizzare coattivamente il diritto
rispecchiato nel titolo esecutivo. Le diverse procedure disciplinate dalla legge sono scandite da una serie di
passaggi rimessi all’iniziativa della parte interessata, che non incontra ostacolo nella volontà del soggetto
passivo. L’esecuzione forzata potrebbe essere illegittima, nell’an, cioè per quanto riguarda il diritto a
procedere, ovvero nel quomodo, cioè nelle modalità formali con cui si procede. In generale per denunciare
l’illegittimità, formale o sostanziale, dell’esecuzione forzata l’ordinamento prevede alcuni rimedi: le
opposizioni nel processo esecutivo. Questi rimedi danno ingresso a dei veri e propri processi di cognizione
che incidono sulla procedura esecutiva e che sono espressione del principio del contraddittorio, sono
regolati da questo.

§1 L’OPPOSIZIONE DEL DEBITORE ALL’ESECUZIONE


L’opposizione all’esecuzione è il rimedio che la legge processuale concede al soggetto passivo della
procedura esecutiva, sia esso debitore o obbligato, volto a contestare il diritto a procedere a esecuzione
forzata ovvero a pignorare determinati beni: in sostanza serve a impedire l’espropriazione forzata quando
sia contraria alle legge (per es. per beni impignorabili). Secondo Monteleone l’opposizione all’esecuzione è
uno strumento di controllo della legittimità e del fondamento dell’azione esecutiva. Il diritto a procedere
esecutivamente presuppone due condizioni correlate e distinte: titolo esecutivo ed esistenza di un diritto in
esso rispecchiato, con i caratteri previsti dall’art 474 (certo, liquido ed esigibile). Se quando si dà inizio o si
annuncia la procedura, queste due condizioni, o una di queste, non ci sono, il creditore che voglia
comunque intraprendere il procedimento esecutivo troverà come risposta una contestazione da parte del
debitore che ha ad oggetto l’an cioè il diritto di procedere ad esecuzione forzata, quindi la legittimità
sostanziale della procedura. L’opposizione ha dei limiti in relazione al suo oggetto e ai suoi fini. Se si
procede in base a un titolo giudiziale, sono precluse e inammissibili in sede di opposizione censure, ragioni,
motivi inerenti al procedimento di formazione del titolo. Se si tratta di sentenza passata in giudicato
potranno opporsi solo circostanze posteriori alla formazione della cosa giudicata (es. prescrizione,
compensazione). Se si tratta di sentenza ancora impugnabile sono preclusi tutti i motivi che possono e
devono costituite oggetto di impugnazione (ma in generale vale per tutti i titoli giudiziali contro cui la legge
prevede particolari mezzi di opposizione o rimedi processuali, come il decreto ingiuntivo: l’opposizione non
può essere usata per fare valere ragioni deducibili attraverso gli appositi rimedi esperibili contro il
provvedimento costituente titolo esecutivo). La contestazione può basarsi su ragioni formali o processuali e
sostanziali. Per i titoli extragiudiziali invece questi limiti non sussistono (in particolare per le scritture
private autenticate).

Il meccanismo processuale di questa opposizione è praticamente identico anche per le altre. La forma
dell’esecuzione è regolata dall’art 615. Si propone in modi diversi a seconda che il procedimento esecutivo
sia o meno iniziato. Se non è iniziato (quindi il debitore ha solo ricevuto titolo esecutivo e atto di precetto),
il debitore può contestare il diritto tramite opposizione a precetto (o preventiva) che si propone con
citazione davanti al giudice competente per materia, valore a norma dell’art 27cpc (generalmente si
individua per valore, tenendo conto del credito indicato nell’atto di precetto, fatti salvi i casi di competenza
per materia). Per quanto riguarda la competenza per territorio, è competente il giudice del luogo
dell’esecuzione. Nel precetto deve contenere la dichiarazione di residenza o elezione di domicilio della
parte istante: è lì che ha sede il giudice competente per l’esecuzione ed è lì che bisogna fare opposizione. In
mancanza si propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato il precetto. Quando è iniziata
l’esecuzione, l’opposizione di cui al comma precedente e quella che riguarda la pignorabilità dei beni, si
propongono con ricorso depositato presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione. L’esecuzione è
pendente, in caso di espropriazione forzata, dal pignoramento, in caso di esecuzione per consegna dalla
notifica dell’avviso con cui l’ufficiale giudiziario comunica l’accesso sui luoghi, è dubbio nel caso di
esecuzione per rilascio; se si tratta di esecuzione di obblighi di fare o non fare l’inizio è segnato dalla
presentazione del ricorso con cui si chiede al giudice la fissazione delle modalità esecutive. Il giudice,
concorrendo gravi motivi, può sospendere su istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo. Anche in sede
di opposizione a precetto, è possibile chiedere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo.

Una volta proposta l’opposizione si apre un procedimento: il giudice fissa con decreto un’udienza e onera il
ricorrente di notificare deposito del ricorso e decreto all’avversario, con termine perentorio della
notificazione. L’opposizione all’espropriazione forzata è proponibile da quando è stato notificato il
precetto. Prima era possibile fino alla fine della procedura esecutiva, oggi invece è inammissibile dopo che
è stata disposta la vendita o l’assegnazione. Dopo quest’avvenimento infatti possono sorgere solo le
controversie ex art 512cpc (opposizione agli atti esecutivi); può esserci una sovrapposizione di rimedi solo
se la parte dimostri di non averla potuta proporre per causa a lei non imputabile. Nell’udienza fissata il
giudice farà solo due cose, non sarà lui a decidere il processo di cognizione, questo si deve svolgere dinanzi
a diverso giudice. Tutte le opposizioni introdotte con ricorso, presentano una struttura bifasica: una si
svolge davanti al giudice dell’esecuzione; la seconda davanti al giudice della cognizione che, in questo caso,
ha ad oggetto il diritto a procedere ad esecuzione forzata. Il giudice dell’esecuzione all’udienza, se la parte
ha chiesto la sospensione dell’esecuzione, disporrà su quest’istanza accogliendola o rigettandola, e dopo di
che se competente per la causa è l’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice dell’esecuzione, questo
fissa un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito secondo le modalità prevista in ragione
della materia e del rito, previa iscrizione al ruolo a cura dell’interessato, osservati i termini a comparire,
ridotti della metà. Altrimenti rimette la causa all’ufficio giudiziario competente assegnando un termine
perentorio per la riassunzione della causa. Quindi il ricorso depositato non ha dato inizio al giudizio di
cognizione ma ha aperto una fase introduttiva, sommaria che mira a decidere sull’inibitoria e a fissare il
termine. La ratio di questa disposizione è consentire al debitore opponente di riflettere se effettivamente
conviene proseguire con l’introduzione del giudizio di cognizione, che può dare in fase sommaria, davanti al
giudice dell’esecuzione, un esito più o meno conveniente. Il giudice dell’esecuzione ovviamente sospende
se prima face ritiene l’opposizione fondata, al contrario rigetterà l’istanza. Quindi la ratio è stata quella di
disincentivare le opposizioni pretestuose. Il giudizio si conclude con una sentenza suscettibile di appello.

§2 L’OPPOSIZIONE AGLI ATTI ESECUTIVI

Consiste in una contestazione che può provenire sia dal debitore, ma anche dagli altri soggetti coinvolti nel
processo esecutivo perché è inerente alla regolarità formale di titolo esecutivo, precetto e dei singoli atti
esecutivi. Quindi è un rimedio con cui qualunque parte interessata nel processo esecutivo contesta il
mancato rispetto delle regole formali del titolo esecutivo, del precetto e dei singoli atti di esecuzione. Il
concetto di regolarità formale è più ampio di quello di nullità, perché vi si ricomprende l’incongruenza
dell’atto, secondo alcuni autori, secondo Monteleone le irregolarità formali e le nullità sono la stessa cosa.
L’autonomia di questo rimedio è meno marcata rispetto all’opposizione all’esecuzione, cosa che lo avvicina
a un procedimento incidentale interno. Se il titolo esecutivo è affetto da vizi tali da non essere idoneo a
dare ingresso all’esecuzione forzato non si denunciato con opposizione agli atti esecutivi ma con
opposizione all’esecuzione forzata.

Le opposizioni relative alla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto, si propongono prima che
sia iniziata l’esecuzione davanti al giudice indicato nell’art 480 terzo comma, con citazione, da notificarsi
entro il termine perentorio di 20gg, dalla notificazione del titolo esecutivo o del precetto. Se si contesta la
validità della notificazione di quelli il termine decorre dal primo atto di esecuzione. Se si contesta la
regolarità formale dei successivi atti esecutivi il termine decorre dal loro compimento o dalla loro notizia
quando la legge ne preveda la comunicazione alle parti. Se l’atto è “inesistente” il termine non opera
perché il suo decorso non sana il vizio, la nullità si riflette sugli atti successivi e l’opposizione potrà proporsi
contra tali atti. Il giudice dell’esecuzione può anche sospendere il procedimento esecutivo.

Art 618cpc: il giudice fissa l’udienza (fase preliminare e sommaria) in cui sospende se del caso la procedura
e fissa un termine perentorio, per l’introduzione del giudizio di merito previa iscrizione a cura della parte
interessata, osservati i termini ex art 163cpc, ridotti della metà. È legittimato a proporre l’opposizione agli
atti esecutivi il debitore e gli altri soggetti che vedano leso un loro interesse giuridico da un provvedimento
esecutivo irregolare.se proposta con citazione prima dell’inizio del procedimento esecutivo è rivolta contro
il creditore procedente, altrimenti il giudice dell’esecuzione fissa con decreto l’udienza di comparizione
delle parti a sé e il termine perentorio per le notificazioni del ricorso e del decreto. L’udienza fissata nel
decreto è retta dalle norme camerali, qui si emettono i provvedimenti urgenti quindi fissa un termine
perentorio per l’introduzione del giudizio di merito (scissione in due fasi, una urgente e una ordinaria).
L’inosservanza del termine comporta la caducazione dell’opposizione e la sua ulteriore improcedibilità. Il
giudizio di cognizione si chiude con sentenza non impugnabile ma ricorribile con ricorso ex art 111cost. Il
presidente del tribunale nominerà il magistrato che dovrà decidere del giudizio di cognizione. A seguito
della riforma del 2009 l’art 186 prevede che il giudizio di merito sull’opposizione agli atti esecutivi,
dev’essere trattato da un magistrato diverso da quello che ha conosciuto degli atti dell’esecuzione. La
competenza spetta sempre all’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice dell’esecuzione, ma il magistrato
persona fisica che dovrà occuparsi del giudizio dev’essere diverso dal giudice dell’esecuzione.

§3 L’OPPOSIZIONE DI TERZO

Secondo l’art 619cpc il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati, può
proporre opposizione con ricorso prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni. La proprietà
del bene pignorato non è presupposto di legittimità del pignoramento medesimo per cui se viene pignorato
un bene che non è del debitore ma di un terzo questo deve promuovere opposizione e dimostrare in
giudizio il suo diritto, altrimenti detto bene verrà espropriato e venduto come proprietà del debitore. Se
l’avente diritto procede contro il terzo ritenendolo assoggettato alla sfera di efficacia del titolo, il terzo per
respingere tali fatti deve proporre opposizione di terzo ordinaria ex art 404 contro il provvedimento
giurisdizionale, perché è da questo che deriva il suo pregiudizio, non dal procedimento esecutivo.

L’opposizione di terzo è possibile solo dopo l’eseguito pignoramento, a procedura esecutiva iniziata, perché
è rivolta a sottrarre dal pignoramento beni dei quali il terzo afferma di essere proprietario (o titolare di
altro diritto reale), quindi l’atto introduttivo sarà il ricorso. Il giudice dell’esecuzione fissa l’udienza di
comparizione e il termine perentorio per la riassunzione davanti al giudice di cognizione. Il creditore
procedente e il debitore escusso sono contraddittori necessari, quindi, questo rimedio dà luogo a un caso di
litisconsorzio necessario ex art 102. Anche qui vi è una struttura bifasica: il giudice dell’esecuzione
all’udienza decide sulla sospensione della procedura, poi se all’udienza le parti arrivano ad un accordo, ne
dà atto con ordinanza, adottando ogni altra decisione idonea ad assicurare la prosecuzione del processo
esecutivo ovvero estinguere il processo e statuisce sulle spese. Se invece vi è controversia sul punto e
occorre accertare la proprietà del terzo, il giudice dell’esecuzione fissa il termine perentorio per il giudizio
di merito, previa iscrizione a ruolo e con termini di comparizione ridotti a metà. Si dice anche che la
competenza viene stabilita in base al valore ma in realtà è competente sempre il tribunale per materia.
Considerando che il terzo sta difendendo il suo bene dal pignoramento non gli è concesso in nessun modo
contestare l’espropriazione fatta al debitore. Se in seguito all’opposizione non sospende la vendita dei beni
mobili o se l’opposizione è tardiva, cioè avviene dopo la vendita o l’assegnazione, questa si fa valere sulla
somma ricavata dalla vendita dei beni mobili ex art 620. Se invece si tratta di beni immobili il terzo conserva
integro il suo diritto che può fare valere anche contro l’acquirente della vendita forzata ottenendone la
materiale restituzione. L’opposizione è utilmente proponibile finché il denaro ricavato dalla vendita del
bene non sia stato distribuito.

Peculiarità di questo giudizio di merito vi è un divieto di prova per testimoni, sui beni mobili pignorati nella
casa o nell’azienda del debitore. La ratio è evitare accordi fraudolenti tra debitore e terzo. In deroga a
questa norma è possibile avvalersi di terzi se l’esistenza del diritto di proprietà o altro diritto reale sia resa
verosimile dalla professione o dal commercio svolti dal terzo o dal debitore. La prova della proprietà del
bene per il resto può darsi con qualunque mezzo, mentre la prova dell’affidamento del bene al debitore
deve essere provata con atto scritto con data certa anteriore al pignoramento.

§ 4 OPPOSIZIONI IN MATERIA DI LAVORO, ASSISTENZA E PREVIDENZA

L’art 618-bis estende l’opposizione alla materia di lavoro assistenza e previdenza, e si applica quando
l’esecuzione ha ad pggetto diritti ed obblighi scaturenti da rapporti giuridici dilavoro o previdenziali sulla
base di titoli di qualunque natura. L’atto introduttivo sarà sempre un ricorso, il processo si svolge secondo
gli artt. 423ss c.p.c. l’unico problema riguarda il giudice competente, anche se adesso è stabilito essere che
l’opposizione viene proposta nel corso delll’espropriazione forzata e il giudice dell’esecuzione conosce solo
la fase iniziale e poi rimette la causa al giudice di lavoro.

SOSPENSIONE ED ESTINZIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO


§1 LA SOSPENSIONE

La sospensione del processo esecutivo è disciplinata dagli artt. 623ss del cpc. Si sostanzia in un arresto
temporaneo della procedura esecutiva durante il quale nessun atto può essere compiuto salva diversa
disposizione del giudice dell’esecuzione (art 626). Il processo esecutivo, quindi, entra in uno stato di
quiescenza, dal quale può uscire grazie al meccanismo della riassunzione (art 627cpc). L’opportunità della
riassunzione è data dal volere evitare che l’esecuzione da mezzo di attuazione di un diritto si trasformi in un
atto di aggressione dei beni altrui. Vi sono 3 tipi di sospensione, ricavabili dall’art 623:

1) Sospensione automatica (prevista espressamente dalla legge): un solo caso, cioè quello
nell’espropriazione di un bene indiviso quando sorga la necessità di un giudizio di divisione del bene
(art 601cpc). Il giudice ordina la sospensione di eventuali procedimenti di espropriazione forzata in
orso sui beni del debitore in sovraindebitamento per l’omologazione del piano di eliminazione della
crisi.
2) Sospensione disposta dal giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo; si può far
rientrare anche, oltre a tutte le inibitorie previste dalla legge in sede di impugnazione, anche la
sospensione in sede di opposizione preventiva.
3) Sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione, corredata alla proposizione di un’opposizione.
Egli può sospendere anche in sede di contestazione ex art 512cpc. Quindi i presupposti per questa
sospensione sono tre: che sia stata proposta un’opposizione; che sia stata richiesta la sospensione
(quindi un’istanza di parte); e la sussistenza di gravi motivi. Sulla valutazione di questi gravi motivi il
giudice dell’esecuzione deve eseguire una valutazione prognostica sull’opposizione, cioè se ravvisa
che sia manifestatamente infondata non sospenderà la procedura esecutiva. Se invece la sospende
vuol dire che ha valutato fondata l’opposizione. Non basta che l’opposizione sia fondata per
integrare i gravi motivi, ma vi dev’essere anche una valutazione sul pregiudizio che le parti
potrebbero subire dalla sospensione della procedura ovvero dalla sua continuazione.

Se è proposta opposizione all’esecuzione, a norma degli artt. 615 e 619, concorrendo gravi motivi, il giudice
dell’esecuzione sospende, su istanza di parte, il processo con cauzione o senza (il legislatore non ha
menzionato l’opposizione agli atti esecutivi, ma l’ha inclusa nel terzo comma). Sulla sospensione il giudice
provvede con ordinanza. Contro quest’ordinanza è ammesso reclamo ai sensi dell’art 669-terdecies. È
altresì reclamabile il provvedimento di sospensione ex art 512cpc.

Nei casi di sospensione del processo, disposta si sensi del comma 1, se l’ordinanza non viene reclamata
oppure viene confermata in sede di reclamo (cioè il giudice del reclamo conferma la sospensione), quindi
l’ordinanza si cristallizza, e il giudizio di merito non è stato introdotto nel termine perentorio assegnato ai
sensi dell’art 616, il giudice dell’esecuzione dichiara con ordinanza, anche d’ufficio, l’estinzione del processo
esecutivo e ordina la cancellazione della trascrizione del pignoramento, provvedendo anche sulle spese.
Questo è stato un escamotage per indurre, se del caso l’avversario, a coltivare un giudizio di opposizione
per far accertare che la sua esecuzione è legittima. Questo perché il debitore ha ottenuto ciò che voleva,
cioè la sospensione, e quindi è probabile che non proceda oltre. È un’iniziativa che il creditore assumerà
solo se è convinto che l’opposizione verrà rigettata. È stato anche un modo per scoraggiare la prosecuzione
del giudizio di opposizione.

Una quarta sospensione è quella concordata prevista dall’art 624-bis, ovvero la sospensione su istanza delle
parti: il giudice dell’esecuzione può su istanza di tutti i creditori muniti di titolo esecutivo e sentito il
debitore, sospendere il processo fino a 24 mesi e l’istanza su può proporre fine a 20 giorni prima dalla
scadenza del termine per il deposito delle offerte di acquisto o in caso la vendita senza incanto non vada in
porto, fino a 15 giorni prima dell’incanto. Sull’istanza il giudice provvede nei dieci giorni successivi al
deposito e se l’accoglie dispone che nei cinque giorni successivi al provvedimento di sospensione lo stesso
sia comunicato al custode e pubblicato sul sito in cui è fatta la pubblicità per la cendita- può essere disposta
solo una volta ed è revocabile in qualsiasi momento per istanza anche di solo un creditore, sentito sempre il
debitore. Entro 10 giorni dalla scadenza del termine una parte interessata deve proporre istanza per la
fissazione dell’udienza in cui il processo deve proseguire. Nell’espropriazione mobiliare si può presentare
non oltre la fissazione della data di asporto dei beni o dieci giorni prima la data della vendita (sempre prima
della pubblicità se disposta). Nell’espropriazione presso terzi non può essere proposta dopo la
dichiarazione del terzo.

§2 L’ESTINZIONE

Ci sono una serie di analogie con l’estinzione del processo di cognizione. Infatti, come quest’ultima può
avvenire per rinuncia o per inattività delle parti. La rinuncia deve avvenire da parte dei creditori intervenuti
muniti di titolo esecutivo, ma in ogni caso non richiede l’accettazione del debitore. Il processo si estingue se
prima dell’assegnazione o dell’aggiudicazione, i creditori muniti di titolo esecutivo rinunciano agli atti. Dopo
questa fase invece il processo si estingue se vi è la rinuncia di tutti i creditori concorrenti (art 629).

Art 630cpc “Ipotesi di inattività delle parti”: oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, il processo
esecutivo si estingue quando le parti non lo proseguono o non lo riassumono nel termine perentorio
stabilito dalla legge o dal giudice: sono tutti quei casi in cui le parti devono compiere attività entro termini
perentori il cui compimento oltre il termine è sanzionato con l’estinzione del processo esecutivo.
L’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza dal giudice dell’esecuzione, non
oltre la prima udienza successiva al verificarsi della stessa (es mancato inizio dell’esecuzione entro i 90
giorni dalla notifica del precetto). Secondo l’art 631cpc “mancata comparizione in due consecutive
udienze”: se nel corso del processo esecutivo nessuna delle parti si presenta all’udienza, fatta eccezione per
quella in cui ha luogo la vendita, il giudice dell’esecuzione fissa un’udienza successiva di cui il cancelliere da
comunicazione alle parti. Se nessuna delle parti si presenta alla nuova udienza, il giudice dichiara con
ordinanza l’estinzione del processo esecutivo. Infine, per l’art 631-bis “omessa pubblicità sul portale delle
vendite”: se la pubblicazione sul portale delle vendite pubbliche non è effettuata nel termine stabilito dal
giudice per causa imputabile al creditore pignorante o a quello intervenuto munito di titolo esecutivo, il
giudice dichiara con ordinanza l’estinzione del processo esecutivo e si applicano le disposizioni di cui ai
commi 2 e 3 art 630cpc. Questo art non si applica quando la pubblicità sul portale non è stata effettuata
perché i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti, a condizione che tale circostanza sia
attestata a norma dell’art 161-quater disp attuative cpc.

Determinano l’estinzione anche l’infruttuoso decorso del termine di efficacia del precetto e del
pignoramento. L’estinzione è rilevabile d’ufficio ed è dichiarata non oltre la prima udienza successiva al
verificarsi della stessa. Con l’ordinanza che dispone l’estinzione è sempre disposta la cancellazione della
trascrizione del pignoramento. Con la stessa ordinanza il giudice dell’esecuzione provvede sulle spese
sostenute dalle parti, se richiesto, e alla liquidazione dei compensi spettanti all’eventuale delegato. Contro
l’ordinanza che dichiara l’estinzione o rigetta l’eccezione relativa è ammesso reclamo avverso il collegio del
tribunale stesso, da parte del debitore o del creditore pignorante o degli altri creditori intervenuti, entro
20gg (termine perentorio) dall’udienza o dalla comunicazione dell’ordinanza. Il collegio provvede in camera
di consiglio. Se l’estinzione del processo esecutivo si verifica prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione
rende inefficaci gli atti compiuti. Se invece si verifica dopo, la somma ricavata dalla vendita è consegnata al
debitore.

PARTE TERZA: I PROCEDIMENTI SPECIALI

INTRODUZIONE

I procedimenti sommari rientrano tra i procedimenti speciali e sono regolati al Titolo I Libro IV c.p.c. la loro
specialità risiede nell’organizzazione del contraddittorio realizzato in forme e tempi diversi rispetto al
processo ordinario di cognizione: questa è la loro sola caratteristica comune. Alcuni si pongono in
alternativa al giudizio ordinario di cognizione (procedimento monitorio e per convalida di sfratto) altri in
rapporto di esclusività (azioni cautelari, nunciative e possessorie)

IL PROCEDIMENTO DI INGIUNZIONE O MONITORIO

È un procedimento sommario a tutela del diritto di credito, che si caratterizza per avere un contraddittorio
eventuale e differito, eventuale perché la sua istallazione dipende dall’iniziativa dell’obbligato e differito
perché è successivo al rilascio del provvedimento giudiziale. Il suo scopo è consentire al creditore di
ottenere un titolo esecutivo in modo più rapido rispetto a come farebbe con il giudizio ordinario di
cognizione, rispetto al quale questo procedimento si pone in alternativa. Ha una struttura bifasica.

La prima fase è quella sommaria, che si svolge in assenza di contraddittorio. Il creditore deposito un ricorso,
allegando una prova scritta del proprio diritto, con cui chiede al giudice di ingiungere l’obbligato al
pagamento o alla consegna della cosa mobile. Il giudice competente, giudice di pace o tribunale in
composizione monocratica, è lo stesso che sarebbe competente per il giudizio ordinario di cognizione. In
questa fase non può procedere ad un accertamento del diritto del creditore -infatti manca il contraddittorio
– ma si limita a verificare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità del procedimento. Queste sono:

- DIRITTO TUTELABILE. Questo procedimento può essere esperito solo per la tutela di 3 specifici
diritti di credito, il credito di una somma liquida di denaro, di una quantità determinata di cose
fungibili, consegna di una cosa mobile determinata (derivante da un rapporto obbligatorio non
da un diritto reale).
- ESIBIZIONE DI PROVA SCRITTA DEL DIRITTO. L’allegazione di una prova scritta è necessaria per
attribuire attendibilità all’affermazione del diritto vantato, soprattutto in considerazione che la
prima fase si svolge in assenza di contraddittorio. La prova documentale è intesa in
un’eccezione più ampia rispetto a quanto previsto per il giudizio ordinario di cognizione ex art
634, infatti secondo la giurisprudenza è idoneo per la concessione del decreto ingiuntivo
qualsiasi documento di sicura autenticità, sebbene privo di efficacia probatoria in assoluta, se
risulti attendibile in ordine all’esistenza del diritto di credito azionato (per esempio le scritture
contabili tenute dall'imprenditore, che nel giudizio di cognizione fanno prova solo se la
controparte è anch’essa imprenditore possono essere utilizzate anche contro un non-
imprenditore). Infatti non si tratta di una prova in senso civilistico ma una mera condizione di
ammissibilità del procedimento. Ci sono casi in cui non è necessaria la prova scritta, ovvero se il
credito deriva da prestazioni svolte nel corso del processo da cancellieri, procuratori e ufficiali
giudiziari, se riguarda onorari o rimborsi spettanti a liberi professionisti per i quali vige una
tariffa legalmente approvata (sono i casi previsti ai numeri 2 e 3 dell’art 633).

Il giudice, quindi, dovrà limitarsi a valutare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità, cioè verificare se
la domanda è stata proposta per un diritto che rientra tra quelli menzionati, certo, liquido ed esigibile, e se
c’è questa prova scritta. Se ritiene che non sia sufficientemente giustificata dispone che il cancelliere ne dia
notizia al ricorrente, invitandolo a fornire o integrare la prova. Se il ricorrente non risponde all’invito o la
domanda non è ammissibile perché mancano le condizioni, il giudice la rigetta con decreto motivato.
Questo decreto non pregiudica la riproposizione della domanda anche in via ordinaria (anche perché non
c’è stato nessun accertamento di merito) ex art 640 “rigetto della domanda”.

Se sussistono le condizioni di ammissibilità il giudice emette inaudita altera parte il decreto ingiuntivo. Il
decreto ingiuntivo è un decreto motivato con il quale il giudice ingiunge l’obbligato ad adempiere (pagare la
somma o consegnare i beni) entro 40 giorni dall’avvenuta notifica del decreto, con l’espresso avvertimento
che nello stesso termine può farsi opposizione e che in mancanza di opposizione si procedere ad
esecuzione forzata. Il ricorrente deve notificare all’ingiunto il decreto, unitamente al ricorso, entro 60 giorni
dalla pronuncia se nel territorio della repubblica, entro 90 se all’estero, e con questa notifica stimola
l’instaurazione del contraddittorio da parte dell’ingiunto. Se non è tempestivamente notificato perde
efficacia.

Se è tempestivamente notificato e l’ingiunto non adempie ne presenta opposizione entro 60 giorni il


decreto acquista efficacia esecutiva ed efficacia di cosa giudicata, infatti l’inezia equivale a riconoscimento
del diritto del ricorrente e surroga l’accertamento del diritto in contraddittorio, facendo acquistare al
decreto autorità di cosa giudicata.

Ci sono tre casi in cui il decreto ingiuntivo, che normalmente è esecutivo allo scadere dei 40 giorni, è
immediatamente esecutivo dal momento della sua esecuzione. Si parla di decreto “provvisoriamente”
esecutivo, perché in caso di opposizione l’ingiunto può chiedere la sospensione della esecutività del
decreto e la esecutività definitiva si avrà quando decorsi i 40 giorni l’ingiunto non abbia fatto opposizione o
se in seguito all’opposizione il decreto sia confermato con sentenza. Si tratta di documenti che in parte
sono titolo esecutivo ma non danno prelazione, per cui il creditore li chiede perché essendo idonei a
iscrivere ipoteca, con il decreto ingiuntivo assumerebbe la veste di creditore privilegiato. I casi sono:

1. Se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di liquidazione


di borsa o atto pubblico. In questi casi, su istanza del ricorrente, il giudice DEVE emettere un
decreto con il quale ingiunge ad adempiere immediatamente, autorizzando in mancanza
l’esecuzione provvisoria, fissando il termine solo ai fini dell'opposizione.
2. Quando vi è pericolo di grave pregiudizio in caso di ritardo
3. Quando il ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore comprovante il diritto di
credito.

Negli ultimi due casi la concessione è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice che può negarla. Il
caso è regolato dall’art 642.

L’ingiunto entro 40 giorni dalla notifica del decreto può fare opposizione allo stesso. Con l’opposizione si
apre la seconda fase del procedimento, che è eventuale e dà ingresso ad un ordinario giudizio di cognizione
a contraddittorio pieno avente ad oggetto l’accertamento del diritto del creditore, e che si conclude con
sentenza. L’opposizione non va intesa come impugnazione del decreto ingiuntivo, ma come uno strumento
per l’introduzione del giudizio di cognizione di primo grado. Ce lo conferma il fatto che in caso di
accoglimento parziale dell'opposizione da parte del giudice, la conseguenza è la totale caducazione del
decreto ingiuntivo, mentre se fosse un’impugnazione avrebbe travolto solo le parti impugnate. Nel giudizio
di opposizione il debitore ingiunto assume la veste processuale di attore da un punto di vista formale, ma
da un punto di vista sostanziale va considerato come convenuto, perché quello che fa è opporsi alla pretesa
avanzata dal creditore. il creditore opposto, che assume la veste processuale di convenuto, sarà invece
sostanzialmente attore in quanto è lui che ha agito per la soddisfazione del proprio diritto di credito. Da
questa situazione discende che:

- C’è un’inversione processuale dell’onere della prova, in base al quale è al creditore


“convenuto” che spetta l’onere di provare l’esistenza del diritto di credito vantato (e la prova
scritta portata per ottenere il decreto potrebbe non essere più sufficiente).
- Solo il debitore opposto, che in via processuale è attore, può proporre domande
riconvenzionali.

L’opposizione, regolata dall’art 645, si propone nello stesso ufficio giudiziario che ha emesso il decreto con
atto di citazione da notificarsi al creditore entro 40 giorni dalla notifica del decreto (se emesso dal giudice di
lavoro si propone con ricorso dovendosi seguire anche per l’opposizione il rito di lavoro). Se l’ingiunto
prova di non aver avuto conoscenza del decreto tempestivamente per irregolarità della notificazione, caso
fortuito o forza maggiore, può proporre opposizione decorso il termine, ma mai decorso il termine di 10
giorni dal primo atto di esecuzione (questa è la finestra temporale per la c.d. opposizione tardiva).
Il giudizio così instaurato segue le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito. Notificato
l’atto di opposizione le parti devono costituirsi in giudizio, l’opponente entro 10 giorni dalla notifica, il
creditore opposto almeno 20 giorni prima dell’udienza fissata. Se l’opponente non si costituisce in giudizio
il decreto acquista efficacia esecutiva ed autorità di giudicato. Il creditore può chiedere, se l’opposizione
non si fonda su prova scritta o di pronta soluzione, l’esecuzione provvisoria del decreto se questo non sia
già provvisoriamente esecutivo. Inoltre, il giudice concede l’esecuzione provvisoria parziale del decreto
ingiuntivo opposto limitatamente alle somme non contestate. Deve necessariamente concederla se la parte
che l’ha richiesta offre cauzione. (ex art 648). Su istanza dell’opponente il giudice può, se concorrano gravi
motivi, sospendere l’esecuzione provvisoria del decreto concessa in esecuzione provvisoria (ex art 649.
Entrambe le ordinanze non sono impugnabili.

Se l’opposizione viene rigettata, con la stessa sentenza, il giudice dichiara l’esecuzione del decreto
ingiuntivo, se non era ancora stata concessa, il quale acquista efficacia esecutiva e autorità di cosa
giudicata. Se l’opposizione viene accolta integralmente o parzialmente, oppure se è dedotta
l’incompetenza, il giudice pronuncia una sentenza con cui revoca il decreto ingiuntivo. Nel caso di
accoglimento parziale gli atti compiuti conservano i loro effetti nei limiti della somma o quantità ridotta
(art. 653).

L’art 652 regola il caso in cui le parti si conciliano: in questo caso il giudice, con ordinanza non impugnabile,
dichiara o conferma l’esecutorietà del decreto o riduce la somma o la quantità a quella stabilita dalle parti.
In quest’ultimo caso rimane ferma la validità degli atti esecutivi compiuti e dell’ipoteca iscritta fino a
concorrenza della somma o quantità ridotta. L’esecutorietà non disposta con sentenza che rigetta, o con
ordinanza di estinzione, è conferita con decreto del giudice che ha pronunciato l’estinzione. Ai fini
dell’esecuzione non occorre una nuova notificazione, ma nel precetto deve farsi menzione
dell’esecutorietà. I decreti dichiarati esecutivi e quelli rispetto ai quali è rigettata l’esecuzione costituiscono
titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.

Avverso il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo per inerzia dell’ingiunto è proponibile la revocazione per i
motivi 1,2,5 e 6 art 395 (straordinaria) e con opposizione di terzo revocatoria ex art 404 comma 2.

IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO

Il procedimento per convalida di sfratto è un procedimento sommario che si pone in alternativa al giudizio
ordinario di cognizione. La sommarietà del procedimento non attiene alla organizzazione del
contraddittorio; infatti, inizia con un atto di citazione che instaura il contraddittorio, ma la sua specialità
risiede nel fatto che esso consente al locatore di ottenere rapidamente un titolo esecutivo per il rilascio
dell’immobile concesso in locazione. Se il conduttore non compaia in prima udienza o comparendo non si
oppone. In questo caso il processo si definisce con un’ordinanza di convalida non impugnabile equiparabile
a una sentenza di condanna. Se il conduttore compare e si oppone il giudizio prosegue nelle forme del
processo di cognizione piene anche se il giudice in presenza di determinate condizioni può pronunciare
un’ordinanza provvisoria. È possibile avvalersi del procedimento sommario se:

1- Ci sia un contratto di locazione in forma scritta (quindi se il possesso si fonda su un titolo diverso
dalla locazione o su nessun titolo il procedimento è precluso). Se si fonda su un atto pubblico
invece non è necessario questo procedimento per convalida essendo l'atto pubblico titolo
esecutivo idoneo ad avviare la procedura esecutiva per consegna o per rilascio.
2- Si tratta di uno dei casi elencati dalla legge. I casi sono:
a. Sfratto per morosità. L’ordinanza di convalida di sfratto per morosità consente di agire
esecutivamente per il rilascio del bene immobile per mancato pagamento dei canoni di
locazione. È regolato dall’art 658.
b. Sfratto per finita locazione. Consente di agire esecutivamente per ottenere il rilascio
dell’immobile per scadenza del contratto di locazione ex art. 657 comma 1
c. Licenza per finita locazione. L’ordinanza di convalida di licenza per finita locazione
interviene prima della scadenza del contratto, all’atto di disdetta del locatore volta ad
impedire il rinnovo tacito del contratto di locazione. Consente al locatore di disporre al
momento della scadenza di un titolo esecutivo per il rilascio dell’immobile (sentenza di
condanna in futuro). Può essere esperito solo alla seconda scadenza del contratto di
locazione ad uso abitativo; invece, alla prima scadenza il locatore può fare la disdetta solo
in determinate circostanze e se il conduttore non lascia l’immobile il locatore dovrà
introdurre un giudizio ordinario. Regolato dall’art 657 comma 2

Il procedimento si introduce con un atto composto da due parti, l’intimazione (rivolta al conduttore con
funzione negoziale, soprattutto nel caso di licenza per finita locazione) e la citazione (rivolta al giudice per la
convalida, che ha effetti processuali e con la quale si domanda al giudice il provvedimento per il rilascio
dell’immobile). Il giudice inderogabilmente competente è il tribunale del luogo in cui si trova la cosa locata.
La citazione deve contenere tutti gli elementi prescritti all’art 163 eccetto l’avvertimento al convenuto delle
preclusioni in caso di costituzione tardiva, perché qui le preclusioni non operano e le parti possono
liberamente costituirsi in udienza. Deve invece contenere l’avvertimento al conduttore che se nn compare
in udienza o comparendo non fa opposizione, il giudice convaliderà la licenza o lo sfratto con ordinanza che
costituisce titolo esecutivo. Il termine a comparire qui è di venti giorni (non di 90).

Le parti hanno l’onere di apparire in udienza. Se il locatore non compare cessano gli effetti processuali
dell’intimazione (non quelli sostanziali) ex art 662. Se il conduttore non compare o non fa opposizione il
giudice, dopo la verifica della sussistenza delle condizioni di ammissibilità del procedimento, emette
l’ordinanza di convalida di sfratto o di licenza che costituirà titolo esecutivo per il rilascio coattivo
dell’immobile. Se l’ordinanza è emessa conformemente alla legge acquisisce autorità di cosa giudicata
materiale e sarà impugnabile solo con opposizione tardiva. Se mancano le condizioni di ammissibilità è
considerata impugnabile in appello, ex art 663

Se l’intimato compara in udienza e fa opposizione (per cui non è richiesta formula sacramentale, ma può
farsi anche oralmente) non si avrà convalida ma si apre un giudizio a cognizione piena con rito locatizio che
si conclude con sentenza: in pratica sia ha un mutamento del rito (art 667). Il rito che si applica è quello
delle controversie di lavoro (ex art 409). Se l’opposizione non è fondata su una prova scritta o comunque
facilmente accertabile, il giudice, su istanza del locatore, può emettere un’ordinanza provvisoria di rilascio
con riserva delle eccezioni del convenuto, contro il quale il locatore può agire esecutivamente per il rilascio.
È un provvedimento anticipatorio che non definisce il giudizio, infatti il giudice si riserva di accertare le
eccezioni su cui si fonda l’opposizione del convenuto. Se poi queste vengono accolte, l’ordinanza è risolta e
l’immobile è restituito al conduttore.

Se l’intimazione di licenza o di sfratto sia convalida per mancata comparizione dell’intimato questi potrà
fare opposizione tardiva se dimostra di non aver avuto conoscenza dell’intimazione per irregolarità della
citazione, caso fortuito o forza maggiore. Non è comunque ammessa decorsi dieci giorni dall’inizio
dell’esecuzione e comunque non sospende automaticamente l’esecuzione: la sospensione può essere
disposta dal giudice solo per gravi motivi.

Secondo l’art. 55 della legge dell’equo canone ricevuta l’intimazione di sfratto per morosità, il conduttore
che è inadempiente può versare alla prima udienza l’importo corrispondente ai canoni scaduti e non pagati.
Se il giudice ritiene che vi siano delle condizioni comprovate di difficoltà del conduttore, il giudice stesso
può assegnare un termine non superiore a 90 giorni (il termine di grazia) entro il quale il conduttore può
provvedere al pagamento dei canoni locativi. Per verificare l’esatto adempimento dell’obbligazione del
conduttore, il giudice possa fissare un’udienza in data successiva di non oltre 10 giorni dalla scadenza del
termine. Se in tale udienza viene accertato che la morosità persiste lo sfratto sarà convalidato all’udienza
successiva, passando alla fase dell’esecuzione del rilascio dell’immobile. Il conduttore è tenuto a pagare
entro il termine di grazia solamente i canoni che sono scaduti entro la ricezione dell’intimazione di sfratto.
Sono invece esclusi quelli successivamente scaduti. Quindi se il conduttore adempie all’obbligazione per cui
era stato concesso il termine, ma si rende poi inadempiente per i canoni successivi, dovrà instaurare un
nuovo procedimento di convalida di sfratto, con diversa intimazione. E il termine di grazio può essere
concesso per un massimo di tre volte nell’arco di quattro anni. Esaurite tali possibilità, la richiesta di sfratto
verrebbe senz’altro convalidata. Per poter ricorrere al termine di grazia di 120 giorni, il conduttore deve
dimostrare che il mancato pagamento dei canoni, per un massimo di due mesi, sia da imputare alle
condizioni economiche precarie in cui verte. E, inoltre, come tali condizioni precarie siano insorte dopo la
stipula del contratto, e derivino da malattia, disoccupazione o gravi e comprovate condizioni di difficoltà. Il
termine così stabilito può essere richiesto al massimo quattro volte nell’arco di cinque anni. In generale, il
termine di grazia non può essere applicato nelle locazioni non abitative.

I PROCEDIMENTI CAUTELARI

La durata del processo a cognizione piena a volte può determinare il rischio che, durante l’accertamento
del diritto dedotto in lite, questo subisca un grave ed irreparabile pregiudizio. Per evitare questo rischio
sono previste le misure cautelari, dei procedimenti a cognizione sommaria, suscettibili di attuazione
immediata, che il giudice può concedere in presenza di due presupposti, il FUMUS BONI IURIS cioè la
ragionevole parvenza dell'esistenza del diritto che si vuole cautelare e il PERICULUM IN MORA cioè il rischio
che nelle more dell’accertamento giudiziale il diritto possa subire grave ed irreparabile pregiudizio. Questi
provvedimenti possono essere chiesti sia prima dell’instaurazione del giudizio a cognizione piena che
durante la sua pendenza. La L 353/1990 ha introdotto gli artt. 669bis-669quaterdecies, che introducono un
singolo procedimento per la concessione di misure cautelari.

Dopo la riforma degli anni 2005/2006 le misure si distinguono in cautelari in senso stretto e anticipatorie
(prima tutte le misure cautelari presentavano le caratteristiche della strumentalità e provvisorietà). Quelle
cautelari in senso stretto (chiamate così perché conservano le caratteristiche delle vecchie misure cautelari)
sono il sequestro giudiziario e il sequestro conservativo e presentano i caratteri della strumentalità e
provvisorietà rispetto all’accertamento giudiziale a cognizione piena. Una volta ottenuti la parte dovrà
necessariamente instaurare un giudizio di merito a cognizione piena entro 60 giorni a pena della perdita di
efficacia del provvedimento. Quando il giudizio di merito si conclude con sentenza, questa assorbe il
provvedimento cautelare e l’eventuale estinzione del giudizio di merito travolge anche il provvedimento
cautelare, che perde così efficacia. Le misure cautelari anticipatori, che sono il provvedimento di urgenza ex
art 700, la denuncia di nuova opera o di danno temuto, sono svincolati dal giudizio a cognizione piena.
Significa che la loro efficacia non è legata alla successiva instaurazione del giudizio di merito, che può anche
non essere avviato, e la cui estinzione non travolge questi provvedimenti. Non si presentano, quindi, come
strumentali al giudizio di cognizione piena, ma sono un procedimento di tutela giurisdizionale alternativo al
giudizio a cognizione piena. Però, essendo emessi in seguito ad un processo a cognizione sommaria, non
sono suscettibili di acquistare la autorità di cosa giudicata.

PROCEDIMENTO CAUTELARE UNIFORME

Il procedimento cautelare uniforme si introduce con ricorso da depositarsi nella cancelleria del giudice
competente (art 699bis). La competenza territoriale per i ricorsi cautelari è inderogabile ed assoluta ex art
28. Per individuarla bisogna distinguere se il ricorso sia stato presentato prima l’instaurazione del giudizio a
cognizione piena o durante la sua pendenza. Se è instaurato ante causam la regola genera è che è
competente lo stesso giudice competente per il giudizio di merito, ma con delle eccezioni:

- Se attribuito al giudice di pace, che non è competente per il ricorso cautelare, sarà competente
il tribunale.
- Se la causa rientra nella giurisdizione di un giudice straniero, il ricorso va proposto al giudice
che sarebbe competente per materia e valore del luogo in cui deve essere eseguito il
provvedimento cautelare.
- Se la controversia è rimessa ad arbitri deve proporsi al giudice che sarebbe competente per il
merito.

Se la domanda di merito è già stata proposta il ricorso cautelare va proposto al giudice adito per il merito,
con le stesse eccezioni di prima. Inoltre, nell’ipotesi in cui il procedimento cautelare sia proposto in
pendenza dei termini per proporre impugnazione, va proposto al giudice che ha emesso la sentenza. Dopo
la proposizione dell’impugnazione, il ricorso va proposto al giudice del gravame. La competenza è fissata
dagli art 699ter, 699quater e 699quinques.

Depositato il ricorso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti con decreto in calce al ricorso e
onere il ricorrente di notificare ricorso e decreto alla controparte. Il procedimento si sviluppa senza
particolari formalità, salvo quelle necessarie all’instaurazione del contraddittorio e varia a seconda della
misura cautelare richiesta. L’istruttoria è snella, ma deve emergere la sussistenza del fumus boni iuris e del
periculum in mora. Il giudice accoglie o rigetta la domanda con ordinanza, anche se in casi di particolare
urgenza, se l’attesa dell’udienza di comparizione potrebbe pregiudicare il diritto tutelato, il giudice può
concedere immediatamente la misura cautelare con decreto motivato emesso inaudita altera parte. Lo
stesso decreto fissa l’udienza di comparizione delle parti, durante il quale si conferma o revoca con
ordinanza la misura concessa con decreto. Il procedimento è regolato dall’art 699sexties.

Il provvedimento che nega la concessione della misura cautelare presuppone il contraddittorio, quindi
assume la forma dell’ordinanza. Si tratta del provvedimento negativo regolato dall’art 699septies. Il giudice
può rigettare la domanda per ragioni processuali o di merito (mancanza dei presupposti). L’ordinanza di
incompetenza non preclude la possibilità di riproporre la domanda, così come l’ordinanza di rigetto per
ragioni di merito non preclude la ri-proponibilità della domanda, se siano mutate le circostanze o si
deducano nuove ragioni di fatto o di diritto a sostegno della domanda. L’ordinanza che concede la misura
cautelare in senso stretto (provvedimento di accoglimento regolato dall’art 699octies) il giudice fissa un
termine perentorio non superiore a 60 giorni entro il quale instaurare il giudizio di merito a cognizione
piena. Se il giudice non fissa tale termine si applica il termine di legge di 60 giorni. Se entro tale termine non
è instaurato il giudizio di merito l’ordinanza contenente il provvedimento di accoglimento perde efficacia.
Questo regime non si applica alle misure cautelari anticipatorie, che sono svincolate dal giudizio di merito.
Se l’ordinanza, di rigetto o di incompetenza o di accoglimento, è pronunciata prima del giudizio di merito,
con essa il giudice decide anche sulle spese del procedimento cautelare.

In ogni caso anche quando le misure cautelari in senso stretto perdono efficacia per la mancata
proposizione del giudizio di merito nel termine è necessaria la pronuncia del giudice. Quindi, la parte
interessata deposita un ricorso presso il giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, il quale fissa
l’udienza di comparizione delle parti con decreto in calce al ricorso. All’udienza, se non sorgono
contestazioni, il giudice dichiara con ordinanza l'inefficacia del provvedimento cautelare e dispone il
ripristino della situazione anteriore alla sua concessione. Se sorgono contestazioni la questione è decisa con
sentenza a conclusione di un ordinario processo di cognizione. Altre ipotesi di inefficacia del provvedimento
cautelare, che però riguardano anche le misure anticipatorie sono:

- Il mancato versamento della cauzione eventualmente imposta dal giudice al ricorrente


- La dichiarazione di inesistenza del diritto cautelato con sentenza anche non passata in giudicato
- (se il giudizio di merito si svolga davanti al giudice straniero o all’arbitro) se la parte che ha
ottenuto la misura cautelare non presenti la domanda di esecutorietà in Italia della sentenza
straniera o del lodo arbitrale entro i termini eventualmente previsti dalla legge o dalla
convenzioni internazionali.

Contro l’ordinanza che concede o nega la misura cautelare può essere proposto reclamo entro 15 giorni
dalla pronuncia della misura cautelare in udienza o dalla sua comunicazione se emessa fuori udienza (anche
se in realtà, poiché il rigetto non preclude la riproposizione della domanda, piuttosto che fare reclamo la si
può riproporre). Il giudice competente per il reclamo, se l’ordinanza è emesso dal tribunale in composizione
monocratica va proposto al collegio (del quale non può fare parte il giudice che ha emesso l’ordinanza
reclamata); se è emessa dalla corte d’appello va proposto ad altra sezione della stessa corte o se c’è una
sola sezione alla corte d’appello più vicina. Il reclamo è regolato dall’art 699terdecies e si propone con
ricorso. Il procedimento si svolge in camera di consiglio con le norme di questa (quindi non in pubblica
udienza) e in contraddittorio tra le parti. Il giudice decide sul reclamo entro 20 giorni dal deposito del
ricorso con ordinanza non impugnabile, nella quale conferma, modifica o revoca il provvedimento
cautelare. Il reclamo può considerarsi un mezzo di impugnazione dell’ordinanza cautelare, poiché non ha ad
oggetto solo il controllo dell’operato del primo giudice, con riguardo ai vizi dell’ordinanza, ma comporta un
riesame nel merito, invitando il giudice a pronunciarsi di nuovo sulla fondatezza della domanda cautelare
(ha un effetto devolutivo tipico dell’appello). Inoltre, in sede di reclamo, non vige il divieto dei nova che
caratterizza l’appello, quindi si possono dedurre in questa sede fatti nuovi, depositare nuovi documenti e
prove. Anzi, gli eventuali fatti nuovi occorsi successivamente all’ordinanza cautelare devono essere
necessariamente dedotti in sede di reclamo o non in sede di revoca o modifica del provvedimento
cautelare (che potrà chiedersi solo se questi fatti si sono verificati dopo la fase del reclamo o quando la
parte provi di averne avuto conoscenza dopo la conclusione di questo). Infine, in sede di reclamo non è
consentita la rimessione al primo giudice, quale che sia il vizio rilevato dal giudice del reclamo, sarà sempre
questo a pronunciarsi sul merito della domanda cautelare. Il reclamo non sospende l’esecuzione del
provvedimento cautelare, però se l’esecuzione del provvedimento può causare un grave danno il giudice
può sospenderla o subordinarla alla prestazione della cauzione.

Tutti i provvedimenti cautelari, indipendentemente dal momento in cui vengono pronunciati sono di regola
revocabili o modificabili per mutamenti nelle circostanze (fatti sopravvenuti che incidono sui presupposti
della misura; possono essere anche anteriori purché la parte fornisca la prova della sua conoscenza ex post
di questi). Se il giudizio di merito è stato introdotto o è ancora pendente, il potere di revoca o modifica
spetta in ogni caso al giudice investito della controversia, a meno che non sia stato proposto reclamo
avverso la domanda cautelare ex art 669-terdecies. Revoca/modifica e reclamo sono rimedi diversi, posti in
rapporto di alternatività: se la strada del reclamo è ancora percorribile allora i mutamenti si devono
dedurre in sede di reclamo, altrimenti si devono richiedere con revoca o modifica. Se il giudizio di merito si
è estinto va richiesta allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento cautelare. La revoca e la modifica
sono regolati dall’art 699decies.

Per le misure cautelari non si parla di esecuzione, che è un concetto legato al giudicato, ma di attuazione. Ci
sono tre tipi di attuazione:

➢ L’attuazione dei sequestri (che hanno disposizioni specifiche)


➢ L’attuazione dei provvedimenti cautelari anticipatori, che hanno per oggeto il pagamento di somme
di denaro che si svolge mediante le forme dell’espropriazione forzata (salvo alcune differenze)
➢ L’attuazione dei provvedimenti cautelari che hanno ad oggetto obblighi di consegna o di rilascio, di
fare o non fare, che si svolge in forme analoghe all’esecuzione in forma specifica ma sotto il
controllo dello stesso giudice che ha emanato il provvedimento cautelare.

L’art 699-quaterdecies dice che le disposizioni contenute dall’art 699bis e seguenti si applicano non solo
alle misure cautelari espressamente previsti dal Codice di procedura civile, ma anche ai provvedimenti
cautelari previsti dal codice civile o da leggi speciali, sempre che le norme in questione siano compatibili
con la disciplina speciale per essi prevista.

IL SEQUESTRO GIUDIZIARIO E CONSERVATIVO

Il sequestro giudiziario è regolato all’art 670. Il giudice può autorizzare il sequestro di:
- beni mobili o immobili determinati, aziende o altre universalità di beni, quando ne è
controversa la proprietà o il possesso ed è opportuno provvedere alla loro custodia o gestione
temporanea.
- Di libri, registri, documenti e ogni altra cosa da cui si voglia desumere elementi di prova quando
è controverso il diritto alla loro esibizione o comunicazione ed è opportuno provvedere alla loro
custodia temporanea.

Nel primo caso, il presupposto è che ci sia una controversia sulla proprietà o sul possesso del bene nella
quale si debba accertare il diritto alla restituzione, consegna o rilascio del bene stesso. Il sequestro qiomdo
è posto alla tutela dei diritti reali (es proprietario che agisca con un’azione di rivendica per ottenere la
restituzione del bene). L’art 670 però parla anche di possesso, quindi con il sequestro giudiziario possono
tutelarsi anche quei diritti che put non potendo qualificarsi come reali, mirano alla consegna, rilascio o
restituzione di un bene determinato (ira in rem). Ad esempio nel caso che il diritto alla restituzione del bene
nasca da un’azione di risoluzione di un contratto di locazione. L’azione non ha ad oggetto un diritto reale,
infatti l’attore non deve provare di essere il proprietario, ma mira comunque ad ottenere il rilascio
dell’immobile. Il fumus consiste nella parvenza di esistenza di un diritto reale o di uno ius in rema, che
comporta in ogni caso il diritto alla consegna o al rilascio del bene sul quale cade. Sul periculum in mora
l’art 670 dice sola “quando si renda necessaria la custodia o la gestione temporanea del bene”. Una
necessità così può essere determinata solo dal pericolo di sottrazione, deterioramento o distruzione del
bene nelle more del giudizio. In linea di principio, per i beni mobili consiste nel rischio di alienazione, per gli
immobili nel rischio di deterioramento o distruzione causati da una cattiva gestione o custodia del bene
(infatti le conseguenze dell’alienazione in questo caso sarebbero neutralizzate dalla trascrizione della
domanda giudiziale). Con il provvedimento con cui dispone il sequestro il giudice nomina anche il custode,
che pu essere il terzo o quello tra i contendenti che offra maggiori garanzia e presti cauzione. A questo
punto è necessario dare esecuzione al sequestro giudiziario, cioè immettere il custode nel possesso del
bene. L’esecuzione del sequestro ha luogo nelle forme dell’esecuzione per consegna o per rilascio, anche se
non è necessaria la notifica del precetto, e deve avvenire entro 30 giorni dalla pronuncia del provvedimento
che dispone il sequestro, a pena della sua perdita di efficacia.

Nel secondo caso, cioè per il sequestro giudiziario a fini probatori, l’art 670, il sequestro giudiziario è uno
strumento, di rara applicazione, infatti deve confrontarsi con un altro strumento colto ad ottenere
l’esibizione in giudizio di un documento del quale ci si intende avvalere: l’esibizione, prevista dall’art 210. Si
tratta di un mezzo di prova che consiste in un ordine emesso dal giudice su istanza di parte e nei confronti
della controparte (o di un terzo) attraverso il quale questi ordina l’esibizione in giudizio del documento
indicato nell’istanza di parte. La differenza principale è che l’inosservanza dell’ordine di esibizione ha come
unica conseguenza il fatto che da questo comportamento il giudice può desumere argomenti di prova,
mentre in caso di sequestro giudiziario a fini probatori comporta l’attuazione del sequestro nelle forme
dell’esecuzione per consegna.

Il sequestro conservativo è regolato dall’art 671, secondo cui il giudice su istanza del creditore che ha
fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni
mobili o immobili del debitore o di somme di denaro e cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne
permette il pignoramento. Questo tipo di sequestro è posto a tutela dei diritti di credito e rientra tra i mezzi
di conservazione della garanzia patrimoniale ex art 2740 c.c. (gli altri sono l’azione surrogatoria e l’azione
revocatoria). Si tratta di uno strumento utile in situazioni in quale il creditore abbia fondato timore che il
debitore, attraverso atti di disposizione magari fraudolenti, possa diminuire il proprio patrimonio in modo
da non essere più possibile soddisfare il suo credito. Il fumus è rappresentato dalla parvenza di esistenza di
un diritto di credito e il periculum in mora nel fondato timore di perdere la garanzia del credito. Il periculum
può anche desumersi da circostanze oggettive, come la scarsa consistenza patrimoniale del debitore in
rapporto all’entità del credito o dal comportamento del debitore dal quale possa desumersi la sua
intenzione di sottrarre i beni alla futura eventuale esecuzione forzata. Il sequestro conservativo è generico
nel suo contenuto. Infatti il provvedimento con il quale il giudice lo autorizza, a differenza che con il
sequestro giudiziario in cui si individuano i beni sottoposti a sequestro, non individua i beni ma si limita ad
indicare genericamente il valore limite per il quale il sequestro è concesso e sarà poi il creditore a doverli
individuare. L’individuazione dei beni da sequestrare quindi avviene nella fase di esecuzione, e non in quella
di concessione del sequestro. L’esecuzione si svolge in forma analoga al pignoramento e deve avvenire
entro 30 giorni dalla pronuncia del sequestro, a pena di perdita dell’efficacia della pronuncia. Dal momento
che la legge dice che il sequestro conservativo può essere concesso negli stessi limiti in cui la legge ne
consente il pignoramento, i beni impignorabili non possono essere sottoposti a sequestro. Si può
considerare il sequestro conservativo una anticipazione del pignoramento. Attraverso questo, infatti, il
credito che non sia ancora munito di titolo esecutivo può immediatamente creare un vincolo di
indisponibilità sui beni oggetto del sequestro e una volta ottenuto il titolo esecutivo, il sequestro si
converte in pignoramento e i beni potranno quindi essere oggetto di vendita forzata per il soddisfacimento
del suo credito. Il vincolo di indisponibilità è analogo a quello che caratterizza il pignoramento: gli eventuali
atti di disposizione dei beni sequestrati fatti dal debitore dopo l’esecuzione del sequestro saranno inefficaci
nei confronti del creditore sequestrante. L’esecuzione del sequestro conservativo:

- Se ha ad oggetto beni mobili si seguono forme analoghe a quelle del pignoramento mobiliare,
quindi l’ufficiale giudiziario si reca nei luoghi di pertinenza del debitore e redige un verbale di
sequestro (con la differenza che non è necessario notificare al debitore titolo e precetto,
essendo questa una misura cautelare caratterizzata dall’urgenza)
- Se si tratta di sequestro presso terzi si applicano forme analoghe al pignoramento presso terzi,
quindi l’atto di sequestro è notificato sia al debitore che al terzo e deve contenere la citazione
del terzo a comparire davanti al tribunale per rendere una dichiarazione, che è uguale a quella
prevista per il pignoramento con la differenza che alla conclusione dell’esecuzione del
sequestro il giudice non dispone l’assegnazione delle somma ma la chiusura del procedimento
in attesa che si svolga il giudizio di merito.
- Se si tratta di sequestro di beni immobili l’esecuzione ha luogo tramite l’iscrizione del sequestro
nei pubblici registri, anche se non è necessaria la notifica dell’atto di sequestro al debitore, che
può anche esserne ignaro

Quando il creditore ottiene sentenza di condanna esecutiva anche di primo grado, il sequestro conservativo
si converte in pignoramento. Se i beni sequestrati sono stati oggetto di esecuzione da parte di altri
creditori, il sequestrante partecipa alla distribuzione del ricavato (infatti il creditore sequestrante rientra tra
i creditori non titolati legittimati ad intervenire nell’esecuzione). La conversione deve avvenire nel termine
perentorio di 60 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. In questo termine il creditore
sequestrante deve depositare presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione copia della sentenza. Se
l’oggetto del sequestro è un bene immobile deve chiedere l’annotazione della sentenza di condanna
esecutiva a margine della trascrizione del sequestro, e non è necessaria la trascrizione del pignoramento,
essendo sufficiente questo adempimento: gli effetti del pignoramento così retrodatano a quando è stato
trascritto il sequestro. Se il creditore esegue questi adempimenti il sequestro si converte automaticamente
in pignoramento, consentendo al creditore di saltare la fase della notifica al debitore del titolo esecutivo e
del precetto.

L’art 156 delle disp att. cpc, da collegare con l’art 686, dice che il sequestrante, entro 60gg dalla
comunicazione della sentenza, deve depositarne copia presso la cancelleria del giudice competente per
l’esecuzione. Dal combinato disposto degli artt. 686 e 156 sono sorti due problemi: la conversione del
sequestro in pignoramento, avviene automaticamente dall’emissione della sentenza di condanna a favore
del sequestrante, oppure è subordinata a questo adempimento previsto dall’art 156? E quali sono le
conseguenze che derivano dal combinato disposto? La giurisprudenza e buona parte della dottrina,
ritengono che la conversione sia immediata, non appena venga emessa la sentenza di condanna esecutiva;
con la conseguenza che l’omesso deposito della sentenza, comporta l’estinzione del pignoramento e della
procedura esecutiva che è già formalmente iniziata. Seguendo questa impostazione sono opponibili al
creditore gli eventuali atti di disposizione compiuti dal debitore alla scadenza di questo termine perentorio.
Monteleone ritiene che l’omesso deposito della sentenza impedisca il perfezionamento del pignoramento,
ma il sequestro conservativo, come misura cautelare, continua a produrre i suoi effetti. Quindi il bene sarà
comunque al riparo e al creditore non resterà altro che instaurare la procedura esecutiva con la notifica di
titolo esecutivo e precetto e poi eseguire il pignoramento.

L’ultimo è il sequestro liberatorio. Trova ingresso quando è controverso l’obbligo o il modo di pagamento o
consegna, o ancora l’idoneità della cosa offerta. Lo scopo è evitare che il debitore subisca le conseguenze
della mora debendi. Quindi, è un sequestro richiesto dal debitore, motivo per cui ha scarsa applicazione
pratica. Il giudice può mettere sotto sequestro le cose o le somme che il debitore mette a disposizione per
la sua liberazione. Due ipotesi, individuate dalla dottrina, in cui può trovare ingresso:

1. Quando il debitore vuole adempiere ma il creditore rifiuta la prestazione. In questo caso il debitore
vuole evitare le conseguenze pregiudizievoli della mora debendi, mettendo a disposizione
determinate cose per il sequestro a garanzia dell’adempimento, essendo il creditore che impedisce
di adempiere avendo rifiutato la prestazione.
2. Sequestro liberatorio difensivo, il debitore contesta l’esistenza del debito o le modalità in cui
dev’essere eseguita la prestazione. Il debitore manifesta concretamente la volontà di adempiere,
mette a disposizione la propria prestazione evitando una serie di conseguenze pregiudizievoli in
attesa che si accertino le modalità di adempimento.

MISURE ANTICIPATORIE

Le azioni di denuncia di nuova opera e di danno temuto sono misure cautelari anticipatorie connesse alla
tutela della proprietà, dei diritti reali di godimento e del possesso si escludono quindi i diritti relativi)
regolare alla sezione III, Titolo I, Libro IV del Codice di procedura civile.

La denuncia di nuova opera è una misura cautelare concessa quando su un fondo limitrofo sia avviata la
costruzione di un’opera ritenuta lesiva di un proprio diritto (es servitù di veduto o passaggio). La funzione di
questa denuncia è ottenere un provvedimento cautelare anticipatoria che imponga l’interruzione dei lavori.
Può essere concessa solo a condizione che l’opera non sia iniziata da più di un anno e non sia comunque giù
ultimata. Il giudice deve verificare la presenza dei presupposti, anche se qui il periculum è in re ipsa, ovvero
considerato sempre immanente nel fatto che si sta costruendo un’opera illegittima che lede un diritto
reale: bisogna privare solo il fumus boni iuris.

La denuncia di danno temuto invece viene proposta quando si tema che da qualsiasi cosa altrui possa
derivare un danno a un proprio diritto reale (es la cattiva manutenzione di un balcone che potrebbe
crollare nel balcone dell’inquilino del piano sottostante). In questo caso il periculum non è in re ipsa e deve
essere verificato dal giudice, così come il fumus. A differenza della denuncia di nuova opera, che
presuppone un comportamento attivo da parte del danneggiante, la denuncia di danno temuto
presuppone un comportamento omissivo da parte di colui che è obbligato a compiere quanto necessario
per evitare la situazione di pericolo

Entrambe si chiedono con ricorso presso il giudice competente ex art 21, verificata la sussistenza dei
presupposti, decide con ordinanza. Se il giudizio è già instaurato la sua estinzione non travolge questi
provvedimenti, restano in piedi essendo svincolati dal giudizio di merito. Quindi questi si concludono con la
fase urgente. Se la parte a cui è fatto divieto di compiere l’atto dannoso o di mutare lo stato di fatto
contravviene all’ordine, il giudice, su ricorso della parte interessata, può disporre con ordinanza che le cose
siano rimesse al pristino stato a spese del contravventore. Essendo che si tratta di misure cautelari
anticipatorie, conservano i propri effetti se nessuno avvia un giudizio di merito, ma non passa in giudicato.
Se la parte contravviene all’ordine il giudice può disporre che le cose siano riportate a com’erano, su istanza
della parte interessata. Nella fase sommaria il giudice con ordinanza disporrà i provvedimenti necessari per
ciascuna delle due azioni. Non è necessario instaurare il giudizio di merito

I PROCEDIMENTI DI ISTRUZIONE PREVENTIVA

I procedimenti di istruzione preventiva sono procedimenti cautelari sui generis. Infatti non mirano a
tutelare un diritto sostanziale dedotto da dedurre in lite, ma il diritto alla prova. Si tratta di strumenti che
consentono l’assunzione in via preventiva di alcuni mezzo di prova se sussiste il rischio (periculum) che tali
mezzi di prova non possano essere più utilmente assunti in un secondo momento. È prevista solo per la
prova testimoniale e per l’accertamento tecnico o ispezione giudiziale. Essendo diversi dalle altre misure
cautelari hanno una diversa disciplina e le uniche regole del rito cautelare uniforme che vi si applicano sono
la ri-proponibilità dell’istanza rigettata e la sua reclamabilità. Non sono invasi e pregiudizievoli per la
controparte come le altre forme di procedimenti cautelari. A differenza delle misure cautelari in senso
stretto la loro concessione ante causam non comporta l’onere per la parte interessata di iniziare il giudizio
di merito entro un termine perentorio.

La prova testimoniale a memoria futura è regolata dall’art 692: chi ha fondato motivo di temere che un
testimone la cui deposizione possa essere necessaria in una futura causa, stia per venire a mancare, può
chiedere che ne sia ordinata l’audizione a futura memoria. Il presupposto è quindi che il teste stia venendo
a mancare, per effetto per esempio di una malattia terminale o sta per trasferirsi all’estero. L’articolo parla
di causa futura ma l’assunzione d’urgenza della testimonianza può anche essere chiesta in corso di causa,
per esempio nel caso in cui la fase istruttoria non sia ancora aperta.

L’accertamento tecnico preventivo è una forma di consulenza tecnica di ufficio anticipata rispetto alla
causa. Chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o la condizione di qualità di
cose, può chiedere al giudice di disporlo (art 696). Se l’istanza è accolta sarà nominato un consulente
tecnico di ufficio il quale provvedere a compiere gli accertamenti necessari. Può essere disposto anche sulla
persona dell’istane e se questa vi consente sulla persona nei confronti di cui l’istanza è proposta. Il
presupposto è una generica urgenza che può essere causata da qualsiasi evento.

Nel 2005 è stata introdotta la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, che
secondo i piani doveva incentivare la composizione bonaria delle controversie attraverso un tentativo di
conciliazione, ma ha trovato scarsa applicazione.

L’istanza per l’assunzione della prova testimoniale a memoria futura o per l’accertamento tecnico
preventivo si propone con ricorso al giudice che sarebbe competente per il merito, anche al giudice di pace
a differenza che le altre misure cautelari. Il ricorso deve indicare i motivi dell’urgenza (periculum), i fatti su
cui verte la prova e l’esposizione sommaria delle domande o eccezione alle quali la prova è preordinata. Il
giudice quindi fissa l’udienza di comparizione delle parti e decide sul ricorso con ordinanza non
impugnabile. In caso di eccezionale urgenza il ricorso può essere accolto con decreto inaudita altera parte.
L’eventuale ordinanza di incompetenza o di rigetto non preclude la riproposizione della domanda. Inoltre la
Corte Costituzionale ha disposto che nonostante la non applicabilità del rito cautelare uniforme a questi
procedimenti, l’ordinanza di rigetto dell’istanza è suscettibile di reclamo. Assunte in via preventiva queste
prove possono trovare ingresso nel giudizio successivo di merito a seguito del vaglio di ammissibilità e
rilevanza delle prove da parte del giudice di merito: è per questo che i presupposti sono così blandi,
l’effettiva assunzione della prova nel successivo giudizio di merito dipende comunque dalla valutazione del
giudice di merito.
I PROVVEDIMENTI DI URGENZA

I provvedimenti di urgenza, disciplinati dagli artt. 700 ss. Sono misure cautelari anticipatorie di carattere
residuale e sussidiario. Trovano ingresso ogni volta che non possono trovare ingresso le misure cautelari
tipiche disciplinate dal cpc, cc e leggi speciali, quindi trovano applicazione quando il diritto vantato e il
periculum lamentato non possono essere tutelati da una misura tipica. Possono considerarsi un correttivo
alla specificità delle misure cautelari tipiche. Infatti per ciascuna di esse il legislatore ha precisato il tipo di
diritto oggetto di tutela, il periculum che la misura mira a evitare e il contenuto che può assumere lo stesso
provvedimento cautelare. D’altra parte il legislatore non può aver previsto tutte le possibili situazioni in cui
un diritto sia minacciato da un pericolo immediato che potrebbe rendere inutile la tutela ottenibile con il
procedimento a cognizione piena.

L’art. 700 dice “in tutti quei casi che esulino dall’ambito delle disposizioni che prevedono le misure cautelari
tipiche, allorché vi sia il fondato timore che durante il tempo occorrente per fare valere il diritto in via
ordinaria, questo possa subire pregiudizio grave e irreparabile, si potrà chiedere con ricorso al giudice
l’adozione dei provvedimenti ritenuti più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della futura
decisione di merito”. La seconda caratteristica dei provvedimenti d’urgenza, come si evince da questo
articolo, è l'irreparabilità del pregiudizio al proprio diritto. il danno in cui si deve concretare il periculum
deve essere grave e irreparabile, tale che la successiva pronuncia di merito non possa rimediarvi. Questa
caratteristica ha portato la giurisprudenza a ritenere che i provvedimenti di urgenza non possano essere
concessi a tutela dei diritti di credito; infatti, il diritto al pagamento di una somma di denaro può sempre
convertirsi in un diritto al risarcimento e non è solitamente soggetto ad un periculum irreparabile, salvo in
caso di incapienza del patrimonio del debitore per cui è previsto il sequestro conservativo. L’ambito di
applicazione più appropriato sembra essere quello della tutela dei diritti assoluti, in particolare il diritto
all’immagine o alla salute, quei diritti che non hanno un contenuto propriamente patrimoniale (es danno
del negoziante che veda aprirsi accanto un altro negozio con insegna pressocché identica alla sua: il
pregiudizio della perdita di clientela non si potrebbe riparare con una pronuncia di merito). Perciò, il fumus
qui consiste nella parvenza dell’esistenza del diritto (che solitamente coincide con il diritto assoluto) e il
periculum nel fondato timore di un pregiudizio grave e irreparabile.

LE AZIONI POSSESSORIE

Le azioni possessorie sono dei procedimenti speciali posti a tutela del possesso, da intendersi come “mera
relazione di fatto tra un soggetto ed un bene” tutelata dall’ordinamento giuridico a prescindere da
qualunque accertamento sull’effettiva esistenza di un diritto reale sottostante. Quindi mirano a tutelare il
possessore vittima di spoglio o turbativa, ma senza accertare se il possesso è retto da un diritto reale. Il
convenuto o autore dello spoglio, che assume di essere proprietario, non potrà efficacemente difendersi
giustificando la propria condotta con il proprio diritto reale sul bene, infatti le azioni possessore,
prescindendo dall’accertamento di questo diritto, tutelano il possesso come relazione di fatto. Stante il
divieto di autotutela, il proprietario che voglia recuperare il possesso del bene non può esercitare
arbitrariamente le proprie ragioni con uno spoglio ma deve proporre una azione di rivendica (giudizio
petitorio). Le azioni possessorie sono l’azione di reintegrazione o di spoglio, che spetta a colui che è stato
privato del possesso in modo violento o clandestino e che deve essere proposta entro un anno
dall’avvenuto spoglio; l’azione di manutenzione, diretta a interrompere le turbative nel possesso.

Le azioni si caratterizzano per una struttura bifasica. C’è una prima fase sommaria, che si conclude con
un’ordinanza reclamabile e una seconda fase di merito a cognizione piena che si conclude con una
sentenza. La seconda fase è eventuale, ed è rimessa all’iniziativa della parte interessata, ed è sempre
circoscritta al solo merito possessorio (non si procede neanche qui all’accertamento del diritto reale
sottostante né al diritto reale che sia eventualmente affermato dall’autore dello spoglio). La prima fase
sommaria si apre con ricorso da proporre innanzi al giudice del luogo in cui è avvenuto il fatto lesivo del
possesso, competenza territoriale assoluta e inderogabile ex art 28. Il procedimento segue le regole del rito
cautelare uniforme in quanto compatibili con le disposizioni specifiche dettate per esso. Il giudice decide
con ordinanza reclamabile. La fase successiva, invece, deve essere avviata a pena di decadenza entro 60
giorni dalla comunicazione dell’ordinanza o del provvedimento che ha deciso il reclamo se vi è stato. A tal
fine la parte interessata deve presenta al giudice davanti al quale si è svolta la fase sommaria un’istanza di
fissazione di un’udienza (si tratta di un’istanza: non si da vita ad un nuovo processo, ma si prosegue la fase
iniziale e sommaria. Anche questa fase quindi è retta dall’originario ricorso introduttivo). La fase di merito è
regolata dalle norme del processo ordinario di cognizione e si conclude con la sentenza, che può essere
impugnata, e contro la sentenza di appello si può proporre ricorso in cassazione.

Se nessuna delle parti chiede la prosecuzione del procedimento nel termine perentorio il giudizio si
estingue. L’estinzione però non travolge l’ordinanza di accoglimento emessa a conclusione della fase
sommaria, che resta efficace e può essere caducata solo con una sentenza che accerti l’infondatezza della
domanda possessoria. Questo significa che decorso il termine per avviare la fase di merito l’ordinanza di
accoglimento del ricorso introduttivo diventa un titolo esecutivo definitivo. Se invece l’ordinanza ha
rifettato la domanda questa non potrà essere riproposta, ma sarà necessario avviare un giudizio ordinario
di cognizione che si conclude con sentenza.

L’art 705 sancisce il divieto per il convenuto di instaurare il giudizio petitorio (ovvero il giudizio promosso
dal titolare del diritto di proprietà rivolto ad ottenere la difesa del suo diritto reale nelle forme del giudizio
ordinario di cognizione) finché quello possessorio non sia concluso e la decisione non sia stata eseguita.
Quindi se viene avviato un giudizio possessorio il convenuto deve attendere la sua conclusione per
proporre azione di rivendica. Questo divieto non opera se sia lo stesso attore/possessore ad ostacolare
l’esecuzione della decisione del giudizio possessorio oppure, in un’ipotesi introdotta con una sentenza della
Corte costituzionale, se dalla mancata tempestiva proposizione del giudizio petitorio possa derivare un
pregiudizio irreparabile.

I PROCEDIMENTI CAMERALI

Gli artt. 737 e seguenti disciplinano i procedimenti camerali, ossia quei procedimenti speciali che si
svolgono in camera di consiglio e non in pubblica udienza. Questi hanno i vantaggi della snellezza e rapidità
e di mettere le parti subito in contatto con il giudice che deve decire. Si tratta di regola di casi che rientrano
nell’ambito della giurisdizione volontaria. Si parla di giurisdizione volontaria in contrapposizione con la
giurisdizione contenziosa, con riferimento a quei procedimenti che non si svolgono in contrapposizione tra
due o più parti e non mirano ad accertare un diritto, un obbligo o uno status. Ad esempio, quelli che mirano
al rilascio di autorizzazioni al compimento di atti negoziali ai legali rappresentanti dei minori e incapaci o di
nomina del tutore del minore. Hanno ad oggetto principalmente la materia familiare e la tutela degli
interessi degli incapaci. In passato era nata una questione circa la natura della giurisdizione volontaria: ci si
chiese se effettivamente avesse natura giurisdizionale, o se non invece addirittura amministrativa o fosse
un terzo genere. L’opinione prevalente comunque sostiene che abbia natura giurisdizionale, per il semplice
fatto formale che sia esercitata da un organo giurisdizionale. Talvolta il rito camerale viene adottato in
materia contenziosa.

Ex art 737 i provvedimenti che devono essere pronunciati in camera di consiglio si propongono con ricorso,
al giudice competente e la forma è quella del decreto motivato. È legittimato a proporlo chiunque abbia
interesse, non occorre necessariamente un difensore, è una mera facoltà; la legge sui notai consente
espressamente alcune facoltà ai notai direttamente. La competenza per territorio ha valore assoluto e
inderogabile, ex art 28cpc. Il giudice può fissare un’udienza in camera di consiglio per l’audizione degli
interessati e acquisire da loro informazioni, ma ciò non è strettamente necessario. Il giudice può acquisire
informazioni ma non c’è una vera e proprio istruzione probatoria. Il giudice provvede sul ricorso con
decreto. Non è previsto il regolamento di competenza, salvo quello d’ufficio, ma essendoci il reclamo se il
giudice di questo riconosce l’incompetenza del giudice di primo grado e la dichiara con decreto in camera di
consiglio, questo provvedimento (quello relativo al reclamo) ha natura sostanziale di sentenza sulla
competenza ed è impugnabile con regolamento di competenza. È inoltre inammissibile l’intervento di terzi,
ma il giudice può chiedere informazioni a chi è interessato. Non vi è il regime di condanna alle spese
mancando il contenzioso, ma è ammessa la responsabilità aggravata, si ritiene, però, che il fondamento di
questa regola non sia tanto nell’art 96cpc, bensì nell’art 2043cc. L’unica impugnazione ammessa nei
confronti del decreto camerale è rappresentata dal reclamo, che può essere proposto entro dieci giorni
dalla comunicazione del decreto, o dalla notificazione se emesso nei confronti di più parti. La decisione sul
reclamo è pronunciata anch’essa con decreto e non è soggetta ad altra impugnazione. Questi decreti non
sono assimilabili ad una sentenza neanche dal punto di vista sostanziale, quindi non sono solitamente
soggetti a ricorso straordinario in cassazione ex art 111 Cost. I decreti camerali divengono efficaci solo dopo
il decorso del termine per la proposizione del reclamo. I decreti camerali sono modificabili e revocabili in
ogni tempo: non sono idonei ad acquistare la autorità di cosa giudicata. Se questi procedimenti si chiudono
con ordinanza, si ritiene abbiano lo stesso carattere del decreto cioè siano revocabili e modificabili. Se
invece si concludono con sentenza, come quelli sullo status, l’opinione prevalente ritiene che non siano né
modificabili né revocabili e che quindi abbiano idoneità di giudicato. Ma lo stesso art 2909cc afferma che in
alcuni casi la sentenza perde efficacia e quindi il giudicato non sia opponibile (es morte presunta per
persona che poi rispunta). Ovviamente però vi è giudicato pieno se si tratta di procedimenti contenziosi
trattati con forme camerali.

Art 378cpc: il presidente nomina un relatore tra i componenti del collegio, che riferisce in camera di
consiglio. Se dev’essere sentito il pm gli atti gli sono comunicati previamente. Il presidente può assumere
informazioni.

La legge non specifica i presupposti per la revoca e la modifica ma si ritiene che possano avvenire in
seguito ad una nuova valutazione degli interessi tutelati dal provvedimento, con la precisazione che la
successiva revoca o modifica non può invalidare i diritti acquistati da terzi in buona fede.

Art 379cpc: contro i decreti del giudice tutelare si può proporre reclamo; da fare con ricorso al tribunale
che pronuncia in camera di consiglio. Se invece il decreto è stato pronunciato dal tribunale in primo grado
in camera di consiglio, il reclamo si propone alla corte d’appello, che pronuncia anch’essa in camera di
consiglio. Il reclamo dev’essere proposto nel termine perentorio di 10gg dalla comunicazione, nel caso di
provvedimento richiesto da una sola parte; se invece è dato in confronto di più parti il termine decorre
dalla notificazione.

Art 740cpc: anche il pm può proporre reclamo, entro 10gg dalla comunicazione.

Art 741cpc: il reclamo ha una funzione particolare, perché i decreti acquistano efficacia se sono decorsi i
termini di cui agli artt. precedenti senza reclamo, salvo che il giudice disponga l’efficacia immediata del
decreto. Quindi tecnicamente il decreto produce effetto se nel termine di 10gg non è proposto reclamo.

Art 742cpc: i decreti possono essere in ogni tempo modificati o revocati, ma restano salvi i diritti acquistati
in buona fede dai terzi, in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca.

Antica questione è quella relativa ai rapporti tra revoca e reclamo: una prima tesi sostiene che la
modifica/revoca può essere chiesta solo se si chiede un nuovo esame del merito per una diversa
valutazione dei presupposti di fatto, oppure per la prospettazione di fatti nuovi o preesistenti che si
ignoravano. Questa norma che riguarda la prospettazione di fatti nuovi si basa sulla necessità di
coordinazione con il reclamo, che altrimenti sarebbe inutile. Contro questa tesi però si dice che non si tratti
di un limite previsto dalla legge; infatti il reclamo incide sul perfezionamento dell’atto, mentre la revoca
incide su un provvedimento che già produceva efficacia.
Altro dubbio che ci si pone è se la revoca/modifica possa esercitarsi in pendenza di reclamo. La risposta è sì
perché questi due operano su piani diversi.

La regola generale è che la buona fede dei terzi sia presunta. Secondo un orientamento è presunta per
presunzione generale; mentre secondo altri, come Monteleone, la presunzione si ricava dall’onere di
allegare fatti a fondamento della domanda, in capo al soggetto che intende far valere come avvenuta la
revoca del provvedimento contro il terzo.

Tuttavia, il rito camerale trova talvolta applicazione in procedimenti di natura contenziosa, per esempio la
materia relativa alla separazione dei coniugi e degli assegni di mantenimento. È un procedimento snello e
celere ma mal si concilia con la necessità di un procedimento del genere per la mancanza di una vera e
propria istruzione, per la non ricorribilità in cassazione del decreto soprattutto. Per questo motivo la Corte
costituzionale con diverse pronunce ha stabilito che se il rito camerale è adottato per procedimenti di
giurisdizione contenziosa deve essere integrato dai principi generali che regolano il processo ordinario di
cognizione, per cui:

- Trova applicazione il principio della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato


- Se le parti lo richiedono il giudice deve procedere all’assunzione dei mezzi di prova
- Il decreto che decide sul reclamo andrà considerato come sostanzialmente decisionale ed è
quindi ricorribile in cassazione ex art 111 Cost.

I provvedimenti che chiudono il rito camerale non hanno efficacia esecutiva perché si tratta di giurisdizione
volontaria: non c’è esecuzione forzata. Se si tratta di un procedimento contenzioso con forme camerali
allora potrà esserci. Può essere fatto calere in giudizio autonomo di cognizione la nullità dell’atto negoziale
autorizzato (azione di nullità ammessa).

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